Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

Letteratura francese: dal Cinquecento al Seicento, Sbobinature di Letteratura Francese

Sbobine del corso dal Cinquecento al Seicento: autori principali, analisi di poesie, classici ed estratti.

Tipologia: Sbobinature

2022/2023

In vendita dal 02/03/2024

saradichiara
saradichiara 🇮🇹

2 documenti

1 / 76

Toggle sidebar

Spesso scaricati insieme


Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica Letteratura francese: dal Cinquecento al Seicento e più Sbobinature in PDF di Letteratura Francese solo su Docsity! LEZIONE 3/3/2023 La Francia del ‘500 non coincide con la Francia odierna, non è un esagono come lo conosciamo ora (dilatata verso i Pirenei, l’Italia e la Germania); infatti tali espansioni sono dovute alle guerre i cui esiti definivano i confini del Paese. Tenendo conto di tali oscillazioni si considera comunque l’area geografica dell’esagono quando si prende in considerazione la letteratura francese. La letteratura è immersa in scambi continui di tipi culturali, letterali, economici e commerciali, presenta contatti molto particolari con la cultura italiana e spagnola dalle quali viene influenza in maniera sostanziale. Tutto ciò che studiamo è contenuto in una rete internazionale. La lingua di scambio del ‘500 era il latino e si consideri che nemmeno in Francia si parlava il francese; successivamente diventerà il francese la lingua culturale per tutta l’Europa. La Francia è territorio plurilingue all’interno del quale interagiscono lingue diverse dotate di diverse legittimità (riconoscimenti del prestigio); il latino era quella più legittimata/importante legata agli ambienti colti, politici, utilizzata soprattutto nei trattati, capace di superare le varietà diatopiche. Parallelamente inizia ad affermarsi il cosiddetto francese moderno in un percorso graduale favorito dalla letteratura e da alcuni interventi di tipo politico-amministrativo. Ciò non significa che passando dal ‘400 al ‘500 il francese viene parlato da tutti: questo inizia ad affermarsi a partire dall’alto Medioevo in un contesto di vari dialetti coesistenti – langue d’oïl e d’oc. Langue d’oïl si impone su quella del sud poiché ha una tradizione poetica e scritta maggiore e già consolidata negli anni. Il latino dunque primeggia, è legato ad ambienti colti e religiosi, e intanto si inserisce la variante del Nord della Francia, la langue d’oïl. Che rapporto esiste tra queste due lingue? L’incontro-scontro tra latino e francese subisce fasi alterne con un rapporto complesso, instabile e che oscilla tra due condizioni: quella del bilinguismo, ossia la coesistenza di due sistemi linguistici tra di loro posizionati allo stesso livello gerarchico, una situazione paritaria che avveniva nel caso di persone colte che parlavano entrambe le lingue; quella della diglossia, che vede una lingua gerarchicamente superiore rispetto all’altra. In questo caso abbiamo un contesto gerarchico nel quale il latino è dominante sul francese. Tale rapporto si definisce nel tempo, la scelta dell’una o dell’altra dipendeva dal contenuto di ciò di cui si voleva scrivere, infatti di solito la trattatistica era riservata al latino e la narrativa e la produzione letteraria al volgare. C’erano comunque casi di traduzione nei quali si passava da una lingua all’altra per esigenze di divulgazione. Dopo queste due lingue abbiamo i cosiddetti dialectes; in questi rientrano quelle lingue che hanno dignità linguistica e culturale ma che a un certo punto regrediscono, un esempio è la langue d’oc che retrocede dinanzi all’avanzata della langue d’oïl e la diffusione dell’umanesimo contribuisce a questa situazione. Questi in particolare lasciano delle tracce all’interno delle parlate che hanno per lo più diffusione locale. Il dialetto più strutturato era l’occitano che deriva dalla langue d’oc, che ha resistito all’avanzare del francese moderno; inizialmente molto diffuso anche lui regredisce a livelli urbani. Ancora più circoscritti sono i patois che hanno una diffusione per lo più in zone di villaggi, limitata in zone rurali e più ristrette. Solitamente i parlanti sono spesso confinati in aree isolate dove i contatti con le realtà linguistiche sono estremamente ridotti. Tra i fattori e le condizioni esterni, oltre a dinamiche linguistiche storiche interne, che hanno contribuito alla nascita del francese moderno ne ricordiamo 3: 1. L’invenzione della stampa, fattore di natura tecnica > favorisce le possibilità di lettura e circolazione di testi che fa si che le varietà dialettali vengano schiacciate dalla lingua utilizzata nella narrativa compresa dalla maggioranza. Introduce alcune variazioni tipografiche, linguistiche legate al mezzo stampa che esistono ancora nel francese contemporaneo, come la cédille o la scomparsa di caratteri gotici sostituiti da quelli tondi/romani e il corsivo, utilizzo di segni diacritici come gli apostrofi. Ciò rappresenta una trasgressione verso queste lingue considerate intoccabili ed è considerato dunque oltraggioso (contribuisce a creare un clima di mutamento). 2. La riforma protestante, di natura storico-culturale; 3. L’umanesimo, anch’esso storico-culturale. Il grande avvenimento letterario del periodo sono le guerre d’Italia che interessano la Francia per circa 60 anni (1494-1559). In questi anni si succedono diversi sovrani che provano a espandere il loro territorio verso l’Italia. Il primo sovrano a inaugurare questa sanguinosa stagione è Carlo VIII, lo susseguono Luigi XII e Francesco I, quest’ultimo molto importante nell’ambito letterario. Con l’elezione a imperatore di Carlo V anche la Spagna entra in conflitto con il monarca francese del tempo, Enrico II, facendo divenire il conflitto bellico di importanza europea. Nel 1495 Carlo VIII prende Napoli per la sua posizione strategica, che perderà poi successivamente. Luigi XII tenta di conquistare Milano e lo fa con la vittoria a Novara. Francesco I proverà a riprendersi Milano ma dovrà confrontarsi con Carlo V in quattro guerre. La Pace di Cateau-Cambresis del 1559 firmata tra Francia e Spagna distribuisce i possedimenti tra le due potenze internazionali. La Francia è un paese provato ma allo stesso tempo le si aprono possibilità di cambiamento ed evoluzioni uniche date proprio dalla guerra con l’Italia (la guerra è comunque uno scambio militare e mercantile tra paesi per quanto violento) poiché conosce il Rinascimento, ossia assimila in via diretta e indiretta i modelli degli artisti italiani, non solo la loro arte e cultura. Jules Michelet nella metà del XIX secolo pubblica Histoire de la France, un testo che ha orientato la gran parte della critica letteraria-storica sul rinascimento francese. Secondo lui le guerre d’Italia hanno avuto un impatto enorme sulla cultura francese e parla proprio di “Découverte de l’Italie”, l’impatto è stato metaforicamente più importante della scoperta dell’America. (Per Giovanni Macchia la Francia ha scoperto sé stessa grazie alla cultura rinascimentale d’Italia, grazie alla quale si è potuta avere una stagione che ha visto nascere grandi pensatori e filosofi). La Francia conosceva l’Italia grazie agli scambi commerciali e militari al sud, ma l’ampiezza e la durata di questo evento bellico ha fatto sì che questi fossero più approfonditi; in questo modo, i popoli del nord, considerati più barbari, venivano a contatto con la bellezza di un luogo più avanzato culturalmente. La découverte è espressione di uno shock culturale destinato a modificare in modo significativo il concepire e il fare arte. Alle guerre d’Italia si affianca anche la riforma protestante, un evento di importanza europea destinato a mettere in discussione delle certezze secolari. Fino a quel momento c’era una determinata visione delle cose, la riforma non farà altro che metterle in dubbio attraverso delle manovre politiche. La condizione preliminare affinché queste nuove idee potessero divulgarsi era la diffusione della stampa: uno strumento capace di modificare le abitudini delle persone in campo intellettuale, il modo in cui si legge, si scrive e si condividono i saperi. Pur non avendo origine in Francia, la riforma avrà un peso enorme nel Paese soprattutto per le otto guerre di religione. Nel 1517 Lutero affigge le sue 95 tesi sul palazzo di Württemberg. La sua critica è inizialmente rivolta al potere temporale della Chiesa e successivamente alla dottrina. Contemporaneamente, in Svizzera vediamo come anche Zwingli, un teologo, partecipa all’ondata anti-papale. Lo sussegue Calvino, figura leader del movimento e della trasformazione della chiesa svizzera; con calvinismo parliamo di predestinazione, ossia gli uomini nascono con un destino già scritto e irreversibile, è già noto se questi siano destinati alla grazia divina. Attraverso questo movimento Calvino intende riformare l’organizzazione politica – a Ginevra è il potere religioso a gestire quello dello Stato. Per uno stato francese, una monarchia, questi cambiamenti significano convivere con il pericolo di avere delle cittadine che proclamano una propria autonomia nella gestione della politica, perdere il controllo e avere nemici nel territorio. Calvino a Ginevra aveva fondato una cittadina fondata sull’organizzazione teocratica; per lui l’autorità civile deve essere subordinata a quella religiosa. Riceve un grande impatto politico e i calvinisti cercheranno un’indipendenza rispetto al potere centrale. La riforma contribuisce a una rimessa in discussione di certi dogmi. Uno dei primi libri stampati era una Bibbia e Lutero voleva che u fedeli potessero accedere ai testi sacri indipendentemente senza la mediazione delle figure ecclesiastiche. Francesco I fu il sovrano più sensibile a tali dibattiti culturali: avrà infatti un atteggiamento ambivalente, espressione della complessità del periodo. Nella prima fase del regno si dimostra tollerante pur cercando di controllare la diffusione della riforma. Sarà particolarmente influenzato dalla sorella Marguerite d’Angouêlme, che aderisce al movimento evangelista; la sua presenza consente al re di affacciarsi a diverse realtà della sua epoca. Due esempi che dimostrano l’atteggiamento di Francesco I tra apertura e repressione sono:  la fondazione de Le Collège de France nel 1530, istituzione tutt’oggi esistente; questo deve la sua esistenza a una decisione del sovrano, quella di fondare il Collège royal, un’istituzione questo contesto si rimette in discussione tutto, a partire dal concetto stesso dell’uomo, come deve collocarsi all’interno del mondo in cui vive. Nel 1492, con la scoperta dell’America, che rappresenta tutte le scoperte geografiche che hanno rivoluzionato la percezione del mondo, l’uomo comincia a capire che ci sono altri mondi rispetto a quello di appartenenza, e ciò mette in discussione molte cose. L’uomo capisce di non essere l’unico è ciò porta una grande messa in discussione. Abbiamo innovazioni anche dal punto di vista scientifico. DISTINZIONE TRA UMANESIMO E RINASCIMENTO I tempi sono sovrapposti, ma coloro che vivono nel Rinascimento sanno di trovarsi in questo contesto di rinascita, sapevano di essere entrati in un’epoca nuova. Il termine rinascimento lo dobbiamo ad un artista, Giorgio Vasari. [“Vite de’ più eccellenti architetti, pittori e scultori italiani”, sono delle biografie di artisti molto interessanti.] Vasari parla di rinascita delle arti utilizzando dei termini latini; a quel tempo si parla di “renovatio studii” che pone fine all’epoca di barbarie, abbiamo una rottura col medioevo in cui si ha un contatto con l’antichità. Dopo un periodo di barbarie per mano di alcune popolazioni, si parla di un ritorno al sapere. C’è una riscoperta della lingua, della filosofia, dell’arte greca e latina, nella loro forma autentica; bisogna evitare il passaggio a mediazione. Nel medioevo la più grande mediazione è stata la chiesa che aveva il monopolio della trasmissione del sapere. Nel ‘500 uomini e donne che volevano leggere un testo dovevano passare per l’interpretazione di un religioso, adesso non si accetta più una cosa del genere; questa è la base del rinnovamento, nessuno deve raccontare la storia, devono essere lette in prima persona in lingua originale. Grazie ai testi scritti c’è la possibilità di accedere direttamente a questi testi. Il termine rinascimento ha quindi una collocazione prettamente artistico-culturale. Il termine Umanesimo si riferisce allo stesso periodo, ma non ha una collocazione storica; è stato inventato nell’800, nel 1808, molto tempo dopo da uno studioso tedesco; il termine deriva da Humanismus, termine con base latina. Daniel Ménager dà una definizione del termine umanesimo: c’è un nuovo interesse per l’uomo, un desiderio di autonomia e autodeterminazione, una cultura più secolare, laica, svincolata dai saperi teologici, l’autenticità delle informazioni. Nel ‘300 l’umanista era un filologo, colui che comprende i testi letterari in maniera critica, in modo che possiamo avvicinarci sempre di più alla forma originale, quella voluta dall’autore. Quando nel ‘500 arrivano più versioni di uno stesso testo c’è una necessità di mettere ordine per giungere ai testi originali e quindi il filologo si occupa di questo processo di costruzione. Una figura molto importante è stata Lorenzo Valla, colui che fa in edizione del Nuovo Testamento, partendo sempre dai testi sacri; nel 1505 si confronta con gli originari greci. Anche Erasmo da Rotterdam farà la stessa cosa consultando i manoscritti greci e latini, si cerca sempre un confronto. Erasmo da Rotterdam stata una persona che ha avuto una formazione classica rigorosa, che successivamente è nominato sacerdote e poi ha abbandonato l’abito. Ha viaggiato in Europa, è un viaggiatore, uno dei maggiori intellettuali dell’epoca. È l’autore de “L’elogio della follia”. Erasmo da Rotterdam vorrebbe creare una transazione tra la cultura greca e italiana, vuole proporre una nuova visione. I testi sacri, conosciuti in latino, fanno parte delle “Saintes Lettres”; fanno parte del patrimonio letterario non santo les lettres humaines. LEZIONE 7/03/23 Il primo grande umanista francese, considerato espressione della sua epoca, è FRANÇOIS RABELAIS. È fautore degli stessi cambiamenti iniziati dagli umanisti, incarna i principi della sua epoca e la sua opera è intrisa di questo nuovo spirito. È un umanista perché la sua opera non taglia i rapporti con passato, ma si colloca nel solco di un certo tipo di tradizione medievale. Elementi biografici importanti: è nato in una provincia francese chiamata Chinon nel dipartimento della Loira. Suo padre era un avvocato e proprietario terriero. La presenza di questo mondo giuridico nella sua vita, così come il mondo contadino e le parlate locali caratterizzano la sua opera e vengono dalla sua esperienza personale. Un altro ambiente con cui entra in contatto è quello religioso: da giovane diventa monaco negli anni 20 del 1500, Rabelais fa parte inizialmente dei francescani e poi dei benedettini. Tutto ciò che compie è dettato dalla sua sete di conoscenza: studia e avvia la sua formazione culturale in un contesto religioso nel quale la lingua più importante era il latino; oltre questo voleva conoscere il greco e per tale motivo inizia a far nascere sospetti nel clero poiché la sua conoscenza va oltre il semplice studio teologico. Inizia dunque a intrattenere rapporti, impara il greto e traduce dal greco al latino e inizia a dedicarsi alla traduzione, in particolare traduce Erodoto in latino. Il suo passaggio di ordine è legato ai sospetti che la sua figura comincia a destare nella Sorbona, la quale gli sequestra i libri. Il contesto dei benedettini risulta meno restrittivo e seguendo il vescovo Geoffrey d’Estissac riceve la sua protezione, in particolare in un viaggio abbina lo studio a una serie di esperienze, ossia contatti con varie province francesi, villaggi e campagne. Ciò è importante non solo per la varietà linguistica presente in quelle zone ma anche per le fasce popolari della società, ha a che fare con artigiani, contadini, pastori, osserva e conosce la loro lingua e lo stile di vita. Tutto ciò rientrerà nella sua opera. A un certo punto anche essere un benedettino gli sta stretto, diventa perciò prete secolare per svincolarsi dalle regole religiose; a questo punto si perdono le sue tracce, si sa solo che viaggia molto e integra la sua frequentazione delle zone di Francia più rurali con altre più elevate e importanti. Qui conosce cerchie culturali elevate, frequenta gli ambienti degli studenti dei quali osserva costumi, linguaggi e registri. Si ferma a Montpellier dove studia medicina e inizia a insegnare per ottenere un sostentamento ma soprattutto per il piacere di studiare (tale disciplina gli consente di studiare meglio il greco, il suo pensiero si fonda su filosofi come Ippocrate e Galeno). Incarna l’ideale del suo tempo, quello di aspirare a una cultura enciclopedica, un ampio ventaglio di saperi. In quest’epoca i saperi non sono distinti tra loro, non c’è una suddivisione delle discipline, ciò che prevale è questo tipo di educazione che raccoglie al suo interno numerose conoscenze. Nei suoi testi quindi troviamo tutte le sue esperienze, si serve di un lessico vario che spazia da quello scientifico a quello letterario, giuridico, contadino: la sua opera è un concentrato della visione del mondo e dell’umanesimo. Comincia parallelamente a dedicarsi alla scrittura del teatro, lo si potrebbe considerare un medico- scrittore, e la prima cosa che pubblica è il commento a un libro di Ippocrate pubblicato à Lyon. Nello stesso anno avvia la stesura di un ciclo di romanzi che lo renderà immortale non solo nella Francia ma nella letteratura mondiale. Si tratta di un ciclo dove ognuna delle singole opere ha una propria autonomia ma inserita in un contesto nel quale hanno dei rimandi l’uno tra l’altro e dove i personaggi ritornano. Nel 1532 viene pubblicato il primo volume “Les Horribles et espouvantables faictz et prousses du très renommé Pantagruel Roy des Dipsodes, filz du Grand Gèant Gargantua, composezz nuovellement par maistre Alcofribas Nasier”, conosciuto comunemente come il ciclo di Gargantua e Pantagruel, rispettivamente padre e figlio, giganti sovrani che dovranno affrontare viaggi, guerre, peripezie e sono il fulcro intorno al quale ruotano numerosissimi personaggi, ambienti e situazioni. Il titolo ha una struttura antica e troviamo infatti delle differenze con il francese di oggi. Inoltre, è sotto il segno dell’iperbole: qui troviamo i nomi dei due protagonisti. Non sappiamo se la sua idea iniziale fosse quella di redigere una serie di romanzi; nel primo volume abbiamo l’annuncio della nascita del figlio e solo due anni dopo Rabelais pubblica il secondo (“La vie très horrifique du grand Gargantuel, père de Pantagruel”) volume che, volendo seguire l’ordine cronologico, racconta quanto precede il primo. Altro elemento interessante a proposito del concetto di autore, Rabelais utilizza inizialmente uno pseudonimo, un anagramma del suo nome (Alcofribas Nasier). Sappiamo che gli autori del ‘500 sono artigiani della scrittura, Rabelais matura una consapevolezza di sé poiché è cosciente di dedicarsi a un’opera letteraria; usa questo pseudonimo soprattutto perché nel frattempo si dedicava alla medicina, considerata una professione “seria”. Già dal titolo ci rendiamo conto che il libro si pone in una prospettiva diversa: parla di giganti e aveva dunque motivo di nascondere la sua identità. Lo pseudonimo viene usato anche nel secondo libro; i seguenti vengono definiti con i titoli Terzo libro, Quarto libro e Quinto libro:  “Le tiers livre” pubblicato nel 1546 è forse l’ultimo romanzo compiuto;  “Le quatrième livre” (1552) ha già una gestazione più complicata (vengono pubblicati solo undici capitoli);  “Le cinquième livre” (1564) non è certamente attribuito all’autore. Questi protagonisti, i giganti, non sono un’invenzione di Rabelais: ha avuto spunto ma la materia non è totalmente originale. L’autore lo dice chiaramente nel prologo di Pantagruel di aver tratto le storie che sta per narrare da un raccolta di racconti; tale raccolta è intitolata “Grandes et inestimables Chroniques de l’énorme géant Gargantua”, dalla quale si deduce l’uso dell’esagerazione e dell’iperbole. Si tratta di una raccolta medievale ritrovata in una fiera, i racconti continuavano a persistere grazie alle trasmissioni orali e alla stampa che consente di dare continuità e diffusione a questo tipo di storie. Si può far notare nella scelta della fonte che Rabelais si pone in un rapporto di continuità tra il mondo contemporaneo e medievale. Rabelais è consapevole che potrebbe essere frainteso nei contenuti, nel messaggio e soprattutto perché il suo testo potrebbe essere oggetto di una lettura “sbagliata” o superficiale. Rivolge ai suoi lettori un appello volto a svelare l’approccio che chi si accinge a leggere tale opera deve avere e lo fa nel testo intitolato “La substantifique moelle” (trad: il midollo sostanzioso). Nell’appello c’è l’inserimento di tutta la saga all’interno del genere comico. Ribadisce l’importanza del comico come natura integrante dell’uomo. Nel prologo voleva far sì che si cambiasse l’approccio ai modelli letterari, indicava una precisa prospettiva di lettura. È cosciente di scrivere un testo che modifica l’orizzonte d’attesa del suo tempo soprattutto per l’utilizzo del registro comico. Approcciarsi dunque a un’opera che si mostra come tale significa aspettarsi personaggi di rango medio-basso, situazioni fondate su equivoci, imbarazzi e incomprensioni che si ritorcono in maniera divertente sui personaggi; uno stile adeguato al soggetto, che scivola verso il basso. LA SUBSTANTIFIQUE MOELLE Nella guida alla lettura del testo sorprende per gli uomini a cui si indirizza. Si rivolge ai bevitori (atteggiamento antifrastico), parte della società considerata in maniera negativa, essi hanno sempre sete; i codici fanno parte della maniera con cui ci si rivolge a persone illustri. Dopo la sua dedica riporta il lettore a una scena del Simposio di Platone, elogia Socrate come più importante tra i filosofi e dice di lui che ha l’aspetto di un Sileno. Alcibiade è un giovane politico affascinante ma ubriaco al banchetto, il suo ingresso nel Simposio rappresenta un momento di anti climax, di caduta. Rabelais tiene a precisare il momento in cui vi è la rottura del momento di tranquillità, l’idillio che si era creato tra i commensali. La presenza di Alcibiade non vuole opporsi, ma vuole rappresentare un aspetto complementare dell’amore, negli aspetti più fisici, che coesiste coi precedenti; mette in evidenza la differenza che c’è tra l’aspetto e la mente del suo maestro, legato ad criteri estetici dell’epoca (brutto d’aspetto e non di mente). Per elogiare le qualità di Socrate lo paragona a un Sileno, ossia una creatura mitologica divina e minore, uomini dall’aspetto umano ma con orecchie da capra, inizialmente divinità a se stanti e successivamente accumunati al culto di Dioniso, molto vivaci e maliziosi che rappresentano la personificazione della vita nella natura con i loro impulsi senza freni e anche sessuali. Socrate dunque assomiglia a un essere dall’aspetto vagamente animalesco. (Questi però erano anche altro: Sileno è Socrate, è anche altro e dei sileno saranno i romanzi successivi.) Il sileno è una figura ibrida tra umano e animale, rappresenta Socrate come figura controversa, ma evocano anche, come Rabelais tende a precisare, delle scatole dipinte particolari che rappresentano delle creature bizzarre, animali decontestualizzati perché associati ad attività umane, che si trovano nelle farmacie. A questo punto egli vuole definire la differenza tra il contenuto delle scatole e l’involucro: all’epoca le farmacie erano provviste di balsami, creme ed erbe in grado di guarire; tale immagine è interessante poiché egli si serve di una particolare forma di comico che precisa una determinata forma di grottesco. Il contrasto che si crea in Socrate lo vediamo anche nelle scatoline e riconduce al concetto di grottesco. Il grottesco è sicuramente un principio declinato sotto forma di tematiche e temi in campo letterario ma che ha la sua origine nella storia dell’arte (pittura ornamentale). Il termine deriva da “grottesche”, rappresentazioni formali legate alla pittura ornamentale; ciò significa che, dal punto di vista fisico, esse occupavano i margini di una struttura occupata da una o più pitture principali contornate da queste ai lati – pittura ornamentale marginale. In epoca medievale si perdono le tracce di queste grottesche; a Roma, alla fine del ‘500, su una collina si crea un buco, 323 a.C., dalla battaglia di Salamina (contro la Persia) fino alla morte di Alessandro Magno. Il termine classico deriva da classis, che appartiene alla prima classe dei cittadini, viene considerato un periodo di eccellenza storica greca, sia per i prodotti culturali sia dagli avvenimenti bellici: infatti all’interno di questo periodo storico ritroviamo i più grandi drammaturghi greci, ossia Eschilo, Sofocle ed Euripide. Ciò porta a distinguere anche i canoni estetici di quel clima culturale, le loro opere sono ispirate a determinati valori. La letteratura antica invece si riferisce a un più ampio periodo temporale che si rifà ad altri autori e ad altri modelli, come la satira. Nell’estetica grottesca il corpo svolge un ruolo molto importante, la sua rappresentazione è diversa. Nella letteratura classica è qualcosa di determinato, distaccato, rappresentato come qualcosa di rigido che non è soggetto a cambiamento, separato dalla terra e non considerato nel suo legame con la natura, autonomo rispetto l’ambiente che lo circonda. Si omettono infatti delle trasformazioni del corpo, come la gravidanza e il parto (si può parlare della morte come stato di arrivo ma non del momento di arrivo). Il corpo grottesco non è separato dal resto del corpo, esce dal resto del corpo e ha dei limiti completamente modificati, aperto agli altri e al mondo; ciò si esprime attraverso per esempio una bocca che parla, mangia e beve. Si fa riferimento anche a parti del corpo generalmente censurate, che vengono incluse rimarcando la loro appartenenza al basso (basso corporeo ma anche di livello inferiore, poco elevato e grotto, non bello ma che mostra la funzione vitale). Questo moto perpetuo e dinamico della vita fa sì che il basso sia sempre l’inizio, la metafora di un ritorno alla terra e un innalzamento costante. In Rabelais abbiamo una riabilitazione della carne, del sentire e del soddisfare i bisogni elementari come il bere e il mangiare, tutto estremamente naturale incluso nel ciclo vitale. In questa prospettiva, l’esagerazione dei personaggi, del modo in cui agiscono, si esprime attraverso le iperbole e il lessico; esse sono espressione naturalistica dell’esistenza, quella di un uomo che amplifica la propria forza vitale, il simbolo più forte della sede d’espansione del primo 500. Questa tradizione culturale subisce adattamenti, rivisitazioni e trasformazioni fino all’epoca di Rabelais, il quale guarda al passato reinterpretandolo secondo i canoni cinquecenteschi; la visione da avere è frutto di un intreccio dato da una visione popolare (corpo in espansione) e un’altra più individualistica (individuo con la collettività) derivata dalla classicità. Quando si rivalutano i modelli classici abbiamo quindi il realismo grottesco e quello che vede il corpo ispirato ai canoni classici. Questa commistione tra queste due visioni si può vedere nel ruolo che ricopre l’educazione all’interno dell’opera. LETTRE DE GARGANTUA À PANTAGRUEL Si tratta di una lettera che Gargantua scrive al figlio che si trova a Parigi per studiare, da sempre considerata la città più importante per ottenere un’istruzione di alto livello. Rappresenta un manifesto di educazione umanista, sottolinea il passaggio che il ‘500 rappresenta verso un nuovo modo di studiare. Gargantua mette a confronto la sua esperienza da studente contro quella futura del figlio; lamenta i limiti della propria educazione, il padre si è sforzato di spingere il figlio verso un’ottima formazione (labeur, lavoro mentale). Nonostante lo sforzo di Gargantua l’epoca non era propizia affinché si sviluppassero le condizioni più favorevoli a diffondere un tipo di formazione valida: ténébreux per esempio. Egli si è formato in età medievale, rappresenta quindi quel tipo di studio ed educazione e si rende conto di aver avuto un’esperienza deludente, ciò che vuole evitare per suo figlio. Opera anche il volere divino. Dopo questo confronto tra passato e presente nel secondo paragrafo entra nel dettaglio delle condizioni educative odierne che favorirebbero nuove e valide possibilità: i saperi ristabiliti (si riprende a studiare cose precedentemente accantonate), le lingue reintrodotte (greco, latino ed ebraico, aramaico), la stampa elegante e corretta (maggiore esattezza, i manoscritti che passavano di mano in mano sono in minor numero e per questo motivo pochi errori da parte dei copisti). Questo senso di diffusione della cultura generalizzata è un movente nei paragrafi, studiando briganti, avventurieri e addirittura le donne. Entra poi nel dettaglio di quelle che sono le raccomandazioni al figlio: sfruttare a pieno le opportunità per poterne ricavare insegnamenti. Lo stile esprime l’ideale mutevole, vario, dinamico ed enciclopedico. È una lingua in costante espansione per l’utilizzo di varie figure retoriche (enumerazioni e iperbole), si affrontano gli argomenti più disparati, politica, religione, legge e filosofia…tutte le esperienze che hanno attraversato la vita di Rabelais convergono in questo ciclo. Dal punto di vista lessicale troviamo espressioni legate a parlate regionali, espressioni settoriali (linguaggio dei medici, dei giuristi, dei preti), varietà di registri (registri aulici con espressioni derivate dal greco, stile medio che scende verso il colloquiale fino al volgare che si diverte a combinare). Il mondo di Rabelais si esprime anche attraverso la lingua. SATIRA DELLA GUERRA In Gargantua si fa riferimento a una guerra raccontata al centro del libro. La lunghezza narrativa della guerra richiama la durata degli scontri bellici dell’epoca. È la cosiddetta “guerre picrocholine”, prende degli avvenimenti contemporanei per poi trasfigurarli in chiave letteraria. È mossa contro un sovrano che entra un conflitto con Grandgousier chiamato Picrochole, viene da Pickros (greco) e Colon, bile scontrosa. Il motivo della guerra è banale: dei venditori di focacce passano per un territorio governato da Grandgousier; i contadini della zona vorrebbero comprare le focacce, ma questi non vogliono vendergliele e cominciano a insultarsi. Dallo scontro verbale si arriva a quello fisico. Questi commercianti tornano dal sovrano e riferiscono a Picrochole l’accaduto, il quale si scaglia contro Grandgousier e gli dichiara guerra “senza ordine e misura”, si scatena la sua furia bellicosa. L’esercito di Picrochole si scaglia contro quello dell’altro regno. Tra le figure coinvolte c’è frate Jean des Entommeures (dal sostantivo entemure, taglio), diventa un eroe burlesco e riesce a difendere il suo monastero, è una sorta di parodia ai romanzi eroici così come una satira verso alcuni ordini religiosi. All’interno di questo conflitto, Grandgousier si rivela un sovrano ideale, ammette la guerra per difesa ed è dunque un sovrano pacifico. La guerra mette gli uomini alla prova in quanto possono utilizzare il libero arbitrio. FRANÇAIS Rabelais est le premier grand auteur umaniste. Sa formation exprime une nouvelle sensibilité pour exprimer un idéal de l’époque. Il est considéré comme dangereux à cause de son intérêts pour le grecque, le latine et les lettres. Il se rapproche au secteur des lettre comme évangéliste. Il vouyage beaucoup pour l’époque et il a de correspondance avec des grands personnages. La première génération humaniste. Il reprends le réalisme grottesque et le renterprete a la manière humaniste. Cette esthétique alternative se développe à travers le comique et arrive au moyen âge où il se diffuse à travers la culture populaire pour arriver jusqu’à Rabelais. Il fait le pont antre antiquité, moyen âge et son époque. Il s’exprime à travers la manière de lire ses ouvres. L’usage de comique cache en réalité, s’exprime qualche chose de réel que l’antiquité ne parle pas. Il faut interpréter toutes ses symboles, les objets, les prénoms des personnages. Notre vie se présente comme un succession, un cycle interminable. Chez Rabelais il y a un série des éléments typicament humaniste: références à l’actualité (la guerre pichroconine), faire la satire du pouvoir, du roi e de là religion, de la justice, la prise de position de l’auteur sur l’éducation. Rabelais combine les éléments du quatrivium et du trivium pour avoir un’education encyclopédique, un nivel de connessaince très vaste avec l’objectif de créer un homme nouveau. Chester une moyen pour connaître se propre limité et cette idéale se retrouve dans le style, le lexico, les registres. QUESTIONE DELLA LINGUA Il francese non è la lingua di cultura dell’epoca, ma è il latino. È soltanto intorno alla diffusione della stampa che il francese comincia a imporsi. Si inizia ad avviare un dibattito di tipo culturale incentrato sulla lingua francese e sull’importanza del suo uso intorno alla metà del secolo grazie a un gruppo di poeti, la cui composizione è varia. Ci sono due figure importanti che hanno dato un grande impulso e valore. Il gruppo di chiama «La pleyade», una costellazione nella quale ogni poeta raffigurava una stella; le due più splendenti erano Ronsard e Du Bellay. Quando si inizia a pubblicare letteratura in francese, a conclusione di questo periodo in cui il volgare del nord si afferma sempre di più, viene pubblicato un testo teorico (1549), un saggio/trattato «Défense et illustration de la langue français» di Du Bellay, all’interno del quale convergono le idee del gruppo della pleyade e gli obiettivi culturali. La sua pubblicazione inaugura un dibattito, quella della questione della lingua, che da una parte chiude una fase di lancio del volgare come lingua di cultura e dall’altro vuole superare un certo modo di scrivere le regole. Vuole dunque superare certe regole. Dal titolo si possono facilmente comprendere gli obiettivi del trattato: la lingua francese andava difesa perché si pensava non avesse legittimità letteraria, doveva dare lustro/rendere illustre il francese; quindi non solo non è inferiore alle altre ma merita di stare in altri posti nelle gerarchie culturali linguistiche. Il testo intende legittimare il francese come lingua di cultura, da una parte in grado finalmente di superare il latino e il greco e dall’altra far sì che il francese possa essere in grado di produrre una letteratura contemporanea alla pari di quella italiana. Si rivolge prevalentemente ai poeti, perché si parla di poesie (il genere preso maggiormente in considerazione); la poesia veniva considerata maggiormente colta e il genere più elevato. I poeti sono i destinatari privilegiati e coloro che hanno la missione di elevare la lingua. La suddivisione del trattato riflette il titolo: la prima parte di occupa della difesa, la seconda è dedicata all’illustrazione, è la parte più pratica, si occupa come rendere illustre una lingua (12 cap e 12 cap). Il testo è dedicato al cardinale du Bellay, zio dell’autore, importantissimo in un testo poetico. Lo scopo dei 12 capitoli che caratterizzano la défense vogliono demolire i preconcetti che facevano sì che il francese fosse considerata una lingua inferiore rispetto ad altre, vuole andare contro i pregiudizi sulla lingua. La premessa è che tutte le lingue hanno un origine comune: la fantasia, l’immaginazione degli uomini. Da questo punto di vista, du Bellay condivide un’idea confermata, l’arbitrarietà di significato: non c’è un rapporto tra significante e significato, tra forma e sostanza, e lo scopo comunque è quello di trovare un significante per un significato. Siccome gli uomini possono creare un’associazione in modi diversi (punto di inizio e fine è lo stesso) non è possibile stabilire la superiorità di una lingua sull’altra. Partendo da questo presupposto, du Bellay ammette che allo stato attuale (metà 1500) il volgare francese non è così «ricco» come altre lingue come greco e latino dal punto di vista linguistico. La poca ricchezza non è legata a dei limiti strutturali intrinsechi della lingua, potrebbe essere alla pari delle altre; gli scrittori però hanno usato poco il francese, non hanno scritto direttamente in francese o si sono serviti di altre lingue o hanno subordinato il francese ad altre lingue. Su questa prospettiva, du Bellay dice: «Il francese è una pianta che non è stata coltivata abbastanza ed è cresciuta selvaggiamente»: non è stata seguita nella sua crescita, che è cresciuta in modo caotico e disordinato. Lo stato attuale dunque è critico e va operato un intervento, proprio quello che vuole fare du Bellay per dare delle soluzioni. I capitoli 5 e 6 riguardano la pratica della traduzione, ai quali seguono i capitoli 7 e 8 che riguardano il concetto d’imitazione. La traduzione era molto praticata all’epoca e forse era lo strumento nel quale l’uso del francese era privilegiato (usato più per tradurre che per scrivere); per emancipare la lingua è necessario ancora una volta cambiare approccio. Per proporre un nuovo modo di tradurre, l’autore prende un modello antico, estrapola ciò che gli serve e lo adatta alla sua epoca e lo fa con l’“Istitutio oratoria” di Quintiliano. Riguarda la formazione dell’oratore, vuole essere una guida alla formazione del perfetto oratore. L’oratore è una persona che riesce a tenere un discorso pubblico combinando argomentazione, preparazione, dizione e gestualità, volta a persuadere, convincere e catturare il pubblico. Colui che è in grado di presentare un testo preparato, logicamente coerente, deve seguire una preparazione di un certo tipo che Quintiliano struttura in 5 fasi: 1. L’inventio, consiste nella fase di preparazione che riguarda lo studio e la scelta di un argomento; 2. La dispositio, l’organizzazione degli argomenti all’interno del discorso, creare una sequenza logica che sarà poi sviluppata, 3. L’elocutio, la scelta dello stile che deve essere adeguato al soggetto trattato ma anche ai destinatari, i fruitori del discorso; 4. La memoria, i discorsi venivano declamati, è la capacità di tenere a mente ciò che andava presentato al pubblico; 5. L’actio, la capacità/prossemica, riguarda la gestualità che accompagnava il discorso. vista metrico. Se osserviamo bene queste due terzine vediamo che formano in realtà un distico (CC) più una quartina a rima baciata (DEED). I primi due versi della prima terzina si rimano tra di loro e formano una rima baciata, ma la terza rima che sembra isolata non lo è se la consideriamo agganciata alla seconda. Diventa quindi una quartina, come se le terzine funzionassero insieme a gruppi due. Altre realizzazioni sono CCD CCD. Traduzione: Se la nostra vita dura meno di un giorno, rispetto all'eternità, se l'anno che fa il giro della terra caccia via i nostri giorni senza speranza di ritorno, se destinata a finire è ogni cosa nata; A cosa pensi, anima mia imprigionata? (si rivolge all'anima) Perché sei attratta dal buio del nostro giorno, se per volare in un più chiaro luogo, hai sulla schiena l'ala ben impennata (ricoperta di piume)? Lì risiede il bene che ogni spinto desidera, Lì risiede il riposo al quale tutti aspirano, Lì risiede l'amore e lì ancora il piacere. Là, o anima mia, guidata verso il cielo più alto, lì potrai riconoscere l'idea della bellezza che adoro a questo mondo.” Nella prima strofa, si insiste, da un punto di vista tematico sul tempo dell’esistenza umana che viene confrontato con un'altra dimensione del tempo e questo confronto viene espresso con l'enjambement tra primo e secondo verso, che incontreremo anche successivamente. È limitata rispetto ad un'altra dimensione del tempo, cioè l'eternità. Questa ipotetica “Si" che apre e chiude la prima quartina, dà alla poesia il senso, l'andamento, di un testo argomentativo: pretendo da queste premesse, allora si arriva a una conclusione. Quindi, da questa prima strofa, si parte dalla constatazione per cui esistono due dimensioni del tempo, tempo limitato e irreversibile legato all'esistenza umana, e una dimensione superiore, cioè l'etemità, dove non c'è passato né presente, dove non ci sono cose che iniziano e finiscono, dove tutto è sempre stato e sarà. Nella seconda strofa si ha il destinatario della poesia, cioè l’anima: secondo li Neoplatonismo, l'anima è quel ponte immortale che consente di tendere verso Dio ma che è appunto imprigionata in un involucro mortale; l'anima ha un rapporto particolare con l’esistenza. Non ha un atteggiamento univoco, perché da una parte effettivamente ha in sé ed esprime l'eterno, ma vive in un mondo che non è eterno, c'è un’ambivalenza. Al verso 6, infatti, c'è un ossimoro: “la vista oscura”, il poeta evidenzia il senso della fine e questa consapevolezza ci accompagna. L'anima da una parto è attratta verso questa esistenza mortale, ma, se è vero che esiste su questa Terra, porta con sé anche una traccia di eterno ed è verso questa che tende e cerca di ricongiungersi. Al verso 8, dice che per spiccare il volo dentro di sé ha già il potenziale per volare. Ha questa tendenza all’elevazione pur mantenendo questa doppia natura; non c'è un senso totale di ascetismo, bensì un senso di elevazione pur nel mondo. Per quanto riguarda il titolo bisogna fare una precisazione: nella filosofia platonica, le idee risiedono nell’Iperuranio (una dimensione superiore); tutto ciò che esiste sulla Terra non è altro che una riproduzione imperfetta, siamo in parte qualcosa di imperfetto e limitato che però tenderà sempre verso quest’altra dimensione. Questo atteggiamento spiega anche la natura dell'anima. Infatti, quest’idea di tensione verso una dimensione in cui risiede l’eterno, e quindi tutto l’ideale, si spiega con l'anafora “La” (prima terzina): “le bien, le repos, l’amour, le plaisir” indicano l'altra dimensione. Tutto questo ci avvicina al cielo più alto e dunque all’Iperuranio. Un secondo enjambement (seconda terzina) vuole sottolineare la ricerca dell'idea della bellezza eterna. L’obiettivo della poesia è quello protendersi verso un'esistenza vissuta nell’amore e nella bellezza. Il verbo “reconnaitre” ha due significati: identificare e riconoscere, ritrovare un qualcosa da cui si proviene verso il quale però non si è altro che una riproduzione imperfetta. L’uomo prova a ricongiungersi ad esso ma il suo essere finito lo porterà sempre e solo a tendersi senza mai riuscire completamente ad arrivarci finché si trova in questa dimensione, finché non morirà. Abbiamo quindi la centralità dell'anima che viene ripresa come ponte per raggiungere l’eterno. C’è l’elemento di identificazione tra eterno, le idee platoniche e la bellezza. La poesia come momento di dialogo con la propria anima è uno strumento di elevazione spirituale, la bellezza può arrivare ad avvicinarsi all'eterno. L'anima è vincolata al corpo mortale ma non può smettere di provare questo ricongiungimento. La bellezza è uno degli ideali da raggiungere attraverso l'amore e questo può essere applicato a vari ambiti, ma anche utilizzato per l’ideale della bellezza; ciò significa che, in quanto idea appartenente all’Iperuranio, la bellezza è un modo per raggiungere Dio. Nell’Umanesimo, dunque, i valori cristiani non vengono messi da parte, ma c'è un nuovo rapporto tra l’uomo e Dio; non più un elemento passivo come nel Medioevo, con l'amore l’uomo può esercitare un ruolo attivo. REGRETS XXXI In questo sonetto notiamo l’uso del doppio senario: 12 sillabe divise in 2 senari (8 versi più 6) che seguono lo schema metrico ABBA, ABBA, CCD, EED (rima incrociata e baciata). Nella prima quartina, l’autore mette in comune il suo viaggio con quello di due personaggi della mitologia greca, Ulisse e Giasone, quest’ultimo presentato con una perifrasi: “celui-là qui conduit la toison” (la toison è un vello che nel mito Giasone con gli argonauti ruba in quanto ha il potere di guarire ogni ferita). Entrambi hanno vissuto questo viaggio e sono tornati a casa pieni di conoscenza, proprio come vorrebbe fare il poeta. All'interno della quartina è usato il passé composé per raccontare il viaggio che compiono gli eroi della mitologia greca; troviamo anche dei termini che esaltano l'aspetto positivo di questo viaggio: “beau voyage", “retourmé, pie d'usage et raison”, che dimostrano come questi viaggi li hanno portati ad avere una piena conoscenza e un bagaglio culturale. Viaggiatori come Ulisse e Giasone sono personaggi che hanno esplorato, possono dare un insegnamento di quello che hanno vissuto. La seconda quartina continua ciò che ha iniziato la prima: dopo una sorta di preambolo, si fa riferimento al suo paesino e si chiede in quale stagione (intendendo in quale anno) potrà rivedere i campi della sua povera casa che gli è così cara e anche molto perché rappresenta i suoi affetti Fa una sorta di similitudine non si è realizzata, utilizza il futuro perché ciò che dice non si è ancora avverato. La parola “village” significa paesino; sappiamo che du Bellay abitava in un paesino di nome Liré e all’interno di questa quartina ci sono degli elementi che caratterizzano il villaggio. Ad esempio, con la parola cheminée, attraverso l'utilizzo della sineddoche, lui intende una parte per il tutto; anche quando parla di “le clos de ma pauvre maison"” (i recinti della mia povera casa), si riferisce a tutto il paesino. Il camino indica un senso di familiarità; il nucleo familiare si chiama Focolare, il fuoco è ciò che riscalda e ciò che unisce, se il caminetto è acceso significa che all'interno c'è qualcuno. C'è questa dimensione familiare, domestica, che esprime questo senso di calore. Con recinto intende da una parte una campagna in opposizione alla città e dall'altra rappresenta il recinto vero e proprio che cinge la proprietà. Cingere significa delimitare, proteggere, abbracciare; c'è questo senso di comfort zone, un ambiente protettivo, quello spazio conosciuto e rassicurante ed è per questo che alla fine dice che il villaggio ha un valore superiore a posti più grandi e ricchi. Il sentimento che ispira una tipologia di immagine simile è la nostalgia. Nella prima terzina troviamo l'opposizione tra Roma e Liré, tra lo sfarzo romano e la semplicità contadina che ritrova e che gli è familiare, soprattutto quando fa la contrapposizione tra marmo duro e ardesia sottile. L’ardesia è una pietra nera, il nome deriva da Arden, una provincia francese, ed è un materiale che veniva usato soprattutto in quest'epoca per la copertura dei tetti; continua il rimando al focolare domestico, alla casa. Dalla similitudine iniziale si passa a una comparazione tra Roma e Francia. L'autore però continua a esporre questo suo senso di familiarità francese rispetto allo sfarzo che trova a Roma; riprende il senso di nostalgia che prova verso questa dimora e lo fa attraverso un'anafora, che inizia nella prima terzina e conclude la poesia. L'autore prosegue creando una sequenza di immagini dissonanti rispetto all'orizzonte d'attesa del lettore, ciò che si aspetterebbe di leggere (dal momento in cui leggo un testo mi aspetto di trovare certe cose, le mie aspettative di lettore sono dettate da quello che è il mio bagaglio culturale, che sarà diverso da persona a persona, quello che è il mio vissuto, le emozioni che ho provato, come mi sento in questo momento e soprattutto quelle che sono le convenzioni sociali). In un periodo in cui l’antichità è celebrata alla massima potenza, e lo stesso Du Bellay partecipa a un dibattito in cui gli antichi sono un modello culturale, ci si aspetta un’esaltazione di Roma senza se e senza ma; invece l'usage et la raison, che Du Bellay matte in pratica perché lui stesso è stato a Roma per accompagnare suo zio il cardinale, la sua esperienza con il suo viaggio nella Roma di oggi gli ha fatto toccare con mano il divario che c'è tra l'immaginario letterario che si era creato tra l’umanista e la realtà; immaginava che Roma fosse calma e la culla di una grande cultura, ma si sente quasi oppresso dalla sua grandezza. La perifrasi “le séjour qu'ont bâti mes aïeux” rappresenta Liré, la sua casa, che viene contrapposta ai grandi palazzi romani fatti di marmo e alla loro magnificenza artistica. Nell'ultima terzina si conclude questa serie di paragoni a livello fisico, il Tevere latino con la zona della Loira gallica intendendo la zona della Francia dove si trova Liré; continua facendo il paragone tra la sua città e il monte palatino, uno dei sette colli su cui sorge Roma. Nell'ultimo verso parla dell’aria marina riferendosi all’aria mediterranea, descrivendo un tema mite della provincia di Angé ("la douceur angevine"). In tutta la poesia ricorre una contrapposizione tra la cultura greca e quella latina; nelle prime due quartine vengono introdotti due eroi greci, nella seconda si parla della cultura latina, di Roma, mette a paragone la mitologia greca e la cultura latina e lascia intendere una superiorità della mitologia greca. Nelle terzine, dal punto di vista formale, se prendiamo l'interezza dei versi singoli troviamo dei chiari riferimenti a Roma e Liré, c'è un gioco di parallelismi che però non è schematico, sono parallelismi evocati dall'organizzazione delle parole all'interno dei versi ad esempio “le séjour qu'ont bâti mes aïeux” v. 9 / “le marbre dur me plait l'ardoise fine” v.11. Fa un richiamo tra primo e terzo verso della prima terzina e sempre nell’undicesimo verso la prima metà è come se fosse specchiata nell'altra; c'è tutto un richiamo di parole che crea un parallelismo dissonante perché è come se le frasi fossero costruire allo stesso modo, però esprimono un mancato incontro. Questo paragone significa che si mettono a confronto due realtà completamente diverse, dove questo “plus que” indica che una prevale sull'altra; questa comparazione di maggioranza a favore di Liré viene resa dal punto di vista stilistico attraverso questi parallelismi apparenti. Il parallelismo rappresenta due cose che vanno di pari passo, ma è apparente: sembrano essere costruiti per descrivere due cose che stanno sullo stesso livello, ma che in realtà pongono il villaggio di Liré a un livello superiore. Nella prima terzina il paragone è più esteso, poi si accorcia e questo intensifica il ritmo. REGRETS CXXX Du Bellay scrive “Regrets” dopo il suo viaggio a Roma che fa dal 1553 al 1557, per accompagnare lo zio cardinale. Metrica: anche questo è un sonetto, composto da versi alessandrini con schema metrico ABBA, ABBA, CCD, EED; anche qui è come se le terzine formassero prima un distico e poi si unissero in una quartina. Nella prima quartina abbiamo due enjambement tra il 2-3 verso e il 3-4 verso. Anche dal punto di vista grammaticale, nelle prime due quartine du Bellay utilizza l’imperfetto descrittivo, usato per raccontare vicende, luoghi e stati d'animo legati al passato. Capiamo che parla di sé stesso perché questo è il sonetto 130, che fa parte di un canzoniere e quindi deve essere letto tutto dall'inizio alla fine, quindi il lettore ha già letto i testi precedenti e conosce la storia Nelle terzine invece usa il presente; questo per mettere in contrapposizione il periodo in cui paria di Roma, un periodo passato, e le sue sensazioni del momento. Du Bellay vive il suo periodo di permanenza a Roma come se fosse un esilio ed è per questo che già nella prima quartina usa la figura di Ulisse che non può tornare a nel futuro incita ancora una volta la donna a vivere, a cogliere l’attimo, di godere la giovinezza in prospettiva della vecchiaia sicura. Il carpe diem legato a cogliere le gioie del corpo mortale si ricollega anche all’immortalità della poesia; la donna che ha come valore quello di incarnare la poesia, deve anche viverla perché non le resta altro, al contrario avrà solo il rimpianto di non aver vissuto il presente. LEZIONE 24/03 La seconda parte del secolo mantiene una parte di continuità con la prima, ma assistiamo anche a un progressivo mutamento di prospettive e visioni del mondo; c’è un elemento continuo: la presenza della guerra. Lo scontro bellico continua a far parte della quotidianità dei francesi con una differenza: se le guerre d’Italia erano considerate delle guerre legittime (per la società dell’epoca la guerra faceva parte delle attività politiche ordinarie perché collegate ad azioni difensive e di invasione, motivo per cui la Francia si espande e si restringe in base agli esiti. Finché le guerre erano mirate verso paesi esteri in funzione di difesa erano accettate. Il prezzo comunque era sempre altissimo in termini di vite umane ed economici), ciò che cambia nei decenni è essa diventa anche civile, i francesi combattono contro i loro compaesani e compatrioti. Il nemico può essere ovunque ma anche nello stesso Paese. Ciò che definisce il nemico è il credo religioso: la riforma protestante ha il suo impatto più significativo nella seconda metà del secolo, quando il calvinismo si radica in Francia con gli ugonotti e ne deriva una guerra civile che si sviluppa dal 1562 al 1598, 8 guerre civili separate da brevi pause sancite da paci. C’è un’intermittenza tra ansia costante e quiete. A questa si aggiunge un elemento di natura politica: dalla fine degli anni ‘40 al 1598 si susseguono 5 sovrani che muoiono tutti tragicamente (alcuni uccisi). Questo periodo viene preso in esame perché nel 1547 inizia il regno di Enrico II Francesco I: dopo un regno relativamente stabile non si riesce a dare continuità alla corona di Francia per il resto del secolo. I sovrani che seguono sono Enrico II, il quale vorrebbe regnare nel solco di quanto fatto dal padre, ma muore nel 1559 tragicamente per un incidente a cavallo. Lo dovrebbe seguire il figlio, Francesco II, il quale è troppo giovane per essere incoronato e inizia un periodo di reggenza da parte della madre Caterina de Medici, che svolgerà un ruolo importantissimo nella corte. Questo periodo è debole dal punto di vista politico perché ci sono dei tentativi di manipolazione da parte di famiglie nobili che tentano di entrare nella cerchia di consiglieri della corona. La regina è cattolica e si innescano delle rivalità tra famiglie protestanti e cattoliche al punto che nel 1560 delle famiglie protestanti tentano di rapire il delfino. Nel ‘500 i sovrani non erano rivestiti di un’aura di sacralità, anzi erano figure scomode da eliminare. Egli comunque riesce a salire al trono a 15 anni ma muore comunque presto per motivi di salute (regna solo un anno e mezzo). Gli altri figli provano a dare una successione alla casa dei Valois: lo segue Carlo IX, cattolico, muore per motivi di salute (regna per 15 anni). Il suo regno è degno di nota (dolente) perché nel periodo in cui era re avviene il massacro della notte di San Bartolomeo, evento che però continua anche nei giorni successivi e che si è prolungato in alcuni paesi per vari mesi. Era una vera e propria caccia ai protestanti, si procedeva all’uccisione in massa di questi religiosi. È considerato come l’apice di un mezzo secolo di tensioni in cui l’intolleranza, la sete di vendetta e l’aggressività l’hanno fatta da padrona. Successivamente, sale al trono un terzo di figlio di Enrico II, Enrico III, che muore ucciso all’arsenale della Bastiglia; regna per circa 15 anni e non ha eredi, deve cedere la corona a suo cugino che appartiene ai Borbone, Enrico IV (dotato di una certa apertura mentale che lavora per il dialogo tra le parti della Francia). Viene ricordato per l’Editto di Nantes che promuove la libertà di religione ma viene ucciso dai cattolici. Grazie a quest’editto si pone fine alle guerre di religione. In questo contesto si inserisce Montaigne, primo moralista classico che inaugura numerosi filoni letterari. Spesso ricordato come un uomo di biblioteca dedicato alla scrittura e alla lettura, Montaigne è un uomo di mondo, una persona che ha vissuto e agito tantissimo, che interviene concretamente all’interno del proprio secolo (avvocato, consigliere parlamentare, discende da una famiglia di politici). Uomo estremamente colto che a un certo punto si è lanciato nella scrittura con delle finalità diverse rispetto agli altri autori: scrive un’opera rimasta incompiuta non per impossibilità di tempo ma perché mette in cantiere un’opera “della Vita” alla quale lavorerà fino alla morte. Qui convergono tutte le sue esperienze che non sono altro che un trampolino per presentare l’uomo; lo fa inventando un genere letterario, Essais, che non corrisponde a un genere preciso e che non rientra nei veri e propri saggi; è un’opera ibrida e sfuggente, mai esaurita e moderna. Michel Eyquem du Montaigne è legato all’area geografica d’appartenenza. Nasce in una famiglia arricchita dal commercio del vino e del pesce sotto sale; ha origine dunque nel ceto medio. Questo periodo è legato alla generazione dei nonni, il padre interrompe l’attività commerciale per trarne beni, opera un salto di classe comportandosi da alto borghese/piccolo aristocratico (prende il nome dal castello di loro proprietà). Il padre dunque comincia a entrare in società e spiana la strada al figlio, il quale riceve un’educazione particolare: aveva un precettore tedesco che gli parlava in latino. Cresce considerando il latino una lingua viva e della quotidianità. Intraprende gli studi di legge, diventa consigliere, compie viaggi diplomatici (gli scritti che raccontano i suoi viaggi sono alla base della letteratura di viaggi). Gli essais sono un opera incompiuta che ha avuto delle edizioni intermedie, due pubblicate dall’autore in vita e una terza postuma. A partire da questo manoscritto ci si è reso conto che Montaigne non ha mai smesso di intervenire sul testo, ha sempre considerato i suoi saggi come qualcosa di aperto e in costante movimento. Si dedica con attenzione all’opera: la prima versione (due libri) è stata pubblicata nel 1580 ma l’autore ci lavorava già da alcuni anni prima; continua il lavoro e aggiunge un terzo libro nell’edizione del 1588. L’attuale edizione fa riferimento a una terza pubblicata postuma ritrovata nel 1595 da Mademoiselle de Gournay, che la ritrova contenente delle correzioni sull’ultima edizione. Ciò che ci interessa è l’idea di opera in continua evoluzione, riorganizzazione e riscrittura. Questo titolo “Essais” è legato ai fatti e vissuti, oggetto al plurale: 3 libro, 13° capitolo: “Enfin, toute cette fricassée que je barbouille ici n’est qu’un registre des essais de ma vie” (tutti questi cosi che scarabocchio non sono altro che delle esperienze della mia vite). A questo si aggiunge il termine “essayer” (tentare, provare). L’orizzonte d’attesa è un qualcosa di poco autorevole, poco strutturato, qualcosa che all’epoca incuriosiva poiché non si era mai letto prima qualcosa del genere. Montaigne si rivolge a un lettore generico, anonimo, quindi chiunque e descrive la sua opera come un libro fatto in buona fede, ossia che si presenta come un prodotto di lettura interiore, sincero, non realizzato per compiacere o attaccare qualcuno. È qualcosa di assolutamente ordinario e comune. L’autore da del “tu” per stabilire un rapporto di prossimità sociale e vicinanza interiore. Parla come se parlasse a se stesso o a qualcuno che conosce e non per ottenere il consenso o l’approvazione, si pone allo stesso livello del lettore; qualcosa di intimo legato alla cerchia affettiva. La priorità è usare la scrittura come uno strumento di ricerca interiore. Compie delle affermazioni modeste deh fa parte del gioco delle dediche: quando si dedicava un’opera a un principe/cardinale/re, una persona che fosse considerata superiore a colui che dedica si pone in un atteggiamento di sottomissione. Questa modestia di rito viene ripresa da Montaigne ma inserita in una dichiarazione di sincerità (rinuncia a scrivere per ottenere gloria perché non è capace); dichiara qualcosa che non fa, non è coerente con l’opera e smaschera i codici del tempo nel quale le dediche rientravano in un rituale sociale. Non esita a dire che non è capace, ha un atteggiamento di chi intende mettersi a nudo. Dichiara di voler lasciare questo testo ai suoi affetti poiché possano riscoprire alcune parti di se nel momento in cui non ci sarà più, alimentino in maniera più viva la conoscenza che hanno avuto di lui. Vuole mostrarsi per quello che è senza artifici e sforzo e, tralasciando la sua figura pubblica, mettere a nudo la parte più profonda. La sua sincerità non vuole scandalizzare, non ha intento provocatorio e resta nel codici sociali dell’epoca. Il soggetto degli essais è lo stesso Montaigne. Descrive il soggetto frivolo, che ha poca importanza e non ha niente di solenne. Esistevano delle composizioni allegoriche, vanitas, nature morte che raggruppano tutto ciò che è vano e che riconducono a tutto ciò che è effimero per l’esistenza. La forma e i contenuti del testo esprimono una visione del mondo dell’uomo. Il termine è considerato come sinonimo di «esperienza», l’argomento è solo inizialmente considerato il moi, la riflessione universale dell’esistenza. Prendendo in considerazione il testo rivolto al lettore si vede che l’autore propone un orizzonte di lettura, da delle indicazioni di lettura e inserisce quest’opera nella scrittura privata (pubblicandolo si contraddice, ciò che dice in realtà è la sua scrittura che presenta come realizzata secondo i codici domestici e privati, riservata alla sola lettura dei propri affetti). Vuole presentare il suo testo sotto il segno dell’introspezione, espressione personale e intima, una franchezza che tiene poco conto dell’identità e del consenso del lettore. Aveva carattere universale, non c’è nulla di amplificato o idealizzato ma c’è qualcosa che riguarda tutti. (La scrittura del se coinvolge l’io, che può essere un personaggio o l’autore stesso). Presentare un testo che ha come oggetto il proprio sé rientra tra le scritture personali, le forme nelle qualsiasi si muove cambiano moltissimo in base al periodo. A partire dall’avant-propos ci si aspetta una scrittura in prima persona. All’epoca scrivevano parlando di sé i poeti con la poesia lirica e amorosa. Ciò non esclude una scrittura in prosa dove il soggetto è l’io. Ci sono diversi sotto generi considerati meno prestigiosi legati alla scrittura del sé, anche meno ricercati dal punto di vista stilistico; questi, meno importanti, erano anche soggetti a meno regole formali e restrizioni. La corrispondenza privata è un esempio. La lettera era il principale scambio di comunicazione, tali scambi epistolari in forma privata potevano avere anche un contenuto che veniva pubblicato, come quelli di Erasmo da Rotterdam. Altro sottogenere che fiorisce a partire dal contesto umanista è il commento, tipo particolare di scrittura dove c’è un io che si esprime. Non c’è espressione di sentimento o stati d’animo, ma a partire da un testo c’è un io che tira fuori una propria considerazione, che esprime se stesso ma che è al servizio di un testo principale. Volendoci avvicinare alla nostra idea di scritto autobiografico, il sottogenere più vicino è quello dei mémoires. È il racconto in prima persona di una figura di spicco che ricostruisce la propria vita volendo legittimare e difendere la propria immagine, mostrare il rapporto che c’è tra la propria vita e il contesto storico, la realtà politica che ha contribuito a forgiare. Viene esclusa non soltanto la dimensione della prospettiva ma anche tutto ciò che riguarda il corpo, l’aspetto fisico e se ne si parla spesso è per fare riferimento a degli incidenti avvenuti in battaglia, delle ferite funzionali all’azione. Se parliamo di corpo svincolato all’azione si ritorna alla poesia. Philips Lejeune ha pubblicato dei saggi che alla fine degli anni ‘70 del 1900 sono stati di riferimento per la definizione dell’autobiografia. «Il patto autobiografico» dice, «è un racconto retrospettivo in prosa che una persona reale fa della propria esistenza nel momento in cui mette l’accento sulla propria vita individuale». Per avere un’autobiografia occorre che gli avvenimenti siano passati e conclusi, se così non fosse avremmo un diario e non ci sarebbe distacco e rielaborazione intellettuale che troviamo in una scrittura retrospettiva. Esiste coincidenza tra autore, narratore e personaggio principale. Il racconto della vita non è intrecciato ad avvenimenti storici o politiche, è individuale e personale. Il racconto a ritroso viene costruito secondo una successione cronologica connessa e intrecciata al racconto di una evoluzione/crescita interiore. Quando si ha per la prima volta un’autobiografia che risponde a tutte queste caratteristiche? Nel 1789 con «Le confessioni» di Rousseau. I contenuti che Montaigne dichiara di inserire all’interno del testo sono dei pensieri in costante trasformazione, siamo in contrapposizione con quello che era l’istitutio oratoria. L’idea di compiutezza salta, ciò non significa che scrivere sia un’attività abbandonata all’improvvisazione. Anche quando lui scrive un capitolo ci ritorna su, lo riorganizza e lo revisiona. Questa estetica del disordine e del movimento ha un impatto sulla struttura dell’opera. Ricordiamo che è un’opera aperta nella quale ogni saggio corrisponde a un capitolo, il cui titolo corrisponde a una minima parte di ciò che viene trattato; ogni capitolo è diverso e ogni titolo è solo un trampolino per gli argomenti da trattare. Starobinski ha dedicato un libro molto raffinato à Montaigne, «Montaigne en mouvement», nel quale afferma che la scrittura vuole essere espressione del mondo in perpetuo movimento. E dunque un’opera frammentaria ed eterogenea in cui però, pur in questa instabilità, esiste un’ossatura data dal lavoro che vi è dietro, è possibile osservare come l’autore ha lavorato. Le letture svolgono un ruolo importantissimo, a partire da queste Montaigne prendeva appunti che potevano riguardare citazioni o riflessioni di opere (testo-commento). Queste vengono a mano a mano sviluppate intrecciando una riflessione generale con aneddoti, ricordi, esperienze legate al proprio vissuto (particolare-universale). Da un lato abbiamo una visione umanista ma dall’altro questa viene vista in chiave moderna, del tutto diversa. MONTAIGNE PEINT PAR LUI-MÊME spontaneità a causa del loro viaggio in Europa. Questi ospiti inconsueti arrivano e li si porta in giro per mostrare loro ciò che più rappresenta in positivo, ossia i modi di fare, lo sfarzo e l’aspetto della città anche da un punto di vista materiale e superficiale (da alcuni dettagli coglieranno delle contraddizioni profondi che si celano dietro questo lusso). All’interno delle loro tribù, i capi sono gli anziani, coloro che possono gestire e condurre un gruppo grazie alle loro esperienze accumulate. Questo non viene accantonato all’interno dei sistemi politici occidentali. Qui però il re non è anziano e per loro, così abituati, sembra strano; viene criticato dunque il principio monarchico dell’ereditarietà del trono. Si allontana dal concetto di meritocrazia, è un concetto di merito per nascita. Soltanto alla fine del 1700 questo concetto viene messo in discussione. Ancora, i brasiliani osservano le loro metà, ossia l’altra parte della cittadinanza. I selvaggi osservano come la società sia divisa tra ricchi e poveri, tra i quali c’è un divariò incredibile e si meravigliano che i poveri, pur essendo in quantità maggiore rispetto i ricchi, non si ribellano per quanto potrebbero farlo in fatto di numeri. Avvertono l’accettazione di qualcosa di innaturale che potrebbe essere ribaltata. Viene criticato il principio di ereditarietà monarchica e l’assenza di un principio di uguaglianza. Alla luce di tutto questo, i veri primitivi sono gli occidentali. Questo concetto, il relativismo culturale, si applica anche a livello religioso. Ogni cultura ha le sue caratteristiche, il suo modo di vedere le cose e Montaigne vuole legittimare i barbari, è a favore di un’apertura mentale; ognuno vive secondo dei valori e codici che sono espressione di una cultura condizionata dal tempo e dall’area geografica. Il rapporto che lo scrittore ha con la religione si colloca su questa scia. Lui è agnostico, in quanto esseri finiti non potremmo mai conoscere Dio che per definizione è un essere infinito. Ognuno di noi si fa un’idea di Dio, condizionata da dei parametri culturali, politici e sociali. Non c’è una religione inferiore o superiore rispetto a un’altra. Secondo Montaigne, Dio è una potenza incomprensibile, origine e conservazione di tutte le cose; lui si rivela agli uomini attraverso la grazia ma dal momento che ognuno organizza una definizione per questa entità suprema e irraggiungibile il principio da adottare è quello della tolleranza. Montaigne résume tous les hommes de son époque. Son entreprise est unique dans le contexte de la littérature. Le titre de son œuvre définisse quelque chose qui n’existe pas. Le terme essais souligne le caractère sperimentale de l’auteur. Les essais ne sont pas une autobiographies, ici on assiste à l’évolution d’une personne. M ne se présente pas comme une figure politique, il parle de sa vie et il s’adresse au lecteur. Il n’y a pas la volonté de construire une personnalité fictive. L’auteur revu constantement son œuvre. Sa présentation est le premier autoportrait de la littérature, le lecteur peut comprendre comme est qui écrit. L’idée de l’éducation de M exprime la relation avec la philosophie ancienne (stoïcisme, epicureisme). LEZIONE 03/04 IL BAROCCO Montaigne può essere considerato un precursore del barocco. Per parlare del Barocco si parte dalla storia dell’arte e non dalla letteratura. L’opera “Las Meninas” di Velasquez – 1656 – non è anticipatore della sensibilità barocca però riassume i principi di una corrente che esprimono una visione del mondo e dell’arte come strumento per dare voce a questa visione. Al centro del quadro troviamo l’infanta Margherita, figlia di Filippo IV di Spagna e di Marianna d’Austria; attorno a lei le damigelle, figure marginali rispetto la futura regina che però danno nome al quadro. Vediamo poi altri personaggi che fanno parte della corte, un cane, una coordinatrice - una certa Marsala De Ulloa –, delle donne al servizio per i reali, un altro funzionario e in penombra una figura maschile e una femminile. Abbiamo quindi l’infanta al centro, le figure che la circondano sono sia socialmente sia spazialmente marginali a essa; al centro dello sfondo c’è un signore che si trova nel punto in cui entra la luce, un maresciallo del palazzo, José Nieto Velasquez, che occupa il vano della porta e all’interno di una cornice/specchio troviamo i sovrani. Si mette in scena una seduta di posa nella quale è coinvolta il pittore, alcune figure di corte principali e secondarie ma i veri modelli del quadro sono i re di Spagna che vediamo attraverso lo specchio. Il vero oggetto della rappresentazione è ciò che vedono i modelli che posano davanti questo pubblico, vediamo dunque la scena osservata dal re e dalla regina. Tecnicamente Velasquez per fare ciò ha utilizzato uno specchio grande dietro i modelli. L’effetto finale è quello di creare una grande illusione, secondo la quale sono i sovrani a realizzare il quadro che vediamo. Il quadro confonde, lo spettatore non ha immediatamente la percezione di quello che sta vedendo. Velasquez fa una cosa tipica dell’estetica barocca: mette insieme tutti gli elementi che caratterizzano la rappresentazione artistica (artista, i modelli, gli spettatori), mette così in crisi i ruoli tradizionali. Mettere in evidenza l’artificio che c’è dietro la rappresentazione è l’elemento barocco, confondere su cosa sia finzione e realtà. Mostra fino all’amplificazione una crisi di questa rappresentazione nel momento in cui non sappiamo più chi dipinge, chi è dipinto, ci si rende conto di quanto sia illusorio il soggetto rappresentato – momento di crisi della coscienza artistica europea che Velasquez è stato capace di sintetizzare. Mette in scena questa crisi degli elementi tradizionali, pur riconoscendo la presenza di questi elementi confonde quelli che fino a quel momento erano dei ruoli distinti e riconosciuti. La teatralizzazione è ciò che opera; da una parte quindi mostra i limiti (quello che vediamo non è così ma c’è un’illusione), dall’altra sfrutta questi elementi e fa di questa crisi e messa in discussione degli ingredienti per creare delle nuove illusioni (denuncia i limiti e fa di queste illusioni uno slancio per creare nuove forme d’arte). Questa riflessione artistica non è legata a un ragionamento interno alla rappresentazione ma è la conseguenza del rapporto che si ha con la realtà. Questo fenomeno in Europa ha inizio intorno agli anni 70 del 1500 e presenta una continuità verso alcuni elementi di questo secolo. Si crea un nuovo assetto sociale e culturale; gli scrittori presentano sempre lo stesso rapporto: da un lato raccolgono un certo clima, dall’altro – in quanto persone dotate di una certa sensibilità – contribuiscono a dare voce ai cambiamenti, sono stati in grado di sintetizzare alcuni momenti della storia culturale Francese. Nella prima metà del secolo la Francia affronta la fine di un tempo sanguinoso e difficile che porta dietro di sé il peso di tale periodo ma che cerca una certa stabilità, un nuovo ordine, tenta di andare avanti e non ripetere gli stessi errori del passato. In seguito a quest’epoca, la prima cosa che si cerca di fare è definire i confini nazionali. Parigi, oltre a essere il centro culturale e politico, è il frutto di un lungo processo di unificazione nazionale che comincia proprio nel ‘600. Richelieu investe tantissimo, vuole limitare il più possibile l’incidenza degli oppositori politici, quindi eliminare le dissidenze. Creare uno stato forte, eliminare le persistenze di tipo medievale che esistevano ancora e soprattutto considerare la cultura e la lingua come veicolo per creare uno stato unitario (l’académie française è solo una delle iniziative del tempo). Questo processo di unificazione vede nel teatro il suo veicolo privilegiato. Ci sarà una corrente culturale capace di canalizzare queste istante e di dare espressione, il Classicismo. Per tutto il ‘600 questa sarà la corrente predominante, nonostante continui a coesistere e infiltrarsi in questo progetto di ordine e stabilità una certa sensibilità, il clima tardo-cinquecentesco. Quest’idea/cultura di dinamismo dell’individuo, la tendenza a non classificare sé stessi e gli altri, dà luogo a una corrente altrettanto importante, il Barocco. La parola barocco non ha origini francesi, ma è portoghese (barroco) e rimanda alle perle irregolari. Nel 600 ci sono dei paesi in cui la corrente si afferma in maniera preponderante rispetto ad altre, in Francia avrà delle coesistenze ma sarà sovrastato dal Classicismo per motivi politici. In Spagna e Italia il Barocco sarà messo a servizio della controriforma, rafforza il prestigio della Chiesa, intende potenziare il suo linguaggio e stimolare una reazione emotiva nei fedeli. MANIFESTO: qualcosa di codificato e teorizzato; di solito di fa riferimento a un manifesto che può essere volutamente scritto dall’autore per enunciare i principi di una certa scuola di pensiero. CORRENTE: quando più autori si riuniscono intorno a una sensibilità comune che non è teorizzata in maniera centrale; possono esserci testi considerati espressione teorica, ma solitamente la corrente vede un’individualità, è qualcosa di più fluido. A partire da questo termine che definisce un oggetto prezioso ma inconsueto/inclassificabile si è sviluppata un’estensione semantica secondo la quale ha iniziato a essere associato negativamente a qualcosa di bizzarro, fuori dalle regole, qualcosa di deforme e deviato. Il termine è stato poi associato a una determinata visione del mondo e a una corrente artistica che ha un suo bagaglio retorico (comprende figure di stile e tematiche dal punto di vista letterario e figurativamente comprende strategie di composizione e tecniche). Questo concetto di barocco si sviluppa prima nelle arti visive e poi nella letteratura. Il barocco si esprime soprattutto nell’architettura e scultura. Lo stile è tendenzialmente molto carico, fa ampio uso di ori e di sfarzo. Un esempio di autore barocco è Lorenzo Bernini, che sarà invitato da Luigi XIV alla corte di Versailles. Velasquez mostra come la realtà è un sistema di apparenze all’interno del quale non è possibile stabilire con precisione i confini, ciò che è realtà e ciò che è artificio; questo sistema delle apparenze è come se fluttuasse sulle cose. Nel 600 si diffonde l’artificio del trompe l’œil, inganna l’occhio. Un esempio è “La gloria di Sant’Ignazio di Loyola”. Se il gioco tra realtà e apparenze diventa un tema che dà vita a delle forme artistiche si tende anche a ostentare queste apparenze – il mondo è un grande spettacolo. C’è questo effetto di teatralizzazione, il concetto di theatrum mundi, che svolge un ruolo fondamentale: il mondo è un gigantesco teatro in cui cambiano i ruoli di scena, regista e attori. Questo insistere sulla spettacolarizzazione della realtà, da un punto di vista formale, porta alcuni autori barocchi a ostentare; è l’epoca in cui il teatro è dotato di macchine capaci di creare effetti speciali per in grado di realizzare un’atmosfera che confonde. Tra i vari temi si insiste sulla mobilità dello spazio, proprio perché tutto è poco definito: queste figure sinuose e costantemente in movimento sono legate all’idea di vita sfuggente, mai ferma. Ciò può portare all’estremo di una visione del mondo dove la stabilità non esiste, il mondo è qualcosa di estremamente dinamico che potrebbe portare alla perdita di stabilità. Questo fa sì che all’interno delle rappresentazioni barocche il tema delle metamorfosi sia molto presente (“Apollo e Dafne” di Bernini creano una sorta di illusione ottica dove oggetti statici sembrino muoversi). Formalmente, lo spazio si libera attraverso forme dilatate e ingrandite; tale visione nell’epoca della controriforma era legata alla visione di Dio, un’entità suprema e più grande rispetto agli uomini. Nelle arti visive vengono privilegiate le forme tondeggianti, mentre linguisticamente si prediligono frasi lunghe e articolate. L’idea della mutevolezza porta anche alla fusione di elementi naturali: in Apollo e Dafne la ninfa è raffigurata mentre si sta trasformando; anche il tema della metamorfosi è spesso ricorrente, la vita in continuo cambiamento che coinvolge tutto. Tutto questo converge nell’estetica della meraviglia: Gian Battista Marino nel 1608 pubblica una raccolta di versi satirici e il 7° è intitolato “Il poeta e la meraviglia”; il Barocco dunque verte completamente sullo stupore e la meraviglia. Questi due elementi sono legati però all’imprevedibilità della vita: se la vita è instabile allora questa può sorprendere in bene o in male. L’imprevedibilità dell’esistenza può mettere l’uomo davanti a due atteggiamenti che convivono: da una parte si fa abbagliare dallo splendore, cavalca l’onda del dinamismo, dell’illusione e del cambiamento; dall’altra (aspetto complementare) è che se tutto è incostante l’unica certezza della vita è la morte. L’arte barocca gioca molto sul rapporto tra luce e ombre, vita e morte. Oltre a questa attenzione verso la morte si ha un senso di disillusione e smarrimento, la perdita di certezze che dà vita a svolte e piegamenti pessimistici. Questa complessità viene espressa attraverso delle coppie di concetti complementari: staticità e movimento, realtà è immaginazione, illusione e disincanto, luce e buio. Figure che svolgono un ruolo importante come riferimento per la nuova corrente artistica sono la maga Circe, ripresa dalla mitologia greca; Narciso, giovane che confonde la propria immagine e non si riconosce; Apollo e Dafne. Il Barocco dunque si sviluppa prima nelle arti visive per arrivare poi nella letteratura; probabilmente sono gli artisti, architetti e scultori come Velasquez e Bernini che hanno saputo esprimere quello che era un clima colturale e una visione del mondo. Quest’ultima non nasce all’improvviso ma si sviluppa, nella prospettiva francese, a partire da quel clima di incertezza che Montaigne aveva individuato e provato a esprimere. Quando si parla di Barocco in Francia si rintracciano le sue origini in Montaigne: si afferma prettamente nel 1600 ma nasce già alla fine del secolo precedente e si svilupperà nel successivo con stagioni differenti. Nonostante il Classicismo sia l’espressione dominante della cultura, il Barocco continua a esistere e svilupparsi parallelamente. Erroneamente ci si riferisce a queste due correnti come espressioni contrapposte, dove il Classicismo mostra una incoraggia all’amore. L’apostrofe porta con sé una serie di imperativi volti ad attuare una sorta di avvicinamento. 17 e 18> le chiede un avvicinamento fisico maggiore e col pretesto delle onde generate dal vento profumato la invita a inclinare la testa per specchiarsi nell’acqua (onde del vento, onde dell’acqua, movimento, cristallo nero, giochi di luce e ombre sulla superficie). L’oggetto più bello del mondo è lei e invitandola a specchiarsi richiama l’immagine di Narciso. Sull’onda dell’elogio, è sottomesso al fascino dei suoi occhi. Gli astri venivano usati per orientarsi, i suoi occhi dunque sono i suoi punti di riferimento. 19 > nonostante questo incitamento all’intimità e al calore dell’amore, lei mostra poco trasporto nei confronti della passione. L’immagine di Narciso viene reinterpretata insistendo sulla bellezza della donna, se lei si vedesse si innamorerebbe di sé stessa e capirebbe l’effetto che ha su di lui. Oltre all’imperativo che richiama il verso 15, c’è un insistenza sulla seconda persona singolare. Un altro topos è il binomio Eros e Tanatos, se lei si vedesse morirebbe d’amore. Le ultime due strofe del blocco completano l’elogio della donna aggiungendo elementi mitologici, troviamo ancora gli eroti/gli amorini 20 > i due putti si attaccano, pendono ai fili dei capelli di lei (se prendre); in questo caso si lasciano sedurre dalla donna legandosi ai suoi capelli. E altri nascono i loro ardori sotto una cenere, che si riferisce al colore dei capelli biondo cenere. 21 > se lei pensasse di scacciare questa compagnia giocosa andrebbe verso il basso. Questi dai capelli scenderebbero verso “i monti d’alabastro”, i seni o le spalle. Capiamo che l’amata ha una bellezza disarmante, che metterebbe in ginocchio l’umano e il divino tanto da far cedere sé stessa. Sappiamo che non cede ai suoi elogi, non si fa riferimento a qualche forma di unione tra i due. 22> abbiamo l’apice costruito attorno a un climax ascendente che mostra questa passione crescere in ardore ma anche in termini struggenti che può portare alla morte. L’elemento dell’acqua non solo rimanda alla vita che scorre (panta rei) ma anche all’emotività e ai sentimenti: guardando il riflesso della donna il poeta trema per la sua bellezza. Il tremolio della superficie dell’acqua si rifà ai desideri dell’autore che seguono dunque il movimento delle onde. 23 > teme che questa passione lo porti fuori rotta. Il poeta è smarrito, non riceve dalla donna dei riscontri: più in lui cresce il desiderio più è grande il dubbio della donna. 24 > Questo picco di perdita dell’identità coincide con la domanda che le pone, vuole che si dichiari e gli faccia capire cosa prova, che gli conceda il privilegio di essere messo al disopra degli altri e a dimostrazione chiede di poter bere dall’incavo delle due mani. 25 > lui beve dalle sue mani ma ciò che beve non è l’acqua che lo disseta ma la fiamma che lo consuma e vorrebbe di più. 26> attraverso un bacio vorrebbe attenuare la sete. 27 e 28> il bacio lo inebria ma lo paralizza dall’emozione. Il climax termina con l’incontro dei corpi che porta a una tale esplosione di sentimenti che dà senso alla vita ma rischia di porre fine alla stessa, l’amore che reca con sé sempre l’idea di morte. LEZIONE 04/04 CENNI STORICI – il ‘600 Col Barocco conosciamo una corrente che si afferma negli anni 20-30 del 1600 ma che continua a esistere in maniera parallela e sotterrane rispetto a una corrente dominante, quella del Classicismo. Il barocco comunque non muore e lo ritroviamo costantemente. Perché ha un momento di maggiore sviluppo e poi viene ridimensionato? Ci sono delle ragioni storiche e politiche, c’è un motivo in Francia prettamente politico. Il barocco è espressione di una visione del mondo che viene fuori da squilibri (Montaigne è il primo vero autore francese barocco). La poesia continua a esistere ma passa in secondo piano rispetto al ‘500; la prosa invece dà vita a nuove forme di romanzo molto diverse da quelle che concepiamo noi oggi, mentre il teatro raggiunge un’importanza mai vista prima nella cosiddetta “Âge d’or du Théâtre”. Diventa il primo genere per ragioni politiche, viene indicato come quel genere in grado di riunire la Francis e di creare uno stato nazionale precedentemente inesistente. Ci sarà una stabilità politica fino a quando il governo passa in mano a un primo ministro che decide di dare stabilità alla monarchia di Francia, Richelieu. A partire dalla metà degli anni 20, egli teorizza la monarchia assoluta che sarà messa in pratica già da Luigi XIII, il re che lui affianca, e successivamente raggiunge l’apice con Luigi XIV. Dalla morte di Enrico IV, ucciso in un attentato in carrozza a Ravaillac, lascia un’eredità pesante poiché con lui si era raggiunta una pace dopo mezzo secolo di guerre conquistata dunque dopo molta fatica. L’editto di Nantes del 1598 sancisce la libertà di professione religiosa, avevano legittimità sociale quei gruppi minori appartenenti ad altre fedi. L’apertura maggiore sta nel fatto che, diversamente dai suoi predecessori, i protestanti possono ricoprire cariche pubbliche. Non si limita solo a una serie di negoziati, anzi sostiene l’agricoltura, è a favore della stabilità economica di vari settori ed e fautore di una serie di opere pubbliche ancora presenti oggi, destinati a dare prestigio e a simboleggiare la presenza reale nel paese, come il Pont Neuf – il ponte più antico di Parigi all’interno del quale è presente una riproduzione della statua di Henri IV siccome l’originale è andata distrutta - o Place des Vosges. Alla sua morte riparte un periodo di instabilità. Poiché suo figlio è troppo giovane – aveva 9 anni – si instituisce la reggenza di sua madre Maria de Medici in attesa che il delfino raggiunga la maggiore età e possa regnare. La reggente non si rivela una statista, ha capacità di governo debole e sia per un’instabilità politica sia per la propria fragilità fa in modo che alcune famiglie nobiliari si insinuino nella cerchia dei favoriti e in momenti di complotti, periodi in cui si cerca di influenzare le opinioni della reggente. Tra questi si insinua una coppia di italiani, i Concini, molto influenti e potenti, che volevano ritorcere contro la monarchia le altre famiglie nobili (periodo della Fronda). Si è lontani dal concetto di monarchia nazionale centralizzata; rispetto a una monarchia che dovrebbe governare un intero paese esistono ancora delle persistenze medievali nella gestione territoriale dei luoghi. In assenza di una monarchia centralizzata e forte questi signori locali accampano dei diritti politici ed economici, come l’autonomia rispetto al governo centrale. Ciò indeboliva ancora di più una monarchia già fragile, non c’è una convergenza verso un’autorità locale e qui si inseriscono i Concini che fomentano i signorotti locali a ribellarsi contro l’autorità reale. Quando l’erede, sotto il nome di Luigi XIII, raggiunge la maggiore età per governare destituisce i Concini, si rende conto della realtà e li allontana; contestualmente c’è la necessità di ripristinare l’ordine. Un cardinale molto vicino alla regina si fa avanti e suggerisce di coadiuvare gli interventi del re; Richelieu diventa allora primo ministro. Il primo ministro a partire da Richelieu diventa una figura cruciale, il consigliere privato del re. Concretamente le decisioni politiche le prende il cardinale, lui e il re governano di pari passo per circa 20 anni e diventa dunque una figura cruciale nella monarchia. Fu lui a teorizzare la monarchia assoluta, ossia uno stato unitario con al vertice un potere centrale, il re, il cui apice sarà raggiunto da Luigi XIV. Con il cardinale, inizia il periodo dei primi ministri che arriva fino al 1661. Il suo scopo era creare uno stato unico, compatto e rispettoso dell’autorità; Richelieu ritiene che per porre fine all’instabilità, politica, sociale ed economica occorra formare un governo forte e centralizzato e lottare contro tutte le forme di dissidenza. Quali sono le scelte che non consentono questo stato forte? La prima cosa da fare è ridimensionare le forme di dissidenza nei confronti dello Stato, una tra queste è la minoranza protestante: Richelieu intraprende una lotta contro gli ugonotti. Le sue scelte sono prima di tutto di natura politica. Gli ugonotti/calvinisti considerano l’esercizio della fede indistinguibile dall’attività politica. Il cardinale intende ridimensionare i calvinisti; con la morte di Enrico IV sono ritornati i tentativi di legittimazione dei protestanti. Il cardinale era contrario ai loro avanzamenti di natura politica e non alla loro professione. Un episodio famoso è l’assedio dei protestanti alla cittadella di Rochelle nel 1627. Affinché gli ugonotti fossero smuniti della loro pericolosità viene detto loro che non possono organizzarsi militarmente; questi però si armano e tentano di difendersi contro l’esercito reale che assedia la cittadella. Luigi XIII perdona questa contestazione, lascia la libertà di culto ma chiede di perdere la Roccaforte – l’obiettivo era quello di renderli deboli militarmente. Altri nemici politici erano i signorotti: i complotti sono gli ultimi stralci di un organizzazione territoriale feudale. Queste persistenze facevano sì che i signori avessero degli slanci di autonomia che esprimevano attraverso dei veri e propri complotti con sequestri e uccisioni. (Il Cid parla ancora di signori locali che vogliono farsi giustizia da soli). Altro punto importante è il ruolo della cultura: per Richelieu uno stato forte può essere creato solo grazie alla cultura. La circolazione e il controllo delle informazione era uno dei suoi obiettivi, era fondamentale utilizzare la cultura per diffondere dei valori, crearne alcuni collettivi e condivisi. Da un lato quindi la parola scritta poteva diffondere i valori nazionali, dall’altro potrebbe essere espressione di dissidenze; istituisce perciò la censura e cerca di favorire canali di comunicazione considerati da lui strategici. Richelieu fonda il primo settimanale d’informazione controllato dallo stato: la “Gazette de France”; è innovativo e diventa la voce del potere. Fare comunità attraverso la cultura: applica infatti la parole come veicolo di diffusione di idee alla lingua, alla letteratura e all’arte, quest’ultima linguaggio non verbale in grado di trasmettere valori. C’è dunque una forte spinta al controllo; la Gazette, essendo l’organo del potere, da una visione tendenziosa delle cose, non è una lettura critica della realtà. Tutto questo senza una lingua nazionale e condivisa era impossibile, perciò Richelieu da una spinta notevole alla nascita del francese come lingua nazionale; non a caso è a capo dei fautori dell’Académie Française, istituzione ancora oggi in vita e che prese forma sotto il regno di Luigi XIII. L’Académie premia periodicamente l’élite culturale francese, ha origine nel 1629 quando un gruppo di uomini culturali si riunisce una volta alla settimana intorno a una figura di spicco chiamata Valentin Conrart, un consigliere reale. Il gruppo era molto ridotto, circa 9 persone facevano parte del nucleo iniziale; Richelieu intuisce il potenziale di creare un circolo che fosse una sorta di classe dirigente per gli ambienti culturali francesi e che potessero servire al rafforzamento del proprio stato. Decide di mettere sotto la sua protezione questo circolo, mettendo a loro si posizione tutti i mezzi per i quali questi potessero operare e in cambio chiede che tutto ciò che fosse prodotto venisse approvata da lui. Chiede che i membri venissero aggiunti e indicati per bravura e non per appartenenza sociale; vuole che si aumenti il numero dei componenti da 9 a 40 nel momento in cui si costituisce. Nel 1634 ha la sua prima assemblea ufficiale come Accademia. I membri sono chiamati académiciens o académistes; l’obiettivo è elevare la lingua francese e portarla ai massimi livelli di prestigio, efficacia ed eloquenza. Uno stato nazionale si deve dotare di una lingua in grado di dar voce allo stato, di creare una cultura nazionale attraverso la lingua stessa in un’epoca in cui ci sono ancora tracce di plurilinguismo. Nel ‘600 il francese verrà adottato come lingua di espressione nazionale e usato in tutti i campi. La letteratura è lo strumento più elevato attraverso il quale una lingua e una cultura possono esprimersi; Richelieu da una parte finanzia e approva la realizzazione di dizionari e testi in lingua francese, dall’altra sosterrà un certo tipo di letteratura. Non a caso a partire dalla metà del secolo viene introdotto un premio di eloquenza, vengono commissionate dei dizionari e grammatiche di lingua francese prestigiose, tra queste “Remarques sur la langue française” di Vaugelas del 1647, dizionario nel quale le parole sono classificate riprendendo le classi sociali: ci sono parole di basso livello e termini concessi alle persone per bene che utilizzano un certo lessico. Le arti visive, figurative anche svolgono un ruolo altrettanto importante come strumento di comunione, diventa strumento di prestigio e potere della legittimità della monarchia. IL BAROCCO A TEATRO – “L’illusion comique” de Corneille Già l’attributo “comique” ci fa pensare ad una commedia, come è tradizionalmente definita, ma “l'illusion” ci fa diffidare dall’incasellare quest’opera all’interno di un genere ben definito; è infatti un ibrido, diviso in 5 atti che hanno una funzione diversa perché ad esempio il primo atto funge da prologo, a tutta la storia. I 3 atti che seguono, che costituiscono il nucleo della narrazione, vengono definiti come una commedia imperfetta perché al suo interno c’è un personaggio che si chiama Matamore, un capitano dai gesti, dal temperamento un po’ farsesco, grottesco e che quindi richiama la commedia. È una commedia imperfetta perché al suo interno riporta verso la tragicommedia – troviamo infatti degli episodi di morte, di scontri, delle prigionie – e scivola sempre di più verso la tragedia, ma alla fine la chiave di lettura che viene data a tutto fa sì che nell’insieme risulti una commedia. È una creatura composita, che si rifiuta di entrare in un genere unico, ma che nell’insieme rientra nella commedia. Succedono tantissime cose: innanzitutto questa ‘500, per più di un secolo, gli attori erano delle persone da evitare, da non frequentare. Se un attore non rinnegava la sua professione non aveva nemmeno il diritto di ricevere il funerale e non poteva essere seppellito in terra consacrata; doveva rinnegare quanto aveva fatto e soltanto grazie a Richelieu, che nel 1641 alla fine del suo mandato, l’attore riceve il riconoscimento della sua professione. Gli attori si muovevano in compagnie, le cosiddette “troupes”, un’organizzazione di attori, all’epoca estremamente mobile perché anche quando una compagnia è un po’ più stanziata di altre, ovviamente non avevano la garanzia di poter collaborare a lungo. Le troupes non erano sedentarie perché la maggior parte delle compagnie era nomade, composta da attori girovaghi che calcavano le scene di tutta Francia, giravano tutti i paesi. Lo stesso Molière, che diventerà il primo capocomico più importante e diventerà il capocomico alla corte di Luigi XIV, nasce come attore girovago. Queste compagnie recitano per strada, all’interno delle case, nei castelli e potevano occupare delle sale del jeu de paume, la pallacorda. Le stanze erano rettangolari perché allo stato iniziale gli attori non recitano in ambienti preposti alla rappresentazione teatrale, ma si adattano in ambienti che originariamente hanno altre funzioni e queste erano stanze adibite al gioco della pallacorda che potevano essere noleggiate per ospitare rappresentazioni teatrali. Al suo interno la compagnia non aveva una ripartizione gerarchica dei luoghi, sostanzialmente tutti i membri avevano la stessa importanza e funzione; c’era un capocomico che aveva un ruolo il cui inizialmente non era tanto rilevante rispetto agli altri, il suo ruolo si definisce col tempo. Si guadagnava alla fine della rappresentazione, si fa lo spettacolo, si riceve la paga e si divide e il capocomico se vuole può pretendere una doppia quota anche per la moglie. Inoltre se gli attori si ammalavano venivano pagati comunque e avevano una specie di pensione al termine della loro attività; era un sistema auto tutelante nei limiti. Un attore lavorava su contratto, che era legato ad un ruolo, ad esempio una donna che riceva l’incarico di fare la servetta deve farla sempre anche se vorrebbe fare altri ruoli e da; questa è una rigidità che col tempo sarà messa in discussione. Per quanto riguarda il pubblico, nel ‘600 il teatro era estremamente popolare, andava a teatro più il volgo che altre classi; era accessibile anche alla borghesia che ne usufruiva abbastanza, però era tendenzialmente distinta e separata dal pubblico popolare. I posti più economici erano quelli di chi stava seduto sul parterre, tutto il tempo all’in piedi, salendo sui palchi il prezzo aumentava; questo era un po’ l’inverso dei palazzi perché nelle strutture abitative più il posto era in alto ed era faticoso salire e scendere più il prezzo calava, in basso c’era chi poteva permetterselo. A teatro era diverso: più si era ricchi più ci si poteva permettere postazioni elevate; i palchi, secondo un’usanza molto diffusa fino all’800, potevano essere affittati e a gruppi si poteva andare lì e avere una sorta di piccolo balcone sullo spettacolo. Tendenzialmente la gente per bene non va a teatro all’inizio del ‘600 per un indizio comune legato agli spettacoli che venivano proposti, ma anche perché chi andava a teatro andava molto spesso per creare confusione, il più delle volte cercavano rissa; le donne non potevano andarci e se volevano dovevano indossare una maschera. Il teatro non era un luogo sicuro sia per gli incidenti che potevano accadere sia per gli argomenti trattati che potevano corrompere la morale e quindi non solo le persone per bene all’inizio del secolo non ci andavano, ma anche le donne di tutte le classi; quindi c’era una concezione della partecipazione di pubblico diversa dalla nostra. Il pubblico aveva il diritto di mostrare sia il proprio entusiasmo che il proprio dissenso nei confronti di ciò che veniva rappresentato, anche in maniera plateale; poteva capitare che il pubblico fosse talmente insoddisfatto di quello che veniva rappresentato da dire di interrompere tutto per rappresentare altro. Questo ci fa riflettere sullo statuto dell’attore, qualcuno al servizio di un pubblico. Le strade non erano illuminate, a teatro c’è gente di malaffare, quindi per evitare una situazione pericolosa per la società le repliche si svolgevano di pomeriggio alle 14 e alle 15; il venerdì solitamente c’era la prima e le repliche solo domenica e martedì. Il venerdì era quindi il giorno di inizio delle repliche e la Pasqua era il giorno in cui si rinnovava il contratto agli attori. Per quanto non legittimati nella loro funzione sociale, gli attori sono quelli che richiamano il pubblico. Se ci imbattiamo in un manifesto teatrale conosciamo i nomi degli attori, quello che troviamo raramente è il nome dell’autore del testo. Corneille si è battuto tantissimo per avere un riconoscimento sociale che all’epoca non c’era. Il drammaturgo viene riconosciuto meno degli scrittori, poteva essere pagato nel momento in cui la pièce dalla sua scrittura veniva rappresentata, quando poi il suo testo viene pubblicato perde ogni diritto e veniva pagato a percentuale, in funzione del numero di atti. Quindi il suo nome non veniva riconosciuto e i diritti d’autore sono qualcosa che si affermano dagli anni 30 in poi. Un autore scrive una sceneggiatura e la sottopone a un membro della compagnia che è considerato il più colto, il più capace, e se supera questa prima elezione lo stesso autore viene invitato a leggere il suo testo davanti alla troupe; ci sono degli autori più bravi e meno bravi, ad esempio Racine viene considerato migliore rispetto a Corneille. Una volta approvata la pièce ci sono i vari ruoli, vengono scritturati gli attori e l’attore può essere pagato finché non viene pubblicata l’opera che non sarà più sua; si supera questo passaggio dell’autore che entra in contatto con la compagnia, dopo la pubblicazione è come se diventasse patrimonio pubblico e qualsiasi compagnia può rappresentarlo. A Parigi ci sono due edifici che poco a poco si presentano come le sedi più stabili all’interno delle quali possono essere proposti spettacoli teatrali; sono luoghi più saldi per la frequenza delle rappresentazioni, ma anche perché col passare del tempo ospitano delle compagnie sempre meno precarie. Tra questi edifici esiste un posto chiamato Hôtel de Bourgogne che è gestito da una confraternita, la cosiddetta “Confraternita della passione”. Era religiosa ma non portavano in scena un teatro religioso, c’è un’inversione di tendenza già dalla metà del ‘500: il teatro dal medioevo si sviluppa secondo due filoni, il teatro sacro e quello profano. Per teatro sacro intendiamo tutta una serie di rappresentazioni di argomento religioso, gestite da compagnie legate direttamente alla chiesa, che presentavano degli spettacoli di diversi episodi con un fine pedagogico, riprendendo quelli dell’antico testamento e del nuovo come la passione di Cristo, “les Mystères", le vite dei Santi. Dal ‘500 le rappresentazioni religiose hanno avuto la meglio poiché questo tipo di teatro era più riconosciuto. Nella metà del ‘500, però, la Francia si avvia verso un periodo sanguinolento, dove il “Credo” e la propria professione religiosa sono motivo di dissidio: nel 1548 i "Mystères" e le rappresentazioni religiose generali vengono bandite. Ciò comporta che va riformulato tutto il ventaglio delle proposte: il teatro non muore ma ciò che rimane è quel ventaglio di spettacoli di ambito profano e in contesti del genere un tipo di rappresentazione come la farsa persiste. La “confraternita della passione” che in passato gestiva le rappresentazioni religiose, tra fine ‘500 e inizio ‘600 continua a gestire la struttura e la affitta a chi vuole presentare spettacoli di carattere profano, facendosi pagare. Tra le varie sale alternative ce n’è una, la sala di “Jeu de Pole” – importante da ricordare che si trova a Marais – all’interno della quale bisogna sempre pagare iniziandosi ad affermare come sala concorrente all’Hotel de Bourgogne fino ad acquisire l’appellativo di Hôtel de Marais. Parliamo di un rapporto molto complesso tra chiesa e teatro, forse per alcuni punti anche contraddittorio: fino all’interdizione delle rappresentazioni di argomento religioso (‘metà del ‘500), la chiesa ha utilizzato il teatro come strumento pedagogico per parlare) delle vite dei santi, ma le rappresentazioni erano spesso in latino e raramente in francese. (Non era comunque l’unico mezzo: gli affreschi contenuti negli edifici religiosi ambivano quest’altro scopo come arte visiva, così come la musica; tutto parlava attraverso un linguaggio para verbale a chi non sapeva leggere e scrivere.) La gestualità contribuiva a capire ma la stessa messa era in latino; sicuramente la scenografia e drammatizzazione, scene non a caso dal forte pathos e momenti forti di sofferenza ad esempio con la vita di Cristo erano di forte impatto sul pubblico, in egual misura se si puntava al meraviglioso con le Vite dei Santi. Veniva quindi utilizzato come strumento per fidelizzare i cristiani. Tuttavia, le gerarchie ecclesiastiche hanno contestualmente sempre considerato il teatro con diffidenza, soprattutto quando iniziava a prevalere messe in scena di tipo profano; guardava ad esso con sospetto, come veicolo di dissolutezza, corruzione, uno strumento in grado di suscitare la curiosità ed alimentare l’attrazione con i movimenti del corpo, verso la sensualità dei corpi. Una parte della chiesa guardava con sospetto anche le altre rappresentazioni religiose poiché pensavano che ammettessero come veicolo di formazione spirituale soltanto i momenti ufficiali, come la messa o le omelie. Una cosa che la chiesa vedeva di malefico nel teatro – cosa che invece Richelieu considera come un elemento strategico – era l’identificazione, la capacità che ha il pubblico di immedesimarsi con quello che vede, entrare nella scena e di partecipare in quello che accade e magari immedesimarsi in un attore o in un’attrice, fare in modo che quella storia sia anche la propria storia e vivere una sorta di continuità, poiché le storie possono indurre il pubblico a commettere. Tuttavia c’è una parte della chiesa che continua a vedere nel teatro un canale privilegiato, cioè i gesuiti, soprattutto un collegio di gesuiti posto a Rouen, in Normandia, il celebre collège di Rouen. I gesuiti credono molto nell’evangelizzazione, contemplano sicuramente l’educazione religiosa di quest’ultima e considerano il teatro come un veicolo per formare, trasmettere e coinvolgere. All’interno di questo collegio si organizzavano periodicamente rappresentazioni nel cortile, alle quali partecipavano le famiglie degli attori in erba (gli attori venivano presi dai membri del collegio stesso) o anche membri dell’ordine religioso, autorità ecclesiastiche ecc., ed erano ovviamente attori tutti maschi che potevano interpretare anche i ruoli femminili vestiti con abiti femminili. C’è un filo conduttore e Corneille, originario di Rouen, partecipa ad alcune rappresentazioni e spettacoli ed è lì che si appassiona al teatro, vede una grande potenzialità e condivide alcuni ideali gesuiti. Rouen nel frattempo diventa un centro editoriale e di diffusione culturale, che nel ‘500 era la città di Lyon. Tra le compagnie, abbiamo un contesto estremamente centrifugo poiché girano di posto in posto. A partire dagli anni 30 cominciano a crearsi dei punti di riferimento (Hôtel de Bourgogne et Marais). Intorno a questi due edifici si creano delle compagnie – la “Compagnie du Borgogne” e la “Compagnie du Marais” – che tra di loro si fanno una concorrenza spietata; fra le due, la prima è sempre stata quella più vicina al potere, ad un certo punto infatti gli attori riceveranno il titolo di "Comédiens du Roi”, attori del re. Queste troupes francesi che si fanno concorrenza (si rubano il pubblico e cercano di accaparrarsi lo scrittore) fanno anche però fronte ad un altro problema: chi esercita un ruolo importantissimo sono “les italiens”, gli italiani. In Francia il teatro prova quindi ad affermarsi avendo come rivali temibilissimi questi italiani, cioè compagnie di attori italiani che cominciano ad essere presenti soprattutto nell’ultimo quarto del ‘500, portando un certo tipo di cultura e competendo contro gli attori francesi; vengono allontanati nel periodo della fronda (quindi fra Luigi XIII e XIV) per essere poi cacciati definitivamente alla fine del ‘600. Erano scomodi probabilmente per ragioni politiche ed economiche, ma anche perché gli italiani portavano un tipo di comicità che raccoglieva la tradizione della “Commedia dell’arte” che ha avuto un impatto anche sugli autori francesi. Gli italiani vengono accolti e cominciano a essere inseriti con maggiore influenza a partire dalla reggenza di Caterina de Medici negli anni 70 del ‘500 e le prime compagnie ad essere conosciute sono quella dei “Gelosi” e quella degli “Accesi”. La “Commedia dell’arte” porta attori che si inseriscono all’interno di un vuoto che si crea in campo teatrale: tra la seconda metà del ‘500 e inizio ‘600 il teatro diventa prevalentemente di tipo profano, quindi ciò che rimane all’inizio di questo periodo è una giacenza di tipo medievale/primo rinascimentale molto legata alla rappresentazione dei miti, a qualche vicenda della Bibbia maneggiata in chiave contemporanea e vicende medievali, ma chi vuole investire sul teatro investe sugli argomenti seri. Lo spettacolo comico non veniva preso sul serio, così come la commedia, quindi quello che rimane è la farsa. Gli attori italiani colmano un vuoto che sarà rimpiazzato soltanto da Molière. Quindi presentano il nuovo modo di fare commedia: arrivano attori girovaghi come altri che però non parlano la lingua del loro pubblico e si pone questo problema di comunicazione. Per ovviare a questo limite strutturale (il pubblico non comprende ciò che dicono gli attori), gli spettacoli della commedia dell’arte hanno una sceneggiatura ridotta all’osso, il celebre copione chiamato anche canovaccio è una sintesi di ciò che accade nella scena che lascia ampio spazio alle improvvisazioni degli attori. Parliamo di attori che però non ne approfittano per lanciarsi in un flusso di parole, ma per trovare nuove strategie comunicative che possono essere un’alternativa alla parola, come la mimica e la gestualità. La parola è presente, ma magari accompagnata da gesti. Per favorire il riconoscimento e comprensione della storia, ci si affidava a personaggi facilmente riconoscibili, personaggi “tipi fissi”, come maschere (Arlecchino, Balanzone ecc.,) che entreranno a far parte, in Francia, del teatro “Muto”, dell’800, dei mimi. Abbiamo quindi personaggi riconoscibili dall’abbigliamento, dai costumi, da alcuni attributi; presentano delle caratteristiche generali e particolari allo stesso tempo, è come se rappresentassero una categoria di persone, cioè caratteristiche tipiche che convergono in un unico personaggio, che lo rendono riconoscibile come singolo ma come parte di una comunità. La riconoscibilità dei gesti è anche quello che piace al pubblico. l’aristocrazia viveva lì alle spese dello stato, poteva usufruire di un sistema di intrattenimento in cambio di fedeltà assoluta e asservimento. Il palazzo di Versailles, con le persone che lo popolano, diventerà il tempio rivolto al re, anche attraverso un sistema di rituali in cui spiccherà la figura del re sole (la sua camera era orientata verso il sole); questa impresa si rivela efficace soprattutto nei primi anni perché Luigi XIV riuscirà a creare un sistema di consensi i cui privilegi sono agli occhi di persone che vivono in una società moderna e possono sembrare incredibili. Era considerato un privilegio assistere al risveglio del re, alla toilette, a tutte le attività che faceva per curare la propria persona; esisteva quindi un sistema gerarchico di privilegi all’interno dei membri della corte. Molière sarà uno degli autori e drammaturghi che avranno il privilegio di presentare le loro opere al cospetto di Luigi XIV alla corte di Versailles. Le spese folli intraprese da Luigi XIV per creare il culto della propria immagine hanno dato vita ad un processo di indebitamento delle finanze dello stato che nel ‘700 avrà delle conseguenze devastanti dal punto di vista sociale e sfocerà poi nella rivoluzione. La tragedia era il genere più importante, ma non è detto che non si rappresentassero le commedie. Abbiamo visto l’Illusion comique di Corneille e un’altra delle sue commedie importanti è stata “Le Menteur”. La commedia partecipa, assieme alla tragedia, al rilancio del teatro che si avvia negli anni 30, però è solo con Molière che acquisirà una legittimazione che sino a quel momento non aveva mai avuto. Nel periodo della fronda esisteva un tipo di commedia, un sottogenere, particolarmente diffuso e praticato, la cosiddetta “Commedia di intrigo”: è un tipo di commedia che gioca molto sulla costruzione dell’intreccio comico. Ci sono una serie di avvenimenti complicati, imprevedibili, c’è un gioco di imprevisti, innamorati che non possono ricongiungersi, ma dopo una serie di peripezie c’è un lieto fine. All’interno di questo gioco intricato di avvenimenti, ciò che svolge un ruolo importante è l’agnizione, ossia il ritrovamento di personaggi che consente di ritrovare un equilibrio finale. L’agnizione di solito si colloca alla fine della pièce e fa sì che gli spettatori tirino un sospiro di sollievo. Il modello per questo tipo di commedia è la produzione spagnola, abbiamo autori di riferimento come Lope de Vega, Calderon de La Barca e Tirso de Molina; la produzione spagnola sarà una delle componenti che andrà ad alimentare la produzione di Molière, il quale si serve di diversi codici della commedia internazionale per combinarli in maniera personale, aggiungendo degli elementi originali che lo fanno distinguere dagli altri. All’interno di questo contesto di intrecci c’è un elemento che fa sì che la commedia venisse considerata come un genere subordinato ad altri. Sappiamo che la tragedia insiste sull’immedesimazione dello spettatore con i personaggi al centro dell’azione drammatica. Nella commedia invece, prima di Molière, c’è una distanza tra lo spettatore e gli attori; è come se lo spettatore si ponesse in un atteggiamento di superiorità rispetto a ciò che vede. C’è quindi un’estetica del ridicolo che tende a svalorizzare i personaggi in scena. Un altro tipo di commedia diffusa è la “Commedia burlesca”; il burlesco è uno dei linguaggi utilizzati dal comico, quindi lo mettiamo accanto alla parodia e alla satira. Nella parodia si insiste sull’aspetto giocoso e buffo dei personaggi e delle situazioni rappresentate; a differenza della satira, non si prefissa un bersaglio che diventa oggetto di critica. Una caratteristica della commedia burlesca rispetto alla commedia di intrigo è che lì le scelte linguistiche svolgono un ruolo di primo piano: nella commedia burlesca ci si diverte a combinare più registri, si usa un altro strumento del comico che è il “pastiche”, una sorta di parodia linguistica che prende il modo di parlare di una persona, di una categoria sociale e lo si deforma in chiave comica. Molière prenderà alcuni aspetti, soprattutto del burlesco, per assimilarli alla sua commedia di teatro; si dimostrerà molto interessato a questo spostamento dell’asse verso il personaggio. Se la commedia di intrigo privilegiava l’azione, nel burlesco ci si focalizza soprattutto sul personaggio che condensa la forza comica. LEZIONE 17/04 Le Cid può essere considerata la prima opera teatrale di successo del ‘600. Ha avuto impatto sia sul pubblico sia sulla critica: la sua particolarità è aver unito favore del pubblico e innovazione, incontra i lettori pur infrangendo gli orizzonti d’attesa. Il successo ha creato uno scandalo a quel tempo sia politica e letterario: ci troviamo infatti nel pieno del governo Richelieu, sotto il regno di Luigi XIII. Ricordiamo che Richelieu, tra i vari interventi che ha fatto, ha investito sulla cultura, il veicolo principale attraverso il quale la Francia può diventare un grande paese, una potenza internazionale. Per Richelieu, che era un uomo di stato e per il quale la ragion di stato prevale su tutto, bisogna trovare un veicolo artistico attraverso il quale la lingua potesse circolare maggiormente. Ora in una comunità in cui nonostante la diffusione della stampa poca gente è in grado di leggere, il veicolo principale diventa una letteratura che non si legge ma che si vive attraverso l’esperienza del Teatro della Performance, genere sul quale investirà. C’è una partecipazione sia da parte del pubblico sia dagli attori; c’è la possibilità di entrare nella storia, l’emozione diventa un veicolo che favorisce il passaggio delle esperienze e della trasmissione di un messaggio. Da una parte c’è un’opera teatrale che se è veramente di spessore ci dice qualcosa di universale, che ci fa pensare alla nostra vita; l’altra però, quello che si sceglie di dire, racconta un’epoca. Con Corneille parliamo di valori universali visti attraverso la mente della società del tempo, quindi degli anni ‘30 del ‘600. Innanzitutto, come accennato, negli anni ‘30 siamo lontani da quella rigida organizzazione del teatro e dei suoi generi che poi si imporrà nei decenni successivi. Negli anni ‘30 si è sulla strada della codificazione e Corneille che ha scritto tragedie e commedie, raggiunge il suo successo maggiore nella tragicommedia, cosa che fa storcere il naso ai puristi; anche il Cid è una tragicommedia, sempre per il fatto che l’orizzonte d’attesa viene urtato. Tra questo, c’è l’uso del genere della tragicommedia che è un ibrido e nella prospettiva classica l'ibridazione dei generi è qualcosa da evitare perché si colloca agli antipodi di quella che è la visione della semplicità e del rigore classicista; invece Corneille scrive un testo che effettivamente combina questi due elementi. Messa in scena per la prima volta nel 1637 e successivamente all’impatto che hanno avuto le altre rappresentazioni, è nata una querelle sul Cid, una polemica che coinvolge Richelieu e l’académie française. A partire da questa, Corneille non smette di tornare sul suo testo (in un’edizione del ‘48 l’opera è leggermente modificata) ed è accompagnata da un testo nel quale Corneille illustra e accompagna il lettore alla spiegazione della sua opera. Affinché si possa analizzare la pièce vanno prese in considerazione anche le ragioni della nascita delle polemiche. Nel teatro si iniziano a stabilire dei criteri teorici e formali per la stesura di commedie e soprattutto tragedie future e il Cid sfugge alle restrizioni imposte. Nel momento in cui ci si impegna affinché il teatro possa diffondere dei valori nazionali (il barocco non è in grado di veicolare dei valori che diano stabilità al paese, lo stato solido non può essere rappresentato da idee di mutevolezza e instabilità), partendo dal presupposto che l’arte sia capace di questa diffusione vediamo come avviene rispetto al Barocco che viene utilizzato dalla Chiesa per riattivare il coinvolgimento emotivo dei fedeli nella religione e acquisire un pubblico notevole di seguaci. Nella monarchia assoluta i valori che possono supportare questo progetto si ritrovano nel Classicismo, che si colloca nel solco di un Umanesimo che vede negli antichi, nella loro cultura, un modello di ispirazione ma che si struttura intorno a valori morali come l’ordine, l’armonia e l’equilibro. Se il teatro può essere uno strumento per la capacità di coinvolgere in un’esperienza collettiva un pubblico eterogeneo, di trasmettere un messaggio attraverso le emozioni, se questo progetto politico intende veicolare questi valori, occorre che esistano delle regole a partire dalle quali i testi redenti possano essere espressione di questa visione del mondo. A partire dagli anni 30 si comincia a considerare la poetica di Aristotele come un testo teorico di riferimento dal quale ricavare le regole per scrivere una tragedia classica degna di essere definita tale, che segue i modelli di Eschilo, Sofocle ed Euripide. Ciò che è rimasto a noi della poetica di Aristotele riguarda soprattutto la tragedia, le parti riguardanti la commedia sono frammentarie e minori in termini di quantità; questo perché probabilmente la commedia ha sempre avuto meno legittimità, è sempre stata un considerata un genere inferiore rispetto la tragedia. LE 3 UNITÀ: nascono da un problema pratico, ossia la necessità di far coincidere il più possibile il tempo della narrazione con quello della rappresentazione. A partire da questa esigenza si è trovato il compromesso che consiste nel far rientrare le azioni in 24 ore (UNITÀ DI TEMPO). L’UNITÀ DI SPAZIO è correlata con quella precedente: si cerca di limitare il più possibile la moltiplicazione di luoghi che nel tempo diventeranno sempre più generici. L’UNITÀ DI AZIONE si riferisce alla necessità di mettere in scena un solo snodo narrativo anche per questioni di equilibrio interno alla struttura e ridurre il più possibile quelle secondarie. A fare da contorno abbiamo la regola della VEROSIMIGLIANZA ed esiste un altro criterio che si affianca, la BIENSÉANCE, cioè mettere in scena ciò che non urta il pubblico, qualcosa che venga considerato socialmente accettabile. Corneille si inserisce in questo contesto proponendo una tragicommedia; il Cid trae origini dall’epica spagnola, vuol dire “condottiero” e la sua storia/mito appartiene all’epica medievale spagnola, ripresa da Miguel de Castro che narra l’infanzia del Cid. Corneille, avendo letto l’opera, si ispira a una materia non originale ma la reinterpreta adattandola al contesto francese del suo tempo (dietro i cavalieri medievali spagnoli si cela la realtà del suo paese). È ambientata nel Medioevo (forse XI secolo), nell’epoca della Reconquista spagnola, in cui il sud del Paese è minacciato dall’invasione dei Mori, gli Arabi. Corneille opera una forzatura: la sua opera si svolge a Siviglia, città sotto la dominazione araba. Nel primo atto, il drammaturgo imposta una serie di dinamiche relazionali, dei sviluppi, e subito vengono messe in scena le problematiche che i personaggi affronteranno. La prima scena si apre con un dialogo tra il conte don Gomès, il padre di Chimène, ed Elvire, la dama di compagnia di Chimène; i servi svolgono un ruolo fondamentale, fanno da intermediari, al di là dei ruoli ufficiali svelano come stanno le cose. Essendo dei personaggi che occupano un ramo basso sono anche persone più schiette e dirette che non esitano a dire ciò che pensano, rivelano i sentimenti che i personaggi più importanti celano. Elvire rivela al conte che due cavalieri si sono fatti avanti in qualità di pretendenti nei confronti di Chimène e lei non si è ancora pronunciata in favore di uno dei due; questo perché lei subordina la sua scelta alla volontà del padre. Si noti come l’opinione di una figlia viene riferita da una domestica, il divario e la poca intimità che esiste tra padre e figlia. Inviare Elvire a chiedere il parere del padre è una mossa prudente ma la figlia è davvero convinta che lei dipenda dalla famiglia e che ne sia sottomessa. Quest’aspetto è approfondito dalla risposta del conte, il quale apprezza il fatto che sia stato consultato per la scelta del futuro sposo ed esprime un giudizio nei confronti dei pretendenti (sono degni di lei, hanno una famiglia nobile, valorosa e fedele alle spalle, hanno dei valori che rappresentano la condotta della loro famiglia). Comunque però non nasconde la sua preferenza per don Rodrigue: è un uomo coraggioso, viene da una famiglia di guerrieri e vale ancora di più per il valore di suo padre che fu cavaliere devoto alla corona. Si aspetta che nel figlio ci siano le stesse caratteristiche del padre, ha una certa aspettativa nei suoi confronti a causa del suo lignaggio. Tutti i personaggi del Cid hanno l’etica del contegno, hanno una visione machista: uomini e donne devono contenere i propri sentimenti o verrebbero considerati deboli. Chimène infatti, per quanto sia felice delle parole del padre, deve mantenere un certo contegno. Nella prima scena vediamo i giovani protagonisti fortemente attaccati ai loro clan, rappresentato dalle cerchie di relazioni affettive/familiari e dai valori morali condivisi. In un’altra scena troviamo l’infanta di Spagna e la sua dama Léonor. L’infanta si fa sfuggire che anche lei è innamorata di don Rodrigue e Léonor è stupita di questa sua confessione: la prima considerazione che fa è il rango a cui appartiene Rodrigue tanto che l’infanta dimentica le sue origini e la sua posizione; a questo si aggiunge un’altra questione, lei è obbligata alla famiglia poiché in quanto reale deve considerare anche i sudditi. Pur avendo dentro di sé questo sentimento chiaro e forte, una passione che vorrebbe sprigionare, cerca di far prevalere la ragion di stato, un valore estremamente gerarchico. L’amore dell’infanta per Rodrigue è un’azione secondaria che si muove accanto a quella principale, dove Rodrigo e Chimène sono condizionati dalla presenza di valori familiari verso i quali aderiscono pienamente al di là dell’essere innamorati. Nella quarta scena del primo atto il conte e don Diego si confrontano mentre stanno uscendo da un’assemblea nella quale il re ha nominato precettore (educatore del principe) don Diègue, il padre di Rodrigue. Dal dialogo tra i due uomini ci si rende conto che loro sanno che i figli si amano e sono entrambi favorevoli a quest’unione. Il conte è una persona più giovane di don Diègue, è tracotante, spavaldo e provocatore, tanto che lo istiga dicendo che in passato sarà stato anche un valido combattente ma farebbe meglio a mettersi da parte poiché ha ormai ben poco da offrire ha usurpato un posto che sarebbe dovuto spettare a lui. A ciò don Diègue reagisce rispondendogli che, nonostante sia avanti con gli anni, sono le sue gesta che hanno costruito la sua nomea e la fama legata al suo nome che continua anche se ha smesso di operare; il suo valore si riconosce attraverso l’identificazione che gli altri hanno di lui. Il padre di Chimène continua a provocarlo finché non gli dà uno schiaffo. Ambientando la pièce in quest’epoca si fa riferimento anche a una pratica molto Il primo duello, che vede come protagonisti don Diègue e il conte nel primo atto, avviene senza preavviso e ha visto un’aggressione verbale seguita da una fisica, prima offesa verbalmente e poi attaccata fisicamente. Don Diègue viene accusato di non aver meritato il posto, di essere stato troppo compiacente col re; allo schiaffo prova a difendersi con la spada ma non riesce perché troppo deboli. A questo punto il vincitore sarebbe chi sopravvive: don Diègue chiede di essere finito (si aspetta un livello all’ultimo sangue) ma segue un’offesa peggiore, quella del risparmiargli la vita – offeso a morte. Ciò significa sentirsi indegno, svergognato (il conte anticiperebbe il lavoro delle parche di tre giorni). Nella seconda scena del secondo atto, don Rodrigue sfida il conte, viene presentato attraverso un crescente di parole, è un botta e risposta rapido che si dilata e riduce continua mente. Il modo in cui Rodrigo si rivolge al conte rappresenta la versione dialogata di un tipo di convocazione a duello che avveniva sotto forma di lettera: i duelli organizzati prevedevano che un duellante proponesse all’altro di combattere, chi lo organizza invia all’avversario una sorta di convocazione nella quale sono incluse le generalità di chi lancia la sfida, di chi la riceve e del luogo nel quale si svolgerà per evitare equivoci. Corneille riproduce quindi verbalmente un appelle (chiamata, la cartelle è il foglio). Rodrigo comincia dalle generalità del padre, evidenzia le caratteristiche del padre che ha ereditato, il suo valore e onore. Quando il conte gli risponde, Rodrigue inizia a esaltare le qualità dell’avversario; non solo egli riconosce quindi il valore reale del duellante ma conosce anche il guerriero che ha di fronte, in quanto giovane rischia ancora di più la morte. Ciò che consentirà a Rodrigue di diventare un eroe nazionale è una caratteristica che nonostante tutti i vincoli, valori e limitazioni che gli pesano resta fino alla fine: affronta tutti i propri limiti. Il secondo duello viene annunciato ma non mostrato per una questione di bienséance. Dietro questa regola teatrale c’è anche una motivazione politica: all’epoca della presentazione del Cid i duelli erano illegali, è un regolamento di conti interno. Rimanendo all’interno dei codici medievali del duello ricordiamo anche l’atto di sfida: aver detto delle falsità nei confronti dei qualcuno è una grave accusa che va regolata con la smentita, altra accusa è quella di vigliaccheria; una volta ricevute queste richieste non si può sfuggire a esse. Rodrigue uccide don Gomès, il che dispiega nel terzo atto da una parte tutte le conseguenze del gesto (si è fatto giustizia da solo, ha ucciso una persona importante, è odiato dalla donna amata), dall’altro troviamo tutta la disperazione di Chimène. La donna potrebbe essere considerata un Rodrigue al femminile, è lontana dalla donna-angelo, la femmina della poesia cortese. È un misto di dolore e rabbia, da una parte piange il suo progetto amoroso distrutto e dall’altra chiede vendetta, vuole che venga ucciso l’assassino di suo padre. La servitù in generale svolge un ruolo fondamentale: apparentemente secondari, fanno da specchi, confessori o intermediari per i personaggi principali. Ancora una volta Elvire, dopo il duello, accoglie i sentimenti di Chimène. La ragazza si trova in una doppia condizione di sofferenza (per il padre e per l’amato), lei si rende conto di aver subito un crimine ingiusto ma, pur rivendicando giustizia per il fatto compiuto, si sente combattuta per il fatto che continua ad amare chi ha ucciso il padre. Elvire reagisce sorpresa e a questo punto la ragazza esprime in maniera veemente i suoi sentimenti che oscillano tra amore e rabbia. I personaggi di Corneille esprimono un conflitto nel quale c’è la chiave: secondo il pensiero del ‘600, il cuore era la sede dei sentimenti e l’anima quella della ragione. Chimène continua a provare sentimenti per colui che ha ucciso suo padre, razionalmente però ha subito un torto che va sanato. La ragione è la stessa che ha portato Rodrigue al duello e quella che motiva l’infanta. È alla base delle tragedie e dei drammi del teatro dell’epoca. Chimène vuole farsi giustizia ma, sia perché è donna sia perché ricorre alla giustizia dello stato, va dal re per richiedere un duello; glielo concederà solo nell’ultimo atto dopo che Rodrigo avrà compiuto certe azioni. Il re gioca anche una sorta di ruolo paterno che comprende il suo dolore e la porta alla moderazione, una monarchia che non aderisce a questa procedura di stampo aristocratico e cavalleresco. Si viene a sapere l’accaduto e della pressione che Chimène sta esercitando sul re; alla fine del terzo atto don Diègue consiglia al figlio di partire in battaglia per provare a placare un’invasione mora. Egli ricorda a Rodrigue quali sono i valori ai quali deve aderire, l’unico modo per riconquistare Chimène è mettersi al servizio dell’intera nazione e mostrare il proprio valore non quanto cavaliere che si fa giustizia ma come capo che salva l’intera comunità. Rodrigue sconfigge i mori, viene acclamato da tutti, torna con una reputazione diffusissima e diventa il Cid. Al suo rientro ha comunque infranto un impedimento legale (ha lanciato un duello non permesso, ha ucciso una persona). LEZIONE 28/04 Abbiamo parlato del gesto di Rodrigue per vendicare suo padre. Su diversi piani ha delle conseguenze: quello con relazione con Chimène e il rapporto con l’autorità. Il primo duello ha come base la contestazione della scelta del re che nomina don Diègue come precettore di suo figlio, il conte sfida il suo rivale secondo i canoni dell’epoca. A questa prima sfida ne segue una seconda altrettanto illegale e si presenta come un ennesimo regolamento dei conti esterno alle vie della giustizia ordinaria, legittimata dallo stato. Questi sono dei nobili/cavalieri che in maniera naturale secondo loro si fanno giustizia da soli. Tutti i personaggi, anche se vivono con drammaticità queste situazioni, aderiscono a un sistema di valori che li trova concordi: nessuno finora ha messo in discussione il principio della vendetta, la necessità della gloria e la validità dell’onore. ONORE: condizione di dignità o valore morale riconosciuta socialmente a un individuo, che gode di reputazione positiva per i meriti acquisiti in qualche ambito o situazione. Si riflette nella considerazione altrui. GLORIA: onore e grandissima fama universalmente riconosciuti acquisitasi per virtù. Ciò che porta a ricordare un individuo anche dopo la sua morte. Questo stesso sistema di valori non riguarda solo le figure maschili ma tutti rispondono a un’etica cavalleresca che vuole anche da parte delle donne la stessa importanza rivolta alla vendetta, all’onore e alla gloria. Questo ci porta all’atto terzo. Anche Chimène ha ricevuto un torto, richiede vendetta, si sente offesa; qui viene fuori tutto il dramma che vive la donna, che si aggiunge al conflitto interiore e alla sofferenza che non abbandonano Rodrigue nemmeno dopo che ha adempiuto al suo compito di figlio e che infittisce l’azione principale. Può essere considerato come l’apice della crisi e inizia con un gesto inatteso: Rodrigue si presenta da Elvire per vedere Chimène, passa in questo modo da un intermediario. Elvire è stupita della sua presenza e per la sua sfrontatezza. La ragazza in quel momento non c’è poiché si è recata dal re e saranno diversi i suoi tentativi per il sovrano, che cerca di convincerlo a ottenere vendetta percorrendo però strade legali. Nella seconda scena troviamo don Sanche, che viene presentato come il rivale di Rodrigue non corrisposto, il quale al momento vuole approfittare della situazione e mettere a servizio il proprio coraggio per vendicare la dama. Don Sanche risponde a una morale attiva che vuole rimediare al dolore attraverso lo scontro: vuole usare la spada per punire il colpevole e attutire la sofferenza; vuole provare ad alimentare l’amore di Chimène fomentando la vendetta nei confronti di Rodrigue, spera che questa passione si trasformi in rabbia. La donna è comunque combattuta mentre don Sanche cerca di convincerla ad accettare i suoi servizi (in un’ottica proprio feudale di sottomissione). Alla fine del terzo atto si inizia a porre il problema della legittimità della vendetta. Don Sanche che si propone di vendicare Chimène lo fa per una precisa visione della giustizia non tanto lontana da quella del conte: non è certo che la giustizia venga applicata poiché il sistema ha delle lungaggini che vengono scavalcate dalla velocità del crimine, dall’azione. Chimène, che comunque continua a confidare nel supporto del re, lascia alla fine della scena una speranza a don Sanche: lo lascerà vendicare se avrà solo lui come ultima possibilità di risolvere la situazione. La terza scena corrisponde alla tirade di Rodrigue, non è un monologo come quello dell’eroe: Chimène si trova con Elvire e il dialogo fa in modo che venga fuori tutta la sofferenza della donna, non riesce a odiare l’uomo che ha ucciso suo padre. Anzi, quando don Sanche va via, lei essendo cosciente di avere delle attenzioni dalla persona sbagliata, può confidarsi con la sua serva, una persona fidata. Lei riconosce la sua condizione di dolore, è una donna che pur essendo confusa ha le idee chiare, definisce il suo stato d’animo come triste e fatto di dispiacimenti. Ricordiamo che Rodrigue era un giovane non ancora uscito allo scoperto, viveva nell’ombra del padre e che in quel momento si è trovato di fronte al dare continuità alla specie (deve portare avanti l’eredità della famiglia). Viene spiegata anche la drammaticità della situazione: lei è doppiamente triste, sia per la morte del padre sia per la mano che l’ha causata, ma continua ad amarlo; ciononostante, ha un dovere di figlia da mettere in pratica che non dimentica. Elvire non capisce come sia possibile che lei continui a provare questa passione per lui. Prendendo atto di questo conflitto, Elvire le chiede se intende realizzare la vendetta che richiederebbe la situazione; Chimène si sente obbligata, chiede la sua testa ma ha paura di ottenerla, vuole punirlo ma è certa che questa cosa farebbe morire anche lei. Deve comunque vendicare il padre, altrimenti sarebbe considerata anche lei vigliacca: la sua identità soprattutto si definisce grazie alla sua reputazione, l’educazione ricevuta/i valori in cui crede e l’immagine che gli altri hanno sono due idee strettamente collegate. SILENZIO/CRIME/ CHOISE/VENGEANCE. Elvire invita Chimène a mantenere la calma in quanto è più sanguigna di Rodrigue, anche perché ha affidato al re la sua richiesta di giustizia, la serva dispensa questo consiglio pratico volto anche all’obbedienza nei confronti delle autorità; al di là di tutti i valori e le gerarchie c’è sempre il re e questa idea si insinua attraverso una serva. Rodrigue, quando va lei, le chiede che sia lei stessa a vendicarsi (le offre il suo corpo ma deve essere lei a ucciderlo). Lui non è andato da lei a esprimerle un pentimento per una buona azione e per questo non deve abbandonare l’idea di ucciderlo; con altrettanto coraggio si mostra alla vittima per mettersi a disposizione per riparare il crimine commesso. La sua vendetta è considerata una scelta giusta, ribadisce il valore simbolico dello schiaffo come offesa a un valore di coraggio e così facendo viene attaccato anche il figlio; se capitasse nuovamente lo rifarebbe, è fermo nelle sue decisioni. Ammette di essere stato comunque incerto a causa della passione nei confronti della donna. È esplicito il richiamo con la sua tirade. Se non avesse salvato il suo onore non l’avrebbe meritata. Avrebbe diffamato la sua scelta se si fosse comportato da vile, l’avrebbe disonorata. Nelle battute successive, Chimène rifiuta di vendicare di suo pugno il padre perché è un gesto crudele, non sarebbe capace di uccidere la persona che ama per quanto mossa dalla rabbia; successivamente ha modo di spiegare le sue ragioni, lui merita di morire ma secondo le condizioni della donna e non come richiede l’uomo e ancora una volta confida del potere reale. Così come il conte non finisce don Diègue perché troppo flebile, così Chimène non uccide subito Rodrigue perché sarebbe troppo semplice, deve aspettare che sia lei a decidere come porre fine alla sua vita. Dopo tutto quello che è successo, Rodrigue incontra il padre che si sente felicissimo perché sia il suo onore è stato salvato grazie al figlio sia perché ha mostrato adesione ai valori della famiglia. Il ragazzo, al contrario, non è contento come lui e troviamo il primo distacco tra i due familiari, si insinua la differenza tra la generazione degli anziani e quella dei giovani. Il primo elemento di separazione tra i due lo troviamo quando afferma che onore e gloria, dei doveri, valgono più dell’amore, che è un piacere. Un vile guerriero o un perfido amante sono la stessa cosa. Don Diègue da un suggerimento al figlio: deve partire in battaglia contro i mori che stanno attaccando il regno sia per aumentare il suo prestigio tornando da vincitore – può sperare in questo modo di riparare la relazione – , sia perché dopo aver ucciso il padre di Chimène è come se fosse diventato lui il migliore, sia perché ha violato la legge e deve sfuggire in qualche modo alla volontà del re/alla giustizia (potrebbe ripristinare l’obbedienza nei confronti del sovrano mettendo a disposizione la propria vita per la Spagna intera). Rodrigue va in battaglia, la quale non viene mostrata per il criterio di bienséance, per l’unità di tempo e una serie di motivi scenografici; viene raccontata in due punti attraverso le informazioni riportate, in questo caso da Elvire voce di popolo. C’è una compressione temporale tra il terzo e il quarto atto, che fa sì che ci trasporti alla fine della battaglia, quando l’esercito guidato da Rodrigue ha vinto. Sempre grazie a Elvire sappiamo che il ragazzo non osa ancora apparire difronte al re per quello che aveva commesso, anche se don Diègue cerca di fare da intermediario. Dopo aver vinto i mori Rodrigue diventa un eroe nazionale e viene riconosciuto capo condottiero, è un titolo che lui merita dopo averlo ottenuto con tanto onore. In questo caso il re è in debito nei confronti di questo cavaliere; questo stride con i piani di Chimène. Il duello viene riassunto da Elvire all’inizio del quarto atto ma noi lo vediamo attraverso il protagonista della vicenda, è Rodrigue stesso che racconta la battaglia. Viene affidato a lui in prima persona perché se la raccontasse un’altra persona (soldato) non potrebbe essere la stessa. Il racconto di Rodrigue è esagerato, connotato da iperboli. Comunque il cavaliere non dimentica quanto sia delicata la sua situazione, di fronte al re si giustifica di essere partito senza la sua autorizzazione. Da una parte l’esercito era pronto, dall’altra i nemici si avvicinavano e quindi ha preferito correre in battaglia per salvare il paese piuttosto che recarsi prima a corte. Giustifica la temerarietà in virtù di rendere l’operazione più veloce ed efficace possibile. Il re lo perdona e promette di calmare Chimène. Segue il racconto più dettagliato: le immagini di guerra sono spesso caratterizzate da iperboli (soldati impazienti, azione cupa con della a caso viene educato dai gesuiti, che sono i pochi ordini religiosi che credono nella funzione educativa del teatro. Comincia a studiare diritto, ma si rende conto che il teatro lo chiama; incontra una famiglia di teatrali, la famiglia Béjart, con la quale si crea un legame affettivo perché sposerà una delle figlie di questa famiglia. Lui è molto giovane e nel ‘41 fonda una compagnia: “L’illustre théâtre”. Con questa truppa comincia a viaggiare per le province di Francia; les troupes come sappiamo erano girovaghe e Molière nasce come attore all'interno di questa compagnia. Man mano che esercita questa funzione di attore comincia a scrivere qualcosa di suo, ma essenzialmente è un attore. Facendo l’attore girovago ha vissuto veramente il teatro in tutti i suoi aspetti, poi ha sperimentato quella che è la versatilità di un attore di teatro in relazione a testi scritti da altri e appartenenti a vari generi. Questo ampio ventaglio di opere che potevano essere tratte dalla commedia o dalla tragedia, rispondevano a delle scelte estetiche della compagnia; ciò che è fondamentale è che Molière, attraverso questa esperienza, impara a conoscere il pubblico, impara a capire cosa vuole, quali spettacoli proporre e come adattare la recitazione ai gusti degli spettatori. Lui sapeva scegliere gli argomenti per gli attori e questo ha fatto sì che sia ancora oggi l’unico autore del ‘600 veramente ripreso e reinterpretato a distanza di secoli. Lui parte da testi già appartenenti al patrimonio letterario e propone commedie, tragedie e farse e non esita a riprendere dei canovacci della Commedia dell’arte e questo andrà a nutrire quello che sarà il suo stile di scrittura. Molière fa questa esperienza per 13 anni e ad un certo punto decide di ritornare con la troupe. A Parigi trova un contesto culturale che sta cambiando: siamo nel 1658, nei primi anni della monarchia di Luigi XIV, è un periodo di instabilità, in alcuni casi si parla anche di guerra civile. I primi anni sono quelli più brillanti, gioiosi, più sfarzosi, sono volti a creare un’inversione di tendenza e il nuovo ordine autoritario che si impone vuole imbrigliare tutte le tendenze centrifughe che esprimono la sensibilità barocca. Luigi XIV si impegna a radicare e a dare solidità al Classicismo come visione del mondo, concetto di bellezza, che possa fare da supporto al suo progetto politico. Molière dialoga con il Classicismo, lo riprenderà in maniera originale attraverso la commedia. Tale corrente si fonda su dei valori distanti dal Barocco perché i valori ai quali si ispira sono l’ordine, l’armonia e l’equilibrio, verso i quali è necessario tendere per raggiungere il benessere; è la razionalità il criterio alla base di una visione della vita e del mondo che fa di tutto ciò che è deviante oggetto di recriminazione. Questa visione del mondo, che si afferma nel periodo ‘60-‘80, rientra in parte in questo progetto politico, quindi c’è un motivo per il quale si affermano questi valori a differenza del Barocco che resta sotto, è una corrente parallela meno evidente. Gli autori che aderiscono a questa estetica non sono tutti asserviti al potere; il Classicismo è un clima culturale, una visione del mondo condivisa, ma questo non significa essere asserviti al re. Alcuni autori pur inserendosi in questi canoni mostrano le problematiche del perseguire questi elementi. Molière torna con l'illustre théâtre e mette insieme una compagnia di cui diviene pian piano capocomico e quindi gestisce con cura gli attori, il repertorio; lo stesso Molière, proprio perché conosceva ciò che il pubblico voleva, ha cercato di ottenere le ultime pièces prodotte da Corneille e Racine. Compie questo apprendistato in provincia e quando torna a Parigi è chiaro che il contesto è diverso, c’è una concorrenza spietata tra le diverse compagnie di teatro che si sono affermate nei decenni passati in sua assenza; le sale teatrali maggiormente battute la pubblico parigino solo l'Hôtel de Bourgogne e l'Hôtel du Marais. Mazzarino fa costruire un teatro all’italiana e a partire dalla seconda metà del ‘600 i teatri a forma semicircolare cominciano a diffondersi. Le due alee si facevano molta concorrenza e nel momento in cui Molière ritorna sulle scene francesi la compagnia Bourgogne ha più successo di Marais e pur essendo molto affermate c’è un punto di debolezza che Molière ha saputo individuare: il primo è che queste due troupes erano piuttosto vecchie nella loro scelta del repertorio, infatti avevano un repertorio piuttosto tragico, era come se la commedia non fosse tanto seguita dal pubblico francese a Parigi. Molière nota questa cosa e cercherà di colmare questo vuoto all’interno del panorama teatrale del tempo. Quando presenta la sua prima espressione teatrale, le altre compagnie cercano di battere questa concorrenza. In realtà i più forti a teatro e soprattutto per il teatro comico erano gli italiani; erano stati introdotti maggiormente all’interno dello scenario parigino, integrando quest’attenzione per la commedia che era stata sempre non troppo presente e continuativa. Gli autori comici francesi in realtà prendevano molto in prestito dalla commedia dell’arte e degli italiani ed è una cosa che Molière farà perché a differenza degli attori di commedia francesi che recitavano col volto cosparso di bianco, gli attori della commedia dell’arte avevano delle maschere. Molière attinge a questa cosa e adotta la maschera all’italiana. Altra cosa importante che fa sì che gli italiani fossero considerati una potenza per il prestigio che avevano guadagnato nel tempo; si erano guadagnati anche una sorta di libertà nella scelta delle tematiche e degli argomenti da presentare e rappresentare in scena. La stessa satira religiosa, che era oggetto di censura per i francesi, agli italiani veniva concessa. Vedremo con Tartuffe, il cui bersaglio è proprio la satira dei falsi religiosi, che nel momento in cui lo fa Molière, autore francese con uno spessore che fa della commedia un’opera che tratta temi importanti, succede un putiferio. Molière urta ancora una volta l’orizzonte culturale dell’epoca. I tipi di commedia maggiormente praticati prima che Molière inventasse il suo modo di intendere il genere erano: la commedia di intrigo, la commedia burlesca, la commedia dell’arte e poi un quarto tipo di commedia definita commedia sostenuta; quest’ultima è più erudita ed è molto meno praticata rispetto agli altri generi, i primi tre sono quelli di moda per l’epoca. La farsa ha una grande tradizione in Francia, ma per qualche decennio questa tradizione si perde per il contesto culturale dell’epoca, quella tendenza a creare una nuova idea di buon gusto e questo fa sì che la farsa fosse associata a volgarità, bassezza, a una serie di elementi disprezzati e criticabili moralmente. Quando Molière comincia a presentare le sue pièces gli viene rimproverato di riproporre la farsa in Francia. Se leggiamo i pareri del pubblico all’epoca possiamo notare due cose diverse: un pubblico colto che conosce la storia del teatro e che rimprovera il fatto che Molière volesse riportare un genere in disuso perché considerato inferiore; altro aspetto è che il pubblico vede qualcosa di nuovo in Molière, qualcosa che in passato non si era visto e questo significa che alcuni strumenti della farsa erano caduti in disuso. Moliere in realtà ha un debito con la farsa, tra i vari modelli di cui dispone inserisce degli elementi della farsa nel suo modo di intendere la commedia, è un connubio originale tra diverse cose. Molière inserisce la farsa probabilmente perché i suoi anni di apprendistato in provincia lo hanno messo in contatto con una realtà lontana dal centro parigino, quella che dettava le mode, in cui la tradizione della farsa continuava ancora; inserisce elementi di farsa soprattutto all’inizio, ma in realtà continua anche in seguito. Gli elementi farseschi che inserisce sono: una componente di fisicità che riprende anche dalla commedia dell’arte, alcuni motivi come il ribaltamento dei ruoli, ad esempio l’uomo che persegue i traditori e poi viene tradito dalla moglie, sono figure che riprende è adatta. I modelli sono tanti, la sua originalità consiste nel recuperare la tradizione facendone qualcosa di nuovo. Gli elementi innovativi sono quello di coniugare elementi farseschi con questioni morali, applica il comico ad argomenti seri e complessi; mette in discussione lo stesso valore dell’honnêté, mostrandone attraverso la risata le contraddizioni. Oltre al comico della gestualità riprende anche un comico della ripetizione; è un teatro che attraverso la risata ci fa riflettere su questioni contemporanee, da una parte prende spunto da argomenti di attualità, dall’altra fa riferimento anche ad opere antiche. Questo teatro propone anche un insegnamento e anche per questo Molière può essere considerato un autore classico. C’è un senso dell'equilibrio, a volte si è parlato di Molière come l’autore che diffonde la juste milieu, il giusto mezzo / la ricerca dell'equilibrio, che all’interno delle commedie fa sì che spesso si oppongano i vecchi, che rappresentano la persistenza di valori ormai obsoleti, e i giovani, parte dalla quale sarà sempre lui. Anche quando sceglie i personaggi, ad esempio gli imaginaires, sono coloro che sono ossessionati da un'idea e Molière ci fa ridere di queste ossessioni, ma fanno anche riflettere sulle contraddizioni. Molière livella quel rapporto di superiorità che fino a quel momento si era diffuso tra personaggi e pubblico; il pubblico non si sente più superiore, ma partecipa, immedesimandosi nella scena. Il misantropo ad esempio critica l’honnêté e Molière ci fa ridere di ciò. Sono questi valori considerati socialmente elevati, che combinati con la risata sono un qualcosa che non si era mai visto prima. Le commedie di Molière sono scritte in versi e mantengono quella versatilità che prende dalla tradizione per cui si vede che i testi sono accurati, ma c’è anche quella varietà di registri, si codifica come genere a sé. Molière modifica il rapporto tra spettatore e spettacolo; ha un'abilità, rientra all’interno di una visione del mondo che tende verso l’equilibrio, ma lo fa combinando di diversi generi e stili e questo è ciò che il Classicismo detesta, è un classicista con le sue particolarità. L’impatto che Molière ha avuto nello stesso modo di fare teatro ha modificato già il modo di fare commedia dei suoi contemporanei; essendo stato attore e capocomico recitava, muore sulla scena mentre recita, ha dato degli orientamenti di regia molto incisivi e non voleva che gli attori recitassero in maniera artificiosa; a partire dal suo successo con les pièces, gli attori cominciano a recitare in maniera più naturale. Una cosa che fa e che non si era mai vista è la Commedia-Balletto; questa cosa prima di Molière non esisteva. Nasce da diverse committenze perché Luigi XIV, per allietare i suoi ospiti, chiedeva a Molière degli spettacoli di intrattenimento. Questa è la commistione tra recitazione, danza, ai quali si aggiungono la musica e il canto, il tutto all’interno di una cornice sontuosa; è come se sviluppasse in maniera creativa e raffinata la sua esperienza di artista di strada, farà circa 11 di questi spettacoli, poi si rende conto che può essere uno spiraglio creativo valido soprattutto dopo la polemica di Tartuffe. “Molière ou les métamorphoses du comique”, fa una divisione in 3 periodi, va dall’inizio del ritorno dell’autore a Parigi fino al 1664 che è la data della prima rappresentazione di Tartuffe. Tartuffe ha avuto due rappresentazioni, una nel 1664, poi lo spettacolo è stato censurato, proibito ed è stato oggetto di una riscrittura prima della nuova presentazione del testo dopo 5 anni, nel 1669. Il primo periodo va dal ‘58, quando torna, fino al ‘64 e Tartuffe viene proibito per intervento del re, lui lavorava per il re, ma la pièce era stata sospesa. È un periodo che coincide con i primi anni di Luigi XIV, c’è una maggiore adesione dell’autore con quello che è lo spirito dei primi anni della monarchia del re sole e qui l’ideale dell’honnêté prevale un po’ su tutto. Troviamo la figura dell’immaginario che è maggiormente oggetto di scherno, è come se ci fosse una divisione più netta tra ciò che è giusto e sbagliato nel perseguire questo ideale dell’honnêté. Questo genera una frattura all’interno della visione del mondo e del teatro in Molière, non considera più Parigi quello spazio di espressione, di libertà creativa, di crescita intellettuale che aveva visto fino a quel periodo. La censura che viene imposta al suo testo fa sì che lui non si veda più nel posto giusto e le due pièces che lui pubblica successivamente esprimono proprio l’amarezza legata a questa censura. Il primo testo di questa fase è “Don Juan” del ‘65. Il mito di Don Giovanni non è una sua invenzione e qui l’autore si colloca nella tradizione seicentesca che vede nel teatro spagnolo uno dei modelli principali di riferimento. Il Don Juan al quale si ispira Molière è quello di Tirso de Molina, al quale aggiunge la sua visione delle cose che è determinata dalle sue esperienze personale. Il Don Juan di Molière incarna questo ideale dell’honnête homme; è un gentiluomo che esercita costantemente la seduzione e alla quale non può rinunciare. Questo Don Juan, protagonista della commedia, potrebbe essere stato dipinto come un seduttore che persegue la seduzione in maniera maniacale e ossessiva come nei personaggi precedenti. Invece il Don Giovanni di Molière si tinge di toni cupi, è un uomo affascinante, ma anche inquietante; in fondo non è ridicolo veramente, chi integra questo personaggio cupo, che alla fine viene condannato e va all’inferno. Chi tinge i colori dell’opera è Sganarelle, la figura subalterna che in realtà svolge un ruolo fondamentale perché esprime quel comico che il Don Juan di per sé non incarna, ma nelle interazioni con il personaggio smonta un po’ quelle che sono le prese di Don Juan stesso e incarnano lo spirito libertino dell’epoca, quindi questa corrente filosofica che nel ‘600 si sviluppa tantissimo e avrà tanta fortuna anche nel ‘700, esprime una visione materialistica dell’esistenza. Altra pièce che si colloca in questo momento di crisi, di transizione, è “Le Misanthrope”, del ‘66. È un uomo solitario, buio nei confronti degli altri, ma che sostanzialmente è una brava persona che non si riconosce più in questo ideale dell’honnête homme; vede nell’honnête homme una costruzione sociale, un’ipocrisia nello stare con gli altri che però non riesce a vivere coerentemente nella sua integrità perché al cuore non si comanda e si innamora di una mondana. Quindi il comico sta in queste contraddizioni interne; è però una commedia che fa ridere meno di Don Juan. Les pièces dopo Le Misanthrope fanno ridere di meno perché si tingono di una visione più problematica della vita. Quest’opera termina con un topos letterario del ‘600, la retraite, il ritiro, un uomo che non riesce ad integrarsi in società sceglie di ritirarsi a vita privata, lontano dal mondo, per il resto della sua vita. Nell’ultima fase seguono le commedie pure, non le commedie-balletto; le commedie si tingono di toni più cupi e complessi e per esempio “Le malade che precede l’arrivo di Orgon, in realtà prepara anche l’arrivo di Orgon, che è il personaggio che arriva immediatamente dopo Tartuffe in questa visione della religione che viene derisa da Molière. Madame Pernelle appena entra in scena vuole già andare via, allora dice: “Allons, Filippote, allons, que d’eux je me délivre”. Filippote era la serva; c’è la battuta di Elmire, la nuora, che suggerisce la scena indiretta, abbiamo difficoltà a seguire e stare dietro ad un personaggio come Madame Pernelle che va avanti e dietro. La nuora si mostra accomodante e conciliante nei confronti della suocera che invece non vuole saperne di questa donna. Dalla risposta di Elmire si evince qualcosa di importante: “s’acquitter de quelque chose” significa liberarsi di un debito, quindi indica che avevano fatto tutto quello che si poteva fare. Dunque, da qui comincia un racconto della vita in casa attraverso la prospettiva di Madame Pernelle, cioè una prospettiva con punto di vista moralista e bigotta. Gli anziani per Molière, che possono essere genitori o nonni, rappresentano la difesa di una morale che è messa in discussione dai giovani, rappresentano un mondo che va superato. Nel discorso di Madame Pernelle c’è un riferimento del modo di dire del ‘600: “Pétau” era il re dei mendicanti, dunque ha voluto sottintendere che fossero all’interno di una corte di straccioni, senza una guida, dove non c’erano valori morali e dove ognuno faceva quello che voleva; dice che non può vedere tutto questo andazzo, questo modo di fare e non può vedere che non si abbia nessun riguardo o preoccupazione nel voler compiacere, il loro comportamento non vuole in alcun modo compiacere, cioè fanno tutto il contrario di quello che vorrebbe. Interviene poi Dorine, che nello spettacolo sappiamo che svolge un ruolo molto importante, lei prova a dire qualcosa e Madame Pernelle le taglia subito la parola, sapendo però che nel corso della vicenda le non si farà ridimensionare, né da lei né da altri. Ciononostante, Madame Pernelle vuole ridimensionare ancora di più il ruolo di Dorine, che non è proprio una domestica, ma dama di compagnia, è la confidente di Mariane nonostante la vediamo armeggiare in cucina. Damis è il figlio di Orgon e lui rappresenta la gioventù passionale, a volte irascibile. È il personaggio che non riesce proprio a controllarsi, vorrebbe per esempio farsi vendetta da solo e che rappresenta sia le ragioni del cuore che rifiutano quell’intervento razionale che tanto nella società del suo tempo è coinvolta; sia rappresenta quel personaggio secondario, perché Molière in fondo pur unendo le ragioni del cuore, alla fine lui è per la morale del “juste milieu”, giusto mezzo, equilibrio tra le parti. Madame Pernelle, quindi, prima fa una considerazione generale dei personaggi (espediente utilizzato da Molière) dove ognuno prende la parola, ma poi lei li stoppa, quindi ci fa riconoscere tutti i vari personaggi e quando è il caso del nipote, addirittura gli dice che è un cretino, un babbeo e che deve stare zitto. Quando interviene Mariane, Madame Pernelle dice di stare zitta anche a lei, insinua verso la nipote che ha un carattere nascosto; in realtà è tormentata, potremo dire che è il personaggio più tragico della commedia perché è una ragazza alla quale viene imposto di sposare un uomo che non ama, vorrebbe difendersi ma non ce la fa; dopo l’incontro col padre, infatti, dice a Dorine che forse è meglio morire. Dorine, che è la serva, e che quindi è legata alla vita ed esprime una morale pratica, smonta tutto quello che era l’intento tragico di Mariane. Madame Pernelle dice che il comportamento della nuora è cattivo, la condotta morale è cattiva e che la vecchia madre defunta avrebbe fatto molto meglio. Sappiamo inoltre che Elmire è la nuora di Madame Pernelle, ma che non è la madre dei reali ragazzi, lei è la seconda moglie di Orgon ma nutre per loro un grande amore. C’è una critica alla donna, una condanna in Elmire, che è la presunta vanità: dice che va vestita come una principessa, che abbia una precisa attenzione pura per il suo abbigliamento ed accessori. La vanità è l’attaccamento a ciò che è vano, tutto sulla Terra è destinato a finire, ma è vano da un punto di vista cristiano, è condanna cristiana perseguire ciò che è vano perché la vera vita è altrove, nell’aldilà. Infatti secondo Orgon, questo concetto deve essere trasmesso da Tartuffe, perciò lo ha portato in casa. La stuzzica, dicendo che chiunque voglia piacere solo al proprio marito non ha bisogno che si sistemi così tanto, si insinua quindi anche al tradimento. Dunque, con Madame Pernelle abbiamo la collocazione dei personaggi principali. Vediamo invece, adesso, come sempre in questa scena vedono Tartuffe. VERSO 41: Qui, finora, il linguaggio religioso è implicito, c’è riferimento alla vanità ecc., ma a mano a mano che andremo avanti c’è un gioco, secondo il quale Molière mette in mezzo un vocabolario solitamente attribuito alla religione, all’ambito ecclesiastico, alla spiritualità ma ricontestualizzato, attraverso il modo in cui Tartuffe viene definito e attraverso anche le parole con le quali lo stesso Tartuffe si esprimeva. Damis ad esempio, provocatore, ad un certo punto dice che Tartuffe è beato, cioè colui che ha ricevuto la grazia ed è stato scelto, ovviamente qui è ironico, ma lei lo difende. Damis, che è il personaggio più senza freni, dice subito come lo vedono gli altri, cioè come un falso devoto ipocrita, che esercita potere tirannico. Non si possono distrarre in niente se Tartuffe non si degna di acconsentire (si deve sottostare al suo consenso). Qui Dorine, dopo la rottura di Damis, prende anch’essa la parola. Tra madre e figlio (Madame Pernelle ed Orgon), inoltre, c’è un rapporto che si intravede: lei è la madre, colei che ha educato il figlio e lo ha messo sulla strada, e il figlio alimenta, in Madame Pernelle, la certezza che si tratti di un buon uomo poiché non fa altro che parlarne bene, e in un contesto in cui questi giovani non le piacciono, la nuora è meschina, lei crede solo al figlio, sono gli unici a far corpo verso Tartuffe. L’idea di religiosità si vede attraverso le loro parole e attraverso la figura di Cléante, fratello di Elmire, che viene messo da parte perché non fa altro che dispensare consigli: però, insieme agli altri personaggi, contribuisce a proporre una morale pratica che mette da parte le parole per dare primato e proprietà all’azione. Il bene si mostra non nelle prediche ma nei fatti. I ragazzi dicono di agire nella verità che è legata all’essere se stessi, è un essere sé stessi che sfida le pressioni, i vincoli sociali, Dorine spinge Mariane a sposarsi con l’uomo che ama. Non è che gli altri non siano credenti: quando Orgon ad un certo punto dice a Cléante di essere un libertino, in realtà c’è un altro modo di essere credenti che non è questo della chiusura mentale e della menzogna. Molière non scrive una pièce contro la religione, ma contro coloro che dietro l’apparenza di un’adesione alla religione in realtà praticano l’egoismo, la vanità e il materialismo, tutti questi personaggi contribuiscono a mettere in discussione tutto questo. Abbiamo parlato del lungo processo di gestazione legato all’opera dovuto al dibattito/scandalo generato dalla realizzazione e il passaggio da 3 a 5 atti che ha consentito di sviluppare i diversi personaggi. La prima presentazione che constava di 3 atti vedeva l’azione molto più condensata ma delle testimonianze indirette che ci sono arrivate non abbiamo la prima versione manoscritta ma sappiamo che la presenza dell’impostore è molto più persistenze, sappiamo che ne esce vincitore e che il male trionfa nella versione del 64. La versione del 1669 fa apparire il Tartuffe per la prima volta a metà della pièce, nel terzo atto; questa scelta di Moliere è finalizzata a mostrare il personaggio attraverso gli occhi degli altri e già avere prontezza della diversità di questo personaggio ambiguo e capace di catalizzare ammirazione e stima da una parte ma anche diffidenza e repulsione dall’altra. Questa dicotomia tra pareri favorevoli e sfavorevoli nei suoi confronti è subito presentata dalla prima scena in cui abbiamo una conversazione a casa di Orgon. Gli schieramenti vedono da un lato il padrone di casa con sua madre – una minoranza – e dall’altra tutta la famiglia che secondo approcci diversi concordano però nel vedere il Tartuffe come un moralista che nella pratica non è esattamente un modello di virtù. Non riusciamo ancora a capire la gravità delle azioni che compie ma ne abbiamo una vaga idea: nell’assenza di Orgon vediamo come osserva i comportamenti delle persone attorno, li commenta e condanna come se si arrogasse il diritto di fare da capofamiglia in assenza di quest’ultimo. Questa situazione/gioco di ruoli che potrebbe, in assenza del padrone di casa, essere considerata come un’usurpazione del ruolo di capofamiglia in realtà viene ribadita e sostenuta dall’opinione di Orgon stesso anche nei confronti di Tartuffe, opinione che viene sempre presentata al lettore attraverso dialoghi tra personaggi terzi (ancora una volta Tartuffe non c’è ma sono presenti Cléante e Orgon). Il dialogo tra i due è preceduto da uno scambio tra Dorine e Orgon, il quale entra e chiede notizie della famiglia – abbiamo visto che si mette in scena un gioco comico che vede Orgon che chiede costantemente di Tartuffe come se fosse ossessionato, come se questa persona fosse al centro dei suoi pensieri. Questa ripetizione è anche rafforzata dal gioco di equivoci, per cui Dorine dice qualcosa in particolare/racconta della malattia della moglie e Orgon risponde in maniera sganciata dal discorso mostrando il suo pensiero unicamente dedicato a Tartuffe. Ancora una volta, altro elemento comico è l’ironia involontaria che lo stesso Orgon genera nel momento in cui Dorine mette a confronto lo stato di salute della moglie, inizialmente grave e preoccupante, con le reazioni di Tartuffe che si dimostra tutt’altro che attento e accudente nei confronti della famiglia verso la quale ostenta protezione ma che di fatto non mostra la minima empatia e compassione – si consideri che comunque si parla di un cristiano, un predicatore del cristianesimo che considera questo alla base della propria fede. Nonostante questo gioco involontario, dinanzi all’evidenza dei fatti Orgon mostra di non vedere la realtà della cosa; questa idea di non voler vedere la si può notare nell’atteggiamento costante di Orgon. Ciò fa ridere poiché da una parte ridicolizza Orgon ossessionato inconsapevolmente e dall’altro l’effetto ironico ci mostra un uomo tutt’altro che povero. Questo quadro, che in realtà già mostra la sua complessità mostrando solo le prime due scene, viene ulteriormente complicato all’interno del primo atto quando Cléante, dopo lo scambio con Dorine e Orgon, vorrebbe far ragionare suo cognato. Cléante vuole rappresentare la voce della coscienza all’interno della pièce, un interlocutore che tenta di mostrare a Tartuffe dove risiede la vera devozione. In un certo senso è il personaggio più vicino al pensiero di Molière, rappresenta la visione più colta e articolata di quello che in realtà sostiene Dorine (la serva, voce del popolo, di chi ha esperienza e che conosce le leggi del cuore, che indirizza Arianne verso la realizzazione del suo sogno d’amore). Cléante, partendo dal suo stesso atteggiamento nei confronti della vita ma con una fede per così dire più radicata, cerca in tutti i modi di portare attraverso il dialogo il ragionamento/l’argomentazione e condurre Orgon sulla via della distinzione reale tra bene e male. Qui Cléante cerca di far ragionare Orgon ma si scontra ancora una volta con un “muro di gomma”: Orgon vede in Tartuffe un uomo devoto, un punto di riferimento, una sorta di guida spirituale; lui lo accoglie in casa con la gratitudine di chi ha incontrato una persona speciale capace di salvare la propria anima e quella di tutti i familiari. Questa scelta viene spiegata a Cléante raccontando l’origine dell’incontro tra loro due (atto I, scena V); si è appena terminata la sequenza tra Orgon e Dorine. Cléante vuole porsi come interlocutore sincero, è una persona che effettivamente intende instaurare una relazione di onestà con Orgon a differenza del suo protetto. A partire dal modo in cui suo cognato si interessa a Tartuffe ignorando le opinioni della famiglia, definisce questo rapporto come un “caprice” e “charme”: capriccio è un desiderio infondato che ha ragione di essere semplicemente per il suo essere, non c’è motivazione concreta; tale idea di capriccio è rafforzata da quella di charme. Lo charme viene oggi inteso come fascino, ma in origine significava magia/sortilegio, quindi è come se Tartuffe avesse stregato Orgon; si insinua a partire da questa scena l’idea della manipolazione – agisce sul personaggio andando contro la 2propria volontà. Dalle battute che seguono ci rendiamo conto che Tartuffe ha sapientemente studiato ogni gesto e parola cercando di toccare le corde più sensibili di Orgon. Capiamo che Cléante non ha ancora avuto modo di conoscere Tartuffe e anche lui segue la scia della rappresentazione attraverso gli occhi degli altri, ma sicuramente vede qualcosa di disfunzionale nei gesti che gli vengono riportati, incongruenti rispetto le reazioni di Orgon. Quest’ultimo rivolta l’idea di charme con accezione non magica ma di fascino, in qualche modo vorrebbe rispedire la critica al mittente (non criticare questa persona perché se la conoscessi penseresti la stessa cosa mia). Orgon come già detto vede in lui una guida spirituale, chi segue i suoi insegnamenti assapora una pace profonda che proviene dal non attaccamento (quando parlavamo di Montaigne, di quando già i filosofi si interrogassero sull’origine del dolore e sui modi per allontanarlo, abbiamo visto diverse strategie come il non attaccamento, l’atarassia, l’apatia. Questo principio lo ritroviamo in correnti che convergono verso la ricerca di una pace interiore). In un’ottica cristiana Orgon questa pace interiore/non attaccamento la vede come del letame: “il non attaccamento collegato al suo senso di superiorità, lui guarda tutti come se fossero inferiori e divento un altro parlando con lui; mi insegna a non avere affetto per nulla”. Tartuffe dunque allontana Orgon da tutti gli affetti, le sue vicinanze emotive e quello che potrebbe sembrare un distacco per evitare la sofferenza seguendo dei modelli filosofici in realtà sappiamo bene che è un voler attirare le attenzioni su di sé. È completamente assoggettato al manipolatore, Tartuffe ha fatto sì che si distaccasse dall’interesse dei suoi familiari pur mantenendo una certa influenza su di lui, è una dipendenza di tipo spirituale ma anche affettiva. Orgon racconta l’incontro; si divide in due parti, sono due episodi che vengono narrati: vv.281-298 descrive il momento dell’incontro che avviene in chiesa, vv.299-310 è dedicata alle conseguenze dell’incontro che si focalizza sul comportamento di Tartuffe nei confronti della famiglia. Nella prima parte possiamo individuare degli elementi che avrebbero affascinato o addirittura stregato Orgon. qualche forma di controllo ma non riesce e non vuole farlo, tenta sempre di celare le apparenze. Alla fine del suo discorso affina nelle mani della donna la sua felicità o infelicità. La dichiarazione di Tartuffe rimane ancora in un registro di galanteria che pone la donna come espressione assoluta del creato, essere perfetto, un qualcosa che porterebbe l’uomo a lottare contro i propri limiti di credente; si affida a lei mostrando una pudicizia apparente affidandosi al suo giudizio. Lei nella sua replica riconosce quanto la sua dichiarazione sia galante, si mostra anche un po’ sorpresa: v. 963 “armer mieux votre sein”, deve fortificare maggiormente la sede del cuore, delle passioni, perché non debordi in slanci al di sopra le righe e soprattutto avrebbe dovuto essere molto più razionale in quanto uomo di chiesa. Tartuffe continua. Nella seconda parte di questo gioco di seduzione di questo dialogo prevale la parte umana, a mano a mano si rivela dicendo di essere un devoto ma anche una persona in carne e ossa, pertanto suscettibile di peccare e si lascia trasportare da questa passione. Una volta dichiarato questo amore, questa passione Elmire non si mostra minimamente compiacente e interessata, la vera rettitudine è espressa da altri personaggi (Cléante, la stessa Elmire). Si cerca in tutti i modi di far capire a Orgon che Tartuffe ha queste mire espansionistiche nei confronti della moglie; nonostante ciò continua a non capire e a non voler vedere tanto che la moglie architetta un piano per mostrare di persona gli atteggiamenti di Tartuffe nei suoi confronti quando si trovano soli. Molière qui riprende un motivo tipico della farsa, ossia il triangolo marito- moglie-amante con la sequenza del marito che arriva improvvisamente e l’amante che si nasconde; l’autore quindi si è ritrovato molto in ambito farsesco, ne ha ripreso dei motivi per poi riadattarli. Nell’atto IV scena V il motivo viene ridisegnato, per cui non è l’amante a nascondersi bensì il marito per vedere il candidato amante farsi avanti e coglierlo in flagrante. Effettivamente in questa scena Tartuffe arriva, è diventato più esplicito, il modo in cui si rivolge a Elmire è diverso rispetto al modo in cui le parlava prima della dichiarazione; Elmire conosce bene la situazione e lui vorrebbe approfittare di questa cosa. Orgon davanti all’evidenza dei fatti non può più negare, si rende conto di aver fatto un errore di valutazione e si convince di dover cacciare Tartuffe. Senonché l’impostore che sa di essere una persona orrida, suscettibile di essere mascherato in qualunque momento, aveva con sé un’arma da poter utilizzare al momento opportuno: è una confidenza e una documentazione. La confidenza è quella che Orgon ha fatto al suo protetto (qui si va verso una caratterizzazione storica dell’opera, i rapporti con la monarchia assoluta e il ruolo del teatro durante il Classicismo); Orgon, vedendo in Tartuffe una guida spirituale/punto di riferimento/consigliere, confessa un peccato, un affare losco nel quale si è immischiato: ha favorito, sostenuto e appoggiato dei nobili durante la Fronda ed esiste una documentazione che potrebbe cacciare nei guai Orgon. Nel quinto atto si svolge tutta la tematica della giustizia prendendo il sopravvento rispetto ad altre. Nella terza scena dell’atto Orgon si rende finalmente conto della situazione e arriva un messo nel re; la figura del re interviene non in maniera diretta, come nel Cid, ma indirettamente (si consideri che il sovrano coinvolto in Corneille era lontano nel tempo e nello spazio, quindi anche dal punto di vista di logica teatrale e messa in scena non era opportuno mettere sul palco un personaggio che interpretasse Luigi XIV). Lo Stato quindi interviene attraverso due figure di emissari, funzionari in grado di rappresentare il re: il primo è Monsieur Loyal, che interviene nella scena IV, che viene a portare l’annuncio di sfratto a Orgon impugnando una carta posseduta da Tartuffe secondo cui Orgon, a questo punto vittima di un ricatto, avrebbe lasciato tutto a lui. In virtù di questo affare losco, di questa cassetta di documenti, Tartuffe ricatta Orgon e la sua famiglia mandando il messo reale che porta l’avviso di sfratto. Non solo quindi Tartuffe ha cercato di ottenere i propri interessi in momenti di pace ma non esita a eludere la punizione accanendosi contro la vittima. Alla fine del quinto atto l’ordine viene ristabilito, non c’è un’evoluzione drammatica ma il cattivo viene punito grazie all’intervento del sovrano che manda un secondo funzionario, intervenendo come deus ex magina in grado di ripristinare l’ordine perché, nonostante Orgon ha compiuto quelle azioni, il suo reato passa in secondo piano rispetto al fatto che si è reso un servo leale e soprattutto Tartuffe aveva una fedina penale sporca, emergono degli antefatti estremamente gravi che fanno sì che Tartuffe sia identificato come impostore quale è (l’atto stesso di mandare a Orgon l’avviso di sfratto viene considerata una sorta di appropriazione indebita nell’ottica del comportamento fraudolento). Per cui, l’impostore viene incarcerato e l’ordine ristabilito. L’opera termina con un’esaltazione della giustizia. LEZIONE 16/05 PHEDRE, RACINE La “Querelle du Cid” dà inizio a un periodo in cui chiunque volesse scrivere teatro doveva confrontarsi con la poetica di Aristotele; il teatro è espressione della mimesis, la rappresentazione della realtà. La poetica di Aristotele è divisa in una parte dedicata alla tragedia e una alla commedia ma ricordiamo che la tragedia ha maggiori linee guida ed è anche un genere più vincolato. In Francia, gli scrittori restano molto legati a questo riferimento teorico; a differenza di altri paesi come l’Italia e la Spagna, la tragedia è il genere più usato e più vincolato e in Francia i poeti sono più legati alla poetica di Aristotele. Questo non significa che chi volesse fare tragedia applicasse in maniera piatta i riferimenti alla poetica di Aristotele: gli autori di genio infatti, mettendo in pratica questi stessi riferimenti teorici esprimono tutti quelli che sono i limiti di queste regole stesse, come nel caso di Racine. Applicando tutte le regole previste dalla tragedia classica e facendole vivere attraverso la storia di una donna in particolare è come se ci confrontassimo con i limiti stessi, non solo di queste regole, ma anche del nostro essere uomini e donne. Phèdre è una pièce datata 1667, il contesto storico è cambiato perché Richelieu aveva apportato novità nel campo della diffusione dei valori e nella cultura e troviamo il regno di Luigi XIV, regno molto più solido nei valori perché il Classicismo si è affermato come visione del mondo dominante che vede in valori come l’ordine, l’equilibrio e l’armonia dei principi fondamentali e il teatro diventa veicolo per discutere di questi. Phèdre si presenta sin dall’inizio come una tragedia classica, innanzitutto per la scelta del soggetto che attinge alla letteratura antica, prima greca e poi latina. Le fonti sono una tragedia di Euripide intitolata “Hippolyte”, figliastro di Phèdre e poi “La Fedra” di Seneca. L’approccio all’imitazione di Racine è personale: a partire da questi modelli lui inserisce altre fonti combinandole in maniera personale e poi adotta altre scelte che esprimono quella che era la visione del teatro antico secondo i valori del ‘600. Racine spiega le ragioni delle sue scelte all’interno della Préface di Phèdre. Racine inizia la sua Préface ammettendo qual è la forma, mettendosi sotto la protettiva di uno dei più grandi drammaturghi greci. È una tragedia il cui soggetto è preso da Euripide, benché abbia seguito una strada diversa da quella di questo autore per la condotta dell’azione; si è preso più libertà rispetto alla trama e poi ha rimaneggiato la sua pièce prendendo gli elementi salienti della fonte originaria. Racine attinge ad un momento antico con le lenti del Classicismo seicentesco. A partire da questo personaggio di Euripide, ha messo ciò che c’è di più ragionevole nel teatro; a Corneille era stata condannata la veemenza delle passioni, per Racine invece il teatro deve far ragionare, non è stupito che questo personaggio abbia avuto un successo così felice al tempo di Euripide e che sia ancora così bello e riuscito nel secolo. Sceglie dunque Phèdre perché pensa che ci siano dei valori che lo rendono attuale. Fa poi riferimento ad Aristotele dicendo che Phèdre è un personaggio molto felice, che ha avuto successo all’epoca e a quel tempo perché ha preso tutte le caratteristiche che Aristotele vede nell’eroe della tragedia. Aristotele, all’interno della poetica, dice che l’obiettivo della tragedia è quello di realizzare una catarsi all’interno dello spettatore: la catarsi è una purificazione interiore, attraverso la tragedia e grazie all’identificazione lo spettatore vive un’esperienza che agisce dentro di sé contribuendo a elevarlo, raggiunge un livello superiore di consapevolezza spirituale. L’identificazione è ciò che ci avvicina al personaggio e ciò può avvenire solo con l’emozione, non è un processo razionale, l’emozione può farci ridere o piangere. Affinché la catarsi possa aver luogo, questa identificazione deve essere intrisa di due sentimenti. La catarsi avviene se lo spettatore si identifica provando la compassione e il terrore. La compassione (cum patio dal latino, io soffro con) è l’atteggiamento grazie al quale lo spettatore partecipa attivamente ed emotivamente alla scena, dimenticando quasi di stare a teatro. Nella tragedia la sofferenza è spesso legata ad azioni deplorevoli, fanno soffrire perché urtano la propria morale, allora ciò che può far sì che ci si immedesimi nell’altro rimanendo sé stessi è il terrore. Se vedere un’azione tragica rende capace lo spettatore di partecipare, ma allo stesso tempo lo spaventa, egli con lo spavento riesce a rimanere un passo indietro ed evita che si identifichi completamente con quel personaggio o quella situazione; si partecipa, ma non si deve far uccidere sé stesso con l’altro. Questo è ciò che è stato rimproverato a Corneille, il fatto di aver esaltato degli eroi che praticano la vendetta e aver fatto sì che pubblico si identificasse troppo con questi personaggi: non c’era abbastanza terrore, nonostante la parte della pièce fosse tragica. Se il pubblico avesse visto l’azione tragica come qualcosa di estremo, i ragazzi usciti dallo spettacolo l’avrebbero visto come qualcosa di estremo ed esemplare. Quindi Racine sceglie in virtù di questa fedeltà con i principi di Aristotele, il personaggio da lui scelto sembra che unisca bene i due sentimenti. In Corneille è tutto una scelta, qui la scelta non c’è; già dalle prime righe capiamo che i personaggi di Phèdre hanno un destino già scritto. Racine, nel ‘600, sceglie una storia di questo tipo nel momento in cui il fato svolge un ruolo importante; riprende una storia del genere perché in essa vede un elemento di attualità. La questione della scelta e della volontà è tutta morale. Racine sceglie un soggetto tragico greco in cui il volere degli dei svolge un ruolo fondamentale perché lui è il primo a credere nella predestinazione; Racine appartiene ad una corrente riformista-cattolica che si è sviluppata in Francia nel ‘600. A partire dalla riforma protestante oltre alle varie sensibilità, sulla spinta della controriforma all’interno dello stesso ambiente cattolico si formano dei raggruppamenti porti a riformare il cattolicesimo dall’interno, quindi credenti che sono convinti che occorra rinnovare la fede pur rimanendo nell’ambito del cattolicesimo. Tra questi ci sono i giansenisti, seguaci di Giansenio, che nel solco di Sant’Agostino perseguono questa idea delle predestinazione secondo cui la grazia o la dannazione sono già stabiliti da Dio nel momento in cui veniamo al mondo, ma noi non lo sappiamo quindi dobbiamo vivere comunque da buoni cristiani. Racine in questo soggetto antico vede un modo per reinterpretare il tema del fato nell’antichità alla luce di questa nuova sensibilità; ad un certo punto i giansenisti sono considerati eretici. Racine vuole analizzare il modo in cui un individuo pur avvertendo su di sé il peso di un destino già scritto tenta di lottare contro qualcosa più grande di sé e quindi tutta la sua tragedia è più psicologica rispetto a quella di Corneille in cui prevale l’azione; qui c’è molto interiore che si traduce in azioni. Thésée sposa Phèdre in seconde nozze, dal primo matrimonio con Antiope nasce Hippolyte. Phèdre è la sorella di Arianna che venne abbandonata su un’isola, ha già subito un amore infelice ma non è nulla a ciò che è destinato a tutte le donne della famiglia della protagonista. Phèdre e Arianna sono figlie di Minos e Pasiphaé, regnanti di Creta, a sua volta Pasifae è figlia di Hélios e Persé. Ciò che è importante è che su Phèdre ricade una maledizione scagliata da Venere che ha origine dal comportamento del padre, non proprio sbagliato: Helios nota dei comportamenti inconsueti in Venere, cioè osserva che la donna non è particolarmente fedele a suo marito Efesto, che lo tradisce col dio Ares; lo riporta al dio e condanna il comportamento della moglie, la quale si rivolta contro Helios maledicendo in amore tutte le donne della famiglia. Pasifae, che significa luna/luce riflessa, esprime e simboleggia la luce riflessa ma viene allo stesso tempo risucchiata dall’oscurità. Minosse riceve da Poseidone un toro bianco che deve essere immolato; quest’ultimo è talmente bello che Minosse non vuole sacrificarlo. Il dio non è contento di tale scelta poiché significa che un tributo divino è stato rifiutato e fa sì che questa ammirazione nei confronti del toro si trasformi in Pasifae in passione, la quale desidera accoppiarsi con lui. Per agevolare questa unione si fa aiutare da Dedalo, che si era rifugiato a Creta per sfuggire da una condanna, il quale costruisce per la donna una struttura a forma di vacca, nella quale lei possa introdursi, fingersi una mucca e potersi unire col toro, unione dal quale nascerà il Minotauro. Questo, quindi, da un lato è il fratellastro di Phèdre e dall’altro il prodotto di una passione violenta. Il Minotauro, creatura mostruosa, frutto di questa unione spinta da un dio, viene rinchiuso all’interno di un labirinto. Teseo, giovane ateniese, giunge a Creta con i 14 ragazzi che avrebbero costituito l’annuo tributo da offrire alla creatura per placare la sua ira; il suo l’intento però è di sconfiggerlo. Conosce Arianna, grazie alla quale riesce a entrare nel labirinto tramite lo stratagemma del gomitolo, uccide il toro e porta con sé la principessa, la quale è innamorata di lui. Una volta arrivato sull’isola di Nasso, però, l’abbandona per ritornare ad Atene. Arianna, sofferente, verrà confortata dal dio Dioniso la quale la trasformerà in una costellazione in seguito alla sua morte. accanisce contro di lui. Lei incita e fa pressione affinché il ragazzo si allontani e quindi lo allontana dal padre; lei ritorna nei ranghi di una tranquilla vita coniugale, fa riferimento ai figli, i frutti del matrimonio, sono i figli che Phèdre ha con Teseo. 4. 301-316: gli sforzi che fa sono inutili. Tutto questo lato sanguigno, la ferita che sanguina, le vene, connota ancora di più questo amore passionale vicino al senso etimologico del termine passione, “patio”, soffrire, la sofferenza. C’è un ossimoro, nascondere il giorno, la luce, le ragioni di una fiamma così nera quindi questo amore cupo che porta orrore, sofferenza e morte. Nell’ultima parte si giudica per questi sentimenti, merita la morte. L’amore tra Aricie e Hippolyte si può definire speculare a quello tra Phèdre e il figliastro, solo che la donna non è corrisposta al contrario di Aricie, ma si tratta comunque di un amore impossibile. All’inizio della pièce, Teseo non è ancora presente, l’atto II inizia proprio con Aricie che parla con la sua confidente Ismène ed esprime il suo amore; gli impedimenti sono due: il primo è essere figlio di Teseo, il secondo è l’immagine di Hippolyte che si proietta sulle altre donne. Se è vero che Racine ce lo mostra innamorato nella prospettiva raciniana, Hippolyte reprime le sue passioni, finché non arriva una voce che Teseo è morto. Aricie ha l’immagine di Hippolyte così come ci è stata tramandata da Euripide e Seneca, un uomo disinteressato e insensibile alle donne. Ismène, da brava confidente, sospetta che Hippolyte abbia un debole per Aricie che non se è accorta, proprio perché tratta in inganno dall’immagine sociale diffusa di lui. Vede come lui guarda la donna, è confuso, vede uno sguardo che non riusciva a staccarsi da lei e che esprimeva l’amore provato. Aricie confessa che dopo averlo visto inizia ad amarlo. Gli occhi sono un veicolo fondamentale per il colpo di fulmine e anche lei è stata attratta dal giovane non solo per la bellezza ma anche per la grazia, carattere che esprime la morale e le sue qualità interiori. Ancora una volta, rispetto all’immagine pubblica che si ha di lui, si aggiunge un tassello: è un uomo senza ego, che non si compiace della propria auto esaltazione. Però è cosciente delle difficoltà, dubita di essere ricambiata, Hippolyte è così integerrimo che non potrebbe farlo sviare. Nella scena successiva invece Hippolyte annuncia la morte del padre e vorrebbe sospendere la pena su di lei. LEZIONE 22/05 Se volessimo indicare due elementi per descrivere la pièce sono l’ossimoro, legato a un contrasto che vive Phèdre tra il voler vivere una passione che considera mostruosa e degna di essere condannata, e la spinta, facendo sì che si crei un crescente che simboleggia l’andamento della tragedia. Questi due aspetti si possono leggere anche in una chiave di lettura più microscopica. La seconda confessione mostra/mette a confronto la matrigna innamorata e il figliastro vittima di questo sentimento feroce; è interessante notare come Phèdre vede in Hippolyte l’immagine che tutti vedono nel giovane, così come era stato tramandato dalla tradizione. Hippolyte di Phèdre invece ha l’immagine di una matrigna spietata che detesta il ragazzo e cerca di rendergli la vita impossibile. I due personaggi partono da queste immagini; tali presupposti fanno sì che tra di loro la comunicazione inizi e si rivelino poco alla volta fino a esplodere. L’incontro tra i due avviene in un contesto in cui è stata annunciata la morte di Teseo. Questo dovrebbe portare tutti allo sgomento; per Phèdre è un momento di liberazione perché con la morte del padre, decade questo rapporto col figlio. All’inizio del dialogo, Phèdre si rivolge a Hippolyte, tutto ciò che si legge può avere un duplice significato: apparente e veritiero. La donna ha appreso che il ragazzo vuole partire alla ricerca del padre. Le lacrime potrebbero apparire come partecipazione emotiva di una matrigna che assiste alla sua partenza e soffre per l’allontanamento del marito, ma in realtà indicano l’allontanarsi del progetto di desiderio. C’è anche una ragione politica: dal momento che Hippolyte è il principe, l’allontanamento del giovane crea problemi di successione al trono e per evitare disordini vorrebbe che restasse. Inizia a rivelare la vera ragione di queste lacrime. Al vv.627 si vocifera che Teseo sia andato nell’Ade e da lì non sia più tornato; in realtà quando Teseo torna nell’atto III parla con Ippolito e dice come è andata. Questi episodi che Racine riporta nella vita di Teseo sono ripresi dalle “Vite Parallele” di Plutarco (questo lo dice nella Préface). In questo verso si parla della morte di Teseo e Phèdre inizialmente stabilisce una continuità e sembra giustificare il fatto che ami il figliastro. Hippolyte ancora non capisce e considera il suo comportamento come geloso per il figlio di primo letto; si mostra comprensivo e affabile, cerca di rassicurarla, conferma di non avere risentimento nei suoi confronti. Al che Phèdre, avendo davanti un giovane impenetrabile, sta per esplodere e opera una sovrapposizione: vorrebbe aderire alla funzione della madre/sposa abbandonata che aspetta il marito, guardando Hippolyte vede Teseo. Hippolyte continua a non capire. Phèdre insiste su questa sovrapposizione tra padre e figlio prima di esplodere totalmente al vv.631 dice che la vede come una dimostrazione di amore nei confronti di Teseo, talmente che lo ama lo rivede in lui anche se non c’è più; al vv.634 lei dice che Teseo continua a vivere in lui, quindi dato che muore di passione per Teseo, muore di passione per Ippolito. Racconta di come sia stata affascinata da Teseo: (v. 639) lui viene descritto come un uomo di fama, seduttore, Teseo ha tutte queste caratteristiche come gli dei, e quindi le rivede anche in Ippolito; opera pian piano una sovrapposizione tra le due persone, ma sappiamo che aveva una personalità diversa dal figlio. Poi racconta quando Teseo arriva a Creta attraversando il mare ed è un individuo talmente valido da attrarre i favori delle figlie di Minosse; si ricorda della sorella Arianna e di sé stessa. Lei si chiede perché Teseo non ha portato con sé il figlio a Creta, non lo fa perché era troppo giovane. Dice questo perché continuando la sovrapposizione dice che al posto di Teseo avrebbe sconfitto il Minotauro e al vv.655 si sostituisce anche ad Arianna; Hippolyte sarebbe stato, come Teseo, capace di penetrare nel labirinto per uccidere il mostro e sarebbe stata Phèdre a passargli il filo. Hippolyte comincia a sospettare e Phèdre si rende conto di essersi esposta troppo e vuole rettificare quello che ha detto. Hippolyte anche fa un passo indietro e si scusa (vv.665-666); Phèdre si sta dichiarando nel momento in cui il marito è venuto meno; risponde garbatamente usando il vous e Ippolito ritorna nei ranghi. Lei fa finta di nulla, lui si vergogna e prova ad andarsene; Phèdre nega, ma si rende conto che ha perso l’occasione per essere più esplicita. C’è poi un passaggio dal vous al tu, questo indica una grossa vicinanza. Phèdre vorrebbe dire le cose, davanti trova un giovane che non capisce e spinge, nel momento in cui lui inizia a capire e si tira indietro, lo stesso fa il figlio e alla fine esplode. Abbiamo un fiume in piena, finalmente si dichiara senza mezzi termini e allusioni. Ai suoi occhi è un sentimento naturale, forte e indomabile, si sente innocente e vittima, ma allo stesso tempo è il più irragionevole degli amori, insensato e folle. Lei avrebbe voluto ostacolare questo sentimento, si considera una vile, di essere vilmente compiacente di non avere davvero il coraggio per ostacolarlo. Continua a odiarsi, chiama gli dei a testimoniare, gli stessi che hanno acceso questa passione viscerale e incontrollabile, sono spietati e ingiusti, si divertono a manipolare gli esseri umani fragili che non sanno difendersi. Abbiamo una convergenza del vocabolario, del disegno divino, il lessico relativo alla passione amorosa che può essere mente-corpo-spirito ed emerge anche il concetto di mostruosità. Phèdre ha un mostro come fratellastro, ma vive una mostruosità che c’è nella sua famiglia e circola nel suo sangue quindi questo innamoramento è come se fosse una conferma su ciò che già sentiva. Spiega il suo comportamento odioso e disumano per resistergli al meglio, ha cercato volontariamente il suo odio per diminuire il suo amore. Ma tutte le precauzioni prese per evitare il destino si sono rivelate inutili: lui la odiava di più ma lei non lo amava di meno. Se la confessione di Œnone è stata strappata, questa, che comunque viene fuori poco alla volta, è consapevole: Phèdre è pronta a far uscire fuori i suoi sentimenti, anche se Hippolyte non parlerà mantenendo l’immagine di uomo distaccato. Implora la punizione da parte di Hippolyte, chiede di essere uccisa in quanto mostro che merita di essere eliminato così come il Minotauro ha subito la sua sorte. Sfila la spada a Teseo dicendo di ucciderla; la spada sarà poi usata da Œnone per accusare Ippolito quando torna Teseo. Per incitarlo ad ucciderla ritorna sulla sovrapposizione iniziale, se è il degno figlio di Teseo, eroe dalle mille avventure deve vendicarsi uccidendola. Si considera l’incarnazione di una mostruosità che va perpetrandosi di generazione in generazione e che ha avuto origine dai suoi avi. Hippolyte turbato si allontana. La stessa destabilizzazione la troviamo in Teseo. Dopo tutto questo, Hippolyte vuole allontanarsi quanto più possibile. Nell’atto III scena III, viene annunciato il ritorno del marito col figlio accanto che si ricongiunge col padre. Phèdre ha la coscienza sporca, si sente doppiamente vigliacca per aver sfruttato l’assenza del marito per dichiararsi; lei continua a vedersi un mostro si sente braccata come un animale che voleva attaccare ma che non ha avuto modo. Accecata dalla questo misto di sentimenti ai quali si aggiunge il terrore di essere condannata, vede in Hippolyte un mostro. Racine attribuisce a Œnone una soluzione così drastica in quanto personaggio di basso rango: suggerisce a Phèdre di accusarlo e si offre di farlo, di condannare un innocente. Nella scena quinta, Hippolyte accoglie il padre come se nulla fosse accaduto e Teseo racconta del suo viaggio. Qualcuno insinua la voce che qualcuno lo abbia tradito. Durante la scena nel terzo atto viene accusato. Il ragazzo non accuserebbe mai la donna ne gli direbbe di essersi innamorato di Aricie. L’atto quarto inizia con l’accusa e l’ira di Teseo. Stilisticamente parlando c’è un crescente. Termina con la realizzazione del progetto divino per la vita di questa donna che ha provato in tutti i modi a cambiare la volontà di venere/la maledizione senza successo. Quando parliamo di classicismo con i valori che rispecchiano quelli francesi del tempo (equilibrio, superiorità) ciò non significa che le opere che rispondono a questo valori facciano propaganda. Una storia come quella di Phèdre mostra quando tali principi siano difficili da applicare nella realtà, sono i personaggi che si collocano a un livello più alto perché appartenenti a ranghi elevati, perché i sentimenti sono più estremi. La carica che vediamo sul teatro ci consente di partecipare agli eventi ci smuove qualcosa dentro, possiamo non aver vissuto le stesse vicende ma confrontano le nostre difficoltà a trovare equilibrio lì dove la vita ci porta in una direzione contraria. È una dimensione più complessa del Cid, lì c’è la volontà individuale che incontra quella divina, qui le leggi dell’uomo urtano contro quelle del mondo. Questo conflitto è presente per l’influenza degli dei, per il pensiero giansenista soprattutto. MORALISTI CLASSICI La prima cosa da chiarire è che i moralisti classici non hanno niente a che vedere col Classicismo. Ci sono dei moralisti che rientrano in quel clima culturale, ma il moralismo classico è un modo di osservare il mondo e un modo di scrivere. C’è una componente filosofica e stilistica. Il moralismo classico inizia prima e finisce dopo lo svilupparsi di questa corrente culturale che corrisponde col ‘600. Il moralista classico rientra all’interno di un approccio alla letteratura che prevede l’osservazione dei comportamenti e costumi della società. Quest’osservazione ha una prospettiva generalizzante, tende a fornire degli strumenti per comprendere il mondo contemporaneo dell’autore in questione. Bene e male entrano in gioco per stimolare la riflessione a partire dalla natura umana. Questo concetto di moralista viene definito classico non perché corrisponde al Classicismo ma classico inteso come anti-moderno, come critico rispetto alla società contemporanea; fa un passo indietro rispetto a usi e costumi del proprio tempo per avere quella giusta distanza critica per descrivere regole, principi e valori della società. È una sensibilità che si sviluppa nei secoli e che riunisce tra loro autori molto diversi. Li troviamo dalla fine del ‘500 fino alla fine del’700. Montaigne è considerato il primo moralista classico, ha inaugurato questo filone protrattosi per lungo tempo; l’ultimo si colloca per convenzione alla fine del Settecento ed è Chamfort. Accomuna quindi autori diversi tra loro per quanto riguarda l’approccio alla scrittura (erano infatti autori di scritti descrittivi e analisi per comprendere valori universali, c’è una tendenza dal generale al particolare). Possiamo trovare però delle tematiche ricorrenti:  Il viaggio: la vita è considerata un viaggio, l’uomo che percorre la vita è considerato un viator, ossia colui o che percorre un cammino;  Il teathrum mundi: il mondo è come un teatro all’interno del quale ciascuno di noi indossa più maschere; funziona secondo due linee direttrici: una orizzontale, quella delle relazioni umani che prevedono una distinzione tra persona/personaggio e il rapporto tra finzione/realtà, e una verticale, secondo la quale il mondo è un grande teatro dove le persone sono marionette mosse da forze superiori fino ad arrivare a Dio;  La guerra: la vita è come un gioco di forze dove i più forti non esitano ad accanirsi sui deboli, ma all’interno del quale è opportuno esercitare un’arte del combattimento, una filosofia del movimento, di strategia delle relazioni. Per quanto riguarda lo stile, non esiste un genere che viene adottato da tutti (chi pratica la poesia, chi il trattato, romanzo, prosa...). I generi sono molti ma tutti hanno in comune un aspetto: da Montaigne a Chamfort tutti trattano la forma breve. Questo concetto non è così evidente, non sono scritti quantitativamente ridotti, non è questione di lunghezza del testo; il concetto di forma breve risiede nel rapporto tra forma e contenuto. Un testo che segue la forma breve dice sempre molto più di quanto affermi apparentemente, attraverso la lettura sprigionano molteplici riflessioni, il Ci sono delle figure retoriche che esprimono/che vengono utilizzate con molta insistenza:  L’antitesi, figura retorica che afferisce ai campi della sintassi riguardando la disposizione delle parole, indica un’opposizione tra idee rimarcata attraverso binomi opposti figura sintattica;  Il paradosso, figura di significato, insiste sull’apparente illogicità di un concetto. Massima 42: gioca sull’opposizione concettuale delle parole “forza” e “ragione”. La forza può essere intesa sia come prestanza fisica, resistenza e potenza materiale, sia come volontà; d’altro lato abbiamo la ragione che rimanda alla sfera mentale (la ragione che è un qualcosa di immateriale, di celebrale, non avrebbe bisogno dell’opposizione di qualcosa di incisivo). Quando la mente porta avanti delle proprie idee (giuste o sbagliate che siano), non abbiamo abbastanza forza fisica e interiore per seguire ciò che la nostra ragione a torto o a ragione vuole perseguire. Le massime giocano sui diversi livelli di analisi. La scrittura breve, riducendo al minimo il numero di parole, dà loro un significato maggiore, sono cariche di significato, tutto è simbolico, evocativo. Fa dei rimandi tra loro con parole che si somigliano foneticamente o che hanno significati diversi; può agire sulla morfologia e sulla semantica sfruttando i vari significati delle parole per portarci a sviluppare la riflessione; è proprio nella duplicità delle accezioni che si esprime pienamente il pensiero di LR. Altro aspetto importante è la sintassi, la disposizione delle parole; LR ha la capacità di isolare le parole collocandole in diversi punti della massima (spesso iniziale, centrale e finale) e intorno a queste messe in risalto dalla disposizione si gioca sulle opposizioni concettuali, nel caso precedente forza e ragione. LA PRINCESSE DE CLÈVES Esiste un filo conduttore che unisce tutte le massime: il pessimismo, che ha molte affinità con Racine e col giansenismo. Le massime e La Princesse de Clèves vengono pubblicati nello stesso anno e Phedre un anno prima, quindi c’è una concentrazione di vette altissime della letteratura francese che corrispondono all’apogeo della monarchia assoluta. La letteratura dunque rivela un momento di massimo splendore, che scavando all’interno dell’animo umano mostra la difficoltà di vivere a contatto con luci e ombre; luci molto più appariscenti per definizione ed è anche l’immagine pubblica che si vorrebbe dare della società francese, soprattutto filtrata dal potere. Sappiamo che hanno un rovescio dato da una visione di mutevolezza e instabilità; nonostante pressioni politiche e i tentativi, c’è comunque un abbandono, un dubbio sulla reale possibilità per l’uomo di cambiare la propria vita, idea che troviamo sia in Racine sia in La Rochefoucauld. Discorso diverso per “La Princesse de Clèves”, storia che ruota attorno a questa protagonista, madame de Chartres, che con tante difficoltà riesce a esprimere una propria coerenza interiore la quale però, per essere realizzata, deve rispondere necessariamente a un allontanamento dalla società. È interessante vedere come questa giovane sposa un uomo che stima solamente e conosce l’amore solo dopo le nozze, convive con l’inquietudine e la difficoltà nel provare un sentimento immorale; siccome è stata cresciuta secondo un’educazione per la quale la virtù è un caposaldo fondamentale, per poter incarnare tale concetto decide di praticare la “retraite”, ossia il ritiro, uno dei topos fondamentali per la letteratura del 1600. Nella letteratura di questi anni è frequente il caso di protagonisti che a un certo punto decidono di abbandonare tutto e andarsene in luoghi isolati, appartati; è il caso de “Le misanthrope” di Molière, non bisogna quindi necessariamente rimanere nell’ambito del romanzo. Perché si è introdotto subito il finale: non è un caso che “La Princesse de Clèves”, scritto da Madame de la Fayette, che viene formata e frequenta i salotti preziosi e la società – conosce il tipo di letteratura che è espressione di questa estetica – a un certo punto decide di allontanarsi da questo ambiente non rinnegando certi valori ma volendo superare alcuni paradossi, limiti, anche alcune esagerazioni preziose, per realizzare qualcos’altro. Questo tentativo attraverso una storia che si conclude con una donna che abbandona la società, in un ambiente in cui il vivere in società è essenziale, dà vita a qualcosa di nuovo non solo da un punto di vista contenutistico per la storia e il messaggio lanciato dall’eroina ma anche nel modo in cui la vicenda viene raccontata. Madame de la Fayette dunque fa qualcosa di innovativo: scrive un’opera, che per i parametri dell’epoca non poteva essere considerata romanzo come invece è per noi, dando vita a una nuova forma di scrittura in prosa che è il cosiddetto roman d’analyse (?). Mme de la Fayette porta alla perfezione il genere della ‘novella storica’ e nello stesso tempo ne trasgredisce il codice per la novità di soluzioni a cui approda l’analisi sottile delle passioni. I contemporanei dell'autrice assistono e criticano queste trasformazioni; perché si mostrarono sensibili alla rottura di una tradizione e di un’arte che era stata dominata da scrittori con grande reputazione. Due sono stati gli aspetti essenziali di questa trasformazione: nuovi rapporti con la realtà e il rinnovamento delle forme romanzesche. Il discorso narrativo si regge su un perfetto equilibrio fra il quadro storico, il mondo fastoso della corte e la finzione romanzesca, rappresentata dal triangolo amoroso dei protagonisti. Il rapporto che lega la principessa di Clèves, suo marito il principe e il duca di Nemours rappresenta un caso particolare, che illustra anche se in modo atipico, un comportamento generale. Il contrappunto e l’alternanza: la finzione è garantita dalla realtà storicamente attestata e insieme si amalgamano. Ma l'innovazione in questo recit, è che il quadro storico si riempie di funzioni propriamente romanzesche. L'autrice ricorre alla società di corte per costruire un contrappunto. La corte non è soltanto una cornice splendida e fastosa ma è anche inferno di intrighi e corruzioni, gelosie e tradimenti. La corte è soprattutto luogo di maschere, dove quello che si vede non è mai la realtà. Il testo sviluppa una progressione di sentimenti nascosti; la passione della sua eroina che cova all’interno di una coscienza chiusa. La Narratrice modifica spesso la prospettiva, facendo passare il lettore dall'interno all'esterno, da cuore al comportamento. Modifica così il campo visuale e i sentimenti nei confronti della realtà: l'unica cosa che ci sembra reale sono i segreti, l’esistenza invisibile delle passioni con i loro movimenti che ci sembrano gli unici veri e degni di attenzione. L'autrice alterna la situazione in cui la principessa sembra essere in società e sotto lo sguardo degli altri, e i momenti di solitudine e di riflessione dove può guardarsi e riconoscersi. Questo passaggio dall’interno all’esterno, rappresenta il passaggio dal fittizio al vero, dall’illusione al risveglio, dai comportamenti cechi alla chiaroveggenza di un essere che comprende di essere invaso dalle passioni. Quando la principessa è in società, i gesti si compiono a sua insaputa, ma quando ritorna alla solitudine apre gli occhi e si vede per quella che è. Domina quindi lo stupore, davanti a ciò che fa senza sapere, davanti a ciò che accade senza che lei se ne accorga. Quindi dopo averci fatto vivere un istante della vita esterna dell’eroina, ci riporta bruscamente all'interno dei suoi pensieri, così facendo accompagniamo il suo percorso di riconoscimento. Il romanzo si costruisce su un’amara verità: la passione è una potenza ingannevole e da temere. Perché quando ci si rende conto di tutto quello che avremmo o non avremmo dovuto fare e dire, è sempre troppo tardi. Inoltre, la conoscenza che abbiamo di noi stessi, è sempre incerta e confusa. Non possiamo penetrare al fondo del nostro cuore, se non attraverso lo sguardo altrui. Non ci conosciamo chiaramente, solo Dio conosce l’uomo perfettamente, in quanto è in lui. L'unica cosa che la principessa riesce a conoscere, è la presenza in lei di una potenza sorda e pericolosa, che però sfugge alla sua coscienza e che una volta riconosciuta, le impedisce di vivere. Mme de Cleves, preferisce il ‘repos’ alla ‘bonheur’, la tranquillità interiore e l'assenza di inquietudine alla felicità burrascosa dei sentimenti. Il repos, che poi segna la conclusione della storia, è il rifiuto dei tumulti della vita mondana e dei tormenti della passione, è insieme assenza di turbamenti interiori e di costrizioni sociali, ricerca di un ordine e pace del cuore. L'amore è un turbamento dei sensi e dell'anima che conduce il malcapitato a distruggersi, a ritirarsi dalla vita. IL PREZIOSISMO La préciosité è un fenomeno culturale e sociale che nasce all’inizio del ‘600, per la precisione negli anni 30; se vogliamo corrisponde coevo alla nascita dell’Academie Française, che poi si svilupperà per tutto il secolo avendo fasi diverse, con però un periodo di maggiore attività ed espansione nella prima metà mentre dalla seconda assisteremo a un lento declino. All’inizio del 600 (1608) una donna aristocratica, la marquise de Rambouillet, decide di reagire a quello che lei considerava una degenerazione della cultura, dei comportamenti, dei costumi; non è soddisfatta di ciò che ha intorno, pensa che il mondo stia andando alla rovina e lamenta una certa decadenza e grettezza dei modi (Storicamente ci troviamo durante il regno di Enrico IV che morirà nel 1610). Organizza a casa propria degli incontri culturali; abitava in un hotel particulier, ossia una dimora privata, ampia e sontuosa. Questi incontri periodici prenderanno il nome di salons, i salotti; il riferimento ha origine negli spazi all’interno dei quali gli invitati partecipavano, successivamente l’espressione subisce una trasformazione semantica e si associa non solo al luogo d’incontro ma anche a ciò che accadeva lì, alle modalità di scambio di dialoghi culturali, sociali e politici che avvenivano nei saloni. Quindi la marchesa apre le porte della sua dimora a Parigi per circa 50 anni si incontrano scrittori e persone dell’alta società. Il preziosismo è un fenomeno aristocratico/di élite, dunque nasce per distinguersi/distaccarsi dal resto della società, considerata incolta e gretta, e ne fa la sua ragion d’essere. C’è da dire però che tale corrente come fenomeno culturale nasce nel 600, lo spirito prezioso però appartiene a tutte le epoche e civiltà: per esempio in Francia, lo spirito cortese, si ispira a questo intento di distinzione rispetto agli altri che per avvenire deve incarnare/perseguire dei valori morali e norme di comportamento. Nel momento in cui si forma tra il 500-600 non appartiene unicamente alla Francia, ancora una volta è un fenomeno europeo: in Inghilterra il suo corrispondente è l’Eufismo, che prende il nome da un romanzo intitolato “Euphues” di John Lyry, che caratterizza lo spirito prezioso inglese; in Spagna si ha il Gongorismo (Luis de Gongora) e in Italia il Marinismo (Gian Battista Marino). Sul preziosismo francese, i modelli italiani e spagnoli ancora una volta sono prevalenti, in continuità con quanto accaduto nei secoli precedenti. Cronologicamente parlando, fino al 1630 il preziosismo era caratterizzato dall’associazione e incontri tra persone di spicco, tra questi per esempio il cardinale Richelieu; era un fenomeno estremamente selettivo ed elitario. Tra il 1630 e 1645 si verifica una certa apertura, pur con le restrizioni sociali e culturali, oltre alle vette della società dell’epoca entrano anche i grandi signori che partecipano alle riunioni e oltre la marchesa incontriamo anche Voiture come figura di riferimento. Dal ’45 in poi da una parte entrano nella cerchia delle personalità che faranno la storia del preziosismo (Madame de Lafayette e Madame de Sévigne). Nel momento in cui queste figure di alto profilo alimentano la cultura contemporaneamente questa inizia a declinare progressivamente, forse dovuto all’instabilità politica (siamo nel periodo della Fronda); “La Princesse de Clèves” probabilmente rappresenta la chiave di volta alla chiusura di un periodo e l’inizio di un altro. Nei salons tutto ciò che si faceva convergeva nel divertissement, ossia una distrazione, un’attività che consente di distrarsi dalla realtà dedicandosi ad alcune attività come il canto, la musica e giochi di società (un esempio è la Carte du Tendre, una mappa allegorica dei luoghi e sentieri possibili da percorrere in amore); questi ultimi in particolare erano molto quotati essendo delle simulazioni che a partire da una situazione data determinano delle relazioni tra i diversi partecipanti, era proprio una sorta di finzione di come vivere in società in maniera ludica ma che consente di mettere in pratica e interagire simulando la vita con gli altri. Anche la conversazione era presente, forse era la più importante attività di intrattenimento, era un’arte, un modo di essere al mondo, bisognava padroneggiare un ampio ventaglio di argomenti e proporne una vasta serie, essere dunque in gradi di rispondere e rilanciare la conversazione. Regola fondamentale è la bianseanse, valore alla base presente anche nell’arte della conversazione (ci sono quindi dei valori comuni che si diramano in diverse forme di realizzazione). Si parla soprattutto di letteratura: in questi incontri si era soliti scrivere testi e si leggevano in pubblico ai convitati; si discuteva di grammatica e retorica, poiché la lingua da utilizzare svolgeva un ruolo cruciale. Essere prezioso vuol dire incarnare questo espirit précieux sotto vari caratteri (modo di essere, vestire, comportarsi e parlare). Si comincia ad autodefinirsi/autolegittimarsi e a formulare dei principi, dei valori che in maniera fluida e suscettibili di adattamenti accumunano le diverse cerchie presenti che proliferano. Lo spirito definisce delle donne: è forse la prima volta che le donne entrano a far parte della storia della letteratura del periodo, alcune donne animano gli incontri, svolgono un ruolo fondamentale nella gestione e nell’apportare contributi. Le donne preziose si sottraggono al valore comune, ordinario degli altri, sono persone che rispetto al valore medio se ne danno uno superiore. In un periodo in cui la borghesia diventa la classe sociale che comincia a diffondersi e ad affermarsi questo preziosismo è una reazione aristocratica a voler ribadire la propria legittimità ed egemonia, non soltanto economica ma una superiorità delle qualità interiori, delle conoscenze e un certo modo di vestire. réalité et d’autre part la relation entre les différents personnages de ce théâtre : nous sommes des marionnettes dirigées par quelqu’un de supérieur.  La vie, pour ces poètes, est aussi un voyage où tous sont considérés comme des voyageurs.  De plus, le monde est considéré comme un lieu où il y a la guerre, pour laquelle le plus fragile doit se défendre contre les hommes les plus tyrans. En ce qui concerne le style, il n’y a pas un seul genre qui est adopté par tous. Les genres sont nombreux mais ils ont tous en commun un aspect : de Montaigne à Chamfort tous traitent la forme brève. Ce concept n’est pas si évident, ils ne sont pas écrits quantitativement réduits, il n’est pas question de longueur du texte ; le concept de forme courte réside dans le rapport entre forme et contenu. Ils peuvent écrire des phrases brefs comme les maximes, les aphorismes ou les apophtegmes (par exemple Rochefoucauld) ou des contes (fable, par exemple Fontaine). Ils peuvent, par exemple pour le conte, utiliser des animaux pour indiquer tous les défauts et qualités des êtres humaines : le lion indique la force, l’agneau la victime et le renard la ruse. La Fontaine a écrit le conte “L’homme et son image” : c’est la récite d’un narcissiste qui a une idée de lui-même complètement différente par la réalité et qui évite toujours les miroirs. Le sort tente de lui donner une leçon en mettant sur son chemin des miroirs ; cependant, le personnage s’obstine dans son illusion et préfère fuir le monde plutôt que d’admettre son imperfection. Quand il trouve une source d’eau pure se reflète dans le canal et il n’a plus pu éviter son image. Le beau canal n’édulcore pas l’image, mais en rend la vérité encore plus frappante. Donc, la morale est que les nôtres défauts sont irrémédiablement difficiles d’accepter et que l’homme, en général, veut toujours éviter et ne pas accepter la réalité ; cette fable est donc une leçon sur la résistance de l’homme à toute entreprise de correction. Le conte est dédié à Rochefoucauld. Les moralistes classiques utilisent l’institutio oratoria de Quintiliano. Dans la forme brève, nous trouvons deux éléments fondamentaux : elocutio et dispositio. L’elocutio est la capacité de contenir en quelques mots beaucoup d’idées ; la dispositio est l’élément nécessaire à l’organisation des textes. Les œuvres peuvent se présenter comme des textes fragmentés où les phrases et les pensées ont une relation flexible. Cela signifie qu’il n’y a pas toujours de continuité : les textes sont autonomes entre eux. La forme brève tire ses origines de la littérature classique, de la culture aulique et populaire. Elle dérive donc ne seulement de proverbes et de mythes, mais aussi de domaines du savoir ; on peut distinguer :  Les maximes : phrases qui contiennent une vérité morale, des règles pour bien vivre en société. Elles proviennent du domaine juridique.  L’aphorisme : dérive du domaine médico-scientifique, elle résume en brèves phrases des concepts généraux à partir des observations précédentes. On rappelle en particulier les aphorismes d’Hippocrate.  L’apophtegme : toujours lié au domaine juridique, c’est une phrase mémorable et exemplaire. La Rochefoucauld nait en tant qu’homme militaire, mais plus tard, en commençant à fréquenter les salons, il s’approche de la littérature. La Rochefoucauld est l’artiste le plus représentative des moralistes classiques. Il se passionne pour la forme courte et publie les « Mémoires », c’est-à-dire une œuvre où l’auteur met en relation sa vie avec les évènements de la société ; ce n’est pas un récit intime. Toutefois, il est connu surtout pour les « Maximes », un recueil de maximes. Il s'agit d’une phrase très courte. Cette phrase nous donne un jugement ou une remarque morale sur la vie et on peut le voir aussi comme un conseil. L’auteur intervient souvent pour modifier la disposition des textes dans son œuvre, en effet nous avons quatre éditions différentes (1662, 1666, 1671, 1675). Maxime 42 : se concentre sur l’opposition des mots « force » et « raison ». On peut considérer le premier mot comme force physique et puissance matérielle et aussi comme capacité et volonté ; la raison renvoie à la sphère mentale. Lorsque l’esprit a ses idées (bonnes ou mauvaises), nous n’avons pas assez de force physique et de volonté pour suivre ce que notre raison veut poursuivre.
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved