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Letteratura artistica, Schemi e mappe concettuali di Letteratura

Letteratura artistica riassunto del corso

Tipologia: Schemi e mappe concettuali

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Caricato il 09/06/2023

marta-badocchi
marta-badocchi 🇮🇹

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Scarica Letteratura artistica e più Schemi e mappe concettuali in PDF di Letteratura solo su Docsity! LETTERATURA ARTISTICA MODULO A Cosa intendiamo oggi per letteratura artistica? Nei suoi confini tradizionali la storia della critica d’arte, disciplina nata nel 900 per merito soprattutto di Julius Von Schlosser e Lionello Venturi (autori di 2 pionieristici manuali-guida), comprende lo studio delle teorie sull’arte, non risolvendosi ma divenendo, per quanto concerne le arti visive, un settore specializzato dell’estetica, e del territorio che circoscrive l’articolata tipologia dei generi (trattatistica, storiografia artistica, periegetica, critica d’arte…) costitutivi la letteratura artistica. Raggruppa l’insieme delle fonti scritte indispensabili per lo studio della storia dell’arte. Da considerazioni eminentemente teorico-filosofiche, che finivano per delimitarne pericolosamente il campo, negli ultimi decenni la natura e varietà delle fonti si è notevolmente dilatata verso la valorizzazione di testimonianze NON solo letterarie, ma includendo anche epistolari, contratti, inventari, cataloghi e NON solo scritte, ma includendo eventi che hanno assunto il valore di veri e propri atti critici, restauri e riproduzioni, fondamentali per ricostruire la ricezione dell’opera d’arte nel momento in cui fu creata e nelle opere. Si è cominciato a parlare di letteratura artistica con Julius Von Schlosser, con il suo manuale pionieristico “La letteratura artistica” del 1924, nel quale ha considerato fonti specificatamente artistiche (come trattati o testi contenenti biografie di artisti) Nell’ultima edizione ha aggiunto considerazioni di tipo estetico. Negli anni successivi, l’idea di letteratura artistica si è evoluta rispetto ai limiti delineati da Schlosser, includendo molti altri testi, tra cui gli epistolari tra artisti e committenti oppure tra artista e artista, cataloghi e inventari, che forniscono informazioni importanti. Così lo studio di quella che si può definire la FORTUNA di un determinato stile, scuola, artista, opera, è diventato il nuovo e principale obiettivo della disciplina. Oggi si estende anche alla storia dei settori relativi a questo tipo di indagine: collezionismo, istituzioni artistiche (accademie, musei, esposizioni), mercato dell’arte, tutela, restauro e tecniche. Ciò comporta l’utilizzo di strumenti diversi, dalla ricerca d’archivio ad un’estesa indagine bibliografica, che costituisce il vero punto di forza, comprendendo le revisioni delle testimonianze critiche successive al tempo del fenomeno indagato. La letteratura artistica è diventata uno degli strumenti fondamentali per ricostruire la cosiddetta “fortuna critica” di un determinato artista o di un’opera, e come questi abbiano influenzato i tempi in cui sono vissuti e i loro contemporanei. Uno dei più importanti storici e critici dell’arte è Roberto Longhi (1890-1970) Ha acquisito negli anni un ruolo fondamentale nella storia dell’arte italiana ed ha avuto una lunga carriera come docente. Ha fondato la rivista “Paragone” a partire dal 1950. In una delle prime pubblicazioni della rivista, Longhi propone un saggio intitolato “Proposte per una critica d’arte”: partendo da una ampia gamma di opere d’arte, non divisa tra arti minori e maggiori, afferma che NON vi è gerarchia perché studiando un’opera bisogna inevitabilmente relazionarla con altre, attraverso un approccio orizzontale e verticale dal punto di vista storico. Il paragone tra opere diventa fondamentale nella critica di un’opera: nel paragone si riesce a determinare una vera e propria analisi critica. La prosa di Longhi è stata giudicata tra una delle più alte prove saggistiche al mondo. Una sua famosa citazione è la seguente: “l’opera d’arte, dal vaso dell’artigiano greco alla Volta sistina, è sempre un capolavoro squisitamente relativo; l’opera non sta mai sola, ma è sempre un rapporto” La letteratura artistica pone una ri-messa in contesto delle opere mettendole a confronto con varie fonti e analizzandone la fortuna dei loro contemporanei e ai giorni nostri. STORIA DELLA LETTERATURA ARTISTICA A PARTIRE DAL MONDO GRECO Le testimonianze greche riguardanti i temi artistici sono scarse, compaiono tardi, solo in epoca ellenistica, in quanto prima del 4-3 secolo ac non vi è un interesse particolare nello scrivere dell’arte e degli artisti. Per i greci infatti tutte le arti erano technai senza distinzioni: tutte implicavano un sapere particolare, ma tuttavia non comprendevano implicazioni estetiche (non si parlava di arte bella o di arte come espressione) Platone ne “La Republica” (427-347 ac) condanna tutte le arti indistintamente. Invece, in ambito aristotelico, nel 4 secolo ac, si iniziano a scrivere le storie specializzate delle varie technai (arti con focus sulla specificità e cronologia di ognuna) In età ellenistica, compaiono testi in cui sono raccolti aneddoti di personaggi importanti del tempo, tra cui artisti, che hanno il merito di conservarne il nome e fissare leggende con valore enigmatico. Queste fonti sono state in gran parte perdute, ma ne rimane a volte la menzione nelle trascrizioni di altri testi. Uno di questi testi è “Il Canone” di Policleto di Argo. Con canone si intende uno “schema cui ci si riferisce come regola di un’arte”. Venne scritto dallo scultore intorno alla metà del 5 secolo ac, come un trattato normativo riguardo le proporzioni del corpo umano in scultura. Lo scopo è quello di fissare e prescrivere norme proporzionali, matematiche e pitagoriche per la raffigurazione ideale dei corpi umani con equilibrio e armonia. Scrivendolo tramanda non solo le norme ma anche il suo nome. Il testo non si è conservato, ed essendo così normativo e teorico, susciterà qualche perplessità in Plinio, che raccoglierà ed espliciterà un parere già condiviso da altri scrittori latini. In ogni caso, il nome di Policleto resterà famoso e sarà circondato da un alone mitico. Per quanto riguarda il mondo antico, bisogna lasciare da parte la concezione 800esca di artista come genio creatore, perché vi era una netta divisione tra le arti meccaniche e le arti liberali.  La definizione classica di arti liberali derivava dall’idea che attraverso lo studio e l’applicazione di tali discipline, l’uomo poteva liberarsi dal peso della sua condizione di essere materiale ed elevare la propria natura. Questo concetto intrinsecamente presupponeva che la possibilità spettasse agli uomini liberi, gli unici che potevano dedicarsi all’attività del conoscere. Dall’Alto Medioevo le 7 arti liberali sono grammatica, retorica, dialettica (Trivio) e musica, aritmetica, geometria e astronomia (Quadrivio)  Le arti meccaniche invece danno piacere per molti aspetti, ma chi le pratica non è paragonabile per status a chi pratica arti liberali Questo aspetto permarrà per molto tempo e verrà affiancato da un forte tentativo di emancipazione da parte degli artisti. La prima fonte con la quale ci interfacciamo è la Naturalis Historia di Plinio il Vecchio. E un’opera che ha avuto la fortuna di conservarsi e avrà un ruolo fondamentale per i posteri. Plinio il Vecchio (Como 23, Pompei/Stabia 79) è l’autore della Naturalis Historia, divisa in 37 libri. Appartiene all’ordine equestre romano. È comandante di uno squadrone di cavalleria sul Reno. È un vero modello di funzionario romano, ricopre importanti incarichi amministrativi durante i regni di imperatori flavi (Vespasiano e Tito) Esercita il comando di prefetto della flotta di capo Miseno durante il regno di Tito e nel 79 dc muore, a causa dell’eruzione del Vesuvio. Buona parte delle informazioni su Plinio provengono dalla corrispondenza di suo nipote e figlio adottivo: Plinio il Giovane, che consacra un’immagine apologetica dello zio. Tutte le altre opere di Plinio sono andate perdute. È una fonte importantissima per gli storici dell’arte. Oltre ad essere un militare, Plinio si è dedicato ad un’altra attività che lo ha reso celebre: era uno scrittore. L’unica opera che sopravvive è la Naturalis Historia. Si tratta di una storia del mondo naturale. È una trattazione enciclopedica compilativa e ordinata. Plinio tiene conto delle fonti antiche greche nella scrittura di quest’opera. I libri trattano di geografia, botanica, medicina, astronomia... I libri dal 34 al 37 sono delle fonti importanti per la storia dell’arte antica. Questi 4 libri parlano del mondo minerale con accenni all’arte. Egli cita scultori che usano particolari pietre, metalli e bronzi e pittori che usano pigmenti di origine minerale. Plinio inserisce aneddoti e opere che sono vicine a lui. In questo modo ha raccolto i nomi di grandi artisti del tempo che sarebbero andati persi. Cita oltre 350 artisti. Quando deve fare esempi attinge a citazioni dirette di opere che gli sono famigliari e che pensa possano aiutare la lettura del testo da parte dei fruitori. A Plinio dobbiamo non solo la menzione di tanti artisti antichi, ma anche la descrizione dello sviluppo dell’arte come un progresso a parabola ciclica. Gli dobbiamo una rappresentazione della visione progressiva dell’evoluzione delle arti. Quando Plinio scrive la sua Naturalis Historia, si confronta con i grandi scrittori della retorica da Cicerone a Quintiliano. Da questi ultimi attinge parole che recupera dalla disciplina della retorica, dai racconti storici recupera uno schema narrativo e rappresentativo che chiamiamo “ciclico, a parabola”. È uno schema che prevede che un’arte nasce, si sviluppa (acme espressivo) e poi decade, muore. Successivamente la stessa arte, per mano di un abile artista rinasce. - Ad esempio, l’arte che muore nella 121esima Olimpiade e rinasce nella 156esima Olimpiade. Plinio, attraverso questa citazione molto sintetica, ci racconta un nuovo modo per rappresentare l’arte. Si tratta di una rappresentazione che chiamiamo anche organica o biologica. È una nuova visione che verrà mantenuta per secoli. Infatti, questa rappresentazione organica verrà fatta propria dagli umanisti del 400. Plinio fornisce ai suoi lettori uno schema facile da adottare, che sarà utilizzato fino alla fine dell’800. Successivamente si cambierà visione. Questo tema della visione ciclica era stato attinto non solo dai maestri della retorica, ma anche da Aristotele, il quale nella Poetica descrive lo sviluppo della tragedia che nasce, progredisce, subisce cambiamenti, raggiunge la sua forma perfetta e poi decade. Plinio ha lasciato ai posteri dei nomi di artisti, la cui opera sarebbe andata perduta, ed ha raccontato numerosi aneddoti che sono diventati paradigmatici per raccontare la vicenda degli artisti delle generazioni successive. Esempi di aneddoti raccontati da Plinio:  Dicono che Parrasio venne a gara con Zeusi, e mentre questi presentò dell’uva dipinta così al vero che gli uccelli volarono sul quadro, Parrasio espose una tenda dipinta con tanta naturalezza, che Zeusi, già sicuro della vittoria dopo la prova degli uccelli, chiese alla fine che togliesse via la tela e mostrasse il quadro; e solo allora, capito l’errore, si confessò vinto, con aperta franchezza, riconoscendo che egli aveva si ingannato gli uccelli, ma che Parrasio aveva giocato il pittore.  In seguito, Zeusi dipinse un fanciullo che portava dell’uva, sulla quale gli uccelli volarono; e che allora, adirato, si fece dinanzi al quadro con la stessa ingenua franchezza e disse: dipinsi l’uva meglio del ragazzo, perché se avessi fatto bene anche lui, gli uccelli avrebbero dovuto averne paura. In poche parole, Zeusi dipinse dell’uva tanto da ingannare degli uccelli, che volarono sul quadro, ma Parrasio ingannò lo stesso Zeusi dipingendo una tela talmente realistica da ingannare il pittore. Quindi Parrasio è più abile perché ha ingannato un suo rivale, umano, e non degli uccellini. Si tratta del soggetto della competizione tra artisti, che porta al superamento di un artista rispetto ad un altro. Si diffonde l’idea che l’allievo superi spesso il maestro o che sia sempre attendibile il superamento di un artista rispetto ad un altro. Chi crede di aver raggiunto l’acme, si vede superato da un allievo o un avversario. tardoellenistica come questa, attinta attraverso la citazione delle fonti latine. Si comporrà di testi per i pellegrini in cui si sottrarrà spazio alla corografia, aggiungendo elementi di antiquaria e "di meraviglia”. 3. Il terzo elemento che è fondamentale riguarda Filostrato, esponente della seconda sofistica, vissuto tra l'isola greca di Lemno e l'Italia tra il 2 e il 3 secolo dc. Nelle “Eikones” (Imagines, note come Pinacoteca) Filostrato descrive circa 60 quadri per mettere in evidenza che il potere della parola non è inferiore a quello delle immagini. Il contesto è fortemente retorico: l'autore deve dimostrare di saper discorrere e parlare meglio di chiunque altro. Metaforicamente, sfida i pittori e il pubblico: vuole far credere a chi legge di vedere realmente qualcosa che invece non vede. Il testo descrive, sotto forma di un dialogo tra il sofista e alcuni allievi, una visita a una Pinacoteca esposta in una villa presso Napoli. Molto si è questionato per capire se i dipinti (di soggetto mitologico e letterario) descritti nella Pinacoteca fossero veri o immaginari; ora si propende per pensare che fossero veri. Queste descrizioni, in greco “ekphraseis” (ek-phrazo: ‘dire mostrando’), da cui discende l'aggettivo italiano ecfrastico, spesso usato nell'ambito della storia dell'arte, sono state perpetuate a vario titolo fino a un'epoca avanzata da scrittori bizantini e anche latini. L’Ekfrasis non è un’invenzione di Filostrato, ma il suo archetipo deriva da Omero, con la descrizione dello scudo di Achille, commissionato da Teti (madre dell’eroe) al dio Efesto (Vulcano), in bronzo con decorazioni. IL MEDIOEVO Il Medioevo è un’età povera di fonti dirette di letteratura artistica, è necessario leggere fonti indirette (come le opere dei letterati del tempo, per esempio Dante) Per introdurre il Medioevo, vale la pena di farsi condurre per qualche tratto non solo da Schlosser, ma anche da Roberto Longhi, con le “Proposte per una critica d’arte”. Per Longhi dobbiamo arricchire la nostra conoscenza da altri luoghi per quanto riguarda il Medioevo, come nella precettistica di laboratorio (trattati di tecniche artistiche) e nei tituli (iscrizioni sotto mosaici, accanto ad affreschi e nei pavimenti). Se da un lato Longhi liquida l’umile precettistica di bottega, dall’altro invita ad osservare le testimonianze dei mosaici all’interno delle chiese. L’arte tende ad avere un’espressione più simbolica e si bada poco a scrivere di arte: per questo si ricorre ai tituli, cioè alle iscrizioni. Trattati di tecnica artistica: ciò che intende Loghi con ‘precettistica di bottega’ sono i trattati di tecniche artistiche (trattati= testi normativi; tecniche artistiche= come si dipinge a olio, a tempera, come si smaltano le vetrate ecc.) È importante ricordare di trovarci in prossimità di una circolazione interamente di testi manoscritti; l’illustrazione di questi testi, prima ad uso liturgico e poi a destinazione libraria, porta un grande sviluppo della miniatura medievale, che inizialmente veniva praticata nelle botteghe specializzate, e che poi si diffonde anche in città universitarie o dove c’è un particolare fervore intellettuale. Si diffondono 2 filoni-capostipiti di manoscritti che sono contenitori di tecniche artistiche: 1. ERACLIO, “De coloribus et artibus romanorum” (due libri in esametri latini) Il nome dell'autore è mitico perché Heraclion era, per Plinio, la pietra di paragone. Heraclion diventa, nella mentalità medievale, il mago delle mutazioni/trasformazioni. Il De coloribus illustra le proprietà delle pietre ed altre meraviglie (litologia); dà precetti e ricette (istruzioni) per eseguire miniature, ars vetraria e pittura su ceramica. Non contiene cenni all'arte monumentale: il fatto è significativo. Sarà pubblicato solo nel 19 secolo. 2. TEOFILO, “Schedula de diversis artibus”. È una raccolta di precetti che gode di durevole fortuna, fino al tardo Medioevo e al primo 500. Dell'opera sopravvivono almeno 25 testimoni ed ha larga diffusione in ambito monastico. Contiene ricette per miniatura e pittura murale, pittura su vetro, avorio, litologia fusione e metallotecnica. I prologhi dei 3 libri hanno a che fare con la teologia e con questioni di carattere spirituale e pedagogico, mentre le istruzioni riguardano tecniche e aspetti pratici. Questi testi hanno avuto numerosi lettori nell’Alto e nel Basso Medioevo, con grande fortuna dal 400 in poi. Verranno pubblicati e studiati solo a partire dal 19esimo secolo, quando rinasce l’interesse per le arti medievali, non più considerate produzioni di maestranze influenzate dai barbari. Decadono i pregiudizi. Nelle biblioteche si riscoprono questi trattati di tecniche artistiche, vengono pubblicati e studiati, per capire come restaurare i manufatti medievali o per utilizzare tecniche neomedievali. Sono trattati tecnici dove mancano menzioni ad autori ed opere. Tituli: ovvero versi o iscrizioni che accompagnano le immagini. Questi testi sono diretti, eloquenti. Sono una vera e propria fonte. La diffusione di idee filosofiche di tipo neoplatonico e il mutamento di mentalità, permettono che sia la spiritualizzazione che la smaterializzazione penetrino nella produzione artistica, portando a privilegiare il contenuto a spese della forma. La scrittura è considerata una forma di espressione più veridica dell'arte perché ha una doppia chiave: grafica e contenuto. Il Titulus acquista grande importanza: dà peso e sostanza alla forma, di per sé intrinsecamente ingannevole. A differenza degli epigrammi, i tituli vengono pensati come accompagnamento delle opere figurative fin dall’epoca paleocristiana. Ci sono tituli sia in versi sia in prosa, in Italia e all’estero. I tituli passano nei manoscritti e perfino negli incunaboli a corredare le xilografie raffiguranti i santi. Nel medioevo erano poche le persone in grado di leggere, ma, nonostante ciò, i tituli si rivolgevano direttamente al lettore per creare un rapporto diretto e fisico con l’opera. L’idea era di rendere partecipe l’osservatore. Erano rivolti al lettore esortandolo a capire, immedesimarsi e partecipare. Longhi menziona il caso di S. Agnese fuori le mura (7 secolo), che era decorata nel catino absidale da un mosaico, però era considerata più bella e interessante l’iscrizione che lo accompagna. Si comprende dal titulus il motivo per cui il mosaico è privilegiato all’arte murale nel medioevo: ha la capacità di contenere la luce. Al termine del Medioevo, con Giotto e la Cappella degli Scrovegni ci troviamo di fronte all’utilizzo del titulus, per esempio: nella fascia inferiore Giotto ha dipinto la serie dei 7 vizi e 7 virtù che ammonivano il visitatore, essi erano corredati da tituli che si credevano persi e trascritti solo in parte. Nel 2016 una filologa ha lavorato sui titoli con l’ausilio della tecnologia moderna, leggendo le tracce della pittura perduta, integrando pezzi perduti: ricostruì il nucleo dei titulus della Cappella degli Scrovegni. DANTE ALIGHIERI (1265-1321) Se nel Medioevo la letteratura in senso stretto è molto scarna, la letteratura italiana del 300 è ricca di spunti critici. Dante, per esempio, nel Purgatorio, indulge spesso a scrivere anche di argomenti artistici, dimostrando una competenza che ci rivela che ormai il Medioevo sta lentamente sfumando verso la direzione di un’arte molto più diffusa e praticata anche dagli intellettuali. Anche Dante è in grado disegnare e ha competenze tecniche riguardo a pigmenti e colori. Ad esempio, quando nel Purgatorio 7 il poeta pellegrino si trova presso la Valletta dei Principi, egli ne dà una descrizione accurata, fisica, naturale. Dante parla di alcuni fiori colorati, inebrianti e del tramonto imminente: in questo passo sono presenti 2 versi dedicati ai colori e ai pigmenti, materiali presenti nelle oreficerie e dagli speziali. Anche in questo senso le “Proposte per una critica d’arte” di Longhi ci fanno da guida. Lo studioso ritiene infatti che Dante con «Sui primi del 300 un uomo che guarda certi fogli di un libro di diritto, miniati da un pittore bolognese del tempo, si avvede che quelle carte ‘ridono’» abbia fondato la nostra critica d’arte. I 2 canti che prendiamo in considerazione per approfondire l’argomento sono: 1. CANTO 10 : in questo canto viene descritto il percorso che Dante intraprende con Virgilio per risalire il monte: il fianco è interamente ricoperto da bassorilievi marmorei che raffigurano degli esempi di umiltà, che fanno meditare i peccatori: Annunciazione, L’arca e re Davide (biblico), Traiano (civile) Le immagini hanno funzione didattico-didascalica. È interessante che Dante ritenga di dover evidenziare la necessità espiatoria dei superbi mediante l’uso delle immagini; quei bassorilievi sono frutto della maestria divina non possono essere stati creati da mano umana. La descrizione è un titulus. 2. CANTO 11 : Dante ascende al monte del Purgatorio, nel quale trova i Superbi. Tra di loro il poeta pellegrino si imbatte in un personaggio che riconosce immediatamente: Oderisi (il più grande maestro della miniatura) Il penitente Oderisi comunica a Dante che sono più apprezzati i codici miniati di Franco Bolognese, col quale deve condividere la gloria di quell'arte; egli non sarebbe stato così pronto ad ammettere la sua inferiorità mentre era in vita, dato il grande desiderio di fama che sempre lo animò. Ora sconta la pena per la sua superbia e non sarebbe ancora in Purgatorio, se non si fosse pentito quando era ancora lontano dalla morte. Oderisi critica la gloria effimera degli uomini, destinata a durare poco se non è seguita da un'età di decadenza. Cita l'esempio di Cimabue, superato nella pittura da Giotto, e di Guido Guinizelli, superato nella poesia da Guido Cavalcanti, mentre forse è già nato chi li vincerà entrambi. Con questi versi Dante applica i concetti di mutamento, progresso, fioritura e decadenza al campo dell’arte. Non esiste fama consolidata, è un alito di vento che cambia continuamente. In questo frammento di Dante vi è una grande testimonianza su come nei primi del 300 vi è una particolare attenzione alla miniatura e alla pittura. FRANCESCO PETRARCA (1304-1374) Longhi apprezza molto Dante, meno Petrarca. Questo si vede nel momento in cui lo scredita confrontandolo con Dante. Longhi nella sua critica si sofferma sui sonetti su Laura, scritti da Petrarca ad Avignone nella fine degli anni ’30: sulla base di essi lo studioso sostiene che Petrarca non riesca a capire l’arte, fondando il suo pensiero su un pregiudizio. Ci troviamo però nella posizione di dissentire con Longhi: Petrarca ha un rapporto intimo e diretto con l’artista Simone Martini. Questo ci dimostra come egli sia sensibile nei confronti dell’arte, seppur si trattenga nell’occuparsi di arte sapendo di avere una necessità spirituale di contemplazione di oggetti immateriali. I sonetti di Petrarca a cui Longhi fa riferimento, interesseranno molto gli autori del 500 e 600: non c’era pittore colto, che non si confrontasse con l’idea di ritratto fissata da Petrarca: ritratto comunicativo. Il rapporto con Simone Martini è testimoniato da una miniatura da lui prodotta per Petrarca, presente nel frontespizio del codice dell’Eneide di Virgilio, ora presso la Biblioteca Ambrosiana. Servio (il commentatore del testo) sta svelando Virgilio e i personaggi principali delle sue opere: un guerriero (Eneide), un contadino (Georgiche), un pastore (Bucoliche) Si tratta delle personificazioni delle 3 opere virgiliane (Eneide, Georgiche e Bucoliche) e dei 3 stili dell’autore (gravis, mediocris e humilis) Petrarca possedeva alcune opere di Simone Martini, non solo il Virgilio dell'Ambrosiana, ma anche una tavola di Giotto raffigurante una Madonna con il Bambino. Secondo l’interpretazione di una poesia di Petrarca, Simone avrebbe dipinto un ritratto di Laura. Ma qual è il problema del ritratto che Martini avrebbe fatto a Laura, menzionato da Petrarca nei sonetti? La cronologia, si daterebbe all’inizio degli anni ‘40 del 300, quando il genere del ritratto non era ancora riemerso nelle vicende artistiche. Questo ci pone un dubbio che ci fa comprendere che molto probabilmente il ritratto era solo un espediente letterario per mostrare come il poeta volesse ricordare Laura in maniera eterna e idealizzata. I tratti fisiognomici della donna dovevano essere idealizzati, il ritratto era meramente ideologico. Con i suoi sonetti l’autore fissa alcuni motivi che saranno fatti propri dagli artisti e committenti del 400. Sonetto 77 In questo sonetto “Per mirar Policleto a prova fiso”, il poeta sostiene che Policleto e gli altri grandi dell’antichità non sarebbero mai riusciti a realizzare un ritratto che rendesse onore alla bellezza della sua donna. Menziona Simone Martini con grande affetto dimostrandone la familiarità: sostiene che lui fosse più in grado di farlo rispetto agli altri grandi artisti antichi. Egli fu infatti in paradiso a vedere la bellezza primigenia di Laura, ritraendola su carta. Sonetto 78 Questo sonetto “Quando giunse a Simon l’alto concetto”, è legato a quello precedente ed è più importante come fonte. Esprime il disappunto nei confronti del ritratto, andando contro ciò che viene detto nel precedente. Il grande problema fu che il ritratto non poteva rispondere ai sospiri del poeta. Menziona Pigmalione delle Metamorfosi di Ovidio: egli realizza una statua della quale si innamora a tal punto che Venere dona la vita alla sua creazione. Petrarca lo considera così fortunato, questo perché vorrebbe che, almeno una volta, il ritratto si animasse. I 2 sonetti sono strettamente concatenati, menzionano il genere del ritratto in maniera prematura rispetto ai tempi.  De remediis utriusque fortunae (iniziata nel 1534) Dei rimedi delle due sorti: scritti in forma di dialoghi morali Il dualismo di Petrarca nei confronti dell’arte lo dilania perché da una parte ama questo mondo e dall’altro sa che non deve concentrare troppo la sua attenzione su questo tema. In quest’opera Petrarca mette in scena 2 antagonisti, la Ragione (Ratio) e il Piacere (Godimento). Quest'ultimo dichiara di apprezzare sia la scultura sia la pittura, e le difende entrambe. Tantissimi sono i temi desunti da Plinio. Petrarca è da considerare come un protoumanista e un grande collezionatore di codici, messi in campo dal Godimento per giustificare questa sua passione, mentre la Ragione espone tesi della filosofia neoplatonica per distogliere l'attenzione dell'interlocutore dalle bassezze del mondo e riportarlo alla contemplazione divina, che deve escludere ciò che è vanamente materiale come l'arte, pur sempre connessa al mondo delle artes mechanichae, non delle liberales. GIOVANNI BOCCACCIO (1313-1375) Anche Boccaccio condivide con Petrarca e Dante la passione per Giotto (nel Decameron, nell’Amorosa visione, nella Genealogia deorum), contribuendo a consolidarne il mito tra i contemporanei e i posteri. Decameron, Novella 5, giornata 6: novella di Chichibio La novella racconta di un vivace scambio di battute tra 2 illustri uomini del tempo di Boccaccio: uno è il famoso pittore Giotto e l'altro è Forese da Rabatta, insigne giurista, professore di diritto e uomo politico per il comune di Firenze. Di Forese, Boccaccio ci dice che era un grande conoscitore di legge e di diritto, ma che era di aspetto poco piacevole, per non dire brutto. Giotto viene presentato come il più grande artista della sua epoca. Boccaccio loda la sua arte dicendo che fu così abile nell'imitare la natura che il "visivo senso degli uomini vi prese errore, credendo essere vero quello che era dipinto". Anche lui, però, proprio come Forese, non aveva certo un bell'aspetto. I 2 personaggi si incontrano lungo la strada che dal Mugello va verso Firenze: Forese sul dorso di un cavallo preso a noleggio e Giotto a piedi. Percorso insieme un tratto di strada, vengono sorpresi da un temporale estivo e decidono di rifugiarsi a casa di un conoscente che abita vicino per aspettare che la pioggia cessi. Volendo però essere a Firenze per l'indomani, decidono di ripartire e, presi a prestito 2 cappelli e 2 vecchi mantelli, riprendono il cammino sotto l'acqua. Dopo un po' sono bagnati e inzaccherati dal fango e Forese, guardando Giotto, scoppia a ridere chiedendogli se qualcuno vedendolo in quel momento penserebbe davvero a lui come al più grande pittore esistente. Giotto risponde prontamente che certo lo riterrebbe tale se, vedendo Forese in quello stato, crederebbe che sia uno che conosce almeno l'alfabeto. A quel punto Forese tace, riconoscendo il proprio errore. Panfilo, uno dei membri dell’onesta Brigata del Decameron e novellatore di questa storia, nel suo preambolo contiene la presentazione dei personaggi e una descrizione di Giotto destinata ad ottenere molto successo nei secoli successivi, quando ormai l’artista era morto da 10 anni. La novella tratta di 2 uomini abili nelle proprie arti ma brutti: il più grande avvocato di Firenze e il più grande artista del suo tempo. Parlando e trovandosi nel bel mezzo di un temporale, coperti di fango, sostengono come i 2 in quelle condizioni non appaiano come i grandi uomini illustri quali sono. Si tratta di una novella faceta, per suscitare il riso. Giotto viene presentato come possessore di così tanto ingegno che poteva ingannare con la sua arte, tanto era simile al reale. Giotto sostiene che nessuna cosa della natura che con lo stile o pennello si ritrae, potrà mai essere una completa mimesis della realtà, si sottolinea come si ritorni a porre l’attenzione alla natura, superando le rappresentazioni trascendentali del mondo Medievale. Boccaccio riesce a fissare il carattere innovativo di Giotto. FILIPPO VILLANI (1325-1407) Le parole di Dante, Petrarca, Boccaccio (e quelle dei commentatori dei loro testi) favoriscono, nella Firenze comunale, orgogliosa del proprio primato politico, lo sviluppo di una consapevolezza storica che arriva a includere anche gli artisti. Non stupisce che l’orgoglio delle singole città municipali si mostri attento alla scrittura della storia di grandi pittori. Filippo Villani, con le “Cronache della città di Firenze” (1381-83), include le lodi degli uomini illustri fiorentini: poeti, teologi, giuristi, anatomisti, oratori, astrologi, musicisti, buffoni, capitani, includendo anche LEON BATTISTA ALBERTI (1404-1472) Leon Battista Alberti fa parte della generazione successiva a quella di Ghiberti. Alberti nasce da una famiglia benestante, ma esiliata da Firenze. Nasce a Genova, studia a Padova e completa gli sudi a Bologna. Alberti è un umanista: studia diritto canonico ed ha una grande padronanza del latino. Svolgerà parte della sua carriera a Roma; quando inizierà a coltivare anche gli interessi artistici, oltre a quelli umanistici, inizierà a girare per diverse corti italiane (Rimini, Urbino, Ferrara, Mantova) dove lascerà la sua opera come architetto. È sia un umanista che scrive testi in latino, è ricordato anche nella storia dell’arte come architetto e scultore. Arriva all’architettura come applicazione della matematica alla geometria. Ricordiamo Leon Battista Alberti anche per la scrittura di trattati di argomento artistico, che riguardano la pittura, l’architettura e la scultura. 1. De Pictura : composto nel 1435-36. Si tratta di un’opera dalla novità prorompente, che considera l’arte nella sua sfera speculativa, NON meccanica. Sono stati individuati almeno 20 manoscritti latini del testo e 3 in volgare. Ha avuto una grande diffusione. L’opera è stata redatta in latino e in volgare da Alberti stesso. Non si sa se sia stato scritto prima in volgare o in latino. Il latino è la lingua dei dotti, mente il volgare è accessibile a tutti gli artisti. È un trattato teorico che riguarda la pittura. Egli lo scrive tornato a Firenze, un centro molto vivo e colmo di novità. Alberti si interessa subito alla questione della prospettiva centrale di Brunelleschi. Ritiene opportuno dare a queste dimostrazioni empiriche e pratiche di Brunelleschi un substrato teorico, una dimostrazione di carattere geometrico e matematico che desse la possibilità a generazioni successive di apprendere il sistema della prospettiva senza doversi recare per forza nelle botteghe. Definisce cos’è la pittura, a cosa serve, quali sono le pitture odierne che un artista colto può creare e come si realizza la prospettiva centrale. Alberti NON ha intenzioni storico-memoriali. NON menziona artisti a lui contemporanei (a parte Giotto), NON gli interessa la storia, ma vuole fornire un trattato agile, teorico per aiutare gli artisti. 2. De Re Aedificatoria : composto dal 1452 in poi, in circa 10 libri. Il modello diretto a cui si ispira è il “De Architectura” di Vitruvio. Alberti scrive il trattato inizialmente come attualizzazione dell’opera di Vitruvio, poi aggiunge altro. L’editio princeps postuma esce nel 1482 con dedica a Lorenzo il Magnifico 3. De Statua : datazione discussa e controversa, forse degli anni ‘60, riguarda la scultura. In una delle 3 versioni manoscritte troviamo una lettera dedicatoria che Alberti scrive a Brunelleschi, colui che gli ha dimostrato grandezza dell’arte a lui contemporanea. Nella lettera si comprende come Alberti pensasse che non ci fossero più grandi geni, grandi artisti come nel passato. Ma, quando riesce a fare ritorno a Firenze, scopre che ci sono grandissimi geni ed artisti a livello degli antichi (orgoglio fiorentino). Gli antichi erano fortunati per Alberti, perché vi erano molti più maestri da cui si poteva apprendere. Oggi gli artisti hanno dovuto imparare da soli. L’autore fa l’esempio di Brunelleschi che arriva a costruire la cupola studiando direttamente gli antichi: crea una cupola nuova, che nel mondo antico non esisteva. Brunelleschi supera addirittura gli antichi, perché non ha esempi contemporanei a cui conformarsi. Il De Pictura è un testo NON storico, ma è un testo teorico che spiega ai contemporanei cos’è la pittura e come si dipinge. Gli insegnamenti teorici devono finire in mano di artisti che devono saperli maneggiare PRIMO CAPITOLO: è di argomento geometrico-matematico. Il pittore attinge ad una matematica più concreta, non speculativa. La matematica è solo un’espediente utilizzato da Alberti per spiegare la pittura. Secondo Alberti la pittura ha 3 fasi fondamentali:  Circosnscriptione (ovvero il disegno, tracciare dei contorni), si tratta di fissare il soggetto che si vuole rappresentare con uno strumento grafico.  Compositione: fissato il disegno, bisogna capire su che superficie posizionarlo. La scelta si basa su una proporzione prospettica ed anatomica che rende simmetriche tutte le parti.  Receptione dei lumi: si ha la stesura del colore con accentuazione soprattutto plastica dei volumi. A queste 3 fasi seguono le fasi della retorica antica: 1. inventio 2. dispositio 3. elocutio Questo è un modo di elevare la pittura in quanto arte liberale e NON meccanica: chi si applica alla pittura deve utilizzare la matematica, deve affiancarsi alla poesia e alle fonti, segue così i principi della retorica. TERZO CAPITOLO: presenta considerazioni di Alberti sulla pittura e l’importanza del pittore come intenditore di matematica e poesia. Una volta che Alberti ha discusso della cultura del pittore, che sappia di matematica e geometria, si sofferma a dare un’iniziale costruzione di quella che due secoli dopo si chiamerà la “scala dei generi”. Si tratta di un’invenzione di fine 500 che riguarda la classificazione dell’importanza delle pitture sulla base del loro contenuto (a partire da Alberti, le pitture si classificano sulla base del loro soggetto: una pittura di oggetto sacro vale più di una pittura di nature morte, ad inizio 600, anche se Caravaggio smonterà questa gerarchia) Alberti ci dice che la pittura più lodabile ed encomiabile è la pittura che lui chiama “DI STORIA”, ovvero una pittura che mette in scena un’azione drammatica, narrativa, di soggetto sacro o mitologico con una forma misurata di rappresentazione interna. L’azione narrativa deve essere costruita. La pittura di soggetto drammatico narrativa deve avere al centro una storia. Alberti fornisce dei veri e propri precetti su come dipingere la scena, che deve essere sapientemente costruita, con più uomini che interagiscono ed elementi accessori. Più il pittore è in grado di esprimere diversi soggetti e atteggiamenti, in maniera precisa, più la pittura è comprensibile. I pittori sono in grado di superare gli antichi, poiché sono in grado di esprimere una certa varietà. Ciascun pittore ha la sua tendenza e un talento particolare, ma Alberti ricorda che le doti di ciascuno possono essere affinate attraverso lo studio. C’è chi è più talentuoso a rappresentare gli uomini e chi gli animali: nonostante ciò, si possono affinare le proprie competenze studiando. Bisogna fare sforzi per migliorare, crescere e per supplire alle proprie lacune. La pittura di storia che mette in scena un’azione narrativa è al sommo livello. Oltre a dirci che ogni storia deve essere varia e interessante, Alberti stigmatizza l’eccesso, l’accumulo non motivato di particolari. In pittura dà piacere una storia ben circostanziata e varia. É corretto inserire la varietà, ma bisogna che questo sia congruente alla storia, non dev’essere un inutile orpello. Alberti non apprezza (anche se non lo scrive esplicitamente, in quanto non fa esempi), le pitture tardogotiche come “L’Adorazione dei Magi” di Gentile da Fabriano: si tratta di opere ricchissime, con dettagli superflui alla narrazione, alla comprensione e acquisizione del senso generale della storia. L’accumulo non necessario è sfoggio inutile del pittore. Secondo Alberti, una pittura equilibrata potrebbe essere quella di Masaccio. Nel “Pagamento del tributo”, a Firenze nella cappella Brancacci, l’equilibrio della composizione è preciso e la prospettiva è centrale. La pittura per Alberti doveva essere “ornata di una certa varietà, ancora moderata e grave di dignità e verecundia”. Il “De Pictura”, a differenza dei “Commentari” di Ghiberti, avrà molti lettori. Nelle biblioteche europee sono stati rintracciati numerosi manoscritti del “De Pictura” che accertano una certa diffusione del testo. Il trattato venne pubblicato per la prima volta nel 1540 e venne subito dopo tradotto in volgare da un erudito fiorentino, perché si era perduta la versione in volgare di Alberti, che è stata ritrovata solo nel 700. Sarà ripubblicato nel 1651 dall’Accademia di Francia insieme al “Trattato della Pittura” di Leonardo. Il De Re Aedificatoria è un trattato che ha una notevole diffusione ed è composto da Alberti dal 1452 in poi ed esce in 10 libri. L’editio princeps esce postuma nel 1485 con una dedica a Lorenzo il Magnifico. Inizialmente Alberti desidera scrivere sul modello vitruviano del De Architectura, poi si stacca da quest’ultimo anche per la difficoltà di questo modello e per le incongruenze trovate riguardanti le architetture romane. Alberti conosce queste ultime direttamente, essendo spesso a Roma. Alberti si emancipa da quel modello e compone l’opera tenendo sempre presente come l’architettura sia l’arte più moderna che si possa praticare in assoluto e affermando che l’architetto si deve ricordare sempre che gli edifici sono fatti a cagione degli uomini. Questa affermazione non ci deve stupire: a metà del 400, l’architettura è un’arte civile nell’Italia delle signorie e comuni. L’architettura è interpretata in chiave civile anche a seguito del mito del rinnovamento delle città, che coinvolge umanisti e signori, che si prodigano nel costruire cinte murarie, canali di irrigazione o comunicazione e ospedali, si arriva ad immaginare allargamenti delle città. Intorno alla metà del 400 si discute molto intorno all’architettura. Compone il Re Aedificatoria in 10 libri: 1. Lineamenti (ovvero disegno, situazione dei siti, piante), basi dell’architettura e principi ai quali l’architetto si deve conformare: si tratta della parte che inizia la sezione della FIRMITAS (solidità), ovvero la necessità di costruire una architettura solida e durevole 2. Materiali di costruzione 3. Principi di costruzione: ovvero dalle fondamenta al tetto, si tratta della sezione della UTILITAS (utilità) 4. Edifici pubblici e urbanistica: ovvero città al servizio dei cittadini (si pensa di costruire città ideali, che poi non verranno mai costruite) 5. Edifici privati : parla di equilibrio, simmetria e decoro, ovvero principi ai quali gli edifici devono conformarsi per essere belli, si tratta della VENUSTAS. L’equilibrio deve essere ponderato tra le parti 6. Ornamenti delle fabbriche 7. Costruzione dei templi: ovvero gli edifici sacri 8. Edifici secolari pubblici 9. Ornamenti di edifici privati 10. Idraulica e metodi per rimediare ai guasti degli edifici dovuti al tempo Alberti ricorda che gli edifici devono essere ben armonici nella distribuzione degli elementi: “la varietà da un sapore gradevole a tutte le cose, se poggia sull’unità e sulla corrispondenza reciproca tra elementi distinti tra loro” Si tratta di un’architettura che guarda all’antico, la VENUSTAS (bellezza) è una concordanza tra le parti che dialogano tra loro in armonia. Questo rapporto armonico si può vedere nella facciata di Santa Maria Novella. L’armonia delle parti, EURITMIA, si raggiunge scegliendo le giuste proporzioni che sono espresse da rapporti matematici. Nel De Statua, Alberti ribadisce i principi di equilibrio e moderazione delle opere e li enuncia in 19 capitoli. È il primo a dividere la scultura in filoni: ‘per via di porre’ e ‘per via di levare’, dividendola secondo la tecnica utilizzata.  Porre: togliere e aggiungere, realizzando sculture con materie malleabili, cioè plasticare la cera, argilla  Levare: scultura in pietra, marmo (partendo dal blocco di pietra si toglie materiale x realizzare la scultura finale) L’ARCHITETTURA NEL 400 Nel 400 esistono diversi autori che si occupano di architettura. Alcuni trattati riguardanti questo argomento escono a stampa (come quello di Francesco di Giorgio Martini) ed hanno una larga diffusione; altri invece restano manoscritti per un lunghissimo tempo (come nel caso di Antonio Averulino, detto Filarete, che è il progettista della Ca’ Granda) FILARETE (1400-1469) Filarete è uno degli scultori in bronzo di origine fiorentina. Filarete è il suo nome umanistico e significa “amante della virtù”. Filarete non è uno scultore del calibro di Ghiberti. All’architetto fiorentino viene chiesto di realizzare la porta bronzea della Basilica di San Pietro, sotto Eugenio 4, ma dal risultato ottenuto si può dedurre che Filarete è uno scultore dalle grandi incertezze realizzative e compositive. Si nota una certa goffaggine e una disarticolazione compositiva. Il Filarete-scultore è subordinato al Filarete-architetto. Filarete è un personaggio che riesce a studiare come buon architetto. Proprio in qualità di architetto, viene chiamato a Milano dal nuovo duca Francesco Sforza nel 1451. Quest’ultimo vuole rifondare e riqualificare la città nella quale si è insediato, eliminando le reminiscenze medievali. Francesco Sforza, provenendo dall’Italia centrale, era consapevole che in quelle terre operavano architetti molto abili. Cosimo de’ Medici spedisce a Francesco Sforza proprio Filarete, un architetto non legato alla cultura tardo gotica. Le due iniziative affidate a Filarete sono: 1. Modernizzare il Castello di Porta Giovia (che non era ancora la residenza degli Sforza): si trattava di un’importante struttura difensiva che era stato espugnata dai milanesi in rivolta dopo la morte di Filippo Maria Visconti. Bisognava rimodernarlo tenendo conto delle nuove tecniche di assedio e delle nuove armi da fuoco. Filarete riprogetta i torrioni rotondi della facciata e la grande torre centrale Quella che vediamo noi oggi non è però la torre originale del Filarete, poiché nel 1521 questa era esplosa a causa dell’esplosione di un deposito di polvere da sparo. La grande torre centrale viene ricostruita tra fine 800 e inizio 900 dall’architetto Luca Beltrami in stile rinascimentale. 2. Costruire un grandioso ospedale centrale a Milano : si trattava di un edificio che portasse la città di Milano ad essere aggiornata, al livello di quello che già stava avvenendo in Italia centrale e in altre città lombarde. Gli ospedali non dovevano più essere affidati ad enti assistenziali e caritativi parcellizzati e disposti per tutta la città, ma bisognava creare delle vere e proprie strutture dove curare i malati e fare carità. Francesco Sforza dona alcuni terreni vicini al Duomo e a Porta Romana da dedicare alla costruzione di questo grande edificio. Filarete studia gli altri ospedali delle città italiane e segue i consigli dati da Bernardo Rossellino, costruttore di Pienza, in contatto con Alberti. Filarete fonda così la Cà Granda, che, dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, è sede dell’Università degli Studi di Milano. Guardando la pianta dall’alto si notano delle grandi crociere, che erano le grandi ali di degenza: lì venivano collocati i letti degli ammalati, nei cortili invece si faceva la carità. Il luogo scelto da Filarete per l’ospedale è strategico: in quelle zone passava il Naviglio interno quindi, tutti i materiali per costruire un edificio di queste dimensioni, potevano comodamente arrivare, trasportati via acqua. LA CA GRANDA: si tratta di uno dei più grandi ospedali europei ed è stato costruito nel 1456. La costruzione proseguì dopo la fuga di Filarete nel 1465-66. L’ospedale è portato a termine secondo un progetto di Filarete alla fine del 1800. L’architetto inserisce questo progetto nel “Trattato di Architettura”, che scrive prima di tornare a Firenze negli anni dal 1461 al 1464-66, che dedica agli Sforza. Egli concepisce questo testo come un dialogo tra Ontona (anagramma di Antonio, il suo nome) e Francesco Sforza, per perseguire l’educazione di suo figlio, Galeazzo Sforza. Si tratta di un dialogo che fa riferimento al progetto di costruzione di una città ideale, dedicata agli Sforza e che viene chiamata Sforzinda. Filarete si immagina una città ideale da costruire, all’interno della quale pensa di realizzare degli edifici che si inventa ex novo, e altri edifici a cui sta già lavorando, tra cui anche la Ca Granda, ovvero l’ospedale maggiore. Il trattato comprende la pianta, il progetto e l’alzato dell’ospedale maggiore. La pianta è più moderna della facciata ed è derivata dalla riflessione riguardo gli ospedali già presenti in tutta Italia. La pianta presenta grandi crociere attorno alle quali si trovano 4 cortili. Il quadrato si ripete 2 volte. Tra i 2 quadrati c’è un grande cortile che si pensava dovesse comprendere una costruzione al centro: doveva essere una chiesa a pianta centrale. La Chiesa dell’Annunciata viene però spostata su un lato. Il trattato contiene alcune illustrazioni per una città ideale. Si tratta di un’opera rimasta manoscritta in 2 copie circolate a Firenze. Il manoscritto verrà studiato solo negli anni ‘70 del 900. L’architetto Liliana Grassi studia la Ca Granda e diventa esperta di Filarete, per questo motivo l’editio princeps stampata del trattato si ha in quegli anni. Vasari nella 2’ edizione delle “Vite” parlerà di Filarete come scultore, ma ha poche informazioni su di lui. Parla anche del suo trattato di architettura, dicendo che è un manoscritto illustrato diviso in 3 parti. Vasari consulta il trattato per ottenere notizie su pittori milanesi, ma Filarete dà poche notizie. Dice solo che Foppa e altri pittori avevano partecipato alla inaugurazione della Ca Granda. Vasari trova disdicevole la commistione nella Ca Granda di elementi tardo gotici ed elementi rinascimentali. Il trattato nell’edizione del 1651 avrà una grande circolazione finché, nel 19esimo secolo, si riaccenderà l’attenzione sul “Libro della Pittura” del Melzi, più ricco, con meno errori e paragrafi che erano stati omessi o tralasciati dalle versioni abbreviate. Per secoli la fortuna di Leonardo pittore si concentra solo intorno al “Trattato della pittura”, senza rendersi conto che la versione melziana fosse più completa e che Melzi avesse estrapolato da Leonardo le idee del trattato. L’opera di Leonardo non si occupa solo di pittura. Per esempio, il “Codice Atlantico dell’Ambrosiana” è una compilazione: non è un testo proveniente direttamente dall’eredità di Leonardo. Si tratta di una compilazione di fogli e di pezzi di manoscritti di Leonardo messa insieme dopo la morte di Melzi e Leonardo da uno scrittore chiamato Pompeo Leoni e acquistato dagli Arconati, ceduto poi nel 1637 all’Ambrosiana. Si tratta di una compilazione di materiale leonardesco, redatta quando il materiale di Leonardo era ancora ben conservato. Contiene materiali relativi all’astronomia, alla meccanica, alla fisica, alla botanica, alla geografia, all’anatomia; studi e bozzetti di opere artistiche e molto, molto altro. Il “Libro della Pittura” di Melzi è un testo non scorrevole diviso in paragrafi, NON in capitoli conseguenti gli uni agli altri. Si tratta di sentenze assemblate le une alle altre, forse anche per il carattere irregolare e asistematico del pensiero leonardesco. Leonardo stesso scriveva frasi di carattere aforismatico. Le 8 parti sono articolate senza un trattato discorsivo, ma solo in sentenze, frasi. Le 8 parti del libro della pittura sono: 1. Et prima di poesia et pittura: normalmente si chiama tra storici dell’arte: “il paragone tra le arti” La prima sezione vede il confronto tra le diverse arti, soprattutto la poesia e la pittura in cui Leonardo dà la sua preferenza alla pittura. La questione del paragone viene affrontata da Leonardo sulla scia della situazione culturale milanese in quanto tema dibattuto dai dotti. 2. De precetti del pittore: ovvero quali sono gli attributi che deve avere un pittore. Per Leonardo un pittore deve avere un’abilità propria, deve avere un apprendistato in bottega, deve essersi confrontato direttamente con altre opere e deve assolutamente aver condotto un’esperienza sul campo, in mezzo alla natura. Solo confrontandosi direttamente con la natura, il pittore potrà comprenderla al meglio. 3. Dei vari accidenti e movimenti dell’uomo e proporzione delle membra: concorre la conoscenza della matematica e della geometria. I movimenti dell’uomo sono lo strumento con il quale si possono fissare su tela i moti dell’animo. 4. De panni e modo di vestire le figure con grazie e degli abiti e natura dei panni 5. De ombra e lume: ovvero il chiaroscuro di Leonardo: il chiaroscuro e gli effetti della luce, lo spessore dell’atmosfera. La rappresentazione chiaroscurale non tiene conto solo della rappresentazione volumetrica delle figure che si vogliono rappresentare, ma è una rappresentazione dello spessore stesso della luce che filtra nell’atmosfera e che cambia i contorni di ciò che si vuole rappresentare. 6. De li alberi e verdure: riguarda studi di botanica, che interesseranno anche Melzi 7. Delli nuvoli 8. De l’orizzonte Il paragone Come mai Leonardo ha iniziato a scrivere in maniera sistematica, elaborando una sezione relativa al paragone fra le arti? Nel 1952 (in occasione di un centenario di Leonardo) Dionisotti, grande filologo, si è chiesto come mai Leonardo avesse iniziato a scrivere. Ipotizza che nella corte di Ludovico il Moro si richiese che un testo encomiastico delle gesta di Francesco Sforza, scritto in latino da Simonetta, venisse tradotto in volgare per renderlo più comprensibile. Fu una strategia comunicativa. Il compito fu affidato a Cristoforo Landino e l’introduzione ad un umanista locale, Puteolano, il quale sostiene, riprendendo i temi più caratteristici del paragone tra pittura e poesia, che gli scritti restano mentre la pittura è più volatile. La letteratura si salva, mentre pittura e scultura no. Le arti periscono, la letteratura resta. Secondo Dionisotti questo movimento che tende a privilegiare la poesia sulla pittura e sulle arti induce Leonardo a rendersi conto di 2 cose:  l’importanza del volgare fiorentino del quale è maestro, non si affligge perché non conosce il latino. Il volgare gli consentirà di esprimere i suoi pensieri.  l’importanza della pittura che si rivolge al senso più importante: la vista. L’occhio è lo strumento principale, meno ingannevole, che permette all’uomo di impadronirsi dei segreti della pittura. La poesia si avvale dell’udito, uno dei sensi che Leonardo ritiene sottoposto agli altri ed è subalterna alla pittura. Da questo momento il dibattito esplode in ambiti accademici mettendo in gioco argomenti sottili da contestualizzare. Parlando a grandi linee del “Libro della Pittura” : Leonardo attribuisce un enorme valore all’esperienza diretta di qualsiasi artista. Ogni pittore o scultore deve raggiungere risultati attraverso la vista e l’esperienza diretta. Lo studio sui libri non basta a formare lo studio di un individuo. Un artista può aver fatto esperienza in una bottega, può aver studiato, ma a questo si deve aggiungere l’esperienza diretta che è maestra in primo luogo. La citazione che riassume al meglio questa concezione è la seguente: “Quelli che si innamorano della pratica senza la scienza sono come nocchieri che entrano in naviglio senza timone e bussola”. Leonardo non nega l’importanza assoluta delle esperienze di base, la formazione e lo studio, ma lo studio di Leonardo non è naif, perché oltre a questo, serve l’esperienza. Quello che Leonardo aborrisce è un’esperienza meramente teorica. Si deve applicare l’esperienza visiva alle teorie. Tutto ciò che si ricava deve essere esternato con la pittura o la scultura. Ciò che conta è la speculazione esperita direttamente, controllata sui libri e sui testi, e restituita poi per mezzo dell’arte. L’artista/il pittore ha un quid in più rispetto agli altri, altrimenti è soltanto un praticante senza anima. Leonardo riconosce l’importanza del talento dell’artista. L’artista ha un talento, che è quello della fantasia che ha con lui fin dalla nascita. Questa dote si può affinare nel corso della sua vita, per mezzo della vista e dello studio . Il pittore può scrivere e cancellare: attraverso l’esercizio grafico l’artista può affinare il suo talento. L’indeterminatezza grafica stimola l’invenzione, i disegni di Leonardo sono spesso un groviglio: sono disegni indeterminati. Leonardo non finisce quasi mai le opere (Cenacolo) Leonardo non dipinge il Cenacolo ad affresco: la tecnica ad affresco non faceva per Leonardo. Per lui dipingere era fare e disfare, procedendo per grovigli grafici e mentali e a piccoli tocchi, lentamente, mentre la tecnica dell’affresco era veloce. Leonardo faceva esasperare i suoi committenti: era lento e non finiva mai. Leonardo dà precetti nuovi ai pittori che contemplano il fatto che il pittore istruito, deve poter osservare la natura raggiungendo risultati che diano quel moto e fiato alle figure per mezzo di un tornare e ritornare sulle opere fino all’infinito, fino ad essere scontento. Per Leonardo vi è fatica nel registrare la natura come ambiente abitato dall’uomo, finalizzato per dipingere. La pittura è il fine ultimo dell’agire dell’artista. La rappresentazione umana contempla il bello e il brutto ma, in particolare, gli accidenti mentali: la psicologia. Questo viene individuato nella rappresentazione dell’Ultima Cena di Leonardo, che rappresenta un momento particolare: Cristo ha appena annunciato agli apostoli che uno di loro lo sta per tradire, è un momento chiave che permette all’artista di realizzare al meglio gesti ed espressioni del viso che possano manifestare sgomento. In area fiorentino-toscana tra i grandi autori cresce il culto per la ricostruzione della vita degli autori sempre di più nel corso del tempo. Non stupisce di trovare una delle prime biografie organiche negli anni ‘80 del 400: ANTONIO MANETTI (1423-1497) Manetti fu poeta, matematico e umanista. Scrisse la “Vita di Filippo Brunelleschi”, corredata dalla novella del Grasso Legnaiuolo. Il testo circola manoscritto, vuole ricordare l’importanza di Brunelleschi nella storia fiorentina e il suo carattere pungente. Lo fa diventare co-protagonista di una novella diffusa in area toscana. L’organizzatore della burla raccontata nella novella sarebbe proprio Brunelleschi. Si tratta di uno scherzo contro un falegname. Si doveva organizzare un banchetto tra uomini fiorentini, comprendendo diversi personaggi, tra cui Brunelleschi e il Grasso Legnaiuolo. Siccome quest’ultimo non si presenta al convivio, gli amici si offendono e gli fanno credere per molto tempo di non essere lui, di non essere riconosciuto dagli amici e altri che si fecero coinvolti. Questo porterà il Legnaiuolo a lasciare Firenze e trovare fortuna altrove. A corredo di questa novella, Manetti inserisce una biografia corposa di Brunelleschi, che conferma ai contemporanei il fatto che si possano scrivere biografie di personaggi illustri defunti (regola biografica del 400) anche se non sono praticanti delle arti liberali. IL CINQUECENTO  FIRENZE Si compongono un paio di raccolte di biografie di artisti fiorentini. Restano manoscritte ma hanno una certa diffusione, una di queste è il “Libro di Antonio Billi”, che contiene indicazioni su artisti fiorentini, compilate alla fine degli anni ‘20 del 500. Un’altra raccolta di vite segue poco dopo, è anonima ed è nota come la “Raccolta dell’Anonimo Gaddiano”, faceva parte della biblioteca dei Gaddi di Firenze, tra il 1537 e il 1542.  VENEZIA Nella prima metà del 500 si pensa di provare a realizzare un itinerario di informazioni riguardanti le opere principali raccolte in collezioni accessibili ad un veneziano. Marcantonio Michiel incomincia a scrivere un testo, che rimane incompiuto, noto come “La Notizia d’opere di disegno”. Un’opera importante che ebbe una tardiva diffusione. Fu la fonte primaria per studiare l’arte veneta. Conosciamo il quadro di Giorgione: “La Tempesta”, con un titolo che deriva dall’annotazione di Michiel, che va a casa degli eredi di Gabriele Vendramin e dice di aver visto un «paesello in tela conta tempesta conta cingana (zingara che giustifica la nudità della donna che allatta) e il soldato, fu de man de Zorzi de Castelfranco». L’aspetto della tempesta è importante, viene associato alla presenza di Zeus. Il manoscritto fu ritrovato nella Biblioteca Marciana di Venezia e pubblicato nel 1800. Per anni il testo fu ricordato come “l’Anonimo Morelliano”, solo nel 1884 verrà individuato il suo vero autore. Si dice che egli non terminò mai l’opera, questo perché già si vociferava la stesura di un testo più completo di Vasari. Longhi definisce Michiel il «patriarca dei conoscitori italiani» Conoscitore, per Longhi, ha un grande peso: si tratta di uno studioso con un grande bagaglio di conoscenze, dotato di grande occhio per il riconoscimento e che può, di fronte ad un’opera, cambiare l’attribuzione di tale opera sulla base delle sue conoscenze visive. LUDOVICO ARIOSTO (1474-1533) La maturazione del linguaggio artistico del 16esimo secolo è repentina. Un importante riflesso lo si coglie nell’ “incipit dell’ultima edizione (la terza) del 33esimo canto dell’Orlando Furioso”, di Ludovico Ariosto. In questo racconto epico-poetico, Ariosto mette in scena un momento particolare in cui l’eroina Bradamante, nel castello di Tristano, ammira delle pitture magiche fatte apparire per predire le future guerre. In questo incipit si legge un lungo repertorio di artisti, dall’età classica (attingendo a Plinio) sino all’epoca contemporanea in un elenco corposo. Ariosto dimostra di avere una visione sovralocale, a differenza delle Vite che hanno preceduto il suo testo che ponevano l’attenzione solo su artisti di un’area. GIORGIO VASARI (1511-1574) Pubblica “Le Vite” presso l’editore Torrentino nel 1550. L’editore ebbe una buona intuizione perché l’opera pubblicata ebbe immediata diffusione in quanto vi fu una grande richiesta ed interesse. L’edizione dell’opera si chiama: La Torrentiniana, dal nome dell’editore. La Torrentiniana viene venduta rapidamente, emergono però anche le sue incompletezze. Questo porta Vasari, bersagliato da notizie di omissioni e proteste, a realizzare una seconda edizione, che venne pubblicata nel 1568 dall’editore Giunti: La Giuntina. Vasari ordina le vite di pittori, scultori e architetti con una impalcatura storica che riesce a configurare dividendo le biografie in 3 età/maniere: 1. Trecento 2. Quattrocento: si tratta di una maniera secca, sperimentale 3. Cinquecento: si tratta di una maniera moderna, che trova Leonardo come patriarca fino a Michelangelo, quest’ultimo nella Torrentiniana è l’unico artista ancora in vita, incluso da Vasari. Nella Giuntina mantiene la divisione in 3 maniere e aggiunge informazioni su artisti ancora viventi, compreso sé stesso. Questa edizione è più enciclopedica, più larga e meno curata dal punto di vista della qualità della stesura letteraria. Vasari, nella Giuntina, ci racconta di un’origine letteraria della sua idea di scrivere “Le Vite”. Dal testo: Roma, nel 1596, quando il dittatore artistico era il cardinale Alessandro Farnese, si recava a ‘veder cenare’ tale cardinale, essendo però ammesso alla conversazione. Lì si discuteva tra vari letterati, tra questi monsignor Giovio, di una collezione da lui realizzata in quanto forte umanista, e aveva incluso ritratti di grandi uomini illustri in senso ampio. Portò tali ritratti presso il Lago di Como, realizzando un Museum (luogo delle muse). Tale uomo avrebbe sempre voluto includere nella sua raccolta un trattato che potesse parlare delle vite di tali uomini illustri, soprattutto perché mancavano testi di biografie di uomini delle arti. Così viene proposto a Vasari di scrivere tale testo, portando anche acqua al mulino degli artisti. Vasari mette assieme i suoi appunti di idee precedenti, portandole al Giovio. Inizialmente tentenna nel realizzarlo, in quanto non era scrittore ma pittore, cede però alle insistenze dei suoi colleghi intellettuali. In entrambe le edizioni inserisce un’incisione che dichiari le sue intenzioni. Vasari parlerà anche delle arti congeneri alle arti, per esempio, per la pittura: il mosaico, gli arazzi e per la scultura: le armature sbalzate, i vasi in terracotta. Ci ricorda sempre di essere un pittore, NON ha la presunzione di elevarsi a scrittore. La Torrentiniana (1550) È presente la dedica a Cosimo de’ Medici. Sul Frontespizio troviamo 2 erme che ergono il frontone con lo stemma dei Medici, sotto 2 putti sollevano un tendone con alle spalle il panorama di Firenze. Si ha una doppia citazione alla città, per Vasari la culla della rinascita dell’arte è proprio in Toscana. C’è una parabola ascendente su matrice di Plinio, che concepisce un’impalcatura storiografica articolata. 1. Proemio sulle arti: architettura, scultura e pittura 2. Proemio delle Vite 3. Prima età, ovvero la rinascita (da Cimabue a Lorenzo di Bicci) 4. Seconda età (da Jacopo della Quercia a Pietro Perugino) 5. Terza età (da Leonardo a Michelangelo) 6. Conclusione dell’opera agli artefici ed ai lettori 7. Tavola dei nomi Michelangelo segna la vetta di un’evoluzione artistica, Vasari non ci dice cosa succede dopo. Si resta a quella vetta o si decade? Gli studiosi che lo seguono non considerano Michelangelo il raggiungimento della vetta. La Giuntina (1568) La sua stesura nasce dall’incentivo, da parte di un collaboratore di Vasari, Borghini, ad aggiornare la “Vita di Leonardo”, in quanto aveva compiuto dei viaggi di approfondimento nella pianura Padana, si reca anche da Melzi. L’aggiunta delle informazioni impedisce al Vasari di realizzare delle biografie ricche dal punto di vista letterario. Mantiene la dedica a Cosimo de’ Medici e anche il proemio dell’opera. Inserisce una lettera sui grandi artisti del passato da parte di Giovan Battista Adriani. Divide la struttura nelle 3 età, l’ultima è quella più corposa. È morto Michelangelo. Inserisce molti contemporanei e sé stesso compreso. Nel 19esimo secolo si sono diffuse delle opere a commento delle Vite, con fare critico. L’obbiettivo era di individuare i suoi errori. Ora vi è un approccio diverso, non critico ma di comprensione sulle ragioni per cui Vasari fa una scelta piuttosto che l’altra. Nel Proemio individua il disegno come principio unificatore di tutte le arti, a seguito di un dibattito per individuare quale fosse l’arte più nobile tra pittura e scultura. Il disegno è padre delle arti, operazione mentale e grafica assieme e dev’essere eseguito con grande velocità. L’idea della prestezza è insita nella terza età: l’età moderna del Vasari. Correda la seconda edizione con ritratti degli autori a cui dedica le Vite. Accompagna la stesura di entrambe le edizioni continuando a ricordare che lui aveva affiancato a questa sua opera una collezione propria di disegni di diversi artisti, che ha unificato in diverse raccolte: viene definito il “museo privato di Vasari”. Dal 600 la raccolta degli album è stata smembrata, mentre in altri casi i disegni sono stati smontati dalle incastellature architettoniche all’interno delle quali le aveva inserite Vasari. Non era interessato ad utilizzare delle incisioni di produzioni di disegni che lui possiede di altri artisti, ma vuole corredare le “Vite” di veri ritratti degli artisti dei quali vuole parlare. Dal 400 la riproduzione di immagini per incisione diviene molto diffusa. Le stampe si dividono in 2 filoni: stampe/incisioni di invenzione e stampe/incisioni di produzione, che riproducono le invenzioni di un maestro. Ritiene che la fisionomia dell’artista riveli molto del suo carattere. Le cornici stabiliscono le arti in cui si è maggiormente espresso l’artista in questione. La Giuntina è più articolata rispetto alla prima. qualità, non il soggetto. Caravaggio, nonostante questa gerarchia del quinto livello, sarà comunque molto apprezzato da Giustiniani. La teoria dei collezionisti distingue opere adatte a salotti, logge o luoghi in cui si mangia. GIULIO MANCINI (1559-1630) Era un archiatra, dottore di Urbano 8 e si definisce “homo di diletto di simil studi”. È stato uno dei primi intenditori di arti, ma era anche mercante e mediatore di arte. Ha possibilità economiche e grandi conoscenze, scrive considerazioni in quanto uomo di gusto e dà consigli ai collezionisti sulla sistemazione delle opere, sulle cornici... lasciando testimonianza di un gusto diffuso per il collezionismo. Gli si deve la stesura delle “Considerazioni sulla pittura”, rimaste inedite per molto tempo e pubblicate nel 1956-57. Comincia col dire che si può parlare di artisti di scuola senese, fiorentina, romana, bolognese, per poi passare a parlare di scuole. Mentre Vasari ci parla di artisti con una genealogia artistica precisa, con una visione sgranata dell’Italia e si concentra sulla personalità degli artisti, in Mancini si trovano rappresentazioni generiche e schemi che parlano di artisti riconoscibili per la loro scuola di appartenenza. Questo significa iniziare a parlare di uno stile di apparentamento più che di uno stile personale di un artista. Si ritiene che la rappresentazione di una storia dell’arte, degli artisti per scuole, si dati da fine 700 a inizio 800 per mano di Luigi Lanzi che, in questo periodo, ha scritto la “Storia pittorica dell’Italia”, raggruppando la storia della pittura italiana, non focalizzandosi sulle singole personalità, ma illustrando le vicende della storia della pittura italiana per mezzo delle scuole locali. Lanzi ha formalizzato questa rappresentazione che tiene conto dello stile. In realtà Mancini, in modo meno sistematico e organizzato, come farà Lanzi, aveva già cominciato ad avere embrionale idea dello stile, dicendo che esistono pittori di varie scuole. Pur trattando di artisti diversi, unisce mature considerazioni stilistiche e dettagli biografici fornendo informazioni importanti su Caravaggio, Poussin e altri. Molte sono le considerazioni teoriche dettate dall’uomo di gusto, che se ne intende, e dal consapevole fruitore dell’arte, che non vuole dare precetti sulla pittura, ma che la sa capire. Distingue i principi della critica figurativa: differenzia le pitture per tecnica, epoca e modo di composizione, originale o copia. Afferma che si possono superare gli scrupoli religiosi e arriva a stilare una topografia della convenienza. La sua opera testimonia il gusto raffinato ed elitario di pochi. L’opera di Mancini conosce notevole circolazione tra gli intenditori: ne sono sopravvissute molte copie manoscritte, ricercate in virtù delle notizie sugli artisti contenuti. Mancini è stato considerato tra i primi teorici, con Agucchi, a suddividere i pittori in scuole (senese, fiorentina, oltramontana…) tanto che il suo testo è stato interpretato da una parte della critica 900esca come precoce presentazione dello sviluppo dell’arte in termini di storia dello stile IL FILONE DEL CLASSICISMO Vede l’affresco “Nozze Aldobrandini” (scoperto nel 1601 a Roma, risalente al 1 sec. ac) come un’illuminazione. L’affresco viene considerato uno dei paradigmi del classicismo al quale gli autori si possono rifare. Il primo restauro sull’opera è condotto da Federico Zuccari, dal 1605. GIOVANNI BATTISTA AGUCCHI (1570-1632) Nato a Bologna, il nobile prelato entra a Roma al servizio del cardinale Pietro Aldobrandini, nipote di Clemente 8 e stringe legami con i pittori Annibale Carracci e Domenichino. Scrive il “Trattato della pittura”, noto solo grazie a frammenti stampati postumi nel 1646, in cui pone le basi terminologiche del classicismo del 600, accolto e cristallizzato da Giovan Pietro Bellori. È stato uno dei testi fondativi della teoria dell’idea del bello in Italia e all’estero, è un trattato estremamente intellettuale. Nel trattato di Agucchi l’intellettualizzazione dell’arte, attuata accentuando il legame tra arti e letteratura reagisce all’eccessivo naturalismo e alla parte manuale del mestiere, la praxis. GIOVAN PIETRO BELLORI (1613-1696) Fu un pittore, poeta, collezionista, archeologo, antiquario e abate e diventa in vecchiaia Commissario delle antichità di Roma e del suo distretto per conto di Clemente 10, sotto la protezione del cardinale Camillo Massimo. È al centro di una fitta rete di relazioni. È un classicista convinto e va contro Gian Lorenzo Bernini, il quale è amico dei pittori Poussin e Maratta. Dal 1677 diventa il bibliotecario di Cristina di Svezia, la figlia di Gustavo Adolfo, che ospita a Palazzo Corsini gli eruditi del tempo e una collezione di dipinti. La regina non avversa Bernini: per trovare qualcuno che ne scriva la biografia, deve rivolgersi al fiorentino Filippo Baldinucci, in quanto Bellori e i suoi soldati si rifiutano di redigerla. “VITE DE’ PITTORI, SCULTORI E ARCHITETTI MODERNI (I PARTE), 1672” Il suo intento era quello di evolvere il metodo Vasariano, costruito con un intento storiografico molto preciso, di tipo evolutivo. Bellori non è interessato a dare conto della biografia di molti artisti, ma pensa di dover effettuare una selezione storica/filosofica solo di alcuni artisti per lo più contemporanei, importanti per il valore paradigmatico della loro opera nei campi artistici. Non si tratta di una rappresentazione storica degli artisti che parte da tempi remoti, ma da tempi a lui vicini. Non sono delle vere e proprie Vite, scarta l’utilizzo dell’aneddoto, che Vasari aveva fatto proprio, Bellori parla per lo più delle opere. La premessa è il discorso “sull’Idea della pittura, scultura e architettura” del 1664, presentato all’Accademia di S. Luca. Nel discorso si ordinano le teorie classiciste-idealiste di letterati come Agucchi e di artisti come Zuccari, Domenichino e Poussin in un sistema estetico, fondamento teorico per l’elaborazione delle Vite. Il discorso ha una influenza grandissima in Europa e in particolare sull’Accademia di Francia fino a Reynolds e Winckelmann. “L’idea del Bello”, così si intitola la prolusione pronunciata da Bellori di fronte agli Accademici di S. Luca di Roma nel 1664, diventa la prefazione delle Vite del 1672. La storia degli artisti viene assorbita in un contesto speculativo e filosofico. Bellori opera una selezione, scegliendo di parlare solo di pochi artisti significativi. Nel primo volume (l’unico uscito mentre Bellori era in vita) si leggono le 12 Vite di Annibale e Agostino Carracci, Domenico Fontana, Federico Barocci, Caravaggio (campione di praxis), Rubens, Van Dyck, Duquesnoy, Domenichino, Lanfranco, Alessandro Algardi e Poussin. Nelle vite belloriane il meccanismo della rappresentazione della storia dell’arte a parabola NON interessa e NON viene ripreso. Bellori parte da Annibale Carracci che, trovate le arti nello stato degradato in cui il manierismo “michelangiolesco” le aveva fatte regredire, le fa risorgere grazie allo studio del disegno, della scultura antica e all’imitazione selettiva della natura. Bellori parte da un vertice e giunge a Poussin. “DESCRIZIONE DELLE IMMAGINI DIPINTE DA RAFAELLE D’URBINO NELLE CAMERE DEL PALAZZO APOSTOLICO VATICANO, 1695” Scrive una ekfrasis, la prima con tentativi di interpretazioni sulle pitture delle stanze Vaticane. Ciò contribuisce ad elevare Raffaello. Le spese di pubblicazione della descrizione sono sostenute da Maratta e del cardinale Albani, che la fanno stampare privatamente e le fanno distribuire gratis a studiosi ed amici: ciò avviene poco dopo la morte del Bellori. Ma Bellori rappresenta un caso a sé: normalmente, nel 17esimo secolo, le Vite degli artisti sono copiosamente pubblicate ma in chiave locale, secondo una modalità tipicamente italiana ricca e variegata. A partire dal 1642, cioè dalla pubblicazione delle Vite Romane di Giovanni Baglione, in varie città italiane iniziano a uscire raccolte biografiche che documentano le vite degli artisti prescelti su base locale. L’intento è quello di: risarcire, in chiave campanilistica, le mancanze vasariane e di continuare la cronologia interrotta al 1568, anno della Giuntina. 3 casi esemplari (la casistica annovererebbe un numero consistente di autori): GIOVANNI BAGLIONE, “LE VITE DE’ PITTORI, SCULTORI ET ARCHITETTI. DAL PONTIFICATO DI GREGORIO 13 DEL 1572 IN FINO A’ TEMPO DI PAPA URBANO 8 NEL 1642”, 1642 È stato un pittore romano, passato dalla cultura tardomanieristica assorbita in gioventù ad un’intensa ma superficiale adesione ai modi di Caravaggio e infine approdato a uno stile più devozionale ed eclettico. Nel 1642 pubblica Le “Vite” in cui dimostra scarso atteggiamento critico e grande accuratezza documentaria e cronachistica. Baglione si limita a Roma e racconta le vicende degli artisti attivi in città dividendola in 5 giornate dedicando a ciascuna un Papa, da Gregorio 13 a Urbano 8. Vuole continuare Le Vite di Vasari e quelle citate nel riposo di Borghini (1584). Successivamente, sarà un accademico di S. Luca, Giovanni Battista Passeri, a scrivere la continuazione delle Vite aggiungendo artisti fino al 1678. CARLO RIDOLFI, “LE MERAVIGLIE DELL’ARTE”, 1648 Ha un taglio estremamente municipalistico, conferisce la palma agli artisti veneti. CARLO CESARE MALVASIA, “FELSINA PITTRICE”, 1678 (nome latino di Bologna) È divisa in 2 volumi e strutturata in 4 parti:  la prima è dedicata ai “primitivi” della pittura bolognese, il 300  la seconda va da Francesco Francia a Cesare Baglione: pittori più moderni fino alla fine del 500  la terza è dedicata ai Carracci (preferisce Ludovico, che è l’unico che è rimasto a Bologna)  l’ultima presenta i pittori del 600, compresi i campioni sovralocali Reni, Guercino, Domenichino e Albani Fondamentale è l’oculare ispezione delle opere condotta dall'autore (che nel 1663 era stato a Milano). L'opera è redatta con un ricco apparato dottrinario di matrice classicista. A metà del 19esimo secolo l'opera è ristampata in un'edizione rivista, con aggiunte-commenti, che ha avuto diffusione e che ha modificato il testo originario del 1678. Nel 1686 Malvasia pubblica “Le pitture di Bologna”, prima guida artistica della città in cui si difende dalle pesanti critiche rivolte alla Felsina LE GUIDE Il 600 non è soltanto il secolo dell’esplosione delle vite degli artisti a livello municipale, ma è anche il secolo che vede l’esplosione della pubblicazione delle Guide delle città. Dalla fine del 16esimo secolo, inizia a diffondersi in Italia un nuovo genere letterario, quello delle guide delle città e dei centri maggiori. Inizialmente questi testi hanno forma di trattazioni volte a mettere in luce solo la nobiltà e la grandezza storica e cristiana di un luogo, diventano poi vere e proprie guide. Sono esempio di questa fase aurorale la “Nobiltà di Milano” del 1595 di Morigia, o opere su Venezia scritte da Sansovino, poligrafo e poeta petrarchesco, impropriamente qualificati come vere guide della città: “Delle cose notabili della città di Venezia” (1561), a dialogo, oppure “Venetia città nobilissima e singolare descritta in 13 libri” (1581) Le guide cittadine diventano più moderne solo dalla metà del 600. Città di pellegrinaggio come Roma conoscono un profluvio di pubblicazioni che si emancipano dal modello dei Mirabilia Urbis Romae, diventando più controllate e fedeli. Anche Firenze, Bologna, Napoli, Milano sono al centro dell'attenzione di molti autori. Molti vengono corredati con illustrazioni, si tratta di incisioni in rame che riproducono monumenti significativi, mappe o vere e proprie vedute. IL GRAND TOUR Eruditi, pellegrini, viaggiatori impegnati nel Grand Tour usano e leggono le guide. Nel 1670 un canonico inglese, Lessels, inizia a parlare di Grand Tour affermando che ogni gentiluomo e ogni studente di architettura, di antichità e di arte non può fare a meno di visitare l'Italia. Propone nelle “Voyage” pubblicate a Parigi, una descrizione dei luoghi personalmente visitati durante i suoi 5 viaggi in Italia. L'espressione Grand Tour viene universalmente accolta, ricordando anche altre tappe di viaggio soprattutto in Francia. Un esempio è Il Ritratto di Milano del 1674 scritto dal Canonico Carlo Torre, prima vera guida di Milano. MARCO BOSCHINI (1602-1681) L’opera “Le Minere e Le Ricche Minere della pittura veneziana” del 1664, è un insieme di guide che illustrano i dipinti visibili a Venezia: elencano e descrivono le pitture delle chiese, delle confraternite e degli edifici pubblici dei 6 sestieri della città. Queste guide sono sistematiche. Il titolo Minere (miniere) e Ricche Minere palesa l'orgogliosa consapevolezza del veneziano, convinto della grandezza dell'arte degli artisti lagunari.“La carta del navegar pitoresco” del 1660 è un’opera che racconta il valore della pittura veneziana del 500 e del suo tempo in forma di dialogo non così permeato dall’idea del bello ma con un pragmatismo molto più diretto, che induce Longhi a dare a Boschini il “premio” di miglior critico del secolo (600). È scritto in endecasillabi, ordinati in quartine, in dialetto veneziano. LE GUIDE ROSSE DEL TOURING Nate nel 1913, le guide rosse rappresentano i manuali storici del Touring e sono il frutto di un lavoro accurato svolto da geografi storici dell'arte: contengono una dettagliata e aggiornata descrizione di qualsiasi località della penisola. Le guide rosse sono state annoverate tra i repertori ufficiali dei Beni Culturali italiani a livello ministeriale. Scaramuccia pubblica nel 1674 “Le finezze de Pennelli italiani”, testo di un viaggio costruito come il dialogo tra il Genio (Raffaello) e Girupeno (anagramma di Perugino, cioè lo Scaramuccia stesso, che era Umbro di Perugia), un giovane pittore che deve essere istruito. A Venezia, Scaramuccia finge di farsi accompagnare da Marco Antonio Boschini, un pittore formatosi presso Guido Reni e poi con Lanfranco, eclettico nelle sue espressioni artistiche. Scaramuccia viaggia in Italia per approdare, intorno alla metà del secolo, a Milano. Per scrivere “Le Finezze”, si aggiorna su molte fonti e trae informazioni anche da autori come Raphaël Trichet du Fresne, che aveva scritto l'introduzione al “Trattato della pittura di Leonardo”, pubblicato a Parigi nel 1651. FILIPPO BALDINUCCI (1625-1696) Per un lungo tempo della sua vita è stato bibliotecario, ordinatore dell’enorme raccolta di disegni che intorno alla metà del 600 vengono fatti raccogliere e catalogare sotto richiesta di Leopoldo de Medici, costituendo oggi il nucleo del gabinetto delle stampe degli Uffizi. “NOTIZIE DE PROFESSORI DEL DISEGNO DA CIMABUE IN QUA”, 1681 Ai primi del 700 l’edizione completa di questo libro viene ricercata anche in Francia da collezionisti, non è un caso che proprio a Firenze esploda questo interesse maniacale. I primi volumi escono nel 1681, sarà Baldinucci a scrivere la biografia di Bernini, rifiutata da Bellori che incide però sulla mentalità dei contemporanei. A Baldinucci si deve la stesura di un paio di dizionari molto pratici, uno esce nel 1681. “VOCABOLARIO TOSCANO DELL’ARTE DEL DISEGNO”, 1681 Doveva essere messo accanto al primo, in rapporto con tanti letterati del tempo farcisce questo dizionario aggiungendo anche una serie di elementi di citazioni tratti da fonti antiche e contemporanee. Nel 1686 raccoglie stampe di artisti che volevano vedere i loro disegni trasformati in stampe. Dobbiamo a Baldinucci la diffusione di stampe, anche come arredo, di questo interesse al vocabolario toscano utile e di questo repertorio dei maestri intagliatori di stampe con informazioni tecniche, considerato uno strumento utile. SEICENTO E SETTECENTO IN FRANCIA La Francia di Luigi 14 diventa un polo attrattivo e produttivo di alta qualità, assumendo nel 600 fino all’800 un ruolo leader. La politica accentratrice di Luigi e del suo ministro Colbert, il dedicatario delle Vite di Bellori, fa si che molto presto si incominci a pensare che anche la Francia debba avere un’accademia artistica non affidata a singoli artisti. Nel 1648 l’Accademia reale di pittura e scultura ha la necessità di controllo della produzione artistica francese per limitare le importazioni dall’estero e poter dare vita a più genie di pittori e scultori messi al servizio della corte seguendo delle regole, dei codici e dei canoni, quelli del classicismo che la corte aveva fatto propri, in maniera organizzata e abbastanza controllata. Non si va a studiare per formarsi, ma vengono chiamati gli artisti per partecipare al riunire e vengono istruiti sulle necessità di una pittura. Si iniziano a pensare alla necessità di fare delle mostre temporanee, i Salons promossi dall’Accademia con scadenze non troppo rigide ma sempre più controllate. È un prodotto dell’accademie il “Trattato sulla pittura di Leonardo da Vinci” del 1651: il Manuale per l’istruzione degli artisti, una versione semplificata che esce con traduzione in francese di Roland Freart de Chambery. Potendo corredare questa edizione di un apparato iconografico affidato a Poussin, non c’è intellettuale che non trovi in lui un punto di riferimento. ROLAND FRÉART DE CHAMBERY (1606-1674), IDEE LA PERFECTION DE LA PEINTURE, 1662 È un prolifico scrittore, si innesta nell’ambiente dell’Accademia francese e ritornando in Francia cerca di riprendere Poussin che era a Roma. La pittura deve esprimere un bello ideale, vengono delineate delle categorie di giudizio sulle quali si devono considerare le opere. Cerca di dare delle norme a delle categorie di giudizio: sulla base dello stile e della composizione, in una scala di valori che vedeva Raffaello, Leonardo, Giulio Romano come il vertice massimo e considerava pittori minori Michelangelo, Tintoretto, Rubens. In questo clima inizia questa mitizzazione di Leonardo. PAUL FRÉART DE CHANTELOU (1609-1694), DIARIO, 1665, Il fratello di Roland tiene un diario che analizza il viaggio del cavaliere Bernini in Francia. Era amico stretto di Poussin, considerato una punta di diamante del classicismo francese. Questo viaggio vede Bernini accolto come un trionfatore inizialmente e poi una volta tornato in Italia considerato meno perché ‘troppo barocco’. Questo classicismo con rigidità ossessiva nel giudicare i quadri a fronte di una maggiore collezione e mercato dei dipinti e delle stampe, vede delle voci levarsi man mano a segnare che di lì a poco le cose cambieranno. ROGER DE PILES (1635-1709), DIALOGUE SUR LE COLORIS, 1673 Mette in scena una serie di novità, in cui i protagonisti del dialogo non sono esperti, ma personaggi del pubblico, amatori. Distingue tra “amatori”, quelli che vanno a vedere le opere e le giudicano su una sensazione e “conoscitori”, quelli che dopo aver studiato e fatto proprie categorie di giudizio, esprimono giudizi e cercano di conoscerne il maggior numero. Nell’800 pieno il conoscitore diventa quello che praticando l’ispezione diretta e facendola diventare un sistema della propria azione, va a riattribuire dipinti e opere giudicandole su categorie stilistiche che fa proprie. Nel dialogo parla di queste persone del pubblico che si cimentano in una delle tante dispute accademiche, i 2 termini della querelle riguardano il disegno e il colore. Il primato non può essere affidato solo al disegno, ma anche al colore di matrice veneta, portato all’ennesima potenza da pittori come Rubens. Elenca più di 56 pittori importanti del suo tempo sulla base di una valutazione da 0 a 18. Udo Kultermann giudica De Piles come colui che ha fatto uscire l’arte dalle botteghe per porsi a disposizione del pubblico, che impara a giudicare sulla base di grandi categorie. Le vite degli artisti sono pubblicate in lettere, in abbecedari, in guide o in cataloghi, ma le notizie NON sono utili ai lettori perché si butta via una gran quantità di tempo. Con una nota polemica afferma che a nessuno interessa il caso singolo della vita del pittore, perché questo è iscritto in un ambiente che lo forma. Egli si propone di studiare “il talento, il metodo, le invenzioni, lo stile, la varietà, il merito, il grado di molti pittori, onde risulti la storia di tutta l’arte”. La restituzione deve essere complessiva e deve mettere in luce quanto ciascun autore abbia influito nella corrente dominante. L’artista NON può essere studiato singolarmente. Afferma di aver preso esempio da Winckelmann, che ha diviso l’arte in tante scuole di modo da ottenere una visione organica. Le scuole sono 6, a partire dalla scuola fiorentina e romana per passare a quella napoletana, senese, veneziana, bolognese, genovese, piemontese. Nel tardo 700, gli ex-gesuiti compilano grandi storie compendiarie. È noto il legame di Luigi Lanzi con Gerolamo Tiraboschi, religioso e amico. Tiraboschi, succeduto a Ludovico Antonio Muratori nella direzione della Biblioteca Estense di Modena, pubblica la sua “Storia della Letteratura italiana” in 9 tomi tra il 1772 e il 1782, scandendovi la storia della letteratura italiana in ordine cronologico, non utilizzando il sistema per generi o per biografie fino ad allora in uso. L'opera diventa celebre ed è tuttora utile, anche se la stesura è stata sciatta. L’opera di Lanzi è ancora oggi ridimensionata da alcuni studiosi, allineati sul giudizio emesso da Benedetto Croce e Lionello Venturi. Nel 900, sono tanti a credere che il merito di Lanzi sia ridotto rispetto a Winckelmann o Schlosser. Croce e Venturi non amano l’opera di Luigi Lanzi; Croce considera "passivi" i giudizi dell'ex gesuita, mentre Venturi avverte che valga di più sotto l’aspetto divulgativo, più che per quello di critica d’arte. Uno dei giudizi positivi, lo vediamo in Longhi, che si era reso conto che Lanzi non era stato soltanto un compilatore, ma riconosce delle abilità compilative di un compositore erudito: visione oculare dell’opera, viaggi, sintesi e cambiamenti di attribuzioni. JBAPTISTE D’AGINCOURT (1730-1814) È un altro di quegli autori che racconta una storia dell’arte sulla scia di Winckelmann corredandola di immagini, con oltre 320 incisioni per illustrare 1400 monumenti. Pensa che si debbano "esporre agli occhi" i monumenti. L’opera si chiama “Histoire de l'art par les monuments depuis sa décadence au 4 siècle jusqu'à son renouvellement au 16 siècle” del 1810-23: storia dell’arte dei monumenti dalla decadenza nel 4 secolo fino al suo rinnovamento nel 16 secolo. L’intento è quello di voler illustrare i progressi e i pregressi dell’architettura, mossa verso il classicismo. Nonostante il pregiudizio, egli propone una nuova rappresentazione del Medioevo e dà il la al fiorire di nuovi studi. Documenta con grandi tavole il gotico e il medioevo anche se inconsciamente, è considerato paradigmatico. L’OTTOCENTO In Italia le soppressioni giuseppine e napoleoniche, e le confische, producono una movimentazione enorme di opere provenienti da chiese e conventi (espropriazione di latifondi). Confische e vendite animano musei, raccolte private, mercato, mercanti e conoscitori. Segue una mobilitazione di opere d’arte che porta a un grande mercato dovuto allo svuotamento dei monasteri e dei conventi. Il mondo dell’arte italiana si ingolfa di opere provenienti da chiese, fin tanto che il mercato si sensibilizza per determinate opere e periodi. Questo comporta un’abbondanza di opere alla quale corrisponde un nuovo assetto nel mondo del collezionismo e degli intenditori di opere d’arte. Al declino della classe nobile, la classe egemone prima dell’800, corrisponde l'alienazione di collezioni secolari; per contro, la borghesia, in ascesa, ricerca opere, anche del passato, come simboli del nuovo status. La decadenza di famiglie nobili porta alla dispersione di opere, che porta all’esistenza del mercato per collezionisti privati. Si diffondono le Accademie d'Arte per la formazione di artisti. Sono diventate più simili a ciò che intendiamo noi nel termine, prima erano luoghi per filosofeggiare. Al loro interno si era incrementato il numero delle esposizioni e il gusto comune che dovevano essere ben accette all’accademia. Nel 1807 il complesso di Santa Maria della Carità diventa sede di rappresentanza della “Accademia di Belle Arti di Venezia”. In fondo alla sala troneggia l'Assunta dei Frari di Tiziano, rimasta per un secolo nel museo e poi restituita alla chiesa francescana. Milano non restituisce a Venezia i dipinti giunti con le soppressioni: sono a Brera. La Pinacoteca era diventata il centro di smistamento per l’Italia settentrionale. L'architetto Piermarini cura il riassetto dell'edificio destinato ad accogliere l’ “Accademia di Brera” nel 1776 finalizzata, secondo l'imperatrice Maria Teresa d'Austria, a sottrarre l'insegnamento delle Belle Arti ad artigiani e artisti singoli per sottoporlo "alla pubblica sorveglianza ed al pubblico giudizio”. Il complesso laicizzato racchiude: biblioteca, osservatorio astronomico, accademia di Belle Arti, orto Botanico, laboratorio di fisica. Si dota anche di un museo, che deve servire per istruire ed affinare gli studenti e per ammaliare i visitatori. Le esposizioni di Brera, organizzate dal 1805 grazie all'iniziativa del segretario Bossi, sono le più importanti d'Italia per tutto l'800. Le sale napoleoniche all’interno della pinacoteca sono state costruite sulla chiesa. È un palinsesto istruttivo. Tra la fine del 700 e l’inizio dell’800 tanti musei hanno mutato la loro conformazione originaria, da collezione personale principesca al museo di oggi. I musei vengono visti come raccolte di testimonianze del passato, da esporre con un ordine storico. Per quanto disfatto dal 1814-15, il Musée Napoleon di Vivant Denon resta un modello di riferimento per i nuovi musei. Da Roma arriva il Laocoonte. L'ordinatore del Museo, Vivant-Denon, coordina arrivi e allestimenti parigini: è l'utopia del Musée Napoleon, che includeva una sezione di antichi maestri, per forgiare un nuovo gusto.  A Roma i Musei Capitolini aprono al pubblico nel 1734, quando Clemente 12 dispone l'acquisto di oltre 400 sculture provenienti dalla collezione del cardinale Albani.  A Londra il British Museum, fondato nel 1753, viene aperto al pubblico nel 1759.  A Vienna dal 1783 Giuseppe 2 fa riordinare il Kunsthistorisches Museum per scuole pittoriche. La radice è tassonomico-naturalistica, ancora non storico-artistica.  A Parigi dal 1794, il Louvre viene organizzato come museo pubblico: ci si rende conto che le distruzioni post-rivoluzionarie devono cessare e che le opere d'arte sono un patrimonio repubblicano da difendere. Si accende la discussione, cui partecipa anche Jacques-Louis David. Al castello del Louvre vengono portate le opere custodite negli altri castelli della corona, compresa la Gioconda. Napoleone incrementa l'impresa, facendo convergere su Parigi le opere confiscate nei paesi conquistati; per esempio, nel 1794 arrivano dai Paesi Bassi i convogli che includono il polittico dell'Agnello Mistico dei Van Eyck (poi restituito dopo il 1815). Nel 1815, tramonta l’astro di Bonaparte ed Antonio Canova è spedito a Parigi da Pio 7 Chiaramonti per recuperare, con molto malcontento popolare parigino, le opere sottratte a Roma. Sulla via del ritorno, il Laocoonte cade sul Moncenisio, si rompe e sarà restaurato. Gli Austriaci ottengono le restituzioni per Milano, Parma, Piacenza, Firenze e Venezia. Non tutto viene restituito, come l’Incoronazione di spine di Tiziano, il quadro più famoso di Milano, che non rivede più la chiesa di Santa Maria delle Grazie e resta al Louvre. Dei manoscritti di Leonardo sottratti all’Ambrosiana, torna in Italia il Codice Atlantico. A Venezia, con la mediazione di Cicognara, tornano i cavalli di San Marco, il Leone della colonna della piazza e un cammeo, che conferma l’interesse per le gemme antiche intagliate. Grande il consenso dei veneziani al rientro di opere, considerate identitarie, anche se, dopo Campoformio 1797, Venezia aveva perduto la propria indipendenza. LEOPOLDO CICOGNARA (1767-1834) Fu un personaggio di grande importanza anche per la sua amicizia e consonanza di pensieri con Canova. Era antiquario e collezionista, per giungere dal 1808 al 1834 ad essere direttore dell'Accademia di Belle Arti di Venezia. Cicognara mette assieme una prestigiosa biblioteca, acquistata da papa Leone 12. È universalmente nota grazie al “Catalogo ragionato dei libri d'arte e d'antichità” posseduti da Cicognara. Egli aveva venduto la sua biblioteca per ricavarne il denaro per finanziare l'apparato di incisioni di traduzione destinato a corredare la 2’ edizione della sua Storia della Scultura. Tra 1813 e 1818 scrive la 1’ edizione della “Storia della scultura”. Nel 1823 pubblica la 2’ edizione arricchita di un apparato iconografico (incisioni) La Storia della scultura dal suo risorgimento in Italia fino al secolo di Canova del conte Cicognara può servire come continuazione alle opere di Winckelmann e di D’Agincourt. Su insegnamento di Winckelmann e D’Agincourt, si accorge che è necessario studiare la scultura italiana. Nella 1’ edizione la parola “Canova” era sostituita da “Napoleone”, ad indicare la sua importanza. Parte dall’età dei Pisano e afferma che il Bernini aveva portato ombra all’arte alta di Michelangelo, crede che la scultura sia rinata con Canova. L’opera è interessante per la maestria con cui affronta la scultura, tenendo conto dell’apparato monumentale, l’oreficeria e l’incisione (non la scultura policroma lignea) Nel testo si legge che la rinascita dell’arte dal Barocco è stata molto influenzata dalle scoperte di Ercolano e Pompei (nell’oggettistica), che hanno fatto sì che l’arte antica fosse ristudiata e riapplicata. GIUSEPPE BOSSI (1777-1815) Fu segretario dell'Accademia di Brera nel 1801-07, introdusse importanti riforme e novità nell'insegnamento accademico. Sotto la sua direzione, Brera diventa un polo trainante nella determinazione del gusto di artisti e pubblico in Italia settentr. Dà impulso anche alla Pinacoteca, collegata all'Accademia. Nel 1810 pubblica “Del Cenacolo di Leonardo da Vinci”. È il primo studio organico del Cenacolo, che versava in un non buono stato di conservazione. Il Cenacolo era rimasto nel refettorio dei frati e, dopo le soppressioni, diventa fruibile al pubblico, Bossi decide di scrivere un trattato sull’argomento. Cicognara nel 1810 riconosce che l’opera di Bossi sia stata una delle più grandi critiche attendibili sul Cenacolo. Nel 1817 il materiale utilizzato da Bossi per la preparazione del Cenacolo arriva a Weimar e suscita l'interesse di Goethe. JOHANN WOLFGANG GOETHE (1749-1832) Goethe vive a Weimar, ha avuto un’educazione letteraria e visiva, tra i suoi mentori c’è Oeser. Predilige l’osservare con occhio da antiquario e con occhio critico. Studia a Strasburgo per imparare il francese, la cattedrale della città lo colpisce a tal punto che si deve a lui una precoce rivalutazione del gotico. A Strasburgo, Goethe aveva tratto ispirazione da alcune teorie del filosofo Johann Gottfried Herder, che aveva affermato che ogni popolo, non solo quello greco, aveva un proprio carattere e, con esso, esprimeva una propria arte "caratteristica", peculiare e diversa da qualsiasi altra. La frequentazione di filosofi e la lettura di Winckelmann ha portato, nel 1772, alla pubblicazione “Dell'architettura tedesca”, un testo uscito anonimo ma scritto dal giovane Goethe, in cui il gotico non era più presentato come sregolato frutto di aberrazioni proporzionali barbariche, ma come prodotto autentico del genio popolare e del gusto tedesco. La forma del gotico, nata dallo spirito-genio creatore tedesco, è emozionante sebbene caratteristica, come ogni arte bella. Goethe con la maturità sconfesserà l’opera perché si sposterà verso il classicismo anche grazie al viaggio in Italia. In questi anni, l’apprezzamento per il gotico comincerà a diffondersi in maniera preponderante tra tedeschi, francesi e italiani. Tra 1786 e 1788 Goethe compie il primo soggiorno in Italia che porta all’opera “Viaggio in Italia”, pubblicata nel 1816-17 e nel 1829. Quando, a Weimar, si troverà a dirigere l'Accademia di Belle Arti locale, Goethe si allineerà su posizioni classiciste, tanto che nel 1805 pubblica “Winckelmann e il suo tempo”. Nel 1810 pubblica “La teoria dei colori”. Per quanto riguarda l'arte italiana, dal 1799 traduce in tedesco la vita di Cellini, commentata-pubblicata nel 1807, e nel 1817 studia e pubblica un saggio su “Il Cenacolo di Leonardo da Vinci”, che aveva visto in Italia. A proposito di arti figurative, Goethe scrive molto altro: saggi su Laocoonte, su Trionfi di Mantegna, su Pinacotheca dei Filostrati. In Germania e nel Nord Europa si mettono in discussione i fondamenti pagani del classicismo, sostituendoli con contenuti cristiani; i romantici e i post-romantici riconoscono nel periodo gotico un'epoca grande come l'antichità greca. Alcuni esponenti di punta del primo romanticismo tedesco valorizzano il gotico e la pittura dei cosiddetti primitivi, cioè dei maestri del 400 e anche dei più antichi. È il percorso seguito dai fratelli Wilhelm e Friedrich Schlegel, che, partiti dal confronto dialettico con il classicismo di Winckelmann, comprendono che imitare l'antico nelle sue forme e nei suoi stili è sterile, mentre è più utile appropriarsi dello spirito della grecità, riscontrandolo in altre epoche. Nel 1803 Friedrich Schlegel, permeato dal misticismo poetico di Novalis, incontra a Parigi i fratelli Boisserée, collezionisti e cultori dell'architettura gotica che considerano perfettamente esemplata nella cattedrale di Colonia. Da loro Schlegel impara a "vedere" il Gotico, sul quale si diffonderà in alcuni saggi e resoconti odeporici. Il duomo di Colonia diventa l'emblema-capolavoro architettonico del Medioevo, prodotto autentico del popolo tedesco spinto da un forte afflato religioso. Su questa via Schlegel arriva a proporre una sorta di periodizzazione del Gotico tedesco. Nella medesima ottica, Schlegel come altri scrittori del tempo, si appassiona alla pittura dei maestri primitivi nordici, con un’evidente ricerca di peculiarità nazionale e patriottica. Lo storico dell'arte inglese, Francis Haskell, in “Le immagini della Storia” del 1997, ha osservato che in questo momento la cultura tedesca intravede perfino la possibilità di combinare le circostanze di fattori sociali, politici, religiosi, climatici e di altra natura. ADOLFO VENTURI (1856-1941) Ha ottenuto la prima cattedra di Storia dell'arte in un’università italiana, la Sapienza dal 1901. La storia dell’arte prende piede all’interno delle cattedre di università negli studi umanistici grazie a questo autore e ad un dibattito nei periodici. Pochi anni dopo aver laureato molti universitari, con il permesso del ministero, fonda la 1’ Scuola di Perfezionamento di Storia dell'Arte post-laurea, formando studiosi-funzionari di Musei e Istituzioni. La scuola era di 3 anni, in cui convergono laureati provenienti da altre regioni. Solo in questo modo si poteva raggiungere una conoscenza tale per poter diventare Sovrintendenti. Anche Longhi era andato a Roma per perfezionarsi. I posti limitati di questa scuola fecero sì che in varie zone d’Italia si diffondessero altre scuole di perfezionamento con altrettanti posti limitati. JOHN RUSKIN (1819-1900) L'incidenza di John Ruskin sulla pittura contemporanea e sui pittori è stata rilevante. La sua famiglia è puritana religiosa e privilegiata, all’interno della quale si ritaglia il ruolo di appassionato d’arte e critica. È appassionato specialmente di architettura antica e gotica e della pittura di alcuni suoi contemporanei. È uno scrittore molto letto dal pubblico della sua generazione (Proust, Tolstoj, Wilde) e delle successive. La sua vita si divide in una prima fase di scrittore, in una seconda come docente ad Oxford e l’ultima come pensionato. Dal 1869 insegna Storia dell'Arte all'Università di Oxford . Sono gli anni in cui predica contro il dominio delle macchine e della industrializzazione. Sarà tra i primi a denunciare la rovina del paesaggio causata dalla rivoluzione industriale ed esprimere orrore per le condizioni disumane dei lavoratori. Punta al collettivismo per allontanarsi dall’individualismo pressante in quell’epoca, attacca il liberismo degli economisti. Nei suoi scritti, rapporta arte e morale e, rifacendosi alle teorie dell'architetto Pugin (il progettista del Big Ben e del Parlamento di Londra), sviluppa la connessione tra opera d'arte e stato della società. Diventa promotore del Gothic Revival. Il Medioevo è visto come tempo ideale, modello etico verso cui la società dovrebbe tendere. Dopo il viaggio in Italia, inizia a scrivere anche di quest’ultima. In particolare, merita ricordare: “Modern painters” del 1843-60, in 6 volumi, inizialmente presentati come difesa ed esaltazione di Joseph Turner, diventando poi un trattato estetico sull'arte della pittura, esercita influenza in patria e fuori. Scrive che Turner riuscì a rappresentare l’immensità dei paesaggi terrestri. Il saggio “Pre-Raphaelitism” del 1851, uscito in 2 puntate su una rivista, avendo lui grande presa sul pubblico, determina il successo del movimento preraffaellita, il cui giudizio è tenuto in grande considerazione nell'Inghilterra vittoriana di metà secolo. Contribuisce a suscitare nuovo interesse sugli artisti, il che lancerà anche sul mercato una determinata corrente (travel agents). Nell’opera “Seven lamps of architecture” del 1849 illustra i principi (lamps) base dell'architettura, magnificandovi lo stile gotico, in particolare quello inglese. I 3 volumi di “The stones of Venice” del 1851-53, celebrano le origini e il significato dell'arte gotica rapportandola con le virtù morali della società che l'aveva prodotta; attribuisce la decadenza della società alla scomparsa di tali virtù. Un capitolo dell'opera, The Nature of Gothic, ristampato in opuscolo autonomo, influenza profondamente William Morris. Consacra il mito di Venezia come città dalla grande personalità anche gotica che si riconosce nelle sue vie. Per lui la morfologia non doveva essere né toccata né restaurata. Guarda Venezia come a un soggetto vivo, da sottrarre al decadimento e da immortalare ingaggiando una lotta contro il tempo. L’opera “Mornings in Florence” del 1875-77 comprende 6 lettere in cui Ruskin sviluppa temi relativi all'arte e alla storia di Firenze. Magnifica Giotto e la sua opera. La 1’ cattedra universitaria europea era stata accesa a Berlino nel 1844 per Gustav Friedrich Waagen, direttore della Gemäldegalerie. I tedeschi ci erano arrivati dopo, nonostante ci fossero periodi più o meno amati. Anche a Vienna si era accesa una cattedra precedentemente all’Italia. "Art Treasures of Great Britain” a Manchester nel 1857 è la mostra, organizzata nella città industriale, che attira 1.300.000 visitatori e comprende l'esposizione di opere di "antichi maestri". Il restauro architettonico Il restauro architettonico, compiuto durante l’800, poteva essere di 3 tipi:  Restauro stilistico: fondato sul criterio dell'analogia, sulla trasposizione da esempi simili, sulla divinazione di ciò che l'antico artista avrebbe realizzato e conduce al ripristino, a forme d'integrazione, di completamento, a correzioni e invenzioni arbitrarie.  Restauro storico: abbandona il concetto di unità stilistica e adotta quello del restauro 'documentato', sulla base di prove vagliate. Non si procede più per via analogica, ma per la via della ricerca storica, giungendo ugualmente a interpretazioni e risultati arbitrari. Un esempio italiano è la Torre del Filarete del Castello Sforzesco, ricostruita da Beltrami. Trova difensori in architetti come Eugene Viollet le Duc, cui si devono il restauro dell'abbazia di Vezelay o la ricostruzione di Carcassonne, e interessanti studi sulla struttura dell'architettura gotica.  Restauro conservativo: si ispira ai principi di Ruskin, padre di questo restauro. Non realizza ricostruzioni arbitrarie, ma consolida solo quanto rimaneva degli edifici. Un esempio italiano è San Gagliano. Ruskin, in nome del principio della verità storica e morale, si oppone al restauro storico, il suo gusto si schiera per quello conservativo, che rivaluta grandi rovine. I nuovi musei dell’Ottocento sono: - National Gallery di Londra fondata nel 1824. È un museo pubblico e civile, quindi non si rifà alle collezioni principesche o imperiali. Si incrementa con artisti e donazioni che non incorporano le proprietà della Corona inglese. Era destinato all’educazione del pubblico e degli artisti. - Gemäldegalerie di Berlino fondata nel 1830 con direttore G. Waagen annovera le collezioni di Giustiniani. Tra i tanti studiosi di Burckhardt uno dei più celebri è Wölfflin; svizzero, professore universitario a Monaco di Baviera, Berlino, Basilea e Zurigo, aderisce ad una corrente di pensiero storico-artistico molto formale che contempla una storia dell'arte senza nomi, una corrente fatta solo di stili. Per Wölfflin il riconoscimento e l’interpretazione degli stili rappresentavano i compiti principali della storia dell'arte come disciplina. Nel 900 è stato uno dei primi docenti a introdurre nelle sue lezioni l’uso di 2 proiettori paralleli per comparare immagini. Di capitale importanza ed enorme successo è la sua pubblicazione giovanile in chiave storico-concettuale “Renaissance und Barock” del 1888, in cui, sulla scia di Burckhardt si interroga sull’importanza da attribuire a questa epoca che attraversa un processo di rivalutazione. Afferma che il barocco è una trasformazione di stile che presenta un’importanza diversa in Italia piuttosto che in Europa settentrionale. È importante sottolineare come non si parli più di decadenza, bensì di trasformazione. Giunge a questa conclusione contrapponendo coppie di concetti che caratterizzano l'una e l'altra corrente artistica. Il testo, pubblicato in giovane età, sarà un po’ contraddittorio rispetto al suo pensiero successivo, che pone l’attenzione sugli stili e non gli artisti. Il formalismo introdotto dall'opera di Wölfflin è soggetto a numerose ed aspre critiche, ma risulta influente per il formarsi di un metodo che intellettuali del 900 si sforzeranno di applicare ai propri campi d’indagine. Anche tra gli storici dell'arte avrà dei seguaci. Focillon per ciò che concerne l'ambito francese e Fry e Bell in ambito anglosassone; arrivarono ad escludere dall'indagine artistica qualsiasi tratto del contenuto storico-evolutivo dell'opera, concentrandosi soltanto sull'aspetto qualitativo. WALTER PATER (1839-1894) Fu un precursore del decadentismo. Era uno scrittore inglese famoso per lo stile fortemente estetizzante della sua prosa che conquisterà una larghissima cerchia di ammiratori, tra i quali si annovera il suo allievo Oscar Wilde. Questo stile, banalizzato dagli epigoni, rivestirà in realtà un ruolo di primissimo piano nella trasmissione della cultura artistica. Da studente legge i “Modern Painters” di Ruskin, che lo influenzano, poi, attratto dalla letteratura, inizia a scrivere. Nel suo saggio su Leonardo, le sue descrizioni contribuiscono a forgiare il mito di questo personaggio che vive ancora oggi e che si oppone alla ricerca filologica dei conoscitori tedeschi. Dopo un viaggio in Italia, pubblica nel 1873 gli “Studies in the History of the Renaissance”, in cui si occupa di molti pittori. Uno dei casi clamorosi è quello della Monna Lisa: ‘il tipo di donna fatale’, cioè una bellezza che procede dall’interno e s’imprime sulla carne. Nella sua immagine enigmatica «l’animalismo della Grecia, la lussuria di Roma, il misticismo del Medio Evo con la sua ambizione spirituale e i suoi amori ideali, il tirarono del mondo pagano, i peccati dei Borgia, si vedono tutti». Un tipo della lettura dell’opera che ha una grande presa e diffusione sui lettori del 19’ secolo; alcuni imparavano a memoria i testi di Pater da recitare alla visione dell’opera in questione per evocarne i sentimenti. Cominciano a diffondersi riviste d’arte sia in Francia, che Germania che Inghilterra sui quali gli studiosi pubblicano i loro studi, incidendo sugli sviluppi della storia dell’arte. In Italia arriva solo nel 1888. LA SCUOLA DI VIENNA Dalla metà del 19esimo secolo Vienna diventa una delle capitali della nuova disciplina di storia dell’arte. L’espressione “scuola di Vienna” nasce dalla penna di Julius von Schlosser, ultimo discendente di una scuola di pensiero caratterizzata da personaggi accomunati da diverse peculiarità. Vienna è una delle primissime città ad ottenere una cattedra di storia dell'arte nell’università. Su questa cattedra si susseguono una serie di personaggi accomunati dall'interesse di avere a disposizione una summa della storia dell'arte. Tutti loro condividono un passato lavorativo nelle istituzioni museale viennesi. Schlosser racconta la Scuola trattando delle più importanti personalità, individua l’elemento comune di essere stati storici dell’arte legati, non solo al mondo universitario, ma di essere partiti dal mondo di musei e biblioteche. È importante l’osservazione materiale degli oggetti. FRANZ WICKHOFF (1853-1909) Si tratta di un autorevole membro della scuola, insegna a Vienna. Ha il merito di pubblicare nel 1885 un manoscritto conservato alla Biblioteca Nazionale di Vienna dal titolo “La Genesi di Vienna”, testo con illustrazioni miniate della Genesi (ibro dell’Antico Testamento). L’importanza di questa pubblicazione risiede nella considerazione assegnata ad un’opera che fino ad allora aveva rappresentato solo un esempio della produzione artistica della decadenza medioevale. Wickhoff non ne riconosce la corretta datazione e l'esatta provenienza: la data al 4 sec. di produzione ‘romana’. È straordinaria la pubblicazione di questo manoscritto di 6 secolo perché invece di considerarlo la degenerazione illustrata di quelli che erano i principi dell’arte classica, corrotti dalle influenze barbariche; lo ritiene fortemente interessante da studiare, un testo di quel genere fino a poco prima non veniva considerato, dal punto di vista delle illustrazioni. ALOIS RIEGL (1858-1905) Si forma nell’ambito giuridico ma si specializza nell'arte. Lavora al Museo Austriaco per l’Arte e per l’Industria di Vienna nella sezione delle stoffe e dei tappeti orientali. Si tratta di un ambito di espressione artistica che lo pone di fronte ad una tradizione molto distante dal canone classico europeo, produzione spesso seriale, per lo più aniconica. Si rende conto del valore di questi oggetti e si pone delle questioni sul valore dello stile nella produzione artistica, quelle che vengono definite “Stilfragen”. Elabora il concetto di “Kunstwallen”, cioè di necessità di produrre arte, una volontà caratteristica di ogni epoca e luogo, che si manifesta in modo diverso secondo un cambio dei valori. Gli studi di Riegl attraversano l'ambito storico-artistico, estetico ed anche filosofico, promuove una storia dell’arte non gerarchizzata, moderna. Nel 1901 viene pubblicato il volume “Industria artistica tardoromana” nel quale affronta una rivalutazione della produzione di oggetti d'arte figurativa dell'epoca tardo antica. Pone le basi per una generale e definitiva rivalutazione del barocco. Intuisce che la ridondanza figurativa tipica dell'arte del 600 romano è in realtà peculiare di altre epoche e frantuma, attraverso le sue tesi, i pregiudizi nei confronti di questo stile. Si interessa anche degli studi del Barocco, non riuscirà a scrivere un testo in merito ma le sue lezioni universitarie verranno pubblicate. Il suo metodo poteva essere applicato allo studio di altre epoche e stili. L'interesse si accende in particolare negli anni 80, quando a Berlino inaugura il Museo delle antichità. Per dotare il nuovo museo, una parte del bastione bizantino di Pergamo (Turchia) viene smontato e portato a Berlino, dove ancora oggi si trova. Viene trasportata un’assoluta perla del barocco ellenistico: l'altare di Zeus e Atena di Pergamo, costruito tra 221-159, con i suoi bassorilievi entusiasma gli studiosi berlinesi. Gli studi di Riegl sul barocco romano lo portano a tenere corsi presso l'Università dal 1900 al 1905. Il barocco ellenistico (non come degenerazione dell’arte classica) inizia ad aprire gli occhi degli studiosi tedeschi anche sul fenomeno del barocco (non più degenerazione del rinascimento ma come trasformazione). JULIUS VON SCHLOSSER (1866-1938) È l’ultimo esponente della scuola di Vienna. Anche lui inizia il suo percorso dallo studio di oggetti concreti: si occupa della redazione di un catalogo di monete greche. Si pone il problema del mutare degli stili, partendo dall’osservazione delle monete greche fino alle bizantine. Pur nutrendo una spiccata predilezione per l’erudizione e la speculazione filosofica, questo impiego lo porta a interessarsi di episodi minori della storia dell’arte: si interesserà al gotico internazionale. Nel 1901 lavora presso il Kunsthistorisches Museum di Vienna nella sezione di arti applicate; tra i periodi di transizione che lo interessano entra anche il Manierismo. I suoi interessi per momenti di passaggio della storia dell’arte culminano nel 1908 con la pubblicazione di “Raccolte d'arte e di meraviglie del tardo Rinascimento”: breve storia che riguarda l’arte e la pratica del collezionismo. È considerato pionieristico e fondamentale per la storia del collezionismo occidentale, nasce dall’interesse di Schlosser per le grandi raccolte di arte. Nel 1922 succede alla cattedra di Storia dell’arte. Poi si rende conto della mancanza di una raccolta di fonti scritte riguardanti l'ambito artistico che comprendesse un arco temporale esteso. Schlosser si applica nella redazione della “Kunstliteratur”, inizialmente pubblicata a puntate e successivamente compiuta nel 1924. Vuole porre le basi per l'indagine delle fonti per giungere ad una comprensione del processo di ideazione, realizzazione e ricezione dell'opera d’arte. Un manuale di arte moderna «da Diocleziano a Napoleone» basandosi su fonti scritte: si intendono le testimonianze letterarie, in primo luogo, mentre dà minore importanza a documenti, epistole, iscrizioni e fonti dirette. Attribuisce tanta importanza alle fonti letterarie perché ritiene che aiutino a far capire il processo di creazione dell’opera, in quanto scritte in una certa epoca guardando alle opere dell’epoca stessa. IL NOVECENTO ABY WARBURG (1866-1929) Nasce ad Amburgo, in Germania, all'interno di una famiglia appartenente alla ricca tradizione dei banchieri di origine ebraica. Il suo destino, in quanto primo genito, sarebbe quello di occuparsi di finanza per acquisire le competenze necessarie a trainare l'attività famigliare, però sin da giovane si interessa alla “Kulturgeschichte” di Burckhardt. Complici anche le frequenti crisi depressive che lo accompagneranno per tutta la vita, il fratello accetterà di donare un ricco vitalizio ad Aby Warburg in cambio della guida della banca. Avrà così la possibilità di dedicare per intero la propria esistenza allo studio. Studia a Bonn con Carl Justi ma si laurea a Strasburgo. Si reca in Italia nel 1888 per poter studiare l'opera di Botticelli: si accorge che esistono modi di rappresentare le figure tipici di ogni epoca e stile che ricorrono nella tradizione artistica. Conia l'espressione “pathosformel” per identificare ciò che il 400 aveva attinto dalle fonti antiche. Giunge alla conclusione che esistono figure ricorrenti in ogni epoca, dalla classicità ai contemporanei. Questo fenomeno prende il nome di “nachleben”, la sopravvivenza di queste forme antiche nella seconda metà del 15 secolo fu il suo principale campo d’indagine. Esempio di atlante della memoria: il tema delle ninfe. Si interessa alla figura della ninfa, che si ripropone nel corso dei secoli. I pittori del 400 hanno attinto all’arte greca per proporre tale figura, questa è una delle tante indagini alle quali si interessa Warburg. Warburg non è interessato dalle attribuzioni, quanto alla ricostruzione dei contesti storici (attraverso i quali cerca di comprendere il perché de “l’eterno ritorno” del canone sopracitato). Mostra particolare interesse per l'influenza che la religione esercita su ogni singola società. L'idea di Warburg è quella di costruire una biblioteca in cui possa trovare il sapere di cui necessita per completare i propri studi. Viaggerà a New York per un matrimonio di famiglia, annoiandosi molto, decide di lasciar perdere la vita borghese e di intraprendere un viaggio nel Far West per incontrare direttamente popolazioni native che ancora vivevano in America del Nord: gruppo dei Navajos. Si interessa a rituali magici dei nativi, li individua come ultima arte dionisiaca ancora esistente, la chiave è il rituale del serpente, usato per propiziare piogge. Tornato dagli Stati Uniti vive principalmente tra Amburgo e l’Italia. In Germania fonda la sua biblioteca che apre ad un pubblico di soli professori e studenti. Non si tratta di una biblioteca di storia dell’arte, è più ampia, riguarda la storia della cultura. Sono interessanti le lettere che scrisse al fratello per ottenere il vitalizio che gli avrebbe permesso di finanziare la biblioteca, rinunciando alla fortuna della famiglia. Intitolerà la biblioteca a Mnemosyne, la musa della memoria e madre delle Muse. Ha l’idea che la biblioteca sia il luogo dove poter compiere ricerca sul significato delle immagini. A Warburg si deve la decifrazione dell’iconografia della fascia mediana del ciclo presente nel Salone dei Mesi del Palazzo di Schifanoia, a Ferrara (1468-1470). Nessuno prima di lui aveva saputo decifrare le 3 figure su fondo nero che venivano rappresentate in ognuno dei 12 mesi del salone. Studia il contesto storico, scoprendo che alla corte di Ferrara si era interessati al mondo astrologico, scoprirà che si tratta delle personificazioni dei decani, ossia i giorni in cui un mese può essere scandito. Ogni decano ha una iconografia diversa: prendiamo ad esempio Marzo, è un uomo con pelle scura e sguardo irato, indossa un abito bianco e lacero, ai fianchi è cinto da una corda. Viene identificato come il Vir Niger, descritto dall’astrologo persiano. I decani sono antiche divinità egiziane che, tramandate ad altre culture sotto varie forme, presiedono le trentasei decadi nelle quali è diviso un anno. Questa sua intuizione venne presentata al 10’ Congresso internazionale degli Storici dell’Arte del 1912. Alla sua morte il lascito fu enorme e nonostante i grandi collaboratori di cui si era circondato in vita, la biblioteca è al crinale, con la minaccia nazista si teme che la Biblioteca, voluta da ricchi banchieri ebrei, venga messa in pericolo. La crisi del ’29 mette in ginocchio le finanze dei Warburg che non possono più erogare fondi in favore della biblioteca, che nel dicembre del 1933 viene trasferita a Londra. È importante appuntare come non si possa banalizzare Warburg catalogandolo come inventore dell’iconografia, ovvero branca dell'interpretazione delle immagini che decodifica il significato recondito delle immagini, una sorta di superamento dell’iconografia, perché questo non è il suo campo di indagine. La sua indagine si focalizza sulla creazione di una scienza della cultura, all'interno della quale non esistano confini tra le diverse discipline. L’idea era quella di costruire un tempio della memoria attraverso le raccolte. Interessante è il suo approccio multimediale che trova espressione nella stanza circolare eretta al centro della biblioteca. La stanza ha muri coperti da pannelli neri su cui sono state appese immagini reperite dall'operato di varie epoche (dai manufatti della preistoria ai volantini pubblicitari di inizio 900), al fine di costruire sequenze intersecate con lo scopo di dimostrare l'esistenza di una continuità di raffigurazione di certi elementi. ADOLFO VENTURI (1856-1941) L'opera di Warburg verrà apprezzata anche da Venturi, professore capace di ottenere la prima cattedra di storia dell'arte italiana, accesa alla Sapienza di Roma nel 1901. Fondò la prima “Scuola di Perfezionamento di Storia dell’Arte post-laurea”, formando generazioni di studiosi e funzionari di Musei e Istituzioni. Si forma come storico dell’arte da autodidatta, lavorando come funzionario alla Galleria Estense, applicandosi sempre di più alla storia dell’arte anche con l’aiuto di Cavalcaselle. Alla morte di Venturi, un suo allievo Pietro Toesca, scrive che riconosce che sia Morelli sia Cavalcaselle avevano contribuito a formare il metodo dello studioso. Se Morelli obbligava «ad osservare strettamente l’opera d’arte nella sua forma», secondo Toesca, da Cavalcaselle Venturi aveva imparato a «ricostruire, con spirito di storico, quella ch’era propriamente la cultura artistica onde erano sorte le opere d’arte, e dentro la quale poteva sembrare meno improvviso l’apparire dei grandi maestri». Nel 1888 fonda “Archivio storico dell'arte”, prima rivista specializzata di storia dell'arte in italiano, dopo il 1898 cambia il titolo in “L’Arte”. Questo cambio titolo ci permette di individuare il cambio di vento della storia dell’arte, ci si rende conto che si può parlare d’arte senza fare un lavoro di mero ricontrollo delle fonti. Combatterà per portare la disciplina di storia dell’arte nelle università contrastando i detrattori che ritenevano fosse indirizzata solo allo studio accademico. Con l’accensione della cattedra si accorderà con Hoepli per far uscire una “Storia dell'arte italiana”, pensata per essere pubblicata in 7 volumi, ma ne verranno realizzati 25 senza riuscire a spingersi oltre il 500 (nell’idea originale si voleva raggiungere il barocco). ROBERTO LONGHI (1890-1970) Sarà allievo di Pietro Toesca a Torino e compirà la sua formazione a Roma presso la Scuola di Perfezionamento di Storia dell’Arte aperta da Venturi alla Sapienza. Sposò Lucia lo Presti, scrittrice con lo pseudonimo Anna Banti. Nel 1933 pubblica “L’officina Ferrarese”. MODULO C “QUANDO ANCHE LE DONNE SI MISERO A DIPINGERE” Il tema delle donne nell’arte è un tema molto sentito, soprattutto al giorno d’oggi. Sono sempre più comuni mostre riguardanti donne artiste. L’idea di studiare ed indagare le donne artiste è relativamente recente: l’idea risale all’ultimo quarto del 20esimo secolo. Soltanto nel 1976 presso un museo di Los Angeles, il County Museum, 2 storiche dell’arte con alle spalle una pratica politica nel femminismo, Linda Nochlin e Ann Sutterland Harris, hanno curato la mostra antologica “Women Artists 1550-1950”. (dal manierismo di Sofonisba fino al 1950). La mostra da Los Angeles, si era spostata in diverse città americane. Linda Nochlin si era già interessata a questo tema: nel 1971 aveva pubblicato un saggio intitolato “Why Have There Been No Great Women Artists?”. Questo articolo esce su Art News e pone un problema molto grosso, ma non ne è stata data una vera e propria risposta. Una risposta parziale può essere ritrovata nella struttura della società occidentale, dove la donna era associata alla sfera domestica, e meno alla pratica professionale. Quando il fenomeno delle donne artiste si affaccia in maniera clamorosa nel 500, tutti sapevano che la formazione di un pittore o scultore doveva inevitabilmente passare per l’approccio a studi anatomici: studio del nudo, studio di modelli, riproduzione di sculture classiche e riproduzione di tele di grandi maestri. La Nochlin scrive che “fino al 1863 le studentesse dell’accademia d’arte pubblica di Londra non erano ammesse ai corsi di disegno dal vero, quando finalmente ne fecero parte il modello era parzialmente coperto. È come se si negasse ad uno studente di medicina la possibilità di sezionare e esaminare un corpo umano nudo”. Ci troviamo di fronte a un problema di accettazione sociale che riguarda il ruolo delle donne, che le relega in certi ambiti. Alle donne dal momento della formazione, viene riservato un handicap morale difficile da superare. PLINIO IL VECCHIO Per quanto riguarda il tema che stiamo affrontando, occorre partire da Plinio, che in 2 punti in particolare nella sua “Naturalis Historia”, parla delle donne artiste. Inizialmente nel 35° libro racconta la nascita della pittura: esaminando questo argomento, parla anche accidentalmente di donne pittrici. Si pone la questione di narrare delle leggende sull’origine della pittura: scrive che sulla nascita della pittura regna grande incertezza. Per l’autore la nascita della pittura sarebbe connessa all’azione di una donna. Ci racconta della leggenda di “Butade di Sicione”, che scoprì per primo l’arte di modellare i ritratti di argilla, e della figlia, che si sta per congedare da un suo innamorato che deve partire: alla luce di una lucerna, la ragazza delinea a contorno l’ombra della faccia del ragazzo sulla parete. Questa sarebbe stata, nella leggenda diffusa in Grecia e in Asia Minore, l’origine della pittura. Su quelle linee il padre impresse l’argilla e fece un modello che lasciò seccare in forno. Si dice che quel ritratto sia ancora conservato nel Ninfeo di Corinto. Si tratta di una leggenda che NON incide fortemente. Incide però nell’immaginario dei pittori neoclassici: vedi “L’invenzione della pittura” di Felice Giani, nel neoclassicismo si apprezzava l’idea della pittura nata da un contorno. Se questa storia che riguarda l’invenzione della pittura ha avuto un’incisività solo in epoca tarda, esiste un altro punto nella Naturalis Historia che avrà un maggior impatto sul tema delle donne pittrici, anche Boccaccio Alla donna di corte, Castiglione concede qualcosa in più rispetto a quello che si era scritto fino a quel momento, andando incontro ai desideri di Christine de Pizan, sul fatto che anche le donne meriterebbero di essere educate in maniera adeguata. Castiglione, riguardo alla formazione della donna di palazzo, aggiunge che la donna deve poter parlare e deve avere competenze in materie quali lettere, musica, e pittura. Deve sapere danzare e festeggiare. Idea di una donna educata e istruita. Si tratta di 2 arti liberali, musica e letteratura, che vengono accostate alla pittura, un’arte non remunerata nell’ambito femminile: la donna di corte potrà regalare quadri o ricevere doni in cambio dei quadri che realizza, ma NON sarà mai pagata per la realizzazione dei quadri. Questo fu il caso di Sofonisba Anguissola, una delle primissime donne pittrici della storia. Questo passaggio del “Cortegiano” ci dà il clima, nel maturo Rinascimento, che si respira tra le corti italiane e in ambienti elevati di tutta la penisola. Non siamo in un ambito circoscritto: l’affermazione di Castiglione non è circoscritta all’ambito mantovano, da cui proviene, ma è condiviso da tutte le corti italiane da personaggi di una certa cultura. Castiglione fa circolare l’opera, prima di pubblicarla, in forma manoscritta ai suoi amici e letterati. Il “Cortegiano” era molto atteso sia in ambito letterario sia in ambito cortigiano. Da tempo si sapeva che Castiglione stava scrivendo un’opera innovativa, e molti hanno cercato di leggerla in anteprima, in versioni provvisorie e manoscritte. Era buona norma far circolare il manoscritto a lettori che potessero dare giudizi consapevoli, così che l’autore potesse correggerlo. VITTORIA COLONNA (1492-1547) Baldassarre Castiglione invia il manoscritto anche ad una donna, una delle prime letterate italiane a pubblicare a stampa la sua poesia. Questa donna è Vittoria Colonna, marchesa di Pescara, nobildonna di alto rango italiana nata da una Montefeltro e da un Colonna. La donna aveva sposato un militare, Francesco Ferdinando d’Avalos, un importante generale napoletano, marchese del Vasto. Vittoria Colonna sarà ricordata come Marchesa del Vasto o del Guasto. Fu per lungo tempo vedova. Nella prima parte della sua vita fu favorita come nobildonna italiana, sposa e madre felice, poi avrà un lungo percorso spirituale e religioso complesso quando rimase vedova. Nel 1533 Vittoria lascia la corte napoletana per trasferirsi a Roma, dove entra in contatto con Michelangelo, diventando la musa ispiratrice di Michelangelo. Sarà una sua importante interlocutrice. I 2 intrattennero una fitta corrispondenza, sia poetica che letteraria. La spiritualità della donna aveva colpito Michelangelo. Vittoria si avvicina poi ad ambienti spirituali e riformati dell’Italia, morendo nel 1547 in un convento romano. La Vittoria Colonna a cui arriva l’opera di Castiglione, non è ancora la Vittoria Colonna che vivrà sempre in ambiti vedovili (vedi ritratto che si trovava in una collezione di Paolo Giovio). Vittoria al momento della spedizione del manoscritto forse era appena rimasta vedova. Vittoria NON dà un parere a Castiglione, ma fa copiare il manoscritto e lo fa circolare a Napoli senza il permesso di Castiglione. Ciò causa scocciatura da parte dell’autore nei confronti della donna, che traspare nella lettera dedicatoria del “Cortegiano”. Nel 1528, pur essendo scocciato dal comportamento di Vittoria, l’autore racconta di averle spedito il manoscritto e ora si trova costretto a celebrarne la virtù. Il dibattito che riguarda l’identità della donna raffigurata nel ritratto di Sebastiano del Piombo è ancora aperto. Il ritratto raffigura una poetessa, ma non vedova, in quanto non porta i segni del dolore o del lutto. Vasari, nella vita di Sebastiano del Piombo aveva scritto che quest’ultimo aveva realizzato un ritratto di Vittoria Colonna. Nel dipinto vediamo una giovane donna, priva di gioielli, che mette la mano sul cuore, fonte del sentimento. La donna tiene il dito su un libricino, che potremmo chiamare un “Petrarchino”, ovvero un’edizione tascabile della poesia di Petrarca. Sul codicetto è stato letto un verso scritto da Vittoria Colonna, poi abraso: “ovunque giro gli occhi o fermo il core”. Si è pensato che questo ritratto rappresentasse Vittoria Colonna. Il ritratto dovrebbe essere stato realizzato prima del 1525, anno della morte del marito della donna, essendo quest’ultima non vestita con abiti vedovili. Anche lo stile del ritratto è contiguo all’opera di Sebastiano del Piompo dei primi anni ’20 del 500. Negli ultimi anni ci si è resi conto che Vittoria aveva scritto quel verso in un’epoca successiva alla realizzazione di questo dipinto. È un verso di intonazione religiosa: fa riferimento alla Passione di Cristo e risente delle predicazioni del predicatore Bernardino Ochino, che Vittoria Colonna aveva ascoltato a metà degli anni ’30 del 500. L’iscrizione potrebbe essere stata apposta successivamente alla realizzazione del quadro. Ecco perché il ritratto potrebbe in ogni caso rappresentare la Colonna. Ciò che a noi interessa, è che dopo la morte del marito, avvenuta nel 1525, Vittoria veste abiti austeri e vedovili. Vittoria ospita ad Ischia, dopo il Sacco di Roma (che aveva causato la diaspora degli artisti: gli eredi della bottega di Raffaello non possono più rimanere a Roma e devono fuggire), Paolo Giovio: storico e collezionista di ritratti di uomini e donne illustri che ispirerà Vasari ad inserire i ritratti di questi uomini nell’edizione Giuntina. È proprio da un ritratto conservato nella collezione di Giovio, raffigurante Vittoria, che un allievo del Bronzino, Cristoforo dell’Altissimo, ricava un ritratto di Vittoria, ritratta con corona di alloro. Non ci sarà autore del 500, che parli di virtù delle donne, che non menzioni Vittoria Colonna. La donna diventa simbolo della virtù letteraria femminile e verrà elogiata per il suo interesse nei confronti di Pontormo e per la corrispondenza intrattenuta con Michelangelo. Vittoria era una donna di altissimo livello sociale, si rapporta con poeti, letterati e pittori ed è una delle prime donne laiche a pubblicare le proprie “Rime” a partire dal 1538. L’importanza della figura delle donne artiste, sia del passato che del presente, è sottolineata anche da Raffalello, che, raffigurando il “Monte Parnaso” (1510-11), nella Stanza della Segnatura in Vaticano, inserisce, tra i poeti del presente e del passato, anche la poetessa greca Saffo. Sono in tanti a ritenere che una medaglia poco diffusa di Vittoria Colonna, derivi la sua iconografia dalla Saffo di Raffaello. La scritta in esergo della medaglia fa riferimento al nome della donna: Vitctoria Columna d’Avalos. La medaglia è un oggetto, che dalla metà del 400, su modello della numismatica antica, viene ripreso per celebrare le virtù di personaggi illustri attraverso un ritratto riconoscibile e di profilo. Le medaglie recano il ritratto sul recto e un’impresa: uno stemma che illustri il carattere del personaggio, sul retro. Si ha microscopicizzazione di elementi come il ritratto, che potevano essere collezionati. Chi non si poteva permettere di collezionare tele, poteva collezionare ritratti sottoforma di medaglie. Le microtecniche, come le medaglie, erano molto diffuse dal 400 in poi. IPPOLITA CLARA Oltre alle donne che iniziano a pubblicare le proprie opere agli inizi degli anni ’30 del 500, un fenomeno che crescerà sempre di più, ci sono anche tante donne di un certo livello che scrivono poesie, lasciandole manoscritte, o che si cimentano in imprese più impegnative rispetto al saper poetare in volgare. Dimostrano di saper maneggiare il latino e di saper tradurre. Ippolita Clara (o Claro), ad esempio, è una donna poco nota, sposata con un milanese, che, oltre a scrivere una serie di rime e sonetti encomiastici per Francesco 2 Sforza (ultimo signore di Milano tra 1529 e 1535), traduce parti dell’Eneide in volgare. Nell’introduzione dell’opera di traduzione, giustifica il suo lavoro: la donna scrive quest’opera di traduzione dal latino al volgare, per le donne incolte che non hanno accesso alla lingua latina. Ippolita dà un’intenzione morale alla sua opera: l’autrice desidera che le altre donne leggano certi esempi per capire come sfuggire all’ira degli dèi. GIORGIO VASARI Nel 500 si diffonde l’idea che anche le donne di un certo livello possono avere cultura e praticare arti diverse (possono essere poetesse, letterate), quindi Vasari, quando pubblica “Le Vite” nell’edizione “Torrentiniana”, inserisce una vita di una donna artista. Questa biografia inserita da Vasari costituisce ancora un enigma. Vasari non include nell’edizione Torrentiniana praticamente menzione delle donne pittrici illustri che Plinio aveva menzionato nella Naturalis Historia e che Boccaccio aveva ripercorso nel suo De Mulieribus Caris. La Torrentiniana esce nel ’50, con un Vasari che evidentemente desiderava dare alle stampe velocemente il gran lavoro che aveva compiuto: per questo l’autore è andato subito dritto al sodo. Dopo una premessa che riguarda pittura, scultura, architettura, arti congeneri, Vasari parte da Cimabue per arrivare a Michelangelo, sottolineando la sua grandezza, paragonabile agli artisti del passato. Quando si arriva alla Giuntina aggiornata Vasari si rende conto che il suo lavoro era manchevole di un’introduzione pliniana, ovvero un’introduzione su artisti del passato. Questa parte non verrà inserita da lui, perché occupato in altri lavori, quindi chiede ad un accademico fiorentino, Giovambattista Adriani, di scrivere una lettera, un excursus sui pittori del passato menzionati dalle fonti. È l’unico contributo esplicitato offerto da un esterno per la scrittura della Giuntina, anche se sono in molti a pensare che Vasari si fosse servito di diversi autori, non esplicitati e dichiarati, per scrivere un’opera così densa di informazioni. Nella Giuntina del 1568 viene pubblicata la lettera di Adriani, nella quale si raccontano i nomi e le opere dei più eccellenti artefici antichi in pittura, in bronzo e in marmo. Nella lettera di Adriani si trova menzione delle artiste donne citate da Plinio nella Naturalis Historia: egli attinge da Plinio, ma il tutto è filtrato da Boccaccio. Infatti, Iaia di Cizico viene menzionata con la traduzione di Boccaccio, ovvero Marzia. La parte più grande della lettera riguarda Marzia, in cui si ricorda il fatto che era una ritrattista, principalmente di donne e se ne ricorda l’autoritratto. Nel momento in cui venne pubblicata questa lettera, gli autoritratti di donne allo specchio erano abbastanza circolanti (vedi autoritratti di Sofonisba) VITA DI PROPERZIA DE ROSSI: Nella “Torrentiniana” NON si parla quindi di donne antiche e pittrici, perché Vasari desidera andare diretto al sodo. Nonostante ciò, quando arriva a parlare degli artisti dell’età moderna, inserisce un’unica biografia di una donna artista: una scultrice, ovvero Properzia de Rossi, una bolognese nata intorno al 1490 e morta di peste all’inizio del 1530. La vita di Properzia viene inserita nella Torrentiniana e nella Giuntina verrà corredata dal ritratto. L’unico caso che Vasari trova nel 1550 di donna artista in Italia è proprio quello di Properzia de Rossi. In questi anni però, iniziano a muovere i primi passi Sofonisba Anguissola e Lavinia Fontana. Vasari, nella Vita di Properzia, parte con un elenco di donne famose attingendo a piene mani dalla storia antica e dalla storia romana. Sono donne celebrate dalle fonti più disparate, che hanno avuto diversi ruoli: cita le amazzoni, le donne guerriere, le regine di popolazioni antiche. È un elenco che deriva non solo dal “De Murielibus Claris” di Boccaccio, ma da svariate fonti. Vasari parte da exempla tratti da diverse fonti, supponendo dei lettori umanisti istruiti. Una volta fatti questi esempi di donne esperte nell’arte della guerra, Vasari parla delle poetesse antiche celebrate dalle fonti. Tra queste si ricorda Saffo: ritenuta in grado di superare gli eccellenti poeti del suo tempo, già citata da Boccaccio. Si parla anche di Erinna che aveva scritto un volume chiamato “Elecate”. Le informazioni che vengono messe in elenco, nell’introduzione. Vengono inserite da Vasari un po’ frettolosamente, per giustificare la biografia della donna. Vasari cita anche le donne filosofe, quelle esperte di arte oratoria e grammatica. Dopo aver concluso questo elenco, Vasari parla del presente, dell’epoca a lui contemporanea, e nomina alcune donne letterate virtuose: Vittoria Colonna, Veronica Gambara, Caterina Anguissola. L’autore cita poi la Nogarola e la Schioppa, che sono vissute nel 300 e nel 400. Vasari ammette che le donne letterate del presente sono grandissime. Le donne dal Cortegiano di Castiglione hanno avuto più possibilità di accedere alla formazione e molte hanno intrapreso la via della letteratura. Successivamente all’introduzione, Vasari ci introduce alla figura di Properzia, personaggio particolare che non sarà seguito da altre donne artiste presentate nelle Vite, che saranno pittrici: lei è stata un’eccezione, essendo scultrice. Properzia praticava un’arte ritenuta ‘maschile’. Le mani delle donne di un certo livello, dice Vasari, devono essere tenere e bianchissime. Ci sono stati, tuttavia, dei casi nel suo tempo dove queste tenerissime e dolci mani sono state messe nelle cose meccaniche. È successo che una donna dei tempi di Vasari ha messo, per desiderio di raggiungere la fama, le tenere mani nel marmo e nel ferro. Non è stata solo abile e virtuosa nelle cose di casa, come le altre donne, ma anche nella scultura. Vasari non era però comunque convinto che Porperzia fosse abile nelle cose di casa, infatti, Vasari aveva ricevuto diverse informazioni riguardo alla condotta della donna. Vasari era arrivato a Bologna nel 1530, perché era stato richiamato dalla grande adunata di nobili, pittori, scultori e architetti che a Bologna erano convenuti per l’incoronazione di Carlo 5. Con il Sacco di Roma del 1527 il papa era stato costretto a fuggire. Il sacco di Roma era stato realizzato dalle truppe del cattolico Carlo 5 che non erano state pagate ed erano fuori controllo. I Lanzichenecchi, tra i quali si era diffuso il seme del protestantesimo, mettono a ferro e fuoco la città di Roma. Il sacco di Roma provoca la cacciata del papa da Roma. Per arrivare ad una conciliazione tra Carlo 5 e il papa si decide che Carlo dovesse essere incoronato dal papa. L’incoronazione non può svolgersi a Roma, in quanto fu devastata dal sacco e da una alluvione del Tevere, a cui era seguita una carestia. Si sceglie quindi Bologna, seconda città dello Stato Pontificio, riempita di archi trionfali ed altri apparati effimeri, come festoni. Vasari accorre a Bologna, trasformata in una seconda Roma, non solo per assistere alla cerimonia, ma anche per ammirare le opere realizzate in occasione dell’incoronazione. A Bologna accorrono molti artisti e Vasari li incontra. Proprio qui Vasari trova informazioni riguardanti Properzia de Rossi, morta poche settimane prima dell’arrivo del papa Clemente 7. Qui raccoglie diversi aneddoti e li adatta ad una serie di pregiudizi che si hanno nei confronti delle donne, nel momento in cui scrive la “Torrentiniana”. Properzia fu una donna molto bella, virtuosa, suonava e cantava meglio di altre donne della città, invidiata da uomini e donne. Il tema dell’invidia in Vasari è ricorrente e diventa lo stimolo per gli artisti a migliorarsi e superarsi gli uni con gli altri. Poiché era di capriccioso e destrissimo ingegno, ovvero aveva una mente ricca di invenzione, che sapeva andare oltre la routine normale, e aveva un’intelligenza abile, si mise ad intagliare noccioli di pesche e ciliegie, i quali lavorò così bene che era una meraviglia ammirarli. Vasari ci racconta una Properzia de Rossi abile in una microtecnica, sviluppata soprattutto nel Nord dell’Europa. Già Plinio nella “Naturalis Historia” aveva raccontato di diversi scultori abili nell’ambito della microtecnica che riuscivano ad intagliare figure su supporti così piccoli da poter essere coperti con le ali di una mosca. Anche Giovanbattista Adriani nella lettera presente nella “Giuntina”, quando parla degli artisti del passato, ricorderà che ci furono artisti che realizzarono anche cose di formato piccolissimo. Le microtecniche come esercizio formale di abilità erano diffuse nella mentalità degli uomini del Rinascimento, che avevano dimestichezza con la glittica e con la realizzazione delle medaglie. Properzia inizia ad esprimere la sua arte nel legno dei noccioli di pesca o ciliegia, suscitando la meraviglia di Vasari. Lavorare in un piccolissimo formato suscitava l’ammirazione e lo stupore degli spettatori: lo stupore diventa una parte importante nella ricezione dell’opera d’arte. Gli studiosi sono d’accordo nel riconoscere la mano di Properzia de Rossi nella croce e nei noccioli inseriti e incastonati nello stemma della famiglia Grassi, importante famiglia cardinalizia di Bologna. Non sappiamo chi sia stato l’orafo che realizza lo stemma, sappiamo solo che Properzia aveva intagliato i noccioli. Vasari sottolinea la sveltezza nella realizzazione delle figure e la grande abilità della donna, è stupito da questo esercizio di virtuosismo. Poi Properzia si dedicherà alla realizzazione di sculture in marmo, come nel caso del bassorilievo presente sulla porta della facciata di San Petronio a Bologna. Quando Vasari pubblica la vita di Properzia de Rossi nella “Torrentiniana”, è un vero pioniere perché non ha altri esempi di biografie di donne artiste italiane a cui conformarsi. Al momento della composizione dell’opera, Vasari non ha ancora menzione di altre artiste contemporanee al di fuori di Properzia, che sconvolge le carte in tavola, essendo scultrice. Vasari era a conoscenza delle donne artiste dell’antichità, citate da Plinio, ma non le inserisce nella “Torrentiniana”. L’autore compie un atto pionieristico e di coraggio inserendo una donna scultrice, muovendosi tra pregiudizi dettati dal suo status di uomo, vissuto nel Rinascimento. Properzia è un’eccezione: anche dal punto di vista biografico, è descritta come una donna virile: condizione dettata dal suo mestiere di scultrice, in quanto la scultura richiede fatica fisica che la pittura non richiede. Alla fine del 400 Leonardo presenta queste riflessioni riguardo alla scultura, poi confluite nel “Libro della Pittura”. Quando Vasari si imbatte nelle notizie su Properzia, morta pochissimo tempo prima l’arrivo a Bologna di Vasari, ne rimane stupito tanto da inserire la sua vita nell’opera. Vasari ricostruisce una biografia anche un po’ fantasiosa dell’artista, che parte dalla notizia della realizzazione di noccioli di frutta intagliati. Forse la scultrice aveva imparato ad intagliare questi noccioli da qualche intagliatore di gemme e pietre dure. Si nutrono ancora dei dubbi riguardo alla formazione di Properzia, non si sa chi le ha insegnato ad intagliare il legno in maniera così microscopica e precisa. L’intaglio di noccioli è microtecnica che, di base, suscitava meraviglia. Ad eseguire oggetti così particolari dal punto di vista tecnico, inoltre, è una donna, e questo provocava ancora più stupore. Si trattava di un vero e proprio miracolo di natura. Un’altra domanda è: come ha fatto Properzia a passare dall’intaglio dei noccioli alla scultura in marmo? Il padre di Properzia non è accreditato come scultore nelle fonti, quindi Properzia non era figlia d’arte, non aveva appreso l’arte della scultura in marmo dal padre. É ancora in dubbio come l’artista sia passata dalla microtecnica alla scultura in marmo. La facciata di San Petronio è una facciata a cui si stava lavorando da tanto tempo: il portale principale era stato realizzato prevalentemente da Jacopo della Quercia. Vasari descrive la costruzione della porta di destra, a inizio 500. Properzia si doveva essere rivolta ad un ipotetico marito per raccomandarla per farla lavorare alla porta di San Petronio. Gli operai furono contenti di accoglierla. Tutti i documenti che sono emersi su Properzia sono documenti notarili e giudiziari che vanno dal 1510 al 1529. Questi documenti non fanno menzione di un marito. Properzia non è mai chiamata con un altro cognome. Altri documenti emersi nella seconda metà dell’800 a Bologna, attestano Properzia come una donna dalla vita sregolata. La donna era stata una concubina: lei e l’amante erano abbastanza bellicosi e litigiosi ed erano finiti in tribunale per aver abbattuto degli alberi della casa del vicino. Documenti di qualche anno dopo attestano una vicenda giudiziaria che riguarda ancora Properzia che aveva partecipato ad una rissa contro un personaggio bolognese, in alleanza con un pittore bolognese, Domenico Francia. Tra i testimoni contro Properzia, al momento del processo, troviamo Amico Aspertini, pittore eccentrico e anticlassico della prima metà del 500. I documenti ritrovati nell’800 a Bologna rivelano un’esistenza abbastanza irregolare della donna. I documenti hanno confermato che intorno al 1525-26, nei ruoli di pagamento della Fabbrica di San Petronio, con miniature, messali e libri d’ore. Suor Plautilla non è stata la prima monaca pittrice ad essere passata dalla miniatura alla pittura: si trattava di un fenomeno abbastanza frequente. La monaca pittrice più interessante del 600 è Orsola Maddalena Caccia. Vasari afferma che Suor Plautilla è migliore come pittrice nel momento in cui imita le opere di altri, perché la sua formazione era stata limitata. Ha lavorato diligentemente lavorando su materiale già dipinto da altri. Non aveva potuto lavorare con un modello di fronte a lei, a differenza degli uomini. Suor Plautilla non aveva potuto copiare modelli di nudo: è un limite che riguarda le donne pittrici al tempo. Questa affermazione genererà nei lettori di età romantica, una serie di leggende. Una di queste riguarda il fatto che Suor Plautilla avesse studiato l’anatomia dei corpi da un cadavere di una suora morta, trasformandolo poi in un corpo maschile sulla tela, elaborato dopo aver visto i dipinti di altri artisti. Lei, artista donna e monaca, sa dipingere molto meglio figure di donne piuttosto che quelle di uomini. Suor Plautilla Nelli è stata una grande ritrattista di donne. LUCREZIA QUISTELLI DELLA MIRANDOLA IN PETRA Vasari introduce delle informazioni su Suor Plautilla e su Lucrezia Quistelli, perché sono fiorentine. Lucrezia era un’artista di buona famiglia che aveva sposato un lombardo, il Conte Clemente Petra, da cui prende il cognome. Lucrezia era figlia di Alfonso Quistelli, funzionario importante al servizio dei Medici: Vasari, parlando della donna, inserisce proprio il patronimico, forse perché era intenzionato a mantenere un buon rapporto con il padre della pittrice, al servizio dei Medici. Vasari loda la pittrice, allieva dell’Allori e del Bronzino, e afferma che dipingeva bene. SOFONISBA ANGUISSOLA (1532- 1625) Si tratta di una pittrice cremonese. Nacque a Cremona, ma morì vecchia a Palermo. Dopo aver parlato della Quistelli, Vasari introduce la figura dell’Anguissola, il cui caso era esploso al tempo. Il tassello su Sofonisba che Vasari inserisce alla fine della biografia di Properzia, non è soddisfacente: Vasari parlerà nuovamente della pittrice cremonese, nella “Vita di artisti padani”, che vanno dall’area emiliana fino all’area lombarda. Sofonisba era una pittrice, figlia di Amilcare Anguissola, personaggio chiave nella biografia dell’artista. Vasari inserisce nuovamente il patronimico. La famiglia Anguissola era una buona famiglia, della piccola borghesia. Sofonisba era la primogenita: ad Amilcare erano arrivate altre 5 figlie femmine ed un figlio maschio. Amilcare si era dovuto dare da fare per sistemare tutte le figlie, solo una viene sistemata in convento. Sofonisba viene definita da Vasari come una pittrice ad un livello superiore rispetto alle altre pittrici citate: non aveva solo saputo realizzare ritratti (al quinto livello della scala dei generi), o copiare eccellentemente opere d’altri, ma ha avuto la capacità dell’invenzione. Sofonisba era stata chiamata da Filippo 2 re di Spagna, attraverso il Duca d’Alba, che aveva celebrato le sue qualità. Sofonisba per le sue abilità è stata invitata in Spagna, dove è entrata nel ristretto novero delle dame della regina Elisabetta di Valois. Al momento della morte della regina, Sofonisba rimarrà in Spagna al servizio delle infante di Spagna. L’abilità della pittrice l’ha portata ad un accrescimento del suo status sociale. Vasari arriva poi a parlare di un argomento che gli interessa di più: già nel 1554, in una lettera, Francesco Salviati, fiorentino, scrive al maestro di pittura di Sofonisba, Bernardino Campi comunicandogli che arriverà presto a Cremona e gli fa sapere che il suo nome risuona anche a Roma, intorno al caso di Sofonisba, di cui tutti parlano: questa lettera attesta che nel 1554 si parlava di Sofonisba anche a Roma. Tra 1557-58 si datano anche 2 lettere di Amilcare a Michelangelo. Il padre di Sofonisba aveva amplificato la fama della figlia con un ‘bombardamento’ di lettere che avevano raggiunto molti letterati per lodare le virtù della figlia. Michelangelo era un artista inarrivabile, chiuso ai rapporti con l’esterno: era solito scegliere personalmente in propri interlocutori, ma nonostante questo, si pensa che l’artista avesse risposto ad Amilcare. Quest’ultimo aveva scritto all’artista fiorentino, attraverso un linguaggio cerimonioso, per mandargli delle opere della figlia e per chiedergli un suo disegno in modo tale che Sofonisba potesse esercitarsi nella copia. Michelangelo aveva rifiutato la richiesta del padre; trovò però interessante il materiale proveniente da Cremona. In particolare, gli erano interessati degli esercizi di invenzione, riguardanti scene di genere che implicavano la messa in rappresentazione di stati d’animo, come il ridere o il piangere. Il piangere era proprio di certe scene bibliche, come il compianto del Cristo morto. Sofonisba, educata in un ambiente che aveva conosciuto gli studi di Leonardo sui moti dell’animo, sul vecchio, sul grottesco e sul giovane, mette in gioco invenzioni che diventano celebri sulla base della circolazione di disegni. Il primo che circola è la “Vecchia che studia l’alfabeto ed è derisa da una bambina”. Michelangelo si interessa a questi disegni: non è così comune la rappresentazione del riso. Non si tratta né di un sorriso, né di un riso eccessivo. Si tratta di un riso composto. Michelangelo avrebbe richiesto anche la rappresentazione del pianto. Il racconto non si ricava solo dalle lettere spedite da Amilcare conservate nell’Archivio di Casa Buonarroti a Firenze, ma anche da una lettera di Tommaso Cavalieri, che scrive nel 1562 a Cosimo de Medici per accompagnare un regalo fatto a quest’ultimo. Tommaso Cavalieri, era in una brutta situazione, e per ottenere il favore di Cosimo, decide di separarsi da 2 disegni preziosi che possedeva: uno era la Cleopatra di Michelangelo. Si trattava di disegni molto rifiniti e complessi che non erano destinati ad essere messi in pittura. Si tratta dei cosiddetti “presentation drawings”, che presentano invenzioni importanti. Oltre al disegno di Michelangelo, Tommaso Cavalieri si separa anche dal disegno di Sofonisba raffigurante un “Fanciullo pizzicato da un gambero”. Insieme ai doni, Tommaso Cavalieri scrive una lettera, dove nomina Sofonisba ‘Angosciosa’ (cognome non corretto), ora dama di corte presso la corte di Spagna. Questo fatto viene sottolineato perché le dame di corte provenivano solitamente dal paese da dove proveniva la regina: il caso di Sofonisba era un caso estremamente raro. Tommaso Cavalieri, abituato a maneggiare disegni di Michelangelo, afferma che si tratta di un disegno molto prezioso perché non è solamente bello, ma contiene un’invenzione. Nella lettera Cavalieri scrive che il ‘divino Michelangelo’, aveva visto un disegno di una giovane che rideva, e disse che avrebbe voluto vedere un bambino che piangesse. Nell’ambito di questa famiglia cremonese, di fronte ad uno spunto di Michelangelo, Sofonisba rappresenta un bambino che piange. I bambini piangenti collocati in scene di mercato, ad esempio, erano già esistenti. La novità portata da Sofonisba era legata al fatto che il pianto doveva essere inquadrato in una storia vera e propria. Il foglio ha avuto una grande circolazione ed è ormai consunto. Si trova nella Galleria Nazionale di Capodimonte. Vasari era riuscito ad ottenerlo e lo descrive nelle Vite: era riuscito a farselo regalare e lo aveva messo nel Libro dei disegni. Ciò che conta è l’interesse di Michelangelo per questi disegni, che è però adombrato da Vasari, che non lo nomina direttamente. Il pianto del bambino non è un pianto stereotipo: il male del pizzico del gambero ingenera il pianto violento del bambino. Il posto che un’invenzione di questo genere occupa nella storia della pittura italiana, al di là dell’aneddoto vasariano, è rafforzato dal fatto che già alla fine degli anni ’20 del 900, Longhi, ha studiato e considerato l’influenza che gli artisti lombardi avrebbero potuto avere sulla formazione di Caravaggio. Quest’ultimo, prima di arrivare a Roma, aveva assimilato diversi spunti da pittori lombardi. Longhi pubblica un articolo sui precedenti lombardi di Caravaggio, lo intitola “Quesiti caravaggeschi: i precedenti”. Longhi cita numerosi pittori, anche cremonesi, passando ovviamente anche per Sofonisba Anguissola. È in questo l’articolo che compare quel “zelantemente”, apparso in Vasari: diligentemente, cioè l’idea delle donne che dipingono la tela con cura, tocco a tocco. Longhi sostiene che Sofonisba non sia stata incidente per lo stile, ma per le invenzioni di certi particolari e soggetti. Il critico sostiene che i disegni dell’artista cremonese dovrebbero essere famosi. Longhi dice che il disegno della “vecchia che studia l’alfabeto e viene derisa da una bambina”, era stato tradotto in un’incisione da un artista fiammingo (si tratta di un’invenzione con una risonanza europea. Le stampe moltiplicano l’effetto della ricezione delle opere. Inoltre, Longhi parla del disegno che raffigura un “fanciullo morso da un gambero”, sottolineando la sua influenza su Caravaggio, visibile molto bene nell’opera “Ragazzo morso dal ramarro”. Nel 1929 Longhi riconosce quello che poi è stato universalmente accettato: Caravaggio dipinge un giovane panneggiato all’antica, che sta disponendo fiori all’interno di un vaso, e viene morso da un ramarro. Questo gli provoca un motto di risentimento e irrigidimento che è l’aggiornamento dell’invenzione di Sofonisba. Caravaggio lo traduce all’ennesima potenza. Vasari, si rende conto che ciò che aveva scritto su Sofonisba alla fine della vita di Properzia de Rossi, non era soddisfacente. In una delle ultime parti della “Giuntina”, nella sezione delle Vite di Benevenuto Garofalo e di Gerolamo da Carpi, Vasari non parla in particolare delle biografie di questi artisti lombardi e ferraresi, ma ne cita solo delle opere, che aveva ammirato. Nel 1566 Vasari aveva intrapreso un viaggio di studio nelle zone lombarde, che si erano riempite di opere che non aveva ancora visto. Vasari inocula nelle vite degli altri, dei pezzi della sua biografia. L’autore aveva voluto rivedere certi luoghi, e alcune opere che non aveva mai visto. Vasari fa una lunga discussione citando anche un’altra artista che fa incisioni, Diana Scultori. Parla di Bernardino Gatti (secondo maestro di Sofonisba), dei fratelli Campi, non menzionando Bernardino Campi, (primo maestro di Sofonisba) Dopo aver parlato di Giulio Campi, afferma che erano stati allievi di Campi non solo i suoi fratelli, ma anche Sofonisba. Vasari si era infatti sbagliato. Campi non era stato citato come primo maestro di Sofonisba, ma Vasari cita Giulio Campi al suo posto. Questo provocherà vivaci reazioni, anche scritte, provenienti dall’entourage di Bernardino Campi: negli anni ’80 del 500 usciranno delle lettere, come quella di Salviati che riconosce a Bernardino Campi di essere stato maestro dell’Anguissola. Vasari inizia a parlare di Sofonisba, nominando padre Amilcare e madre Bianca Ponzoni. Nel 1566 Vasari era stato a Milano, accompagnato da Leone Leoni. Poi si era recato a Cremona, perché attirato non solo dai Campi, ma anche da Sofonisba. Vasari racconta di aver fatto visita ad Amilcare Anguissola che gli aveva mostrato diversi quadri dipinti dalla figlia. Tra le varie opere, Amilcare gli mostra la celebre “Partita a scacchi”, che raffigura le sue 3 sorelle. Il dipinto era firmato in latino da: “Sophonisba Anguissola virgo”. Il termine virgo qui inserito ricorda Plinio, con l’amplificazione di Boccaccio. Marzia sarebbe rimasta vergine, ovvero senza marito, per tutta la vita. In questo caso virgo significa solo giovane. Nell’iscrizione in latino leggiamo anche il nome del padre, Amilcare Anguissola: viene inserito il patronimico, che non è una novità, in quanto al tempo, come abbiamo visto nel caso di Properzia, era necessaria la malleveria di un uomo o di un parente stretto, maschio, per ottenere un posto nella società. Sofonisba dichiara di aver ritratto dal vero le sue 3 sorelle ed una servente. Vasari sottolinea che nel quadro vi è una vecchia donna di casa. Plinio aveva affermato nella Naturalis Historia che le donne erano abili nel dipingere le vecchie. Le sorelle sembrano talmente vive, che sembra che non manchi loro altro che la parola. Il quadro è molto interessante, nonostante siano presenti evidenti difetti: i ritratti di più persone sono ritratti molto difficili. Le sorelle sono radunate all’aperto in un giardino. La sorella più grande, Lucia sta insegnando il gioco degli scacchi all’altra sorella, Minerva, raffigurata di profilo. Infine, troviamo la sorella minore, Europa, di fronte che ride, in un riso composto. Non si tratta di un quadro comune: si tratta di un’invenzione di genere da parte di Sofonisba ed è per questo che sarà molto conteso dai collezionisti. In questo dipinto notiamo la capacità di Sofonisba di realizzare ritratti, anche di bambini. Non era usuale ritrarre bambini e non era considerato gradevole dai pittori. Sofonisba ritrae i bambini con amore e affetto. Il contrasto giovane-vecchio, molto manieristico, è evidente, vista la presenza della serva, che doveva controllare il comportamento delle bambine. Ci troviamo in un contesto di nobiltà, seppur bassa: le ragazzine sono vestite di tutto punto ed indossano gioielli preziosi. Si tratta di gioielli di famiglia. La conferma che i gioielli siano proprio quelli di famiglia è data dal fatto che, in un ritratto di Sofonisba che probabilmente raffigura la madre Bianca Ponzoni, la donna indossa una collana di perle, la stessa indossata da una delle sorelle, in quanto il numero di perle presente è lo stesso. Vasari non vede solo la “Partita a scacchi” in casa Anguissola, ma ammira anche il “Ritratto di Amilcare Anguissola”, accompagnato da Minerva e Asdrubale, il figlio maschio. Si tratta di un dipinto dinastico: il padre, pater familias, è seduto e vestito di nero, come si conviene ad un gentiluomo, lo aveva codificato Baldassarre Castiglione nel “Cortegiano”. Accanto al padre troviamo il figlio maschio Asdrubale, vestito di rosso. La posizione in cui è immortalato il padre, seduto, è una posa che i contemporanei di Vasari considerano derivata da modelli illustri, come quello della “Tomba di Giuliano dei Medici” di Michelangelo. I contemporanei considerano la scelta di immortalare il padre in questa posizione come un esercizio di stile da parte di Sofonisba. Vasari parla inoltre del fatto che era passato da Piacenza, dove aveva potuto ammirare 2 ritratti di Sofonisba: un “autoritratto di Sofonisba” e un “ritratto dell’arcidiacono di Piacenza”, che aveva potuto ammirare a casa del canonico di Piacenza. Per quanto riguarda l’autoritratto di Sofonisba, anche in questo caso non sappiamo quale intendesse Vasari. Sofonisba si era dedicata alla realizzazione di ritratti tra il 1552 e il 1560 circa e ne aveva prodotti tanti. I suoi ritratti sono ricercati. Alcuni di questi sono stati realizzati su modello di Iaia di Cizico: si tratta di autoritratti allo specchio, come “L’autoritratto con il monogramma del padre Amilcare”, qui Sofonisba si autoritrae, su piccolo formato, con una grande medaglia in mano che reca le iniziali del padre intrecciate proprio nella medaglia. Sofonisba si autoritrae anche mentre dipinge: ricordiamo ad esempio “L’autoritratto a cavalletto”, dove la pittrice è raffigurata nell’atto di dipingere una vergine che bacia un bambino. Sofonisba non è qui vestita con abiti di gala: si veste di gala solo nei ritratti ufficiali; quando si ritrae mentre dipinge, si veste da ragazza virtuosa ed elegante. La pittrice si autoritrae anche alla spinetta, mentre suona: non si tratta però di un’invenzione di soggetto da parte di Sofonisba. Si tratta di un’invenzione proveniente da un’artista fiamminga che si era ritratta nell’atto di suonare. Anche in questo caso, è la molla pliniana che spinge verso la realizzazione di autoritratti da parte di donne pittrici: le donne si autoritraggono e il ritratto deve consentire di vedere la bellezza, la purezza e la virtuosità, che deve sempre trasparire. L’autoritratto è lo specchio delle virtù e dell’anima delle donne che si autoritraggono, oltre che del pregio del quadro stesso. Gli autoritratti di Sofonisba sono così tanti che mostrano la donna crescere ed invecchiare. I ritratti di Sofonisba faranno da incentivo per la produzione di autoritratti di altri artisti. Irene da Spilimbergo si mette a dipingere dopo aver visto i ritratti di Sofonisba; anche Lavinia Fontana sarà conosciuta per la realizzazione di autoritratti. La ricerca di questi ritratti di Sofonisba è stata complessa e continua: ricordiamo l’episodio del letterato Annibal Caro, della corte dei Farnese a Piacenza, che chiede un ritratto di Sofonisba ad Amilcare, ma gli viene poi richiesto indietro dallo stesso Amilcare, che sosteneva di averglielo solamente prestato. Ciò che è interessante è che Vasari non vede i ritratti di Sofonisba a casa di Amilcare. Gli autoritratti di Sofonisba erano stati spediti tutti altrove: si trattava del biglietto da visita di Sofonisba e di tutte le sue virtù. Si trovavano presso letterati e corti ed erano stati inviati come doni di presentazione da parte Amilcare o da Sofonisba stessa. Erano anche i letterati stessi a richiedere i ritratti: da un po’ di tempo i letterati avevano iniziato a comporre le serie degli uomini illustri, di gioviana memoria, che cominciano a comprendere anche i ritratti delle donne virtuose. In casa Anguissola, Vasari racconta di aver potuto ammirare dei grandiosi quadri di famiglia. Sofonisba ha dipinto per tutta la vita anche quadri di soggetto religioso, raramente arrivando a composizioni di sua invenzione. Per quanto riguarda i dipinti di soggetto religioso, dipinse la “Sacra Famiglia”, conservata presso l’Accademia Carrara di Bergamo. Già al tempo non si avevano dubbi che il dipinto fosse stato realizzato da Sofonisba, il dipinto è infatti firmato “Sophonisba Anagussola adolescens pinxit.” A causa dell’errore nel cognome, ‘Anagussola’ e non ‘Anguissola’, qualcuno pensa che la scritta sia una apocrifa, cioè apposta successivamente alla realizzazione del dipinto dell’Anguissola. Nonostante ciò, per la presenza di elementi quali lo stile tipicamente cremonese e la diligenza nella realizzazione dell’opera, il dipinto è sicuramente attribuibile a Sofonisba. Giovanni Morelli non aveva dovuto applicare il suo metodo di riconoscimento del dipinto sulla base della presenza di dettagli. Se fosse stato così, Morelli avrebbe avuto grandi difficoltà ad attribuire questo dipinto all’Anguissola, essendo che questo soggetto era stato inventato da un pittore cremonese, Camillo Boccaccino. Il 1559, anno della realizzazione di quest’opera, è fondamentale: si tratta del momento in cui si registra la consacrazione della fama di Sofonisba. Dopo tutti gli sforzi di Amilcare Anguissola, nonostante tutti i limiti nell’ambito dell’apprendistato, essendo Sofonisba un’artista donna, Sofonisba diventa una pittrice acclamata. Il 1559 è l’anno in cui Filippo 2 re di Spagna, accondiscende alle pressanti richieste arrivategli da Amilcare e da una serie di letterati e diplomatici che Amilcare era riuscito a mettere in movimento, e Sofonisba viene accolta alla corte spagnola, come dama di compagnia della regina Isabella di Valois. Filippo 2 si era sposato proprio nel 1559 con Isabella di Valois, che si era portata a corte, dalla Francia, un seguito di dame della nobiltà francese. È curioso il fatto che all’interno di questo corteggio, si fosse inserita anche la cremonese Sofonisba Anguissola. In qualità di dama di corte Sofonisba è registrata nei pagamenti della corte spagnola: è da sottolineare il fatto che non sia registrata come pittrice, nonostante avesse il compito di insegnare la pittura e il disegno alla regina. Sofonisba non solo insegna a dipingere alla regina, ma ritrae con autorevolezza anche alcuni membri della corte, mettendo in campo le sue capacità mimetiche. Se non poteva copiare dal naturale dei modelli nudi, si dedicava all’attività della copiatura dal vero e della copiatura di stili appartenenti ad altri pittori a cui si doveva ispirare. Presso la corte di Filippo 2, Sofonisba si adegua allo stile della ritrattistica internazionale, particolarmente grata nell’entourage di Filippo 2, preso cui lavoravano pittori di origine spagnola, fiamminga. Si trattava di state portraits: non si tratta di ritratti che ritraevano uomini di stato, ma avevano l’obiettivo della rappresentazione dello stato sociale del soggetto rappresentato. In questa fase 500esca che vede nello state portait uno strumento di ed aveva deciso di passare al disegno, sul quale avrebbe avuto l’educazione da Tiziano. In un dipinto di Silvestro Lega, vediamo raffigurati Irene e Tiziano, mentre dipingono. La biografia di Irene parte dalla descrizione vera e propria dell’artista, che presenta una donna bellissima nel suo assoluto equilibrio, di statura mediocre, con il volto ben misurato e occhi particolari, che emanavano luce come da una torcia accesa. Come tutte le donne, era avviata all’arte del ricamo, ma non era appagata da quest’attività. Non soddisfatta, si mise a leggere e a scrivere. La donna lesse il Cortegiano, Petrarca, Plutarco, gli Asolani del Bembo. Irene legge non solo per passatempo, ma per istruirsi Siamo arrivati ad una svolta, un cambiamento: abbiamo abbandonato Vasari, la cui autorevolezza rimane indiscussa. Una delle donne citate fuggevolmente da Vasari, era Irene da Spilimbergo, della quale Vasari ci aveva detto una cosa interessante: Irene, vergine bellissima, letterata e incamminata sulla strada del disegno, morendo, era stata celebrata da tutte le penne degli scrittori d’Italia e aveva visto che questa donna, vissuta in un ambiente elitario dal punto di vista culturale, era stata più importante in morte di quanto lo fosse stata in vita. La pubblicazione di questi componimenti è importante perché raccoglie testi di poeti di tutta Italia, da nord a sud, che si uniscono nel celebrare Irene e nel ricordare, sia in volgare, sia in latino, la grandezza di questa donna. Contribuiscono ad introdurre quello che poi diventerà un topos ricorrente della sua biografia: il suo presunto allunato, o vicinanza, con Tiziano, ribadita dalla biografia di Irene, attribuita da alcuni a Dionigi Attanagi e da altri ad un letterato aristocratico, Gradenigo. La raccolta poetica è un pò noiosa, perché sono componimenti in obitu, riguardanti morte e compianto. Questa raccolta consacra la fama di Tiziano e quella di Irene. Importante è la diffusione dell’idea, tra gli uomini di cultura, che le donne artiste potessero esprimersi, avendo un percorso che doveva essere sempre più o meno lo stesso: un percorso virtuoso, che riguardava la descrizione fisica delle donne. Irene, coltissima, legge “Il Cortegiano” nel 1561, ormai l’opera è uscita da più di 30 anni, è però considerata un caposaldo dell’educazione e delle basi del comportamento femminile. Legge altri manuali di comportamento come quello di Piccolomini, delle poesie e Petrarca. Per ispirazione divina, accumulando virtù e abilità, Irene, a 18 anni circa, insieme alla sorella Emilia, avrebbe maturato il desiderio di voler imparare a dipingere. Nella biografia di Irene si legge: essendo Irene una donna, bisogna sempre ribadire che è virtuosa. A casa di Irene si ritrovano delle ragazze in gruppo per passare il tempo e per suonare il liuto e la spinetta. Tra queste c’era una ragazza, di nome Campaste, che l’autore della biografia ci dice era brava a dipingere. Questa donna inizia a far crescere in Irene il desiderio di dipingere. Irene si mette a disegnare, supera il modello datole dalla sua compagna di studi e sceglie un modello più autorevole che in Veneto è Tiziano, che è il modello assoluto. Siamo nel momento della controriforma e su di Tiziano si è alzato un gran polverone per il Giudizio Universale. Irene era già abile nel ricamare: di solito la pittura era una professione maschile, che richiedeva una certa perizia per il disegno. Il ricamo richiede un minimo di dimestichezza con il disegno. Irene comprende il disegno perché già ricamava e aveva praticato dei rudimenti del disegno. Irene si applica al disegno e all’arte e diventa abile in maniera così repentina fino a superare perfino gli uomini. Irene amava la competizione e il giudizio, le piaceva confrontarsi con gentiluomini che discutevano con lei su argomenti di lettere e di quello che aveva studiato. Tutti si meravigliano della bravura di Irene, compreso Tiziano. Ad un certo punto, in questa crescita veloce e progressiva, qualcuno le mostra un ritratto di Sofonisba, il vero fiammifero che ha fatto accendere la sua passione per la pittura. La volontà di emulare un esempio come quello di Sofonisba avrebbe acceso in Irene il desiderio di passare dal disegno, nel quale era migliorata, alla pittura: è molto più difficile passare dal disegno, anche di traduzione, alla pittura. Essendo una donna, Irene impara a dipingere copiando diligentemente dei dipinti di Tiziano, con accortezza nelle misure, nei lumi, nelle ombre e nelle pieghe dei panni: Irene fu così brava che diventò in breve tempo un’eccellente copista delle opere di Tiziano. Il legame con Tiziano pareggia i conti: se da un lato tutti sapevano che Sofonisba aveva raggiunto Michelangelo, dall’altro lato c’è Irene che raggiunge Tiziano. La storia finisce male per Irene, ma bene per la sua fama e per la raccolta di poesie. Irene sarebbe morta, secondo il racconto, per un eccesso di dedizione alla pittura: la donna avrebbe dipinto per giorni senza staccarsi, per arrivare alla perfezione assoluta. Per questo motivo le venne la febbre alta e un forte mal di testa. In circa 22 giorni Irene morì. La raccolta di poesie, che accompagna la vita di Irene, vede la collaborazione di numerose poetesse donne. Tra le poetesse che partecipano a questa raccolta, invitate a spedire sonetti o componimenti in morte di Irene da Spilimbergo, c’è la bergamasca Lucia Albani che noi conosciamo per il ritratto che le fece Giovanni Battista Moroni. La poetessa scrive una poesia in morte dall’intonazione petrarchesca. Uno studioso, che ha scritto un articolo che riguarda la raccolta delle rime del ’61, conclude il suo studio con una nota marginale “niente della carissima Irene rimane...del loro scrivere”: se di Irene non è più riconosciuta alcuna opera, forse è perché non meritava di essere ricordata e consacrata. Le artiste cominciano a nascere e ad affermarsi sempre di più in Italia dopo la vicenda di Sofonisba e dopo l’esplosione causata dalla fama di Irene da Spilimbergo con il libro del 1561. Cominciano a diffondersi le attività delle artiste figlie di pittori o di altri artisti. Tra i figli di artisti citiamo l’attività di un’artista bolognese, figlia di un pittore bolognese, Prospero Fontana. Quest’ultimo nel 1552 dà alla luce una figlia che chiama Lavinia Fontana, che diventa una delle prime artiste donne pittrici della storia dell’arte italiana. L’artista impara la pittura nella bottega del padre e consce i modelli degli autoritratti di Sofonisba con i quali si confronta. Gli autoritratti di Lavinia si diffondono in numerose collezioni italiane e straniere e sono spesso corredati con iscrizioni che recitano: “Lavinia virgo...” Lavinia si specializza inizialmente su ritratti e autoritratti. Nel 1577 il padre di Lavinia stipula dei patti matrimoniali per dare Lavinia in sposa a Giovanni Paolo Zappi: sarà un matrimonio felice per Lavinia che riuscirà a mantenere la sua carriera di pittrice e di madre, ebbe 11 figli. Nelle firme dei suoi quadri aggiungerà spesso il cognome Zappi. Lavinia viene sollecita a produrre autoritratti, in gara con quelli di Sofonisba, che ha lasciato la corte spagnola. Gli autoritratti di Lavinia e Sofonisba avranno circolazioni nelle raccolte di uomini e donne famose nelle corti europee. Essendo Lavinia Fontana figlia di un pittore e sposata con Giovanni Paolo Zappi, mercante e imprenditore, è la prima donna italiana a dipingere delle vere e proprie pale d’altare. La prima le viene commissionata dalla chiesa di Imola ed è “L’assunzione della Vergine”, un’esplosione di virtuosismo rappresentativo. Questo dipinto ci indica in Lavinia una formazione più completa rispetto a quella delle altre donne artiste, perché avvenuta nella bottega del padre. Ha capacità di invenzione superiore a quella delle altre artiste. La sua fama circola rapidamente, propagata dai letterati bolognesi, e non solo, in tutta Europa. Un esempio di dipinto di Lavinia è “La madonna del silenzio” in cui c’è la Vergine che copre il Bambino e Giovanni Battista, che invita al silenzio per non svegliare il bambino il cui sonno è chiaramente una prefigurazione della morte. Questo dipinto viene inviato nel 1589 a Filippo 2 che lo apprezza particolarmente. È sottoscritto con il nome di Lavinia Fontana coniugata Zappi. Filippo 2 dimostra di apprezzare questo dipinto: ha già ospitato a corte una artista, Sofonisba, e mette il dipinto nelle sue collezioni dell’Escorial a Madrid. Dobbiamo ricordare che molte artiste nate dalla metà degli anni ’50 in poi, figlie di artisti, vengono avviate alla carriera artistica perché in qualche modo legittimata, pur con tutti i limiti che per le donne sembrano esserci ancora. Lavinia è una pittrice che si specializza in ritratti, nella copia, grazie alla formazione paterna è ricordata anche per essere una pittrice di grandi pale fino ad arrivare, sui primi anni del 600, quando insieme al marito lascia Bologna e si trasferisce a Roma, dove diventa una pittrice ricercata dai collezionisti, a dipingere soggetti mitologici. LE DONNE PITTRICI DI LOMAZZO I testi che Lomazzo pubblica dagli anni ‘80 fino ai ‘90 sono più rigorosi e controllati anche se mostrano la cultura eterogenea e sfaccettata caratteristica di Lomazzo Il “Trattato dell’arte della pittura, scultura e architettura” è un trattato in cui l’autore milanese cerca di dare istruzioni generali al pittore per istruirlo su come si eseguono le proporzioni. È un testo enciclopedico, in cui Lomazzo presenta una visione accademica, volta ad insegnare la pittura, anche dal punto di vista teorico. In questo trattato si inizia da abbozzare l’ipotesi che il momento principale del lavoro dell’artista sia quello dell’ideazione. Lomazzo scrive cosa è la ritrattistica al suo tempo e sottolinea alcuni elementi che riguardano anche la produzione di tante donne contemporanee, fa riferimento al fatto che il ritratto non può essere appannaggio di tutti, deve fissare il viso e l’aspetto di personaggi meritevoli, o perché esercitano funzioni di potere nel campo politico, militare o religiosa, o perché collegato a qualche virtù o peculiarità. Dal punto di vista teorico, secondo Lomazzo, solo alcuni avrebbero il diritto di essere ritratti. I ritratti devono essere ritratti di stato: non posso rappresentare un militare con oggetti non convenienti al suo statu, bisogna rappresentare i personaggi degni di essere ritratti con attributi e abiti giusti. Nella Controriforma il principio della convenienza diventa il principio predominante. Il ritratto può essere migliorato rispetto alla realtà: ritratto idealizzato. Lomazzo aggiunge un elenco di ritratti importanti, con il nome dell’autore: l’autore cita personaggi ritratti da autori diversi e cita un ritratto di Don Carlos, figlio di Filippo 2, dipinto da Sofonisba. Lomazzo la mette nell’elenco come ritrattista affermata e conclamata. Questo fatto è importante, NON sottolinea che essendo una donna, è un miracolo di natura. Nei conforti dei ritratti comincia ad esserci un certo dubbio, nell’epoca della controriforma, che si insinua nei trattati. Questo dibattito potrebbe avere riverbero nell’esecuzione dei ritratti da parte delle artiste. Dagli anni ‘80 e ‘90 del 500, il modo delle artiste di ritrarsi allo specchio su modello di Marzia, si attenua. Nella produzione letteraria di Lomazzo, segue la pubblicazione delle “Rime” nel 1587. Lomazzo raccoglie le sue Rime in 7 libri, che si concludono con un’autobiografia. In quest’opera ci sono 2 sonetti, nel 2’ e 5’ libro, che fanno riferimento a donne artiste. Le donne artiste sono un patrimonio collettivo e condiviso dei letterati, si devono citare perché sono importanti. Nel secondo dei due sonetti Lomazzo cita Nunzio Galizia e la figlia, Fede Galizia, nata intorno al ’73. Nel primo sonetto ci troviamo di fronte ad un insieme interessante, è intitolato “De la signora Caterina Cantoni”: il primo pezzo fa riferimento alle donne artiste già citate da Plinio. Nelle carte degli antichi scrittori, Lomazzo dice di aver trovato i nomi delle artiste antiche, di cui ci elenca i nomi. Successivamente si arriva alle terzine del tempo moderno che riguardano Properzia, Sofonisba e le sorelle (Europa e le atre sorelle). L’autore rivolge il suo omaggio ad una persona in particolare, Caterina Cantoni. Caterina, ricamando, supera ogni lode che può essere scritta, viene equiparata alle pittrici e scultrici ed ha avuto enorme influenza e importanza. Diventa celebre nella Milano di Lomazzo, che conosce bene il marito e il suocero della donna. Nel 500 i baldacchini o stendardi facevano parte di un’ostentazione di ricchezza: le camere da letto sono luoghi di ricevimento e vengono decorate con baldacchini ricamati. Il ricamo figurato era una produzione appannaggio maschile con un’eccezione particolare, ovvero quella di Caterina Cantoni, che entusiasma i contemporanei che la paragonano ad una pittrice. Nel 1590, Lomazzo scrive su Caterina Cantoni “Nell’Idea del tempio della pittura”, dicendo che è così brava da poter essere messa in concorrenza con la figura di Aracne (che tesse la tela) di cui si racconta nella mitologia. MITO DI ARACNE: è un mito greco che vede Aracne, abilissima nel ricamo, sfidare Atena. Atena ricama la storia della contesa di Poseidone e Atena per il possesso di Atene, Aracne invece rappresenta gli dèi dell’Olimpo. L’abilità di Aracne scatena l’ira di Atena che, per non darle la vittoria, si avventa su di lei. Aracne viene salvata da un intervento divino che la trasforma in un ragno, così che possa tessere le proprie tele per l’eternità. Si cita questo mito perché la Cantoni viene associata ad Aracne per la sua abilità e perché la stessa Cantoni ricama l’episodio della sfida tra Atena e Aracne. Lomazzo scrive anche notazioni tecniche: dall’attività della Cantoni prende il nome un punto che ancora oggi si chiama “punto Cantoni” e ne descrive proprio la tecnica. Il punto era interessante perché identico sia al diritto che al rovescio. È un esercizio di virtuosismo manieristico. La Cantoni era impegnata a realizzare e finire un fruttiero, ovvero un telo elegante di non grande dimensione che in origine serviva per coprire la frutta. Caterina invia a Filippo 2, il fruttiero, cioè un esercizio di virtù che rappresenta l’incoronazione di Filippo, la scena dell’abdicazione di Carlo 5, il consesso di cavalieri intorno e allegorie di concetti come la religione, la fortezza, la giustizia, che vengono ritratte intorno. Questi principi sono ritratti al naturale e si leggono in ugual modo sia al diritto che al rovescio. Quest’opera è andata perduta. C’è la menzione di quest’opera in Lomazzo ma nessuno l’ha mai vista. Gli studi che sono stati condotti in questi anni hanno confermato la vicinanza di Cantoni con l’entourage di Lomazzo. Caterina era nata in una famiglia molto agiata, facente parte di una dinastia di grandi orefici lombardi, i Leuco (o Da Lecco). Una dei Leuco aveva poi sposato un Cantoni, giurista, che aveva molte connessioni con l’accademia della Val di Blenio frequentata da Lomazzo. Nello stesso tempo, la Cantoni stava ricamando altre opere. Qualcuno di questi fruttieri si vede in alcuni musei italiani, come quello dei Musei Civici di Palazzo Madama a Torino: alcuni particolari del fruttiero rappresentano le allegorie delle 4 parti del mondo. C’è un problema che Lomazzo non solleva: probabilmente il disegno non si deve all’invenzione di Caterina, ma collaborano con lei altri artisti del tempo come, Camillo Procaccini. Caterina poi sviluppa in un disegno proprio. La Cantoni arriva a confrontarsi anche con temi di carattere mitologico, che comprendono scene erotiche e amorose. La donna ricama soggetti profani e ha una sua competenza nel caratterizzare allegorie diverse. Nell’edizione milanese dell’Iconologia di Cesare Ripa era presente una dedica a Caterina Cantone. Esce a Roma in 1’ edizione nel 1593 e contiene un repertorio infinto di descrizioni di soggetti che potevano essere utilizzati da poeti, pittori e scultori. Conteneva anche la descrizione delle allegorie dei concetti di Pace, Libertà, Fede, Prudenza. La 1’ edizione di questa iconologia è un’edizione che esce aniconica. Nel 1603 esce una 2’ edizione celeberrima, che è illustrata. Soddisfa un’esigenza di mercato alta, tale da suscitare l’iniziativa di alcuni editori che pubblicano edizioni non autorizzate dell’opera. Una di queste, ancora senza immagini, esce a Milano nel 1602 dedicata alla figlia di Caterina Cantoni, perché lei era morta l’anno prima. La figlia si sta educando al disegno, si pensa che diventerà una grande pittrice, in realtà no. Lomazzo e Morigia, 2 fonti milanesi, avevano annoverato tra le donne artiste anche una grande ricamatrice, Caterina Cantoni, la cui fama diventa molto estesa. Le opere di Caterina vengono ricercate da tutte le corti, in parte sono omaggi e in parte richieste. Caterina si muove agilmente su disegni fornitole da Procaccini e su temi mitologici che includevano anche il nudo femminile. Un altro personaggio che ha lodato la Cantoni è Paolo Morigia, che ha vissuto tutta la vita nell’ordine dei gesuati, celeberrimo per essere stato ritratto da Fede Galizia nel ritratto del 1596, ma anche per aver scritto una “Historia dell’antichità di Milano”, storia della città con informazioni che riguardano il contemporaneo, ha aperture su arti e artisti che in parte preleva da Lomazzo e ai quali aggiunge informazioni. Lo fa perché l’ordine dei gesuati era un ordine atipico che praticava in proprio arti figurative: molti gesuati erano pittori di vetrate, intagliatori lignei e lavoravano all’interno di chiese facendosi anche pagare in denaro che poi investivano nei loro monasteri e nei luoghi in cui vivevano. Avevano una competenza in campo artistico che altri gruppi religiosi non avevano ai tempi. Nel 1595 pubblica “La nobiltà di Milano”, in 6 libri in cui racconta la grandezza degli uomini che sono nati a Milano e che hanno avuto una vicenda importante dal tempo degli storici romani fino alla sua contemporaneità. Si racconta la grandezza di questa città: siamo nella Milano Borromaica, una Milano legata alla cultura della controriforma che tende a proiettare un’immagine di sé come quella di una seconda Roma, città sacra, che era stata capitale dell’impero e nella quale dottori della chiesa, come sant’Ambrogio, avevano costruito le basi della chiesa della cultura locale. Racconta le grandi personalità natali o naturalizzate a Milano. Per nostra sorpresa dedica il 5’ libro agli artisti. È relativamente interessato a pittori, scultori, architetti, mentre è più interessato ai praticanti le arti congeneri. Morigia dedica 2 capitoli alle artiste donne: siamo nell’epoca in cui le donne hanno avuto una loro storia. La peculiarità della loro professione interessa Morigia che è legato ad alcune di queste donne. Nella virtù del ricamo tra le donne eccellenti troviamo Caterina Cantoni, che si trova citata tramite il nome della figlia Barbara, tra le donne pittrici del 3’ capitolo. È descritta come bravissima da Lomazzo nel ricamare, in grado di rappresentare in un telo l’incoronazione di Filippo 2. Morigia la presenta nel pieno clima della controriforma. Morigia, citati diversi ricamatori uomini che avevano la bottega a Milano, prosegue con Caterina: troviamo il tema della meraviglia legata al genere femminile che si applica all’arte. Caterina produce opere destinate ad ambienti nobili ed elevati (principesse, grandi chiese, conventi) Questa donna è una pittrice con l’ago, dipinge sulla tela con una tecnica meravigliosa. Lomazzo aveva menzionato principi come Filippo 2 che avevano in mano opere di Caterina. Morigia cita invece Caterina d’Austria che aveva sposato il duca di Savoia. Proprio nelle mani della figlia di Filippo 2 erano arrivati i drappi che Caterina aveva ricamato in onore del battesimo del principe e li aveva donati, così come aveva donato e fatto circolare le sue opere in più di 30 chiese. Morigia investe molto sulla leggenda: racconta che non è stata imitata da nessuna, pur avendo lei appreso questa capacità da autodidatta. Di fatto essendo di buona nascita, Caterina non poteva andare a bottega da un ricamatore, avrà avuto qualche maestra privata, ma poi ha sviluppato da sola il suo virtuosismo. La sua prova sarebbe stata un velo da calice offerto ai padri Cappuccini, uno dei nuovi ordini nella grande casa dei francescani, in occasione della peste del 1576. È interessante notare che la Cantoni aveva donato questo velo, contenta per essere sopravvissuta ai dolori e ai travagli del figlio. Morigia non nomina questo dolore personale dell’artista. Morigia mette questa prima produzione della Cantoni, ovvero il velo per il calice, sotto la cupola del grande terrore che aveva percorso Milano nel 1576. È interessante come la Cantoni appaia laica in Lomazzo e devota in Morigia, ricordata per aver realizzato teli per un battesimo e per aver distribuito sue opere in diverse chiese di Milano. Si era resa nota al mondo come ricamatrice con il velo donato ai frati Cappuccini. Il velo non è però mai stato ritrovato o conosciuto. Morigia ci offre un ritratto della Cantoni, in una visione controriformistica, legato all’ambito della produzione del sacro, senza tacere che si tratta di un’artista miracolosa, pur praticando l’arte del ricamo, attività che le donne potevano praticare ma non come professione. Non poteva vendere le sue opere, considerate alla pari dei quadri o disegni perché realizzati in modo molto raffinato, ma al momento del dono di questi ricami, riceveva in cambio grandi quantità di doni preziosi. dimostrare l’ispirazione, è una personificazione della pittura. Lavinia, con una sicurezza di sé stessa acquisita negli anni si paragona a Minerva come dea della sapienza, come una sapiente pittrice. ARTEMISIA GENTILESCHI Questa Roma nella quale Lavinia è approdata nel 1603, sta avendo un’altra figlia di un pittore di origine toscane, Orazio Lobi, che una volta a Roma assume il cognome Gentileschi, per non essere confuso con il fratello. La figlia è Artemisia Gentileschi. In questi studi sulle donne artiste è complicato muoversi nei confronti di Artemisia. La fortuna definitiva moderna di Artemisia si deve ad uno studio pubblicato da Longhi nel 1916, quando pubblica sulla rivista di Venturi un articolo intitolato “Gentileschi padre e figlia”, e che riscatta Artemisia da un certo oblio o da uno scandalo, che si era sollevato da qualche anno intorno a lei. In questo saggio, Artemisia è indicata come l’unica donna in Italia che abbia mai saputo cosa sia pitturare, non come una donna pittrice diligente come Longhi dirà di Sofonisba alla quale riconosce tanti meriti. Ad Artemisia riconosce una capacità stilistica e pittorica che le altre donne artiste non hanno avuto. Resta una donna sulla quale tanto si è scritto, tanto si lavora e molto si discute. C’è un ritratto, un’incisione ricavata da Jerome David, che la raffigura in abito da dame più o meno alla fine degli anni ‘20 del 600, ci dice essere Artemisia e ha permesso di riconoscere tanti autoritratti eseguiti da Artemisia negli anni successivi della formazione. Il fatto che sia figlia di un pittore va tenuto presente. Orazio Gentileschi fu un pittore di formazione fiorentina, tra il primo e il secondo decennio del 600 si avvicina a Roma e a Caravaggio, ma mantiene integra e caratteristica una propensione per l’eleganza della pittura che deriva dalla sua matrice fiorentina-toscana. Orazio è stato pittore di grande talento, era però cocciuto. Lascia interdetta l’introduzione di Dacia Maraini con l’uscita del libro di Anna Banti dicendo che Artemisia supererà il padre, in realtà questo non è vero. Baglione quando pubblica le sue vite scrive di Orazio ma non scrive di Artemisia. Orazio non resta tutta la vita a Roma, finirà la sua vita in Inghilterra dove muore nel 1539. Baglioni dice che Artemisia era una brava ritrattista, però i ritratti riconosciuti sono pochi rispetto alla pittura di invenzione. Orazio educa nella propria bottega la figlia Artemisia che si rivela molto abile, collabora con il padre quando dipinge In questo frequentare la bottega si trova a contatto con i frequentatori della bottega, amici e collaboratori del padre, compreso Agostino Tassi che con Orazio nel 1611-12 viene chiamato ad affrescare la Loggia del Montecavallo di Scipione Borghese. Tassi si trova molto spesso nella bottega di Orazio da solo con Artemisia e arriva a violentarla. Artemisia ha 18 anni, sappiamo di questa vicenda perché nel 1612, un anno dopo i fatti che si svolgono in maniera continuata, Orazio espone denuncia contro Tassi ma lo fa perché sta litigando con il suo socio per pagamenti. Orazio scoperchia con una denuncia pubblica lo scandalo che non era limitato alla casa di Orazio, ma era un elemento diffuso nella cultura del tempo. La denuncia passa ad un processo che si sviluppa nel 1612 che porterà ad una lunga escursione di testimoni ed un imprigionamento parziale di Artemisia che verrà sottoposta ad una tortura alle mani per estorcere la verità. Si scopre che Tassi le aveva promesso lusinghe e il matrimonio, quello che vien fuori è che Tassi è già sposato e non può sposare Artemisia. È un processo che dura 6 mesi, vede coinvolti molti pittori a deporre e parlare, si risolve con una condanna tipica del tempo: Tassi 5 anni di reclusione di cui non sconta nemmeno un giorno perché quando uno era un bravo artista trovava sempre un protettore che lo faceva uscire, mentre Artemisia umiliata anche da un padre che sapeva tutto, inoltre ci sono dubbi di tanti studiosi che dicono che lo stesso Orazio ha approfittato della figlia. La situazione viene parzialmente risolta con un matrimonio riparatore con un piccolo artista di nome Antonio Schiattesi. La vicenda si sarebbe dimenticata se nel 1876, un archivista, Antonio Bertolotti, non avesse cominciato a studiare i documenti che riguardavano gli artisti attivi a Roma tra 500 e 600, scavando per studiare stranieri approdati a Roma, si imbatte anche nel processo di Artemisia, lo pubblica a partire dal 1886 nell’opera “Agostino Tassi: i suoi scolari e compagni in Roma”. Viene letto e interessa Longhi, rimane però un argomento poco trattato e poco considerato sia dagli storici d’arte che dai letterati, fino al 1947 quando la moglie di Longhi si interessa maggiormente, che era a sua volta una storica dell’arte che aveva rinunciato alla carriera, Lucia lo Presti, cambia il nome in uno letterario, Anna Banti. Il processo viene letto con estremo interesse e diventa motore di un romanzo che la moglie di Longhi, con lo pseudonimo di Anna Banti pubblica. Nel romanzo “Artemisia” pubblicato nel 1947, con una prima gestazione nel 44 (quando il manoscritto che aveva raggiunto un 100 pagine fu distrutto da un bombardamento su Firenze) Nel 1947 la vicenda dello stupro diventa una vicenda che coinvolge tanti lettori perché da quel momento il romanzo avrà tanta fortuna e circolazione, in qualche modo diventando una fonte di letteratura artistica in parte forviante perché è un romanzo storico che parte da alcuni dati reali e da una competenza estrema delle vicende storicoartistiche. Lucia Lo Presti si è laureata in storia dell’arte con Venturi e aveva pubblicato alcuni articoli sulla rivista prima di capire che per tutti sarebbe stata solo la moglie di Longhi, decide quindi di spogliarsi di questa identità di storica dell’arte e decide di darsi alla letteratura, diventerà una romanziera importante, attraverso uno pseudonimo. Bisognerebbe distinguere il romanzo della Banti, faticoso per tanti aspetti, dalla realtà oggettiva di ciò che accadde. Si vedono le vicende degli stupri come quelle che hanno stravolto la vita della donna, il vero trauma della vita di Artemisia, se riposizioniamo lo sguardo nella cultura del tempo, in realtà non era tanto il trauma della violenza ma la distruzione della reputazione. Era uscita da quel processo nel quale il padre l’aveva trascinata senza più una reputazione. Artemisia resta senza garanzia di una tutela maschile, dobbiamo proiettare la vicenda in questo 600 che è un secolo torbido per quel che riguarda la nostra visione, ma che vedeva come più disdicevole la distruzione della reputazione che uno stupro. Nel 1612 Artemisia che già dipinge bene, dipinge scene condivise con il padre, probabilmente hanno dipinto insieme “Susana e i vecchioni” del 1610, soggetto che fa riferimento alla messa in scena di una eroina biblica, che mentre sta facendo il bagno viene insidiata da 2 vecchi che le dicono che avrebbero fatto la spia se non avessee accettato il ricatto sessuale, Susanna rifiuta il ricatto e per ripicca i 2 vecchi la denunciano, dicendo che l’hanno vista nuda a fare il bagno e ha ceduto alle lusinghe, in realtà lei riesce a parlare con il profeta Daniele che torva un espediente, va ad interrogare i 2 e si accorge che non hanno concordato il fatto e che stanno mentendo, Daniele riscatta la sincerità di Susanna che diventa un simbolo di fedeltà generale. Potendo mettere in scena una scena di nudo, spesso viene messa in scena con espedienti di carattere erotico, però non fa cosi Artemisia che qui lavora con il padre Orazio, il tema viene raccontato molto bene nell’inquadrare il soggetto con il peso dei 2 vecchi che le stanno addosso e lei rifiuta. Il problema è che il tema è biblico a cui non possiamo dare una lettura psicanalitica di tipo contemporaneo come se Artemisia ci stesse lanciando un messaggio di ciò che le era successo. È un dipinto di grande decoro che non rappresenta i sentimenti traslati di Artemisia, non può convogliare il suo drammatico vissuto in dipinti del genere. La libertà che si riprende se la riprende da sola, in quanto riuscirà ad emanciparsi dal padre e dal marito. Negli ultimi anni sono emersi mazzi di lettere di un amante di Artemisia dove nel 1612 finita tutta la tragedia del processo e del matrimonio paravento, Artemisia si trasferisce, molla Roma e il padre scrive una lettera importante alla duchessa di toscana Cristina di Lorena presentando la figlia Il padre si rivolge alla duchessa come già in precedenza Amilcare Anguissola, si era rivolto a Filippo II dicendo che è virtuosissima nella pittura. La duchessa accetta di avere Artemisia in Toscana, corte ricca con personaggi di grande d’importanza e peso: Artemisia entrerà in contatto con Galileo Galileo. Artemisia a Firenze è una ragazza del popolo, arriva pressoché analfabeta, impara a leggere e scrivere e scriverà per tutta la vita lettere per il padre. Dopo i 18 anni, una volta lasciata la bottega del padre e quel mondo cosi corrotto, arriva nella corte medicea, dove avrà una vita interessante. A Firenze allaccia rapporti con un ricco mercante, Maringhi, che la proteggerà in molte situazioni con l’avvallo del marito. Riesce a ricostruirsi la sua vita e ad eseguire dipinti di straordinaria importanza. Nel 1612 riprendendo il cognome Loma, il vero cognome del padre, si trasferisce a Firenze con il marito e lavora per la corte gran ducale della granduchessa Cristina di Lorena, madre di Cosimo 2, che si circonda di grandi intellettuali compreso Galileo Galilei. Con gli artefici caratteristici della pittura che sta diventando barocca spesso si autoritrae fino ad arrivare probabilmente a dipingere nel periodo fiorentino il tema della Giuditta, considerato tema consueto per le donne artiste, toccato sia da Fede Galizia, sia da Lavinia Fontana. Tema considerato adatto alla pittura femminile, tipicamente riformistico: si tratta di un’eroina sacra la cui vittoria su Oloferne era vista anche come una vittoria del cattolicesimo sugli infedeli, vista come prefigurazione della vergine e generosa dispensatrice di una salvezza per il popolo. Questo tipo di letture molto allegoriche e complesse ricorrono nella letteratura. Erano tanti i testi sacri che fanno riferimento a Giuditta che ricorre anche nella pittura. Non si sa per quali committenti Artemisia abbia sviluppato la prima versione del tema di Giuditta, datata intorno al 1612-13 ma non ne siamo certi. Gli studi seri su Artemisia e sulle artiste donne sono un fatto relativamente moderno, il numero delle attribuzioni era veramente ridotto e i lavori sono ancora in corso. Non è chiaro per quale committenza abbia elaborato il tema di Giuditta che uccide Oloferne, anche se tutti gli studiosi vogliono ritenere che la versione che si trova a Napoli a Capodimonte sia precedente rispetto a quella che si trova a Firenze. La prima versione tutti pensano sia stata tagliata sul lato, in generale presenta l’episodio biblico in una dimensione teatralmente drammatica, dove viene rappresentato Oloferne, il generale assiro riverso sul letto ubriaco raggiunto nella tenda da Giuditta, decapitato, Mette in scena l’immagine con questo volto terrificante che quando il dipinto sarà stato appeso nelle collezioni (tela dedicata alla fruizione privata) quello che si sarà visto immediatamente nella tela è la faccia stravolta e terrificante di Oloferne, ce lo dice anche Baldinucci. Troviamo la spada che sta tagliando la testa, un inizio di sanguinamento e le 2 donne che congiuntamente stanno compiendo l’azione, Apra tiene fermo Oloferne e Giuditta lo decapita,, animata da una forza divina ispirata da dio. Tutti sono concordi nel ritenere che la versione di Napoli, con questo inquadramento così ravvicinato, sia la prima delle due perché è una versione in cui gli esami condotti sia di tipo radiografico che riflettografico hanno evidenziato una grande quantità di pentimenti. C’è qualche imprecisione anatomica che denuncia ancora una non precisa conoscenza dell’anatomia da parte di Artemisia. Quando esegue questo dipinto estremamente innovativo, da vera figlia di Orazio mette in gioco la sua capacità della resa materica degli elementi, risalta il blu prezioso dell’abito di Giuditta rispetto al corposo rosso dell’abito di Apra. Intorno al 1613, una delle cause che muove Tassi a approfittare della confidenza non solo abusando di Artemisia, è il fatto di sottrarre alcune tele, tra cui una Giuditta e Apra già finita. Quindi c’è in ballo una Giuditta anche negli atti dei processi, c’è in giro un tela, ora di proprietà privat, che potrebbe essere questa. Nel momento in cui dipinge ha in mente, o almeno sa che esiste, la versione di Caravaggio, incredibile versione elaborata intorno alla fine degli anni ‘90 del 500. Caravaggio con il suo immaginario teatrale e realistico cosi sviluppato mette in scena l’uccisione di Oloferne in maniera diretta. Era stata dipinta per un banchiere romano che la teneva gelosamente custodita, ma probabilmente Artemisia riesce a vederla lo stesso grazie alla fama del padre. Quest’opera è stata resa nota circa 70 anni fa quando è stata riconosciuta da un restauratore in una collezione privata, è stata poi esposta in extremis alla mostra di Caravaggio a palazzo reale del 1951, non c’è nel catalogo ed è stata esposta velocemente mentre Longhi ne parlava sulla rivista “Paragone”. Quando Anna Banti ha scritto e pubblicato il suo libro nel 1947, l’opera di Caravaggio ancora non era stata acquisita dallo stato, la conosceva solo per conoscenze dirette nel collezionismo privato. Quando Artemisia dipinge la sua uccisione, sa che questa azione teatrale, drammatica era già messa in scena da Caravaggio, ma ha sicuramente negli occhi, nella testa, degli altri modelli che sono per esempio il modo con il quale suo padre aveva affrontato la rappresentazione di un tema caro ai pittori e scultore fiorentini, come il tema di David e Golia, vediamo quello di Dublino. Il dipinto ci presenta il gigante Golia riverso e il giovane David animato da una forza sovrumana che sta per decapitare il gigante, non è nelle corde di Orazio arrivare alla scena truculenta, sarà più spinta la figlia. Orazio è un pittore misurato ed elegante. Artemisia è di una generazione dopo, la sua cifra è quella di una rappresentazione spinta con resa drammatica della scena, l’episodio dell’uccisione era una scena che anche Rubens aveva da poco dipinto in un quadro che presenta il momento in cui Giuditta e Apra stanno per colpire Oloferne. È una scena rubensiana che porta qui la testa del gigante in primo piano. Va ricordato che l’idea di rappresentare il gigante riverso era già stata presenta da Michelangelo nella volta della Cappella Sistina. Quando Artemisia dipinge Giuditta, mentre si trova presso i medici a Firenze, ha alle spalle una pittura figurativa che la porta ad immaginare la scena in questo modo, assecondando la sua enfasi drammatica e mettendo in scena un doppio atto abolitivo di 2 donne che riescono insieme, con volontà divina, a vendicarsi sul gigante. Alla volontà di rappresentare nel modo più moderno e drammatico, le va riconosciuta una capacità inventiva, straordinaria, intelligenza adattabile che la porta a creare un’iconografia importante che suscita grande impressione. L’Artemisia che dipinge va vista nel suo tempo, nella sua mentalità, vuole compiacere i committenti e non vuole esibire nei dipinti di questo genere vicende personali, vicende da dover tenere sepolte nella propria intimità. Ciò non toglie che sia giusto che un romanziere come Anna Banti possa aver attribuito al dipinto altri significati, caricandolo di un significato metaforico allusivo alla vicenda personale di Artemisia, operazione legittima e corrotta dal punto di vista dello stile letterario in maniera perfetta. LUCIA LO PRESTI Conosciuta con lo pseudonimo di ANNA BANTI Luigia Lopresti (Anna banti) è nata nel 1895 a Roma, cognome meridionale, è figlia di un avvocato ben introdotto nella società, frequenta il liceo tasso di Roma dove si trova ad avere come prof di storia dell’arte Roberto Longhi, si innamora del professore, i due si frequentano, la Lopresti si laurea in storia dell’arte a sua volta con Venturi con una tesi su Boschini e inizia a pubblicare saggi di storia dell’arte sulla rivista L’arte di Venturi. Il fidanzamento diventa ufficiale negli anni ‘20, nel 1924 si sposano e sarà un sodalizio che durerà per tutta la vita, alla morte di Longhi nel ’70 diventa presidente della fondazione Longhi di Firenze, istituita nella villa dei tassi dove i 2 si erano insediati. Fu una storica dell’arte intelligente, ha anche una forte vocazione letteraria narrativa, le piace scrivere e negli anni ’30 si accorge che avrebbe dovuto vivere la sua vita professionale all’ombra di Longhi. Decide quindi di adottare uno pseudonimo per pubblicare testi letterati, sceglie il nome di Anna Banti che è il nome di un’amica di famiglia che le piaceva ricordare. Continuerà a scrivere qualcosa di arte, ma la sua vera vocazione diventa la letteratura. Accompagna Longhi al congresso degli storici dell’arte di Londra, luogo nel quale produce una conferenza sugli studi caravaggeschi, nei quali ha abbondantemente attinto anche agli atti del processo. In occasione del viaggio a Londra del 39, i due vanno a vedere le opere sia di Orazio Gentileschi sia di Artemisia che si trovano in Inghilterra. C’è un punto anche nel romanzo in cui i ricordi di questo 1939 irrompono a proposito di un quadro che rappresenta Artemisia come allegoria della pittura. Il viaggio termina pochi mesi dopo nell’idea della Banti di scrivere un testo su artemisia, nel 1941-42 comincia a pensarci seriamente, viene portato ad un buon livello di scrittura fino a quando si distrugge a Firenze insieme ad un altro romanzo che stava scrivendo, rimane distrutto nei bombardamenti. Però nel dopoguerra nel 1945-46 ripensa a questo manoscritto che era perduto, già arrivato ad un ottimo punto, e lo riscrive introducendo una parte di questa vicenda nel resoconto delle pagine iniziali del testo che esce nel 1947 per l’editore Sansoni. Scritto nel giro di poco tempo, esce in una edizione illustrata da un corredo iconografico di 12 incisioni realizzate da Amino Maccari, pittore e illustratore. È interessante pensare che sia uscito con un corredo iconografico perché anche l’edizione definitiva dei promessi sposi esce con un corredo iconografico molto controllato, Manzoni è uno degli scrittori preferiti della Banti, ricordi di Manzoni anche in certi punti della prosa si sentono abbastanza bene. Si ebbe una prima tiratura di 100 copie di lusso e poi un’edizione molto più corrente con le illustrazioni totalmente in bianco e rosso. Si tratta di illustrazioni che su gran parte rappresentano al tipologia dei personaggi così come li ha descritti la Banti nel romanzo, fissano solo 2 opere di Artemisia, una è la Giuditta e Oloferne e l’altro è l’allegoria della pittura che si trova in Inghilterra. Ci sono 2 cose che vanno sapute per quanto riguarda la vera biografia di Artemisia: il fatto che Artemisia non è mai passata da Genova, studi recenti lo confermano, mentre la Banti la fa passare da Genova dove invece è passato il padre Orazio prima del 26. Invece si tratta di un punto importante del romanzo quello dove parla del rapporto con Genova. La data di nascita di Artemisia è stata certa in anni successivi alla pubblicazione, quando la Banti ha scritto pensava fosse nata nel 1598, 5 anni dopo la nascita reale che fu nel 1593. Nel romanzo più volte la tragedia di Artemisia è legata ad essere una ragazzina adolescente. Quando la Banti racconta le scie degli abusi sottolinea il fatto che ha 14 anni, la sua è un’adolescenza violata, in realtà questa donna aveva già 18 anni. La scena che Artemisia compone nel quadro è una scena che noi dobbiamo idealmente ricollocare in una cultura di prima 600 in cui si cominciava a rappresentare questo episodio in chiave drammatica, Firenze è una città in cui le scene teatrali sono molto consuete e diffuse. NON SI CAPISCE NIENTE Invece la complessa rappresentazione che la Banti attribuisce a questo dipinto, Artemisia nella sua invenzione avrebbe dipinto questo quadro nel momento in cui era circondata da un gruppo di donne che volevano imparare a dipingere, prendendo spunto da una cultura molto ampia, quella della Banti, cultura storico artista che si nutre del quotidiano rapporto con Longhi, si immagina questo gruppo di ragazze che vanno da Artemisia volendo imparare i segreti del disegno. Artemisia è impegnata a dipingere un’opera che vuole presentare a corte, ormai libera da tutte le convenzioni che avevano imbrigliato le donne artiste del 500, si vale di un diverso modello di uomo che scgelie in un facchino di origini greche, Anastasio, che descrive come un uomo di grandi dimensioni, ben fatto, anatomicamente interessante, che artemisia fa distendere sul letto per poterlo rappresentare. La presenza di
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