Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

LETTERATURA FRANCESE 1, Appunti di Letteratura Francese

Appunti del corso di letteratura francese 1 anno accademico 2021/2022.

Tipologia: Appunti

2021/2022
In offerta
30 Punti
Discount

Offerta a tempo limitato


Caricato il 09/06/2022

Louohouo
Louohouo 🇮🇹

4.6

(10)

2 documenti

1 / 89

Toggle sidebar
Discount

In offerta

Spesso scaricati insieme


Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica LETTERATURA FRANCESE 1 e più Appunti in PDF di Letteratura Francese solo su Docsity! LETTERATURA FRANCESE 1 4 marzo 2022 Interazioni in Europa. Nel ‘500 esisteva una grande circolazione di idee e di persone e si caratterizza per il fatto che gli intellettuali creano reti in cui parlavano diverse lingue e alimentavano dibattiti, polemiche, scambi volti a confrontarsi su argomenti di attualità. Il veicolo principale era l’incontro tra persone, ma anche le lettere in quanto non tutti si potevano permettere i viaggi in carrozza in tutta Europa. Molto spesso si scrivevano in latino. La cultura francese è esposta a più stimoli e catalizza una serie di idee culturali. Nel ‘500 la Francia è un territorio plurilingue, coabitano diverse lingue dotate di legittimità diversa, ovvero prestigio culturale, importanza ed estensione. Le lingue sono:  il latino a inizio secolo, che veniva quindi utilizzato per gli scambi epistolari e considerata una lingua internazionale legata a certi ambienti particolari, colti e religiosi, veniva utilizzata per la trattatistica;  il francese moderno che segue un percorso già in atto nel medioevo e che ha visto l’affermarsi del volgare parlata nel nord della Francia, la lingua d’oïl, prima una lingua orale e man mano come lingua scritta. Abbiamo il bilinguismo e la diglossia:  il bilinguismo è la coesistenza di due sistemi linguistici collocati allo stesso livello gerarchico;  la diglossia invece vede un posizionamento di tipo gerarchico, una lingua che prevale sull’altra. Come si stabilisce qual è la vincente e qual è la perdente? Parliamo di un rapporto instabile e sicuramente scegliere tra latino e francese dipende sia da cosa si stava andando a scrivere e dal pubblico selezionato. Quindi latino per i trattati e volgare per la narrativa. La poesia in particolare svolge un ruolo importante, in quanto non si parlava molto di poesia con il francese moderno. C’erano casi in cui si passasse da una lingua a un’altra per esigenza di divulgazione. Esistono altre varietà meno colte e più radicate, come “les dialectes” che cominciano a sparire in seguito all’affermazione della lingua ufficiale nazionale, quindi questi dialetti lasciano delle tracce all’interno di parlate che hanno una dimensione locale. Quindi i dialetti coesistevano con la langue d’oil e che avevano una certa vitalità, con il passare del tempo si estinguono lasciando dei termini dialettali in base a come si sono sparsi nel posto. L’occitano deriva dal volgare parlato nella Francia del sud, la langue d’oc. È un dialetto che ha resistito all’avanzare del francese moderno. A un certo punto regredisce, riduce la sua estensione limitandosi alle aree urbane, quindi a dei centri per effetto dell’umanesimo. Oltre ai dialectes ci sono “les patois”, che occupano un livello gerarchicamente inferiore anche rispetto ai dialetti. Sono parlate locali di estensione ancora più ridotta che spesso non superano le dimensioni di un villaggio, zone rurali o isolate, dove i contatti con altre realtà linguistiche sono ridotti, ma possiedono competenze sufficienti con il francese moderno man mano che esso si impone come lingua nazionale. Quali sono le condizioni che hanno contribuito alchè il francese moderno si affermasse?  La stampa, fattore tecnico  La riforma protestante, storico-culturale 1  L’umanesimo, storico-culturale Contesto storico prima metà del ‘500 Le guerre d’Italia implicano la Francia tra il 1494 e il 1559. Vengono intraprese da Carlo VIII di Francia nel 1494, due anni dopo la scoperta dell’America e due anni dopo la fine della Reconquista spagnola. Iniziate da Carlo VIII, proseguono con Luigi XII, Francesco I il quale dà continuità al conflitto che oltrepassa il rapporto Italia-Francia, perché con Carlo V questa guerra assume il peso di un conflitto europeo che si protrae nel tempo fino al 1559, quando abbiamo Enrico II sul trono di Francia. Nel 1495 Carlo VIII prende Napoli, che però perde successivamente, quindi una prima mira espansionistica verso il sud dell’Italia. Luigi XII, suo cugino, tenta di conquistare Milano e ci riesce vincendo a Novara. Francesco I, che continua le attività belliche, riapre i conflitti cercando di conquistare nuovamente Milano nel 1515 e qui inizia un periodo di intensa attività militare tra Francia e Italia e Carlo V d’Italia interviene per contrastare Francesco I, al punto tale da generare quattro guerre tra i due sovrani, guerre che Francesco I passa al figlio Enrico II, che con il trattato di Cateau-Cambrésis (1559) pone fine alle guerre. Questo genere di contatto con l’Italia rappresenta uno choc culturale: Jules Michelet con la sua storia di Francia parla di “Découverte de l’Italie”, sostiene che ancor più del nuovo mondo nel ‘500 ciò che provoca lo choc è la scoperta dell’Italia, perché la durata di questi conflitti ha reso possibile la scoperta della civiltà e della cultura italiana. La Francia conosce un mondo più raffinato, diverso dal proprio, e vedremo anche il ruolo dell’Italia nel Mediterraneo, l’Italia fa da tramite per tante altre culture del Mediterraneo. Si innesta poi la riforma protestante, evento di ampiezza europea destinato a mettere in discussione delle certezze secolari. Nel 1450 abbiamo la stampa a caratteri mobili che modifica le abitudini delle persone in campo intellettuale, modifica il modo in cui si legge, si scrive e si condividono i saperi. Nel 1517 Lutero affigge alla porta del castello di Wittenberg le sue 95 tesi. Inizialmente la sua opposizione è volta al potere temporale della chiesa ma pian piano anche alla sua dottrina. Contemporaneamente a Lutero in Svizzera c’è Zwingli, un teologo che muove le fila di un movimento antipapale e anticlericale. Una figura ancora più importante di Lutero è Calvino, perché Zwingli a un certo punto muore e c’è poi questo leader carismatico di una trasformazione riformista della chiesa in Svizzera. Fonda una cittadella su una visione teocratica. L’autorità civile deve essere subordinata a quella religiosa, secondo Calvino. Porta avanti il concetto di doppia predestinazione, grazia concessa o negata. Dalla metà degli anni ’40 del ‘500 con l’inquisizione, i gesuiti e i concili vaticani parte la controriforma, ma ci riguarda che la riforma protestante contribuisce a una rimessa in discussione di certi dogmi. Con la riforma protestante il sovrano Francesco I ha un atteggiamento ambivalente, espressione della complessità di questo periodo, quindi inizialmente è aperto all’idea della riforma, tollerante ma in parte cerca di reprimere e controllare questo fenomeno. Egli è influenzato dalla sorella, Marguerite d’Angouleme, evangelista, che auspica a una riforma interna alla chiesa con un ritorno ai testi sacri, espressione dello spirito umanista. Nel 1530 Francesco I fonda un’istituzione che esiste ancora oggi, “Le Collège de France”, che nasce dalla volontà di Francesco I di fondare un “Collège Royal”, istituzione che vuole essere parallela e 2 scrivono poi in latino, occitano e anche in italiano, il quale rappresenta un modello di primo piano. C’è un momento in cui all’interno di questo plurilinguismo il francese viene considerato lingua prioritaria, prevalente rispetto alle altre. Per questo riconoscimento dobbiamo aspettare “L’Ordinanza di Villers- Cotterêts” nel 1539 voluta da Francesco I: quest’ordinanza riguarda la giurisdizione ecclesiastica e avviene un passaggio molto importante, in quanto il latino viene spodestato dal primato che possedeva dal momento che si trattava di una lingua giuridica. “È il francese d’ora in poi a dover essere utilizzato in campo giuridico e amministrativo”, quindi riceve una legittimità dall’alto, di tipo politico, che di fatto la riconosce come lingua nazionale. Questo documento dà il via a quel processo di unificazione linguistica che, un secolo dopo, Richelieu metterà come priorità per creare uno Stato nazionale. Sin dall’inizio del ‘500 la formazione era organizzata e svolta in latino, la formazione di gruppo veniva assicurata dalle scuole parrocchiali, le scuole dei monasteri e chi aveva la possibilità pagava un precettore privato. Terminata quest’educazione di “livello inferiore” si passava all’università, un sistema ben poco strutturato e anche un po’ affidato all’auto organizzazione. Se pensiamo che chiamare dei precettori privati significava affidare l’educazione di un proprio figlio all’impostazione che il precettore aveva scelto per lui, l’educazione all’università non prevedeva degli standard univoci. Montaigne affiderà tutto il suo discorso all’educazione e alla figura del precettore: se si sbaglia a scegliere il precettore si è persi in quanto è una figura assolutamente determinante. All’inizio del secolo non c’era molta libertà di insegnamento poiché l’educazione era nelle mani della Chiesa, dunque si eredita una strutturazione di tipo medievale. Ci sono in realtà “tre facoltà superiori” considerate quelle più importanti, ovvero quella di teologia, di diritto e di medicina, e spesso si passava anche da una all’altra. C’era poi una cosiddetta “facoltà minore” considerata meno prestigiosa e lasciata ai margini: la Faculté des arts dove si insegnano le arti liberali, organizzata un po’ secondo il sistema del “trivium” antico latino, quindi grammatica latina, retorica e dialettica. L’educazione è ragionamento. Pian piano, spinte dalla diffusione data dagli Umanisti, le “Lettres Huaìmaines” si fecero largo all’interno dei corsi della Faculté des arts. All’epoca non c’era una specializzazione dei campi disciplinari, non c’era la distinzione, ad esempio, tra letteratura e filosofia. A questo punto i Collèges si trovavano in posizione intermedia fra quella di formazione primaria, ossia fino a quando non si era pronti per l’università, e la secondaria, l’università (gerarchicamente è un po’ inferiore, in realtà però rappresenta un’alternativa). In effetti, essi mettevano ordine all’interno di questo ventaglio di Lettres Huaìmaines e stabilivano una gerarchia tra i saperi: le “lettres” prima di filosofia, la filosofia prima della teologia. I Collèges, per sfidare il primato del latino, instituirono degli insegnamenti innovativi per l’epoca, affiancarono lo studio del greco e dell’arabo. In realtà però, oltre all’introduzione della stampa e alle Guerre d’Italia c’è un altro avvenimento storico importante che coinvolge nuovamente l’Italia, ossia La presa di Costantinopoli, la caduta dell’Impero Romano d’Oriente nel 1453. Costantinopoli viene presa dai Turchi ottomani e ciò decreta la fine dell’ultimo baluardo della civiltà antica così come comunemente noi la intendiamo. Il sapere veniva trasmesso in greco e quando arrivano gli Arabi si impossessano della città, impongono la loro cultura e si verifica un vero e proprio esodo di intellettuali e di semplici 5 rifugiati che si dirigono verso le altre terre del Mediterraneo, come l’Italia: tutti questi profughi portano con sé dei manoscritti e quindi scappano con l’intento di salvaguardare un patrimonio che altrimenti sarebbe andato distrutto. Capiamo anche come l’Umanesimo nasca prima in Italia, dove c’è un contatto precedente con questi testi in arabo, in greco e in ebraico: non a caso le novità introdotte all’interno del Collège Royal. Ciò rappresenta una scoperta importante: molto spesso c’erano dei testi che non erano mai stati letti oppure delle versioni di testi ricopiati completamente diversi da quelli che erano arrivati in Europa tramandati di copista in copista. Si avverte la necessità di poter leggere questi testi, si apre un mondo e c’è un ritorno anche all’interesse per la filosofia greca, per la retorica, per tutto un bagaglio di discipline che fanno parte dell’antico, in questo caso considerato molto più vivo. In questo contesto si rimette in discussione tutto, a partire dal concetto di uomo: “Chi sono io in quanto uomo? Come devo collocarmi all’interno dello spazio in cui vivo?” Questa rimessa in discussione è però alimentata anche da un altro fattore: nel 1492 c’è la scoperta dell’America, già prima i viaggiatori navigatori intraprendevano viaggi, si rivolgevano verso le Indie Orientali e hanno trovato le Indie Occidentali. Hanno sempre cercato di esplorare l’Africa e la scoperta dell’America rappresenta tutte le scoperte geografiche che tra ‘400 e ’500 hanno rivoluzionato la percezione del mondo, da un punto di vista fisico. L’uomo comincia a capire che esistono altri mondi rispetto a quello di appartenenza e, anche se inizialmente c’è un tentativo di esercitare una qualche supremazia culturale, alla fine non è sempre così. Ad ogni modo capiamo di non essere gli unici e dobbiamo inevitabilmente confrontarci con il diverso. Se pensiamo all’Umanesimo e al Rinascimento dobbiamo sicuramente precisare che le persone nel ‘500 erano consapevoli di vivere nel Rinascimento, di essere entrati in un’epoca di rinascita culturale, ma non sapevo di essere anche nell’Umanesimo in quanto il termine è stato coniato successivamente. Si parlava quindi di Umanisti ma non si parlava ancora di Umanesimo. Il termine Rinascimento lo dobbiamo a un artista sui generis noto soprattutto per aver inventato la storia dell’arte, Giorgio Vasari: “Vita de’ più eccellenti architetti e scultori italiani”, 1550. Biografie di artisti molto interessanti poiché oltre ad un’aneddotica sconfinata, riflettono sul modo in cui questi personaggi intendono l’arte. C’è un periodo di concettualizzazione, egli ha sentito che circolava il termine Rinascimento e l’ha fissato: parla di rinascita delle arti prendendo in prestito termini latini come renovatio, restoratio, reformatio. Sull’onda di questa percezione si parla di renovatio studii, con questo rinnovamento degli studi pone fine a un’epoca considerata di barbarie, anche l’atteggiamento sprezzante nei confronti del Medioevo comincia ad emergere in questo periodo, in cui si recupera il contatto con l’antichità scavalcando quasi un’epoca considerata come di abbruttimento, di regresso e quindi dopo un periodo di barbarie per mano di popolazioni del nord non ben identificate, si parla di un ritorno al sapere, alla conoscenza. Ciò si può ottenere attraverso una riscoperta della lingua, della filosofia, delle arti greche, latine, nella loro forma autentica. C’è la possibilità di accedere a questi testi che vengono considerati la chiave d’accesso per un’evoluzione non soltanto individuale, ma vi è di fatto l’emancipazione della collettività. In Germania nel 1808, grazie al tedesco Niethammer, si diffonde il termine “Umanesimo” che viene dall’opera “Humanismus”. Uno storico 6 della letteratura, Daniel Ménager, darà poi una definizione dell’Umanesimo. Nuovo interesse per l’uomo è il primo elemento: un desiderio di autonomia, di auto determinazione, un nuovo sentimento di personalità individuale, una cultura più laica svincolata dai saperi teologici e dalle prospettive indicate precedentemente dalla Chiesa. Ciò che si vuole privilegiare è l’apertura alla ricerca dell’autenticità delle informazioni, quindi un ritorno alla cultura greca. Il termine “Umanista” si utilizzava già dal ‘300 in Italia e poi passa in Francia. Inizialmente nel ‘300 l’umanista è il filologo, il quale sicuramente ha delle competenze molto approfondite da un punto di vista linguistico: è capace di comprendere e analizzare i testi letterari in maniera critica perché l’obiettivo è quello di avvicinarsi il più possibile alla loro autenticità. La filologia è una scienza che studia testi di varia natura, da quelli più antichi a quelli contemporanei al fine di riportarli alla loro forma originaria, ossia la forma più compiuta voluta dall’autore. Modello operativo per tutti i filologi in Italia è Lorenzo Valla. Egli produce un’edizione del Nuovo Testamento, nel 1505 redige questa edizione confrontandola con gli originali greci. In generale si parla perlopiù di testi sacri che fanno parte de’ “Les Saintes Lettres” mentre tutto ciò che non rientra nell’ambito sacro si raggruppa ne’ “Les Lettres Humaines”. Nello specifico c’è anche la figura di Erasmo da Rotterdam, il quale confronta i manoscritti greci e latini. Egli ha avuto una formazione classica molto rigorosa e viene inizialmente ordinato sacerdote ed ha la possibilità di studiare il greco e il latino, ma poi abbandona questa strada. È un viaggiatore europeo, ha rapporti con intellettuali dell’epoca con i quali intraprende una corrispondenza fittissima, come ad esempio Rabelais. Erasmo da Rotterdam è l’autore dell’Elogio della follia che ribalta quello che è l’ordine gerarchico e tutte le certezze del tempo. Consente di accusare la teologia, l’impostazione metodologica della scolastica medievale e contribuisce a proporre una nuova visione umanistica, religiosa. egli si rende conto che in realtà non si tratta di due culture antagoniste, vorrebbe proporre una nuova visione e lo fa attraverso lo studio dei testi. FRANÇOIS RABELAIS Rappresenta il primo grande autore dell’umanesimo ma fa anche da ponte tra Medioevo e ‘500. Raccoglie un’eredità di tipo popolare, comico, satirico e la trasforma inserendola in una realtà mutevole, instabile ma anche dinamica. Nasce a Chinon, al Centro-Ovest della Francia e le sue origini appartengono a un contesto provinciale. Il padre è avvocato, proprietario terriero e Rabelais attraverso di lui potrà familiarizzare con il mondo della legge ed il lessico relativo a questo ambito. Tutto ciò che egli vive lo inserisce nelle sue opere. In gioventù entra a far parte dell’ordine francescano e poi passa ai benedettini. Ciò gli consente di studiare non solo il latino ma anche il greco e di effettuare degli scambi epistolari con altri intellettuali. Comincia a dedicarsi alla traduzione, in particolare ad una versione in latino di un’opera di Erodoto. Egli in realtà cambia ordine religioso poiché era stato segnalato in quanto considerato scomodo dalla Sorbonne per via di questa sua passione e interesse per le lingue antiche. Si mette sotto la protezione di un vescovo, Geoffrey d’Estissac. A caratterizzare lo spirito dell’autore c’è una satira sugli ordini religiosi che egli esprime proprio perché è a conoscenza di quegli ambienti, li ha sperimentati tutti. Segue allora questo vescovo e lo accompagna nelle varie visite pastorali che compie nelle campagne. Viene a contatto con la cultura popolare, conosce modi di parlare di un villaggio piuttosto di un altro. Una realtà molto varia non solo per i livelli sociali, ma si rende conto di quanto anche geograficamente i territori siano diversi. A questo punto inizia a riflettere, diventa prete secolare, abbandona i voti e da questo momento in poi le notizie sulla 7 Parliamo del 1940. Negli anni ‘60, dopo la fine della dittatura, viene pubblicata è tradotta quest’opera perché la prospettiva di Bachtin su Rabelais cambia molto la visione di questo autore. “L’opera di Rabelais e la cultura popolare” è il titolo dell’opera. La visione della vita e dell’uomo di Rabelais vengono definiti come “realismo grottesco”. Il grottesco ha caratteristiche sviluppate in arte e in letteratura. Si fonda su un gioco gioioso che esprime la fantasia dell’autore in cui si combinano forme umane, animali e vegetali in una dimensione che sospende le regole della prospettiva e dei rapporti tradizionali di causa-effetto. È stata considerata come una rottura triviale, che rompe le regole e frattura la rappresentazione. Una visione brutale che esprime un’idea forte della vita che provoca una perdita del reale. Per questo motivo è sempre stata considerata negativa. Rabelais integra il grottesco nella sua visione della vita perché pensa che la vita sia un qualcosa di instabile, la morte prepara la vita, come nel caso di Pantagruel. Bisognerà aspettare il 18esimo secolo per avere un interesse nei confronti del grottesco, che arriva a Rabelais, il quale recupera un certo tipo di letteratura antica e fa da ponte tra questa e tra la cultura medievale. Gli studiosi parlano di letteratura antica e classica come se fossero sinonimi, ma non lo sono. La letteratura antica è un’etichetta vasta che rinvia alla letteratura greca, latina nella maggior parte dei casi. Quella classica fa parte della letteratura greca antica. Quando si parlerà di classicismo si vedrà che gli autori si ispireranno soprattutto ad autori greci di un’epoca precisa. 480 rinvia alla seconda guerra persiana, 323 morte di Alessandro Magno. Grande stagione di guerre che corrisponde a una grande stagione letteraria. Grande epoca della tragedia. Eschilo, Sofocle, Euripide. Della letteratura medievale preferisce quella popolare e questa cultura carnevalesca. Qual è la funzione del carnevale? Aveva un’importanza ormai sparita, perché in quell’epoca tutto era gerarchizzato e ognuno aveva il suo posto. Il carnevale era il momento in cui questa divisione sociale e queste barriere venivano messe in discussioni, perché chiunque con il travestimento poteva diventare qualcos’altro, cosa che con le gerarchie non poteva esserci. Grande momento di libertà e uguaglianza. Con questa sospensione delle regole si rifletteva molto sul ruolo di ogni persona. Questo realismo grottesco rappresenta tutto ciò che era normalmente escluso, il realismo voleva integrarlo e si oppone all’idealismo. Per Rabelais è fondamentale la rappresentazione dei corpi che si manifesta con le sue sporgenze. Specifica anche che i suoi personaggi vanno in bagno, cosa ovvia e fisiologica ma che spesso non viene detta nelle opere. Lui lo dice. Questa rappresentazione del corpo grottesco ha ciò che Bachtin definisce il basso corporeo: i genitali, le natiche, i piedi e quelle cose triviali. La funzione del basso corporeo è esprimere qualcosa che si “nasconde”, che va verso la terra ma che ci prepara all’inizio di qualcosa. Per certi aspetti rappresenta in pieno l’umanesimo, come la visione dell’uomo in espansione e il ricorso all’arte classica, ma allo stesso tempo esprime un realismo e una visione della vita attraverso il grottesco che recupera una tradizione antica non classica o convenzionale, e recupera anche la cultura popolare medievale. 15 marzo 2022 Le grotesque è un registro, un codice espressivo, e si serve degli stessi codici compositivi delle rappresentazioni grottesche. Rabelais è uno dei primi ad appropriarsene dal punto di vista letterario. Secondo Rabelais c’è una conciliazione tra spirito erudito umanista e sensibilità cristiana. È come se ci fossero un’etica intellettuale e una morale cristiana nella persona Rabelais. 