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Letteratura artistica la vita di Leonardo da Vinci vista dal Vasari, Sintesi del corso di Letteratura

KUNST DES CINQUECENTO IN DER TOSKANA Bruckmann Osservazioni e appunti sulla "Vita" di Leonardo di Giorgio Vasari

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

Caricato il 02/04/2020

sara_tognela
sara_tognela 🇮🇹

4.3

(41)

53 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Letteratura artistica la vita di Leonardo da Vinci vista dal Vasari e più Sintesi del corso in PDF di Letteratura solo su Docsity! KUNST DES CINQUECENTO IN DER TOSKANA Bruckmann Osservazioni e appunti sulla "Vita" di Leonardo di Giorgio Vasari Nel 1903 Herbert Percy Horne pubblicava la traduzione annotata della Vita di Leonardo di Giorgio Vasari, guida insostituibile alla comprensione di Leonardo: "La Vita di Leonardo da Vinci è stata considerata uno dei saggi più felici del Vasari". Come mai il Vasari ha scritto così bene su Leonardo? Il Vasari di solito è al meglio quando scrive di artisti che ha conosciuto di persona, ma non aveva mai incontrato Leonardo perchè quando il maestro andò in Francia nel 1515 egli non aveva che 4 anni. Riferisce i fatti della vita di Leonardo nel modo in cui si sono succeduti; mentre le Vite dei maestri più antichi che precedono la sua sono poco più che raccolte in aneddoti. Le notizie biografiche di Leonardo delle quali il Vasari dispone sono poche, non dà la data di nascita né quella di morte, si limita a specificare che Leonardo morì a 75 anni. La sola data che viene precisata è il 1494 anno in cui Leonardo giunge a Milano per esservi trattenuto da Ludovico il Moro. Al momento della seconda edizione il Vasari aveva potuto verificare ulteriori notizie da Francesco Melzi, che aveva incontrato a Milano nel 1566. Il ritratto molto articolato con cui si apre la Vita del 1568: la chiave di lettura di questo ritratto è il passo bellissimo sugli studi di panneggio. Tanta abilità e intelligenza approdano ad un esercizio di imitazione servile della natura, il Vasari può comunque sottolineare l’eccezionalità del genio di Leonardo: *era in quello ingegno infuso tanta grazia da Dio et una demostrazione si terribile, accordata con l’intelletto e memoria che lo serviva, e col disegno delle mani sapeva si bene esprimere il suo concetto che con i ragionamenti vinceva e con le ragioni confondeva ogni gagliardo ingegno*. Oltre che con l’immagine del vecchio saggio, del filosofo e dello speculatore poco pratico, il profilo morale di Leonardo viene reso attraverso due episodi di impronta novellistica legati alla vecchia tradizione dell’artista come persona arguta e spiritosa. L’impegno del Vasari a dare un ritratto ricco ed articolato di Leonardo traspare proprio da tali espedienti narrativi, perfettamente leciti da un punto di vista di mimesi aristotelica. Il viaggio nell’Italia settentrionale nel 1566 permette nuove verifiche, ed è solo nel ’68 che l’immagine di Leonardo si arricchisce di un resoconto die disegni e degli studi di anatomia visti a Milano presso Francesco Melzi o mostrati al Vasari dall’anonimo pittore milanese che voleva stamparli a Roma. Partendo dalla sorpresa per l’elogio della fedeltà della tela di Polirone, ho iniziato una disamina delle opere che il Vasari conosceva direttamente ed attraverso le quali si era formata l’immagine dello stile di Leonardo. Delle opere milanesi conosce solamente il Cenacolo ed i ritratti inseriti nella Crocifissione del Montorfano nel refettorio delle Grazie. Poi, tornando a Firenze, ricorda il ritratto di Ginevra dei Benci, quello di Monna Lisa, il cartone della Sant’Anna e quello per la Battaglia di Anghiari. Alcune delle opere oggi perdute già al Vasari erano note solamente di fama, come la tavola della Natività mandata dal duca di Milano all’imperatore, e lo stesso cartone con la Sant’Anna. La conoscenza della grafica è affidata al Libro di anatomia che il Vasari dice fatto in collaborazione col medico pavese Marcantonio della Torre, agli studi giovanili, ai disegni di idraulica e di ingegneria ai quali il Vasari accenna nel 1568. Il Vasari ha quindi un’immagine del maestro molto diversa da quella che ci facciamo abitualmente. Non conosce l’Annunciazione, scoperta nel 1867, non ricorda la Vergine delle rocce, nessuno dei ritratti milanesi nè la decorazione della sala dell’Asse. Delle grandi opere eseguite nei primi anni del Cinquecento, ha forse presente il San Giovanni attraverso una copia e dalla sua variante come Angelo annunciante. Nel 1550 la conoscenza diretta delle opere era ancor più lacunosa: il Vasari non è mai stato a Milano e tra le opere fiorentine non cita neppure l’Adorazione dei Magi. Sia l’immagine che abbiamo di Leonardo che quella che, pur diversa dalla nostra, ne aveva il Vasari fanno comprendere con facilità perchè la sua biografia apra la serie delle vite dei maestri della terza età. “Maniera“ non compare mai a proposito di Leonardo; gli schemi attraverso i quali il Vasari spiega la sua pittura sono quelli subito evidenziati nel Proemio alla terza parte: “Ma lo errore di costoro (i maestri della seconda età) dimostrarono poi chiaramente le opere di Lionardo da Vinci, il quale dando principio a quella terza maniera, che noi vogliamo chiamare la moderna, oltra la gagliardezza, e bravezza del disegno, et oltra il contraffare sottilissimamente tutte le minuzie della natura così apunto, come elle sono; con buona regola; miglior ordine; retta misura, disegno perfetto, e grazia divina; abbondantissimo di copie e profondissimo di Arte…“. Delle opere perdute dalle quali il Vasari poteva costruire un’immagine di Leonardo più articolata della nostra le più significative erano la Battaglia di Anghiari ed il cartone giovanile con Adamo ed Eva che vedeva spesso Ottaviano dei Medici. Il cartone dà un’immagine di imitazione minuziosa del naturale, davanti alla quale “l’ingegno si smarisce solo a pensare, come un uomo possa avere tanta pacienzia“. Ben altra è l’importanza di ciò che il Vasari conosce della Battaglia di Anghiari, della quale descrive il “groppo di cavalli che combattevano una bandiera“. Nel testo egli si riferisce al cartone ma la stesura della sua descrizione è fatta sulla falsariga di una copia che corrisponde a quella plausibilmente attribuita a Pedro Machuca delle Gallerie di Firenze. Le figure vi sono rappresentate nel loro stato incompiuto ma senza il soldato caduto in basso a sinistra. Salvo il taglio di un inciso sull’anatomia dei cavalli, la descrizione resta immutata tra le due redazioni ma il suo significato varia dalla lettura in chiave di descrittività ed imitazione del naturale del ’50 alla nuova dimensione che può trovare nel 1568 attraverso le considerazioni sullo sfumato e gli scuri leonardeschi. Il Vasari osserva che Leonardo “nel dar grazia alle figure e ne‘ moti superò tutti gl’altri pittori“, egli aveva ormai presenti l’Adorazione dei magi, la Battaglia e, quale egli poteva ricostruire da varie testimonianze, la Sant’Anna. “Egli dunque, havendo nella sua fanciullezza imitato la maniera di Pietro Perugino suo maestro, e fattala molto migliore, per disegno, colorito et invenzione; e parendogli haver fatto assai; conobbe; venuto in migliore età, esser troppo lontano dal vero. Perciò che vedendo egli l’opere di Lionardo da Vinci, il quale nell’arie delle teste così di maschi, come di femmine, non hebbe pari, e nel dar grazia alle figure, e nè moti superò tutti gl’altri pittori..“ Vasari finalmente usa, nei suoi confronti,“maniera“; qui la sua “maniera“ o quella del Perugino alludono, semplicemente, al loro stile, senza possibilità di equivoci con la maniera moderna da cui il Vasari vuole tenere lontano Leonardo quando ne scrive la Vita. In questo passo è il giovane Raffaello per il quale il Vasari non richiama il concetto di maniera; egli migliora lo stile del Perugino col “disegno, colorito e invenzione“. Leonardo gli propone la capacità di “dar grazia alla figure“ e gli offre un esempio di “moti“ nei quali aveva superato tutti gli altri pittori. La descrizione delle grandi opere di Leonardo che il Vasari non ha visto e deve riostruire in maniera indiretta conferma questo dubbio, soprattutto nel caso della Gioconda. Per il famoso ritratto del Louvre la sua fonte sembrano solamente descrizioni verbali fatte da artisti ed amatori che l'avevano visto a Firenze nei primi anni del Cinquecento. La testimonianza del Vasari è stata messa in discussione in maniera assai radicale, ma l'importanza attribuita al ritratto, fino ad imporgli una sua descrizione, dovrebbero far escludere che non si tratti della Monna Lisa. Il Vasari non lo conosceva direttamente ma Andrea del Sarto era stato alla corte di Francesco I e lui od altri potevano ben riconoscere in Francia il dipinto visto presso Leonardo a Firenze. Il naso con tutte quelle aperture, rossette, e tenere, si vedeva essere vivo. La bocca con quella Sul contenuto del manoscritto, oggi perduto (definito dagli studiosi leonardiani Codice Sforza), Lomazzo aggiunge, alla fine della lunga citazione: “Et queste sono per il più parole scritte da Leonardo nel detto suo libro, alle quali ne seguono molte altre in questa materia, che io ho voluto frametter qui per esser venuto a proposito di ragionare delle arti, acciò che con l'autorità di tanto huomo Filosofo, Architetto, pittore et scultore, che non meno seppe fare che insegnare, si disingannino quelli che altrimenti sentono della eccellenza di queste arti“. Un probabile accenno allo stesso manoscritto compare nella seconda redazione delle Vite di Vasari, la Giuntina del 1568, quando si ricorda l'incontro con un pittore milanese possessore di uno scritto autografo di Leonardo sulla pittura e sui “modi del disegno e colorire“. Vasari lascia uno spazio bianco prima di “pittor milanese“, che potrebbe corrispondere al nome di Lomazzo; e inoltre il passo segue immediatamente un riferimento a Melzi. Forse il cosiddetto Codice Sforza non era estraneo all'eredità vinciana del Melzi, e anzi poteva essere l'archetipo di gran parte del Libro di pittura, e non solo del Paragone, già allestito da Leonardo alla fine del Quattrocento e probabilmente donato da Melzi a Lomazzo negli anni Sessanta; a sua volta portato da Lomazzo a Firenze, e poi a Roma,con il proposito di pubblicarlo come “opera“. Se un viaggio di Lomazzo a Firenze-Roma è databile intorno al 1565, il suo filo diretto con il maestro di Vinci emerge poco tempo prima, in una lettura originale della Vita di Lionardo del Vasari, nella redazione torrentiniana del 1550. Nel 1563 un venticinquenne Lomazzo inizia a comporre una serie di dialoghi intitolati Gli sogni e raggionamenti composti da Giovan Paulo Lomazzo millanese, con le figure de spiriti che gli si raccontano da egli dessignate, lasciati però incompiuti forse anche per ragioni morali. Il testo, infine, sarebbe stato illustrato, e accompagnato dai ritratti degli interlocutori, le “figure de spiriti che gli raccontano“, non più eseguite. L’opera è straordinaria anche per lo spregiudicato uso delle fonti, che Lomazzo riscrive e ricombina in un gioco vertiginoso. La dimensione onirica apre la narrazione, con Lomazzo che, risvegliatosi da un sogno, comincia a raccontare ciò che avrebbe visto e udito, in un mirabile palazzo eretto da un negromante su un’isola greca: i dialoghi in cui a turno hanno preso la parola sedici spiriti, grandi figure antiche e moderne come l’Ariosto, Paolo Giovio, Pitagora, Euclide, Leonardo, Cecco d’Ascoli, Alberto Magno, Pietro d’Abano, ma anche personaggi comuni come il musico Giovan Michel Maria Gerbo. Protagonisti del primo dialogo, Paolo Giovio e Leonardo. Giovio racconta di aver visto in sogno l’ingresso di una grande caverna, e di avervi incontrato gli animali in cui sono racchiuse le anime di tutti gli uomini. Leonardo rivela di essere stato anche lui in quella grotta miracolosa, e il suo racconto inizia con la riscrittura in prima persona del celebre episodio della vita vasariana. Ma la trama si complica in modo imprevisto, perchè Leonardo si innamora di una bellissima donna milanese, nome detta era Drusilla. Leona scrive allora a Drusilla una lettera d’amore ma ne riceve una risposta sprezzante, e disperato decide di imbarcarsi per il Levante. Una terribile tempesta fa affondare la nave, e Leonardo si ritrova naufrago e solo su un’isola misteriosa. Diventato donna, Leonardo arde di desiderio per “aver Drusilla in forma di uomo in brazzo“ e mangia di nuovo i pomi miracolosi trasformandosi più volte in uomo e poi in donna e infine in uomo, finchè viene raccolto in mare da marinai genovesi, e torna a Firenze. Insomma, il primo episodio raccontato ne Gli sogni è focalizzato sul tema dello scambio di sesso: Pitagora, rievocando le sue reincarnazioni, rivela di esser stato l'etera Aspasia, e infine addirittura l'Aretino, mentre l'Ariosto e la sua amata, bevendo a una fonte miracolosa, mutano entrambi sesso, pur continuando ad amarsi. Il tema era tipico della tradizione neoplatonica ed ermetica , e indicava nel superamento dell'identità di genere il raggiungimento dello stadio superiore di una creautra che, come l'ermafrodito originario, avesse in sé contemporaneamente i due principi costruttivi dell'universo, il maschile e il femminile. In Lomazzo lo spunto sapienziale può diventare anche comico, per influsso dell'Aretino e della commedia del Cinquecento (in cui dominano i giochi del travestimento, di scambio d'identità tra uomini e donne); ma l'idea di far raccontare la storia proprio a Leonardo non può non legarsi alla tradizione biografica anticache aveva visto arrivare a Milano un giovane “sonatore di lira“ di rara bellezza; e bastava inoltre la visione diretta e attenta di alcune sue opere per associare a quelle figure l'idea dell'androgino, dell'essere sospeso tra un sesso e l'altro. Leonardo torna in scena nel quinto dialogo, insieme allo scultore antico Fidia, per dibattere del primato della pittura, e quindi di un tema tipico del Paragone. A Fidia, che definisce la tripartizione della pittura in “moto cioè invenzione, disegno e colorito“, rimproverando a Michelangelo l'eccellenza nel solo disegno. Aggiunta originale di Lomazzo è l'immagine di un Leonardo “mezzo disperato“ per non essere riuscito a raggiungere la perfezione anche nel “colorito“; e qui poteva essere ripresa una tradizione diretta secondo la quale Leonardo dava, nella pratica d'insegnamento della sua bottega, il primato al disegno e non al “colorire“. Nel dialogo con Fidia, Leonardo torna ad insistere sullo stesso tema: “Alla somma perfezione dilla pittura sperando giungere, non potè, per rispetto dil collorito che molto bene non mi fu noto, per qual, come ti ho detto, in gran parte disperato da morsi“, riconoscendo al solo Raffaello la perfezione in tutte e tre le parti; e aggiunge un'importante osservazione sulla collaborazione dei suoi allievi, i “leonardeschi“ e sul Cenacolo di Santa Maria delle Grazie. Dopo la lode di Apelle e la critica die “pitturazzi“ moderni, Leonardo racconta la storia dell'arte da Cimabue fino al Francia: e qui Lomazzo riprende fedelmente le Vite vasariane, talvolta trascrivendole quasi alla lettere, e finalmente citandone l'autore nel passaggio biografico su Filippo Lippi. Nel dialogo, lo stesso Leonardo è bersaglio del rimprovero di Fidia, per non aver rappresentato il Cenacolo in modo conveniente: a differenza di quel che si vede nel dipinto, il luogo in cui Gesù celebrò l'Ultima Cena era umile, e gli apostoli erano “rabuffati“, con barbe e capelli scompigliati, scuri di carnagione, i piedi polverosi. Più avanti Leonardo ricorda i nomi die propri discepoli: Andra del Gobbo, Bartolomeo Clemento, Vincenzo Vecchio, Antonio Boltraffio mio discepolo, insieme con il Salai, che in vita più che tutti altri amai, che diversi furo“. Rispetto a Vasari, la variazione testuale più significativa riguarda Salai, che, come è noto, era Giangiacomo Caprotti, entrato ad appena nove anni nella bottega di Leonardo, bellissimo fanciullo il cui profilo torna probabilmente in una lunga serie di disegni di Leonardo. Vasari lascia nell'ambiguità la realtà umana del rapporto tra allievo e maestro; Lomazzo è molto più esplicito, quando fa dire a Leonardo: “in vita più che tutti altri amai“. Le “buonissime ragioni“ sono una lunga disgressione in lode dell'omosessualità: una delle più esplicite prodotte nella letteratura del Rinascimento. È il passaggio più forte ed esplicito fra le memorie leonardiane de Li sogni. Anche in questo caso, Lomazzo potrebbe aver raccolto una tradizione orale ancora viva a Milano nel Cinquecento, nella cerchia di artisti che si rifacevano all'eredità vinciana; infine Leonardo racconta la propria vita, sintetizzando in poche pagine la lunga vita vasariana: “il nascer mio fu in Fiorenza e da piciolo stei da Andrea Verrocchio, dal quale imparai a pingere, dillettandomi pure....come di musica, di aritmetica, di astrologia, di geommetria, di scultura e di architettura, mostrando in me la natura tanto ingegno, che ne' miei ragionamenti feci, con ragioni naturali, tacere de molti dotti e savi uomini. E tanto io amava gli animali.....; e dove io volsi il cervello e l'animo mio, mostrai tanta divinità nelle mie cose....da molte cose che incominciai, niuna mai ne finii, parendomi che la mano non potesse aggiungere alla perfezione de l’arte ne cose che io me immaginava. Andai dappoi a Milano dal duca Francesco…. cantai nella lira a l’improviso, che niuno altro dil tempo fusse…. quanto valessi nella pittura lo dimostrai nella Cena di Cristo, che poco fa ne parlamo, che io pinsi in Milano, dove dimostrai negli visi degli apostoli, l’amore, la paura, l’ostinazione, l’odio et il tradimento di Giuda Scariotto. Questa Cena fu di tanta eccellenza….Presi in Milano quello Salaì di cui parlato avemo, che molto bellissimo e vago era e pieno di gracia, avendo begli capelli et inanellati, con gli ochhi e bocca molto proporcionati….Redussi sì a perfizione, non essendo ancora finito, il ritratto di Mona Lisa; et il qual ritratto ora è in Francia in Fontanableo…. Andai doppoi a Roma col duca Giuliano de Medici, nella creazione di papa Leone, dove feci molte bizzerie di animali. Nel far cavalli non ci fu mai alcuno…. Vasari non aveva fornito, alcuna indicazione sul luogo di nascita, mentre l’Anonimo Gaddiano scriveva:“Lionardo da Vinci cittadino fiorentino“ senza ricordarne la nascita a Vinci;“ Prese Lionardo a fare per Francesco del Giocondo il ritratto di mona Lisa sua moglie; e quattro anni penatovi, lo lasciò imperfetto; la quale opera oggi è appresso il re Francesco di Francia in Fontanableo“;… Giovio invece era meglio informato, quando iniziava la sua Leonardi Vincii vita con le parole:“ Leonardus e Vincio, ignobili Etruriae vico“. Per Lomazzo, Leonardo poteva ancora essere ricordato come Leonardo da Fiorenza, ….Grande risalto si dà di nuovo alla figura di Salai….al suo rapporto privilegiato con Leonardo…. Le critiche casariane all’instabilità dell’ingegno leonardesco che lascia imperfette quasi tutte le sue opere, si conserva il particolare di un quasi eretico…..“non si accostava a qualsivoglia religione, stimando per avventura assai più lo esser filosofo, che cristiano“. L’ultima importante ripresa della Vita vasariana di Leonardo compare nel sesto dialogo del Gli sogni , in cui Leonardo e Fidia discutono della scultura….Mentre Fidia passa in rassegna gli artisti antichi, Leonardo scorre da Andrea Pisano a Michelangelo….Le usai nel leone che io feci per il Re di Francia in Milano il quale caminò parecchi passi e poi aperse il petto, mostrandolo pieno di gigli; e nel cavallo che di bronzo io volsi fare, di amravigliosa grandezza, per il Duca di Milano, che molto si dilettava di sentirmi sonare di lira….In conclusione, Gli sogni di Lomazzo testimoniano una lettura attenta e appassionata della Vita di Leonardo, che più di ogni altra sembra costituire, per il giovane pittore lombardo, il paradigma della vita e dell‘ opera di un artista…..I dialoghi più importanti per Lomazzo, dovevano essere il quinto e il sesto, una storia dell’arte antica e moderna affidata in effetti alle due sole voci di Fidia e Leonardo. Nel caso di Leonardo, la riscrittura della sua stessa Vita comporta il passaggio alla prima persona, e ad una maggiore immediatezza del racconto….. se Lomazzo fosse consapevole di poter presentare un ritratto di Leonardo più “autentico“ di quello tracciato dal Vasari. _____________________________________________________________________ Carlo Dionisotti APPUNTI SU ARTI E LETTERE (Parla Carlo Dionisotti) Intendo discorrere di Leonardo scrittore e del posto che gli è stato attribuito nella storia della letteratura italiana. Comincio dunque riassumendo i dati bibliografici che spiegano la recente inserzione di Leonardo. L’esistenza di un Leonardo scrittore, distinto dall’artista, non sfuggì ai contemporanei. Leonardo andò stendendo via via per trent’anni. Morto lui, l’imponente massa dei suoi appunti non fu dispersa: fu conservata per molti anni intatta a Milano dall’erede Francesco Melzi. Leonardo morì nel 1519. Molti uomini conoscevano bene l’artista, ed erano curiosi di quei disegni che aveva incluso nei suoi manoscritti. Nel 1651 apparve a stampa un Trattato della pittura ricavato dagli scritti di lui. La data coincide col totale esaurimento della tradizione letteraria italiana del Rinascimento. Infatti la prima edizione del Trattato di Leonardo, benché preparata in Italia, fu pubblicata a Parigi, seguita l’anno dopo da una traduzione francese del testo. A questo punto la fortuna di Leonardo scrittore cessa di essere un semplice episodio nella storia della cultura europea. Durante tutto il Settecento le edizioni di quell’unico suo libro si susseguono: nel 1721 appare tradotto in inglese, nel 1724 in tedesco. L’importanza di Leonardo scrittore fur iconosciuta dal Parini e dal Tiraboschi; gran parte dei manoscritti di Leonardo, portati da Milano a Parigi come rapina bellica, furono ivi sottoposti a pronta e intelligente verifica. Del 1818 è il saggio di Goethe. A Leonardo artista si oppone lo scenziato. Fra i due, lo scrittore torna nell’ombra. L’autore diventa personaggio, argomento e pretesto di prosa di Leonardo. Prosa poetica e poesia in prosa pertengono alla retorica die moderni, non a quella degli antichi, non certo a quella del Rinascimento italiano. Ma per il Quattrocento, ogni discussione è futile. Poesia e prosa erano allora rigorosamente distinte. Vero è che i moderni editori di Lorenzo de‘ Medici continuano imperterriti a leggere un famoso passo del Comento sopra alcuni dei suoi sonetti. Nell’età dunque di Lorenzo e di Leonardo, altra poesia non esisteva, volgare o latina, consapevole o inconsapevole, se non quella risultante dalle norme ritmiche e metriche valide allora. Certo è lecito a chiunque far prova di ritagliare dalla prosa di Leonardo un qualche frustolo che abbia o sembri avere il ritmo d’una lirica moderna. Insomma “Leonardo non è un gran prosatore perchè avrebbe scritto la più pura poesia del Rinascimento, ma perchè hja scritto la più verace prosa di concetti che la lingua italiana abbia avuto prima del Machiavelli“. Poetica non è la prosa di Leonardo, se anche essa possa avere, come ogni prosa e ogni umano discorso può, i suoi eccezionali momenti poetici. Ma non che Leonardo cerchi la poesia: essa subitamente prende lui e lo rapisce al canto. Poi subito si vede Leonardo svincolarsi da quella spirale di sentenze brevi e fluenti su di un ritmo precipitoso, e riprendere da capo il discorso su un altro ritmo. L’opera scritta di Leonardo dimostra una anche più notevole, eccezionale allora, estraneità e inabilità alla poesia. Nell’elenco del cod. Atlantico è compreso il Petrarca. Né fa meraviglia, perchè in quel giro d’anni, a Milano, non meno e forse più che a Firenze, era un testo cortigianamente e letterariamente indispensabile. Era saturo l’ambiente in cui Leonardo viveva, cosicché a priori non si può escludere che le sue citazioni fossero di seconda mano. Ora ecco che un mero caso mi reca sott’occhio il ms. Antonelli 393 della biblioteca di Ferrara, un caratteristico oblungo zibaldone del tardo Quattrocento, non ignoto agli studiosi della minore letteratura volgare di qull’età. È un di quei manoscritti che testimoniano dall’affluenza in un ambiente umanistico ferrarese, intorno alla metà del Quattrocento, di una grossa vena di poesia toscana. Rari oggi, rispetto al numero originario, sono gli esemplari superstiti di queste grammatiche; anche più rari, per ovvii motivi, quelli dei massimarii, delle raccolte proverbiali e sentenziose, dei libretti scolastici di lettura. Al di là dell’aneddoto, resta il fatto, che vale per Leonardo e vale in genere per la cultura italiana del Quattrocento, che il fondo moralistico tradizionale della scuola fu allora depresso e fortemente smosso e corroso dalla rivoluzione umanistica, ma non fu soppresso, fu anzi sollecitato a un’ultima esile fecondità. In un foglio del codice Atlantico, dove anche si leggono due distici proverbiali, Leonardo scrisse la seguente: “Le minacce sol son arme dello imminacciato“. Questa sentenza è dello scolaro “che di mal pelo avea toccata la coda“. Non mi pare che fosse stata segnalata mai negli scritti di Leonardo alcuna citazione d’un autore che doveva essergli verosimilmente noto e gradito. E anche qui per il Manganello e per Leonardo, ci si trova di fronte a una situazione intricata e ambigua, perchè il fondo di quell’antifemminismo era remotissimo, era, come un tempo si diceva, medioevale, e per contro nella seconda metà del Quattrocento esso aveva finito per ritrovarsi parallelo e conforme all’ultima moda dell’umanesimo ellenizzante. Per Leonardo, non la storia né la letteratura minimamente contavano, ma contava con altrettanto superba febbre il dominio visivo e sperimentale della natura, e da questo solitario dominio si liberava la sua evasione dalla norma. Ed era inevitabile che il contrappasso di una ricerca, così egoisticamente deserta di ogni intelligenza storica e cordialità umana, del meccanismo naturale, fosse poi il vagheggiamento ossessivo non soltanto dell’estremo limite di resistenza di quel meccanismo ma anche, e conseguentemente, della rottura. Il paragone di Leonardo col Poliziano, che la Fumagalli ha istituito in un saggio per più rispetti interessante, e altri consimili paragoni che anche sono stati o possono essere istituiti con autori fiorentini di quella età, esigono una preliminare definizione storica. La cronologia della vita di Leonardo è per sommi capi chiara, ed è chiara quella dei suoi maggiori contemporanei, ed è chiaro lo sfondo storico, storia di Firenze e storia d’Italia nella seconda metà del Quattrocento, su cui un paragone dell’uno e degli altri può e deve essere istituito. Leonardo crebbe a Firenze contemporaneo di Lorenzo de‘ Medici e del Poliziano. Esattamente contemporaneo: era nato tre anni dopo Lorenzo, due prima del Poliziano. L’ipotesi che Leonardo avanzasse, fra il 1470 e il 1480, sulla stessa linea d’avanguaria dei suoi coetanei umanistici e letterati, è ipotesi che non si appoggia su alcun documento e non ha il conforto della verosimiglianza. E certo un giovane come Leonardo, di quella curiosità e fulminea intelligenza, non sarà stato all’oscuro di quanto si faceva e diceva intorno a lui. Tuttavia le idee nuove, appunto perchè nuove, dovevano avere a Firenze, allora come sempre, più forte l’accento particolare e polemico degli individui o dei gruppi che le escogitavano. L’ambiente poi, in cui Leonardo viveva, l’ambiente artistico della Firenze d’allora, era esso stesso così ricco e fecondo di idee nuove, di concorrenti e divergenti ambizioni e propositi, che davvero non si intende come e perchè Leonardo dovesse uscirne se non per distrazione e riposo. Il terreno neutro sul quale a Firenze artisti e letterati potevano facilmente -incontrarsi e divagarsi nel decennio 1470-1480, non era quello dell’Umanesimo ellenizzante e neoplatonico, né quello dello stil novo umanistico e toscano insieme, inaugurato proprio allora dal Poliziano. La vivacità a Firenze di questa letteratura popolareggiante è ancora manifesta nell’opera di Lorenzo de‘ Medici e dello stesso Poliziano, ancora nell’opera del Machiavelli. In realtà, neppure la rivoluzione e riforma letteraria italiana del Cinquecento riuscì a spegnerla. Quanto ancora fosse libera e proterva a Firenze, nella seconda metà del Quattrocento, non occorrerebbe rammentare, se troppo a lungo non avesse avuto credito nella moderna iconografia letteraria un ritratto incredibile. Quelle Facezie esistono, e insieme valgono per lui e per la gente che gli stava intorno, e valgono esattamente per gli anni in cui ancora Leonardo era a Firenze, ci si può ben servire di esse come delle galle di gengiovo che convinsero il povero Calandrino. Non è difficile immaginare che Leonardo e il Poliziano si siano incontrati, ciascuno serbando in sé il suo proprio messaggio incomunicabile all’altro. È certo una ipotesi legittima, se anche inefficace. L’Alberti morì, vecchio e celebre, a Roma, che era sua normale residenza, nel 1472, quando Leonardo aveva vent’anni. Se c’è qualcuno cui piace la visione dell’Alberti, grand’uomo, e per quanto si sa non una facile pasta d’uomo, che negli ultimi anni vien per caso a conoscere quel promettente giovincello senza nome. Nell’elenco die libri del codice Atlantico è compreso il Driadeo, e ora sappiamo, grazie a una preziosa, brillantissima scoperta della Fumagalli, che Leonardo anche conobbe le Pistole di Luca Pulci. Ma il cibo che faceva gola a Leonardo non era fatto né di poesia né di letteratura, e se anche gli accadde di segnare speculando dall’alto qualche lepre, come le Pistole del Pulci, non risulta che la sua caccia si sia estesa mai alla regione dei candidi cigni o presunti tali. Poliziano inaugurò fra il 1470 e il 1480 una letteratura volgare nuova che da Firenze, aggiungendosi ai tre grandi dell’età rivolta. Il Poliziano ebbe la febbre sperimentale che fu la malattia degli uomini di quel secolo e di Leonardo. Gli esperimenti in cui egli si esercitò via via, furono diversissimi, e si susseguirono con fulminea rapidità. Il Poliziano degli ultimi anni appare nell’opera sua tutt’altro uomo da quel che Leonardo aveva potuto conoscere a Firenze. Nel paragone fra i due, vedo che con divergenti interpretazioni è stato chiamato in causa il Poliziano ultimo, enciclopedico, del Panepistemon. L’umanista e l’artista rompono il cerchio della loro specializzazione, mettono in dubbio il privilegio die filosofi di professione, mirano essi a una nuova enciclopedia. Il Poliziano estende la sua considerazione alle arti minori e ai mestieri anche più umili. Non concepì mai un’altra enciclopedia che quella fondata sulla discussione filologica delle fonti greche e latine. L’ipotesi di un Poliziano che gira per botteghe di Firenze, curioso di procedimenti e prodotti manuali, è sogno d’infermi e fola di romanzi. La sfida che non il Poliziano soltanto, ma altri umanisti con lui, lanciarono ai filosofi naturali sulla fine del Quattrocento fu una sfida filologica, la quale potè anche, indirettamente, suscitare nuovi esperimenti e ritrovamenti scientifici, e certo contribuì, decisivamente, a mettere in crisi la vecchia enciclopedia scolastica. Anche qui ci si trova di fronte a una situazione complessa e ambigua, che va accettata qual’è e non arbitrariamente semplificata e chiarita: Leonardo da un lato, e con lui quella media e minima cultura di cui egli era rappresentante, Poliziano dall'altro, e c‘n lui la più alta aristocrazia umanistica, si ritrovavano a distanza, su piani enciclopedici paralleli. Fra i contemporanei umanisti che a Firenze poterono esercitare un qualche influsso su Leonardo, è stato più volte ricordato il Landino. Giustamente, e non solo per il volgarizzamento di un testo fondamentale come Plinio, né per il primo soggiorno fiorentino di Leonardo. La bibliografia parla chiaro, e chiaramente indica il valore di mercato, la richiesta e il consumo allora di quel testo. Non posso credere che Leonardo, o altro lettore del suo stampo, abbia mai letto una sola pagina della Theologia platonica del Ficino, che non per nulla restò per tutto il Quattrocento accessibile a pochi lettori nella sola, prima edizione. Mi pare assai probabile che Leonardo usasse, nonostante la presenza in esso di illustrazioni del Botticelli, il Dante del Landino. Ma il Landino importa per un’altra questione aperta nella storia di Leonardo scrittore. È la fondamentale questione del quando mai e perchè egli scrittore sia diventato. Il fatto che Leonardo a scrivere un libro, nonché a pubblicarlo, non sia arrivato mai, è storicamente, per questo momento cioè della sua storia, irrilevante. Quel che conta è il proposito, e questo è ben documentato, a Milano, in data non precisabile ma non lontana dal 1490. Ma perchè Leonardo si sia deciso proprio allora a scrivere un libro sulla pittura, non è questione a cui si possa rispondere a lume di semplice buon senso. Occorrono documenti di storia linguistica e letteraria, che valgano per quel preciso spazio e tempo; non per Firenze, ma per Milano, non per il terz'ultimo ma per il penultimo decennio del Quattrocento. I documenti non mancano, ma richiederebbero lungo discorso. Egli si fece scrittore per difendere e rivendicare l'arte sua contro la privilegiata arte dello scrivere. Perchè Leonardo si impegnasse d'improvviso a fondo nella polemica bisogna sempre supporre che fosse stato punto sul vivo. È una ipotesi facilmente documentabile. Al centro dell'attività di Leonardo nella Milano sforzesca fu la tragicommedia del gran cavallo, cioè del monumento equestre che doveva celebrare la memoria di Francesco Sforza, padre di Ludovico il Moro e fondatore della dinastia. Era una storia latina, collaudata dalle epistole accompagnatorie dell'umanista principe, a Milano durante il passato regime, Francesco Filelfo. Nel 1486, mentre Leonardo già era a Milano, apparve una seconda edizione dell'opera. È probabile che Leonardo non si sia curato né della prima né della seconda: per fare il gran cavallo non aveva bisogno di leggere le imprese dello Sforza, e se anche ne avesse avuto bisogno, non avrebbe potuto leggere quel grosso tomo tutto in latino. Ma di li a poco Ludovico il Moro pensò all'opportunità che l'opera del Simonetta, volgarizzata, fosse largamente conosciuta, anche da uomini senza lettere come Leonardo. Prima del luglio 1489 il volgarizzamento era già a Milano, sottoposto a revisione da parte dell'autore Simonetta. Di mezzo ci furono anche controversie e complicazioni diplomatiche per alcuni passi ritenuti lesivi della memoria di Pio II. Nel 1490 il volgarizzamento fu stampato a Milano. Di questo libro, che gli veniva come di rimbalzo dalla sua Firenze, ricomposto nella lingua del Landino e sua, è impensabile che Leonardo non si sia accorto. Ludovico il Moro aveva, che più di suo fratello, erede legittimo, un preciso interesse politico a celebrare vistosamente la memoria del padre, deve considerarsi probabile che egli riprendesse quel progetto subito, cioè non appena insediatosi al governo del ducato, quando la fresca violenza della crisi consigliava provvedimenti distensivi ed evasivi, e un appello in ispecie alla fedeltà e all'orgoglio della vecchia guardia sforzesca. Comunque sia, resta certo che se la razza equina ancora può gloriarsi dei disegni e schizzi e studi bellissimi che testimoniano di quel che fu il modello leonardesco del gran cavallo, Francesco Sforza fece volentieri oltre a modo, e non solo esercitò una professione, ma tutte quelle ove il disegno si interveniva. Non solo operò nella scultura, facendo da giovane tante teste di donne che ridono, che vanno formate con l’arte del gesso, e ugualmente con teste di putti che parevano usciti di mano d’un maestro, ma nell’architettura fece ancora molti disegni così di piante come altri edifici. Fece disegni di mulini, gualchiere e ordigni; e perchè la professione sua volle che fosse la pittura, studiò tanto per ritrarre il naturale. Era in quell’ingegno infuso tanta grazia da Dio e una dimostrazione si terribile, accordata con l’intelletto e memoria che lo serviva, e col disegno delle mani sapeva si bene esprimere il suo concetto. Fu pronto e arguto, e con una perfetta arte di persuasione mostrava le difficoltà del suo ingegno, e fra le altre parole mostrava voler alzare il tempio di San Giovanni di Fiorenza. Ogni giorno faceva modelli e disegni da poter scaricare con facilità monti, e forargli per passare da un piano all’altro. E fra questi modelli e disegni ve n’era uno, col quale più volte a molti cittadini ingegnosi che allora governavano Fiorenza mostrava voler alzare il tempio di San Giovanni di Fiorenza e sottomettervi le scalèe senza rovinarlo. Era tanto piacevole nella conversazione che tirava a sé gli animi delle persone, e mostrollo che spesso passando dai luoghi dove si vendevano uccelli, di sua mano cavandoli di gabbia e pagatoli a chi li vendeva il prezzo che n’era richiesto, li lasciava in aria a volo, restituendoli la perduta libertà. Laddovve la natura volle tanto favorirlo, che dovunque è rivolse il pensiero, il cervello e l’animo, mostrò tanta divinità nelle sue cose, che nel dare la perfezione, di prontezza, vivacità, bontade, vaghezza e grazia nessun’altro mai gli fu pari. Vedesi bene che Leonardo per l’intelligenza dell’arte cominciò molte cose, e nessuna mai ne finì. Tanti furono i suoi capricci, che filosofando delle cose naturali, attese a intendere la proprietà delle erbe, continuando e osservando il moto del cielo, il corso della luna e gli andamenti del sole, stimando per avventura assai più l’esser filosofo che cristiano. Fece una tavola dove San Giovanni battezzava Cristo, Leonardo lavorò un Angelo che teneva alcune vesti; e beché fosse giovane, lo condusse in tal maniera che molto meglio delle figure d’Andrea stava l’Angelo di Leonardo: il che fu cagione che Andrea mai più non volle toccare colori, sdegnatosi che un fanciullo non sapesse più di lui. Li fu allogato per una portiera, che si avea a fare in Fiandra d’oro e di seta tessuta per mandare al re di Portogallo, un cartone d’Adamo e d’Eva quando nel paradiso terrestre peccano; dove col pennello fece Leonardo di chiaro e scuro lumeggiato di biacca un prato di erbe infinite con alcuni animali. Dunque Leonardo per questo effetto ad una sua stanza, dove non entrava se non è solo, lucertole, ramarri, grilli, serpi, farfalle, locuste, nottole e altre strane specie di simili animali, dalla moltitudine dei quali dei quali variamente adattata insieme cavò un animalaccio molto orribile e spaventoso, il quale avvelenava con l’alito e faceva l’aria di fuoco, e quello fece uscire d’una pietra scura e spezzata, buffando veleno da la gola aperta, fuoco dagli occhi e fumo dal naso si stranamente, che è pareva mostruosa e orribile cosa. Andato dunque ser Piero una mattina a la stanza per la rotella, e picchiato alla porta, Leonardo gli aprì dicendo che aspettasse un poco; acconciò la rotella al lume in sul leggìo, e assettò la finestra che facesse lume abbacinato; poi lo fece passar dentro a vederla. Ser Piero nel primo aspetto non pensando alla cosa, subitamente si scosse, non credendo che quella fosse rotella; Leonardo lo tenne, dicendo: “Questa opera serve per quel che ella è fatta: pigliatela dunque e portatela…“. Appresso vendè a ser Piero quella di Leonardo secretamente in Fiorenza a certi mercatanti cento ducati, e in breve ella pervenne a le mani di Francesco duca di Milano, vendutagli CCC ducati da‘ detti mercatanti. Fece poi Leonardo una Nostra Donna in un quadro, e fra le altre cose che v’erano fatte, contrafece una caraffa piena d’acqua con alcuni fiori dentro, dove, oltra la meraviglia della vivezza, aveva imitato la rugiada dell’acqua sopra, si che ella pareva più viva che la vivezza. Ad Antonio Segni, suo amicissimo, fece in su un foglio un Nettuno, condotto così di disegno con tanta diligenzia che è pareva del tutto vivo. Vennegli poi fantasia di dipingere in un quadro a olio una testa d’una Medusa, con una acconciatura in capo con uno agrupamento di serpe, la più strana e stravagante invenzione che si possa immaginare mai. Avendo desiderio di dare sommo rilievo alle cose che egli faceva, andava tanto con l’ombre scure a trovare i fondi de‘ più scuri, che cercava neri che ombrassino e fussino più scuri degl’altri neri; ma tutto era per cercare di dare maggiore rilievo, di trovare il fine e la perfezione dell’arte. Di questa sorte se ne vede molte teste e di femmine e di maschi , e n’ho io disegnato parecchie di sua mano con la penna nel nostro libro de‘ disegni tante volte citato, come fu quella di Amerigo Vespucci , ch’è una testa di vecchio bellissima, disegnata di carbone, e parimenti quella di Scaramuccia capitano de‘ Zingani, che poi messer Donato Valdanbrini d’Arezzo canonico di S. Lorenzo, lasciatagli dal Giambullari.
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