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Legislazione dei beni culturali, prof Ferraro e Gambetta, Appunti di Diritto dei beni culturali

Corso di legislazione dei beni culturali 2022/23, con chiarimenti e approfondimenti

Tipologia: Appunti

2022/2023

Caricato il 02/01/2024

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Scarica Legislazione dei beni culturali, prof Ferraro e Gambetta e più Appunti in PDF di Diritto dei beni culturali solo su Docsity! Legislazione dei beni culturali La legislazione è una materia giuridica che si colloca nel diritto amministrativo, quindi negli apparati amministrativi. Prima di iniziare il nostro studio bisogna dunque chiarire alcune nozioni giuridiche preliminari, specie per quanto riguarda appunto il diritto amministrativo. Vedremo cos’è un procedimento amministrativo e le sue fasi: esso è la strumento principale attraverso il quale la tutela si realizza che ha un particolare iter culminante con un atto amministrativo, detto provvedimento. Attraverso queste nozioni si possono avere le basi necessarie per apprendere la legislazione relativa ai beni culturali. Cos’è la norma giuridica Nello studio della norma giuridica, ci sono argomenti che si collocano tra le scienze sociali (come la sociologia ad esempio) che studiano il fenomeno giuridico e la formazione di esso. La scienza giuridica è studiata anche dall’economia: la norma giuridica può essere un elemento importante rispetto alla domanda e offerta del mercato, per questo negli ultimi anni, specie a seguito di studi degli anni 70-80, l’economia ha iniziato a interessarsi del diritto, Noi ci concentreremo sul tema della scienza giuridica che considera anche gli studi non giuridici, ma ci concentreremo soprattutto sulle teorie proposte da studiosi sulla scienza giuridica. Se parliamo di norma giuridica si potrebbe avere la percezione di dare una definizione semplice e immediata: negli studi giuridici abbiamo due diversi approcci legati alla definizione della norma giuridica. Un primo approccio è legata alla filosofia del diritto, che ha spunti a riguardo fin dall’età classica (ad esempio nella tragedia dell’Antigone si dibatteva se si dovesse obbedire al comando del sovrano o al sentimento familiare, che appunto porterà Antigone a seppellire il fratello). La filosofia del diritto si è affermata specie dopo l’affermazione della filosofia del diritto con Hegel, primo divulgatore della locuzione «filosofia del diritto», e si è confrontata con il problema fondamentale relativo al rapporto tra la norma giuridica e la norma non giuridica. Il tema era dunque specie quello della giustizia del diritto. Nel 500, si afferma con gli studi dell’olandese Ugo Grozio (de Grot). Ci sono 2 tesi a riguardo: una prima tesi ci dice che la norma giuridica, per considerarsi valida, corrisponde alla norma etica o morale (prospettiva dello giusnaturalismo, affermatasi con Locke e Grozio, ma presente fin dall’alto Medioevo). Il diritto valido è identificato nelle norme che corrispondono a principi etici e morali da applicarsi nel contesto sociale. Con lo giuspositivismo, espresso soprattutto dal “Leviatano” di Hobbes, la norma giuridica coincide con la regola identificata con la norma posta con l’autorità sovrana che esercita un certo potere in quel contesto. Il giuspositivismo identifica la validità della norma con l’autorità sovrana. Più precisamente, si tratta di una concezione del diritto sviluppatasi nel corso del 19° secolo, che identifica il diritto con il diritto positivo, quello cioè posto da una volontà sovrana espressa nella legge effettivamente applicata nello Stato. Nella filosofia del diritto vediamo questa evoluzione che arriva fino ai tempi moderni. La teoria generale del diritto studia il problema propriamente della definizione della norma giuridica (anche la filosofia del diritto giunge a dare alcuni elementi utili per tale definizione). La teoria generale è una scienza giuridica elaborata verso metà 800 e indaga sul rapporto tra contesto sociale e norma giuridica, focalizzandosi spesso sulla sociologia e sulle particolari interazioni che sorgono in un contesto sociale. Nella filosofia generale del diritto emergono 3 tesi. -Il formalismo: questa teoria dice che la norma giuridica è la regola che si identifica in un testo linguistico verbale e formale che contiene il precetto che rappresenta il contenuto della norma giuridica. Per avere l fromalistica, il diritto e la norma giuridica si esauriscono nel lato formale testuale della formulazione normativa. -Teoria sociologica: tale teoria in Italia fu inizialmente rappresentata dallo studio del diritto pubblico. L’impostazione sociologica è trovabile negli studi della filosofia del diritto ed è l’opposto rispetto alla teoria formale, dove il diritto è solo l’elemento testuale, nell’impostazione sociologica, si deve studiare la dinamica sociale che porta all’individuazione della norma giuridic. Per un approccio caratterizzato da una formazione sociologia, c’è la necessità di un esame sostanziale determinante nell’individuazione del contenuto della norma giuridica e non solamente formale. C’è poi anche un terzo approccio, illustrato in Italia da Francesco Carlo Luti, che definisce il diritto e l’ordinamento come un insieme di rapporti giuridici tra soggetti. Il diritto e la norma giuridica si riferiscono a una particolare regola sociale che si applica ai rapporti tra individui che si pongono all’interno di un contesto sociale, per cui la norma giuridica è una norma sociale. Un elemento sembra essere presente costantemente nella norma giuridica: essa è posta da un particolare contesto e struttura, ovvero l’autorità, che può esercitare su un certo territorio regole sociali che potranno essere rispettate dagli individui di quel contesto (individui detti consociali). La norma tende a strutturarsi in un modo che porta i consociali a rispettare quella regola. La norma giuridica è assistita nel contesto sociale nel quale essa si pone dall’insieme di alcuni strumenti diretti che assicurano la validità della regola sociale (la sua è dunque una natura coattiva). Definizione del diritto e della natura giuridica di Hans Kelsen Hans Kelsen fu un teorico generale del diritto austriaco vissuto nella prima metà dell’800, nelle cui teorie troviamo riferimenti che ci aiutano a sviluppare i primi due elementi sopra illustrati. Egli era un formalista giuspositivista, per il quale il diritto e la norma giuridica si esaurivano nel diritto vigente posto. Kelsen voleva dare una definizione razionale del diritto, muovendosi sulle teorie del positivismo: voleva dare una definizione del diritto configurandola come scienza in autonoma rispetto alle altre scienze sociali. Kelsen sviluppa questa esigenza affermando che bisogna individuare la condizione di validità di ogni norma giuridica in un’altra norma giuridica. Il diritto si può dunque spiegare solo attraverso il diritto: i fondamenti del diritto non si identificano nei fatti ma in altre norme giuridiche. Un’esigenza di metodo scientifico e un’impostazione giuspositivista ci fanno arrivare a considerare l’insieme delle norme giuridiche come coerente e ordinato, ma diviso per strati. La norma giuridica è una regola sociale che sta in un contesto organizzato razionalmente e che trova il fondamento della sua legittimità in un’altra forma giuridica, delineando così un ordinamento. Le fonti secondarie (3 livello) A questo livello troviamo alcuni atti normativi, ovvero i regolamenti, spiegati dalla legge 400, solitamente adottate dagli organi esecutivi. A livello regionale e locale le fonti normative secondarie sono rappresentate dai regolamenti regionali e dai regolamenti degli enti locali. Le consuetudini (fonti fatto) La fonte del 4 livello si individua attraverso 2 requisiti che hanno una natura oggettiva e una soggettiva. Il primo si riferisce alla necessità che un comportamento sia ripetuto in un certo contesto temporale per un certo periodo affinché sia considerato regola. L’elemento soggettivo avviene alla necessità che quel comportamento venga percepito in quel contesto sociale come degnamente doveroso, ovvero attinente a una condotta percepita come giuridicamente rilevante. La consuetudine è rilevabile sulla sussistenza di questi requisiti. Le consuetudini rimangono nel contesto commerciale, ma oggi ne rimangono pochi esempi, specie nell’ambito agrario. Per consuetudine si intende una norma di comportamento non scritta, che ha rilevanza collettiva che viene regolarmente seguita nel gruppo sociale o nell’ambito territoriale interessato dalla norma nella convinzione che ciò sia giusto o necessario. Abbiamo compreso che la formulazione linguistica della norma giuridica postula l’esistenza di un soggetto che è l’essenza della norma stessa. Il soggetto del diritto è il destinatario della previsione normativa della norma giuridica in cui si esaurisce il fenomeno giuridico. L’ordinamento giuridico definisce il soggetto. Nel caso dell’Italia, abbiamo due soggetti pubblici, ovvero persone fisiche, individui fenomenologicamente esistenti ovvero le persone, e le persone giuridiche, particolari contesti, considerati unitariamente dall’ordinamento giuridico, come se fossero una medesima persona fisica. Attraverso questa finizione giuridica, l’ordinamento determina una tipologia di soggetto identificata con una persona giuridica (lo stato è una persona giuridica), che può essere privata o pubblica. La capacità giuridica coincide quasi sempre con la soggettività, e quindi ad essere titolare di particolari facoltà e idoneità generali. La capacità di agire non è sempre presente alla soggettività giuridica, ma è presente nel nostro ordinamento giuridico e si acquisisce con la maggiore età o in alcuni casi con l’emancipazione (dunque anche dai 16 anni). Questa non è conferita a tutti i soggetti, ma solitamente a persone fisiche, nel caso delle persone giuridiche, la capacità è esercitata attraverso gli ordini. Diritto privato e diritto pubblico L’ordinamento giuridico non è totalmente omogeneo ma ha diversi ambiti caratterizzati dalla natura delle norme giuridiche. Le fonti del diritto non sono omogenee: esistono essenzialmente 2 aree principali, ovvero norme dell’area del diritto privato e del diritto pubblico. Ricordiamo che la distinzione tra i due rileva gli ordinamenti dell’Europa continentale, che ha attraversato il fenomeno della nascita dello stato moderno (affermatosi tra 400 e 500) e l’affermazione della rivoluzione francese, la quale avrà l’esigenza di concretizzare i principi elaborati dalla sovranità popolare e nazionale e dunque porterà alla formazione del diritto pubblico. In questo contesto si afferma lo stato moderno che tende a individuare un apparato, l’apparato dello stato servente ai suoi interessi, e a dotarsi di norme speciali che tendono ad applicarsi differentemente rispetto alle norme degli atti soggetti dell’ordinamento giuridico. Si può dire che con lo stato moderno tende ad affermarsi un diritto pubblico. Lo stato moderno si afferma soprattutto dopo la rivoluzione francese con alcuni principi costituzionali, in realtà già affermatisi negli Stati Uniti, ma diffusisi nell’Europa continentale dall’800. In questo contesto si afferma un principio, già concretizzato nel 700 con Montesquieu, ovvero il principio della separazione dei poteri dello stato. Tale principio lo troviamo anche in alcune parti della costituzione: il potere pubblico è diviso in 3 parti autonome e indipendenti. Esso è molto importante per le tradizioni amministrative dell’Europa continentale. I poteri dello stato sono 3: il potere normativo, esecutivo e giuridico. Il potere normativo individua le norme giuridiche. Storicamente era definito anche potere legislativo: con la rivoluzione francese la legge diviene la norma giuridica principale, per cui la funzione normativa si identificava come funzione legislativa. La funzione esecutiva e quella giurisdizionale realizzano l’esecuzione della norma giuridica. La funzione esecutiva è la funzione diretta nell’applicazione del diritto che si esplica attraverso un’autorità che tutela gli interessi coinvolti e specie l’interesse pubblico, rappresentato dalla pubblica amministrazione. L’attività esecutiva è caratterizzata da una maggiore concretezza e tende a una affermazione dell’interesse pubblico, realizzata attraverso un organo provvisto da un’imparzialità diversa. L’attività esecutiva è dunque caratterizzata da immediatezza e concretezza. La funzione esecutiva è svolta dalla pubblica amministrazione, ovvero è posta da norme di diritto pubblico e svolta da un soggetto pubblico. Quando un insieme di uffici pubblici, ovvero un apparato pubblico facente parte della struttura di un ente pubblico, è preposto a un esercizio di una funzione riconducibile alla funzione esecutiva o amministrativa, quell’apparato pubblico costituirà una pubblica amministrazione. La pubblica amministrazione è dunque individuabile nei particolari apparati riferiti ai soggetti pubblici. La funzione giurisdizionale tende a risolvere alcune controversie attraverso un organo che assicura l’imparzialità rispetto agli interessi posti all’origine di quella controversia. Per cui, il diritto pubblico è l’ambito delle norme giuridiche si applicano a quei rapporti non paritari nell’ambito dei quali esiste un soggetto provvisto di poteri speciali, che implicano effetti giuridici unilaterali nei confronti dei soggetti destinatari. Il diritto amministrativo è una branca del diritto pubblico che studia l’organizzazione e il funzionamento della tutale amministrativa. Il diritto pubblico si struttura come un diritto connesso che si collega ad alcune facoltà speciali. Il diritto privato è il complesso delle norme che regolano i rapporti dei singoli fra di loro, oppure fra essi e lo Stato e gli altri enti pubblici, qualora questi ultimi non esplichino funzioni di potere politico e sovrano. Fonte principale del diritto privato è il codice civile. Lo studio dei procedimenti rilevanti allo studio della legislazione dei beni culturali è collocato nel diritto amministrativo. Il diritto amministrativo può essere la parte del diritto pubblico destinata a studiare le principali questioni delle pubbliche amministrazioni, rilevanti all’organizzazione e alla loro attività. Esso è anche un particolare ambito dell’ordinamento giuridico dove si individuano le norme volte a disciplinare la pubblica organizzazione. L’organizzazione e l’attività delle pubbliche amministrazioni sono le principali aree studiate dal diritto amministrativo. L’organizzazione di questo diritto prevede alcuni principi costituzionali che sono esposti dall’articolo 97 e si fondano sul principio di legalità, imparzialità e buon andamento. Nel nostro ordinamento giuridico, l’attività della pubblica amministrazione qualora sia svolta in un regime pubblicistico, è caratterizzata da alcune attività importanti. Il procedimento amministrativo: legge 241/1990 Il procedimento amministrativo è il sistema attraverso il quale la pubblica amministrazione prende scelte e decisioni, perseguendo l’interesse pubblico. L’interesse pubblico è deciso dal popolo tramite la votazione del parlamento. Il parlamento decide le finalità perseguite dalla pubblica amministrazione e nel perseguimento di questi interessi, la pubblica amministrazione deve agire anche sulla base di criteri decisi dalla legge, che sono il criterio di imparzialità e il criterio di buon andamento, criteri che assumono rilievo nella fase attuativa. DEFINIZIONE: Il potere amministrativo si esplica con un procedimento attraverso il quale la Pubblica Amministrazione (PA) individua la strada più opportuna per perseguire l’interesse pubblico, valutando i fatti e confrontando gli interessi contrapposti, giungendo alla pronuncia del provvedimento finale. Il criterio di buon andamento si delinea attraverso tre “e”: efficienza (bisogna raggiungere il risultato nel modo più rapido possibile), economicità (bisogna raggiungere il risultato in modo economico) e efficacia (il risultato dovrà essere efficace). Il procedimento inoltre deve essere semplice. L’amministrazione deve seguire l’interesse pubblico, ma allo stesso tempo ponderare tutti gli interessi in gioco, in modo imparziale, tenendo conto di tutti attraverso la possibilità di scelta. Le decisioni possono essere discrezionali o vincolanti. La legge 241 del 1990 riguardo al procedimento amministrativo (articolo 1 comma 1) tratta di questi argomenti. Questa legge è molto importante: il procedimento amministrativo è esistito da moltissimi secoli ma fino al 1990 era vincolato da sistemi diversi, per cui le problematiche erano tantissime. Questa legge ha regolamentato le modalità di scelta della pubblica amministrazione prevedendo cose oggi scontate, ma in realtà importantissime. ESEMPIO: Se si vuole aprire un’attività, abbiamo bisogno di una e dell’idoneità (inizia così un provvedimento amministrativo, che indica un particolare tipo di atto di disposizione caratterizzatosi per il fatto di produrre effetti sulle situazioni giuridiche di terzi soggetti.in questo caso il provvedimento interessa l’abilitazione e l’autorizzazione): tale autorizzazione deve arrivare in tempi ragionevoli; in precedenza non vi erano termini. Adesso l’articolo due della legge prevede un I privati interessati a intervenire nel procedimento chiederanno alla pubblica amministrazione di intervenire e ottenere tutta la procedura riguardante. La pubblica amministrazione è tenuta a esaminare la richiesta e a rilasciare la documentazione, salvo determinati casi previsti dal’art 24, che sono estremamente stringenti. In Italia, il diritto di accesso del cittadino agli atti della Pubblica Amministrazione è previsto e regolato da varie leggi. La legge 241/1990 è la prima legge in Italia che ha previsto e regolato l’accesso agli atti amministrativi. I criteri principali sono quelli di trasparenza e pubblicità: tant’è che su quasi tutti i siti oggi troviamo i link delle amministrazioni trasparenti, ovvero link dove troviamo tutti i dati di una specifica amministrazione. Si ha inoltre l’obbligo di fornire i dati a meno che non confliggano con altri diritti di pari grado. ACCESSO CIVICO SEMPLICE: La trasparenza dell’azione amministrativa avviene mediante la pubblicazione di alcuni atti dell’amministrazione. In pratica, l’esigenza di conoscenza del cittadino è soddisfatta da questo adempimento. In tal modo, egli è informato compiutamente dell’attività realizzata dall’ente e non ha bisogno di chiedere copia dell’atto poiché è in grado di visualizzarlo sul sito dell’amministrazione coinvolta. Quest’ultima, quindi, è obbligata per legge a pubblicare alcuni provvedimenti; in caso contrario, il cittadino interessato può agire per ottenere la mancata divulgazione e, quindi, l’accesso voluto, rivolgendo istanza al responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza. ACCESSO CIVICO GENERALIZZATO: Con una legge del 2016,, nell’ambito della riforma della Pubblica Amministrazione, è stato introdotto il cosiddetto Foia che in inglese sta per Freedom of Information Act. Attraverso questa disposizione normativa, che è andata ad integrare altra già in vigore, è stato previsto e regolato l’accesso civico generalizzato. In pratica, attraverso questa norma il cittadino ha facoltà di conoscere dati e documenti in possesso della Pubblica Amministrazione. Il predetto accesso potrà avvenire solo a condizione che eventuali interessi pubblici (ad esempio un segreto di stato) o privati non siano compromessi dalla richiesta del cittadino. Il silenzio della pubblica amministrazione in questo caso equivale al diniego: se entro 60 giorni non si sa nulla, l’istanza è stata rifiutata. La pubblica amministrazione su determinati ambiti può agire come un soggetto privato ma in determinati casi, il provvedimento è immediatamente efficace e esecutivo, dunque l’amministrazione non deve passare da un giudice e i provvedimenti sono eseguiti immediatamente. L’autotutela (PA) L’autotutela non si trova nel diritto privato, poiché in quel caso si agisce sull’accordo: si tratta di un potere della pubblica amministrazione. Il potere di autotutela riguarda la possibilità che l’Amministrazione incida su un provvedimento precedentemente adottato per correggerne vizi o errori o per rimuoverlo completamente. Esempio: se viene proposta e concessa una discarica ma in seguito ci si accorge che sono stati commessi errori, la pubblica amministrazione non avrà seguito l’interesse pubblico, pur avendo autorizzato la decisione. La pubblica amministrazione ha un potere che può incidere su azioni che essa stessa a determinato, per cui possiede la revoca e l’annullamento d’ufficio La revoca prevede che per sopravvenuti motivi di pubblico interesse, ovvero motivi non considerati perché non c’erano e giunti in un secondo momento, il provvedimento può essere revocato dall’istituzione che lo ha emanato. Oltre a ciò, c’è un’ulteriore facoltà, ovvero il momento in cui si ha una rivalutazione dell’interesse pubblico originario, che viene perseguito in un altro modo. In questo caso si ha un limite molto importante, ovvero quello dovuto al divieto di revocare un provvedimento con il quale sono conferiti vantaggi economici al privato, per cui questo processo è estremamente delicato poiché le conseguenze possono essere particolarmente rilevanti. PIU’ PRECISAMENTE: -il provvedimento originario presenta vizi di forma insanabili, come ad esempio nel caso in cui sia stato emanato sulla base di fatti non avvenuti. In tal caso, l’Amministrazione procederà all’annullamento d’ufficio del provvedimento originario, così come accade nel caso di un titolo edilizio sia stato rilasciato senza che sussistessero i requisiti previsti dalla legge per il rilascio; -il provvedimento originario presenta vizi di merito, nel senso che ci sono nuove ragioni giuridiche o di fatto che ne rendono inopportuna la permanenza. In tal caso, l’Amministrazione procederà alla sua revoca, così come accade nel caso della revoca di un contratto pubblico che sia diventato eccessivamente oneroso. L’annullamento d’ufficio consente all’Amministrazione di eliminare retroattivamente il provvedimento originariamente adottato, entro un termine ragionevole, il cui massimo è 18 mesi, termine temporale che non vale nel momento in cui la posizione favorevole del privato è ottenuta con l’inganno e con documenti falsi. I casi dell’annullamento Vi sono delle circostanze che rendono il provvedimento nullo o annullabile. Per poter annullare un provvedimento e, quindi, per poter esercitare l’autotutela amministrativa, la p.a. deve innanzitutto accertarsi che il provvedimento sia illegittimo, e cioè sia viziato da eccesso di potere, incompetenza oppure sia stato adottato in violazione di legge. L’amministrazione pubblica può procedere all’annullamento solamente se vi sia un interesse della collettività alla rimozione dello stesso, e sempre che tale rimozione avvenga in tempi ragionevoli senza ledere gli interessi delle persone su cui il provvedimento medesimo incideva. Altra ipotesi di autotutela amministrativa con esito demolitorio è la revoca del provvedimento. A differenza dell’annullamento, la revoca ha effetti solo per il futuro, nel senso che non cancella fin dall’inizio la portata del provvedimento revocato. L’eccesso di potere: l’eccesso di potere è una fattispecie estremamente complessa perché può essere tantissime cose: un utilizzo sproporzionato del potere, ad esempio nelle lesioni che reca al privato, o irragionevole (si dice di perseguire un tale interesse ma se ne persegue un altro, magari no n prevalente). Il giudice ne decreta la validità o la non validità. Se la pubblica amministrazione, anche se invitata ad agire, non agisce, il privato può contattare il giudice amministrativo, specializzato nella pubblica amministrazione. L’atto annullabile verrà appunto annullato, ma ci sono dei casi dove l’atto, seppur viziato, non può non essere annullato qualora sia palese che il suo contenuto finale non avrebbe comunque potuto essere diverso da quello emesso. Nel momento in cui si fa ricorso bisognerà dimostrare che il vizio avrà impatto sul provvedimento finale. Può succedere anche nel caso in cui manchi l’avviso della via del procedimento, la pubblica amministrazione deve dimostrare che anche senza la comunicazione di avvio, il procedimento non poteva avere estro diverso da quello ottenuto. Settimana 2 Abbiamo introdotto i temi del diritto amministrativo, comprendendo la norma giuridica, l’ordinamento giuridico eccetera, argomenti che ci introducono nella legislazione dei beni culturali, che è studiata nell’ambito del diritto pubblico amministrativo. Preliminare è il concetto della Pubblica Amministrazione, apparato appartenente a un soggetto pubblico (che implica la distinzione tra diritto pubblico e privato) competente incaricato nell’esercizio della funzione amministrativa, appartenente al potere esecutivo, uno dei 3 poteri dello stato, caratterizzato dall’applicazione della norma giuridica. Abbiamo visto come il diritto amministrativo studia l’organizzazione, che si occupa dei criteri attraverso i quali l’apparato è organizzato e l’attività della pubblica amministrazione, di cui abbiamo introdotto i concetti principali. L’attività della PA italiana si è definita sulla base di un percorso introdotto dai francesi, sui cui principi si fonda la norma giuridica rappresentante l’esercizio del potere esecutivo. Sulla base di tali premesse, abbiamo chiarito come l’attività della PA è caratterizzata dal fatto di essere articolata da un insieme di atti che delineano un procedimento. Per cui l’attività della PA ha un carattere procedimentale. In tale procedimentalità, la PA deve considerare una serie di interessi e questioni che non possono rendere immediato l’esercizio dell’attività. L’idea della procedimentalizzazione risale all’inizio dell’800, tuttavia questo sviluppo si delinea nel 900, quando si adottano normative relative al diritto amministrativo, che si deve svolgere in una serie di atti che ponderano diversi interessi che fanno sì si possa prendere la decisione migliore. Ordinamento giuridico italiano In esso la procedura amministrativa è contenuta nella legge 241 del 1990, arrivata un po’ in ritardo rispetto alla sua introduzione in Germania (anni 40), in Austria (anni 20), e Spagna (anni 60). In verità, già all’inizio del 900 i giudici ritennero come nella procedura amministrativa dovessero essere rispettati una serie di principi che la legge 241 tratterà negli anni 90. Il procedimento concepito come un insieme di atti necessari e ordinati è quindi la procedura necessaria all’adozione di un provvedimento amministrativo. Esso individua la fase caratterizzante dalla procedura per decidere una decisione rimessa alla stessa PA. I procedimenti giungeranno a una decisione finale attraverso la PA. DEFINIZIONE: Questa nozione (procedimento amministrativo) non va confusa con il provvedimento amministrativo. Il provvedimento amministrativo è l’atto che conclude il procedimento amministrativo. Si tratta della manifestazione di volontà della pubblica amministrazione in grado di incidere unilateralmente (cioè a prescindere dalla volontà del destinatario) nella sfera giuridica del destinatario, attraverso la costituzione, modificazione o estinzione di situazioni giuridiche attive o passive. legislazione dei beni culturali), il provvedimento potrà essere viziato per carenza di uno degli elementi essenziali. La causa è la finalità di un contratto, qualità intrinseca che un atto amministrativo deve o può perseguire. Nel provvedimento amministrativo la causa può esistere in astratto ma non in concreto. Un provvedimento amministrativo si ritiene che indichi anche le ragioni di fatto o di diritto che hanno portato a una decisione. Anche l’atto amministrativo è individuato come un atto espressivo di una volontà, un atto con cui un ente pubblico esercita una propria facoltà deliberativa concessa dall’ordinamento giuridico. Ulteriore elemento è dunque quello della volontà, attraverso la quale si costruisce un procedimento idoneo. Il provvedimento amministrativo è rappresentato da questi elementi relativi al soggetto, oggetto, causa e la motivazione: un atto amministrativo che non ha questi elementi può essere considerato invalido e quindi venire annullato, poiché considerato inesistente, non avendo i requisiti essenziali minimi. Cerchiamo di vedere le caratteristiche principali del provvedimento amministrativo. Una prima caratteristica del provvedimento amministrativo è l’unilateralità o imperatività, nonché la sua esecutività, la sua esecutorietà alla quale si connettano le facoltà dell’autotutela. L’unilateralità e l’imperatività sono facoltà che possono essere distinte, anche se sono spesso definite endiadi e si riferiscono appunto all’unilateralità del provvedimento amministrativo, cioè alla capacità di costituire, modificare o estinguere i poteri e le facoltà del destinatario indipendentemente dal suo consenso, in caso di provvedimento positivo. Il provvedimento non è l’unica modalità attraverso la quale la PA esercita la sua attività, che può essere condotta anche attraverso un contratto, che segue le norme del diritto privato (anche se la PA opera soprattutto nel diritto pubblico). L’esecutività è l’idoneità del provvedimento amministrativo a produrre i propri effetti, mentre l’esecutorietà determina che il provvedimento può produrre i propri effetti senza la necessità di far ricorso a un giudice, quindi senza una fase giurisdizionale, necessaria per i privati. ESEMPIO: Nell’ambito del diritto privato, se un soggetto ha una pretesa nei confronti di un altro soggetto, si dovrà andare da un giudice per ricevere l’esecutorietà e l’esecutività alla sue pretese. Si va dal giudice quindi non tanto per stabilire se un soggetto ha un diritto o meno ma per conferire queste 2 caratteristiche. Nel caso dei titoli del provvedimento amministrativo la PA fruisce già di queste caratteristiche, e i provvedimento amministrativi hanno esecutorietà diretta senza dover passare per un giudice, che potrà sindacare solamente la provveditorietà del provvedimento amministrativo. L’esecutorietà consente alla PA di poter dare esecuzioni dirette e concrete senza l’esecuzione di un’altra fase che accerta alcuni requisiti. Il provvedimento amministrativo se è esecutivo è anche esecutorio ovvero idoneo a essere messo in atto immediatamente. I vizi del provvedimento amministrativo Vediamo ora cosa succede se il provvedimento non è valido. I vizi sono sempre tendenzialmente vizi di illegittimità. Nell’ordinamento giuridico italiano ne distinguiamo tra 3 tipologie: -la violazione di legge -vizio di incompetenza, vizio di illegittimità che può essere vizio di incompetenza assoluta o relativa. L’incompetenza, quale vizio di legittimità dell’atto che comporta l’annullabilità di esso, è soltanto quella relativa, che si realizza quando un organo amministrativo invade la sfera di competenza di un altro organo appartenente allo stesso settore amministrativo -vizio di eccesso di potere, nel quale l’illegittimità coincide con il fatto che l’interesse perseguito non corrisponde all’interesse pubblico. Per aversi eccesso di potere, che può essere definito come scorrettezza in una scelta discrezionale, occorre: – un potere discrezionale della P.A., in quanto è evidente che per gli atti vincolati, essendone predeterminato dalla legge il contenuto, non può riscontrarsi un vizio della funzione (o della volontà, a seconda della teoria che si segue circa la natura giuridica di tale vizio); – uno sviamento di tale potere, ossia il cattivo uso del potere direzionale della P.A.; – la prova dello sviamento, prova necessaria per far venir meno la presunzione di legittimità dell’atto. Tra le figure più rilevanti (cd. figure sintomatiche) di eccesso di potere ricordiamo: — sviamento di potere: ricorre tanto nel caso in cui la P.A. usi un suo potere discrezionale per un fine diverso da quello per il quale il potere stesso le era stato conferito, quanto nel caso in cui la P.A. persegua l’interesse pubblico, ma con un potere diverso da quello previsto a tal fine dalla legge. — travisamento ed erronea valutazione dei fatti: ricorre quando la P.A. abbia ritenuto esistente un fatto inesistente o viceversa, ovvero quando abbia dato ai fatti un significato erroneo, illogico o irrazionale; — illogicità o contraddittorietà della motivazione: ricorre quando la motivazione dell’atto sia illogica o contrastante in varie parti, o quando la motivazione sia in contrasto col dispositivo; — contraddittorietà tra più atti: ricorre quando più atti successivi siano contrastanti fra loro in modo da non far risultare quale sia la vera volontà della P.A. La violazione di legge deve considerarsi una figura residuale in quanto comprende tutti quei vizi che non rientrano nelle altre due categorie. Essa si sostanzia in un contrasto fra l’atto e l’ordinamento giuridico. L’atto illegittimo per la presenza di vizi di legittimità è annullabile, ma, fino a quando non viene effettivamente annullato, esiste ed è efficace. Davide Gambetta Argomenti: leggere soprattutto le slides del professore, il libro non è per forza necessario. Spiegare i concetti dal punto di vista tecnico, prima di esplicare le riflessioni. Consultare eventuali dispense dall’università di Trieste. Legislazione dei beni culturali, lezione 0: la fenomenologia giuridica (non sarà oggetto di esame, poiché costituisce la base concettuale e logica da cui origina tutta la disciplina successiva) Prima di poter parlare del diritto dei beni culturali, dobbiamo interrogarci su cosa sa la giuridicità. Oggi il diritto viene spesso visto come una serie di norme da conoscere e applicare in maniera costante. Ma da dove viene questa massa di leggi? Chi è il legislatore che le scrive? In realtà le leggi sono scritte dagli uomini, dal parlamento, per regolare la società. Per capire il senso della legge, dobbiamo ritornare alle origini dell’umanità. Nello stato di natura, prima che nascesse la società, i rapporti inter umani, erano regolati dalla legge del più forte: il criterio è questo, perché l’uomo più forte a prescindere dalle regole potrà sempre incombere sul più debole. Nello stato di natura non si può costruire alcuna società stabile che sia regolata dal progresso. Il senso profondo del diritto è che senza di esso, vivremmo ancora allo stato di natura, regolando i nostri rapporti con la forza. La società è nata quando abbiamo deciso di darci delle regole, limitando volontariamente la nostra libertà e unirci nella lotta contro la natura per la sopravvivenza. Nello stato di natura, l’uomo mira al suo egoismo bieco, nello stato di società egli sacrifica il suo egoismo, limitando la sua libertà. La limitazione della libertà ci aiuta a progredire. Il diritto è il più grande e complesso esperimento sociale dell’umanità; è il metodo che abbiamo trovato per vivere in pace. Se noi fossimo esseri umani perfetti, sempre virtuosi, le regole non servirebbero: le regole nascono perché gli uomini per quanto virtuosi, se non avessero regole farebbero prevalere il loro egoismo. Le persone faranno sempre delle azioni che minano la convivenza sociale, che il diritto ci porta a raggiungere. La violenza oggi è detta violenza legittima, poiché riservata a un organo superiore, ovvero lo Stato. Abbiamo deciso, come società, di escludere la violenza dalla nostra quotidianità per lasciarlo solo ad esso. Lo stato nasce quindi con un duplice accordo: da un lato rinunciare alla violenza individuale, dall’altro creare delle regole da utilizzare come base. Questo implica una limitazione della nostra libertà. Tuttavia se non ci fossero le regole, il progresso civile non ci sarebbe, perché le persone sono fallibili e commetterebbero ingiustizie. Ci sono tanti limiti al sistema del diritto, tuttavia se oggi siamo dove siamo, vuol dire che l’” esperimento” è riuscito: il diritto ha avuto una funzione vitale per il progresso. Con il complicarsi della società, il diritto ha cambiato struttura e si è stratificato e moltiplicato nel tempo: invece di capire il senso profondo delle regole, abbiamo sempre cercato di trovare il cavillo per sfuggire ad esse e obbligando chi le fa a complicarle. La legge è complicata perché l’uomo è complicato nel cercare di eluderla. La legge non è scritta da entità divine, ma dagli uomini, dai parlamentari che eleggiamo: perciò la legge può essere sbagliata, scritta male, ci possono essere 2 leggi che dicono due cose diverse, perché chi ha scritto una legge non è andato a informarsi sulle leggi precedenti. Tuttora in Italia c’è la legge sui piccioni viaggiatori vigente, assolutamente irrilevante. La legge evolve perché evolve con essa la percezione sociale: nella legge incorporiamo il nostro sentimento morale attuale. Ciò non vuol dire che sbagliano coloro che scrivono le prime leggi: la legge non è transitoria, è la società che nel corso del tempo impara a scoprire sé stessa. Ad esempio mentre prima ricollegavamo la madre alla maternità, oggi abbiamo capito che i genitori hanno diritto entrambi al congedo parentale. L’Editto Sforza del 29 gennaio 1646 sancisce il divieto di distruzione di oggetti d’arte, il divieto di scavi ed esportazioni senza autorizzazione pontificia, il divieto di esportazione con sanzione della confisca. L’Editto Altieri del 1686 sancisce il divieto di alterazione di beni ritrovati. L’Editto Spinola del 1704 sancisce la protezione dei beni archivistici. Con l’editto Pacca del 1820, si reagisce all’esportazione napoleonica, costituisce le prime strutture organizzative dei beni culturali e riguarda anche gli scavi. Essenzialmente: -catalogazione e del restauro (nasce concetto catalogo); -organici per l’azione di salvaguardia; - ispettore generale; - scavi; - Prelazione sui quadri. L’editto per la prima volta distingue in base alla INTENSITA’ del pregio. Negli stati preunitari, la legislazione riguardo i beni culturali già esisteva. Il granducato di Toscana aveva una serie di norme sulla tutela dei palazzi antichi, Milano si era impegnata per tutelare non tanto l’opera ma l’artista (e qui ricordiamo gli attrattori culturali della Convenzione di Faro, che incentiva la produzione della cultura), la repubblica di Venezia aveva stilato un catalogo dei propri beni; la Sardegna era l’unica poco sensibile al problema. Le concezioni erano più che latro di tipo conservativo appropriativo. Con l’Unità, si è voluto controllare la circolazione dei beni culturali per evitare scompaiono e che lo stato possa acquisire un bene culturale se questo viene espropriato all’estero. La legge sulle espropriazioni n. 2359 del 1865 prevedeva: Ogni monumento storico o di antichità nazionale che abbia la natura d'immobile, e la cui conservazione pericolasse continuando ad essere posseduto da qualche corpo morale o da un privato cittadino, può essere acquistato dallo Stato, dalle Province e dai Comuni in via di espropriazione per causa di pubblica utilità. Ancora oggi l’espropriazione è possibile se viola alcuni interessi, tendenzialmente però non si espropria più e si fa una dichiarazione di interesse culturale. Anche per portare i quadri all’estero ci vuole l’attestato di libera circolazione speciale. In sostanza, la circolazione è di certo la parte più complessa. I passaggi fondamentali dal 1902 ad oggi Legge Nasi (1902): è una legge molto diversa da quella del regime successivo e anche da quella attuale. Stabilisce che un bene culturale era tale solo se figurava all’interno dei cataloghi unici nazionali. Essa formalizza l’impossibilità di espropriare i beni culturali e di acquistare il diritto di violazione, per ogni vendita era necessario dichiararne e lo stato poteva acquistarla allo stesso. Non veniva considerato bene culturale tutto ciò che era fatto nei 50 anni precedenti. Si trattava di una legge sia pure dalla portata innovativa ma dall’incisività relativa data proprio dalla difficoltà della catalogazione, specie se posta nei confronti di un vasto patrimonio storico culturale quale il nostro e quindi dai tempi di attuazione quasi inammissibili. Il tempo era quindi fondamentale per la natura del bene e per la sua creazione. Oggi non è previsto un tempo minimo necessario affinché qualcosa possa essere dichiarato di interesse culturale. Tuttavia non possiamo nascondere come ancora oggi il tempo abbia una rilevanza: all’accrescere del tempo, è più probabile che possiamo considerare un oggetto un bene culturale. Se troviamo un oggetto di età romana, diciamo immediatamente che esso è un bene culturale; già un bene della Prima guerra mondiale, sarà considerato un bene storico, ma non archeologico (è considerato archeologico un bene che appartiene alla storia antica). Lo stesso identico oggetto collocato in epoche differenti può avere valore culturale completamente diverso, anche a seconda dell’uso: un elmo semplice non avrà nessun valore, mentre un elmo portato da un generale importante potrà avere un valore maggiore. ART. 1 «Le disposizioni della presente legge si applicano ai monumenti, agl'immobili ed agli oggetti mobili che abbiano pregio di antichita’ o d'arte. Ne sono esclusi gli edifici e gli oggetti d'arte di autori viventi, o la cui esecuzione non risalga ad oltre cinquant'anni.» ART. 14 «Chiunque voglia intraprendere scavi, per ricerca di antichita’, deve farne domanda al Ministero della Pubblica Istruzione» «il Governo avra' diritto alla quarta parte degli oggetti scoperti o al valore equivalente» salvo espropriazione (art. 17) Esistevano poi delle prime norme relative agli interventi, in cui non si contemplava l’interesse storico artistico, bensì il pregio, che ha un grande valore estetizzante. Sui beni archeologici, la legge Nasi ci dice che se ad esempio si trova un bene archeologico, se ne diventa il proprietario, mentre dalla legge Rosadi in poi, se si trova un bene archeologico, questo diviene proprietà dello stato. La legge nasi non aveva previsto una proprietà diretta dei beni archeologici: oggi essi sono trovati dalle cooperative di archeologia che informano lo stato di ciò che trovano, e gli enti costruttori quando fanno i loro scavi. Art. 15 «L'intraprenditore di uno scavo deve dare immediata denunzia della scoperta di qualunque monumento od oggetto d'arte o d'antichita’. […] lasciarli intatti sino a quando non siano visitati dalle Autorita' competenti. Il Governo ha l'obbligo di farli visitare e studiare entro brevissimo termine. Nei casi di scoperte di monumenti, o di oggetti d'arte antica, avvenute negli scavi di qualunque natura, le Autorita' governative potranno prendere tutti i provvedimenti di tutela e di precauzione che riputeranno necessari, o utili per assicurarne la conservazione ed impedirne il trafugamento o la dispersione.» Legge 411 (1905): legge "Per la conservazione della Pineta di Ravenna», di fatto la prima tutela paesaggistica ante litteram: si evidenziò il forte legame tra paesaggio e storia, considerato come elemento identitario per la nazione. Legge 364 di Rosadi-Rava (1909): legge che abbandona il concetto di pregio storico artistico e introduce il concetto di interesse storico, artistico, archeologico eccetera. Ne sono escluse tutte le cose recenti, si superano inoltre i cataloghi. Quando il ministero ritiene che un bene debba essere tutelato informa l’interessato attraverso la notifica di interesse culturale che attiva la tutela. Art. 1 «Sono soggette alle disposizioni della presente legge le cose immobili e mobili che abbiano interesse storico, archeologico, paletnologico, paleontologico o artistico. Ne sono esclusi gli edifici e gli oggetti d'arte di autori viventi o la cui esecuzione non risalga ad oltre cinquant'anni.» Dunque prima esistevano i cataloghi: quando un bene veniva ritenuto di interesse culturale, era inserito nel catalogo. Oggi invece l’attivazione della tutela inizia già quando al proprietario viene notificato un provvedimento amministrativo, detto notificazione di interesse culturale, che serve per imprimere l’attivazione dell’interesse cult al bene. Il ministero comunica l’avvio del procedimento per dichiarare il possibile bene tale: il proprietario può presentare atti e documenti di qualsiasi tipo; uno specialista si occuperà di confermare se il bene è tale o no (procedimento di interesse culturale), che si può concludere con un atto di notificazione del bene culturale. Questo sistema nacque con la legge Rosadi-Rava e all’epoca si chiamava notifica di interesse culturale. Già alla notifica, il Ministero impone che il proprietario non può distruggere, asportare e attuare altre misure sul possibile bene culturale. CARATTERISTICHE PRINCIPALI DELLA LEGGE ROSADI-RAVA: Art. 4 – Potere di ordinare il trasporto in pubblici istituti per la tutela; Art. 5 – Procedimento di notifica dell’importante interesse (si sviluppa l’idea della «dichiarazione»): Il ministero dell’istruzione pubblica (quello della cultura non esisteva ancora, nasce negli anni 70) si occupava di mandare il provvedimento e il ricevente doveva rispettarlo. Art. 6 – Acquistare al prezzo di alienazione. Art. 7 – Espropriazione nel caso di rischio integrità. Art. 8 ss. – Divieto di esportazione e relativa tassa. RICORDA! Con questa legge si sancisce che le scoperte archeologiche diventano automaticamente proprietà dello stato. Al ritrovatore viene rilasciata una quarta parte o il corrispettivo monetario equivalente. Lo stato può attuare un’espropriazione indiretta per fare opere di scavo oppure un’occupazione temporanea. L’espropriazione si attua generalmente quando si ipotizzano dei reperti non asportabili. Ricorda che l’area archeologica è l’area dove si stanno svolgendo degli scavi archeologici, i reperti rinvenuti sono musealizzabili e asportabili, mentre il parco archeologico è un’area destinata ad essere musealizzata all’aperto. Il catalogo oggi esiste ancora con una funzione di mera pubblicità e informazione, ma quello di elencare tutti i beni era un lavoro estremamente complesso all’epoca; oggi con la tecnologia sarebbe molto più semplice. Inoltre il ministero non sempre ricordava tutti i beni culturali. Oggi non tutti i beni sono comunque inseriti nel catalogo. Con la legge nasce anche il concetto secondo il quale un bene archeologico diviene di proprietà dello stato, che si occupa anche delle indagini archeologiche, affidate alle cooperative di archeologi, i quali firmano un contratto che indica che ciò che trovano è di proprietà dello stato. Precedentemente l’amministrazione pubblica gestiva quasi tutti i servizi, oggi ci rivolgiamo soprattutto a soggetti privati: si è ritenuto che mettendo in mano agli enti privati i servizi pubblici (il trasporto ferroviario ad esempio) che potessero renderli più efficienti. Essi sono di fatto più efficienti, poiché più imprenditoriali. Art. 15 «Le cose scoperte appartengono allo Stato. Di esse sarà rilasciata al proprietario del fondo una quarta parte, oppure il prezzo equivalente, a scelta del Ministero della pubblica istruzione. Il valore delle cose verrà stabilito come all'art. 9; ma il giudizio dei periti sarà definitivo, salvo il richiamo al Consiglio superiore.» Art. 16 «Ove il Governo lo creda opportuno, potrà espropriare i terreni in cui dovranno eseguirsi gli scavi.» Art. 17 – Lo Stato può concedere a terzi di effettuare scavi. Art. 18 – Scopritore e concessionario devono fare immediata denuncia. Da tale data, i beni archeologici appartengono necessariamente allo Stato. L’ART. 15 ANCORA OGGI HA UNA RILEVANZA DECISIVA. PERCHE’ DALLA SUA VIGENZA OGNI RITROVAMENTO APPARTIENE ALLO STATO. Ancora oggi, per provare la proprietà privata di un bene archeologico bisogna dimostrare l’acquisto della proprietà ante 1909 o come quota parte del ritrovamento. Legge 778 del 1922: Connubio tra paesaggio (al tempo ancora in parte rifuso nell’ambiente) e cultura. Tutela gli edifici di particolare bellezza e quelli aventi una relazione con la storia civile e letteraria. Introduce il procedimento per l’accertamento e la dichiarazione dell’interesse culturale 1998: • il Ministero diviene il Ministero PER i beni E LE ATTIVITA’ CULTURALI (con competenze in materia di sport e spettacolo, non più di ambiente) • Separazione più nitida tra competenze amministrative e politiche (funzionari, ministro) 1999-2001: • Ministro coadiuvato dagli uffici di diretta collaborazione • Istituzione SEGRETARIO GENERALE e DIREZIONI GENERALI (unità dell’azione) • Comando Carabinieri per la tutela del patrimonio culturale (D.P.R. 307/01) 2004 • D.Lgs. 3/04: Modello dipartimenti, più corrispondente alla eterogeneità dei compiti 2014: Acquista competenze in materia di turismo MIBACT. • Commissione D’Alberti, nuova DG Musei. • DPCM 171/14 Direzioni regionali (dirig. gen.) declassati a Segreterie regionali, uffici non generali Dal 2014: -Commissioni regionali per il patrimonio culturale (presiedute dal Segretario, composte dai soprintendenti e direttori dei poli museali regionali). -A livello locale Soprintendenze Archeologia Belle Arti e Paesaggio. -Negli archivi di Stato il Direttore svolge funzione di soprintendente archivistico. Enti a livello locale: -Prefetto: Presiedeva la commissione territoriale per i beni culturali -Articolazioni territoriali del ministero: Esercitano in modo territorialmente capillare le funzioni -Sussidiarietà: Anche enti locali e Regioni sono chiamati a contribuire RICORDA: Il Codice dei beni culturali è un decreto legislativo con forza di legge primaria; quindi, si colloca subito dopo la Costituzione. Le circolari del ministero non hanno valore di legge, ma danno un’interpretazione ufficiale delle leggi da applicare. Lezione 2 Innanzi tutto, esiste una regolamentazione generale dei beni. Il bene è una res, ovvero una cosa, suscettibile ai diritti. Il diritto standard che incombe sui beni è quello della proprietà. I beni culturali hanno una regolamentazione diversa rispetto ai beni normali, perché nel bene materiale convive un bene immateriale, ovvero l’interesse culturale, che dà valore al bene per tutta l’umanità. In quel bene c’è l’interesse della comunità umana. Il proprietario di un bene culturale non può fare con quel bene ciò che potrebbe fare con un altro bene, poiché innanzi tutto c’è il divieto di distruzione di esso, che non incombe per i normali beni. Nel caso dei beni culturali italiani, questi non possono essere spostati se non con un attestato di libera circolazione, che impone che quel bene tornerà nel confine italiano, poiché fa parte di un patrimonio nazionale. La proprietà inoltre si piega all’utilità sociale. Oggi il bene culturale è una testimonianza dell’umanità che ha un valore intrinseco tale da essere conservato e tramandato alle prossime generazioni. In Italia si ha il termine “patrimonio”, ereditato dal codice napoleonico francese, inesistente all’estero, dove si usa il termine “heritage”. In precedenza si parlava di patrimonio storico e artistico. Di recente questo concetto è stato sostituito con quello di patrimonio culturale, che ingloba la cultura in modo multiforme; si tratta è una dimensione più ampia che non comprende solo storia e arte→ questo fino alla convenzione FARO del Portogallo che dà una concezione nuova del patrimonio culturale, che definisce eredità culturale. Nella convenzione FARO l’elemento significativo del bene lo ha la comunità, le persone che utilizzano quei beni. La convenzione di Faro, formalmente Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore del patrimonio culturale per la società, è un trattato internazionale multilaterale del consiglio d'Europa in cui gli stati firmatari (più di 20) concordano sul libero beneficio e sull'aumento della partecipazione al patrimonio culturale. La convenzione si è conclusa ed è stata firmata il 27 ottobre 2005 a Faro, in Portogallo. È entrata in vigore il 1º giugno 2011. La Convenzione di Faro sottolinea gli aspetti importanti del patrimonio culturale in relazione ai diritti umani e alla democrazia. Promuove una comprensione più ampia del patrimonio culturale e della sua relazione con le comunità e la società. La Convenzione ci incoraggia a riconoscere che gli oggetti e i luoghi non sono, di per sé, ciò che è importante del patrimonio culturale. Essi sono importanti per i significati e gli usi che le persone attribuiscono loro e per i valori che rappresentano. La Convenzione di Faro è una "convenzione quadro" che definisce le questioni in gioco, gli obiettivi generali e i possibili campi di intervento degli Stati membri per progredire. Ogni Stato membro può decidere i mezzi più convenienti per attuare la convenzione in funzione dei suoi quadri giuridici o istituzionali, delle sue pratiche e della sua esperienza specifica. Rispetto ad altre convenzioni, la "convenzione quadro" non crea obblighi specifici di azione. Suggerisce piuttosto che imporre. Il bene culturale rappresenta qualcosa che non soltanto testimonia le passate generazioni, ma è di utilità per le future. L’esigenza di tutelare la memoria discende dal fatto che l’essere umano ha l’esigenza di lasciare la sua traccia sulla terra. Già gli uomini primitivi avevano l’esigenza di rappresentarsi tramite le pitture rupestri. Ancora oggi i ragazzi scrivono sui muri, sulle strade, una serie di frasi che rappresentano il loro stato d’animo: se ci pensiamo questa cosa si conserva da migliaia di anni. L’opera d’arte nasce perché l’uomo ha una bellezza metafisica tale dentro che ha bisogno di essere trasmessa, tant’è che ci sono norme che tutelano l’artista e lo studio dove questo operava, perché era lì che si catalizzava il suo estro. Oggi l’idea riguardo ai beni culturali è quella di valorizzarli, oltre che di tutelarli, poiché quei beni hanno una tradizione che esauriremmo se non la esercitassimo. ARTICOLO 1 DEL CODICE DEI BENI CULTURALI 1. In attuazione dell'articolo 9 della Costituzione, la Repubblica tutela e valorizza il patrimonio culturale in coerenza con le attribuzioni di cui all'articolo 117 della Costituzione e secondo le disposizioni del presente codice. 2. La tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale concorrono a preservare la memoria della comunità nazionale e del suo territorio e a promuovere lo sviluppo della cultura. 3. Lo Stato, le regioni, le città metropolitane, le province e i comuni assicurano e sostengono la conservazione del patrimonio culturale e ne favoriscono la pubblica fruizione e la valorizzazione. 4. Gli altri soggetti pubblici, nello svolgimento della loro attività, assicurano la conservazione e la pubblica fruizione del loro patrimonio culturale. 5. I privati proprietari, possessori o detentori di beni appartenenti al patrimonio culturale, ivi compresi gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti, sono tenuti a garantirne la conservazione. L’articolo 1 del Codice dei beni culturali è attualmente la norma che amministra i beni culturali perché racchiude in sé dei principi fondamentali: esso dice che in attuazione all’art 9 della Costituzione, la Repubblica, ovvero all’insieme di tutti quegli enti he hanno istituzioni pubbliche e tutelano gli interessi collettivi, TUTELA e VALORIZZA il patrimonio culturale. La tutela e la valorizzazione concorrono a preservare la memoria e a promuovere lo sviluppo della cultura: si deve quindi sia proteggere la cultura, ma anche la libera creazione di essa oggi. Quando si fa cultura oggi stiamo attuando il codice dei beni culturali. Il BENE è una cosa suscettibile di DIRITTI: la cosa che trasforma il bene in un BENE CULTURALE è L’INTERESSE CULTURALE, ovvero quella dimensione di testimonianza che rende il bene espressione di un valore di una CIVILTA’. Chiariamo che nel patrimonio culturale ci sono ANCHE i beni paesaggistici, e non sono i beni culturali. Il paesaggio è infatti anche esso espressione del patrimonio culturale. La tutela è la protezione e la conservazione di un bene culturale o paesaggistico, mentre la valorizzazione è diretta a promuovere il bene culturale rendendolo conoscibile e utile per la società. La legislazione prevede che la valorizzazione debba avvenire nel rispetto della tutela, che comunque prevale sulla valorizzazione. Di recente la valorizzazione e la tutela sono state considerate un unicum e si tende a non separarle più. Nella questione di beni culturali possono sussistere due problematiche: -nell’ambito pubblico, la mancanza di fondi per garantire la tutela del bene, che spesso porta alla mancata valorizzazione; Il patrimonio culturale, come lo intende il codice, comprende i beni culturali e paesaggistici. Il paesaggio è una parte fondamentale del patrimonio culturale. Il bene culturale secondo il nostro codice deve essere materiale: l’immateriale si può tutelare solo se si manifesta attraverso un supporto fisico. Il patrimonio immateriale è forse la cosa più difficile da proteggere, perché richiede un’attività costante. Per molto tempo si è pensato che la immaterialità fosse un elemento indissolubile del bene culturale. Ma se una tradizione storica antica come ad esempio il palio di Siena o la pizza napoletana non ci fosse più, non ci sarebbe una distruzione del bene culturale? Essenzialmente ci sono delle manifestazioni culturali per cui il supporto fisico non è essenziale, la cultura sta in un attività o un sentimento che si perpetua da persona a persona. Questo tipo di concetto vuole superare la materialità, esiste infatti una cultura immateriale che sta in gesti, parole, usi ecc… La tutela di questi beni immateriali è molto complessa e richiede un costante e attivo apporto della comunità. Essendo costituito essenzialmente da forme relazionali e tradizioni richiede che le persone vi partecipino attivamente affinché venga mantenuto e trasmesso di generazione in generazione. Il patrimonio culturale immateriale è molto più difficile da gestire dal punto di vista della tutela. La Convenzione UNESCO per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale, conclusa a Parigi il 17 ottobre 2003 e ratificata dall’Italia il 30 ottobre 2007, ha disciplinato a livello internazionale l’esistenza di beni culturali “intangibili”, ossia “le espressioni, le conoscenze, il know- how – come pure gli strumenti, gli oggetti, i manufatti e gli spazi culturali associati agli stessi – che le comunità, i gruppi e in alcuni casi gli individui riconoscono in quanto parte del loro patrimonio culturale”. Nel patrimonio culturale immateriale sono le persone che riconoscono che qualcosa fa parte della loro cultura. Generalmente quando questo patrimonio viene a mancare si avverte proprio una sensazione di impoverimento personale. Il recepimento nel diritto interno Il Decreto Legislativo 26 marzo 2008, n. 62 ha inserito nel Codice dei beni culturali e del paesaggio un apposito articolo 7 bis: “Le espressioni di identità culturale collettiva contemplate dalle Convenzioni UNESCO per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale e per la protezione e la promozione delle diversità culturali, adottate a Parigi, rispettivamente, il 3 novembre 2003 ed il 20 ottobre 2005, sono assoggettabili alle disposizioni del presente codice qualora siano rappresentate da testimonianze materiali e sussistano i presupposti e le condizioni per l'applicabilità dell'articolo 10.” In Italia si può tutelare tutto ciò che è materiale e collegato al bene immateriale, ma non proprio l’espressione del bene culturale immateriale stesso. Gli archivi contengono patrimoni immateriali→ Non si tutela il foglio fisico ma ciò che c’è scritto. Nel patrimonio culturale immateriale sono le persone a dare il valore della cultura al patrimonio, quando viene a mancare il patrimonio culturale immateriale si ha un impoverimento del proprio patrimonio culturale (questo evento esiste e ne ha dato prova la pandemia, quando tutti gli eventi sono stati annullati.) IN SOSTANZA: 1. Il patrimonio culturale è costituito dai beni culturali e dai beni paesaggistici 2. Sono beni culturali le cose immobili e mobili che, ai senso degli articoli 10 e 11, presentano interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico e le altre cose individuate dalla legge o in base alla legge quali testimonianze aventi valore di civiltà 3. Ai sensi dell’art.2 comma terzo del Codice, sono beni paesaggistici gli immobili e le aree indicati all’art.134, costituenti espressione dei valori storici, culturali, naturali, morfologici ed estetici del territorio e gli altri beni individuati dalla legge o in base alla legge 4. I beni del patrimonio culturale di appartenenza pubblica sono destinati alla fruizione della collettività, compatibilmente con le esigenze di uso istituzionale e sempre che non vi ostino ragioni di tutela. Cosa è un bene culturale di insieme? E’ un insieme culturale di beni che trovano nella loro unità il valore culturale, ad esempio un archivio o una collezione o una raccolta, i quali hanno un valore culturale che il singolo bene non ha. E’ un insieme di beni considerati nella loro collettività. Per quanto riguarda il concetto di collezione, i vari pezzi devono avere qualcosa in comune; una serie di anfore ad esempio deve essere dello stesso periodo per essere definite collezione. il valore delle collezioni “trascende il valore intrinseco dei singoli ‘pezzi’ dei quali sono composte” e “può concernere pure alla serie di beni, o insiemi o gruppi di cose tra loro collegate da un elemento storico o artistico comune, oltreché connotate da criteri di omogeneità, di affinità o d’identità di destinazione funzionale (quand’anche non si rinvenga prima face un ordinato e predefinito disegno organizzativo) e che, considerate nel loro complesso, esprimano rilevanti interessi culturali, storici o artistici”. “Quando i beni rivestono carattere di omogeneità e affinità, ovvero presentano un comune contenuto tematico la cui lettura è consentita solo dalla conservazione del carattere unitario del complesso di cose; detti beni poi devono essere conservati in un unico luogo e devono essere collegati tra loro sotto il profilo storico e artistico” PER AVERE UNA COLLEZIONE: -È necessario avere un elemento storico o artistico comune; -Omogeneità o affinità di destinazione funzionale; -Disegno organizzativo; -Comune contenuto tematico; -Considerandole nel loro complesso e insieme se ne preserva il valore. L’archivio è un complesso di atti e documenti prodotti o acquisiti da un ente o un soggetto pubblico o privato, uniti da un vincolo archivistico di organicità e unicità. Un archivio può essere corrente o storico (documenti con più di 40 anni), ma non tutto ciò che è corrente pasa nell’archivio storico. È bene d’insieme perché il valore è dato dal complesso organico: la risorsa culturale risiede nella «narrazione» che deriva dalla logica consequenzialità degli atti. La tutela e la valorizzazione Articolo 3 1. La tutela consiste nell'esercizio delle funzioni e nella disciplina delle attività dirette, sulla base di un'adeguata attività conoscitiva, ad individuare i beni costituenti il patrimonio culturale ed a garantirne la protezione e la conservazione per fini di pubblica fruizione. 2. L'esercizio delle funzioni di tutela si esplica anche attraverso provvedimenti volti a conformare e regolare diritti e comportamenti inerenti al patrimonio culturale. PROCESSO: -Adeguata attività conoscitiva -INDIVIDUARE i beni -GARANTIRNE la protezione e la conservazione anche attraverso una LIMITAZIONE/ CONFORMAZIONE/REGOLAZIONE di diritti e comportamenti La tutela consiste nella prevenzione, nella manutenzione e nel restauro. Si esplica pertanto in: -riconoscimento, tramite il procedimento di verifica o dichiarazione dell’interesse culturale di un bene, a seconda della sua natura proprietaria; -protezione; -conservazione. La conservazione è ogni attività svolta con lo scopo di mantenere l’integrità, l’identità e l’efficienza funzionale di un bene culturale, in maniera coerente, programmata e coordinata. Si esplica pertanto in: -studio, inteso come conoscenza approfondita del bene culturale; -prevenzione, intesa come limitazione delle situazioni di rischio connesse al bene culturale nel suo contesto; -manutenzione, intesa come intervento finalizzato al controllo delle condizioni del bene culturale per mantenerlo nel tempo; -restauro, inteso come intervento diretto su un bene culturale per recuperarne l’integrità materiale. La tutela è di competenza esclusiva dello Stato, che detta le norme ed emana i provvedimenti amministrativi necessari per garantirla; la valorizzazione è svolta in maniera concorrente tra Stato e regione, e prevede anche la partecipazione di soggetti privati. Articolo 6, la valorizzazione 1. La valorizzazione consiste nell'esercizio delle funzioni e nella disciplina delle attività dirette a promuovere la conoscenza del patrimonio culturale e ad assicurare le migliori condizioni di utilizzazione e fruizione pubblica del patrimonio stesso, anche da parte delle persone diversamente abili, al fine di promuovere lo sviluppo della cultura. Essa comprende anche la promozione ed il sostegno degli interventi di conservazione del patrimonio culturale. In riferimento al paesaggio, la valorizzazione comprende altresì la riqualificazione degli immobili e La pianificazione paesaggistica: le regioni svolgono i compiti loro affidati in materia di tutela e valorizzazione del paesaggio sottoponendo l’uso del territorio ad una specifica regolamentazione. Ciò avviene mediante l’approvazione di piani paesaggistici o di piani urbanistico- territoriali, riguardanti l’intero territorio regionale. Con riferimento ai beni paesaggistici, il piano definisce le trasformazioni compatibili con i valori paesaggistici, le azioni di recupero e di riqualificazione degli immobili e delle aree sottoposte a tutela, e gli interventi di valorizzazione del paesaggio, anche in relazione alle prospettive di sviluppo sostenibile. Per la Corte Costituzionale “ambiente” e “paesaggio” sono termini endiadi, anche se non si possono negare le sostanziali differenze tra i 2: l’ambiente si rifa alla conservazione della biosfera ad agenti chimici, fisici, biologici, matrici ambientali, mentre il paesaggio è sostanzialmente quello che l’ambiente significa per l’uomo. Le violazione di obblighi o divieti su beni paesaggistici comportano scelte discrezionali dell’amministrazione tra reintegrazione e pagamento di somma (con eventuale esecuzione in danno). Alcuni problemi che riguardano i beni paesaggistici sono la monetizzazione degli standard, l’urbanistica contrattata, opere a scomputo, la furia costruttrice e la rigenerazione urbana. Il sistema delle fonti Le fonti sono l’insieme delle regole che disciplinano una certa materia. Le principali fonti del diritto dei beni culturali hanno come norma primaria il Codice dei beni culturali e del paesaggio e altre norme sporadiche che disciplinano aspetti specifici. La Costituzione è la norma fondamentale della Repubblica italiana, e parla di cultura nell’art 9 e nell’art 117, dove specifica di cosa si occupano le regioni. Sotto la Costituzione ci sono le leggi. Le leggi in materia di beni culturali sono molte, ma è importante conoscere principalmente il Codice dei beni culturali perché contiene la conoscenza sufficiente per comprendere l’universo del diritto dei beni culturali. L’art 9 ci parla dello sviluppo della cultura e della ricerca scientifica e tecnica dunque non dei beni culturali nello specifico, ma dell’attività di produzione culturale, che deve essere incentivata. Ci spiega che il paesaggio e il patrimonio storico e artistico (espressione ripresa della legge Bottai) sono tutelati. La Repubblica (ossia lo stato-ordinamento) è tenuto a rispettare tale norma. Dunque la legge ha una dimensione di tutela e di sviluppo dell’attività culturale: è una norma programmatica che impone al legislatore di programmare le attività culturali. Nello sviluppo della cultura non si può prescindere dal rapporto tra i privati. Oggi si parla molto del rapporto tra pubblico e privato e della cultura collaborativa (anche i musei stanno diventando collaborativi). Non solo lo stato centrale fa delle leggi, ci sono anche leggi fatte anche dalle regioni, che sono dello stesso livello e della stessa capacità normativa dello stato. La Costituzione stabilisce che di alcune cose se ne occupa lo stato e di altre se ne occupano le regioni. È sbagliato pensare di applicare le stesse leggi per tutte le regioni, e ci si deve basare soprattutto su quello che può offrire quella regione. Ad esempio, è sbagliato pensare di voler imporre un prezzo minimo o massimo a tutti i musei, perché i musei grandi e importanti, come gli Uffizi, continueranno a guadagnare anche se il biglietto ha un prezzo alto, ma se quello stesso prezzo è applicato per i musei locali, questi rischiano sicuramente di chiudere. Nel 2001 è stato modificato l’art della Costituzione e si sono dati molti più poteri alle regioni. Lo stato ha legislazione esclusiva su alcune materie specifiche (che hanno soprattutto a che fare con il denaro). È riservata allo stato la tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali. C’è poi la competenza concorrente, per cui lo stato dà le disposizioni generali, e la regione se ne adegua e va nel dettaglio. La promozione e la valorizzazione delle attività culturali spettano alla competenza concorrente di stato e regione. A livello centrale c’è infatti meno informazione su come favorire quella regione, mentre a livello locale si può valorizzare in modo ottimale. In Italia la regione fa le leggi dello stesso livello dello stato e se questo invade la competenza regionale con una legge che doveva essere fatta dalla regione, quella legge può venire annullata perché va contro la Costituzione, ovvero è incostituzionale. La tutela e la valorizzazione pur essendo diverse, sono ontologicamente legate; in sostanza quando si tutela si deve avere in mente anche la valorizzazione e viceversa. Le due attività se pur distinte, sono tra di loro interconnesse e le proprie politiche devo essere pensate contiguamente. In teoria lo stato dovrebbe solo dettare i principi, è la Regione che dovrebbe occuparsi della valorizzazione. La legge è poi sottoposta alla Corte costituzionale, che decide se la legge è conforme alla costituzione oppure no. Individuazione dei beni culturali Nel CDBCEDP ci sono le definizioni generali dall’art 1 al 9, dopodiché troviamo una parte dedicata ai beni culturali, una ai beni paesaggistici, una alle sanzioni e una alle disposizioni transitorie. Nell’attività di tutela, espressa dall’art 3, rientra l’attività di individuazione: l’attività di decidere se un bene culturale è tale o meno è individuato nella tutela, mentre la sua gestione si ritrova nella valorizzazione. Un bene può essere umanisticamente tale, ma per essere protetto dallo stato giuridicamente è importante riconoscerne la natura culturale da esperti del settore. Essenzialmente il procedimento svela un valore che il bene già ha. Il Codice non definisce chiaramente questa natura culturale, per ogni procedimento un esperto della materia sarà capace di rilevare o meno il valore culturale. Distinguiamo i beni dichiarati dallo stato e quelli tutelati ope legis, anche se non riconosciuti. L’individuazione funziona in maniera diversa in base a se si stiano trattando beni di soggetto pubblico (regioni, province, enti ecclesiastici etc) o di soggetto privato. Per i beni privati, il bene non è giuridicamente culturale fino a quando non c’è un provvedimento amministrativo espresso che tale lo dichiara, ovvero la dichiarazione di interesse culturale (DIC), altrimenti il bene non è tutelato come bene culturale. La DIC imprime il valore culturale: è ovvio pero che dal punto di vista umanistico, esso possa essere comunque bene culturale, ma giuridicamente le norme del codice si attivano nel momento in cui si attiva la DIC, prima il bene si presume non culturale. La DIC richiede anni, per cui dal omento in cui il provvedimento si attiva, si cominciano comunque ad attivare le norme, in modo che al bene sospetto di culturalità non possa accadere nulla. Un bene di soggetto pubblico che abbia interesse culturale, sia opera di autore non più vivente e risalga a più di 70 anni fa, è soggetto transitoriamente alla disciplina come se fosse un bene culturale. Si parla dunque di tutela provvisoria, ma non è detto che ciò che rispetta questi parametri abbia effettivamente valore culturale, che deve essere accertato. In questo caso si parla di VIC, verifica di interesse culturale. Provvisoriamente comunque quel bene non si può demolire, vendere eccetera senza l’autorizzazione del ministero. La VIC può essere utile anche per eliminare quell’ipotetico interesse culturale e dunque procedere con le nostre attività. Se la VIC è positiva, il bene è culturale per sempre, ma se è negativa, si può fare tutto ciò che vuole con il bene culturale. Se nessuno fa richiesta di VIC, la tutela provvisoria rimane in eterno. Se si muore senza eredi, e un bene privato con VIC negativa diviene di proprietà dello stato (come accade quando appunto si muore senza eredi), questo gode di tutela provvisoria. Nell’ambito della VIC basta un semplice interesse culturale, anche standard, mentre nella DIC serve un interesse culturale particolarmente rilevante, in quanto si fa riferimento ai privati. La culturalità non è una verità assoluta, non è immutabile e insensibile. Siamo abituati a pensare che la culturalità è assoluta, essa c’è oppure no; su di essa incide perfino chi è il proprietario, a seconda di se è privato o meno. Sono soprattutto i privati quelli che hanno interesse ad avere la VIC, e per loro solitamente conviene che essa sia negativa, in modo da poter effettuare i propri progetti senza rischiare di commettere dei reati contro i beni culturali. Procedimento di DIC (beni privati) Il soprintendente competente del territorio avvia il procedimento DIC. Dunque si ha la prima fase, ovvero l’avvio del procedimento, che per legge assicura la protezione del bene fino alla decisione del procedimento medesimo, dunque si applicano le misure cautelari. Dopo l’avvio, si ha la fase istruttoria. La fase istruttoria è l’insieme di quelle attività volte a decidere sul procedimento che ha dei funzionari specializzati in archeologia, paesaggio, storia dell’arte, archivistica etc. Questi specialisti specifici hanno vinto dei concorsi e vanno contattati ogni qual volta si considera il bene nel suo campo. Il funzionario specifico dopo aver esaminato il bene, stila la relazione storico artistica. In essa vi è descritta la storia, solitamente più la relazione è enfatica, più è probabile che sia positiva. Dunque il funzionario stila questa relazione, rimessa al suo soprintendente, che la rimette all’organo regionale composto da tutti i sopraintendente (COREPACU), che possono deliberare positivo o negativo. In caso positivo, l’atto è trasmesso al segretario regionale che emette il decreto di DIC. Tale decreto è comunicato all’interessato e imprime definitivamente il valore culturale, concludendo il procedimento, Un bene privato riconosciuto come culturale limita gli interventi del proprietario, che è obbbligato dal Ministero a svolgere alcune attività; in generale limita il diritto di proprietà: non è raro che il proprietario si opponga e faccia scrivere una relazione di parte che tenta di demolire l’interesse culturale, spesso cercando di insistere sulla natura minore di quel bene. IN BREVE: la DIC dichiara i beni privati. Il codice dichiara che possono essere dichiarati beni culturali se c’è un particolare interesse culturale, che viene accertato dal Ministero della Cultura, il quale ha degli organi periferici, le Soprintendenze. Il procedimento è avviato dal soprintendente locale (SACAP) dove si trova il possibile bene: notifica al proprietario del sospettato bene e lo si avvisa che si stanno facendo delle indagini e si stanno già avviando delle tutele culturali, per cui intanto che si decide, il proprietario non può distruggere o esportare il bene culturale. Se ci si sdimentica di attuare le misure cautelari, il proprietario spesso può esportare il bene se questo è mobile o distruggerlo, per cui il funzionario deve stare molto attento a non dimenticarsi; nel caso lo faccia dovrà rimetterci i soldi alla Corte dei Conti. Lo studioso valuta dunque il bene e ne evidenzia le caratteristiche e la storia. È importante studiare anche i profili della culturalità per considerare meglio il bene. Ci sono infatti beni che hanno valore culturale soggettivo o oggettivo, ovvero che prescinde dalle varie vicende storiche in cui quel bene è stato coinvolto (un’anfora romana è un bene culturale a prescindere, mentre un elmo della prima guerra mondiale non è un bene, se non ha una storia individuale celebre, in quel caso ha un valore culturale soggettivo diverso). Lo studio essenzialmente definisce se un bene è culturale o meno ed è affidato agli specialisti del settore. Solitamente lo studio inizia dal cosiddetto momento diagnostico; ricostruita la storia del bene si fa la diagnosi del suo attuale stato di conservazione. Siccome il bene ha importanza per tutta la comunità, esso deve essere tramandato a future generazioni: è proprio questo il senso dell’attività di tutela. Finito questo stadio, si passa alle attività di prevenzione, manutenzione e restauro. La prevenzione si distingue dalla manutenzione poiché il danno ancora non c’è e vuole evitare che si crei, nella manutenzione il danno è insorgente e si evita che questo progredisca. La carta del restauro del 1987 prevede che la manutenzione mantenga le cose di interesse culturale in condizioni di integrità e funzionalità, specialmente dopo che abbiano subito interventi. Conservare materialmente il bene ma non mantenerne una funzione originale comporta una perdita del valore culturale. L’attività di restauro prevede che il danno fattuale sia ripristinato, insieme alla sua integrità compromessa. È un’attività a cavallo con la valorizzazione, secondo alcuni non è un’attività di tutela, poiché è un intervento additivo: il restauratore interviene su esso e non commettere errori che pregiudicano il bene. Per sapere com’era il bene e avviare l’attività di restauro, è necessario studiare a fondo la storia per capire come fosse in origine, specie se l’opera è completamente deteriorata, attraverso prove come fonti o prove fisiologiche. Ovviamente questo vale solo per l’Italia, ogni Paese ha una teoria del resturo diversa; in Cina ad esempio l’importante è ricostruire l’esperienza, per cui se si trova un muretto di un castello, si demolisce quel poco che si è trovato per ricostruire tutto in versione “posticcia”. Il restauro richiede competenze tecniche che riportino il valore perduto, dunque una certa manualità. L’unica professione che la legge protegge nel settore dei beni culturali è il restauratore: dunque c’è un albo e solo chi ha il titolo di restauratore può procedere sui quei beni deteriorati. Un bene può essere esportato anche se inasportabile, se ciò significa che otterrà restauri fondamentali all’estero. I professionisti hanno uno specifico titolo dunque e la loro professione è protetta. A volte è necessario intervenire su un bene culturale, sia sui mobili che sugli immobili. L’art 19 prevede il potere del soprintendente di ispezionare in qualunque momento o un bene già dichiarato tale o un bene sospettato di maltrattamento (che viene tenuto male). L’ispezione verifica lo stato della conservazione. Violazioni della tutela -Violare le norme che proteggono i beni culturali, le quali comportano le responsabilità penali, specie a seguito della legge 22 del 2022 -Distruzione del bene culturale -Interventi non consentiti -La rimozione dei beni culturali innestati (come i beni d’insieme, che hanno valore solo se non smembrati) -Uso illecito del bene culturale o riproduzione illecita -Traffico illecito dei beni culturali senza il rispetto delle norme -La vendita dei beni senza il rispetto delle comunicazioni previste (dunque senza avvisare il Ministero che lo potrà comprare) Interventi Quando un bene è dichiarato culturale o presunto culturale, gli interventi su di esso di qualunque tipo non possono eseguirsi liberamente come su un bene tradizionale. Solitamente dato un bene, i primi interventi che si compiono sono quelli volontari. Un intervento può essere finalizzato alla conservazione del bene, oppure può essere di volontà, di volontà del proprietario. Alcuni interventi sono vietati in tutti i casi, neanche con autorizzazione: la distruzione, il deterioramento, il danneggiamento, la modifica funzionale di un bene culturale immobile (modificarne la funzione di uso in maniera radicale fa perdere valore culturale). Il valore culturale del bene si compone anche dell’aspetto immateriale della sua funzione. Solo un esperto della materia può definire cosa è un danneggiamento, un deterioramento eccetera. Ci possono essere 2 casi di interventi. L’intervento può essere pubblico (tutelato provvisoriamente o con VIC) o privato (DIC già positiva). C’è un primo gruppo di interventi, ovvero interventi volontari, quando il proprietario vuole modificare quel bene: può farlo solo se autorizzato dal sopraintendente. Gli interventi volontari sono sempre soggetti all’autorizzazione del Soprintendente. Il privato che intende fare un intervento presenta una relazione tecnica, accompagnata da un progetto in cui illustra fase per fase l’intervento che intende seguire. Presentata questa relazione, il soprintendente affida il caso a un funzionario, che si occupa di capire se quell’intervento mette in pericolo il bene culturale: l’intervento deve essere o indifferente ai fini della tutela o valorizzante ai fini della tutela, in ogni caso non deve andare contro la tutela. Il proprietario chiede dunque l’autorizzazione, che viene scritta del soprintendente, presentando la richiesta di un progetto esecutivo, fatta da un ingegnere, in cui è descritto fase per fase ciò che intende fare e una relazione tecnica scientifica sulla compatibilità del progetto, affinché non vada a impattare il bene (chiesta a uno storico dell’arte). Normalmente il proprietario fa fare una per valutazione dal tecnico in cui valuta se gli conviene chiedere un’autorizzazione, visto che spende molto per consultare queste persone.. Il funzionario competente stila una relazione, sulla base della quale il soprintendente può rilasciare o meno l’autorizzazione che può imporre delle prescrizioni, e che dura 5 anni, dopo i quali il Soprintendente può revocarla o modificarla. Di norma l’intervento è monitorato da un funzionario, uno storico dell’arte, e si può imporre anche che ogni mese si debba scrivere una relazione sul procedimento dei lavori. Gli interventi possono essere urgenti o non urgenti, di interesse pubblico o meno. Il soprintendente dovrà dichiarare se l’interesse è pubblico o se è solo frutto di una volontà di un privato, perché se l’intervento è assolutamente necessario per la conservazione del bene, si può accedere a un fondo presso il Ministero della cultura. L’accesso a questo finanziamento comporta l’obbligo di rendere il bene fruibile, secondo un accordo che se non si raggiunge, viene sostituito da una decisione unilaterale del Ministero. Il soprintendente può effettuare l’ispezione del bene in qualsiasi momento. Il soprintendente valuta anche se il provvedimento era necessario: in quanto se lo è l’intervento può ricevere il finanziamento pubblico. Se l’intervento è per volontà del proprietario, lo stato non ci finanzia, ma se l’intervento è necessario e riconosciuto dal Soprintendente ci può finanziare, in quel caso, però il bene sarà necessario renderlo visitabile da parte del pubblico. Alcuni interventi, come quelli di distruzione, deterioramento o danneggiamento, non possono essere compiuti o autorizzati e determinano la responsabilità penale di chi li ha eseguiti, così come non si può cambiare la funzione di un bene se non autorizzata. Per gli archivi si ha il divieto di smembramento poiché il valore ne dipende. CASO PARTICOLARE: se il nostro bene si sta distruggendo e si sta aspettando l’autorizzazione, che generalmente arriva entro un anno, si dovrà procedere a un intervento volontario eccezionale, senza richiedere l’autorizzazione ma comunicandolo subito alla soprintendenza, che ci darà un’autorizzazione postuma. Se la soprintendenza, verificato l’intervento urgente, non ritiene che l’intervento dovesse essere immediato, l’intervento sarà considerato illecito e dunque reato. Non bisogna abusare della clausola d’urgenza. L’intervento può poi essere imposto: il bene è di interesse pubblico, per cui il ministero può imporre al proprietario degli interventi a sue spese. Il ministero di base non è a conoscenza del danneggiamento del bene qualora ci fosse, può esserlo nel caso si decidesse di ispezionarlo. Se il danneggiamento c’è, è il proprietario che se ne deve occupare; se però il ministero viene a conoscenza di un danno attraverso un’ispezione, questo può ordinare degli interventi. La segnalazione può anche avvenire in maniera anonima da parte del pubblico, che avvisa il ministero il quale invierà un funzionario per accertamenti. Questo significa che se c’è un pericolo urgente per il nostro bene, e si è obbligati a ripararlo, il soprintendente ci notifica l’avvio del procedimento imposto. Gli interventi imposti sono quelli che il ministero impone ai proprietari per esigenze di tutela: il soprintendente redige un decreto in cui obbliga il proprietario a eseguirli, se il provvedimento è molto complesso e richiede un monitoraggio costante, si anticipa al proprietario che se ne occuperà lo stato a sue spese. Si può accedere a un fondo pubblico, solo se si decide di rendere pubblico un bene di nostra proprietà. Se l’intervento è di particolare complessità, il Ministero ci anticipa che lo eseguirà lui a nostre spese. Inoltra poi una relazione tecnica con le fasi da rispettare e le spese da attuare sul bene e assegna un termine per la presentazione di un progetto entro 90 giorni, che se non viene presentato, sarà attuato dal Ministero a nostre spese (si dice che il Ministero procede in proprio). Se il progetto è eseguito può essere rifiutato o approvato; viene rifiutato nel caso si siano assegnate i termini e le prescrizioni che se non vengono rispettate, e il Ministero procederà in proprio, così come se il progetto viene lasciato a metà. Se il soprintendente accetta il progetto, lo approva con un procedimento definitivo, in cui assegna termini e prescrizioni, imponendo magari i materiali da usare eccetera. Se le prescrizioni non sono rispettate, si violano le norme, si fanno interventi vietati, il ministero revoca l’autorizzazione poiché eseguiamo un reato e esegue il tutto in proprio a nostre spese. Normalmente l’intervento imposto riguarda situazioni già molto gravi, è raro che con un minimo danneggiamento la soprintendenza intervenga, per cui il Ministero nel caso ce ne sia l’occasione, indaga su se ci sia stata negligenza da parte del proprietario, che non si è curato di tutelare il bene, e in questo caso il ministero può fare anche una denuncia penale nei suoi confronti. Tutela sui beni mobili -Garanzia di accesso e visita -Vescovo presenta ai soprintendenti programma di interventi e richieste di rilascio di autorizzazioni Archeologia preventiva Le ricerche archeologica di norma si fanno nel caso in cui ci siano sospetti di presenze archeologiche: il ministero si occupa degli scavi (come sappiamo solo il Ministero può condurre le attività archeologiche). Spesso mentre si fanno dei movimenti di edilizia, questi beni possono uscire casualmente. Tra gli anni 60 e 70 si sono fatte grandi opere pubbliche, come le autostrade e gli acquedotti, e man mano emergevano beni archeologici che rendevano difficile il proseguimento dei lavori. Al che gli studiosi hanno elaborato il concetto di archeologia preventiva. Gli studiosi hanno quindi fatto carte archeologiche delle aree che cercano di prevedere tramite i dati storici i luoghi dove potrebbero essere collocati i beni archeologici. Se ad esempio varie fonti ci dicono che in una determinata zona sorgeva una ricca area nell’antichità, è normale che prima che quell’area sia soggetta a lavori si faranno numerosi scavi, onde evitare la cosiddetta “sorpresa archeologica”. Ovviamente non sempre questi tentativi sono corretti, ma sono spesso utili per capire dove non si dovrebbe costruire. L’archeologia preventiva viene prima dell’opera pubblica allo scopo che questa non crei disagi al seguito di ritrovamenti archeologici durante i lavori. In sostanza quando si deve realizzare una grande opera in un’area di potenziale interesse archeologico, chi sta organizzando il progetto deve trasmettere una relazione di un archeologo o al dipartimento di archeologia alla soprintendenza territoriale. Il soprintendente riceve la relazione dell’ente e può decidere di avviare provvedimenti di indagine non facendo iniziare i lavori,(si dice che avvia la procedura di verifica preventiva) oppure se ritenere non sussiste l’interesse archeologico e far proseguire i lavori. Si inizia con gli scavi lineari e si può arrivare agli scavi per esteso, per evitare che le presenze archeologiche possano manifestarsi durante i lavori con conseguente sorpresa archeologica, che bloccherebbe tutti i lavori. Gli scavi si sviluppano in fasi progressive, si passa alla successiva se nella precedente sono emersi elementi. Se la relazione prevede che non ci sia interesse archeologico, il lavoro procede, altrimenti saranno necessarie indagini e scavi ulteriori. Se emergono elementi alla fine di ciascuna fase di lavori, che giustificano la possibilità che possa esserci qualcosa, le procedure si fanno più evasive e si può arrivare allo scavo di estensione, ovvero scoperchiare tutto per vedere cosa c’è effettivamente. L’attività preventiva non può azzerare i ritrovamenti, certo è che i rischi si minimizzino ed è riservata agli enti pubblici. Al privato non conviene fare scavi per le sue opere, perché nel caso si trovino beni durante i lavori, tutto si interrompe, e lui perde i soldi che aveva investito per la suddetta opera. Precedentemente, se si doveva fare un’opera pubblica, questo processo non c’era e si cominciava direttamente l’opera; poi piano piano si scoprivano i reperti e si avevano molti disagi. Ora invece c’è una fase iniziale in cui si fa uno studio prodromico, sulla cui base se ci sono sospetti archeologici, la soprintendenza può ordinare studi ulteriori, progressivamente più evasivi. Alla fine di tutti saggi, è redatta una relazione archeologica definitiva: se ci sono ritrovamenti, il progetto originario può essere rivisto o annullato, oppure il soprintendente può dare le misure per garantire comunque l’opera, come l’asportazione, modificazione e musealizzazione dei beni archeologici ritrovati in favore dell’opera pubblica, specie se questa è essenziale per la comunità. Se l’opera pubblica è però troppo importante si può procedere al reintero: il soprintendente reputa l’interesse pubblico più importante e le nostre ricerche passano in secondo piano. Proprietà dei beni culturali Un bene culturale di proprietà di un privato è protetto dall’amministrazione culturale che può imporre limiti nella prescrizione della tutela attraverso la Dichiarazione di Interesse culturale, altrimenti, nel caso di ulteriori prescrizioni, il bene può venire espropriato. Il bene si espropria quando esiste un rischio concreto per la tutela del bene medesimo. Tendenzialmente si preferisce adottare la DIC che lascia il bene nelle mani del privato, proteggendolo e tutelandolo, in modo che tutta la responsabilità cada sul privato, invece che sullo Stato, per cui la proprietà diventa un onere di gestione. L’espropriazione fa sì che il privato perda la proprietà in favore dello stato: bisogna però assicurargli un’indennità che gli attribuisca un valore concreto. Si può espropriare anche nel caso in cui il ministero possegga tutta una serie di beni e gliene manchi solo uno per esigenze a di valorizzazione. Ad esempio, se lo stato possiede una serie di ville rinascimentali, potrà espropriare l’unica villa di quella serie che possiede il privato in modo da poterla inserire nel suo piano di valorizzazione insieme a quelle che già gli appartengono. In quel caso la villa è espropriata per ragioni di fruizione. Essendo che il bene ha una dimensione anche pubblica, la sua proprietà può essere sottratta e affidata allo stato. Essa ha un impatto su un diritto assoluto, ovvero la proprietà, per cui non è usuale espropriare. Dal 2000 in poi siamo entrati in un corso in cui preso atto della non sempre efficacità delle Pubbliche Amministrazioni, molti beni pubblici vengono lasciati ai privati e a maggior ragione si evita di espropriare. L’intero codice si basa sulla DIC e sulla culturalità presunta dei beni pubblici, sistema ibrido in cui la proprietà è limitata, vincolare e soggetta a degli obblighi. La DIC è stata ideata con la finalità di tutelare i beni culturali senza acquisirne la proprietà nella sfera pubblica: la DIC lascia invariato il regime della proprietà, ma limita il modo in cui i diritti di proprietà si esprimono, per cui non si possono fare interventi senza autorizzazione etc, ma la proprietà resta di base invariata. La DIC è imposta per garantire l’interesse pubblico ed è molto efficace: il privato non può fare nulla senza l’autorizzazione dello stato, e nel caso di danni, lo stato può obbligarlo a interventi a sue spese. Tuttavia l’espropriazione esiste ancora oggi, ma si tratta di una misura eccezionale, attivata come misura subordinata come possibilità quando la DIC non basta, quando non dà sufficiente garanzia. L’espropriazione è infatti un rimedio subordinato tendenzialmente quando ci sono esigenze di protezione e valorizzazione. L’espropriazione si effettua con un provvedimento amministrativo ablativo, che appunto comprime il diritto di proprietà. A fronte dell’espropriazione deve essere pagata l’indennità. Per circolazione dei beni culturali, intendiamo invece la dislocazione e trasferimento della loro proprietà da un soggetto all’altro. Dichiarazione di interesse culturale: Conforma la proprietà, quando è sufficiente a garantirne la tutela. Espropriazione: È ablativa della proprietà, quando ricorre un importante interesse per tutela ai fini della fruizione pubblica, dunque non solo nella prospettiva della tutela, quando c’è un rischio per il bene, ma anche nella valorizzazione e la fruizione. Ad esempio se sappiamo che un privato ha un quadro che viene maltrattato, lo stato glielo espropria per ragioni di tutela. Esiste poi una forma di espropriazione funzionale: poniamo il caso che ci siano delle aree in cui si sospetta la presenza di beni o che siano vicine a aree dove ci sono altri beni tutelati, si può effettuare un’espropriazione funzionale al fine di tutela indiretta. Ad esempio: se si ha un castello pubblico e intorno si ha un’area verde, la si può espropriare per garantire la visibilità, per motivi di restauro, per facilitare l’accesso eccetera. È lo stesso discorso della tutela indiretta, nel caso in cui la cornice esterna sia necessaria per garantire l’indennità. L’espropriazione puntuale riguarda il bene culturale, in questo casa l’area non ha un interesse culturale ma viene espropriata per la fruizione del bene in sé. Si impone una tutela indiretta inoltre anche per garantire il cono visivo del bene culturale: se un’area è vuota e si trova vicino a un bene, lo stato impone una tutela sull’area vuota che potrebbe essere usata per scopi pubblici rovinando la vista. Espropriazione di aree archeologiche Di norma il ministero espropria quando non può occupare temporaneamente le aree o anche per ricerche archeologiche (fin dai tempi della legge Rosadi). Il ministero dà in concessione l’esecuzione delle ricerche a società private, scelte attraverso un bando. La società archeologica è legata a un contratto con lo stato. La ricerca è riservata allo stato, ma la CONCEDE a una società privata. L’autorizzazione invece prevede che lo stato ti autorizzi a fare qualcosa, che non è suo compito esclusivo. Le ricerche archeologiche sono compiute nelle aree libere di proprietà dei singoli privati, ma se il ministero decide di fare uno scavo in un’area privata, ha due opzioni: o occuparla temporaneamente e terminate le indagini la restituisce, o la espropria a fini archeologici. Il ministero di norma occupa temporaneamente sia le aree libere che gli immobili (che verranno dunque demoliti nel caso sia necessario: di norma nel caso di immobili, è necessario espropriare la casa, pagandola al proprietario, perché l’occupazione temporanea prevede sempre la restituzione del bene, che in questo caso non sarebbe possibile) e motiva con le fonti le sue funzioni, dando dei termini proporzionali a ciò che si intende fare: lo stato tramite il ministero occupa un’area temporaneamente per svolgere le indagini. Si comincia sempre con un’occupazione temporanea, iniziando con scavi lineari per capire cosa c’è: nel momento in cui ci rendiamo conto che i reperti sono sostanziosi, si avrà il provvedimento di espropriazione per motivi archeologici. Se invece i ritrovamenti sono sporadici, li si asporta, li si musealizza e si paga al proprietario l “affitto” del tempo in cui si è rimasti sul suo terreno. Se i ritrovamenti sono sostanziosi e numerosi e magari inamovibili per cui il sito che dovrà andare musealizzato (trasformato in un parco archeologico), si può procedere a un’espropriazione irreversibile, in quanto l’occupazione temporanea non sarebbe possibile. La legge dice che si possono espropriare le aree nel caso i beni archeologici che si possono trovare siano inamovibili, in modo da poterla musealizzare in loco. Se il bene invece è mobile, si procede a un’occupazione temporanea. L’occupazione serve sia per scopi funzionali sia per ricerche archeologiche e al proprietario è assicurata l’indennità. Solo lo Stato può fare le ricerche archeologiche: esso le dà in concessione a una società privata di archeologia, preceduta da un provvedimento amministrativo, che autorizza il privato a fare le indagini archeologiche con un contratto che regola lo svolgimento. Se il concessionario non rispetta le prescrizioni, la concessione è revocata, e il ministero procede in proprio. Circolazione internazionale dei beni culturali La circolazione internazionale consente la fuoriuscita dei beni culturali (attraverso compravendite oppure quando il proprietario porta il bene all’estero senza venderlo) dal territorio nazionale. Tendenzialmente la fuoriuscita di un bene culturale dallo stato è considerata come un danno o una lesione e si può fare solo con determinati limiti. C’è un sistema di monitoraggio internazionale, approvato dalla costituzione di Nicosia: le soprintendenza si occupano di ciò tramite gli uffici esportazione, che si occupano di tutte le istanze relative a beni che stanno uscendo o vorrebbero dal territorio nazionale. Le pratiche in questione sono tantissime, quotidianamente i beni migrano temporaneamente o definitivamente. A volte, beni che fuoriescono temporaneamente non ritornano più nel territorio, c’è il rischio quindi che il bene possa non tornare. La fuoriuscita del bene rappresenta un depauperamento del valore collettivo nazionale. Ecco perché la fase più delicata è proprio l’esportazione, mediata da un organismo pubblico, ovvero l’ufficio esportazione del ministero della cultura. A livello internazionale c’è una rete tra gli uffici analoghi di tutti gli stati. L’art 64 bis prevede forme di controllo sulla circolazione dei beni culturali. L’uscita è definitiva quando il bene presumibilmente resterà per sempre all’esterno. L’uscita definitiva è limitata o vietata, nel caso i beni abbiano in corso la notifica di interesse culturale, e per i beni indicati nei primi 3 commi dell’art 10, tra cui i beni di interesse culturale dichiarati con la DIC, anche qualora essa sia ancora in corso. Quando un bene rappresenta una componente essenziale del patrimonio culturale nazionale, il ministero può vietarne l’uscita per un periodo temporale con un provvedimento amministrativo. Può stabilire ad esempio che le opere di un artista non debbano uscire dal territorio per un tot di anni, per esempio quando appartengono a collezioni di autori o epoche su cui si stanno facendo indagini ulteriori o se appartengono a una collezione che è sempre stata in Italia. Ci sono poi dei beni che sono soggetti a autorizzazione ministeriale, ovvero che hanno un interesse culturale, opera di autore non più vivente e risalenti a più di 70 anni, ed occorre valutare il loro valore. Per i beni con con valore superiore a 13.500 euro si dovrà avere un’autorizzazione, ovvero l’attestato di libera circolazione; per le fuoriuscite dei beni con valore inferiore a 135000 euro, non serve l’autorizzazione. Sotto i 13.500 euro basta una semplice dichiarazione di valore per la fuoriuscita in cui si riporta che il valore è inferiore, altrimenti è necessaria l’autorizzazione del soprintendente: il ministero lo potrà comprare e avviare un procedimento di DIC e valutare il bene come inasportabile. Tutta questa procedura in Italia è gestita su cartaceo, al contrario degli altri stati. L’autorizzazione è sempre richiesta quando si esportano: -Archivi e documenti di interesse culturale -Fotografie -Mezzi di trasporto aventi più di 75 anni -Strumenti per la scienza aventi più di 50 anni Quando si richiede l’autorizzazione, l’ufficio esportazione rilascia un attestato di libera circolazione: il bene in relazione al quale si chiede l’esportazione va esportato presso l’ufficio esportazione. Qui l’ufficio può anche espropriare il bene, porre delle tutele o avviare il processo di verifica culturale, per cui ci si espone a un rischio. L’attestato di libera circolazione è emesso soltanto se è dimostrato che la fuoriuscita non rappresenta un danno per il patrimonio culturale nazionale; il soprintendente autorizza l’uscita, altrimenti la nega e di norma avvia la dichiarazione di interesse culturale. L’acquisto coattivo è una forma simile alla prelazione: chi richiede l’attestato di libera circolazione fa denuncia all’ufficio esportazione consegnando i beni e dichiarandone il valore, a quel prezzo il Ministero lo può comprare. Il valore è quello dichiarato dal proprietario, non quello effettivo. Il ministero può procedere all’acquisto coattivo per qualunque tipo di bene. Queste regole ci sono per evitare la spoliazione del patrimonio nazionale. Vi sono poi le seguenti uscite: Uscita libera: si tratta di un’uscita senza autorizzazione, nel caso in cui le opere siano di autori viventi e risalenti all’ultimo settantennio. Uscita temporanea: il bene è destinato a rientrare nel paese, quindi il regime è meno severo. Si può chiedere di far uscire un bene quando si dimostra che serve per manifestazioni, mostre o esposizioni d’arte; l’autorizzazione è rilasciata quando sono garantite sicurezza e integrità. Sono esclusi dalle uscite i beni fragili e i beni che rappresentano il fondo principale di musei e collezioni . Uscita temporanea senza autorizzazione previa autorizzazione anche in casi molto particolari, ovvero: -arredamento di sedi diplomatiche; -mobilio privato di agenti diplomatici; -analisi, indagini o interventi di conservazione all’estero; -accordi culturali con istituzioni museali straniere in regime di reciprocità. È possibile prestare opere d’arte all’estero in cambio di opere d’arte che entrano in Italia, in questo caso è rilasciato un attestato di libera circolazione temporaneo, che dura massimo 18 mesi e richiede il nominativo del responsabile dell’esportazione incaricato della custodia, responsabile appunto della fuoriuscita e del rientro, anche nell’ambito penale. È necessaria anche un’autorizzazione del bene per il valore tale al suo importo. Se il bene uscito temporaneamente, va disperso, ci sarà una sanzione penale per il custode e si dovrà pagare un valore pari a quello del bene. Le convenzioni internazionali Le convezioni internazionali sono accordi tra stati per disciplinare interessi comuni e consentono di organizzare l’attività amministrativa. Per i beni culturali, ci sono convenzioni che ci danno la possibilità di regolare attività in comune. Le convenzioni si dividono tra quelle che riguardano beni che hanno relazioni tra più stati e quelle che riguardano singole categorie di beni. Le fonti normative sovranazionali e internazionali si occupano anch’esse di beni culturali, con norme recepite a livello interno e di cultura. Le convenzioni multilaterali di tutela (il multilateralismo si riferisce a un’alleanza tra più paesi che seguono un obiettivo comune) di norma considerano e valorizzano le nozioni di bene culturale domestico. Talvolta rimandano alle definizioni interne nazionali, talvolta ne propongono di proprie. Le convenzioni recenti più evolute hanno contribuito a estendere il concetto di patrimonio culturale e a hanno inciso in senso propositivo sugli ordinamenti nazionali. Si propongono di norma obiettivi di tutela e di valorizzazione soprattutto riguardo a beni che per la loro particolare caratterizzazione interessano più nazioni o che richiedono forme dialogate di approccio. La Dichiarazione internazionale dei diritti dell’uomo (Assemblea ONU del 10 dicembre 1948 a Parigi) all’art 23 parla di “diritti culturali” e all’art 25 stabilisce che ogni individuo ha diritto di prendere parte liberamente alla vita culturale della comunità, di godere delle arti e di partecipare al progresso scientifico ed ai suoi benefici (il secondo comma si riferisce alla protezione dei prodotti dell’arte). Convenzione dell’Aja (1954): La Convenzione per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato è un trattato internazionale stipulato nel maggio 1954. Nella convenzione viene usata per la prima volta l'espressione "beni culturali”, che sono considerati un bene appartenente a tutta l'umanità e non soltanto ad una delle fazioni che prendono parte al conflitto. Scopo della convenzione è quello di tutelare i beni culturali durante una guerra o un conflitto armato per preservarli da distruzione, furto o saccheggio. Sono definiti come "beni culturali" i "beni mobili o immobili di grande importanza per il patrimonio culturale dei popoli". Protegge: • “i beni, mobili o immobili, di grande importanza per il patrimonio culturale dei popoli” • i centri monumentali • gli edifici deputati alla raccolta di beni culturali mobili, come i musei L’UNESCO (L'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'Educazione, la Scienza e la Cultura) (in inglese United Nations Educational, Scientific and Cultural Organization) e le sue convenzioni: si tratta dell’agenzia specializzata delle Nazioni Unite, costituita il 16 novembre 1945, promotrice della maggior parte delle convenzioni in materia. 1970: Convenzione per impedire illecita importazione, esportazione e circolazione -convenzione del 1970, ratificata in Italia nel 1978, è il primo documento internazionale rivolto a contrastare il traffico illecito di beni culturali (secondo le definizioni dei singoli stati). Ad oggi presenta 132 Stati membri. 1972: Convenzione UNESCO di Parigi del 1972 sulla protezione mondiale del patrimonio culturale: La necessità di proteggere i siti culturali nacque con la decisione di costruire la diga di Assuan, in Egitto, con la conseguente inondazione dei templi di Abu Simbel. Successivamente iniziarono una serie di progetti di cooperazione internazionale per la salvaguardia di altri siti importanti come Venezia (in Italia), Mohenjo-daro (in Pakistan) e Borobodur (in Indonesia). L'UNESCO ha quindi -le azioni di conservazione e di mantenimento degli aspetti significativi o caratteristici di un paesaggio, giustificate dal suo valore di patrimonio derivante dalla sua configurazione naturale e/o dal tipo d'intervento umano; -le azioni volte, in una prospettiva di sviluppo sostenibile, a garantire il governo del paesaggio al fine di orientare e di armonizzare le sue trasformazioni provocate dai processi di sviluppo sociali, economici ed ambientali. Convenzione europea per la protezione del patrimonio archeologico de La Valletta del 16 gennaio 1992: include la definizione di bene archeologico come traccia dell’esistenza dell’uomo nel passato. Impegno a: • proteggere il patrimonio archeologico in quanto fonte della memoria collettiva europea; • disciplinare in modo razionale e consapevole gli scavi e i ritrovamenti. Convenzione di Faro, ovvero la Convenzione quadro del Consiglio d'Europa sul valore del patrimonio culturale per la società: fu siglata a Faro, in Portogallo nel 2005 e sottoscritta dall'Italia nel 2013, ratificata di recente con la legge 1° ottobre 2020, n. 133 È una «dichiarazione di principi», non immediatamente precettiva, ma fiorirà di un cambio di prospettiva. Il patrimonio culturale è citato all’art 2 ed è definito come «l’insieme di risorse ereditate dal passato che alcune persone considerano, a prescindere dal regime di proprietà dei beni, come un riflesso e un'espressione dei loro valori, credenze, conoscenze e tradizioni in continua evoluzione. Esso comprende tutti gli aspetti dell'ambiente derivati dall'interazione nel tempo fra le persone e i luoghi». PERCEZIONE DEL PATRIMONIO: - CONCETTO DI RISORSA, QUINDI NON SOLTANTO QUALCOSA DA CONSERVARE MA DA VALORIZZARE; - EREDITÀ DAL PASSATO, OSSIA IL RILIEVO DEL TEMPO; - IRRILEVANZA DELLA PROPRIETÀ; - CRITERIO IDENTIFICATIVO (CORRISPONDENTE AL PATRIMONIO DI VALORI E TRADIZIONI); - CONSAPEVOLEZZA DELL’EVOLUZIONE E DELL’IMPORTANZA DELLA PERCEZIONE SOCIALE; -LEGAME CON L’AMBIENTE; - RILEVANZA DELLE PERSONE E DEI LUOGHI. Concetto di patrimonio culturale in Faro: -non elitario bensì accessibile e condiviso, come “risorsa” (in senso economico, sociale e ambientale) per una società democratica e lo sviluppo sostenibile, nel rispetto della diversità e della qualità della vita -ontologicamente intriso della storia della comunità e corrispondente alle logiche dei “beni comuni”, in una prospettiva meno materialistica e più concentrata sulla dimensione identitaria -dona alla società civile un ruolo fondamentale nella produzione, gestione e valorizzazione delle risorse culturali Le Parti convengono nel promuovere la comprensione dell’eredità comune dell’Europa, che consiste in: • a. tutte le forme di eredità culturale in Europa che costituiscono, nel loro insieme, una fonte condivisa di ricordo, comprensione, identità, coesione e creatività; e, • b. gli ideali, i principi e i valori, derivati dall’esperienza ottenuta grazie al progresso e facendo tesoro dei conflitti passati, che promuovono lo sviluppo di una società pacifica e stabile, fondata sul rispetto per i diritti dell’uomo, la democrazia e lo Stato di diritto. IL SINGOLO: ha diritto a trarre beneficio dall’eredità culturale ha diritto di contribuire al suo arricchimento ha la responsabilità di rispettare parimenti la propria e l’altrui eredità culturale e, di conseguenza, l’eredità comune dell’Europa. IN GENERALE LA CONVENZIONE PROPONE: - un approccio integrato alle politiche che riguardano la diversità culturale, biologica, geologica e paesaggistica - una valorizzazione dei processi di sviluppo economico, politico, sociale e culturale e di pianificazione dell’uso del territorio - uso sostenibile dell’eredità culturale - inserimento della cultura nei procedimenti di formazione Cenni alla disciplina dell’Unione Europea: i trattati Trattato di Roma del 1956 istitutivo della Comunità Economica Europea: la circolazione dei beni può trovare eccezione nelle esigenze di tutela del patrimonio “artistico, storico o archeologico nazionale”. Trattato di Maastricht del 7 febbraio 1992: “La Comunità contribuisce al pieno sviluppo delle culture degli Stati membri nel rispetto delle loro diversità nazionali e regionali, evidenziando nel contempo il retaggio culturale comune” (la tutela della cultura è compito della comunità, pur nel rispetto delle diversità).
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