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Leggere il teatro (Molinari- Ottolenghi), Sintesi del corso di Storia Del Cinema

“Leggere il teatro”, di C. Molinari & V. Ottolenghi.

Tipologia: Sintesi del corso

2013/2014
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Caricato il 13/10/2014

rosariad123
rosariad123 🇮🇹

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Scarica Leggere il teatro (Molinari- Ottolenghi) e più Sintesi del corso in PDF di Storia Del Cinema solo su Docsity! Storia del teatro e dello spettacolo. Prof. Gioviale. Anno Accademico “Leggere il teatro”, di C. Molinari & V. Ottolenghi. PRIMA PARTE: La considerazione genetica La considerazione di uno spettacolo dal punto di vista genetico equivale ad analizzare il fenomeno teatrale nei suoi caratteri intrinseci, nelle modalità della sua nascita e della sua formazione. TESTO E MESSA IN SCENA Il testo L’azione drammatica è in sé una situazione assoluta, conclusa in se stessa e analizzabile al di là di ogni pre scrittura. Tuttavia possiamo classificare il prodotto teatrale sulla base di diversi criteri. Di tutte noi ci occuperemo solo di quelli che si basano sugli apporti letterari, testuali e modellistici. Non sono gli unici criteri, anche se possono sembrare quelli strettamente necessari: è pregiudizio diffuso, infatti, che la genesi di un evento teatrale debba trovare il suo punto di partenza in un testo o in un modello letterario. Non è affatto così, poiché da una parte uno spettacolo teatrale può nascere senza la necessità di svilupparsi da un testo letterario, dall’altra può svilupparsi da un testo non letterario (uno spettacolo di balletto, ad esempio, nasce da un testo musicale, e può o non può avere un testo letterario come secondo gradino). Il teatro che si sviluppa a partire da un testo letterario è un tipo particolare di teatro, quello comunemente definito drammatico, o melodrammatico, quando il secondo gradino dello spettacolo è costituito da una messa in musica del testo. Nel teatro drammatico un testo letterario o musicale, che possiedono una loro autonomia, vengono assunti come punto di partenza per un progetto di realizzazione teatrale. Sulla base del livello di complessità e di compiutezza del testo (letterario nel nostro caso) possiamo classificare uno spettacolo teatrale a seconda dell’apporto che il testo letterario ha dato allo spettacolo. Classe 1 = apporto rilevante) il testo è un’opera letteraria compiuta e di per sé autonoma (perché non presuppone una realizzazione scenica). Di solito questo tipo di testo ha carattere dialogico e consta di battute e didascalie. Il rapporto tra battute e didascalie è variabile. 1 Parlando di didascalie, non possono mai mancare. Il loro grado zero è costituito da un segno grafico che indica l’apertura del discorso; poi si passa al nome dei personaggi e infine all’accurata descrizione del loro aspetto. Parlando di battute, esse possono anche essere assenti. Veleno di Vitrac, ad esempio, ha solo didascalie, e così anche gli Actes sans paroles di Beckett. Classe 2 = apporto parziale) il testo è un canovaccio o uno scenario trama. In questo caso abbiamo solo l’intreccio e/o i personaggi e/o le situazioni in cui si trovano questi. Un esempio tipico del genere è quello della commedia dell’arte. Va comunque notato che gli attori, pur non avendo battute nel testo, disponevano di zibaldoni ricchi di repertori a cui ispirarsi. Classe 3= apporto quasi inesistente) si parla di animazione. In questo caso il testo (tra l’altro quasi mai scritto) si limita ad alcuni elementi minimi che possono riguardare il tema, il carattere dei personaggi, l’ambientazione o altro. In questa classe rientrano anche l’elaborazione collettiva su un tema e gli happenings. L’happening (=accadimento) è quella forma di teatro in cui manca una struttura rappresentativa che comporti una storia e dei personaggi: gli attori agiscono interpretando se stessi, compiendo azioni spesso minuziosamente previste. Negli happenings mancano quasi sempre le battute e i dialoghi. Il concetto di interpretazione Dato un testo dialogico compiuto,l’interpretazione è il rapporto tra questo e lo spettacolo teatrale. Emilio Betti distingue tre tipi di interpretazione: rappresentativa (adeguata a testi drammatici e musicali), ricognitiva (adeguata a testi storici e letterari) e normativa (adeguata a testi giuridici e normativi). Come dice il termine, l’interpretazione rappresentativa è quella che meglio si accorda con la rappresentazione. La rappresentazione, a sua volta, com’è chiaro soprattutto con un testo musicale, tende ad essere esecuzione. Se la rappresentazione è esecuzione, è chiaro che il testo è una notazione, considerata nella sua interezza, senza cioè distinzione fra battute e didascalie. Questa metafora dell’esecuzione e della notazione ha generato spesso equivoci quali l’incompletezza del testo drammatico senza la messa in scena, e la compiutezza del testo al di là della realizzazione. La notazione, per definizione, non è completa, ma per l’esecutore, date certe condizioni di conoscenza, è sufficiente. Quando l’esecutore ha ben chiare queste condizioni, la notazione è più sommaria. Quando invece il linguaggio teatrale va ancora costituendosi, e gli autori sono incerti sull’esecuzione, il testo diventa più completo, e aumenta soprattutto lo spazio dedicato alle indicazioni didascaliche. Ruffini ha semplificato questo problema distinguendo tra “messa in scena” e “collocazione in 2 nessun particolare lavorio scenografico, finisce per assumere le forme del castello di Elsinore. 2) Non è vero che nel teatro tutto assume una dimensione iconica. Segni e cose possono coesistere in modo distinto e vengono riconosciuti come tali. L’attore brechtiano, ad esempio, convive con il personaggio eppure si distingue da lui; il presentatore di uno spettacolo recita un testo, come gli attori, ma si presenta come se stesso. In questi casi gli elementi di uno spettacolo assumono un doppio statuto, e la loro duplicità viene utilizzata a scopi di significazione. Un attore che durante la rappresentazione si trucca, ostentando la sua trasformazione in simbolo ma rimanendo noto come attore, ad esempio. Questo accadeva nella rappresentazione della Principessa Turandot di Gozzi, nella versione di Vachtangov, dove gli attori, vestiti in frac, entravano in scena vestendosi di stracci e pezzi di stoffa vari. Oppure un oggetto usato come simbolo che torna a svolgere la propria funzione: una scopa che funge da scettro e torna scopa. 3) Ciascun attore agisce come se stesso e non ci sono elementi che riguardano altro da sé. È il caso dell’happening e del teatro di varietà. Ci sono sempre funzioni simboliche (ad esempio la funzione della luce) ma non investono le figure della rappresentazione. 4) Nello spettacolo non entrano figure riconoscibili secondo un criterio gestaltico (relativo dunque alla percezione e alla sensazione di oggetti definibili nella loro funzione). In questi casi salta il momento della figurazione e si passa direttamente a rappresentazioni che chiamano in causa rapporti più elementari (luce, colore, materia). Ci troviamo nel campo dell’arte astratta. Possiamo dunque distinguere vari modi di porsi. Dall’esposizione totale di se stessi (la confessione pubblica), alla presentazione del proprio ruolo sociale o lavorativo (il pugile, la ballerina), alla rappresentazione di altro da se stessi (la maschera, il personaggio). Una distinzione del genere l’aveva già intuita Rousseau, che se da una parte tendeva a tenere distinti teatro e presenza assoluta nella festa o nella vita politica, dall’altra aveva intuito che rappresentazione e non rappresentazione sono i due poli di uno stesso fenomeno. Un oratore mostra se stesso, e quindi lo interpreta, un attore mette in scena sentimenti diversi dai propri, rappresentando un essere non reale che finisce per annientarsi. La rappresentazione più riuscita è quella che conduce all’illusione perfetta, quella che paradossalmente annulla nello spettatore la cognizione di trovarsi davanti ad una scena, convincendolo della realtà di ciò che sta vedendo. 5 LE FUNZIONI Una rappresentazione scenica prevede la presenza di una serie di operatori, con compiti differenti. È possibile che più compiti siano assolti da una sola persona, o che un solo compito sia svolto da più persone, ma le singole funzioni possono essere analizzate singolarmente. Può accadere che alcune funzioni rimangano irrisolte nella fase progettuale (ad esempio la funzione registica nelle feste popolari), o che siano appositamente mancanti (la non scenografia e la non costumistica in “Mistero Buffo” di Dario Fo) per svariate esigenze. Qui si terrà conto esclusivamente della considerazione astratta delle funzioni che partecipano alla creazione dello spettacolo. I rapporti tra le funzioni sono stati sistemati da molti critici e studiosi; qui ci limiteremo a enucleare quella di U. Eco e di J. Lotman, quest’ultima, non costruita appositamente per il teatro. Eco propone il seguente schema: Autore = I emittente -> Regista = I ricevente e II emittente -> Attore (+ tutti gli altri operatori) = II ricevente e III emittente -> Spettatore = III ricevente Lo schema di Eco è però uno dei tanti possibili, certamente il più storicamente consolidato ma non l’unico. Non è detto infatti che non si possa partire dalla figura di un attore, o da un brano musicale, o da una ambientazione. Non è detto, ancora, che un attore non possa essere il ricevente diretto di un testo di un autore. In realtà, come dice Taviani, i rapporti tra funzioni sono spesso inestricabili e complesse, difficilmente ordinabili in maniera lineare. Un modello più adeguato è forse quello di Lotman. Lotman distingue l’autointerpretazione (io – io) dalla trasmissione di informazioni (io – egli). Il rapporto io – io è quello che troviamo nella fase di elaborazione dello spettacolo, quello di autoarricchimento interno in rapporto a tutte le relazioni; il modello io – egli è quello della rappresentazione. È interessante notare come il secondo modello sia poi quello di Eco, dove il ricevente è lo spettatore, l’unico vero ricevente, e l’emittente è il risultato di tutti i contributi operativi. Il testo, l’autore, lo sceneggiatore Trattando l’argomento funzione, il testo, dal punto di vista funzionale, è sempre un progetto da realizzare. Questo progetto può essere o meno vincolante e dettagliato e con esso si possono instaurare diversi rapporti. 6 L’autore in quest’ottica è colui la cui opera viene assunta come progetto di spettacolo. Non solo il drammaturgo, ma anche colui la cui opera è stata presa come progetto di realizzazione teatrale, al di là del fatto che sia stata scritta per quella determinata realizzazione. Lo sceneggiatore è una sorta di secondo (o terzo) autore, colui che rielabora o adatta il testo primitivo in funzione scenica. In mancanza di un progetto (come accade, ad esempio, nelle feste popolari o nello psicodramma) la funzione dell’autore non sussiste e non è definibile. Il regista Il regista è l’autore di un progetto secondo, nel quale si instaura un particolare progetto ai fini della rappresentazione. Se il testo è assente, o ridotto al mero spunto tematico, il regista assomma le due funzioni e diventa chi definisce il progetto di spettacolo. In una rappresentazione il regista può mancare. Così avviene ad esempio nei riti collettivi (dove, se vogliamo, la regia è interna a ciascun partecipante) o nell’improvvisazione a tema o su un semplice pretesto. La regia può anche essere demandata ad altri operatori, che realizzando una rielaborazione del testo di comune accordo (la cosiddetta regia di gruppo), o procedono ad una propria rielaborazione del testo. In Brecht, ad esempio, sono frequentissime sia le progettazioni comuni, sia lo straniamento reciproco degli elementi, dove cioè ciascuno mantiene un proprio rapporto critico col testo. La regia può anche ridursi a semplice lavoro di orchestrazione, o ancora di semplice assemblaggio. Il teatro di regia è invece quel teatro in cui il regista tende ad assumere in sé tutte le funzioni, diventando l’unico autore dello spettacolo (come auspicava Mejerchold), spesso seguendo un rigido progetto. Può realizzare direttamente le funzioni, o demandare altri, per poi correggerli a suo piacimento. Un grande sostenitore del teatro di regia fu E.G. Craig che con la sua teoria della supermarionetta considerava lo stesso attore come un semplice elemento ciecamente obbediente alla volontà del regista. La teoria della supermarionetta nasceva dall’idea di Craig che l’attore non rinuncia mai completamente, anche solo inconsciamente, alla propria visione del progetto, ed entra in conflitto con quello del regista. Il rapporto tra regista e attore è sicuramente quello più complesso. Oltre alla variante Craig, infatti, ci sono numerosi punti intermedi, spesso complessi e ambigui. 7 IL RAPPORTO SPAZIALE Schechner, ne La cavità teatrale, elenca i rapporti primari (attori – attori, spettatori – spettatori, attori – spettatori) e i rapporti secondari (tra gli elementi della rappresentazione; tra gli elementi della rappresentazione e gli attori; tra gli elementi della rappresentazione e il pubblico) dell’azione teatrale, per poi dedicarsi all’approfondimento di uno dei rapporti secondari, vale a dire quello tra la rappresentazione nel suo insieme e lo spazio in cui quest’ultima si svolge (un rapporto che, considerato dal punto di vista della collocazione spaziale, comprende anche il rapporto primario attore – spettatore). Come si articola lo spazio teatrale, diviso tra attori e spettatori? Ci sono vari modi in cui può articolarsi. a) Il modo più tradizionale è quello in cui parte dello spazio è dedicata alla rappresentazione e parte è dedicata al pubblico. Una situazione del genere è quella del classico teatro a cornice, quello in cui lo spazio tra spettatori e attori è nettamente diviso, da un arcoscenico o da un palcoscenico alto. b) La situazione “tutto pubblico”. È la situazione in cui è il pubblico a delimitare lo spazio, aprendolo o chiudendolo. Di solito è il caso degli assembramenti intorno all’azione spettacolare, in cui viene lasciato alla rappresentazione uno spazio di forma e dimensione casuale. Per fare esempi classici, gli spettacoli di strada e molte feste popolari. c) La situazione “tutto spettacolo”. È la situazione in cui è l’azione teatrale a determinare lo spazio degli spettatori. L’Orlando Furioso di Ronconi, ad esempio, prevede una scenografia che tagli la folla, che è così costretta a cambiare la propria disposizione pur rimanendo semplice spettatrice. Nelle sacre rappresentazioni medievali, la versione tutto spettacolo non era infrequente, ed era spesso difficile, se non impossibile, distinguere chi recitava da chi guardava. Oltre alle tre opzioni descritte, ci sono varie situazioni intermedie, determinate, alcune a livello più propriamente scenico, altre a livello culturale. Nelle seconde distinguiamo a) L’assenza di elementi che segnalino una divisione tra pubblico e attori, non impedisce agli spettatori di tenersi comunque a distanza dagli attori b) Elementi che segnalano la possibilità di violare il limite (come la scala della scena cinquecentesca) c) Limite violato di fatto nonostante una marcata divisione tra attori e spettatori. Ad esempio l’attore che salta giù dal palcoscenico. 10 Ci sono casi poi in cui è difficile anche capire la direzione dello spettacolo (se tutto pubblico, tutto spettacolo, o vie di mezzo). Se per esempio prendiamo una nostra festa popolare, è oggettivamente difficile capire se sia il pubblico a lasciare spazio all’azione, o l’azione a delimitare gli spazi del pubblico. Nelle classificazioni di Schechner troviamo anche quelle tra spazio trovato, cercato e adattato. a) Spazio trovato. Lo spazio viene accettato con tutti i suoi elementi, senza introdurne di nuovi e senza compiere interventi che evidenzino l’ordine casuale dello spazio. In questo caso l’attenzione è tutta concentrata sull’azione e per niente sullo spazio. b) Spazio cercato. Si individua un luogo dove allestire lo spettacolo, in funzione dell’idea o del progetto che si ha dello spettacolo stesso. la ricerca può essere di varia entità: al limite minimo ci si basa sulle dimensioni dello spazio, al limite massimo ci si basa sulla presenza di elementi figurali che abbiano una ricca carica connotativa. Nel caso dello spazio cercato si tende ad evidenziare gli elementi più caratteristici dello spazio, o concentrando l’azione negli spazi più marcati o tramite strumentazioni tecniche (l’illuminazione ad esempio). c) Adattamento. Adattato può essere lo spettacolo o lo spazio. Nel primo caso lo si fa per adattare lo spettacolo alla sede scelta per la rappresentazione; nel secondo si adegua lo spazio conformemente all’azione da rappresentare. d) Spazio preparato. È il caso estremo dell’allestimento di uno spazio in funzione di un unico spettacolo, pur nelle varie gradazioni. Schechner parla anche di punti focali. a) Punto focale unico. Un solo spettatore ha la visione corretta dello spettacolo. L’esempio più chiaro è quello degli spettacolo rinascimentali a scenografia prospettica: il punto di vista a partire dal quale si costruisce il quadro scenografico è collocato nel punto della sala dove prende posto lo spettatore ideale, vale e dire il principe. b) Punto focale molteplice. Lo spettatore ha sempre una visione globale dell’azione, qualsiasi sia la sua angolazione. Il classico anfiteatro greco e romano è l’esempio più famoso. c) Punti focali diversi. Si hanno quando ci sono più azioni che si svolgono contemporaneamente. Lo spettatore può seguire solo una parte dello spettacolo, ma di solito può muoversi e cambiare punto di vista. Accade ad esempio nell’Orlando Furioso di Ronconi, che vuole rappresentare il mondo nella sua situazione di fatto, quindi ognuno vede solo ciò che incontra, come accade nella realtà. 11 Passiamo infine alla nozione di coinvolgimento. Il termine è relativamente recente, dato che fu usato per la prima volta da Artaud nel suo Primo manifesto del teatro della crudeltà, che intendeva infrangere la struttura del teatro tradizionale (palcoscenico e platea, attori e spettatori divisi) e la posizione passiva dello spettatore, teoretica e giudicante. In realtà tentativi di coinvolgimento spaziale c’erano già stati (vedi i misteri medievali) e anche quelli fisici non erano mancati (vedi Marinetti e i suoi esperimenti con la colla sulle sedie o sulla vendita dello stesso biglietto a dieci persone). Possiamo fissare due poli opposti: gli spettacoli dove il pubblico è diviso dalla scena dall’immaginaria quarta parete, e gli spettacoli dove il coinvolgimento spaziale, fisico e psicologico sconfina fino agli spettatori. Nel primo caso l’azione scenica è concepita dallo spettatore come una sorta di micromondo esterno al proprio, una tranche de vie, un momento della vita dei personaggi che lo spettatore osserva senza essere visto cose che non lo riguardano. Nel secondo caso si annulla l’idea stessa di coinvolgimento, mancando la distinzione tra rappresentazione, agente attivo del coinvolgimento, e il pubblico). In realtà infatti l’idea di coinvolgimento di Artaud non è la versione estrema di una teoria, ma solo un punto lungo la linea della attività – passività dello spettatore. Ci sono ovviamente anche altri gradi intermedi di coinvolgimento. a) coinvolgimento a scena aperta. Pur senza alcun esplicito indirizzarsi al pubblico, l’attore nell’assumere posizioni e movimenti, tiene conto della sua presenza. b) L’attore si rivolge esplicitamente al pubblico, o instaura con lui, in momenti “a parte” o con allusioni, un rapporto di complicità mettendolo al corrente di fatti che altri personaggi non sanno. Frequentissimo ad esempio nelle commedie plautine o negli spettacoli per bambini. c) Partecipazione emotiva al rito. Come accade durante i misteri o nelle tragedie greche. d) Al pubblico viene affidato un ruolo non scelto. Nell’Antigone di Living, gli spettatori sono gli abitanti di Argo e per questo vengono aggrediti. Quando poi si svolgono più azioni in più punti e i rapporti tra spettatori e attori hanno luogo a distanza intima, ci sono tante modalità di coinvolgimento quante sono le possibilità di relazioni umane. Schechner racconta che durante la realizzazione di Victimes du devoir gli spettatori erano costretti a inghiottire del pane, mentre uno degli attori baciava una ragazza del pubblico. 12 Definiamo adesso altri tipi di scenografia 1) scenografia METAFORICA: è una scenografia in cui gli oggetti e gli elementi in genere vengono utilizzati per una funzione diversa dalla propria. Esistono scenografie metaforiche astratte e concrete, questo perché il discorso metaforico si basa solo sulla determinazione di tratti comuni ai due termini, a quello reale e quello traslato. Il letto che diventa una barca, ad esempio, è una scenografia metaforica concreta: il letto e la barca hanno tratti comuni, vale a dire la forma orizzontale e la capacità di sostenere delle persone. In un bozzetto di Appia per il Parsifal di Wagner troviamo dei parallelepipedi (figura astratta) che significano alberi ma anche cattedrale: la verticalità accomuna infatti tutti gli oggetti. 2) Scenografia SIMBOLICA: se il simbolo è un segno capace di richiamare un’idea o un valore universale, una scenografia simbolica è una scenografia in cui gli oggetti rappresentano idee e valori. In Giulietta e Romeo di Carmelo Bene c’era una enorme coppa rosata, simbolo della dolcezza della vita e della giovinezza. La coppa però, tornando al caso 1, aveva anche funzione di balcone di Giulietta. 3) Scenografia METONIMICA: sulla scorta della definizione di Jakobson, definiamo metonimica quella scenografia in cui un solo elemento scenografico possiede il ruolo di indicare un ambiente. Il discorso metonimico si svolge in praesentia. Una finestra a sesto acuto può ad esempio trasformare un ambiente neutro in una cattedrale gotica. Le scenografie possono combinarsi tra loro, e così ad esempio la scena astratta e metaforica di un ambiente può essere rinforzata da un elemento metonimico. Se poi volessimo compiere una classificazione della scenografia sulla base della sua struttura materiale, distinguiamo due tipi di scenografia: a) PITTORICA: è la classica scenografia a due dimensioni, non accessoriata. Possiamo a sua volta suddividerla in tre gradi:  MASSIMA: ha un fondale chiuso e realistico, dipinto in termini non illusionistici. Ad esempio il fondo della scena del teatro Noh.  MEDIA: la scena a quinte, tipica del teatro italiano dal ‘600 all’800. le quinte pur delimitando tridimensionalmente lo spazio non venivano usate per quello che rappresentavano ma per quello che erano. Una porta dipinta, ad esempio, non si poteva aprire, ma ci si poteva nascondere dietro. 15  MINIMA: la scena illusionistica parapettata, nella quale cioè i diversi elementi sono connessi in modo da costituire un ambiente chiuso, parzialmente o totalmente. b) costruttiva: è la scenografia tridimensionale, usata nell’azione per ciò che rappresenta. Se la scenografia dipinta non è mai, per definizione, una scenografia accessoriata, la scenografia costruttiva può essere costituita solo da accessori. Ad esempio, trattandosi di un interno, verranno eliminati gli elementi murari e lasciati solo quelli mobili, gli oggetti d’arredamento. Brecht usava spesso questo tipo di scenografia. Ma ci sono anche scenografie costruttive di tipo metaforico: ad esempio il lenzuolo azzurro che simula un fiume, come accade nell’Opera di Pechino. Distinguiamo ancora tra scenografia mobile e scenografia fissa. Sorvolando sulla superflua definizione della prima, intendiamo la seconda come una scenografia mossa tramite macchinari o tramite gli attori stessi. Se sono gli attori a muoverla, ha funzione straniante, perché sottolinea la finzione dello spazio scenico. Classifichiamo infine i mutamenti di scena, che possono essere di tre tipi: a) scena successiva: ogni scena ha una sua scenografia, cambiata o a vista o a sipario calato. b) Scena multipla: tutti gli ambienti sono presenti sin dall’inizio, contemporaneamente, sulla scena. Così ad esempio nelle sacre rappresentazioni medievali. c) Scena fissa: la struttura non cambia ma l’azione dichiara che essa rappresenta man mano un luogo diverso. Tipici esempi sono il teatro elisabettiano e quello greco romano, anche se quest’ultimo, di solito, esclude a priori mutamenti di luogo. L’ILLUMINAZIONE La luce è una parte importante degli spettacoli teatrali, già molto prima delle innovazioni tecniche portate dal gas e poi dall’elettricità. Il primo scopo della luce è quello di far vedere. Non sempre infatti la luce è rivestita di compiti significatori. L’uso quindi più consueto della luce è quello “open air”, o quello a luci fisse e della ribalta, che non apporta significati particolari, incamerati dall’azione, dalla pittura scenografica, dalla parola e dagli accessori. Nella cultura realistica occidentale, la luce non serve solo ad illuminare, ma anche a rappresentare le medesime condizioni di luce in cui si ritiene che l’azione si svolga. Rappresentare, non riprodurre. Riprodurre significherebbe regolare non solo 16 l’intensità della luce ma anche lo spettro dei colori, quest’ultimi di solito utilizzati per sottolineature psicologiche. Oltre ai valori morali o drammatici che abbiamo descritto, la luce può rappresentare anche ambienti e oggetti concreti, e può farlo in due modi: a) Direttamente e concretamente: delimitando le aree all’interno delle quali l’attore si muove. Uno spazio illuminato può rappresentare una stanza, la parte buia ciò che sta oltre le pareti; uno spazio illuminato con luci di diverso colore può indicare diverse stanze o degli interni e degli esterni. b) Indirettamente: in modo da far comprendere il genere di ambiente in cui ci si trova, senza che la luce lo rappresenti concretamente. Un unico raggio di luce che scende dall’alto, ad esempio, può dare l’illusione di trovarsi dentro una prigione. Si può anche usare per rappresentare oggetti e personaggi. In Beckett la luce è personaggio, e per Neruda il protagonista di Fulgor y muerte di Joaquìn Murieta deve essere rappresentato da un raggio di luce e da una voce. Altra funzione della luce è quella che possiamo definire grammaticale e sintattica. Il buio all’improvviso, o in dissolvenza, può significare la fine di tutto o di una parte dello spettacolo; un rapido cambiamento di luce (nel colore, nell’intensità, nella posizione) può significare cambiamento di tempo e di luogo. La luce, sempre in funzione grammaticale e sintattica, può enfatizzare un oggetto o un personaggio, illuminandolo a uomo. E diverso significato può avere a seconda del colore e dell’intensità. Vedi ad esempio la messa in scena di Les Bonnes di Genet nella regia di Victor Garcìa. Il rapido alternarsi di buio e luce, tramite lanterna magica, fa sempre parte di questo genere di funzione. Se parliamo della luce dal punto di vista delle modalità dell’attuazione, possiamo valutarne altri aspetti: a) Intensità: va valutata secondo la percezione che ne ha lo spettatore. Nel teatro non rappresentazione l’intensità della luce ha sempre grande importanza. Sottolinea, ad esempio nelle feste di corte, la potenza e la magnificenza. b) Qualità: oltre ai colori, distinguiamo luce calda e luce fredda. La prima serve a dare rilievo agli oggetti e a creare atmosfere; la seconda a rendere i contorni netti e precisi. c) Continuità: normalmente la scena viene illuminata da fonti discontinue, cioè da riflettori o gruppi di riflettori collocati in zone diverse del palco. Il risultato però è spesso di continuità. Questo perché, fermo restando che rimangono zone d’ombra o variazioni di intensità, le variazioni sono graduali e sfumate. Una 17 e) IL GESTO A differenza della scenografia, dell’illuminazione e del costume, il gesto non ha una sua specifica dimensione teatrale. Non si può cioè parlare di una condizione del gesto che abbia specificamente caratteristiche teatrali, benché il gesto sia stato sempre considerato l’elemento fondante del teatro. L’unica peculiarità che possiamo attribuire al gesto in una dimensione teatrale è il suo rifiutare i limiti che la cultura solitamente gli impone. Cosa intendiamo per codice gestuale? Intendiamo l’insieme dei movimenti interni all’attore che non abbiano carattere traslativo (e cioè che non comportino lo spostamento dell’attore da un posto ad un altro), e che non riguardino i movimenti del viso, che pur non essendo traslativi, vengono classificati a parte e definiti mimici. Gli studi sulla gestualità sono abbastanza recenti, anche se nell’antichità esisteva già la chironomia, cioè lo studio del movimento di braccia e mani. Gli avanguardisti polemizzarono con questa “dittatura” chirologica e cercarono di coinvolgere tutti gli arti del corpo. Noi non ci dedicheremo ad elencare tutti gli studi del campo, ma ci limiteremo a classificare il codice gestuale all’interno di due grandi gruppi, funzionalmente al nostro studio. 1) Gesto pragmatico e gestualità pratica: un gesto che tende a modificare una situazione ambientale o a rispondere operativamente ad uno stato di necessità. È quindi un gesto non intenzionato alla comunicazione ma tale da comunicare il significato della propria funzione. È sempre un gesto tecnico, frutto di un apprendimento, e quindi varia da cultura a cultura; uno spettacolo teatrale che intende rappresentare un particolare ambiente culturale deve tenere conto della peculiarità gestuale di quel paese. Nel teatro non rappresentazione, il gesto pragmatico vale prima di tutto per i risultati che ottiene. Lo spettatore qualificato sa come deve avvenire un gesto e basa il suo giudizio sui risultati. Prendiamo il caso dell’acrobata del circo. Nel teatro rappresentazione, il gesto pragmatico vale solo per la sua capacità di rappresentare quell’humus culturale, e non contano i risultati pratici. 20 2) Gesto mitico e gestualità mitica: è un gesto intenzionato o percepito prettamente come intenzionalmente comunicativo. Si distingue in base al tipo di informazione. A) Gesti che sottolineano o enfatizzano il discorso verbale (paralleli), che tracciano le linee dello schema di pensiero (ideografici), che scandiscono ritmicamente il discorso (a bacchetta). In effetti questi gesti possono anche non possedere una vera intenzione comunicativa, ma essere semplicemente di aiuto nella ricerca dell’espressione verbale adatta. In questo caso sono gesti espressivi. Quelli a bacchetta sono quelli più comuni. B) Gesti oggettivi e autosemantici, che forniscono informazioni sul referente oggettuale senza l’ausilio delle parole. Li distinguiamo in: b .1) deittici: indicano l’oggetto in questione. b .2) iconografici: quando descrivono la forma dell’oggetto. b .3) cinetografici: quando rappresenta lo sviluppo di un’azione. C) Gesti simbolici: sono i gesti che rappresentano un oggetto reale o logico mediante convenzione. Molto spesso indicano stati d’animo. Essendo gesti convenzionali, sono differenti nelle varie culture. Si è spesso tentato, nel teatro, di proporre una serie di gesti simbolici che non avessero riferimenti a specifiche culture, ad esempio molti gesti del teatro Noh giapponese. Possiamo distinguere i codici gestuali anche in base alla rivelazione dello stato d’animo del soggetto o del suo atteggiamento. Distinguiamo allora tra: A) Indizi (o gesti sintomatici): sono quei gesti che rivelano degli stati d’animo al di là dell’intenzione (il rossore ad esempio). B) Segni – indizi (o falso indice): sono quei gesti che rivelano degli stati d’animo che all’osservatore sembrano indiziari ma che in realtà sono consciamente prodotti. C) Espressivi: riproducono il gesto indiziario senza esprimere lo stato d’animo. Ad esempio si allargano le braccia per dire “mi arrendo” ma ciò non implica che il soggetto abbia realmente gettato la spugna. 21 Abbiamo poi i gesti astratti, che tendono a dare prevalenza ai valori connotati rispetto a quelli referenziali, che tendono cioè a dare più rilievo alla forma che al significato (si è spesso parlato di vuoto semantico). Vedi ad esempio il balletto. Quali sono i parametri formali coi quali si può classificare un gesto? A) Raggio: se cioè il gesto è ampio o breve, se è eseguito col solo avambraccio o con tutto il braccio. B) Forma: se i gesti sono sinuosi, ellittici, rettilinei, curvilinei. C) Piano: il piano cioè su cui si sviluppa la gestualità, se orizzontale, verticale o obliquo. D) Per le parti del corpo che coinvolge e a seconda che sia simmetrico, asimmetrico, unilaterale, bilaterale. E) Tempo e ritmo: regolare o irregolare, lento o veloce. Particolari gesti sono: A) Le posizioni: i fondamentali e funzionali assetti della figura (in piedi, seduto, disteso, inginocchiato ecc…) B) Gli atteggiamenti: i toni in cui queste posizioni vengono realizzate (rilassato, attento, nervoso, distratto). Un atteggiamento può trasformarsi in posa, che è un particolare atteggiamento che si distingue per la fissità artificiosa e la forte intenzione significante ad essa associata. Se in uno spettacolo prevalgono gli atteggiamenti, esso manifesta tendenze realistiche; se prevalgono le pose, denota ricercatezza stilistica e artificiosità. LA MIMICA La mimica è l’insieme dei movimenti del viso. La cultura occidentale li ritiene i più espressivi e i primi rivelatori delle sensazioni e dei sentimenti del soggetto. Rosa distingue, dal punto di vista della forma dell’espressione, otto distinte parti simmetriche del viso, disposte a quattro a quattro, e determina che il grado zero sia il parallelismo delle linee rispetto alle quattro orizzontali. Questo caso è quello della calma, mentre quelli della deviazione delle linee sono gli altri affetti fondamentali in base ai quali l’autore classifica i gesti del viso: meraviglia, paura, rabbia, ira, dolore, soddisfazione eccetera. In teatro i gesti si possono classificare per forma (o significante) e per significato. 22 confusione e disordine. Un esempio del genere può essere quello dell’”ordinato disordine” del teatro barocco. Sempre in ordine al movimento, possiamo affermare che il parametro formale che fa parte del movimento e che è maggiormente rilevante dal punto di vista formale, è la direzione in rapporto agli oggetti e al pubblico (non in rapporto agli altri attori, cosa di cui parleremo dopo). I parametri di significato che fanno parte del movimento e che sono maggiormente rilevanti sono invece: quelli funzionali (movimento inteso ad uno scopo pratico); quelli espressivi (movimenti intesi ad esplicare uno stato d’animo tramite il movimento); quelli simbolici (movimenti i cui significati sono dettati da convenzioni); quelli puramente formali (movimenti privi di specifico significato). Andiamo alla prossemica. La prossemica è lo studio della distanza tra soggetti di un rapporto sociale. Hall ne ha individuato quattro categorie, divise in due fasi, una di vicinanza e una di lontananza. 1) distanza intima: da 0 a 45 cm. È la distanza dell’amplesso e della lotta. 2) Distanza personale: da 45 a 120 cm. È la distanza del parlare confidenziale. C’è la possibilità di un contatto fisico ma è la parola il principale veicolo comunicativo, anche se la mimica gioca una parte importante. 3) Distanza sociale: da 120 a 360 cm. È la distanza del rapporto mondano, multilaterale e con possibilità di esclusione. 4) Distanza pubblica: da 360 cm in poi. Si alza la voce, i dettagli fisici si perdono, il coinvolgimento scende. È spesso il tipico rapporto uno – molti. Al rapporto vicinanza – lontananza or ora descritto, si aggiunge quello del rapporto con gli elementi scenografici e gli accessori, e quello della posizione reciproca degli attori. Su quest’ultima apriamo un approfondimento. Due o più attori possono instaurare sei tipi diversi di posizioni reciproche e sei significati diversi: 1) fronteggiarsi 2) volgersi le spalle 3) guardare nella stessa direzione 4) guardare in direzioni opposte 5) guardare chi guarda davanti a sé 6) volgere le spalle a chi guarda davanti a sé. 1) interesse 2) disinteresse 3) interesse reale 4) interesse millantato 5) concordanza di attenzione 25 6) discordanza di attenzione Una scenografia complessa contribuisce a complicare la prossemica. La prossemica tra attore e pubblico contempla svariati casi. Noi per semplicità ne tratteremo solo due. 1) Teatro naturalista: la quarta parete è la linea di proscenio. L’attore fronteggia enfaticamente in primo piano il pubblico, o gli volge le spalle. 2) Teatro a scena aperta: l’attore tiene conto del pubblico, e perciò non gli volta mai le spalle. La posizione prediletta è quella a ¾ ; l’attore si rivolge direttamente al pubblico in quanto tale e gli fornisce un ruolo (complice, confidente ,eccetera). LA PAROLA (LINGUISTICA E PARALINGUISTICA) Un fenomeno teatrale dal punto di vista strettamente linguistico coincide con il testo, vale a dire con la scrittura drammaturgica in quanto tale, esente cioè da tutto ciò che riguarda la sua espressione in forma orale. La linguistica studia il testo dal suo lato genetico. In relazione al codice linguistico è sufficiente constatare quanti e quali siano i codici impiegati. Se cioè un determinato testo è scritto ad esempio solo in italiano o anche in norvegese; se tutti i personaggi parlano sempre la stessa lingua e quali effetti scaturiscono dall’omogeneità o dalla disomogeneità della lingua impiegata; se la lingua impiegata è quella che normalmente userebbe il personaggio (Cesare che parla in latino o no, ad esempio); se le parole dei personaggi non sono impiegate in maniera orale bensì scritta (vedi ad esempio i cartelloni di Brecht). Per il resto va analizzato come un qualsiasi testo letterario, facendo attenzione in particolare agli stili del linguaggio, alla forma (se in prosa o in versi), alla correttezza sintattico grammaticale o retorico linguistica, tutti segni, ad esempio, atti ad evidenziare l’appartenenza ad una certa cultura (ad esempio l’uso del passato remoto come passato prossimo è tipico dell’Italia meridionale). L’analisi di un fenomeno teatrale dal punto di vista paralinguistico intende puntare l’attenzione sulla dizione, e cioè sui possibili modi di uso verbale (=vocale) del testo. Abbiamo così 26 1) ALTEZZA. Frequenza della vibrazione. Può essere acuta, media o bassa. L’attore può utilizzare tutta la sua gamma di frequenze e variare, o rimanere su un livello uniforme. 2) INTENSITA’. L’energia impiegata. Può essere forte, media o debole. L’attore può urlare o sussurrare le sue parole, o semplicemente utilizzare una intensità media e chiara. 3) TIMBRO o METALLO: la forma o il carattere qualitativo della voce. Si distingue in voce d’oro (di gola, rotonda, piena e vellutata); voce d’argento (di testa, chiara, argentina); voce di bronzo (di testa, ma scura) e voce velata o smorzata. 4) RITMO e PAUSA: il ritmo può essere lento o veloce, regolare o irregolare, a seconda della situazione che si va rappresentando. È l’aspetto che maggiormente contribuisce a esplicare il significato di un’opera. La pausa può essere maggiore e frequente o minore e meno frequente. Della pausa si fa un uso sia linguistico che paralinguistico, avendo sia valenza semantica sia valenza enfatica. 5) REGISTRO: le modalità di utilizzo delle prime 4 da parte di un attore. Egli infatti può essere vario (più naturale) o uniforme (più artificioso) nell’utilizzarli. La concertazione vocale è invece il rapporto di uniformità o di varietà di espressione tra gli attori. La paralinguistica comprende anche i suoni non articolati ma comunque espressivi (soprattutto dell’impostazione psicologica) riprodotti in maniera naturalistica o stilizzata. Non dimentichiamo infine, sempre per la paralinguistica, l’importanza delle dimensioni del teatro. Gli attori sono costretti ad alzare la voce per la distanza che intercorre tra loro e gli spettatori. LA MUSICA E I RUMORI La musica e i rumori (intenzionali), assieme alla parola, formano la colonna sonora di uno spettacolo teatrale. È complesso distinguere la musica dal rumore; possiamo al massimo isolare la musica tonale (o tradizionale), che è strutturata secondo un insieme di norme che organizzano quell’aspetto del suono, cioè l’altezza, tradizionalmente considerato il più importante. Nel contesto teatrale i rumori sono sempre indici, vale a dire, segni della causa che li ha prodotti. Quando la causa non è visibile, il rumore produce tensione, prima in ordine alla sua identificazione, e poi in ordine all’identificazione della causa che l’ha prodotto. 27
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