10 18 marzo 2022 L’ultima volta abbiamo parlato del tema dell’educazione, presente nella lettera di Gargantua a Pantagruel, soffermiamoci adesso su un altro tema ricorrente nelle opere di Rabelais, ovvero la guerra. La guerra è uno dei temi che si possono riscontrare in alcuni capitoli di Gargantua. Le guerre e i contrasti con altre potenze sono sempre all’ordine del giorno. Per gli uomini del 500 la guerra è una dura realtà quotidiana. Si pensi che prima di questo periodo ci fu la famosa guerra dei cento anni, in cui si distinse Giovanna d’arco. La guerra è perciò sempre attuale ma ovviamente era una cosa non accettata dalla gente. Gli scrittori cercano di riportare questi periodi orribili in modo da far sì che cose del genere possano non succedere più. Gli scrittori, dunque, ci mostrano con le loro opere la crudeltà dei vari periodi. Tra le varie guerre oggi parleremo della guerra picrocholine che mette insieme un affresco sulla realtà storica. Abbiamo un uso del grottesco che è volto a mettere in risalto le contraddizioni, le criticità della politica contemporanea e quindi questo ci aiuta ancora una volta a capire il pensiero dell’autore, all’ interno del quale abbiamo un attenzione per una morale religiosa . Dunque, le idee di Rabelais in politica sono imbevute di spirito religioso. Il motivo della guerra e la storia I capitoli di cui parleremo sono dal 25 al 28. Avviene una guerra, scatenata per un motivo banale, il motivo sono delle focacce (fougasses). I venditori di focacce di un piccolo paesino che appartengono al regno di picrochole(combinazione di due termini greci, pykros scontroso e kolon , vile )che è un sovrano non mite, è una persona scontrosa. Questi venditori passano per i vigneti del paese di Gargantua che all’epoca era governato dal padre Grandgousier, i contadini di Gargantua allora si rivolgono questi venditori per avere delle focacce e loro rifiutano. Succede allora che cominciano a litigare, a partire da questa discussione parte un litigio esagerato in cui si ricoprono di insulti a vicenda, scatenando tutta la creatività di Rabelais nelle offese e nelle ingiurie. I commercianti poi se ne vanno e si recano dal sovrano lamentando la situazione. Allora il vile scontroso (pichrocole) reagisce scatenando la sua ira contro il regno di Grandgousier e scatena la sua ira scagliando sulla popolazione una furia distruttrice. Rabelais dice “saccheggiando tutto sans ordre et mesure”. Quindi vengono travolte le vigne (il bere era molto importante per grangousier dunque è grave), questa furia che non risparmia nessuno colpisce anche i monaci. Quando viene attaccata in particolare una abbazia troviamo l’intervento di un uomo, un monaco, frère jean des Entommeures . Egli si rivela un monaco guerriero, dunque, da un’immagine diversa da quella che ci si potrebbe attendere da una persona religiosa. Anche il nome porta con sé un messaggio importante Entommeures viene da una parola ‘’entamure’ colui che butta le mani, parola che è caduta in disuso. Lo scopriamo perché all’improvviso lui ne dà di santa ragione ai nemici, è importante perché le sue gesta diventano una parodia e una satira della chiesa. Il modo in cui Rabelais racconta le sue gesta sembra una parodia dell’epica cavalleresca, dunque il cavaliere senza macchia e senza paura che combatte contro gli infedeli. Ma frère jeans si muove come se fosse un cavaliere ma in maniera comica e esagerata, soprattutto considerando che non è un cavaliere.Parliamo anche di parodia poiché è uno dei codici del comico, insieme al grottesco. Una parodia prende ispirazione da alcuni modelli iniziali aggiungendo dei motivi comici, se io non riconosco i modello iniziale la parodia non funziona. Rabelais si serve del poema epico cavalleresco per fare una parodia della religione. Rabelais non ripudia la guerra in todo ma sicuramente il personaggio del frate mostra una religiosità che ha dei lati nascosti. Abbiamo in campo linguistico un’esagerazione di termini violenti, molte accumulazioni e iperboli. C’è una concentrazione di 11 procedimenti che mirano a dare enfasi a questa satira. Lui riesce a tenere testa ai nemici, un pastore va da grandgousier a raccontare cosa è successo e gli spiega perché e iniziata tutta questa guerra a causa di un uomo troppo irascibile e di fronte a un avversario bellicoso, accecato dalla rabbia grandgousier rappresenta le caratteristiche del sovrano ideale. Di base grandgousier è un re pacifico, accetta la guerra a condizione che sia una guerra di difesa. Per lui la guerra è una realtà e va quindi gestita. Rabelais dice che la guerra è una prova che dio dà agli uomini per portarli sulla retta vita. E qui c’è l’importanza del libero arbitrio, della scelta. Rabelais ci invita a riflettere sull’importanza di misurare le proprie forze, usa esagerazioni per dirci che dobbiamo calibrare le nostre forze e saperle direzionare. La fine della guerra grazie all’intervento di Gargantua: Grandgousier propone ai nemici un risarcimento per risolvere la questione in maniera amichevole ma succede che il tentativo di fare pace viene interpretato male da picrocol che lo confonde con un atteggiamento di debolezza e quindi persevera nell’offensiva. Però arriva Gargantua che nel frattempo studiava a Parigi, si mette a capo della difesa e finalmente può attuare una vittoria schiacciante su picrocol. Quindi il conflitto si chiude con delle parole di Grandgousier che vogliono lanciare un messaggio, esprimere una morale. Egli dice “questo modo di comportarsi che riprende usanze vecchie è contraria alla professione di fede del vangelo” e poi si rivolge alle persone che ruotano intorno al potere, riflette sul potere e dice “non date consigli al re volendo un profitto in cambio perché se viene meno il bene comune viene meno anche il vostro bene “. L’etica per Rabelais Queste affermazioni ci consentono di passare a un altro argomento concatenato a questo, ovvero L’ETICA. Differenza etica e morale, l’etica è individuale, la morale è collettiva. Allora la questione dell’etica è presente in tutta l’opera. C’è però un riferimento particolare che la ingloba ovvero l’episodio dell’abbazia di Theleme che ci consente di vedere in che modo l’etica di Rabelais converge con l’etica rinascimentale. Alla fine della guerra picrocolin che ha causato ingenti danni frère jean esprime la volontà di far costruire una abbazia, la struttura che viene costruita è meravigliosa, viene costruita sulle sponde della Loira e viene chiamata THELEME (DAL GRECO, volontà libera). Questa abbazia è importante perché è retta da regole proprie e diverse rispetto all’organizzazione solita degli ordii religiosi. È organizzata secondo i principi dell’etica rinascimentale. L’episodio dell’abbazia di Theleme È un’abbazia mista, erano ammessi giovani donne dai 10 ai 15 anni, giovani uomini dai 12 ai 18 anni. L’organizzazione è espressione di una concezione diversa della spiritualità (in ogni stanza c’è una cappella privata mentre solitamente nelle abbazie ci sono luoghi in comune per poter condividere la pratica). La cosa più bella è che nell’abbazia di theleme non ci sono regole, forse ce ne sta una ed è “fai quello che vuoi—faictz ce que vouldras”. Questa regola si fonda sul libero arbitro, l’unica legge che regola l’agire umano è il libero arbitro e questo è importante perché è un riferimento che cambia la visione del mondo. La vita è un momento di azione, di impegno, da questo punto di vista c’è una ripresa di un concetto della filosofia greca ed è quello dell’eudaemonia. Il concetto greco di Eudaemonia Eudaemonia che è composta da eu che vuol dire bene e da imonia che vuol dire demone, nel senso di spirito guida del nostro agire. Questa eudemonia prevede la felicità come il vero fine dell’esistenza umana, noi viviamo per raggiungere la felicità, ma ciò non significa che 12 istitutio oratoria dove delinea la figura dell’oratore. Du bellay cita Quintiliano perché dà importanza all’orazione e all’oratore. Di cosa parla Quintiliano nella sua opera? Quintiliano divide la formazione dell’oratore in 5 componenti, il 1 è l’inventio, il 2 è la dispotizio, il terzo è l’elocutio, il 4 la memoria e il 5 l’actio. Per inventio si intende la scelta dell’argomento, la disposizio si occupa invece della struttura dell’organizzazione. l’ELOCUZIO è la scelta dello stile da adottare. La memoria invece è la parte che dà importanza alla memoria appunto, al dover ricordare il testo da pronunciare. L’actio invece fa riferimento alla pronuncia, l’intonazione, i gesti, dunque la componente prossemica. Du bellay si sofferma su due punti di questa formazione che secondo lui sono cruciali per rinnovare il procedimento della traduzione nel 500. Egli riflette sull’inventio e sull’elocutio. È importante per il traduttore conoscere la lingua di partenza e quella di destinazione. Du bellay dice che il pregio della scrittura sta nel lavoro che c’è manipolando la scrittura ordinaria utilizzando figure retoriche e ornamenti. Queste consentano al poeta di elevare la lingua. Du bellay per dice che è impossibile restituire completamente una cosa che viene detta in una lingua in un’altra. Lui dice che bisogna utilizzare un mutamento di prospettiva, guardare alla traduzione in maniera diversa. Lo scrittore più che traduttore deve diventare translateur. Il passaggio da traduttore a translateur comporta di abbandonare l’approccio del mot à mot in favore di un concetto di trasferimento o si può ricorrere a una perifrasi. Quindi più che alle parole singole bisogna dare importanza al sapere in generale, al concetto. Il 7 capitolo è intitolato “comment les romains ont enrichi leur langue», Du Bellay dice di guardare a come i romani hanno dato importanza alla lingua greca cercando di avere un approccio simile e si chiede come sia stato possibile per i romani che usavano la traduzione in maniera inferiore rispetto agli altri, ad arricchire la loro lingua imitando i migliori autori greci, Dunque alla traduzione subentra l’importanza dell’imitazione. Questo processo di imitazione è spiegato da Du bellay usando una metafora e dice che bisogna “divorare” i grandi autori “bisogna nutrirsi di loro” “digerirli”. Ciò di cui mi nutro diventa così il mio corpo. Secondo questo procedimento di appropriazione, applica questo stesso procedimento alla sua lingua. L’imitazione non è quindi un copia e incolla ma è una appropriazione personale di un modello, che può essere stilistico, etico , filosofico, teorico ecc. 21 marzo 2022 L’imitazione richiede la diligence e l’industrie, la prima è una disciplina dello studio come lavoro, sforzo e confronto, la seconda comprende la creatività e l’ingegno e ciò si concretizza in questo modo: l’imitazione è una specie di innesto tra due poeti e due storie personali diverse, bisogna divorare gli antichi, nutrirci, dobbiamo digerirli e capire esattamente il messaggio che vogliono trasmettere e lo spessore dei contenuti, e appropriarsi di questi cibi per intelletto e anima e che diventino parte di noi come nostro sangue. Gli antichi ci sono ma non si vedono. L’obiettivo è fare qualcosa di nuovo. La seconda parte del manifesto, della Pleiade, è relativa alle Illustrations : lo sviluppo della lingua passa in primo luogo attraverso il lessico, il francese è una pianta cresciuta selvaggiamente e possiamo ordinarla ampliando il dizionario, è possibile creare nuove immagini alle quali attribuire un valore simbolico (molto importante la poesia). Come si incrementa il lessico? Innanzitutto creando nuove parole cominciando da una base latina o greca. Parole che mantengono anche nella pronuncia un legame con l’etimologia: molte parole che 15 derivano dal greco mantengono la pronuncia, come quelli con ch, neologismo da prestito. Si può anche partire da lingue straniere, e qui l’italiano entra tanto a far parte. Oppure si può recuperare all’interno di un bagaglio di parole cadute in disuso un lessico obsoleto, quindi è possibile arricchire il lessico con degli arcaismi. Possiamo creare anche parole nuove partendo da parole esistenti e in uso. Si tratta sempre di neologismi, però si chiamano neologismi per derivazione. Un modo per fare tesoro del patrimonio linguistico del tempo, dice Du Bellay, è acquisire all’interno del volgare poetico dei termini dialettali. È possibile utilizzare le langues des spécialites, linguaggi settoriali, come termini legati alla botanica, alla meccanica, quindi utilizzare termini tecnici e settoriali. Questi punti che teorizza la Pleiade in realtà Rabelais li aveva già messi in pratica perché la sua idea di sapere enciclopedico si riversa nella lingua che ha utilizzato e ritroviamo tutti questi elementi che sono stati poi discussi dalla Pleiade: utilizzava termini settoriali, dialettalismi, ha anche formato dei neologismi. Quindi i poeti della Pleiade catalizzano un atteggiamento che già esisteva nella letteratura ma non era stato ancora teorizzato, legittimato, e trasferiscono questo approccio alla poesia. Rabelais era confinato al genere del romanzo, principalmente comico. I poeti della Pleiade intendono fare un salto di qualità inaugurando un dibattito che si inserisce in una questione che riguarda la poesia francese. La “Défense et illustration de la langue française” fa storcere il naso a molti poeti : i primi sono i professori di greco e latino che si vedono spodestati da un primato nella gerarchia accademica. Il testo di Du Bellay vuole contestare un testo di Sébillet che scrive “Art poétique francais”, al quale poi Du Bellay risponde con l’opera precedentemente nominata. Questo testo di Sébillet è stato considerato di riferimento da un filone poetico condiviso da autori eredi dei rhétoriqueurs, che difendono un’idea di poesia caratterizzata da giochi retorici, esercizi di stile molto raffinati, classicheggianti, che puntano più sulla forma che sul contenuto e questa loro tradizione continua con la Pleiade, un approccio che vede gli antichi come un modello superiore, la vera lingua di cultura è il latino. L’importanza del platonismo durante il Rinascimento Platone è oggetto di una riscoperta perché con la caduta di Costantinopoli arrivano una serie di manoscritti, sapienti, che portano con sé testi prima sconosciuti e tra questi arrivano dei dialoghi di Platone non conosciuti tradotti da Leonardo Bruni e Marsilio Ficino. Con il concilio di Ferrara e di Firenze viene creata una sorta di unione fra la chiesa greca e quella orientale. Petrarca è tra i primi a privilegiare Platone mettendolo in opposizione ad Aristotele, quindi si creano due fazioni opposte. Parlare di Aristotele significa parlare anche della scolastica, mentre Platone rappresentava uno spirito più aperto. La filosofia di Platone arriva nel ‘500 attraverso una rielaborazione, con il neoplatonismo che si rifà a Platone e nel ‘500 non si fa molta distinzione tra le due correnti. Si parla di un neoplatonismo cristianeggiante. Aristotele rappresenta quella filosofia della natura e quella ricerca razionale, mento trascendentale e più materialistica. Marsilio Ficino dice che l’uomo ha la funzione di mediare tra natura e dimensione superiore, l’uomo fa da ponte tra queste due sfere attraverso l’anima, infatti questa è la copula del mondo, ciò che unisce il mondo. La sua dottrina dell’anima prevede 5 gradi della realtà: corpo, anima, Dio (dal più sensibile al più sottile i più importanti). L’anima funge da mediatore tra materia e spirito, e la svolge attraverso l’amore, sentimento che fa in modo che si possa tendere verso Dio. 16 L’IDÉE – DU BELLAY Poesia mitigata dal rinnovo neoplatonico che arriva in Francia dall’Italia. Si tratta di un sonetto, due quartine e due terzine, una novità che colloca l’autore nel solco delle più recenti tendenze poetiche. I versi sono decasillabi e in questo periodo si diffonde l’alessandrino, di dodici piedi, che vuole essere una reinterpretazione dell’endecasillabo italiano. Lo schema metrico è due quartine ABBA, lo schema delle terzine è CCD EED Analisi del testo “Se la nostra vita dura meno di un giorno nell’eternità, se l’anno che fa il giro caccia via i nostri giorni senza speranza di ritorno, se peritura è ogni cosa nata, a cosa pensi, anima mia imprigionata? Perché sei attratta dal buio del nostro giorno, se ,per volare in un più chiaro luogo, hai sulla schiena l’ala ben impennata? Lì risiede il bene che ogni spirito desidera, là il riposo al quale tutti aspirano, là risiede l’amore, là ancora il piacere Là, oh anima mia, guidata verso il cielo più altro, lì potrai riconoscere l’idea della bellezza che adoro a questo mondo” Il tempo dell’esistenza umana viene confrontato con un’altra dimensione del tempo, confronto che si nota dall’enjambements che troviamo tra secondo e terzo verso della prima quartina. La nostra esistenza è limitata rispetto all’eternità. Questa ipotetica che apre e chiude la prima quartina dà al testo l’andamento di un testo argomentativo: partendo da questa premessa, allora… con questa prima strofa partiamo dalla constatazione che esiste una dimensione del tempo limitata, peritura e irreversibile, la seconda dimensione invece è dell’eterno dove tutto è sempre stato e sempre sarà. Nella seconda quartina abbiamo il destinatario della poesia, ovvero la sua anima che viene rappresentata imprigionata. L’anima non ha un atteggiamento univoco, perché esprime l’eterno ma vive in un mondo che eterno non è, mantiene questa ambivalenza con l’ossimoro “l’obscur de notre jour” che porta con sé la consapevolezza della fine che ci accompagna. L’anima è attratta dall’esistenza mortale, ma se è vero che esiste su questa terra vuol dire che porta in sé una traccia di infinito e cerca un ricongiungimento, “hai l’anima provvista di penne”, puoi spiccare il volo, dentro di te hai il potenziale per volare. La tendenza all’elevazione pur mantenendo la doppia natura mortale e spirituale. Il titolo, “L’idée”, è importante: nella filosofia platonica, nella dimensione dell’iperuranio risiedono le idee verso le quali tutto ciò che esiste sulla terra non è altro che una riproduzione imperfetta. Quindi noi siamo un qualcosa di imperfetto e illimitato che dipende dal posto eterno, quindi tendiamo verso la dimensione eterna. Nelle terzine si parla di questo “mondo delle idee”, in cui c’è il bene, il riposo, l’amore e il piacere. Il cielo più alto, iperuranio, e con un altro enjambement vediamo l’idea della bellezza eterna, obiettivo della poesia ma anche di un’esistenza vissuta nell’amore. “Reconnaître” significa identificare e ritrovare un qualcosa da cui provengo, verso il quale non sono altro che una riproduzione imperfetta. Cerco di somigliare a te ma non posso ricongiungermi perché sono imperfetto, quindi tenderò a te fino a quando sarò in questa dimensione. La poesia come momento di dialogo con la propria anima è uno strumento di elevazione spirituale, la bellezza può arrivare ad avvicinarsi all’eterno. 17 - Abbiamo un sonetto composto da versi con 12 sillabe, ABBA ABBA CCD EED formano prima un distico e poi si uniscono nell’ultima quartina. Nella prima, ci sono due enjambement. Nelle due quartine Du Bellay utilizza l’imperfetto e nelle terzine il presente per contrapporre il periodo dove parla di Roma ed esprimere le sensazioni. Du Bellay scrive le Regrets dopo Roma dal 53-57, Nella prima strofa cita Ulisse, come figura emblematica per il viaggio perché vive il suo periodo di permanenza a Roma come una sorta di sentimento di esilio che lui prova come Ulisse. “cheminée” fa riferimento alla seconda strofa, rimarcando il desiderio di ritornare a casa. La terra viene vista come accogliente e piena di calore “nourrice” dice di rallegrarsi di essersi liberato dal vizio, infatti si trova a Roma per un periodo di forte corruzione religiosa. Così come le sirene vogliono tenere a loro gli uomini, e la maga circe Ulisse, (antonomasia) la figura di circe viene generalizzata per rappresentare una categoria, come un’ammaliatrice che vuole toglierlo dalla retta via. È anche contento di aver portato al suo ritorno in Francia, l’onore di aver prestato un fedele servizio allo zio, cardinale. Tra quartine e terzine non c’è collegamento, era contento di non aver perso la rotta, ero fiero di aver portato a casa l’onore e la sua virtù. Con ‘’Las!’’ fa capire che si trova in Francia, e dice che sta peggio di prima. Ha proiettato paradossalmente a Roma il suo immaginario classicheggiante di perfezione artistica ma quando torna a casa si rende conto che la congiunzione con il focolare non era così gioiosa ed entusiasmante. Insiste su sentimenti negativi nell’ultima terzina, non vedeva l’ora di tornare a casa ma si rende conto di essere ancora legato a Roma. Dorat è il suo maestro, lo invoca perché c’è un sentimento di frustrazione che cerca di esprimere con i mezzi che ha: la poesia. Le parole possono ferire come frecce e lo stile può essere mirato ad un bersaglio. Tornando a casa fa riferimento ad Ulisse che tornando ad Itaca, si veste da mendicante e solo una donna Euriclea lo riconosce grazie ad una cicatrice. Rivela di essere se stesso solo in una competizione di tiro con l’arco dove molti pretendenti volevano Penelope. Du Bellay è un Ulisse disincantato che vorrebbe vendicarsi per l’esperienza romana e questo rientro sofferente. Vuole acquisire le doti del maestro per vendicarsi ancora di più attraverso le parole. Le nove sorelle sono le Muse, sono figlie di Zeus e racchiudono l’opera epica lirica e drammatica. 25 marzo 2022 Résumé di Du bellay attraverso i 2 testi analizzati Du bellay è stato importante ma in realtà si tende a dare più importanza a Ronsard quando si parla della pleiade. La letteratura del 500 come stiamo vedendo dialoga costantemente con le produzioni degli antichi. Abbiamo visto attraverso i due testi analizzati di Du bellay, che si richiamano tra loro, che l’antichità è una proiezione mentale, abbiamo un immaginario formato dal bagaglio culturale di partenza, l’idea che ci facciamo noi di qualcosa che non c’è più ma c’è anche un'altra componente essenziale, l’individualità. Du bellay legge i classici e si fa una sua idea personale, diversa da quella di Ronsard, rabelais e così voi. Dunque, l’opera è il prodotto della produzione, della scrittura ma anche della lettura. Du bellay attraverso i suoi testi ci mostra un aspetto un po’ critico del rapporto che gli umanisti hanno col passato, lui va a Roma per seguire suo zio. Una volta andato lì quel mondo immaginato in letteratura non c’è più. Oltre alla letteratura c’è un mondo altro, più concreto. Du 20 bellay parte da questi testi ricchi di riferimenti (Giasone, Ulisse) però questi testi fanno emergere questa dissonanza tra il passato immaginato e il presente vissuto . C’ è una nostalgia forte, come sentimento umano perché rappresenta un ritorno a quelle ardici che sono innanzitutto affettive e quindi ricostruisce delle proprie radici mettendo insieme il ricordo, la tensione verso un ritorno al contesto familiare e l’immagine degli antichi, visti come modelli. La realtà per du bellay non è mai come ce la immagiamo, lui torna in Francia e si rende conto che il quadro non era cosi roseo come lui se lo immaginava e quella letteratura antica che era l’origine della sua riflessione nel 1 testo continua a seguirlo, a dargli una direzione ce ne accorgiamo anche da riferimenti del 2 testo ed è come se lui tornasse a quelli che sono i suoi riferimenti individuali e li trova attraverso la scrittura, quindi si può parlare di un percorso a spirale dove il suo ritornare sulla letteratura non si presenta come un ritorno iniziale ma un ritorno con delle basi nuove che cerca di allontanare l’idealizzazione e la speranza. Tutto questo percorso che si delinea con questi due testi è decisivo. Con tutto questo percorso anche fatto attraverso i testi analizzati aiuta a rappresentare il compito di Du Bellay che ha svolto nella Defence et illustration de la Langue francaise e che quindi alla fine egli non è poi così tanto secondario Poèmes de Ronsard À Cassandre Mignonne, allons voir si la rose Qui ce matin avait déclose Sa robe de pourpre au soleil, A point perdu cette vesprée Les plis de sa robe pourprée, Et son teint au votre pareil. Utilizza una anafora (v.1 10) , Mignonne si riferisce a Cassandra con questo appellativo affettivo. L’uso degli imperativi esorta la donna a seguirlo per avere delle constatazioni (al verso 1 Allons, un’azione insieme, v16). Il poeta fa una personificazione della donna con la rosa, egli parte con l’immagine della rosa rappresentata dalla veste che ha un colore porpora e delle sue pieghe. La rosa è personificata attraverso un gioco linguistico (rose—robe slittamento paronomastico) che consente di passare semanticamente da un passaggio all’altro. Il colore che caratterizza la donna e il fiore è il porpora, colore della passione, nella sua accezione non celestiale. Questo è il colore rossiccio anche del tramonto (le vesprée). Per quanto riguarda i riferimenti temporali abbiamo: che La rosa sboccia al mattino, il sole si alza, riattiva la vita e la rosa fiorisce. Ma dal mattino alla sera la rosa è appassita, la rosa scolorisce e cadono i petali. Las ! voyez comme en peu d'espace, Mignonne, elle a dessus la place, Las, las ses beautés laissé choir ! O vraiment marâtre Nature, Puisqu'une telle fleur ne dure Que du matin jusques au soir ! Nella seconda strofa abbiamo una esclamazione che ci rimanda al presente, il poeta ha questa preoccupazione per il passare inesorabile del tempo, al verso 10 si rende conto della natura matrigna della natura (si tratta di un’apostrofe) che però è la stessa che dona la bellezza alla donna. Il passaggio dalla 1 alla seconda strofa è alimentato dall’esclamazione LAS! ,lui non invita più a fare qualcosa insieme ma ha più peso il ruolo della donna. 21 Donc, si vous me croyez, mignonne, Tandis que votre âge fleuronne En sa plus verte nouveauté, Cueillez, cueillez votre jeunesse : Comme à cette fleur, la vieillesse Fera ternir votre beauté. Nella terza strofa è come Se l’autore volesse arrivare a una conclusione in quello che è stato il suo discorso utilizzando la congiunzione DONC. Dunque, la donna è invitata ad agire per godere di questo momento di fioritura perché la vita è breve. ALTRE INFORMAZIONI Publiée en 1552, le premier livre des amours est consacré à CASSANDRE SALVIATI, fille d’un riche banquier florentin (rimando a PERARCA). Ce poème, rattaché par la suite aux Odes, est un des plus connus de Ronsard. La comparaison entre la femme et une fleur est un topos éternel que l’Antiquité a déjà chanté et qui vient renforcer le CARPE DIEM- cuille le jour- du poète latin Horace. Dans la 1ère strophe il y a une invitation d’aller voir les roses dans le jardin. La femme est représentée et décrite avec des mots qui sont plus applicables à la femme. Le poète donc personnifie la rose. Dans la deuxième strophe on découvre que la rose a perdu sa beauté très rapidement. Le temps de la rose est comparé au temps de la femme. En effet dans la dernière strophe le poète invite la femme à vivre sa jeunesse, car ceci c’est très bref. Quello che Ronsard chiede a Cassandra è di celebrare la bellezza, espandendo questa sua bellezza in un momento di fisicità. Il poeta infatti tenta di conquistare questa donna, di avvicinarla a sé, tuttavia, si tratta di un amore irraggiungibile. Infatti, Cassandra è promessa sposa a un altro uomo. Ci sono vari campi lessicali volti a celebrare la vita. Sonnets pour Hélène Si tratta di un sonetto pubblicato nel 1578, è scritta in verso alessandrino divisi in un doppio senario. Il poeta cerca di corteggiare hélène in un modo più ambiguo, insolito. Quand vous serez bien vieille, au soir, à la chandelle, Assise auprès du feu, dévidant et filant, Direz, chantant mes vers, en vous émerveillant : « Ronsard me célébrait du temps que j’étais belle !» --Veniamo proiettati in uno scenario definito, un quadro futuro ovvero la vecchiaia della donna. Lui sovverte una consuetudine che lui stesso aveva praticato, mettendo da parte la celebrazione della bellezza della donna e mostrandola in un contesto ordinario e monotono. La sua Helene è una vecchia che fa la calza. Siamo in un quadro futuro ma troviamo anche due imperfetti, lei infatti attraverso la poesia può ritornare al passato. Lors, vous n’aurez servante oyant telle nouvelle, Déjà sous le labeur à demi sommeillant, Qui au bruit de Ronsard ne s’aille réveillant, Bénissant votre nom de louange immortelle. 22 28 marzo 2022 Ci avviciniamo a Montaigne, il quale si può dire abbia inventato un genere. La sua opera non ha pari: il saggio. La sua opera è espressione di quel contesto culturale: avanza delle ipotesi e dà prospettive sulla seconda metà del 500. Egli era un uomo molto attivo, legato all’esperienza del mondo. È stato sindaco e diplomatico durante la guerra civile francese. Abbiamo la guerra civile fra cattolici e protestanti, quindi una guerra di religione. Dal 1562 al 1593 abbiamo queste guerre di religione, otto conflitti intervallati da brevi tregue e vediamo diversi sovrani al potere. Si tratta di un periodo di forte instabilità politica. La guerra ha anche forti implicazioni sociali. I sovrani sono Enrico II, dal 47 al 59, lui precede le guerre. A partire dalla fine del suo regno abbiamo questo clima di crisi dovuto alla sua tragica morte per una caduta da cavallo. Per la Francia fu una battuta di arresto perché questo sovrano era favorevole alla riforma amministrativa che mirava ad una maggiore unità francese. Il figlio era troppo giovane per la corona, dunque la reggenza andò alla madre Caterina de Medici. Questo periodo fu caratterizzato da una forte instabilità ed è qui che inizia il vero declino, tanto che alcune famiglie, vista la debolezza della corona, pretendono di esercitare influenza sulla famiglia reale. Quando il giovane Francesco II sale al potere, la famiglia de Guise (di espressione cattolica) cerca di influenzare le scelte del sovrano e la loro intromissione indebita desta il malcontento dei protestanti e pertanto accusano il re di parzialità. Nel 1560 rapiscono Francesco II ad Ambroise? Arrivato a 15 anni egli sale ufficialmente al trono ma il suo regno dura pochissimo perché muore di otite. Seguono i figli Carlo IX che regna fino al 74 e poi abbiamo Enrico III fino all’89. Il regno di Carlo è ricordato per una vera e propria strage nella notte di San Bartolomeo 24 agosto 1572. In questa notte vengono uccisi dei capi protestanti e viene considerata l’espressione del clima di intolleranza religiosa che si era creato. Questo clima di intolleranza e violenza porta all’assassinio del re Enrico III da un certo Jacques Clement, un cosiddetto frère lai domenicano, fratello laico, ovvero cresciuto da un ordine religioso ma non destinati al servizio sacro. Egli era seguace della Ligue, la lega cattolica, uno schieramento politico dalla forte connotazione religiosa. Il protestantesimo in Francia è calvinista, ovvero ispirato all’indipendenza politica. Il trono passa al cugino Enrico IV, egli pubblica l’editto di Nantes con il quale promulga la libertà di culto. Anche Enrico IV viene ucciso nel 1610 da Francois Ravaillac ed era già scampato ad un altro attentato. L’editto di Nantes precede la fine delle guerre di religione. Negli anni 40 c’erano molti editti contro gli eretici, il concilio di Trento contribuiva alla repressione. Quando muore Calvino nel 64 l’ondata non si placa. Come preparazione all’editto di Nantes abbiamo avuto l’editto di Amboise nel 63, che concedeva la libertà di coscienza, che è sicuramente più limitata rispetto alla libertà di culto. Questo periodo della storia francese fa riflettere su quanto detto prima: forse l’Umanesimo era stato troppo ottimista. Montaigne è espressione di questa riflessione ed autocritica. Le sue opere riguardano gli ultimi decenni del 500. Lui inizia Les Essais intorno al 72 per poi dedicarvisi tutta la vita. Abbiamo tre edizioni di riferimento, la prima nel 1580 ed è di due libri. Fra i due libri non ci sono richiami forti. Nell’88 abbiamo l’aggiunta del terzo libro, di soli tredici capitoli, che contiene delle riflessioni passate alla storia. Nel 92 lui muore, ma nel 95 appare un’edizione postuma che non fu curata da lui ma da Mademoiselle Gournay. Questa edizione è stata realizzata in base a tutte le correzioni che lui aveva apportato dopo l’88. È conservata alla biblioteca di Bordeaux. Quest’ultima edizione ci fa capire che lui considerava la scrittura come un cantiere aperto, egli concepiva in questo modo la sua opera. L’opera ha questo titolo che 25 oggi traduciamo con I saggi, l’idea di saggio di M però era diversa. Oggi lo consideriamo come una trattazione con la quale argomentare delle ipotesi, ma M non aveva un’idea così articolata. Da una sua citazione possiamo capire il significato che vi attribuiva ‘’Enfin toute cette fricassée que je barbouille ici n’est qu’un registre des essais de ma vie’’ dal terzo libro. Qui lui lo intende come vissuto, dal verbo essaier tentare, provare. Nel tempo il saggio ha acquisito il significato di mettersi alla prova per dimostrare il proprio pensiero. Cosa vuole mettere alla prova M? Ce lo dice nell’appello al lettore dove ci dice qual è l’oggetto del suo libro. Egli si rivolge ad un lettore anonimo considerato nella sua individualità, molto importante per M. Dà del tu al lettore, cosa insolita in francese, gli dice che non ha nessun fine, se non quelli casalinghi e privati. Non considera di mettersi al servizio del lettore, ma lo fa per il diletto dei suoi amici e prossimi in modo che loro possano conoscermi meglio. Se fosse stato per cercare il favore della gente, egli si sarebbe presentato in maniera migliore e avrebbe curato molto di più la forma. Egli vuole che si veda il suo modo di essere ordinario e comune, senza sforzo o artificio. Egli vuole dipingere se stesso. Vuole che la forma sia spontanea. Se si fosse trovato in un paese dove si vive ancora sotto le leggi della natura, si sarebbe rappresentato tutto intero e tutto nudo, ma rispetta le norme della società in cui vive. Non c’è ragione che il lettore debba impiegare il suo tempo in qualcosa di frivolo e vano. Montaigne vuole mettersi alla prova, parlare di sé e tentare nuove strade. Vuole esplorare la propria individualità e dare alla sua riflessione un carattere generale. Riflette sulla condizione umane partendo da sé. La sua opera potrebbe quasi sembrare un’autobiografia, ma non lo è perché l’autobiografia nasce dopo con Rousseau e le sue confessioni. Philippe Lejeune ne Le Pacte autobiographique dice ‘’récit rétrospectif en prose qu’une personne réelle fait de sa propre existence, lorsqu’elle met l’accent sur sa vie individuelle, en particulier sur l’histoire de sa personnalité’’. Il punto di partenza è la narrazione di eventi quotidiani, ma lo scopo non è la rappresentazione della sua personalità, l’obiettivo è di giungere a conclusioni di carattere generale. Nel capitolo 61 del libro secondo lui scrive ‘’Je propose des fantaisies informes et irrésolues, comme font ceux qui publient des questions douteuses à débattre aux écoles : non pour établir la véritè, mais pour la chercher.’’ Non è possibile dare un assetto definitivo ad un testo se quel testo parla del ‘’moi’’, perché il moi stesso è mutevole. Questi tre libri sono diversi da un punto di vista quantitativo e ciascun capitolo risulta essere del tutto indipendente dall’altro, ogni titolo rimanda ad una tematica. La poetica della frammentarietà, un insieme volutamente eterogeneo. Non c’è un programma fissa, anche se affronta il tema si abbandona a tantissime digressioni. Lui vuole dare una forma attraverso alla scrittura, al singolo e a tutti gli uomini. La poesia è in primis il genere che mette al centro l’io e usa la prima persona. Ma anche altri generi come la corrispondenza (GENERE EPISTOLARE) prendono piede, ad esempio, con le ettere di Erasmo Da Rotterdam. Abbiamo anche la cosiddetta écriture de commentaire, si prende un posto e lo si commenta: la scrittura di un io ma al servizio di un’altra opera. Poi abbiamo le mémoire, scritti da personaggi pubblici che vogliono mettere in ordine la propria immagine pubblica e si limita solo alla figura pubblica, per lo scopo di riabilitare la propria immagine. È un testo che esclude tutta la dimensione emotiva ed è solo incentrata sui gesti e le azioni. Anche il corpo viene rappresentato molto poco. Del corpo e delle emozioni parlano la poesia amorosa e la letteratura religiosa. La letteratura religiosa usa questi aspetti per analizzarsi, per sondare le proprie responsabilità, al fine del raggiungimento di una retta via. Questo genere di letteratura voleva raggiungere la purezza. Prendiamo in analisi le biografie, chi era meritevole di una biografia? Il modello era Plutarco con Le vite parallele. Abbiamo l’agiografia con la vita dei santi, esistono dei motivi ricorrenti come la 26 provenienza illustre, infanzia eccezionale, situazioni che mettono alla prova la sua persona, miracoli, morte insolita. Questo avvenimento insolito è destinato a rimanere nella memoria e rende il tutto degno di essere ricordato. Queste caratteristiche, senza il meraviglioso, si ritrovano anche nelle biografie di altri personaggi illustri, ma entrambi hanno un solo obiettivo: garantire la gloria. I testi di M hanno un carattere volutamente complesso. Come riesce a realizzare quest’opera così mutevole? Egli parte dalle sue letture e le unisce alle sue riflessioni. I testi antichi sono un supporto per le sue argomentazioni. La sintassi di Montaigne non è facilissima. 29 marzo 2022 PARIS ET SES RUPTURES : UNE LECTURE DES YEUX DES PAUVRES DE BAUDELAIRE “Les yeux des pauvres” fa parte della raccolta di poemi in prosa “Le spleen de Paris”. Quest’ultima è composta da 3 gruppi di testi pubblicati sul giornale La Presse nel 1862, una quarta parte fu annunciata e mai pubblicata. Si può parlare di prosa poetica a partire dal XVII secolo: all’epoca la prosa non era un genere molto apprezzato poiché considerato inferiore. Viene quindi legittimato inserendovi elementi tipici della poesia (rime, figure retoriche) per elevarlo e abbellirlo. L’opera prende a modello Gaspard de la nuit di Aloysius Bertrand. Bertrand voleva fare una poesia diversa, libera dagli schemi metrici. Apre dunque la strada ad un modo diverso di fare poesia con le sue “ballate in prosa”, brevi come poesie ma composte in prosa e divise in paragrafi. Per Bertrand l’immaginazione aveva un ruolo importantissimo. Baudelaire considera quindi il Gaspard de la nuit come un modello per fare poesia diversamente. Quando pubblicò Les fleurs du mal (1° edizione) fu aspramente criticato e accusato di oltraggio alla morale pubblica e religiosa, e dovette rivedere il testo (che poi fu pubblicato nella sua seconda edizione senza le poesie giudicate controverse). Nonostante i temi scomodi, l’opera ha un aspetto tradizionale ed è caratterizzata da una rigidità nella forma. Sono proprio questa esperienza e il periodo di rimaneggiamento dei Fiori del male, uniti al continuo impegno di Baudelaire nello studio e nella riflessione che hanno accresciuto in lui il desiderio di trovare un modo diverso di fare poesia. Baudelaire matura l’idea dell’esistenza di diversi tipi di bellezza che il poeta deve impegnarsi a ricercare. In particolare, secondo lui, vanno cercati nella rappresentazione del presente. Mentre Bertrand raccontava principalmente dei tempi medievali, Baudelaire ritiene che il presente sia ambivalente, come l’uomo. Così come noi siamo formati da anima e corpo, il presente presenta due lati diversi: da una parte è dinamico, materiale, effimero, dall’altra è intrinsecamente eterno. Prende spunto, ovviamente, dalla Vita di Parigi, città in cui è nato e cresciuto e delle cui trasformazioni è attento spettatore. La città, infatti, è in via di cambiamento (concretamente, nell’aspetto, ma anche nel modo in cui viene rappresentata). Tutti gli scrittori del XIX secolo sono anche giornalisti, incluso Baudelaire (écrivains – journalists- flaneurs). In questo ambiente i testi dovevano essere redatti velocemente per inseguire i tempi rapidi della stampa e dell’informazione. Attraverso questi testi si possono ricostruire aspetti del carattere della città. Tra il 1852 e il 1870 si svolsero i lavori di modernizzazione della città voluti da Napoleone III e dal prefetto Haussmann. Il progetto toccò tutti gli aspetti dell'urbanistica e dell'urbanizzazione di Parigi, sia nel centro della città che nei quartieri esterni: strade e viali, regolamentazione delle facciate, spazi verdi, arredo urbano, fognature e rete idrica, attrezzature e monumenti pubblici. 27 esprimendo un giudizio morale sull’opulenza che cela in realtà povertà di spirito. Il bambino vede osserva qualcosa che non conosce, perché tutto ciò che gli è familiare è la sfera della sua famiglia, e vorrebbe partecipare. Poi si passa al neonato che non esprime altro che una gioia stupida e profonda. Les chansonniers disent que le plaisir rend l’âme bonne et amollit le cœur. La chanson avait raison ce soir-là, relativement à moi. Non- seulement j’étais attendri par cette famille d’yeux, mais je me sentais un peu honteux de nos verres et de nos carafes, plus grands que notre soif. Je tournais mes regards vers les vôtres, cher amour, pour y lire ma pensée ; je plongeais dans vos yeux si beaux et si bizarrement doux, dans vos yeux verts, habités par le Caprice et inspirés par la Lune, quand vous me dites : « Ces gens-là me sont insupportables avec leurs yeux ouverts comme des portes cochères ! Ne pourriez- vous pas prier le maître du café de les éloigner d’ici ? » Tant il est difficile de s’entendre, mon cher ange, et tant la pensée est incommunicable, même entre gens qui s’aiment ! In questo paragrafo c’è un ritorno al contesto iniziale con il dialogo tra Baudelaire e la donna. Lui si sente molto commosso dalla scena, da questa “famiglia di occhi”, e si vergogna un po’ della ricchezza dei bicchieri e delle caraffe “più grandi della nostra stessa sete”. Lei invece è infastidita dalla loro presenza fuori dal café. Nell’ultima frase, sarcastica, Baudelaire crea un contrasto tra l’appellativo affettuoso “mon cher ange” e il senso della frase che esprime le difficoltà di comunicazione anche tra persone che si amino. Ritornando al titolo del seminario, RUPTURE si riferisce a una triplice rottura: la prima di stampo amoroso, tra Baudelaire e la donna, la seconda sociale, tra borghesia e poveri, e la terza storica tra la vecchia Parigi e quella moderna. 1 aprile 2022 La Pléiade era un cenacolo di poeti che si riunivano. Era di stampo umanista. Pléiade è il nome costellazione. Ci sono dei membri stabili e frequentatori occasionali. I generi letterari di base sono la prosa, la poesia e il teatro. Nel XVI secolo la poesia è il genere maggiore. La poesia generalmente tratta di temi elevati, grandi eroi, sentimenti nobili come l’amore. Questi autori praticano la poesia perché credono che sia il genere più elevato. La pratica della poesia ha anche un valore militante: la loro poesia può mutare il sistema culturale. Si mira ad una riorganizzazione dei sapori, quello che vogliono modificare è la mancanza di lingua unitaria: vogliono incoraggiare una letteratura nazionale in francese, in modo da avere unità culturale. Défense et illustration de la langue française è un’opera molto importante che vuole scardinare la credenza che il francese sia una lingua inferiore, Du Bellay vuole diffondere il messaggio della pari dignità delle lingue. Gli autori dell’epoca usavano come strumenti per sviluppare la lingua la traduzione, che però deve essere intesa diversamente e non come un passaggio da una lingua superiore ad una inferiore. Il traduttore deve diventare traslatore. Bisogna cercare di trasmettere il significato e lo stile. L’altro strumento è l’imitazione, gli antichi costituiscono sempre modello di stile e pensiero. “Bisogna divorare l’autore, digerire il loro testo, trasformarlo in alimento, renderlo in maniera personale”. Quindi l’imitazione non è intesa come semplice copia. La seconda parte del libro di Du Bellay parla dell’illustrazione, illustrare significa rendere noto. Illustrare il francese significa quindi cercare il modo di sviluppare la lingua e diffonderla. Questo è l’aspetto militante, pratico del progetto. Bisogna arricchire il 30 vocabolario, coniare nuovi termini, creare nuove combinazioni fra le parole. Per aumentare il vocabolario bisogna coniare neologismi, questi neologismi vengono creati attraverso dei prestiti da altre lingue o dai dialetti regionali oppure recuperando arcaismi o prendendo parole del linguaggio tecnico. Si vuole bilanciare il rapporto fra la forma e il contenuto. Du Bellay utilizza il mito adattandolo alle situazioni in cui vive. Ronsard è un altro importante autore del gruppo. L’ode è un sotto genere celebrativo che Ronsard adatta al tema dell’amore, della fuga del tempo, alla concezione della donna di Petrarca. La donna è come una rosa e come essa è destinata a perdere la sua bellezza. Ronsard parla spesso della fuga del tempo e della bellezza che scompare, ma la poesia è eterna. Montaigne spesso viene visto come un autore isolato e misantropo, ma in realtà ha sempre cercato di svolgere un ruolo attivo nonostante avesse la “malattia della pietra” (calcoli renali), di cui soffriva molto e il motivo dei suoi tanti viaggi era anche per cercare una cura. I saggi di Montaigne come abbiamo già detto rappresentavano una novità. Già abbiamo detto che ha lavorato continuamente a questo testo durante la sua vita e questo mostra come egli cercasse di conciliare l’opera con i continui cambiamenti della sua persona Il paratesto è tutto ciò che accompagna l’opera in sé, come l’introduzione, l’appendice, le note, ecc. Il paratesto è un avviso al lettore e ha una funzione importante perché crea l’orizzonte di attesa: l’autore dice in che modo va letta la sua opera, fermo restando che come abbiamo visto l’autore può specificare quale sia la sua intenzione. Nell’avviso al lettore Montaigne ci dà delle direttive sull’argomento e parla di un ‘moi’, un io narrante che si trova al centro e coincide spesso con un io personale. Racconta degli episodi di vita vissuta e si mette in scena. Questo però ci deve distogliere anche da un altro tranello possibile, perché i saggi di Montaigne non sono un’autobiografia, in quanto il genere nasce con Rousseau e abbiamo visto che l’autobiografia è un testo in cui narratore e personaggio coincidono ma ha lo scopo di mostrare i cambiamenti nel tempo, c’è una prospettiva e un disegno lineari nonostante la complessità degli argomenti trattati. In Montaigne questo non c’è, ma c’è un’adesione all’estetica del disordine e del movimento, c’è un io in totale trasformazione, mutevole, come la realtà. Nell’avviso al lettore indica una cerchia intima. Montaigne scrive sapendo che poi in realtà ci saranno dei lettori, ma è come se tarasse la sua lettura come intima e privata. Perché? Perché vuole fare a meno di tutti i codici culturali celebrativi e autocelebrativi, codici che Rabelais prende ma ribalta. Montaigne si rivolge a un lettore anonimo, lettura individuale dove l’uomo è considerato non in funzione del suo ruolo sociale. C’è un approccio verso l’interiorità, è come se Montaigne parlando di se stesso in una prospettiva intima si abbandonasse a sfoghi, confessioni, cose che non si fanno generalmente con gli sconosciuti. C’è dell’alta filosofia in questo testo ma lui ritaglia l’orizzonte di attesa. Ci aspettiamo da lui un uomo chiunque che esprime completamente se stesso, ed è un uomo che si rivolge a un altro uomo, un moi che si rivolge a un altro moi, vuole creare un canale tra interiorità e interiorità. Mette in pratica questo esprimere se stesso facendo a meno di determinati codici culturali, legittimati. Lo vediamo nel ritratto che fa di se stesso nel secondo libro capitolo 17 “De la Présomption”. Montaigne si diverte a non far rispecchiare il titolo del capitolo con il capitolo stesso. Montaigne ha avuto un’educazione di stampo latino, quindi ogni parola scelta non era casuale. La parola presunzione proviene dal termine latino presumere, che vuol dire immaginarsi prima, farsi delle opinioni senza avere delle prove. Una persona presuntuosa nell’accezione attuale è una persona che ha un’idea di sé 31 che non troviamo nella realtà. Montaigne recupera questa parola latina per mostrare un’immagine di sé, che ovviamente rispecchia la sua visione personale ma che Montaigne non teme poi di metterla a confronto con l’immagine di sé che risulta con la lettura di tutti gli altri capitoli. Si rende conto che confrontando un capitolo con l’altro la sua immagine può essere oggetto di contraddizione, smentita, ma sceglie con cura di dare una certa immagine di sé. Fa un ritratto che è al contempo sia fisico che spirituale, mostra la relazione che c’è tra il suo corpo e la sua anima, non disdegna di dire quello che sa fare e quello che non sa fare, un ritratto che lo vede in una veste pratica. Quello che fa Montaigne è costruire un ritratto in aperta opposizione alle convenzioni del ritratto sia scritto ma anche pittorico esistente all’epoca. Il suo è un anti-ritratto, anticonvenzionale. Montaigne parla della sua bassezza, scomoda e brutta. Il ritratto inizia con il fisico, ma poi si innestano elementi mentali e spirituali. Continua dicendo di essere tarchiato, con un viso tondo, il temperamento fra il gioviale e il melanconico. Coabitano aspetti positivi e negativi. La salute non è al massimo. C’è una citazione del De rerum natura riguardo la vecchiaia. Quindi abbiamo un ritratto tutt’altro celebrativo. Esprime la mutevolezza dell’essere, perché ogni giorno la vecchiaia e il tempo toglie qualcosa. Lui unisce descrizione fisica a descrizione interiore in relazione alle sue capacità, al suo “savoir faire” e sente di essere diverso rispetto al padre. Parla della musica e dice che non è in grado né di cantare né di suonare per la sua inettitudine in quest’ambito, parla della danza, della lotta, della scherma ed emerge la sua incapacità, la sua inettitudine. Parla delle sue mani, grasse e tozze. Descrive l’immagine delle penne e del calamaio e poi sottolinea come non sia neppure in grado di affilare le penne quando si consumano. Dà la priorità a tutto ciò che non sa fare, come bardare un cavallo. “L’ardore inganna dolcemente”. Non c’è nulla di gioioso, c’è solo una robustezza piena è solida, resisto alla fatica e persisto in questa condizione se me ne faccio carico personalmente e per quanto il mio desiderio è la mia volontà mi conduce in questa impresa”. Nonostante il corpo decada, la volontà è forte e fa da bussola. 4 aprile 2022 Parlando di un autore come Montaigne il suo pensiero non rientra in un’unica corrente di pensiero, lui stesso si definisce mutevole, complesso e per certi versi anche incoerente, ma in realtà e uno che si guarda dentro e sa bene quanto la sua percezione del mondo si nutra costantemente delle sue letture, quindi quest’ultime modificano insieme all’esperienza il suo pensiero. Ciononostante è possibile rintracciare delle correnti maggiori che hanno influenzato il suo pensiero: - l’epicureismo, parliamo di una corrente che si è sviluppata a partire dai seguaci di Epicuro, quindi è legato a ciò che è stato raccontato di lui e del suo pensiero. Si sviluppa tra il secondo e il primo secolo a.C. e in realtà è un testo latino a essere considerato poi un pilastro del pensiero epicureo, il “De Rerum Natura” di Lucrezio. Questi riferimenti all’epicureismo attraverso Lucrezio ma anche filtrati nei ragionamenti dell’autore sono importanti sia per capire l’autore che per capire il clima culturale perché questi riferimenti sono espressione di un ritorno di questa corrente in epoca umanista. Infatti, l’epicureismo era caduto un po’ nel dimenticatoio, ma grazie alla rivoluzione umanista e al ritorno sui testi abbiamo anche un ritorno dell’epicureismo e questo ritorno dal ‘500 si estende per tutto il ‘600 attraverso una costellazione di pensatori materialisti in particolare grazie a Gassendi. L’epicureismo vede un perseguimento dei piaceri, una dissolutezza. In realtà, è molto più complesso di quanto si possa immaginare: Il problema alla base del pensiero è la ricerca della 32 siamo, siamo convinti che risieda la migliore combinazione sociale e culturale possibile. I barbari sono chiamati selvaggi perché praticano l’antropofagia, ma non sono dei cannibali abituali, lo praticano per ragioni rituali, si cibano dei loro nemici in alcuni momenti, ma aldilà di questo questa pratica tanto lontana dalla civiltà dell’epoca fa in modo che essi vengano etichettati come dei cannibali. I cosiddetti selvaggi sono uomini che vivono allo stato di natura che ha un’accezione positiva per Montaigne. “Coloro che voi chiamate selvaggi in realtà sono come quei frutti che la natura ha prodotto in maniera spontanea, se dobbiamo usare la parola selvaggio dobbiamo ricondurla a voi che uscite dallo stato di natura”. “È in questo stato di natura che sono vivide e forti le virtù e le proprietà, si conservano le qualità della natura: l’integrità, la non corruzione, che noi abbiamo contaminato per il piacere del nostro gusto corrotto”. Unisce fatti e riflessione, dice che tre di questi selvaggi sono stati portati al cospetto di Carlo IX, e Montaigne del loro arrivo pensa che essendo entrati in contatto con una civiltà contaminata, anche loro hanno perso la loro integrità solo avendo messo piede in Occidente. Comincia ad alimentare il mito del buon selvaggio che si diffonderà poi con Rousseau. I selvaggi vengono portati al cospetto del re. Gli europei accolgono questi selvaggi mostrando ciò che hanno di più bello, le città, il lusso, espressione del grado di civilizzazione. Queste cose verranno smentite dai fatti. Montaigne ancora una volta, dopo essersi messo dalla parte di questi barbari, dà loro la parola adottando il loro punto di vista. Non sono i diversi oggetto di osservazione e di giudizio, ma sono loro a osservare e a giudicare. I osservazione: Carlo IX è troppo giovane secondo i selvaggi, non è saggio come magari sarebbe il capo tribù in Brasile. Hanno molto rispetto per gli anziani che rappresentano un bagaglio culturale incredibile. Vedere questi adulti che si prostrano a un bambino gli fa strano. Non si occupano funzioni di rilievo per meriti propri, ma sono trasmesse per via ereditaria ed è un privilegio che si ha a propri dalla nascita. Dunque c’è una critica alla monarchia e al sistema di privilegi legati a questo sistema politico. II osservazione: i selvaggi vedono l’altro come una metà di se stessi, e quindi lascia intendere che gli altri vedono nella collettività un valore, nell’altro qualcuno da aiutare e nell’altro qualcuno che aiuta. In due ci si completa, attraverso l’unione si è più forti, idea alla base della loro società. In Francia costituiscono una popolazione che per metà è straricca e per metà è strapovera, gli eccessi, l’avidità che gli epicurei vogliono limitare è concentrata invece soltanto in un gruppo sociale. I selvaggi nella loro semplicità e apparente rozzezza notano con straniamento quella che è una condizione di disuguaglianza sociale diffusa, che viene tollerata da chi è nato in questo tipo di sistema, appunto perché noi valutiamo ciò che è meglio o peggio secondo il nostro sistema dei valori e per noi è normale così. Invece i selvaggi si aspetterebbero diversamente, vedono che gli strani, gli stranieri (étrangers) sono i francesi. Montaigne si serve anche del punto di vista dei cannibali per mostrare ciò che da un occhio interno non si riuscirebbe a vedere, e questo brano si può condurre al relativismo culturale che esclude l’idea che esistano dei valori assoluti ma contempla la varietà delle culture senza stabilire un ordine gerarchico, quindi Montaigne vuole scardinare questi preconcetti, vuole cancellare una serie di pregiudizi che ha scatenato dei comportamenti oppressivi. Da una parte c’è l’espansione e dall’altra la repressione. 35 Negli essais troviamo un incontro tra generale, particolare e universale. Montaigne non esita a criticare la società del suo tempo che ai suoi occhi si presenta come corrotta e questa corruzione la teorizza e la mostra concretamente cambiando il punto di vista, quindi la sua visione slitta verso quella dei selvaggi, i quali osservano gli europei e di fatto li giudicano, in particolare non si soffermano sull’abbigliamento, sull’esteriorità, ma su dei concetti elementari che fungono come denuncia sociale nei confronti della Francia dell’epoca. L’EDUCAZIONE IN MONTAIGNE Tra le varie innovazioni apportate da Montaigne nel pensiero del '500 c’è anche l’educazione, la formazione, concetti sui quali si fonda il pensiero dell’uomo. Un’idea di studium che insegue l’ideale del sapere enciclopedico, accedere a saperi che prima erano esclusivo della chiesa sia per i contenuti che per gli strumenti che venivano messi a disposizione. Si può ora accedere al più ampio ventaglio possibile di saperi e quindi l’educazione enciclopedica è l’ideale del primo umanesimo. In realtà la realtà delle cose contraddice un po’ questo ideale di uomo rinnovato e artefice del suo destino, perché abbiamo una Francia lacerata dalla guerra, quindi secondo Montaigne va ripensato quello che è l’ideale dell’uomo umanista. Infatti, presenta la sua idea di educazione che ancora una volta è un’idea intrisa di esperienze personali, letture e riflessioni di più ampio respiro. Passo di Montaigne sull’educazione A un bambino nobile, che cerca lo studio delle lettere, non per un proprio guadagno poiché una finalità così abbietta è indegna della grazia e del favore delle muse e poi questa finalità riguarda ed è alle dipendenze degli altri. Un’educazione che non serve ad ottenere uno scopo pratico, abbietto, quindi non sei libero ma schiavo di quello che la tua cultura può apportati in termini di profitto. Non tanto per le comodità esterne, per ciò che mi può arrecare all’esterno, ma per le proprie, per un proprio arricchimento personale e per ornarsi all’interno, avendo piuttosto voglia di ricavarne un uomo abile piuttosto che un uomo saggio. C’è la differenza tra uomo abile e uomo saggio, e di base si rivolge a un bambino che ha l’esigenza di formarsi, esigenza che risponde all’ideale dell’uomo abile. A partire da questo profilo che Montaigne immagina dice che è fondamentale per lui una figura, quella del conducteur nella quartultima riga del paragrafo. All’epoca insegnavano i précepteurs che Montaigne chiama conducteurs. 5 aprile 2022 Montaigne criticava l’apprendimento di gruppo. Sin dall’inizio si delinea quella che è la grandissima novità portata da Montaigne, in quanto prima di lui allievo e insegnante avevano due ruoli ben distinti, mentre adesso c’è una relazione pedagogica, l’insegnamento è un dialogo tra le menti. L’insegnante è il conducteur, colui che conduce, gli viene data la funzione di accompagnamento all’interno di un percorso: non è colui che ordina e impartisce, ma è colui che conduce un percorso che vorrebbe realizzare donne e uomini che siano abili e saggi. Nel II paragrafo critica le mitologie passate utilizzate come esempio, condanna l’impostazione pedagogica utilizzata dal medioevo in poi, perché viene intesa come un riversare i saperi in maniera unidirezionale e aspettarsi che gli alunni ripetano tutto. Vorrebbe dunque che si correggesse questo andazzo e che sin da subito secondo la portata dell’anima che lui ha tra le mani, il conducteur cominciasse 36 a metterla in guardia. Vuole quindi che il maestro si renda conto della singolarità dell’allievo che ha di fronte. Successivamente si deve mettere in guardia e orientarlo verso un atteggiamento di prudente osservazione: facendogli godere le cose, stimolare il suo interesse, provare ad alimentare una passione, a partire da queste stesse cose favorire una sua capacità di elaborazione, discernimento, quindi metterlo in una condizione di vigilanza nella mente che non gli fa recepire passivamente tutto quello che gli viene dato. Dare all’allievo la giusta misura di autonomia e non vuole assolutamente che il docente parli da solo, lasciare al discente la possibilità di parlare. Studia Socrate e Arcesilao, due figure che sono inserite all’interno di questo discorso in un’ottica di scetticismo filosofico. I due facevano prima parlare i loro discepoli e poi parlavano loro, perché sia Socrate che Arcesilao credevano nel potere del dubbio come strumento di evoluzione personale, finalizzato a scavare dentro di sé. Socrate non era così scettico, mentre per Arcesilao non c’è possibilità di conoscenza se non attraverso il dubbio, non dà nulla per scontato e mette in discussione anche le verità. L’allievo può avanzare richieste in merito alle lezioni, bisogna far prevalere i contenuti alla forma ma soprattutto non si deve dare per scontato un sapere teorico. Come può essere reso pronto un discepolo? Deve esserci una sorta di lavoro, di addestramento, di formazione che si basa sul dialogo ma anche mostrando le diverse rielaborazioni. Nell’ultimo paragrafo della prima pagina insiste sul concetto di autorità da insegnante, e critica l’autorità del sapere. Siamo stati assoggettati e non camminiamo più bene, non siamo sinceri, siamo come cavalli presi alle briglie. Anche la nostra libertà è spenta. Continuando in questo modo, cita Seneca “non diventano mai padroni di loro stessi”, quindi uomini tenuti per le briglie che non diventano mai padroni di se stessi perché non hanno autonomia di giudizio. Tutto questo tentativo di demolire l’autorità del sapere attraverso il ricorso a pensatori greci, autori latini, converge nel rifiuto dell’ipse dixit, usato per la prima volta dai pitagorici nei confronti di Pitagora, si sviluppa poi nel medioevo in riferimento alla filosofia di Aristotele. L’allievo non è più in imbuto da riempire ma diventa un filtro, un setaccio, attraverso il quale le conoscenze passano, qualcosa viene trattenuto ma qualcosa va via, ed è normale. Dice che i principi di Aristotele sono per lui idee alla pari di altri pensatori, non sono visti come la verità assoluta. Non vuole screditare Aristotele, ma l’autorità che ha in quanto è un pensatore come gli altri. L’allievo se può sceglie, sennò ciò che rimane è il dubbio, quell’apertura mentale e solo i folli sono sicuri e risoluti. Anche la citazione centrale di Dante sul dubbio ha un ruolo molto importante. Lo studio è un veicolo per creare una società migliore e più saggia, e tutto questo è il compito dei conducteurs. Bisogna ricevere ed interiorizzare e a partire dalla relazione si crea un circuito che va oltre la coppia conducteur-enfant perché il circuito del sapere fa docente- discente e tutto ciò che si crea attecchisce sul discente che poi cresce e si confronta con il mondo. Infatti dice che saper entrare in questo circuito virtuoso mette tutto a profitto e quindi coinvolge la vista, l’udito, questa capacità mette in atto dei comportamenti virtuosi in modo da agire concretamente nel mondo e nella società. (Da 51 a 57 non si considera nell’analisi e da 65 a 70). Résumé en français de Michel de Montaigne Il montre toutes le contradictions et tous les limites du siècle des humanistes. L’humanisme se fonde sur un changement de perspective 37 C’è una continuità verso alcuni elementi del 500 perché tutto cambia e piano piano si crea un nuovo assetto sociale e culturale. Gli scrittori da un lato catalizzano, raccolgono e assorbono un certo clima dato da eventi politici, organizzazioni sociali e dalla cultura che nasce da tutto questo; dall’altra parte, essendo persone dotate di una grande sensibilità, gli scrittori contribuiscono a dare voce a questi cambiamenti che dall’interno non erano ben riconosciuti, quindi hanno avuto il dono di sintetizzare questi momenti della storia di Francia. Quali sono questi momenti? La Francia termina un periodo estremamente sanguinoso e difficile, ma dall’altra parte cerca stabilità e un nuovo ordine e questo si riflette da tutti i punti di vista. I condizionamenti maggiori arrivano da decisioni che incidono su tutta la comunità, e la prima cosa che si cerca di fare è quella di definire i confini nazionali e creare un’organizzazione interna capace di gestire le periferie. Richelieu cerca di eliminare le dissidenze e creare uno stato forte a partire da una vetta che dirige dall’alto verso il basso, limitare anche le rimanenze medievale e considerare la cultura e la lingua come veicoli privilegiati per creare uno stato unitario. Per tutto il 600 la corrente dominante è il classicismo, ma continua a inserirsi un prolungamento del clima tardo 500esco, l’idea di dinamismo, di instabilità, la tendenza a non classificare se stessi e la realtà, e questa cultura dà luogo al barocco. Si tratta di un fenomeno europeo che però ha un’incidenza diversa in Europa a seconda delle nazioni. In Francia continua a esistere ma è parallela, in Italia e in Spagna la corrente barocca attecchisce maggiormente. Anche il barocco esprime una visione del mondo, come ogni movimento. Quando non c’è teorizzazione si parla di corrente, quando invece vediamo un manifesto si parla di movimento, perché si tratta di un qualcosa di organizzato e gli appartenenti fanno capo a questa scuola, la corrente è un qualcosa di più fluido e centrifugo. Il barocco è una corrente sfuggente, ampia e complessa. Quadro Las Meninas di Velazquez Vediamo damigelle di corte, marginali nella scala sociale, e al centro vediamo l’infanta Margherita, la figlia del re Filippo IV di Spagna. A sinistra vediamo il pittore, a destra abbiamo nani, damigelle di corte e animali. Sullo sfondo al centro vediamo un signore, maresciallo di palazzo, abbiamo poi in una cornice il ritratto dei sovrani si Spagna. Nella scena che vediamo abbiamo l’illusione che occupino il ruolo centrale i soggetti marginali, ma a un secondo livello sappiamo che Velazquez sta dipingendo il re e la regina visti da un’altra prospettiva che mette a nudo tutti gli elementi della rappresentazione: abbiamo il set, il supporto, il pittore, i modelli scelti e ciò che c’è di contorno perché la tela è un artificio, nella mia porzione di quadro scelgo cosa inserire ma tutto quello che c’è intorno esiste comunque. Vuole creare l’illusione che siano i sovrani a fare il quadro. Manca la percezione di quale sia il vero soggetto. Michel Foucault considera questo quadro sintesi del pensiero barocco perché: Velazquez ha riunito tutte le componenti della rappresentazione classica, però mostra fino al parossismo e all’amplificazione una crisi di questa rappresentazione, perché quando non sappiamo più chi dipinge, cosa dipinge, il punto di vista ci rendiamo conto di quanto rappresentate sia artificioso e illusorio. Barocco è tutto ciò che è strano, bizzarro, irregolare, va fuori dalle regole. Tra 500 e 600 si sviluppa sia sotto forma di visione del mondo che come forma di stile ed è una corrente che si sviluppa dalle arti 40 visive per poi diffondersi in letteratura. La scultura e l’architettura barocca hanno influenzato la produzione letteraria. La realtà è un sistema di apparenze, delle quali non si riescono a percepire le frontiere, i limiti, dove iniziano e dove finiscono. Questo sistema di apparenze aleggia su tutta la superficie delle cose non riusciamo a definirlo. Sempre seguendo Velazquez, se la realtà è apparenza, il mondo è un grande spettacolo, è un gioco di illusioni, un teatro gigantesco. Il concetto di teatro nel barocco svolge un ruolo fondamentale. Insistere sulla spettacolizzazione porta alcuni autori barocchi a ostentarlo. È l’epoca in cui a teatro c’erano le macchine di scena per creare gli effetti speciali. Si insiste anche molto sulla mobilità dello spazio: oggetti statici che però sembrano muoversi, come Apollo e Daphne. Lo spazio si libera attraverso forme dilatate e ingrandite, abbiamo una fusione tra elementi naturali. Il barocco è anche il periodo del trompe-l'oeil che porta a creare un'illusione ottica. 11 aprile 2022 Il barocco è una corrente europea che dalle arti visive arriva in letteratura, probabilmente sono i pittori come Velazquez ma anche architetti e scultori come Bernini che hanno saputo esprimere quello che era un clima culturale e una visione del mondo, che, per tornare sulla nostra prospettiva francese, non nasce all’improvviso ma si sviluppa a partire da quel clima di incertezza e instabilità che Montaigne aveva intercettato e provato a esprimere. Quando parliamo di barocco in Francia in realtà è proprio in Montaigne che dobbiamo rintracciare le sue origini. Il barocco che si afferma prettamente nel 600 nasce alla fine del 500 con Montaigne e si svilupperà per tutto il secolo attraverso stagioni diverse: vediamo attraverso la poesia, il teatro in misura minore, vedremo di Corneille una pièce scritta un anno prima del Cid, poi il teatro viene sempre più strutturato intorno a dei testi teorici che intendono mettere ordine e che convergeranno sempre di più in una sensibilità di tipo classico. La tradizione scolastica vuole vedere nel classicismo e nel barocco due correnti che si oppongono. È chiaro che il classicismo è espressione di una reazione rispetto a una cultura del disincanto e della dispersione, ciò perché ha delle ripercussioni anche politiche e sociali. Classicismo e Barocco dialogano costantemente. La sensibilità barocca è un’arte che mostra quella che è una crisi della rappresentazione in cui i ruoli sono distinti, però ci si rende conto che in realtà questa tendenza alla classificazione sfugge a una realtà di per sé inclassificabile. Questa fluidità viene mostrata in un gioco di luci e ombre, di alto e di basso, ed è una corrente del trompe-l’oeil, effetto che vedremo anche in letteratura, rappresentazione che ostenta illusione. Abbiamo visto l’importanza del senso di morte che accompagna ogni tipo di rappresentazione perché la morte è in realtà l’unico elemento verso il quale convergono due atteggiamenti che si possono avere rispetto a una realtà sfuggente senza certezze. Questo atteggiamento verso la morte può essere visto o spostando l’asse verso il vitalismo, l’accogliere una vita che sfugge, così come potrebbe incentrare la riflessione sull’aspetto più cupo, dove prevale l’ombra. Questi due poli non sono mai estremi, ma è una visione mista e fa sì che ogni aspetto abbia in se il suo contrario e quindi c’è questa oscillazione tra gioia di vivere e consapevolezza della morte. Le promenoir des deux amants -Tristant L'Hermit È un’ode il cui autore è Tristant L’Hermite, anno 1633, epoca in cui Richelieu comincia a mettere in atto il suo progetto, un periodo culturale libero con meno controlli e più soggetto a sperimentazione, il barocco esplode. 41 Ode in ottosillabi a rima incrociata. Il barocco esprime anche da un punto di vista quantitativo il fluire della vita, motivo per cui questo testo non è per niente sintetico. Ci conduce lungo un sentiero, una passeggiata tra due amanti che ci porterà attraverso un paesaggio che riflette la condizione dei due amanti. Il primo blocco comprende le prime 6 strofe. Ci troviamo all’interno di una cornice naturale che da una parte segue il topos letterario del locus amoenus, all’interno del quale vediamo scelti degli elementi tipicamente barocchi: la grotta (spazio soglia tra la luce e l’ombra, aperto e chiuso, noto e ignoto, dunque che riprende il tema della dualità dell’approccio alla vita), i due amanti iniziano il proprio percorso in una zona liminare tra luce e ombra; lo specchio d’acqua, che crea movimento tra luce e ombra e dà idea di dinamicità; il narciso; il fauno che con il suo incarnato esprime la vitalità e viene a vedere se si è trasformato dopo che l’amore è venuto ad accoglierlo. Ci annuncia un immagine dell’amore che ti trasforma e ti porta in una condizione che non è proprio vitale, in quanto la tinge di giallo che non è un colore salubre; il fiore vermiglio che rimanda al colore rosso del fauno e di nuovo i giunchi penzolanti che creano dinamicità e con la loro proiezione sull’acqua ci danno l’illusione di essere i sogni dell’acqua. L’acqua viene personificata, sembra animarsi. Poi il campo visivo si estende, le influenze più amorevoli che ringiovaniscono e sollevano i tappeti verdi con fiori di tutte le sfumature. La natura è vigorosa in questo quadro policromatico. È una rappresentazione vitalistica turbata qua e là da alcuni riferimenti, come le ombre, il fauno che non si sa se sta bene o male, indizi che ci fanno pensare a un mutamento. La sesta strofa comporta un altro riferimento mitologico, questo è un luogo incontaminato, non è mai venuto alcun cacciatore e se si sente un corno e quello di Diana, la dea della caccia. Secondo blocco: Abbiamo creature che assumono delle sembianze umane, come la quercia che è come se subisse un’ennesima umanizzazione. Questa vecchia quecia ha dei segni santi, è talmente viva che se qualcuno la incidesse dalla sua corteccia scorrerebbe sangue. Da una parte ci trasforma la natura ma dall’altra aggiunge un elemento di cupezza. È una natura contaminata dall’idea di ombra. L'usignolo melanconico che cerca di incantare il suo dolore mettendo la sua storia in musica. Quest’idea dell’usignolo che trasforma il dolore in canto è legata alla figura della profetessa Cassandra (Eschile Agamennone). Ci sono poi le tortorelle. Nella strofa undicesima vediamo il riferimento a Venere e Anchise, dalla cui unione nascerà Enea, che si perdono all’interno dei forti in cui la vegetazione è più fitta dove gli amorini litigano per una ciliegia. Abbiamo le ninfe in questo luogo idilliaco e celestiale, il loro movimento è sottolineato dal fatto che assecondino una musica e concedono ai cespugli di portare fiori senza spine. Terzo blocco: luogo che esprime l’armonia della terra. A partire dalla strofa 14 la cornice naturale, il quadro all’interno del quale i due amanti si trovano, viene seguita da un’apostrofe alla donna amata. Il poeta si rivolge direttamente alla donna dando voce al suo sentimento. Il modo in cui lo fa è anch’esso tipicamente barocco: c’è una sorta di travestimento linguistico per cui al nome dell’amata si sovrappone il nome di una figura mitologica, Climene. Climene è una delle oceanidi, una creatura mitologica associata all’acqua in quanto legata all’idea di madre universale, il principio femminile di tutte le cose e la sceglie proprio perché è la donna, colei che le racchiude tutte. È un principio universale perché è ciò da cui tutto ha origine, l’acqua. La invita a sedersi sul bordo della fontana, quindi dove la vita si rigenera 42 hanno la possibilità di investire del denaro e attraverso il commercio possono acquisire qualcosa da rivendere, guadagnarci per poi riavviare il ciclo. Attraverso il lavoro la borghesia si può arricchire, dunque può entrare a essere considerata anche nobile ed è composta da individui che potenzialmente possono partire da zero e che grazie al lavoro e alle proprie capacità possono aumentare le proprie ricchezze. Questa capacità di trasforma poco a poco in prestigio sociale. La borghesia rappresenta dunque una classe intermedia tra gli aristocratici nati ricchi e che tramandano i privilegi posseduti e le classi inferiori della società. Che considerazione hanno questi attori? Pessima. Vengono considerate persone che vivono nella dissolutezza, nella precarietà, persone che dalla metà del 500 erano da evitare, da non frequentare. Se un attore non abiurava, non aveva neanche il diritto di ricevere il funerale o il sacramento dell’estrema unzione e non poteva essere seppellito in terra consacrata, doveva solo rinnegare quanto aveva fatto. Richelieu nel 1641, dunque quasi alla fine del suo mandato, riconosce agli attori la loro professione. Come si muovevano gli attori? In compagnie, le cosiddette troupes, organizzazioni di attori all’epoca estremamente mobili perché anche quando una compagnia è un po’più stanziale di altre non ha la garanzia di poter collaborare a lungo. La maggior parte delle compagnie era nomade, composte da attori girovaghi che calcavano le scene di tutta Francia: Molière, che diventerà il primo capocomico, nasce come attore girovago. Queste compagnie dove recitano? Per strada, all’interno delle case, nei castelli, un po’ ovunque, potevano anche occupare delle sale del jeu de paume, quindi si adattano in ambienti che hanno altre funzioni (gioco della pallacorda). La troupe non aveva un’organizzazione gerarchica, tutti avevano la stessa importanza e funzione: c’era un capocomico che aveva un ruolo inizialmente non molto importante, che poteva richiedere una doppia quota alla fine dello spettacolo per sua moglie, ma dipende dalla compagnia. La paga veniva divisa alla fine dello spettacolo. Gli attori se si ammalavano venivano pagati comunque e avevano una specie di pensione al termine della loro attività. Un attore lavorava su contratto, legato a un ruolo, per esempio una donna che riceve l’incarico di fare la servetta, deve fare sempre la servetta anche se vorrebbe fare altri ruoli, oppure se un uomo ha il contratto per svolgere l’innamorato, deve svolgere sempre questo ruolo. Chi va a teatro? Il teatro è estremamente popolare, ovvero andava al teatro il popolo. Era accessibile anche alla borghesia, che ne usufruiva abbastanza, ma tendenzialmente era distinta e separata dal pubblico popolare. I posti che costavano di meno erano quelli del parterre in quanto tutti dovevano stare in piedi, sui palchi invece il prezzo aumentava il che è un po’ l’inverso dei palazzi, perché nelle strutture abitative più in alto si trovava l’appartamento meno costava in quanto era più faticoso salire. Nei teatri era diverso perché chi aveva più soldi doveva allontanarsi e salire sopra. I palchi potevano anche essere affittati per creare una sorta di piccolo balcone. Però i borghesi frequentavano poco il teatro a causa dei pregiudizi perché chi andava a teatro andava molto spesso per creare confusione, cercavano la rissa il più delle volte. Le donne a teatro non possono andare e le poche donne che c’erano dovevano indossare una maschera. Il pubblico aveva il diritto di mostrare sia entusiasmo che dissenso in maniera plateale, spesso lanciavano anche oggetti e creavano confusione. Poteva capitare che il pubblico fosse talmente insoddisfatto di quello che veniva rappresentato da dire di interrompere tutto e di rappresentare qualcos’altro. Quando si andava al teatro le strade non erano illuminate quindi per evitare problemi le rappresentazioni c’erano alle 2 del pomeriggio. Il venerdì c’era la prima e poi la domenica e il martedì venivano rappresentate di nuovo. La Pasqua è il momento in cui si rinnovano i contratti agli attori. 45 Come vengono visti gli autori? I nomi degli attori di conoscono, ma quello dell’autore no. Corneille si è battuto tantissimo per avere un riconoscimento sociale che all’inizio non c’era. L’autore poteva essere pagato nel momento in cui la pièce dalla sua scrittura veniva poi rappresentata, quando il suo testo veniva pubblicato perdeva ogni diritto e veniva pagato in percentuale, in funzione del numero di atti. L’autore scrive l’opera, la sottopone a un attore considerato più intelligente e se quest’ultimo la approva l’autore deve leggere l’intera pièce théâtrale alla troupe. A Parigi ci sono due edifici che poco a poco si presentano come le sedi più stabili all’interno delle quali possono essere proposti degli spettacoli teatrali. Stabili per la frequenza delle rappresentazioni ma anche perché ospitano delle compagnie sempre meno precarie. Il teatro seguiva due filoni: il teatro sacro (immagini sacre, compagnie legate alla chiesa e rappresentazione dei mystères, con la vita di Gesù. Verso la metà del 500 la Francia si avvia verso il periodo sanguinolento in cui il credo e la professione religiosa sono motivi di dissidio. Dal 1547 i mystères e le rappresentazioni religiose vengono bandite. Ciò comporta la riformulazione delle proposte ) e il teatro profano (la farsa) - Hôtel de Bourgogne gestito dalla confraternita della passione, che tra 500 e 600 continua a gestire la struttura e la affitta a chi vuole rappresentare degli spettacoli di argomento profano. - Una sala del jeu de paume, nel quartiere di Marais che attualmente mantiene il suo rigore antico. Questa sala poco a poco si afferma come sala concorrente alla precedente e prende l’appellativo di Hôtel du Marais. Il rapporto tra chiesa e teatro è molto complesso e per alcuni punti contraddittorio. La chiesa ha utilizzato il teatro come strumento pedagogico, quindi per parlare della vita dei santi. Spesso le rappresentazioni erano in latino, raramente in francese, ma la gestualità contribuiva a far capire. Sicuramente la drammatizzazione, la scenografia, avevano un forte pathos come i mystères che narravano principalmente la passione di Cristo, momento ricco di emozioni. Tuttavia, le gerarchie ecclesiastiche hanno contestualmente sempre considerato il teatro con estrema diffidenza, soprattutto quando ha prevalso un teatro di tipo profano. Questo perché la chiesa ha sempre visto il teatro come un veicolo di corruzione, uno strumento in grado di suscitare la curiosità, alimentare l’attrazione con i movimenti del corpo e la gestualità, stimolare un’attrazione verso la sensualità dei corpi. Una parte della chiesa guardava con sospetto anche le stesse rappresentazioni religiose perché pensavano che ammettevano come veicolo di formazione spirituale solamente i momenti ufficiali, come ad esempio la messa e le omelie. Di malefico nel teatro vedevano l’identificazione, la capacità che ha il pubblico di immedesimarsi con quello che vede, l’entrare in scena e partecipare a quello che accade e l’identificarsi in un attore e in un personaggio. Tuttavia c’è una parte della chiesa che vede nel teatro un canale privilegiato. Questa parte di chiesa è composta dai gesuiti e in particolare da un collegio di gesuiti posto a Rouen. I gesuiti credono molto nell’evangelizzazione, contemplano l’educazione religiosa e considerano il teatro come un veicolo per trasmettere e coinvolgere e all’interno del collège di Rouen si organizzavano rappresentazioni nei cortili con membri del college, il pubblico era composto o dai familiari o da membri dell’ordine religioso. Nel 600 Rouen diventa un centro editoriale quindi centro di diffusione culturale. 46 Le compagnie Sempre a partire dagli 30 cominciano a crearsi dei punti di riferimento, ovvero i due edifici esplicitati in precedenza, sedi di compagnie che si fanno una concorrenza spietata. Quella di Bourgogne è quella più vicina al potere e gli attori successivamente avranno anche il titolo di attori del re, les comédiens du roi, ma quella che esercita un ruolo importantissimo è la compagnia des Italiens. Il teatro prova ad affermarsi avendo come rivali gli italiani, compagnie di attori italiani che cominciano ad essere presenti soprattutto nell’ultimo quarto del 500 portando un certo tipo di cultura teatrale e che verranno cacciati nel periodo della fronda, poi saranno cacciati definitivamente alla fine del secolo. Gli italiani erano scomodi per ragioni economiche e politiche, perché portavano un tipo di comicità che raccoglieva la tradizione della commedia dell’arte e ha avuto un impatto poi anche sugli autori francesi. Gli italiani vengono accolti e cominciano ad essere inseriti con maggiore influenza a partire dalla reggenza di Caterina de’ Medici negli anni 70 del 500 e la prima compagnia che si fa conoscere è quella dei Gelosi e poi quella degli Accesi. Questi attori si inseriscono all’interno di un vuoto che si crea in campo teatrale perché diventa prevalentemente di tipo profano e ciò che rimane all’inizio di questo periodo è una giacenza di tipo medievale molto legata alla mitologia, alle storie bibliche in chiave contemporanea, e chi vuole investire sul teatro investe sugli argomenti seri, quello che rimane è la farsa, di commedia non se ne parla. Gli attori italiani colmano il vuoto che sarà rimpiazzato soltanto da Molière alcuni decenni dopo, presentano il loro modo di fare commedia. Si pone anche il problema della comunicazione. Com’è possibile ovviare a questo limite strutturale? Di base gli spettacoli della commedia dell’arte hanno una sceneggiatura ridotta all’osso, il cosiddetto canovaccio, una sintesi di ciò che accade all’interno di una scena, sintesi che lascia ampio spazio alle improvvisazioni degli attori, che però non ne approfittano per lanciarsi poi in un flusso di parole ma per trovare nuove strategie comunicative che possano essere un’alternativa alla parola, quindi la mimica e la gestualità. Per favorire la comprensione della storia ci si affida a personaggi facilmente riconoscibili, ovvero i cosiddetti tipi fissi, nei casi della commedia dell’arte sono delle maschere, e i tipi fissi sono riconoscibili innanzitutto dai costumi, da alcuni attributi (es. Il bastone) e presentano una delle caratteristiche generali e particolari allo stesso tempo, è come se rappresentassero una categoria di persone. Gli italiani diventano un modello per il teatro comico. La farsa appartiene al teatro popolare, non religioso, che comincia a svilupparsi nel medioevo. La parola farce in francese significa sia farsa che farcia (il ripieno), il genere teatrale serviva a riempire qualcosa. Nel medioevo all’interno dei mystères tra un primo e secondo atto di una rappresentazione seria si metteva un intermezzo comico con la funzione di distrarre, divertire, alleggerire il pubblico. Quindi inizialmente la farsa serve a infarcire con un breve spettacolo comico un altro più importante di tipo serio. Questa farcitura più leggera piano piano si sviluppa, si estende e acquisisce una sua autonomia, diventando un sottogenere a sé appartenente al teatro comico di argomento non religioso. La farsa presenta alcuni elementi vicini alla commedia dell’arte ma si tratta di due cose distinte. Cos’hanno in comune? Il ricorso insistente alla gestualità che non è marcata come quella degli attori tragici, ma si concentra su alcuni motivi ricorrenti: calcio, schiaffo, bastonata… . Cos’hanno di diverso? I dialoghi sono più sviluppati rispetto a quelli della commedia dell’arte. Nei personaggi abbiamo sempre il ricorso alla tipizzazione ma senza maschere: la farce de maître Pathelin è una farsa medievale, 47 sull’aspetto giocoso e buffo dei personaggi e delle situazioni, talvolta si serve della parodia come strumento ma a differenza della satira non ha un intento morale. Nella commedia burlesca le scelte linguistiche svolgono un ruolo di primo piano: ci si diverte a combinare più registri, si usa un altro strumento del comico che è il pastiche, una sorta di parodia linguistica (si prende un modo di parlare e lo si deforma in chiave comica). Molière prenderà alcuni aspetti del burlesco per poi assimilarli alla sua idea di teatro e di commedia. Molière è molto interessato a questo spostamento dell’asse verso il personaggio: se la commedia d’intrigo privilegiava l’azione, nel burlesco l’asse viene spostato verso il personaggio che condensa la forza comica della pièce ed è uno spostamento che troveremo con lui dopo. I personaggi di Molière vengono spesso definiti dei tipi: c’è il dongiovanni, l’avaro, il misantropo, il malato immaginario… Molière dà innanzitutto importanza capitale al personaggio, matrice comico-burlesca, che condensa all’interno del tipo delle caratteristiche che lo rendono da una parte perfettamente riconoscibile, lo caratterizzano, ma dall’altra però questo tipo condensa delle caratteristiche universali. Nella commedia burlesca c’è un’altra cosa che Molière prenderà, ovvero il fatto che all’interno di un’opera esiste un personaggio comico principale, una figura che in un certo senso si oppone a tutti gli altri e questo lo vedremo nelle commedie dopo Tartuffe. Abbiamo i valletti, estremamente funzionali all’azione, molte volte i servi sono la voce della verità ed esprimono dei principi, delle verità coperte da un ideale di comportamento che comincia a svilupparsi all’epoca, quello dell’honnêteté, o rivelano alcuni aspetti dell’azione. Viene stipulato un codice comportamentale, quello dell’étiquette che segue dei parametri comportamentali nei gesti, nel vocabolario. Prende il riferimento al basso corporeo, ciò che è considerato un po’ degradante e lo reintegra con delle finalità estetiche più elevate. Come sappiamo che la commedia burlesca è stata così influente per Molière? Perché Molière ha effettivamente messo in scena di tutto, anche tragedie, testi di altri, e anche una commedia di un autore burlesco molto importante, Scarron. L’anno in cui Scarron negli anni 40 si afferma e comincia a rilanciare la commedia sono gli stessi anni in cui Molière fa i suoi esordi a teatro. Molière Come gran parte degli attori dell’epoca, Molière apparteneva alla borghesia, una borghesia piuttosto agiata perché suo padre era tappezziere del re. Il suo è un nome d’arte, in quanto il suo nome di battesimo è Jean-Baptiste Poquelin. Viene avviato a degli studi ed educato dai gesuiti, che sono tra quei pochi ordini religiosi a credere nella funzione educativa del teatro. Comincia a studiare diritto ma si rende conto che il teatro lo chiama, e fortuna vuole che lui incontri una famiglia di teatranti, la famiglia Béjart con la quale si crea un legame affettivo, e Molière sposerà una delle ultime figlie di questa famiglia. Nel '41 forma una compagnia, l’Illustre théâtre. Con questa troupe inizia a viaggiare per le province di Francia. Inizia come attore e successivamente comincia a scrivere qualcosa di suo. Facendo l’attore girovago ha vissuto il teatro in tutti i suoi aspetti, quindi scomodità, pregi e difetti, la versatilità di un attore di teatro in relazione a testi scritti da altri, appartenenti a vari generi. Molière, attraverso quest’esperienza impara a conoscere il pubblico e capisce cosa il pubblico vuole in termine di spettacoli da proporre e come adattare la recitazione al loro gusto. Questo ha fatto sì che lui scegliesse in maniera vincente il più delle volte gli argomenti e gli attori in grado di funzionare, e questo ha fatto sì che Molière sia ancora oggi l’unico autore del '600 veramente ripreso e reinterpretato a distanza di secoli. Molière parte da testi già appartenenti al patrimonio letterario, quindi propone commedie, tragedie e farse e 50 non esita a riprendere dei canovacci della commedia dell’arte. Molière fa quest’esperienza di 13 anni e decide poi di tornare a Parigi con la troupe in cui trova un contesto culturale che sta cambiando, i primi anni della monarchia di Luigi XIV, ovvero gli anni più brillanti, più gioiosi e sfarzosi e volti a creare un’inversione di tendenza. Il nuovo ordine autoritario che si impone vuole imbrigliare tutte le tendenze centrifughe che esprimono la sensibilità barocca, quindi Luigi XIV si impegna a dare solidità al classicismo che possa fare da supporto al suo progetto politico. Molière dialoga con il classicismo e lo rappresenta attraverso la commedia. Cos’ha il classicismo che può far comodo a Luigi XIV? Si fonda su dei valori distanti dal barocco, perché ciò a cui si aspira sono l’ordine, l’armonia, l’equilibrio, quindi valori verso i quali è necessario tendere nel suo progetto per raggiungere il benessere. Quindi la razionalità è il criterio alla base di una visione della vita e del mondo, che fa di tutto ciò che è deviante oggetto di recriminazione. Tutte queste cose vanno sublimate, incanalate. Questa visione del mondo (’60-80) rientra in parte in questo progetto politico e il barocco è una corrente parallela e sotterranea. Gli autori che aderiscono al classicismo non è detto che siano asserviti al potere, al re: alcuni autori pur inserendosi all’interno di questi canoni mostrano tutti i problemi e i disagi di perseguire questo culto dell’armonia, dell’equilibrio, ecc… Molière mette insieme una compagnia di cui piano piano diventa capocomico e quindi gestisce con cura attori, repertorio, e lo stesso Molière, appunto perché conosceva ciò che il pubblico voleva ha cercato di ottenere le ultime pièces prodotte da Corneille e da Racine. C’è una concorrenza spietata tra le differenti compagnie di teatro, e le sale teatrali sono l’Hotel de Bourgogne e l’Hotel de Marais, occupati stabilmente dalle compagnie di riferimento. Richelieu aveva fatto costruire una sala al Palais Royale ma non era ancora usata in quanto i lavori erano ancora in corso. Mazzarino fa costruire un teatro all’italiana e a partire dalla seconda metà del ‘600 si diffondono i teatri all’italiana. Le due sale si facevano molta concorrenza ma la compagnia di Bourgogne aveva un po’ più di successo. Pur essendo molto affermate le due compagnie c’è un punto di debolezza che Molière ha saputo individuare: queste due troupes erano piuttosto vecchie nella loro scelta del repertorio, infatti era piuttosto tragico ed era come se la commedia non fosse tanto praticata e seguita a Parigi. Molière nota questa cosa e cerca poi di colmare questo vuoto, infatti quando presenta la sua prima pièce “Les précieuses ridicules” nel 1659, vediamo che le altre compagnie reagiscono cercando di battere questa concorrenza. In realtà i più forti a teatro e soprattutto nel teatro comico erano gli italiani, una vera potenza del periodo. Con Caterina de’ Medici erano stati introdotti maggiormente all’interno dello scenario parigino integrando quest’attenzione per la commedia che non era stata presente. Gli autori comici francesi in realtà prendevano molto dalla commedia degli italiani. A differenza dei comici francesi che recitavano con il volto cosparso di bianco, gli attori della commedia dell’arte recitavano con le maschere. Molière attinge a questa cosa e adotta la maschera all’italiana. Un’altra cosa importante è il fatto che gli italiani avevano una sorta di libertà nella scelta degli argomenti e delle tematiche da rappresentare in scena. Avevano anche la concessione di rappresentare le opere religiose. Quali erano i tipi di commedia maggiormente praticati prima di Molière? - La commedia d’intrigo  retaggio dei decenni precedenti - La commedia burlesca - La commedia dell’arte - La commedia sostenuta  un po’ più erudita, che però è meno praticata rispetto agli altri generi. 51 La farsa invece ha una grande tradizione in Francia, ma per qualche decennio questa tradizione si perde e c’è la tendenza a creare una nuova idea di buon gusto che fa sì che la farsa fosse associata a volgarità, bassezza, a una serie di elementi disprezzati e considerati criticabili moralmente. E infatti, quando Molière comincia a presentare le sue pièces, gli viene chiesto di riproporre la farsa. Abbiamo degli schieramenti: un pubblico colto che conosce un po’ la storia del teatro e rimprovera il fatto che Molière voleva riportare un genere in disuso e inferiore; un altro aspetto del pubblico trasversale che vede in Molière qualcosa di nuovo e che non si era visto in passato. Ciò significa che alcuni strumenti della farsa erano caduti in disuso, e Molière inserisce questi elementi all’interno della sua commedia. Perché inserisce la farsa? Si pensa che i suoi anni di apprendistato in provincia lo abbiano messo in contatto con una realtà lontana dal centro parigino in cui la tradizione della farsa continuava ancora. Quali sono gli elementi che inserisce? Una componente di fisicità sicuramente, che prende anche dalla commedia dell’arte, quindi la gestualità, dei corpi espressivi; poi alcuni motivi come il ribaltamento dei ruoli. L’innovazione sta nel coniugare elementi farseschi a tematiche importanti, applica il comico ad argomenti seri e complessi. Mette in discussione lo stesso valore dell’honêtteté, mostrandone attraverso la risata le contraddizioni. Dalla farsa prende anche il comico delle situazioni e della ripetizione. Prende spunto dall’attualità ma anche da opere antiche, come per esempio un testo di Plauto “Aulularia”. È un teatro che propone anche degli insegnamenti, dunque da questo punto di vista Molière può essere considerato un autore classico che insegna. Molière è caratterizzato da un senso dell’equilibrio e di misura, si parla dell’autore come colui che diffonde la morale del “juste milieu”, dunque del giusto mezzo, ricerca dell’equilibrio fatta nella tolleranza, e spesso si oppongono i vecchi contro i giovani: i primi rappresentano valori oramai obsoleti, un sistema di prerogative che i giovani mettono in discussione e Molière fa sempre il tifo per questi ultimi. Quando sceglie dei personaggi, parliamo degli imaginaires, ossessionati maniacalmente da un’idea, e ci fa riflettere sulle contraddizioni che si trovano al di fuori di noi e che risiedono all’interno di noi stessi. Molière rivela quel rapporto di superiorità che fino a quel momento si era diffuso tra personaggi e pubblico, quindi il pubblico partecipa immedesimandosi alla scena e non si sente più superiore. Lo stile Le commedie di Molière sono scritte in versi, accuratissime, si vede che sono accurati i suoi testi ma c’è anche quell’ambiguità che li rende molto versatili e si codifica come genere a sé. Sempre per quanto riguarda il contributo di Molière, vediamo che modifica il rapporto tra spettatore e spettacolo, ha l’abilità di rientrare all’interno di una visione del mondo che tende verso l’armonia ma lo fa combinando diversi modelli e generi, ma anche diversi stili e questa cosa è ciò che veramente il classicismo detesta, quindi è un classicista con le sue particolarità e originalità. Ovviamente l’impatto che ha avuto ha modificato il modo di fare commedia nei suoi contemporanei, poiché essendo stato attore e capocomico ha dato degli orientamenti di regia molto incisivi e non voleva che i suoi attori recitassero in maniera artificiosa, come facevano invece precedentemente. A partire dal successo di Molière, gli attori cominciano a recitare in maniera più naturale. Molière ha inventato la commedia-balletto, che nasce da diverse committenze, perché Luigi XIV per allietare i suoi ospiti chiedeva a 52 Lettura dell’atto primo Gli anziani rappresentano dei valori vecchi messi in discussione dai giovani, dal verso 7 Molière ci descrivere la quotidianità attraverso gli occhi di Madame Pernelle. Quest’ultima vuole andar via perché non vuole vedere il comportamento di chi non vuole in alcun modo compiacerla. Si riferisce alla casa del figlio e della nuora, dove tutti parlano su tutti, paragona la casa alla corte di re Pétaud, una fortezza di straccioni. Dorine, serva della figlia di Orgon, viene ripresa da Mme Pernelle ma Damis, figlio di Orgon, interviene per difenderla. Damis rappresenta la gioventù e l’equilibrio. Mme Pernelle critica aspramente tutti i personaggi, sentendosi in dovere di riprenderli. Mariane, sorella di Damis, interviene per difendere il fratello, Mme Pernelle la accusa di essere una finta santa, che sotto sotto è peggio di Damis. Mariane è il personaggio più tormentato dell’opera. Elmire, matrigna dei ragazzi, cerca di intervenire ma anche lei non viene risparmiata dai giudizi di Mme Pernelle, la quale sottolinea che la madre biologica dei ragazzi avrebbe fatto un lavoro migliore. La accusa di essere una spendacciona che pensa soltanto all’apparenza e a farsi vedere dagli altri. Man mano che la storia va avanti, il lessico cambia e l’autore utilizza un linguaggio religioso per contesti diversi da quello ordinario. Ad esempio al verso 41 del primo atto, Damis provoca Mme Pernelle lanciando critiche velate a Tartuffe. La donna difende il devoto ma Damis non accetta che questo falso devoto pensi di avere del potere nella casa. Cléante, fratello di Elmire, contribuisce a proporre una morale pratica. Nella scena 4 abbiamo lo scambio tra Orgon e Dorine in cui parlano di Tartuffe. Orgon ritorna a casa e chiede notizie della moglie Elmire. Orgon è talmente ossessionato da Tartuffe che si dimentica ciò che succede intorno a lui. Dorine gli comunica che la moglie ha avuto una febbre forte, il marito però chiede notizie di Tartuffe piuttosto che preoccuparsi della moglie. Dorine continua a raccontare dei problemi della moglie mentre Orgon sembra interessato solo a Tartuffe. Infatti Dorine, rendendosi conto di ciò gli descrive per filo e per segno ciò che ha fatto Tartuffe. Molière fa sì che i servi abbiano ruoli fondamentali, soprattutto Dorine. Lei è dotata di sapere pratico ed esperienza. Dice le cose come stanno. Quando Tartuffe compare nel terzo atto dice a Dorine di coprirsi la scollatura e lei risponde subito dicendogli che lui dovrebbe mantenere un certo contegno. Nella scena quinta dell’atto primo abbiamo il personaggio di Tartuffe dagli occhi di Orgon. Cléante gli fa capire che Orgon si sta facendo talmente prendere da questo Tartuffe e dal suo fascino che non capisce veramente come stanno le cose. Tartuffe, da come si evince dal racconto, si trovava in una condizione miserabile e Orgon decide comunque di far sì che diventi il maître della casa. Orgon decide di portarlo in casa perché, come vediamo nella triade v.270, ne elogia il carattere e le sue virtù. Qui si inizia ad usare un lessico religioso che attraverso la bocca di Orgon è espressione del bigottismo maniacale, dei segnali di un intervento divino laddove non ci sono. Vede questa religiosità in Tartuffe. Dice a Orgon che conoscere Tartuffe fa sì che ci sia una sorta di estasi mistica in chi lo conosce. Orgon vede in Tartuffe un santo. Orgon lo porta in casa perché vede in lui una guida spirituale in grado di salvare la propria anima. Dunque mentre all’inizio si evince un Orgon che è come se salvasse tartuffe dalla miseria facendogli la carità poi vediamo in realtà il suo vero scopo (avere come guadagno la salvezza dell’anima). Orgon dice che Tartuffe è cosciente della precarietà delle cose, vedremo in seguito che non sarà così. Orgon dice che grazie a lui e ai suoi insegnamenti si sente un uomo nuovo. Cléante fa dell’ironia e sottolinea che forse c’è dell’amore tra di loro. 2 maggio 2022 55 Scena V atto I: Abbiamo il dialogo tra Orgon e Cléante che cerca di aprire gli occhi a suo cognato sulla figura di Tartuffe, ipocrita. Orgon crede che sia un uomo perfetto ma in realtà egli sta approfittando della gentilezza degli altri. Tartuffe non è ancora arrivato in scena, lo conosciamo attraverso gli occhi di chi parla di lui. La prima battuta della scena vede Cléante che cerca di far capire a Orgon quanto lui sia incantato dalla figura di Tartuffe non dando importanza agli altri. Egli ha una vera e propria fissazione nei confronti di Tartuffe. Attraverso i personaggi di Cléante e Orgon vediamo l’ideale di honnête homme con Cléante ma anche il tema del ridicolo rappresentato da Orgon; il ridicolo viene gettato su di lui. Molière scopre quanto abbia valore per la comicità la disgrazia. Molière dice che la natura umana è difettosa e aggiunge che la commedia ha il senso di farci riflettere sui nostri difetti per poterli correggere. Dunque, Molière ha l’idea che ci sono tipologie umane che presentano dei difetti, e nel caso di Orgon è l’ossessione per la salvezza divina. Molière prende questo dettaglio, lo ingrandisce e lo restringe facendolo interagire con altri personaggi. Per il momento il ridicolo è Orgon fino al IV atto, poi l’asse verrà spostato verso Tartuffe. Cléante cerca di aprire gli occhi a Orgon: troviamo infatti molto lessico relativo aglio occhi e dal vv.218 in poi abbiamo il monologo in cui viene detto che per Orgon chiunque sia libero è libertino ma in realtà non è così. Per Cléante non c’è cosa più bella di vedere chi crede davvero, mentre Tartuffe usa la religione per i suoi fini, infatti incarna l’ipocrisia e la mette in azione: sr ricordiamo la prima stesura del Tartuffe, quest’ultimo veniva presentato come un ecclesiastico, ma successivamente (dopo alcune lamentele) Molière cambia la sua figura. In questo monologo abbiamo una sorta di visione bigotta della religione, un modo di comportarsi un po’ fasullo che l’alta borghesia mette in atto per farsi accettare dalla società, dunque Orgon va alla ricerca di un falso ideale. vv.324 «le ciel voit mon cœur», ancora un riferimento alla religione. Nell’ultima parte del monologo, Cléante parla anche del giusto mezzo, ovvero vivere una vita equilibrata e non esagerata: anche per questo Cléante è esempio dell’honnête homme. Per Cléante bisogna vedere le cose per come sono al di là delle apparenze (riferimento alla gestualità di Tartuffe che con tanti gesti “seduceva” Orgon in chiesa). Nella seconda parte abbiamo una serie di termini contrari. Vv.332,334 sono degli esempi. Abbiamo anche un riferimento agli occhi, quelli di Orgon, che non riescono a vedere le cose così come sono, vv.298 in cui elogia il fatto che Tartuffe desse i suoi doni ai poveri. Le rappresentazioni della religione nell’opera saranno quelle che provocheranno problemi. Nel personaggio di Cléante abbiamo una religiosità che viene percepita con un’eccessiva parsimonia. Questo personaggio è un po’ la voce della ragione, condanna tante azioni del quotidiano. In molti casi distinguere tra vero e falso devoto è molto difficile, e in questi casi solo l’interiorità può aiutare, però è una questione che influisce sulle relazioni umane. Nella parte finale del dialogo si parla della differenza tra il ciarlatano e chi invece fa, agisce, chi non perde tempo a parlare di ciò che ha fatto ma fa del bene senza dirlo. vv.380, l’ultimo scambio riguardo il matrimonio: Cléante si rende conto che Orgon vuole un altro sposo per sua figlia e non Valère. Scena II atto III: Ci viene mostrata la caratteristica principale di Tartuffe, la sua ipocrisia che si mostra nel notare la scollatura di Dorine. In questa scena egli si smaschera da sola, e prova a sedurre Elmire, donna dell’uomo che lo ospita. Orgon vuole far sposare la figlia Marianne con Tartuffe, ma la conversazione finisce per prendere 56 un’altra strada perché lui confessa la sua infatuazione per Elmire usando parole bibliche. Le tocca il ginocchio, si avvicina a lei con la sedia, ha quasi l’aspetto di una commedia. Le parole di Tartuffe sono ambigue e sembrano unire elegia (nostalgia e impossibilità dell’amore) e galanteria tipica del ‘600, che vede nella seduzione una vera e propria arte e la donna deve essere elogiata ed elevata. Ciò che lui vuole ottenere da questa donna è solo un’esperienza fisica. Ci riferiamo ai versi da vv.933 in poi. Giustifica questo suo desiderio dicendo che la sua bellezza è solo espressione del creato, con la quale manifesta la sua perfezione. Al vv.972 troviamo ciò. Al vv.953 egli, con una sorta di confessione, dona il suo cuore alla donna. Vv.943- 948 egli costruisce la sua confessione e si mostra anche combattuto perché pensa sia una tentazione del diavolo. Vv.949 e 955, il “mais” avversativo. Vv.968 e 970, Tartuffe confessa di non essere mica un angelo, l’essere devoto non lo rende meno uomo, resta legato alla fisicità. In questa scena si comprende meglio il punto di vista della donna. Che Tartuffe abbia un debole per Elmire lo diceva già Dorine, ma Orgon non comprende. L’argomento della conversazione dovrebbe essere il matrimonio tra Marianne e Tartuffe, e nonostante Elmire non sia la madre effettiva è molto determinata ad opporsi a questo matrimonio, perché sa che Tartuffe non è come si mostra. Vv.892 Tartuffe dice addirittura di voler dare la sua salute per quella della donna. Ai vv.1000-1002 Elmire cerca di far comprendere a Tartuffe che è sbagliato comportarsi in questo modo con una donna sposata. I due si rendono conto che la conversazione è origliata da Damis. Vv.962 e 1001 ci mostrano la capacità di Elmire di non voler rivelare nulla al marito, ma in realtà vuole solamente ordire un piano ai danni di Tartuffe in modo che Orgon possa capire davvero di chi si tratta. Vv.1012 abbiamo ancora una volta la giustificazione di Tartuffe “un uomo è fatto di carne”. Elmire è una donna che subisce dei tentativi di seduzione e contribuisce allo smascheramento dell’impostore. Esprime una morale pratica, sa cos’è giusto e cos’è sbagliato. La figura della donna svolge un ruolo importante perché Molière recupera molti motivi del teatro tradizionale, come l’idea del tradimento che viene depistato che ha un luogo comune, ovvero la farsa. C’è spesso il triangolo moglie-marito- amante, e spesso il marito non sa e la moglie e l’amante sono coalizzati, ma qui il motivo viene ribaltato. All’amante che si nasconde, tipica scena del teatro medievale, si sostituisce qui il marito che deve nascondersi: abbiamo quindi un ribaltamento del motivo che comporta dunque un capovolgimento dei ruoli e una rimessa in discussione dei ruoli tradizionali della farsa. C’è un altro elemento tipico della farsa: il diffidente che non viene creduto. Ricordiamo la fine del V atto in cui Madame Pernelle non crede al figlio, anzi, in maniera ossessiva dice che l’invidia fa brutti scherzi riprendendo lo stesso motivo di Orgon che quando sa da Dorine che la moglie sta male continua a chiedere solo di Tartuffe. Dorine, che è la voce della verità, dice “tu che non credevi a tuo figlio ora non sei creduta”. Atto V: C’è la risoluzione, dunque Orgon si sente minacciato perché ha affidato a Tartuffe una cassetta che non è di sua proprietà ma che un suo amico, per scongiurare problemi, gli affida. Orgon confida alla persona sbagliata questa cosa e Tartuffe vuole alleggerirlo da questo peso proponendogli di tenerlo al posto suo. Orgon ha la coscienza sporca, è complice del crimine dell’amico e lo stesso Tartuffe che lo coinvolge lo toglie dallo scrupolo di coscienza. All’inizio del V atto abbiamo lo smascheramento di questi personaggi. Tartuffe che è screditato sembra vincere e Orgon che ha ritrovato la ragione sembra soccombere. Succede che pian piano si insidia un’idea di giustizia secondo l’ottica di Molière: vv.1640, Damis ritorna e vuole farsi 57 La narrazione è in medias res, ci troviamo in una situazione che ben presto subirà la rottura dell’equilibrio. Sappiamo che Chimène e Rodrigue si amano e che Don Sanche è pretendente di Chimène, la quale ha una preferenza per il primo ma affinché possa realizzare il suo sogno è necessaria l’approvazione del padre, in cui lei crede fermamente. Chimène è fiera di appartenere a una famiglia della quale lei condivide i valori ai quali intende dare continuità. A differenza di Marianne di Tartuffe, lei si fa portavoce della continuità della famiglia. E quindi, quando parla con Elvire che ha parlato con suo padre, Chimène muore dalla voglia di sapere cosa pensa il padre della situazione e sa al tempo stesso che non le è consentito esprimere la sua preferenza nei confronti di Rodrigue. Fin dalla prima scena vediamo una giovane che sente molto forte l’attaccamento al clan, la cerchia di relazioni affettive, di valori morali. Vediamo poi l’infanta, Doña, innamorata di Rodrigue e a conoscenza dell’amore tra lui e Chimène. Lei vorrebbe liberare questa passione, vorrebbe poter realizzare questo desiderio ma è consapevole che lui non la ama. Si inserisce un altro aspetto: Léonor le dice che per essere del suo rango alto non dovrebbe sperare di finire con un cavaliere. Anche questo aspetto è importante nel pensiero di Doña, che sente molto forte la ragione di stato, e anche lei prova ad aderire a questi valori collettivi. Elvire dice che Don Diègue approva Rodrigue perché suo padre era un cavaliere, dunque apprezza e dà valore al fatto che essi in primis dessero valore alla corona, ma Don Diègue viene interrotto dal fatto che il re ha convocato un consiglio al quale sono stati richiamati i suoi fedelissimi per prendere una decisione importante: bisogna nominare il precettore, l’educatore del principe, il futuro re. È una figura importantissima perché deve forgiare la personalità del futuro sovrano. Alla fine Don Diègue, padre di Rodrigue, viene scelto come precettore suscitando la gelosia di Don Gomes che prima era favorevole. I futuri consuoceri litigano per l’ambizione personale veicolata dal conte. Lui si sente scavalcato rispetto a Don Diègue, più anziano di lui e che provoca. All’uscita del palazzo reale Don Gomes provoca Don Diègue: quest’ultimo insiste su un elemento e dice che è vero che è più anziano, ma le sue gesta hanno costruito la sua “nomea” e la sua fama continua dopo di lui anche se ha smesso di operare. Successivamente il contr continua a provocare Don Diègue fino al momento in cui gli dà uno schiaffo, gesto considerato come un vero e proprio oltraggio alla persona. E come si risponde a uno schiaffo nel 600? E addirittura, come si risponde a uno schiaffo ambientato nel medioevo? Don Diègue non riesce neanche a brandire la sua spada dal momento che è molto anziano, quindi vorrebbe difendersi ma non puà. In una società in cui si è portati a farsi giustizia da soli lui non riesce, e vediamo nella SCENA V “Ô rage…” che Don Diègue è affranto, perché vede il suo essere uomo e un prode cavaliere infrangersi davanti all’offesa di Don Gomes. Parla della sua rabbia e della sua disperazione e dice “ho vissuto tanto solo per assistere a questa infamia?”, il braccio debole che non riesce a prendere la spada e che dunque non gli ha permesso di difendersi lo vede come una tragedia, come un qualcosa di veramente grave. Don Diègue comincia a pensare di non essere più degno di ricoprire l’incarico di precettore che gli è stato assegnato. Parla poi della sua spada, definendola “un inutile ornamento”, dicendo che non ha più la funzione di difesa. Questa tirade (pag.60) è costituita da una forte emotività veicolata da sentimenti che esprimono la perdita di controllo (vv.235 “la rabbia, la disperazione e la vecchiaia”) e questo trasporto è stilisticamente espresso da queste apostrofi e questi punti esclamativi che rompono il 60 ritmo nel verso e non indicano fluidità ma velocità dei sentimenti. Ci sono nella scena molte domande retoriche. Don Diègue si rivolge a se stesso, poi al suo braccio, al suo rivale e alla sua spada. La rabbia e la disperazione sono presenti ma abbiamo anche un condensato di tutti gli argomenti che verranno trattati nel resto della pièce. Riferimenti ad alcuni versi del testo: vv.237-242: comportano l’adesione a certi valori in cui Don Diègue non si rivede più a seguito dello schiaffo. Solo la vendetta può sanare una tale azione subita, infatti al vv.247-255 con “fer” si rivolge alla spada. Abbiamo individuato delle parole chiave. La gloria è il riconoscimento celebrativo di una persona che continua dopo la vita stessa. L’onore è il rispetto e la legittimazione da parte della collettività. L’onore è andare a guadagnarsi il rispetto, ma per farlo devo essere riconosciuto dagli altri e devo rispettare le leggi della mia comunità. Dal momento che Don Diègue non può vendicarsi in persona e direttamente, passa il testimone a qualcuno, e chi può vendicare quest’uomo se non chi biologicamente lo continua, dà continuità alla sua famiglia? Il figlio. Quindi Don Diègue va dal figlio e gli chiede di uccidere il suo tecnicamente futuro suocero. SCENA VI Abbiamo il dialogo tra i due, in cui il padre chiede a Rodrigue se ha il coraggio di farlo, e quest’ultimo risponde “soltanto uno come mio padre potrebbe dimostrare il contrario”, farebbe qualsiasi cosa per suo padre, e Don Diègue risponde “riconosco te per l’ardore e riconosco la nobile collera che portano in me degli ardori forti” e con una serie di imperativi incinta il figlio, in virtù del legame di sangue che li unisce, a praticare ciò che lui non può fare. Per continuità deve rispettare l’onore oltraggiato dal padre e la parola “honneur” appare immediatamente nella replica successiva di Don Diègue, che insiste molto sul fatto che l’offesa recata a se stesso è un’offesa recata anche al figlio. È molto incisivo nella richiesta, solo il coraggio può compensare ed eliminare l’oltraggio, dice al figlio “meurs ou tue”, morire o uccidere, non ci sono vie di mezzo. Don Diègue nell’ultima replica dice “chi è in grado di vivere da infame è indegno del giorno”, dunque indegno di vivere. Questo comporta che deve uccidere il suocero, e se rifiuta di farlo è considerato indegno. 6 maggio 2022 Il Cid e Corneille hanno delle caratteristiche diverse da quelle di Molière. Questa pièce mette in scena un sistema di valori che è diverso da quello rappresentato nella commedia di Molière. Ci siamo lasciati con l’incontro tra Rodrigue e suo padre, un incontro costituito dalla forte oppressione perché il padre chiede a suo figlio di vendicarlo. Suo figlio non può ignorarlo perché nonostante il suo passato glorioso (combattente glorioso) non può farsi giustizia da solo perché è troppo anziano. Ciò che viene messo in gioco è l’onore, un valore che caratterizza i membri di un certo rango sociale. Sono i cavalieri dunque in questo caso, ma i cavalieri uomini di spada sono i primi a definirsi attraverso l’uso delle armi ma che vediamo che l’onore è un qualcosa che riguarda solo coloro che appartengono a una fascia elevata della società. le persone di valore si riconoscono e vengono considerate tali dagli altri. Dunque il valore, per quanto intrinseco in una persona, si esercita attraverso l’azione, che viene fatta rispetto agli altri. Il valore di Don Diègue è riconosciuto dal fatto che il suo essere cavaliere viene esercitato per il re e anche per la collettività. Il padre dunque chiede vendetta come strumento per ripristinare una giustizia lesa, ma c’è un problema: colui che ha offeso è il padre della donna amata da Rodrigue e dunque si tratta di una scelta di cui il padre comprende la drammaticità. Egli è un uomo d’onore ma non è insensibile, anzi, tutti i personaggi di Corneille sono 61 mossi da una forte sensibilità. Le leggi dell’individuo si confrontano con le leggi della società ma pur cosciente di questa cosa l’onore prevale, onore che come abbiamo visto si riflette da un punto di vista macroscopico e microscopico. Il figlio è tenuto a praticare quella vendetta che il padre non riesce a svolgere e dunque è una continuità di sangue dovuta alla legge del clan che vediamo simbolicamente anche nel passaggio della spada. Rodrigue, in quanto giovane, non si è mai distinto per particolari doti o gesta. Il figlio non può esprimere la sua riluttanza e il dubbio nella scelta da compiere, e quando resta da solo può liberarsi in uno sfogo attraverso cui esprime il suo dramma. Tutto il conflitto di Rodrigue ruota intorno alla “choix”. SCENA VII ATTO I Il monologo di Rodrigue già dal punto di vista stilistico è diviso in strofe, stanze, che dal punto di vista della forma e per il loro raggruppamento si distinguono dalle scene precedenti. Qui il conflitto viene espresso attraverso una sorta di disordine temporaneo della struttura metrica regolare che avevamo in precedenza. Se guardiamo lo schema delle rime vediamo che lo schema metrico è ABBA CCDEDE; il disordine è motivo della pièce. Per quanto riguarda la misura dei versi notiamo che, a primo impatto, c’è un’irregolarità dei versi: abbiamo versi più lunghi e versi brevi che sono tra loro autonomi. Ogni verso è considerato nella sua lunghezza individuale, non sono tutti alessandrini ma c’è varietà. Pag 63… SCENA VII traduzione "Trafitto fino al fondo del cuore di un attacco imprevisto e allo stesso tempo morale. Sfortunato dittatore di un giusto conflitto e sfortunato oggetto di un rigore forte. Resto immobile e la mia anima abbattuta cede al colpo che mi uccide. Così vicino al vedere la mia passione amorosa ricompensata. O dio v300 étrange ha un significato diverso rispetto a oggi DEFINIZIONE : Ce qui est surprenant, rare,extraordinaire Etrange qua è importante perché caratterizza i personaggi e la pièce. In questo fronte mio padre è l’offeso e colui che ha offeso è il padre di Chimène”. vv.303 “che conflitti forti contro il mio proprio onore, il mio amore prende parte. Bisogna vendicare il padre e perdere la “maîtresse”, una donna amata veramente in un’epoca in cui i matrimoni erano spesso combinati. “L’uno alimenta il mio coraggio, l’atro ritiene il mio braccio. Ridotto alla triste scelta di far contento mio padre o tradire la mia amata. Da una parte e dall’altra il mio male è infinito. O Dio che pena infinita. Bisogna punire il padre di Chimène?” 9 maggio 2022 Il testo teatrale come genere, subito dopo quello poetico, ha una densità notevole. In Molière c’è la comique du geste, anche in Corneille, ed è molto importante, perché accompagna le azioni ma anche quello che non viene raccontato. Il Cid scatena un putiferio quando viene rappresentato perché irrita un’élite culturale che vede in questa pièce qualcosa di sconveniente. II ATTO Vede come uno dei momenti forti il duello, che è preceduto da un dialogo tra don Arias e il conte. Questo dialogo è importante perché fa emergere la superbia del conte, il suo valore militare che esprime anche una certa prepotenza, che poi come sappiamo verrà punita perché il giovane Rodrigue, che non ha mai veramente combattuto, dà 62 d’azione. Quest’abbondanza di azioni incide anche sul criterio della verosimiglianza perché è poco credibile che accada così tanto in così poco tempo. Anche il criterio della bienséance non è rispettato perché ci si chiede come sia possibile che una donna sposi l’assassino di suo padre. È stato criticato il fatto che il re fosse una figura marginale e poco decisa: all’interno dello schema dei personaggi in cui gli eroi sono i portatori della viralità, il re ha un ruolo marginale. In realtà, interviene in momenti strategici facendo da collante e andando incontro a certe condizioni dei sudditi e portandoli verso un riconoscimento dello Stato. Gli sono stati criticati anche i duelli perché non vengono mostrati e soprattutto la figura di Rodrigue mostra la liberazione rispetto questo tipo di valori che vedono negli uomini la passione per la giustizia. Tutti sembrano imprigionati dall’appartenenza al clan e dalla volontà di essere ricordati come gloriosi, ma alla fine nonostante Rodrigue e Chimène siano combattuti riescono ad emanciparsi grazie al valore della scelta. Corneille ha vissuto a Rouen, importante per l’editoria, uno dei pochi centri in cui il teatro era usato come strumento pedagogico dai gesuiti, e per questi ultimi la scelta è fondamentale. C’è un dibattito nel corso del ‘600 sul concetto della grazia e della salvezza dell’anima e per i gesuiti questa salvezza si può avere attraverso la scelta. Per questo Corneille insiste sulla scelta e sull’azione che poi segue. 10 maggio 2022 Sintesi in lingua su Corneille Quand on parle de Corneille on parle du premier grand dramaturge. Sa grande œuvre est une tragicomédie qui a avait un succès très grand pour l’époque. Le Cid est la première grande pièce du théâtre qui est devenue à la mode et qui a alimenté un débat populaire. Le théâtre est une forme expressive capable de créer un public national. Les grands thèmes du Cid sont : la valeur, l’amour, la tradition sociale et culturelle qui existaient à l’époque où se déroule l’action, la valeur de la famille et le respect, l’honneur, la vengeance qui peut réparer une offense subie. Tous les protagonistes sont poussés par des sensations très forts, il y a un dynamisme qui s’exprime avec l’action et avec un conflit intérieur. Il y aussi le fait que la vengeance est le moteur à partir duquel on a commis des crimes. Le premier crime est le meurtre, on assiste à l’assassinat d’une personne. C’est un sentiment cruel de vengeance qui met entre parenthèses aussi les sentiments. On a vu qu’à la fin il y a des sentiments qui permettent de récupérer l’équilibre. Pendent toute l’année 1637 il y a une polémique, une bataille politique qui implique et intéresse Richelieu un premier lieu. La querelle du Cid À partir de janvier ’37, le public réagit à la pièce de manière enthousiaste. Cette réaction publique a des conséquences : alimente une sorte de confiance en Corneille, il pense d’être un grand poète dramatique. Richelieu aimait le théâtre et il voulait être écrivain, il encourage le théâtre parce qu’il voulait il même écrire des pièces de théâtre mais il n’avait pas ce grand talent de dramaturge. Pour cette raison il forme en 1635 un cycle d’auteur de 5 auteurs différents. Parmi ces 5 auteurs il y avait Corneille. 5 acteurs 5 actes, chaque auteur devait écrire un acte à partir des canevas de Richelieu. La comédie était appelée « Comédie des Tuileries ». Juste avant le succès du Cid corneille sort de cette compagnie et il devient célèbre et un 65 grand auteur. Richelieu n’est pas heureux donc il le voit avec des yeux critiques. Il y a aussi Jean Mairet et Georges de Scudéry qui le critiquaient, et ils lui adressent des textes critiques. Corneille s’éloge dans un texte et ça énerve les autres. Corneille permette à la compagnie de Marais de présenter le Cid, et il veut que tout le monde y assistât, mais successivement il veut que toutes les compagnies présentassent son œuvre et il fait un geste qui est considéré outrecuidant. Jean Mairet écrit « L’auteur du vrai Cid espagnol à son traducteur français », il y a une accusation de plagiat, on accuse Corneille d’avoir copié à partir d’un auteur espagnol qui s’appelle Guillén de Castro, celui qui a inventé le personnage de Rodrigue « Les Enfances du Cid ». Le Cid est un personnage qui fait partie de l’histoire médiévale espagnole. Corneille s’inspire de cette pièce pour reprendre son Cid. Jean Mairet accuse Corneille d’avoir simplement traduit l’œuvre de de Castro et il pose le problème des sources. Corneille dit que l’histoire est de Castro et qu’il a imité. Après la publication du Cid il dira qu’il s’est inspiré. Pour l’époque est un problème parce que on ne pouvait pas s’inspirer des œuvres contemporaines, seulement des œuvres antiques. Donc il était défendu de s’inspirer aux œuvres contemporaines. Le texte de Scudéry « Observations sur le Cid » veut être un texte érudit, il fait un geste important : pour polémiser et démontrer que la pièce est pleine de crudités il applique les unités d’Aristote à la pièce de Corneille et il critique le fait que Corneille n’utilise pas les trois règles, il se force et donc il est forcé. Il y a des actions secondaires qui ne convergent pas dans l’action principale et il y a plusieurs lieus. A partir de ce moment-là, la poétique d’Aristote devient le model à partir duquel les auteurs se confrontent. Scudéry demande à l’Académie française de faire un procès contre le Cid. Si l’auteur accepte, alors on peut analyser la pièce, il y a deux groups : un groupe analyse l’ensemble de la pièce et un autre groupe va dans les détails et à la fin le verdict est défavorable. - Il est pris du moyen âge, ne pas de l’antiquité - L’histoire est mal construite - Il y a beaucoup d’actions inutiles - La bienséance manque en beaucoup de parties - La tragédie devait avoir des langages enlevés - On condamne la naïveté des passions - Un théâtre qui ne diffuse pas la tempérance et l’équilibre, Corneille ne devait pas alimenter les passions qui sont poussées par le choix et ne pas par l’État Corneille alla fine risente molto di tutta questa polemica e nonostante il fatto che volesse tenere la sua immagine di autore invidiato, non scrive per tre anni. Dopo questi tre anni scrive la tragedia di “Horace”. Dopo questa querelle du Cid, Corneille è quasi ossessionato dalla teoria: la produzione libera dei primi anni è stata rimpiazzata e imbrigliata, e Corneille che era schiavo del successo si lascia sempre di più condizionare dal demone della teoria che corrisponde con la poetica di Aristotele. Vediamo che le sue tragedie risentono di questa tendenza allo schematismo e all’epurazione. Nel 1660 pubblica l’ultima versione del Cid, accompagnata da testi che riflettono tutto il percorso che ha fatto e il confronto costante con la teoria. Questi testi sono “Trois discours sur le théâtre”, e soprattutto dall’ “Examen du Cid”. Sono rimaneggiamenti che risentono sia delle correzioni microlinguistiche sia dei rimaneggiamenti strutturali: le prime scene del primo atto cambiano ordine e numerazione, vengono attenuate delle passioni e viene rafforzata la fiducia nello Stato. Jean Racine 66 Con Phèdre andiamo avanti nel secolo, pièce datata 1677, Luigi XIV con il suo regno molto più solido nei valori, il classicismo si è affermato come pensiero e visione dominante che vede in valori come ordine, equilibrio e armonia dei principi fondamentali, e il teatro diventa veicolo per discutere di questi valori. Phèdre si presenta sin dall’inizio come una tragedia classica innanzitutto per la scelta del soggetto che attinge alla letteratura antica greca e poi latina. Le fonti di Racine sono la tragedia di Euripide intitolata “Ippolito” figliastro di Phèdre, e “Fedra” di Seneca. A partire da questi modelli Racine inserisce altre fonti combinandole in maniera personale e poi adotta altre scelte che esprimono quella che era la visione del teatro antico secondo i valori del 1600. Nella prefazione esplica la sua fonte, Euripide, ma subito si smarca “benché abbia seguito una strada un po’ diversa per la condotta dell’azione”, si è preso quindi qualche libertà rispetto alla trama. “non ho perso l’occasione di arricchire la mia pièce con tutto ciò che mi è parso eclatante della sua”. “A partire dal personaggio di Euripide ho messo ciò che più ragionevole nel teatro”. Sceglie Phèdre perché pensa che abbia delle caratteristiche che la rendano attuale. “Phèdre ha avuto successo perché ha tutte le caratteristiche che Aristotele vede in un eroe della tragedia”: Aristotele dice che l’obiettivo della tragedia è quello di realizzare una catarsi all’interno dello spettatore, una purificazione interiore. Significa che attraverso la tragedia e grazie all’identificazione vivo un’esperienza che agisce dentro di me contribuendo a elevarmi, raggiungo un livello superiore di consapevolezza spirituale. Affinché la catarsi possa avere luogo, questa identificazione deve essere intrisa di due sentimenti: la compassione e il terrore. Compassione, io soffro con, cum patio, vedo una storia all’interno della quale vedo una parte delle mie sofferenze a cui partecipo emotivamente. Nella tragedia la sofferenza è spesso legata ad azioni deplorevoli, ci fanno soffrire perché urtano contro la morale e il senso comune. Cosa può far sì che io mi identifichi all’altro pur rimanendo me stesso? Il terrore. Se vedere un’opera mi fa partecipare e mi spaventa, con il terrore posso tornare indietro e capire di essere un’entità a parte perché non devo far coincidere me con l’altro. Motivo per cui Corneille è stato rimproverato perché ha esaltato eroi che praticano la vendetta e ha fatto sì che il popolo si identificasse perché non c’era abbastanza terrore. Racine sceglie in virtù dei precetti di Aristotele un personaggio che unisce bene i due sentimenti della compassione e del terrore. Perché? “Phèdre non è né completamente colpevole né completamente innocente”. Phèdre è la regina di Atene, sposa Thésée, il re, in seconde nozze perché Thésée era precedentemente unito con Antiope, regina delle Amazoni. Insieme generano Hippolyte, figliastro di Phèdre. I genitori di Phèdre sono Minos, re di Creta, e Pasiphaé, ed è sorella di Ariane. Pasiphaé viene appellata come colei che brilla per tutti, epiteto solitamente associato alla Luna. Pasiphaé catalizza intorno a sé le energie lunari legate alla notte, alle emozioni, a quelle passioni legate al femminile come l’acqua. Minos è figlio di Zeus e di Europa, per cui quando arriva a Creta vorrebbe ottenere l’approvazione dei cretesi. Poseidone manda a Minosse un magnifico toro bianco affinché il re lo sacrifichi in suo onore. Questo toro però è talmente bello che decide di non ucciderlo, infrange il patto e non onora il dio. Poseidone si vendica facendo in modo che Pasiphaé venga travolta da una passione incontenibile nei confronti di questo toro, che si presenta con la forma di una giovenca di legno costruita da Dedalo, e dall’unione dei due nasce il Minotauro. Questa creatura mostruosa viene rinchiusa all’interno di un labirinto costruito da Dedalo, arriva Teseo che grazie ad Arianna riesce ad entrare nel 67 dell’amore. In Euripide, Diana è un personaggio. Fedra si innamora di lui perché Ippolito è oggetto di una maledizione di Venere (Afrodite in greco) perché quest’ultima è gelosa della devozione che il giovane nutre nei confronti di Diana. - In Seneca viene meno quella dimensione di amore divino, e Ippolito resta un uomo solitario dotato di un’elevata statura morale. È anche un uomo consapevole del suo valore e quasi in modo sprezzante verso gli altri è disinteressato alle donne e all’amore. Questo è importante perché Racine fa cominciare la sua tragedia con Ippolito che dice al suo precettore di essersi innamorato della persona sbagliata. Racine introduce Aricia come donna amata da Ippolito modificando la psicologia del personaggio e anche tutto il sistema di relazioni. In Phèdre c’è un sistema di rimandi, un continuo gioco di specchi, per cui si creano delle reazioni a catena. Nella préface Racine parla del personaggio di Ippolito in Euripide, dicendo che la sua alta struttura morale faceva di lui un personaggio senza macchia, poi parla della pietà. È una parola chiave che ritroviamo molto nel testo: in francese per esprimere il termine pietà abbiamo due parole, che sono pitié e piété. La pitié ha il senso di partecipazione emotiva alle sofferenze altrui; la piété è legata alla sua accezione religiosa, all’amore per Dio. Racine quindi sposta l’asse dalla piété alla pitié, dall’amore religioso nei confronti di Diana all’amore “profano” che Ippolito prova nei confronti di Aricia e crea dunque un personaggio in cui il pubblico si può immedesimare. Ippolito è una persona molto consapevole del suo valore e questo sentimento lo fa vacillare. Da una parte lui si sente colpevole ma non perché è innamorato, ma perché si è innamorato dell’unica persona che ha subito una condanna da parte del padre: Teseo, per arrivare al trono, deve vincere una guerra contro una famiglia che vorrebbe salire al trono. Allora Teseo fa massacrare tutti i fratelli di Aricia, tutti i possibili pretendenti vengono uccisi, e affinché la discendenza non prosegua, proibisce ad Aricia di sposarsi quindi di poter fare figli. Questo è ciò che macchia Ippolito. Dall’altra parte verrà accusato ma Racine ci segnala il fatto che non smentisca questa accusa, è calunniato ma non vuole infangare l’onore di Phèdre. Il dialogo tra Ippolito e Théramène prepara il dialogo fra Phèdre ed Enone, sia da un punto di vista strutturale, dialogo in cui c’è un confidente che contribuisce a tirar fuori qualcosa che voleva essere represso, ed è speculare anche per la natura insana di questo sentimento. Non è speculare il modo in cui vengono gestiti i sentimenti, è come se Ippolito ci facesse capire in che modo si ama, preparandoci agli exploits di rabbia e gelosia di Phèdre, è lei che rappresenta il culmine dei disastri interiori ed esteriori che l’amore può provocare. Nella prima scena sappiamo che Teseo è partito, è via da sei mesi, Teseo è un seduttore avventuroso e avventuriero, e si vocifera che sia morto. Ippolito vuole cercare il padre. La pièce inizia con “le dessein”, la scelta ma anche il disegno nel senso di progetto. A differenza della choix di Corneille, non è legato a un’azione ma a un sistema di azioni finalizzate a uno scopo ultimo già nella mente di qualcuno. Ippolito è preoccupato e vuole partire, Théramène cerca di farlo ragionare, certo è una giusta preoccupazione, lui stesso è andato a cercarlo, “cosa pensate di ottenere questa volta rispetto agli altri?” e poi Théramène insinua il dubbio dicendo “ci vi dice che vostro padre non si sia intrattenuto con qualche donna?” e Ippolito, che vorrebbe proiettare un’immagine virtuosa sul padre, lo interrompe dicendo “non profanare questa immagine che ho di lui”. Termina al vv.26 70 decidendo di partire perché vuole realizzare il dovere di figlio e dall’altra fa capire che ha l’esigenza di lasciare Trézène. La vista in Phèdre è un senso fondamentale, veicolo privilegiato del sentimento amoroso. La frase lascia intuire che altri motivi lo spingono a partire e Théramène chiede spiegazioni: vv.34 Ippolito rievoca dei momenti felici che dovrebbero legarli a questi posti, e dice “quel tempo felice non è più”; “da quando Fedra è arrivata qui, in questo posto non posso più stare”. Perché è diventato insopportabile stare a Trézène? All’inizio della pièce Phèdre viene rappresentata come una donna cattiva ed estremamente ostile nei confronti di Ippolito, e Théramène conosce le sofferenze di Ippolito dicendo “Phèdre qui vi fa soffrire interiormente”, e ritorna il motivo della vista. Phèdre viene considerata come una matrigna pericolosa, che appena ha visto Ippolito fa di tutto per mandarlo in esilio. La motivazione ufficiale è che Ippolito può mettere in pericolo la successione al trono perché Phèdre avrà due figli con Teseo, e per eliminare eventuali rivendicazioni lo manda in esilio. Théramène dice che il suo odio nei suoi confronti o è svanito o si è allentato, pare che Phèdre si mostri meno ostile verso di lui e qui c’è un altro elemento importante: Phèdre si sarebbe addolcita, ma per quale motivo? All’inizio della pièce Phèdre viene rappresentata come una donna estremamente malata, quindi secondo Théramène dovrebbe essere più innocua. Vv.45 Théramène dice che Phèdre è affetta da un male che si ostina a tacere, tutti si sono resi conto che lei sta male ma si chiude in un mutismo. Capiamo che è una sofferenza che ha un qualcosa di visibile nonostante il voler celare questo stato. Nella réplique successiva Ippolito rivela che si è innamorato di Aricia. Nei vv.104-108-109, abbiamo la spiegazione del perché tutte le donne eccetto Aricia andassero bene e i motivi politici che hanno spinto Teseo a condannare la famiglia, e Théramène parla di questo amore come di una “flamme rebelle” al vv.117. Oltre al fatto che effettivamente amare quella donna significherebbe tradire il padre e il popolo, vedremo che Ippolito non vorrebbe amare questa donna perché quest’ultima stravolge l’immagine che lui aveva di sé. Questo sentimento destabilizza un uomo rigoroso e di alta levatura morale, e nell’atto II vediamo che questa stessa immagine di Ippolito viene riportata nel primo dialogo, quando Ismène, confidente di Aricia, parla con la donna. Nel frattempo nel primo atto arriva la notizia della morte di Teseo e parte la lotta per la successione al trono, e da Atene e a Trézène ci sono delle divisioni: c’è chi vorrebbe come successore uno dei figli di Phèdre e Teseo, come vorrebbe la legge perché sono sposati; c’è chi invece vorrebbe Ippolito, precedente figlio di Teseo, però Ippolito è figlio di un’amazzone, una straniera, quindi è sangue impuro; c’è un’altra fazione che vorrebbe il ritorno della stirpe di Aricia. Il secondo atto inizia con Ippolito che va da Aricia e vuole parlare con lei, la quale è molto stupita. Ismène ha il compito di fornire uno sguardo esterno che risulta più lucido e più perspicace rispetto ai personaggi che sono offuscati dalle emozioni e hanno il compito di fare da leva. Ismène, dice al vv.371 “preparatevi signora, decade il divieto di matrimonio, adesso verranno i potenziali spasimanti che temevano Teseo, Ippolito vuole qualcosa da voi”, Aricia vuole sminuire l’insinuazione di Ismène, dal vv.400 in poi definisce insensibile Ippolito, uomo altero, sdegnoso, e infatti parla al vv.402 “secondo te rispetta in me soltanto un sesso che sdegna?” anche lei mantiene l’immagine sociale di Ippolito come uomo disinteressato, quindi dice che è strano che Ippolito vada da lei con quello scopo considerando il fatto che di natura sia disinteressato alle donne. Ismène cerca di mostrarle le cose da un altro punto di vista dicendo di sapere della reputazione di cui gode Ippolito, delle cose che vengono ripetute su di lui, “e proprio questo Ippolito considerato superbo ha suscitato in me la curiosità”, come se volesse avere la certezza che sia realmente come lo descrivono. Vediamo al vv.410 in cui Ismène dice “sin dai vostri primi sguardi l’ho visto turbarsi, i suoi 71 occhi che invano volevano evitarvi già pieni di languore non potevano abbandonarvi”, come se Ippolito vedendo Aricia avesse provato nei suoi confronti un’attrazione che invano ha tentato di eludere. Racine fa innamorare Ippolito perché nel ‘600 un uomo vergine che si vanta della verginità è inverosimile, è una società che vuole serrare i ranghi ma legata alla mondanità. Che tipo di amore è quello che passa attraverso la vista? Attraverso lo sguardo, la passione entra dentro di noi e ci confonde, ci fa perdere i nostri riferimenti interiori e ci rende vulnerabili. Aricia effettivamente condivide la stima di cui gode Ippolito. Dal vv.415 in poi racconta la sua storia e parla della morte dei suoi sei fratelli, del fatto che sia stata bandita, e al vv.431 dice che è lacerata dalla sofferenza e teme che un trasporto da parte sua possa nuocere a se stessa e agli altri e ha quindi mantenuto un atteggiamento di allontanamento e sdegno, non si è interessata ad altri uomini, ed è consapevole del verdetto ingiusto della condanna che ha subito ma con il suo comportamento ha assecondato questa scelta, questo rigore assecondava il suo disprezzo nei confronti degli altri. Dice Aricia “i miei occhi, all’epoca, non avevano visto suo figlio, non l’avevo notato, non che soltanto attraverso gli occhi che si incantano vilmente, io amo in lui la sua bellezza e la sua grazia tanto elogiata, regali di cui la natura ha voluto onorarlo e che lui sembra ignorare”. Vv.441-43 ammette il suo amore, ancor prima di sentire Ippolito, ma si rende conto che è impossibile perché ha la fama di uomo integerrimo, lo considera inflessibile e insensibile. Nella scena seconda, Ippolito si presenta ed Aricia è convinta che lui la odia. Ippolito la mette a corrente delle dispute che ci sono in merito alla successione al trono e lui propone ad Aricia di farsi avanti. Aricia è disorientata da questa benevolenza, e a un certo punto dice al vv.509 che non crede a quello che sente e tema quasi che sia un sogno a occhi aperti e che la tragga in inganno. Mette nuovamente al centro la storia del conflitto e Ippolito non ne può più, vede un muro, come se lei da Teseo passasse al figlio, ma Ippolito vive diversamente il conflitto e non può fare altro che andare contro il padre, differente dal modo in cui Corneille invece rappresenta l’onore. Ippolito dice “io odiarvi, signora? Con tutti i colori con cui si è dipinta la mia fierezza, si crede che nei suoi fianchi mi abbia travolto un mostro”, dice di essere un uomo austero ma non è un mostro tale da scagliare il suo odio contro Aricia. Fa da specchio a Phèdre che si vede un mostro e si odia, prova a reprimersi, ma effettivamente compie gesti mostruosi calunniando questo ragazzo. Dice “quando ti ho visto mi sono addolcito”, vv.521, prende le distanze dai costumi selvaggi che hanno portato Teseo ad uccidere la sua famiglia. Vv.524, vv.560, in che modo Ippolito rappresenta i suoi sentimenti? Come diremmo si lancia, perché parla appunto di odio addolcito, parla di charme, e lei comincia a capire, e Ippolito dice di essersi spinto troppo oltre, che la violenza del sentimento ha offuscato la ragione, scardina le barriere razionali. Leggendo l’avue di Ippolito notiamo che la confessione amorosa è divisa in tappe: ogni tappa ha un argomento principale e c’è una concatenazione tra esse, che spesso va nell’ordine del climax, di una progressione crescente. Prima sequenza vv.524-528: sequenza introduttiva in cui rileviamo una spinta molto forte del sentimento che agisce violentemente sull’uomo, forzando le sue barriere razionali. Questa violenza ha la conseguenza di rompere il silenzio, e una volta aperta la crepa si spalanca la voragine “Je vois que la raison cède à la violence, puisque j’ai commencé de rompre le silence”. Un’altra espressione che ci fa capire che è un processo irreversibile è al vv.528 “D’un secret, que mon cœur ne peut plus renfermer”. 72 Le scene che seguono riguardano la storia parallela di Aricia e di Ippolito. Subito dopo il momento in cui Ippolito dichiara il suo amore ad Aricia, in maniera speculare c’è Phèdre che vuole vedere Ippolito. Scena V atto II: Ippolito vuole sempre partire, all’inizio per cercare il padre, poi arriva la notizia della sua morte, successivamente capisce che Phèdre prova per lui dei sentimenti e vuole ripartire di nuovo con il pretesto che circolano voci che Teseo sia ancora vivo quindi vuole andare a cercarlo. Quando Teseo torna, lui è nuovamente in partenza, questa volta per cercare il corpo della madre che è morta ma non si sa dove. Ippolito vorrebbe sempre allontanarsi da questo mondo in cui vigono le leggi della violenza, dell’orrore, dell’aggressività, ma è continuamente attirato lì. Quando finalmente può andare via in realtà cade su di lui la maledizione del padre e dunque morirà. Qual è la caratteristica della confessione di Phèdre a Ippolito? L’aveu di Phèdre a Ippolito si caratterizza per la sua ambiguità che si svela man mano. L’incontro tra i due avviene in un contesto in cui è stata annunciata la morte di Teseo: questo dovrebbe portare tutti allo sgomento, per Phèdre invece rappresenta un momento di liberazione perché con la morte del padre decade questo rapporto con il figlio, ed è Œnone che lo fa notare a Phèdre, e questo le consentirebbe di sperare di essere amata. Phèdre ignora che Ippolito è innamorato di Aricia. Inizialmente il discorso parte a proposito di Teseo, poi Phèdre orienta il discorso sottolineando quanto il figlio somigli al padre e quanto rappresenti una continuazione della vita del padre, per cui parla del padre dicendo che lo ama, che rivede lui in suo padre, dunque gli fa capire implicitamente che prova un sentimento nei suoi confronti. Mano a mano, questa sovrapposizione si apre verso una dichiarazione esplicita a conferma del fatto che lei non vorrebbe dire nulla ma alla fine non ce la fa più. E infatti, vv.627 si vocifera che Teseo sia andato nell’Acheronte e che non sia mai tornato, in realtà quando torna racconta com’è andata. Questi episodi che Racine riporta sono tratti dalle Vite Parallele di Plutarco, e ciò lo dice nella préface. Si parla dunque della morte di Teseo, e Phèdre dice “que dis- je? Il n’est point mort, puisqu’il respire en vous”, stabilisce una continuità dicendo che “non è morto in quanto respira in voi”, respira in Ippolito, è una visione perversa che sembra giustificare il fatto che lei ami il figliastro in quanto rivede in lui suo marito. Vv.631, Ippolito la vede come una dimostrazione d’amore nei confronti di Teseo. Vv.634 “Oui Prince, je languis, je brûle pour Thésée”, ma intende dire che muore di passione per Ippolito. Vv.639 “charmant, jeune, traînant tous les cœurs après soi, tel qu’on dépeint nos dieux, ou tel que je vous vois”, quindi Teseo viene rappresentato affascinante, giovane, un seduttore, allo stesso modo in cui vengono rappresentati gli dèi e allo stesso modo in cui Phèdre vede Ippolito. Opera piano piano una sovrapposizione tra le due persone. Racconta poi l’arrivo di Teseo a Creta, individuo talmente valido da attrarre i favori delle figlie di Minosse, quindi Phèdre si ricorda della sorella Arianna e di se stessa, e lei si chieda cosa Ippolito facesse all’epoca, si chiede perché Teseo non abbia portato Ippolito a Creta con sé e si risponde da sola dicendo che era troppo giovane. Continua la sovrapposizione dicendo che Ippolito avrebbe potuto sconfiggere il mostro al posto del padre, e si sovrappone ad Arianna dicendo “sarei stata io a darvi la chiave per entrare nel labirinto di Dedalo e per uccidere il mostro” vv.655. Diventa sempre più esplicita nei complimenti, ma cerca di mantenere un minimo contegno dando del “vous” a Ippolito, al vv.665-666, e lo mantiene perché Ippolito dopo questo confronto si è reso conto che Phèdre gli stesse confessando il suo amore e ciò lo dimostrano i vv.663-664 “Dieux! Qu’est-ce que j’entends? Madame, oubliez-vous que Thésée est mon père, et qu’il est votre époux?”. Successivamente, Ippolito ritorna nei ranghi, lei fa finta di nulla, ma lui si vergogna e decide di andarsene. Phèdre nega ma si rende conto di aver perso l’occasione di essere più esplicita, era in dubbio, non sapeva se dirglielo ma dal momento che aveva iniziato 75 non aveva più niente da perdere e quindi passa dal “vous” al “tu”, passaggio che nella cultura francese indica una grande vicinanza. E qui si scatena di tutto, perché abbiamo la convergenza di tutto un vocabolario del destino, dell’ineluttabilità, il lessico relativo alla passione amorosa che investe corpo, mente e spirito, lasciandoli nel delirio più totale, ed emerge anche il concetto di mostruosità. Phèdre vive la mostruosità della sua famiglia come una macchia che circola nel suo sangue, e quando si innamora di Ippolito sente ancor di più il peso. Phèdre scoppia: “mi hai fin troppo capito”, prova questo sentimento ma si odia per questo, e si sente una vile compiacente e vigliacca, ma allo stesso tempo è “un oggetto sfortunato della vendetta celeste”, si sente un pupazzo nelle mani di burattinai che si divertono ad orientare le sue azioni, ma dall’altro lato vorrebbe reagire ma non è in grado. Vv.690, la sofferenza, “j’ai langui, j’ai seché, dans les feux, dans les larmes”, figura retorica del parallelismo, perché si è “bagnata nel fuoco e asciugata nelle lacrime”, abbiamo ancora una volta il riferimento agli occhi. Dice poi ad Ippolito di vendicarsi, di ucciderla, e abbiamo una spada che non ha la stessa funzione che ha nel Cid, ma Phèdre la sfila a Ippolito dicendo “uccidimi tu o mi ucciderò io con la tua spada”, e per incitarlo a ucciderla dice “vendicati, puniscimi di un odioso amore, degno figlio di un eroe che ti ha dato la vita, libera l’universo da un mostro che ti irrita, la vedova di Teseo che osa amare Ippolito?”, lei si vede l’ultimo mostro di una maledizione che va di generazione in generazione. La spada verrà poi usata per accusare Ippolito di stupro ma non c’è una scena dedicata a quest’avvenimento, a quest’accusa, ma sappiamo che Teseo viene informato da Œnone. Il preziosismo – La préciosité Cos’è la préciosité? Non si può parlare di vero e proprio movimento, è sicuramente un fenomeno culturale e di costume che ha dato luogo anche a una corrente letteraria, un qualcosa di ampio che coinvolge la società ed è un fenomeno legato alla fondazione dell’Académie Française, il cui periodo di maggiore sviluppo si colloca nella prima metà del ‘600, anche se poi continua successivamente. Intorno al 1608 una nobildonna, la Marchesa di Rambouillet, decide di reagire contro quello che considerava un declino dei costumi, una certa licenza, i modi di fare e di pensare erano diventati più volgari. La sua considerazione era anche legata al periodo che lei stava vivendo, 1608 siamo ancora sotto il regno di Henri IV, che per quanto sia stato un buon sovrano, rappresentava tutta un’epoca di barbarie che la Francia si era lasciata alle spalle. Come vuole reagire? Propone dei nuovi modelli di socialità invitando persone a casa sua, nel suo “hôtel particulier”, equivalente di una villa di lusso, e queste persone sono di alto rango e spiccati intellettuali con l’intento di creare aggregazioni volte a dibattiti, a proporre idee, dunque vuole alzare il livello culturale della Francia in quel periodo. Abbiamo quindi i “salons”, luoghi privati piuttosto di spazi pubblici. All’inizio del ‘600 abbiamo quest’iniziativa della marchesa e piano piano questa pratica si solidifica grazie alla comédie française e anche grazie al radicarsi della lingua francese voluto da Richelieu. Il preziosismo quindi attraversa quest’epoca, ma un po’ come il realismo e il grottesco, il preziosismo attraversa tutte le epoche, appartiene quindi a diverse culture perché è internazionale. Il preziosismo c’è stato in tutte le epoche però diventa un fenomeno culturale maggiormente strutturato nel ‘600 in Francia. Ci sono delle influenze internazionali, soprattutto italiane e spagnole, ed è il manierismo ad avere dei punti in comune con il preziosismo. Quali sono le fasi di sviluppo del preziosismo in Francia? 76 - Prima fase: Marchesa di Rambouillet, intorno alla quale ruotano personalità di spicco come anche Richelieu, e tra gli scrittori abbiamo Vaugelas, Voiture. Questa prima fase di lancio si estende fino al 1630, periodo in cui Richelieu era molto attivo in ambito culturale - Seconda fase: fra il ’30 e il ’45 abbiamo il periodo di massimo sviluppo del preziosismo, e diventa Voiture il principale animatore di questi gruppi ai quali partecipano anche grandi signori. Potevano anche partecipare dei borghesi ma la partecipazione era principalmente di ambito aristocratico. - Terza fase: dopo il ’45 si assiste a un declino progressivo nonostante la presenza di due personalità molto importanti, quali Madame de Sévigné e Madame de Lafayette. I motivi per cui va in declino questa sensibilità preziosa sono molteplici, come i mutamenti di costume, i dissidi interni: madame de Rambouillet decide di ritirarsi a vita privata, e questa scelta diventerà un topos della letteratura del tempo, “la retraite”. È un motivo di frantumazione dei gruppi. Cosa si faceva nei “salons”? I salons prevedevano riunioni che erano una forma di intrattenimento: si suonava, si cantava, si facevano giochi di società, però l’attività più praticata e la più importante era la conversazione. Nel ‘600 la conversazione diventa un’arte di gestione della parola, che ha come principio caratterizzante “la bienséance”. Come si esercita l’arte della conversazione? Ci si vede, si parla, e colui o colei che sa gestire bene l’arte sa parlare di tutto, sa suscitare l’interesse dell’interlocutore, sa prendere la parola evitando protagonismi o evitando di urtare la sensibilità di chi sta di fronte, e consiste anche nella capacità di rilanciare la conversazione. Viene considerato un modo per stare al mondo, di saper vivere. Di cosa si parlava? Soprattutto di letteratura, ma anche di tematiche molto ampie come l’amore, l’amicizia, di lingua. A proposito della letteratura, era molto frequente che i membri scrivessero dei testi e li leggessero al pubblico. Si crea un vero e proprio codice sociale di comportamento, che dà vita al cosiddetto “Esprit précieux”, solitamente associato al femminile, quindi si parla di preziose. Da dove nasce questo appellativo? Le donne preziose sono coloro che “se tirent du prix commun des autres”, si sottraggono alla bassezza degli altri, per mostrarsi in tutto il loro valore. Le donne preziose sono donne che valgono di più rispetto a una società che vive nella mediocrità e nella banalità. Sono donne che vogliono distinguersi e che sanno distinguersi attraverso un particolare modo di comportarsi, di parlare, di pensare. Sono donne che vogliono elevarsi al di sopra di ciò che è volgare. Una istanza del genere può essere veicolata solo da donne aristocratiche che non erano oberate dai compiti e dalle responsabilità familiari e soprattutto avevano la disponibilità economica per potersi dedicare agli agi, ai divertimenti e all’intrattenimento della conversazione. Vediamo nel dettaglio cosa permette a queste donne di distinguersi dalle altre: - Il contegno dei modi, infatti si parla di “préciosité des manières” - L’eleganza nell’abbigliamento, anche il vestiario diventa un codice e un linguaggio capace di esprimere la personalità e l’appartenenza - La purezza del linguaggio Quindi con la préciosité des manières abbiamo da una parte la sobrietà, bisogna evitare gesti eclatanti e fuori luogo, e dall’altra ostentare l’eleganza dell’abbigliamento che, diversamente dai gesti, fa uso di piume, di profumi, guanti, merletti, pizzi, un abbigliamento stravagante. È un codice culturale molto mondano, che rassetta quasi l’artificiosità. Oltre alla préciosité des manières abbiamo anche la 77 Un altro genere importante è il romanzo d’avventura o eroico: la cornice non è mitologica ma è storica, che non ha la pretesa di veridicità. Anche qui si parla di romanzi fiume. Solitamente c’è una coppia di giovani innamorati sottoposti a una serie di prove che li portano a continui allontanamenti, riavvicinamenti, ostacoli, malintesi, guerre, scherzi del destino, le peripezie. Per esempio il romanzo “Clélia”, la cornice storica è romana. Un altro romanzo importante sempre di Mademoiselle de Scudéry è “Le Grand Cyrus”, e la cornice è persiana. Un altro genere, quello della “lettre badine ou éloquente”, ampiamente diffuso e praticato. Questo genere, solitamente associato a un tipo di scrittura privata, viene praticato come strumento per mostrare l’uso che si fa del linguaggio prezioso, sempre declinato nell’ottica delle relazioni: la lettera presuppone l’esistenza di un destinatario, solitamente identificabile. Oltre a offrire la possibilità di mettere in mostra questo gusto prezioso, è lo strumento attraverso il quale esercitare il “badinage”, diverso dal divertissement perché è una forma di distrazione, mentre il badinage è quasi puerile. Sono lettere che vengono lette in pubblico e l’autore fa sfoggio di queste abilità. Solitamente il comico all’interno del preziosismo viene considerato qualcosa di basso, e sarà inserito all’interno della corrente soprattutto da chi vuole mettere in risalto il carattere ridicolo della loro esagerazione. All’interno del preziosismo viene celebrata una forma di giocosità, di leggerezza del vivere che però vogliono nobilitare non utilizzando bassezze. Non c’è comico, ma c’è badinage, e questa leggerezza e questo volersi divertire, applicati alla lettera badine, sono una sorta di trasposizione per iscritto dell’arte della conversazione. Un autore di riferimento per questo genere è Voiture. Ultimo genere praticato in questo periodo è quello della poesia eroica e galante. Per poesia eroica si intende l’epopea, una poesia in grado di celebrare dei valori collettivi. Per quanto riguarda la poesia galante è interessante come in questo periodo si recuperino dei generi medievali che erano stati eclissati dalla fortuna che avevano avuto in epoca umanista il sonetto, l’ode, l’inno, e quindi abbiamo un ritorno dei rondeaux, delle ballate, dei madrigali e dei virelais. La Princesse de Clèves – Contesto e Caratteristiche È un romanzo del 1678, data importante perché c’è il declino della corrente preziosa. Infatti, la “Princesse de Clèves” non è completamente un’opera preziosa, ma l’autrice parte da una matrice preziosa, legata alla sua formazione personale, per poi superarla andando nella direzione del classicismo. Elementi biografici che possono aiutarci a capire meglio l’opera: Madame de Lafayette porta il cognome del marito, dunque legata alla figura di moglie, ma è un classico esempio di donna preziosa che vuole emanciparsi da questa posizione subordinata di donna moglie e che, grazie alle possibilità che ha ricevuto dalla nascita per l’appartenenza all’aristocrazia, partecipa a questa mobilitazione delle donne per un riscatto che parte dalla cultura. Il preziosismo parte dalle donne per questo motivo, ma si estende anche agli uomini perché all’interno delle cerchie aristocratiche si crea un nuovo movimento di consapevolezza legato all’ascesa della borghesia, momento in cui l’aristocrazia avverte di doversi distinguere e di non poterlo più fare mediante il denaro. Ci sono i borghesi che si arricchiscono mediante il lavoro ma si cominciano a creare delle prime avvisaglie di mobilità sociale: se prima l’appartenenza a un ceto superiore era legata a quanto possedevi, adesso rende veramente nobili la nobiltà d’animo. 80 Madame de Lafayette nasce in un ambiente aristocratico, è una donna privilegiata e vive il mondo dei salotti mondani. Beneficia di una formazione erudita, Ménage, e frequenta l’Hôtel de Rambouillet. Sposa il conte de Lafayette a 21 anni, lo segue nel sud della Francia e quando torna a Parigi inizia personalmente ad animare dei salotti letterari, e instaura un rapporto d’amicizia molto stretto sia con Segrais che con Rochefoucauld. È come se questo ritorno a Parigi segnasse un ulteriore stadio evolutivo rispetto a una vita intrisa di curiosità intellettuali. La frequentazione di questi ambienti porta spesso a scrivere e si distingue per le sue qualità letterarie: scrive delle opere inizialmente sotto il nome di un altro, di Segrais, perché nonostante tutto le donne fanno fatica a presentarsi come autrici. Nel '62 pubblica “La Princesse de Montpensier”, classificata come “nouvelle psychologique”; pubblica poi un romanzo d’avventura nel '71 “Zaïde”; poi in forma anonima pubblica “La Princesse de Clèves”. Questo romanzo segna il culmine e la fine di questo percorso perché due anni dopo muore Rochefoucauld e la separazione da questo amico tanto amato la spinge ad allontanarsi dai salotti. Svolge un ruolo diplomatico, non si ritira totalmente ma è la fine della sua attività letteraria. Ma in realtà non parliamo di romanzo, e la stessa Lafayette non lo considera romanzo. Se prendiamo l’avviso che “le libraire” rivolge “au lecteur”, ci viene mostrato il modo in cui viene definita l’opera e ci viene spiegato l’anonimato: “nonostante l’approvazione che abbia ricevuto questa storia, nelle letture che sono state fatte, l’autore non si è deciso a dichiararsi; ha temuto che il suo nome diminuisse il successo del suo libro” e poi l’ultimo periodo “resta quindi nell’oscurità dov’è, per lasciare i giudizi più liberi e più giusti, e tuttavia si mostrerà se questa storia è piacevole al pubblico come spero”. Cos’è questa histoire? L’histoire con cui viene definito il romanzo è in realtà il risultato di una commistione tra il romanzo e la nouvelle. Ha dato vita a qualcosa di nuovo che prima non si era mai visto. Quali sono le caratteristiche? - Il romanzo eroico avventuroso, con cornice storica, è un’ispirazione per madame de Lafayette ed è una sorta di epopea in prosa che celebra dei valori ma che, a differenza dell’epopea tradizionale, non celebra gesta di protagonisti illustri ed esemplari ma insiste sulla rappresentazione dell’amore, un’epopea declinata verso la rappresentazione dell’amore. Gli eroi, i protagonisti mantengono il loro carattere esemplare, illustre, e spesso vengono attinti da un passato lontano. L’azione di per sé non è complessa anche se parliamo di romanzi lunghissimi, ma è costellata di episodi secondari, e questo fa sì che le opere venissero scorporate ed approfondite da altri. Questi episodi sono importanti a capire ciò che è accaduto in precedenza perché la narrazione inizia sempre in medias res. Benché più libero rispetto al teatro, il genere del romanzo era più di nicchia e destinato a un pubblico più colto. Per cui, in un’epoca in cui il modello di ispirazione è la poetica di Aristotele, l’unità che viene presa in considerazione per i romanzi è l’unità di tempo. Un altro strascico dell’influenza di Aristotele è legato allo stile: lo stile deve essere coerente al soggetto, quindi se parliamo di personalità elevate, lo stile deve essere “soutenu”, aulico. È un tipo di scrittura che tende verso l’idealizzazione. 81 - La nouvelle, già da un punto di vista materiale, è un racconto più breve, evita il richiamo ad avvenimenti precedenti e a differenza del romanzo ha un senso della verosimiglianza più spiccato, anche nella rappresentazione dei personaggi evita di costruire delle figure troppo perfette, si allontana dalla tendenza all’idealizzazione del romanzo. Anche i soggetti vengono attinti da un passato più recente rispetto al romanzo. Nella seconda metà del ‘600 si assiste a un mutamento di sensibilità, cambia il clima culturale, per il quale la nouvelle assume una presenza rispetto al roman, si afferma di più. E quindi, i lettori della seconda metà del ‘600 prediligono delle storie più vicine alla loro realtà, c’è un mutamento del gusto e Madame de Lafayette già quando scrive la sua prima opera, “La Princesse de Montpensier” si distingue perché il suo stile è più sobrio e asciutto, non ha voglia di étonner come i preziosi. Ricordiamo che “La Princesse de Montpensier” è classificata come nouvelle psychologique, in quanto l’andamento dei fatti è seguito di pari passo dall’analisi dell’interiorità dei personaggi, e l’idealizzazione tende verso la stereotipizzazione e quindi è un’operazione che cede alla semplificazione, mentre l’analisi dell’interiorità va verso la profondità e la complessità. Con la “Princesse de Clèves” Madame de Lafayette scrive una nouvelle rispettandone le caratteristiche essenziali e potenziandole aggiungendo delle tecniche del romanzo. - Dalla nouvelle prende il fatto che il soggetto principale è ridotto all’osso, la storia è più contenuta, l’intreccio segue l’andamento dei fatti e ci sono pochi personaggi. Tutto dettato dall’esigenza della verosimiglianza propria della nouvelle. La scelta del finale è importante: la principessa decide di allontanarsi dalla società mettendo in atto la cosiddetta retraite, un topos letterario, un abbandono. Questa scelta di partir en retraite è anti-romanzesca perché solitamente la storia si conclude con gli amanti che si ricongiungono. Dunque, è più verosimile vedere che due persone per quanto si amino non possono stare insieme. Il legame con la verosimiglianza è espressione del cambio di mentalità espletato precedentemente, un cambio che vede una società più pessimista. C’è una visione della vita in cui la violenza delle passioni ha delle ricadute su di noi; - Dal romanzo prende il fatto che sì, i personaggi principali sono pochi, ma c’è una costellazione di personaggi secondari che interagiscono tra di loro e con i principali a dimostrare l’esistenza di una rete di relazioni. Lo fa per mostrare il quadro storico. Si inserisce l’interesse per i ritratti, le conversazioni, i monologhi, e oltre ai fatti si dà importanza al “discours”. Riprende il rispetto dell’unità di tempo e mantiene una sorta di coerenza anche dell’unità di luogo. Potenzia l’elemento dell’analisi psicologica, perché nel romanzo la narrazione degli avvenimenti era staccata dall’analisi dei sentimenti: Madame de Lafayette integra queste due cose dando vita a quello che sarà chiamato il “récit intérieur”. Vuol dire che gli avvenimenti sono assimilati dai sentimenti e dagli stati d’animo e ciò che accade è una conseguenza di uno stato interiore. Da un punto di vista stilistico tutto ciò si esprime attraverso una tecnica di focalizzazione, quindi sperimenta delle tecniche che avremo poi nell’800. Adotta la focalizzazione zero, con la presenza di un narratore onnisciente e la focalizzazione interna che vede il diventare un tutt’uno con un personaggio. 82 dei costumi, ovvero il campo del sapere che si occupa del comportamento in società ma è anche la scienza che insegna a condurre le proprie azioni. La morale ha in sé un nucleo, l’etica, e la estende ad agire in società. Ha in sé un intento pedagogico. Successivamente si arriva all’accezione ‘900esca che ci consente di definire il fenomeno storico: il moralista è un autore che oscilla tra l’atteggiamento dell’osservatore e quello che critica. I moralisti si distinguono per la scelta di un argomento che oscilla tra le moeurs (costumi) e la morale, e assumono questo duplice atteggiamento tra critica e osservazione. - Per quanto riguarda “classici”, sappiamo che è un’etichetta trans-storica. Significa porsi in un atteggiamento moderno rispetto al proprio contemporaneo. È come se i classici avanzassero uno sguardo critico rispetto alla loro epoca. Classico non vuol dire classicista. I moralisti classici si estendono lungo un asse temporale che dona fine al classicismo francese. Nel ‘500, a partire da Montaigne, abbiamo alcuni autori come la Rouchefoucauld, la Bruyere, de la Fontaine e continua fino al ‘700 con l’ultimo moralista classico Chamfort, giustiziato durante la Rivoluzione francese. Dunque la cronologia è lunga e varia. Sono varie le personalità che rientrano in questa etichetta postuma. I contenuti dei moralisti classici I moralisti classici scelgono come contenuti: - Il primo tema è quello del viaggio, in quanto la vita è un viaggio e l’uomo è un “viator”. Pensare alla vita come a un viaggio si inscrive all’interno di una visione del mondo pessimistica perché fa riferimento alla precarietà della vita; la vita è solo di passaggio. D’altro canto però c’è anche un legame con la trascendenza attraverso il tema del viaggio. Lo stesso Montaigne parla della vita come un’altalena dell’effimero; - Il secondo tema è quello del “teatrum mundi” (ne parlava anche il barocco), il mondo è come un teatro. Questo topos può essere considerato in una prospettiva verticale (legato alla trascendenza) che il mondo è teatro nella misura in cui c’è un Dio che ci manovra come se fossimo dei burattini. In una prospettiva orizzontale (legato al nostro mondo) il concetto di teatrum mundi è declinato alle relazioni umane, tutti portiamo una maschera a seconda delle circostanze e quindi ci si interroga sulla vera natura di noi stessi; - Il terzo tema è quello della guerra: la guerra è una metafora. È un gioco tra difesa e attacco e chiede una strategia. La metafora della guerra viene usata per declinare sia la lotta per la sopravvivenza ma anche per analizzare le tensioni interne all’io stesso (es. conflitto tra amore e dovere); - Il quarto tema è quello dell’arte di vivere. Come si fa a vivere bene? Vivere bene è un’arte che si può apprendere? Questo crea una costellazione di elementi che entrano in gioco quando si discute dell’arte di vivere, si parla del sistema di valori che entrano in gioco: il più presente è la prudenza, che combina capacità di riflessione, di analisi e di giudizio ed è espressione di diffidenza che è legata alla precarietà delle relazioni e dell’esistenza. Lo stile dei moralisti I moralisti, per quanto diversi e collegati in un asse temporale lungo, vengono accomunati dalla predilezione per alcune forme: adottano un insieme di produzione che convergono sotto l’etichetta di forme 85 brevi. La forma breve non è necessariamente legata alla consistenza materiale del testo, ma è il frutto della relazione tra forma e contenuto e fa riferimento al principio della brevitas. Il rapporto fra forma e contenuto dà riferimento al fatto che i testi prodotti dai moralisti classici dicano più di quanto stia scritto. Sono testi che hanno una tale densità informativa per cui indipendentemente dalla lunghezza dicono più di quanto apparentemente sembra che dicono. La scrittura moralista ha a che fare con l’enigma: la scelta della forma breve è legata al concetto di difficoltà nel decifrare ciò che accade. Questa scelta della forma breve è legata anche al concetto di frammento: la forma breve è infatti caratterizzata dalla raccolta di testi disgiunti tra loro, ed è legata all’effimero. La forma breve non è in ogni caso un’invenzione del ‘600 dei moralisti classici: loro attingono da culture greche e latine e le rielaborano. Quali sono le forme brevi più utilizzate? - La massima sentenza: la massima viene dal linguaggio giuridico latino e viene da “maxima sententia”. Cos’è? È un giudizio che si avanza a partire dall’esperienza e che può essere assunto a norma generale di comportamento; - L’apoftegma: ha un carattere più lapidario e viene dal greco “prenuncio”, veicola il concetto di sentenza memorabile, definitiva. È una sentenza breve; - La riflessione: di più ampio respiro; - Il frammento; - L’aforisma: il concetto di aforisma, che significa “definizione” in greco, trae le sue origini da Ippocrate, abbiamo un ambito medico ed è una proposizione che riassume sempre la forma breve e asciutta, una sentenza che è il risultato di un’osservazione che afferma una verità. Dunque, da una parte abbiamo Ippocrate e dall’altra la giurisdizione latina. Abbiamo visto che dalle guerre del ‘500 si è cercato di avere una stabilità ma permane questo filone che continua a vedere la vita come qualcosa di sfuggente. La forma breve è espressione di una tensione particolare dedicata all’elocutio, perché la concisione implica una scelta mirata nelle parole. È come se si volesse caricare la frase di un’energia potenziata rispetto ad una forma non breve: i moralisti da una parte vorrebbero trattare delle leggi universali che regolano il funzionamento del mondo, ma questa sistematizzazione è impossibile e il frammento esprime quest’impossibilità. Un’altra categoria è quella dell’inventio, ovvero la scelta dell’argomento per Quintiliano. Qui l’inventio è più legata all’ispirazione e all’invenzione. Per quanto riguarda i generi che ispirano i moralisti classici abbiamo le favole. Le favole del ‘600 sono per adulti, i personaggi sono spesso animali a cui vengono attribuite delle caratteristiche fisiche. Questa figura retorica si chiama allegoria, e può essere declinata in animalizzazione o personificazione. Vediamo adesso una favola “L’homme et son image” di de la Fontaine. La favola è un racconto breve in forma allegorica che ha al suo interno una morale che può essere esplicita o implicita. Questa è una favola attuale. Spiegazione Un uomo (che l’autore personifica con Narciso) credeva di essere il più bello del mondo e accusava gli specchi di essere falsi e viveva più che contento nel suo profondo errore. Per guarirlo (aveva una 86 malattia, ovvero quella di credersi il più bello) la sorte presentava ai suoi occhi i consiglieri muti (gli specchi) delle dame. Gli specchi ti mettono di fronte alla tua stessa immagine. Dunque, c’erano specchi ovunque (nei negozi, nelle dimore…), allora Narciso decide di andare a confinarsi nei luoghi più nascosti che può immaginare in modo da non vedere più quell’immagine che per lui era falsa. Egli non vuole più trovarsi nei pressi di questi specchi ma trova in questi luoghi appartati un canale (d’acqua). Anche fuggendo gli specchi trova il fiume. Si specchia all’interno di esso, si innervosisce, i suoi occhi irritati pensando di scorgere una chimera, non il prodotto della realtà. fa tutto ciò per evitare quest’acqua, ma il canale e così bello che lui è attratto dalle acque di questo fiume. Abbiamo detto che la favola è un racconto allegorico: gli elementi di quest’allegoria sono lo specchio, che rappresenta l’opinione degli altri; il canale, puro e bello e che rappresenta la realtà. Le favole di de la Fontaine: XI – Un homme et son image Jean de la Fontaine pubblica la sua prima raccolta di favole all’età di 47 anni: ottiene un grande successo a Corte, dove ci si diverte a deridere quelle persone celebri che si nascondono dietro i personaggi delle favole. “L’uomo e la sua immagine” fa parte del primo libro; in questo apologo de la Fontaine si serve di un racconto piacevole per denunciare un vizio umano: fa il ritratto del narcisismo e contemporaneamente rende omaggio ad un grande moralista del suo tempo: il Duca de la Rochefoucald e alle sue massime. Testo in francese: Un homme qui s’aimait sans avoir de rivaux Passait dans son esprit pour le plus beau du monde. Il accusait toujours les miroirs d’être faux, Vivant plus que content dans son erreur profonde. Afin de le guérir, le sort officieux Présentait partout à ses yeux Les Conseillers muets dont se servent nos Dames . Miroirs dans les logis, miroirs chez les Marchands, Miroirs aux poches des galands, Miroirs aux ceintures des femmes. Que fait notre Narcisse ? II va se confiner Aux lieux les plus cachés qu’il peut s’imaginer N’osant plus des miroirs éprouver l’aventure. Mais un canal, formé par une source pure, Se trouve en ces lieux écartés ; II s’y voit ; il se fâche ; et ses yeux irrités Pensent apercevoir une chimère vaine. Il fait tout ce qu’il peut pour éviter cette eau ; Mais quoi, le canal est si beau Qu’il ne le quitte qu’avec peine. On voit bien où je veux venir. Je parle à tous ; et cette erreur extrême Est un mal que chacun se plaît d’entretenir. Notre âme, c’est cet Homme amoureux de lui-même , Tant de Miroirs, ce sont les sottises d’autrui, Miroirs, de nos défauts les Peintres légitimes ; Et quant au Canal, c'est celui Que chacun sait, le Livre des Maximes. NOTE: «Narciso » nella mitologia greca era un giovane di una bellezza eclatante che si innamorò del suo riflesso in una fontana, a tal punto 87
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved