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Letteratura Italiana II con prof. Monica Cristina Storini, Appunti di Letteratura Italiana

Letteratura italiana II A.A. 2018/19 Programma "Usi e riusi della scrittura femminile dalla fine dell’Ottocento al terzo Millennio" Attraverso l’individuazione degli stereotipi e delle forme specifiche della tradizione narrativa moderna (dal Seicento all’Ottocento), il corso intende approfondire le tecniche di ripresa e il riutilizzo di figurazioni e tematiche letterarie da parte della scrittura femminile, a partire dall’Unità d’Italia e fino ai primi decenni del Duemila.

Tipologia: Appunti

2019/2020
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Scarica Letteratura Italiana II con prof. Monica Cristina Storini e più Appunti in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! Letteratura italiana II A.A. 2018/19 25 febbraio 2019 (Presentazione del corso) Supereremo cronologicamente l'Unità d’Italia. Andremo a ragionare sui prodotti culturali che vengono da generi diversi, e per farlo dobbiamo aver presente che in un preciso momento del 900 in cui la CRITICA è cambiata, cioè è cambiato lo strumento interpretativo. Il merito di questo cambiamento è delle STORICHE, le prime studiose che hanno posto l’attenzione sul fatto che non esistano alcuni soggetti nella trasmissione del sapere dipende da COME IL SAPERE SI TRASMETTE, perché siamo in una struttura socio-culturale orientata verso un genere piuttosto che verso un altro. Dobbiamo partire perciò dal presupposto che nel 900 la nostra tradizione ha operato una CANCELLAZIONE legata al MODO in cui si trasmette. Di conseguenza si mette in crisi tutto il sistema interpretativo (che è ancora abbastanza solido nonostante non siamo stato minato a partire dagli anni 80-90). La società che ci circonda è restia a un cambiamento ideologico di questo tipo. La nostra cultura ha creato stereotipi molto forti, che riguardano tutte le arti, non solo la letteratura. Riusciamo a percepire in alcuni ambiti il cambiamento operato (vedi percentuale donne/uomini nei vari ambiti lavorativi). La società occidentale è lenta rispetto al cambiamento. Nel nostro ambito si combatte contro gli stereotipi non studiando le donne per aggiungere i loro nomi al lungo elenco di personaggi approvati dal canone (questo significherebbe lasciare il canone e il suo meccanismo così com’è). Si deve invece mettere in luce come, proprio perché abbiamo una concezione di un certo tipo del canone letterario, certe scritture, indipendente dal sesso di chi scrive, non saranno mai nel canone. Non si tratta perciò di aggiungere donne al canone mantenendo lo stesso meccanismo, non dobbiamo neanche studiare come scrivono le donne ma gli STUDI DI GENERE servono a leggere in modo più rispondente, più attento le scritture di uomini e donne (e tutto quello che c'è in mezzo - > i sessi non sono due ma almeno 8). DIFFERENZIAMO PERCIÒ SESSO IDEOLOGICO DA GENERE: SESSO IDEOLOGICO -> si nasce con un determinato sesso, GENERE-> modo in cui una determinata società declina i compiti, i ruoli, le aspettative, le funzioni che hai generi sono affidati. Questo è un prodotto culturale, uno stereotipo basato sull’identità nazionale. Identità è nel nostro caso quell'insieme di saperi, di conoscenze, di culture e conseguenze che derivano dall'appartenenza a una determinata area geografica. Appartenere a una specifica area geografica e culturale determina più culturale. Genere e identità sono significativi nello studio della letteratura. Lingua e letteratura-> per quanto riguarda la letteratura italiana è bene tenere a mente che consideriamo appartenenti a questi testi che non sono scritti in italiano come lo consideriamo noi: cfr. Cortegiano e Arcadia di Sannazano. Vedi anche lingua della scuola poetica siciliana che era toscananeggiata ma è comunque diversa dalla lingua toscana. Attenzione: queste forme di scrittura esclude dal canone non hanno tradizione differente rispetto a quelle che invece sono nel canone, non seguono una loro genealogia e una loro tradizione! Non possiamo studiare avulse dal contesto letterario! La letteratura italiana è terribilmente legata alla tradizione, quindi le scrittrici di qualunque periodo hanno uno sguardo verso ciò che c’era prima. Es: volendo scrivere un romanzo storico, Manzoni è punto di riferimento inevitabile. Vedi anche le mistiche che citano le mistiche precedenti. Si possono però costruire in questo caso delle TRADIZIONI PIÙ SPECIFICHE che riguardano una parte o tutto quello che c'è prima ma lo danno 1 più importanza a uno specifico elemento. Questo viene definito GENEALOGIA: le genealogie spesso possono non avere nulla a che fare con la tradizione classica. Rispetto ai classici vanno a scegliere i punti di riferimento che sentono più vicini, più interessanti, senza dimenticare che c'è un canone generale. CANONE-> strumento per eccellenza della trasmissione in occidente perché, dato che non si può trasmettere tutto, si deve SCEGLIERE ciò che si deve trasmettere. Una volta scelto, questo deve essere VALUTATO e così si costruiscono delle gerarchie con l’idea di trasmettere solo ciò che è più importante, escludendo ciò che viene percepito come minore. Si attua una GERARCHIZZIONE secondo il concetto aristotelico tipico della cultura occidentale: ES. Se la scelta è tra a e b, devo dire che essi sono contrari e che uno è superiore all’altro. Applichiamo questo a natura e cultura, razionalità e corporeità, uomo e donna. La coppia originaria, da cui discendono le altre è MASCHILE E FEMMINILE, dove il primo è superiore e a lui corrisponde il LOGOS e CULTURA (al femminile corrisponde PATHOS e NATURA). La GERARCHIZZIONE dà all’elemento superiore uno inferiore in contrapposizione. Costruendo una cultura, quella occidentale, su questo sistema è normale che tutto ciò che richiama il femminile, la natura e il corpo viene considerato inferiore al maschile, al logos e alla cultura. Secondo questo ragionamento le donne non possono scrivere (logos -> maschile). Le petrarchiste scrivono ma rappresentano un fenomeno legato a un profondo cambiamento sociale. Umanesimo recupera anche questo aspetto dell’antichità, infatti nel mondo romano le donne non erano così subordinate agli uomini, c’erano sì poche scrittrici ma ci arrivano pochissimi nomi. Il recupero della classicità non avrebbe potuto dichiarare l'assenza delle donne. Ci arriva notizia di Saffo tramite il Sublime, arrivato a noi frammentato. I nomi che casualmente si erano depositati nel Sublime, cioè un trattato di retorica arrivato in occidente tramite la cultura alessandrina. È frammentato ma rimane a noi un libro in cui si parla delle scritture che hanno la funzione di esortare al pathos, all’agire, al combattere, e tra queste si cita anche Saffo. È così che determinati nomi, tra cui Sacro, passano nel canone occidentale. Il Rinascimento recupera la tradizione latina, si ripropone un modello comune di “civil conversazione” nello corti e perciò è evidente che la figura femminile non può essere totalmente cancellata. Esempio di questo è il fatto che Castiglione, probabilmente costretto, dedica il III libro del Cortegiano alla donna di palazzo. Da qui però si inizia a parlare di cortigiane come prostitute, poiché le donne “pubbliche" sono considerate tali. Castiglione nel descrivere la donna di palazzo dice prima di tutto che deve essere moglie e madre (nel senso biologico, non si curavano loro dell'educazione dei figli). Critici come De Sanctis e Croce sostengono che le donne non SANNO scrivere perché non hanno “ANIMA MASCHIA” (scrivere è legato alla cultura del genere maschile). Oggi abbiamo donne nel canone, o almeno conosciamo nomi di donne, perché negli anni 70-80 si è andati (spesso sono storiche a farlo) a verificare negli archivi l'assenza di scritti di donne, scritti spesso non appartenenti a genere istituzionali (la scrittura mistica è conservata dagli ordini religiosi). La cancellazione è avvenuta facilmente perché basta che non si trasmetta, che non lo si faccia copiare. La trasmissione avviene quando si riconosce il VALORE di ciò che si sta copiando/stampando. Il canone ha operato innanzitutto non facendo trasmettere i testi che non corrispondevano ai modelli del canone stesso. Usi e riusi del canone femminile Il riuso esiste nella scrittura di donne, perché così si afferma l’identità di chi scrive e l'appartenenza a un determinato sistema. A fine 800 -> l'unità d’Italia (1861) ma non c'è un processo complessivo 2 dunque quali sono le caratteristiche che deve avere il testo per produrre retoricamente corretta una certa forma di discorso (che può essere il racconto, l’esortazione, il lamento funebre ecc..), probabilmente questo trattato era completo, conteneva quelle che si definiscono le 5 parti della retorica tradizionale: 1) inventio 2) dispositio 3) elocutio 4) memoria 5) actio -la retorica nasce come linguaggio dell’oratoria legale, quindi era un insegnamento su come dovevano essere confezionate le arringhe che avevano come fine quello di convincere l’uditorio, modificando il giudizio di esso. L’ inventio (significa il ritrovamento) ha come fine quello di trovare tutte le motivazioni, concetti, ragioni che possono servire a convincere. Dopo questa operazione, secondo la retorica, il buon oratore deve preparare una dispositio, ossia disporre logicamente tramite un elenco i suoi argomenti. Decidendo così in che modo organizzare il suo discorso, decide di dire una determinata cosa prima di un’altra e così via. Ma la dispositio deve essere poi detta tramite il linguaggio per produrre i concetti che sono stati esposti in un determinato modo. L’elocutio, è la fase in cui si dispongono gli argomenti con il racconto, con quale stile, è interamente basato sulla scelta lessicale e sintattica del discorso (es. uso di metafore, similitudini, allegorie, basti pensare agli aneddoti che raccontano gli avvocati…) Dopo queste 3 fasi, si arriva a produrre il discorso, a questo punto se si tratta di uno scritto, la retorica tradizionale più antica contemplava solo queste 3 parti, ma allora l’avvocato non si sarebbe potuto portare il testo scritto in aula, avrebbe dovuto impararlo a memoria, quindi la memoria gli insegnava come mantenere in testa il suo discorso, quindi era fondamentale la memorizzazione di ciò che avrebbe voluto dire. Poi c’è l’actio, infatti quando si espone qualcosa davanti a un pubblico e come se fossimo un po' attori, ci si deve muovere, gesticolare, tutte forme che servono ad accentuare la persuasione e l’efficacia del discorso. Inventio e dispositio possono essere anche le stesse, ma l’elocutio cambia fondamentalmente in tipologia di letteratura e di genere. Una cosa è che io produco un racconto, un’altra è che produco una lettera—> il linguaggio cambia. Stessa cosa se produco un lamento funebre, è diverso da come io produco una commedia. Quindi l’elocutio diventa un elemento fondamentale nel corso del tempo, soprattutto quando il canone occidentale guarda a questo frammento “Del Sublime” che era rimasto, il trattato infatti racconta solo quale dovrebbe essere l’elocutio, o meglio la veste linguistica, di quel testo pensato per spronare chi lo legge a compiere azioni eroiche. Viene utilizzato come modello di canone per tutta la letteratura e per la selezione dei testi che costituiscono il canone della letteratura. Un testo che parla soltanto di un tipo di elocutio, di un tipo di linguaggio e quindi un tipo di letteratura, ma cosa consegue da tutto questo? prima di tutto consegue il fatto che se si selezionano solo le opere che hanno come funzione essenzialmente quello di spingere a fare qualcosa o ad assumere un comportamento, nel senso più lato quello di modificare il lettore /lettrice; vuol dire che tutto quello che si scriverà avrà una funzione didascalica. Dunque, la funzione principale di questa letteratura contemplata all’interno del canone, è una funzione di lingua didattica-didascalica. Ma come si effettua questa spinta a fare le 5 cose? Attraverso un linguaggio che inneschi il furor, che ecciti le passioni e per fare questo abbiamo bisogno dell’uso forte di figure retoriche (endiadi, metafora, chiasmo, ossimoro…), quindi una funzione didascalica e linguaggio ricco di figure retoriche. - Infatti, il bello stile coincide con la capacità di elaborazione di figure retoriche. Nel corso del tempo, le cose cambieranno ma si ritornerà sempre al principio di insegnamento, basti pensare a Boccaccio che quando scrive il Decameron testimonia sin da subito l’intento didascalico, dell’utile e dilettevole. Testi di bello stile, ma anche testi utili. Non si perderà mai del tutto nel corso del tempo la componente didascalica, anche se anche la componente del piacere inizia a diventare una componente fondamentale. Quindi il canone ritorna ad essere UTILE, DIDASCALICO, DULCI, uno stile che rende dolce l’utilità, il dulci è la capacità di elaborazione di un’elocutio che attraverso il piacere mi insegna. L’umanesimo inizierà ad essere più raffinato perché inizierà a chiedersi in cosa consiste la dolcezza dello stile latino? (il dulci latino) si cominciano a confezionare nel ‘500 una serie di dizionari che contengono le parole latine che si possono utilizzare, accreditati dai grandi poeti dell’età augustea, ciò che Baldassarre Castiglione intese per grazia e armonia nel suo Cortigiano. La grazia e l’armonia, uno stile armonico, musicale, addirittura come succedono le parole con accentuazioni con le rime, con l’endecasillabo con accenti interni che ne danno la cesura e di conseguenza l’armonia —> (ricorda la differenza tra endecasillabo ad maiore e ad minore.) - La percezione di una musicalità ovvero di un’armonia espositiva. Il linguaggio musicale (vs linguaggio aspro = con accenti che cozzano tra di loro), ossia una scorrevolezza musicale “occhi ridenti e fuggitivi” cit. Petrarca, perché non fuggitivi e ridenti? Perché altrimenti non ci sarebbe una successione giusta di accenti che non farebbe di quel verso, un verso armonico. - Dunque, il fine è un insegnamento tramite un’elocutio armonica e di grazia musicali, affianco a un linguaggio fortemente figurativo con metafore del corpo del sangue, del cibo, es. se pensiamo alla trascrizione della Maddalena dei Pazzi, essa non ha niente a che fare con l’ideale di armonia. Tutte queste ragioni esclusero una serie di scritture, tra questi la scrittura femminile. Nonostante si parli di un’opera didascalica, il canone non è didascalico, ma ESTETICO. - Il canone estetico della letteratura per cui è la bellezza che procura piacere, dunque un certo concetto di bellezza (dal momento in cui non esiste un concetto universale di bellezza). Ma quando il canone ci dice che qualcosa è bella, diviene universale. Il canone, infatti, definisce una perfezione che si definisce UNIVERSALE, non è valida per un certo numero di opere in un determinato assetto cronologico, ma tendenzialmente dovrebbe essere universale. Il canone quanto più è estratto, quanto più è universale. Per cui il canone tende a definire L’UNIVERSALE LETTERARIO PER ECCELLENZA, quindi esclude tutto ciò che non rispetta queste basi. Questo canone rimane tale almeno fino al Romanticismo, ma cambia davvero qualcosa con il Romanticismo? Intanto in Italia non cambierà niente, già da Foscolo si inizia a parlare di pre-romanticismo, in quanto scrive le “grazie”, niente di più classicista nello scrivere un poemetto dedicato alla grazie (divinità greche) attraverso la ricerca di un linguaggio che rappresenta la classicità, anche se Foscolo ha scritto tanto altro. Ma se pensiamo all’ultimo canto di Saffo di Leopardi, costruiscono una struttura lirica perfettamente corrispondente a quella petrarchesca, quindi sicuramente nel rinascimento si conoscono autori che sono perfezione nel loro ideale, soprattutto negli autori latini. Quindi Manzoni e Leopardi rompono con la tradizione classicista? Nel Rinascimento, l’uso del volgare era comunque rilevante, a patto che si imiti la classicità, chi meglio imita i principi della classicità rientrerà più facilmente nel canone. Bembo, infatti, non farà altro che teorizzare nelle sue Prose il modello classico 6 volgare da seguire: Petrarca per la lirica, Boccaccio per la prosa. Un linguaggio e stile più facilmente sistematizzabile rispetto il ventaglio di stile di Dante che usa una VARIETAS, attraversa una pluralità di registri e stili, per cui si parla di un vero e proprio plurilinguismo. La veste linguistica si attiene al contenuto, per cui la lingua dell’Inferno non è paragonabile a quella del Paradiso. Una varietà linguistica, quella di Dante, che non si può insegnare non rappresenta di certo la perfezione, la varietas degli elementi si contrappone all’idea di perfezione che sta nell’unicità. Per esempio, in Tasso viene teorizzata la differenza tra poema epico e poema eroico, per cui il difetto dell’Orlando Furioso è quella dell’esistenza di troppa varietà, troppe storie e tanta confusione. Si necessitano, invece, nuclei centrali che tengono insieme tutto il resto, un principio di unità. La MONOTONIA è migliore della VARIETA’. Per cui si può considerare modello di perfezione, unicamente, un poeta che sia monotono (infatti Dante non viene contemplato nella teorizzazione di Bembo, proprio perché nel suo stile aderisce al principio di varietas). Se parliamo invece di Boccaccio, lui scrive un periodo di formazione latina, la costruzione ipotattica della frase—-> tutto risiede nell’armonia della costruzione (questo è il principio classico che vale). Una serie di subordinate che si susseguono, ma inserite in una struttura sintattica che è manifestazione dell’armonia. Boccaccio ci mostra come l’armonia sia la connessione delle parti organizzate in una struttura. Quindi i letterati del tempo iniziano a costruirsi i vocabolari del linguaggio di Dante e Petrarca, gli unici modelli che si potevano insegnare. Il primo volume dell’Accademia della Crusca (1522), sancisce che la lingua perfetta è quella che si può reperire in termini sintattici e lessicali in Boccaccio, Petrarca e pochi altri, arrivando fino all’800, quando si continuava ad affermare che tutti i trecenteschi parlavano perfettamente. Quindi, ormai per la scrittura e composizione delle opere si usavano quei modelli di perfezione linguistica, infatti le poetesse petrarchiste sono inserite nel canone, proprio perché sono petrarchiste. A volte, qualcuno si è dovuta forzare ad essere petrarchista, per esempio Isabella Di Morra è una petrarchista (perché l’ha definita così Croce?) o perché sono donne che come lei sono al centro del contesto intellettuale del tempo, sono donne di corte, vivono in un’area dove sono attivi gli editori, stampatori ( sono loro che permettono la trasmissione: quello che Jakobson intende per canale). Isabella Di morra viveva nel sud italia, per questo non viene sin da subito diffusa e stampata. Alcune di quelle che oggi definiamo petrarchiste lo sono diventate grazie alle edizioni che sono state fatte sulle loro opere. Un’altra importante petrarchista è Vittoria Colonna che dedica le sue liriche al marito defunto.( non avrebbe fatto lo stesso effetto se avesse scritto ad un uomo vivo). La segue Gaspara Stampa, non hai mai pubblicato le sue opere, ma sono state pubblicate postume alla sua morte dalla sorella, proprio lei assieme all’editore ha organizzato le liriche e la loro disposizione sulla base del modello del canzoniere di Petrarca. Ma tutto questo rispettava la volontà della poetessa? non lo sappiamo, proprio perché le liriche erano sparse e l’ordinamento è successivo. Come se le liriche di queste poetesse quasi forzatamente dovevano aderire al canone, si escludevano tutte le liriche che fuoriuscivano dai canoni petrarcheschi e le si ordinavano sulla base del canzoniere petrarchesco affinché aderissero a quello che ormai sancito come il modello di perfezione linguistica e stilistica della poesia. Ma è importante notare come i contemporanei non avrebbero mai considerato gaspara stampa una petrarchista, lo ha potuto fare Croce a distanza di secoli, questo varrà per molte altre donne. L’adesione al modello di petrarca è stato anche determinato dal fatto che quasi contemporaneamente alla diffusione della poesia petrarchista, gli editori hanno messo insieme tante antologie di scrittori petrarchisti con le liriche considerate più perfette, la fortuna o la sfortuna ha voluto che il fenomeno della scrittura delle donne fosse stuzzichevole, curiosa e gli editori che avevano buon naso sul prodotto commerciale in sé, hanno messo anche insieme antologie di scritture di donne ( gaspara stampa, vittoria colonna e tante altre). Ma ovviamente le liriche 7 crediamo. La cultura alessandrina ha fatto questo; legato a questo elemento c’è la conservazione: la Biblioteca di Alessandria d’Egitto serviva a conservare i valori, i supporti cartacei che ci consentivano di conservare il nostro sapere. Le culture che ripartono ponendosi come costruzione il sapere fanno questo atto fondamentale: definiscono i propri valori e conservano i documenti che permettono di trasmettere questi valori. Siamo all’origine di quella che potremmo considerare la cultura occidentale; però è ben vero che il valore che viene attribuito al trattatello del Sublime è successivo: è solo la cultura successiva, a partire dalle poetiche anonime del 12/13 secolo, che prende come “vangelo” quello che è contenuto nel Sublime, dimenticando che sono solo frammenti di un trattato più ampio che avrebbe dovuto trattare tutte le forme della letteratura o del discorso retorico letterario (non tutti gli aspetti del letterario, ma gli aspetti di quella composizione letteraria il cui contenuto è didascalicamente proiettato ad insegnare le azioni eroiche in uno stile bello). FUNZONE DIDASCALICA -> LINGUA PERFETTA: questi due elementi diventano elementi di valore, che a loro volta comportano che ciò che per noi corrisponde a una funzione didascalica collettiva che non fornisce idee da imitare collettivamente ma solo ipotesi soggettive di un genere (come la costruzione del sé nella scrittura femminile) finisce fuori. In pratica, se scrivo utilizzando sistemi in cui abbiamo figure metaforiche che non corrispondono al canone della bellezza lo scritto finisce fuori dal canone. Questa parte preliminare al nostro discorso la trovate nel primo capitolo del Secchio di Duchamp. Il Sublime stabilisce qualcosa che rimane a lungo nel nostro sapere, che spiega le ragioni di un’esclusione e che però dobbiamo considerare modificato e messo al centro di una riflessione in un momento storico preciso della cultura novecentesca: in Italia intorno agli anni 70, in Europa già dagli anni 60, quando i movimenti delle donne sulla scia dei movimenti di contestazione giovanile ( i due fenomeni sono collegati) cominciano a sviluppare una riflessione sul mondo, sulla letteratura, sul soggetto e sui soggetti che sono nel mondo e quindi inevitabilmente su ciò che i soggetti producono nel mondo, fra cui anche le forme artistico-letterarie. Comincia quindi abbastanza presto la riflessione sulla letteratura come funzione di trasmissione, come funzione di descrizione. Negli anni 60/70 entra quindi in crisi il SOGGETTO UNIVERSALE MASCHILE, un ossimoro che è realtà; si ha la contestazione che mette al centro il fatto che la società occidentale presenta come universale in realtà una cultura che è costruita esclusivamente su una centralità maschile, fallocentrica, sulla razionalità maschile che ordina tutto il sapere, che è padrone e costruttore unico del suo sapere, su un soggetto forte che è capace di gestire la sua conoscenza, di trasmetterla consapevolmente, di garantirne la corrispondenza a un canone da lui stesso costruito. Un soggetto forte che vede, comprende e spiega il mondo, lo crea attraverso strumenti della propria coscienza. Nel caso della letteratura lo crea attraverso l’uso de LINGUAGGIO (Saussure dice infatti che la lingua è il sistema di simbolizzazione primario dal quale non possiamo prescindere). Che lingua è? È la lingua maschile, cioè la lingua costruita in una comunità in cui tutti i sistemi sono orientati a un fallogocentrismo (modello patriarcale). Quindi la lingua è materna ma il potere patriarcale. Finché non entra in crisi l’immagine di questo soggetto centrale, che costruisce e forma il mondo a suo uso e consumo, non c’è spazio per nient’altro. In questa cultura si chiama universale ciò che dovrebbe garantire la maggior forma democrazia perché annulla le differenze (le differenze corrispondono a una centralità); inoltre è un sistema che viene dalla modalità con cui il fallologocentrismo legge il sistema naturale. 10 La lingua ha sempre un margine di soggettività che sfugge ad una universalità neutra, che è intrinseca alle categorie: ciò che è più astratto possibile è il più neutro possibile, è il più universale possibile, è il più democratico possibile. Come viene dedotta dunque l’INDIVIDUALITà in questo sistema? Attraverso la combinazione di una serie di caratteristiche pretese universali; l’universalità si ottiene dalla decantazione di elementi insignificanti e particolaristici. Un soggetto forte costruisce il concetto astratto decidendo quali sono i tratti pertinenti all’astrazione, decide il modo in cui vuole organizzare le cose. Dalle metà degli anni del Novecento il soggetto inizia a entrare in crisi (vedi il grande romanzo europeo): l’essere umano è davvero così forte? Non gli sfugge niente del mondo, di ciò che lo circonda? L’immagine del soggetto forte che produce letteratura è davvero così forte? È davvero così sicuro della sua capacità di oggettivare e di controllare il mondo? Forse no, non è onnipotente. Mentre Manzoni nei Promessi Sposi poteva immaginare un soggetto in grado di guidare il lettore ovunque, Italo Svevo nella Coscienza di Zeno crea un narratore che non sa nemmeno lui dove sta andando, qual è la verità, non è un soggetto forte, ma un soggetto che vuole mettere in evidenza come non possa esistere neppure nella figura per eccellenza del dio onnipotente (che è l’autore che costruisce il testo) la ragione vera delle cose, perché il suo soggetto è entrato in crisi. Tutto il sapere tra 800 e 900 mette in crisi tutto questo; entrano nel quadro anche eventi storici, che iniziano a far notare come questo “universale” non sia poi così forte e che accentuano il conflitto. Anche il movimento femminista entra in gioco, facendo notare come la componente esperienziale raccontata da altre persone che posso condividere quella stessa esperienza è un atto politico -> rovesciamento radicale, non mette più al centro la razionalità oggettiva, ma l’irrazionalità fantastica, non più il super io sociale ma l’intimo privato, non solo rovescio quello che c’è ma metto in crisi l’oggettività monolitica forte precedente. Da qui inizia a entrare in crisi il concetto di universale neutro: la critica femminista dirà che quello che chiamano neutro universale è in realtà universale maschile. La contestazione giovanile dirà che l’universale maschile/neutro è un modello vecchio, adulto, basato non sul giovane, ma su un uomo che ha fatto un processo di formazione e quindi è entrato nell’età adulta; chi giunge al potere sono i vecchi (dare il potere ai giovani). Come il movimento giovanile scardina il modello esistente così fa il femminismo, il quale dice che il modello sociale maschile deve essere accompagnato da un modello femminile, o almeno da un modello maschile più attento alla controparte femminile. Quindi, il soggetto forte, adulto, occidentale, bianco comincia ad andare in crisi nelle forme del sapere e si comincia a lavorare su questa possibilità di pensare un soggetto differente, debole, che non per questo sia negativo, capace comunque di avere un rapporto con il mondo. L’apice di questo processo è toccato come sempre dal post moderno: il filosofo per eccellenza del pensiero debole è l’italiano Vattimo, il quale dice che siamo oggi in una società in cui la forma di relazione con il mondo definisce un soggetto debole, che sa che il proprio sapere è un sapere legato a delle condizioni e che può incontrare e entrare in relazione con saperi differenti, un soggetto che può portare due saperi differenti (es: nel nostro paese convivono culture molto diverse tra loro; il tema di un corso di laurea può essere affrontato sotto aspetti diversi). I nostri sapere non sono fissi, ma mobili, cambiano in continuazione sono influenzati dalla cultura acquisita, dalla religione, dall’orientamento sessuale, etc. Le femministe iniziano a porre l’accento sul fatto che il soggetto non è unico, non ha un sapere unico, ma una serie di saperi, chiamati “situati”, cioè collocati geograficamente in un posto che ha 11 già alla sua base una serie di saperi che si incontrano e che si accrescono con l’esperienza di saperi che ognuno di noi ha. Quindi il soggetto non è complesso, non è risolvibile in una comunità centrale monolitica unica, deve essere visto in una complessità di aspetti. Complessità che comporta che è inutile parlare di un prodotto universale unico (ad esempio dire che esiste una sola lingua di bellezza, ovvero dire che il piano estetico si realizza in un modello linguistico). Nonostante si siano sempre accentuati gli aspetti di universalità anche le opere che stanno nel canone vi rientrano solo facendo finta che molte cose, esterne al canone, non esistano -> Riconoscere la grandezza culturale in base al rispetto della norma del canone (lingua armonica e complessivamente chiara). (La lingua di Ariosto incarna parzialmente il canone di bellezza classica, vedi il suo uso dell’ironia; nonostante questo è considerato parte del canone. Anche la Divina Commedia non ha equilibrio linguistico, eppure è nel canone; l’intuizione di Dante è di far corrispondere la lingua alla natura del racconto, che oggi chiameremo espressionismo linguistico, il far parlare i personaggi in base alla loro provenienza sociale, che si vedrà nel 1800). Quando il materiale trovato dalle storiche femministe (vedi prima lezione) andava crescendo (testi di stregoneria, trattati, epistole), c’è stato bisogno di fare un’analisi testuale dei testi ritrovati e vedere se c’è qualcosa che li caratterizza, dei temi comuni (NON DETERMINISTICI), una consapevole esperienza di messa a tema di alcune questioni fondamentali del racconto di una scrittrice. La prima cosa che si è vista è che generalmente le donne hanno un rapporto privilegiato con i generi letterari non fortemente normati, cioè quei generi per cui non esiste delle indicazioni precise e doverose da seguire. Esempio: le donne scrivono solo romanzi sentimentali, che consentono di impossessarsi di un genere sul quale ci sono meno norme di costruzione e quindi una maggiore libertà di produzione; scelgono generi detti non istituzionali, come le memorie, il diario, perché erano forme di scrittura marginali, rispetto al sistema elevato dei generi letterari; dunque poca lirica, poca epica, poco teatro, generi autorevoli e dunque molto normati. La scrittura femminile sceglie i generi in cui è garantita una maggiore libertà e una minore normazione, e quindi una maggiore possibilità di esprimersi in modo libero. Nel movimento critico femminista questo atteggiamento è stato definito TRADIMENTO DEL GENERE: le donne tradiscono il genere letterario, nel senso che prendono un genere meno normato e lo gestiscono come meglio credono -> CONSEGUENZA: utilizzo della scrittura creativa per fare una riflessione di tipo teorico: non potendo farla nella scrittura alta del trattato teorico si utilizza la stessa opera letteraria per parlare dell’opera letteraria, per parlare di come si fa l’opera letteraria. Via via che la presenza femminile e il riconoscimento della loro presenza è stato più forte, la scrittura delle donne si è anche affacciata ai generi normati (allo stesso tempo però il canone e la norma dei generi sono diventati meno severi e precisi, più elastici; esempio: la poesia novecentesca è molto più libera rispetto a quella del 1600 o del 1700). -> non è più la norma che ci dà il genere ma la pratica. Iniziamo qui a parlare di ESPERIENZA DI LETTURA. Le prime studiose delle scrittrici del Seicento hanno parlato di tradimento di genere in questo senso: scrivo dove ho più libertà e nello stesso tempo uso la scrittura per formulare una riflessione teorica sul fare scrittura. 12 della scrittura mistica, e quella delle donne in particolare, come un preciso genere letterario o di scrittura e da questa domanda inizia a delimitare i caratteri di questa scrittura delle mistiche. Innanzitutto se viene definita come “mistica” vuol dire iniziare a definire un genere da una postura, cioè da un atteggiamento, di uscita dal proprio corpo e di assunzione del Divino, non si definisce questo genere a partire da dati oggettivi, come contenuto o forma, ma da come il soggetto che la produce si dispone (postura) rispetto a chi sarebbe il primo produttore del messaggio. Quando Jean Pierre Albert scrive questo, Todorov già ha parlato dell’esitazione come definizione del genere fantastico, ma riferendosi alla scrittura maschile non ci furono problemi, rapportato a quella femminile ci sono problemi, infatti definire un genere come esitazione significa definire la postura del soggetto, come quella del mistico che offre il proprio corpo affinché diventi strumento della voce di un altro soggetto. Un altro motivo è che la produzione della mistica viene associata a Dio, non alle mistiche, quindi in questo genere letterario si presuppone che il contenuto di quel messaggio sia di un soggetto diverso dall’autore, quindi l’autore non è lo/la scrivente, ma Dio. Inoltre, non è trasmessa da fonti autorevoli né ha figure autorevoli, in quanto i testi che abbiamo (molte volte) sono raccolti da qualcun altro che li trasmette, quindi non c’è un soggetto “io”. Questa letteratura parla della sofferenza del corpo, un genere letterario basato su questo viene considerato strano da Albert, quindi alla fine la scrittura mistica non la considera genere letterario. Ciò significa che si avrebbe un genere letterario soltanto se: c’è un voce oggettiva centrale unica ed univoca che produce il testo, il testo è scritto con un linguaggio che segue determinati canoni, il testo accede alla circolazione alta della letteratura, quindi tutta una serie di elementi che sono veri nella misura in cui noi accettiamo che siano scritture che debbano rispondere forzatamente ad IL canone di genere letterario, non “un” canone. Tutto ciò che finora è stato detto dimostra che la scrittura femminile, così come ci è storicamente trasmessa, è spesso una costruzione di un discorso “altro” da quello prodotto dalla cultura globale dominante maschile del tempo che ne ha mirato uno statuto specifico. Quindi l’idea che si ha di quel poco di scrittura femminile che è arrivato sino a noi è stato ritratto da un canone che non ha gli strumenti per rappresentarlo perché costruisce i propri oggetti con un discorso che è completamente altro da quelli che sono gli elementi costitutivi che la scrittura femminile ha. La differenza è che la scrittura maschile costruisce una struttura di contenimento, protezione e valorizzazione, trasmissione di un certo discorso che fa sì che questo vedrà sempre e soltanto gli elementi a cui quel discorso risponde. Dunque, quando si dice che la scrittura femminile è “brutta”, “non sa scrivere generi altri”, “ha elementi di materialità che non vanno bene”, è perché non si hanno gli strumenti per leggere la specificità di questo discorso. Molti elementi che caratterizzano la scrittura, e quella delle donne in particolare, sono frutto di omologazione, quindi le donne scrivono così perché è omologato il loro modello a quello dell’altro, invece va cercata la specificità di questo discorso. Essere donna ha rappresentato (e spesso rappresenta ancora) per il soggetto scrivente una limitazione all’accettazione della sua produzione da parte del sistema culturale, è sufficiente questo dato identitario perché rappresenti un’esclusione dal discorso. Dagli anni ’70 l’idea non è più (dato che vennero scoperti i testi): “la donna non ha mai scritto”, ma “la donna non sa scrivere”. Via via che le donne entravano nel circolo editoriale scrivevano agli editori affinché venissero pubblicate o per delle critiche, queste lettere che uno si aspetta fossero professionali presentano uno 15 stravolgimento della struttura della lettera, come una continua commistione tra l’attività dello scrivere e la vita privata, come ad esempio dire che la fatica della scrittura è accresciuta dal fatto che, nonostante possano essere le scrittrici più famose e accreditate del mondo, devono prima fare quelle mansioni domestiche che erano associate al ruolo di donna, come cucinare e pulire. Nelle lettere tra scrittore ed editore non c’è possibilità che entri l’elemento privato, in quelle delle scrittrici sì ed è un elemento di materialità con la vita, ma anche un tentativo di forzare la forma del genere letterario, infatti la lettera non dovrebbe contenere elementi di questo tipo, è la consapevolezza di star rompendo il genere letterario. Essere donna è visto come un ostacolo e le scrittrici se ne accorgono e lo mettono pubblicamente davanti alla produzione, è il motivo per cui non riescono a fare come i colleghi uomini. Per questo motivo, spesso, i testi di scrittrici sono state destinati ad una fruizione bassa, cioè che prima di arrivare ad un pubblico sia di uomini che di donne il pubblico è molto più ristretto, come per esempio per gli scritti delle mistiche che venivano letti solo dai confessori o le donne che circondavano la mistica e nel periodo post riformistico la situazione peggiora in quanto i loro testi non uscivano dal convento. La domanda è perché non si possa parlare di un genere letterario basato su questi elementi e che riguardi tutte le scritture marginalizzate che sono tali perché il discorso dominante o le omologa o le esclude, quindi non ha “la lente per vederle”. In seguito verrà detto che la posizione marginale vede più in profondità, in quanto vede contemporaneamente ciò che è marginale e ciò che è dominante, è una visione che si muove sull’orizzontalità che include e non sulla verticalità che esclude. La marginalità diventa quindi un punto di forza, non si può parlare di scrittura femminile senza conoscere la scrittura dominante che la esclude. Il problema del genere letterario viene messo in relazione da una parte con uno specifico linguaggio dall’altra con la riflessione sulla preferenza di determinati generi letterari, da questo punto di vista c’è un volume fondamentale fatto in più volumi: “Lessico politico delle donne” che affronta diversi ambiti lessicali (pubblico, privato ecc.) diventati termini importanti nel linguaggio femminista. Il sesto volume è dedicato a cinema, letteratura ed arti visive su come sono attraversati dall’espressione femminile ed è questo volume che negli anni ’70 pone il problema per la preferenza di alcuni generi letterari e li elenca, questi sono: l’autobiografia, il diario, la lettera e il romanzo “sentimentale”; quindi qui per la prima volta viene detto che questi sono i generi preferiti dalle scrittrici perché svincolati dal confronto con l’istituzione letteraria, sono liberi. Via via l’obbedienza del genere letterario non è misura della qualità del testo, ma lo diventa lo scarto. Il recupero della scrittura delle donne non significa che tutte le scritture delle donne sono trasmissibili perché contengono un modello di perfezione stilistica o simili, ma il recupero è un atto dovuto storico, perché non va buttato ciò che una cultura produce. Quindi bisogna chiedersi come mai, pur diventando sempre più importante nel corso del ‘900 lo scarto piuttosto che il rispetto della norma, la scrittura femminile faccia fatica ad entrare nel canone, come si vede palesemente nella trasmissione scolastica. 7 marzo 2019 Il testo della Storini del 2005 affronta soprattutto la questione del rapporto della scrittura delle donne con il genere letterario partendo da una considerazione: se la scrittura delle donne ha un rapporto complesso con il genere letterario, nel senso che spesso viene utilizzato per definire, 16 modificare, allargare le potenzialità del genere stesso, è possibile studiare le opere delle donne come discorso sul genere letterario e non soltanto come appartenenza ad un genere letterario. Si possono utilizzare molti metodi però sicuramente uno dei più facilmente percepibili è l’utilizzo di quello che tecnicamente si chiama definizione generica endogena che si contrappone alla definizione generica esogena (endo è qualcosa di interno, eso qualcosa di esterno), cioè nella teoria letteraria si distingue tra quelle etichette di genere letterario che la critica definisce esternamente a un testo, cioè leggerlo e dire “secondo me questo appartiene al genere epico”, e tutti quei termini che definiscono un genere che l’autore/autrice utilizza nel suo testo; i primi sono esogeni, ovvero quelli che l’analisi esterna applica al testo oppure quelli con cui lo stesso autore si riferisce al testo in altri luoghi della sua produzione, es: nelle lettere, come in quella di Machiavelli a Vettori in cui chiama il Principe “questo ghiribizzo letterario” e anche “opuscolo de principalibus”, nel caso di Machiavelli è sì l’autore che definisce il genere letterario dell’opera cui si riferisce, ma non lo fa nell’opera stessa ma in un altro testo quindi rientra in una definizione di tipo esogeno vale a dire fuori dal testo; in altri luoghi del Principe Machiavelli parla di esso definendolo “trattatello” e questa è una definizione endogena, cioè una definizione di appartenenza dell’opera ad un genere letterario contenuta nell’opera stessa. La prima ovvia e appariscente modalità di analisi dell’appartenenza di un testo di scrittura femminile a un genere letterario sono i cosiddetti nomi generici endogeni, quindi con cui la scrittrice si riferisce al proprio testo. Questo appartiene al campo della ricezione, come il testo viene recepito esternamente e come la scrittrice percepisce la propria scrittura e ambirebbe a come venisse percepita da un pubblico esterno. Altri elementi di cui è necessario tener conto lo dice la teoria del genere cioè che le ventilazioni di genere letterario non siano applicabili solo all’opera nella sua interezza, ma sono anche applicabili a singole parti dell’opera, es.: il romanzo alterna parti teatrali, di cui abbiamo un dialogo, a parti descrittive; nel romanzo quindi abbiamo una serie di generi. L’epoca dal Romanticismo in poi usa molto di più la categoria di genere per descrivere, non per normare e quindi per escludere sulla base della diversità dalla norma, quindi vengono meno i generi più normati. Un’altra cosa tipica del sistema letterario e del sistema di genere letterario è che è un organismo che funziona in modo tale che una modifica inserita da un’opera in esso modifica tutto il sistema, quindi ad esempio viene inventata una forma di romanzo che prima non c’era automaticamente si ridefinisce tutta quanta la forma romanzo; il romanzo è un genere sperimentale, si è modificato il nostro concetto di romanzo nel corso del tempo. Quindi i generi costituiscono un sistema, ogni opera nuova e diversa modifica il sistema, la scrittura femminile è modificante tanto più quanto più incide sul concetto di genere letterario, questo perché il testo post romantico non ha più una funzione esemplificativa, cioè non è un esempio di genere, ma è la modificazione del genere. Sono gli elementi individuali che diventano pertinenti, dopodiché tutta una serie di elementi che prima erano fuori dal definire le qualità di genere, iniziano a diventare tratti pertinenti. Bachtin dice che il genere romanzo non si caratterizza per tutti gli elementi detti in precedenza, ma per la presenza della polifonia, cioè non si ha un’unica voce che racconta la storia, ma viene narrata da più voci che prendono corpo nel testo (voce narrante e quella dei personaggi), dietro di esse si declinano le voci di varie appartenenze alla società, come il linguaggio parlato da un determinato settore o da una determinata classe sociale. Il romanzo moderno è caratterizzato, secondo Bachtin, dalla polifonia, cioè dalla presenza di più linguaggi all’interno. 17 soggetto universale, ma che universale non è, non ci sarebbero stati gli studi di cui parliamo, oggi parliamo di gender studies per definire l’orientamento metodologico con cui leggiamo questi testi, cioè da un certo momento in poi non si è fatta più solo attenzione ai testi scritti da donne, ma di come i testi (indipendente dal sesso di chi scrive) rappresentassero la dialettica tra i generi. Parliamo di gender studies [gs] anche se non studiano scrittura delle donne, l’innovazione sta nell’ottica, non nell’oggetto, conta come li studiano, il metodo. Occuparsi di gender studies significa scegliere un determinato ordinamento metodologico e teoricamente così l'ottica dei GS si può applicare anche a testi di scrittori maschili, perché conta l'ottica con cui studio. Il passaggio al metodo dei gs è avvenuto in Italia alla fine degli anni 80, primi anni 90, quando si è iniziato a parlare di post strutturalismo e di decostruzionismo (postmoderno)-> data della nascita del post-strutturalismo: traduzione in italiano del testo di Barthes “La morte dell'autore” 1968: l'autore nasce quando scrive un testo e muore quando è finito. Così l'autore è quello che materialmente dice qualcosa nel testo. Questo è un tentativo di estremo allontanamento dall’autore reale-> responsabilità della letteratura che è quella di attivare un testo non è di chi lo scrive ma del pubblico che lo legge. Con questo concetto però siamo ancora dentro lo strutturalismo, infatti una delle tante caratteristiche di questo è l’idea che tutti gli elementi di analisi si trovano nel testo. Questo ha determinato la decadenza di una certa critica che legava il testo alla bibliografia dello scrittore. Per lungo tempo strutturalismo e semiotica hanno voluto disinteressarsi alla vita materiale dello scrittore e di tutta la materialità che è al di fuori del testo. La posizione di Barthes peggiora questa situazione, almeno al punto di vista della produzione del testo, infatti l’idea che l’autore nasce e muore con un testo ha avuto delle conseguenze sul piano teorico, come la diffusione della teoria della ricezione: teoria che studia come il testo viene recepito, smettendo di occuparsi della produzione del testo. Andando oltre le modalità di produzione di un testo, esso conserva le sue interpretazioni-> orizzonte di attesa di testo: noi leggiamo testi come la Divina Commedia in base all'interpretazione che ha avuto nel tempo. Es. di questo: Aristotele e aristotelismo, Aristotele dice alcune cose, ma quello che noi sappiamo di Aristotele è la lettura che ne è stata fatta nel corso dei secoli, cioè l’Aristotelismo. Anche il trattatello del Sublime che è un pezzo di una retorica più ampia, ma oggi l’interpretazione del Sublime è diventato un canone. Questa drastica affermazione della morte dell’autore ci ha portato ad un vantaggio cioè ci ha portati ad attestarci un po' di più sul concetto di ricezione, anche il concetto di lettrice empatica deriva da questa concezione, una delle conseguenze perciò è lo spostamento della barra dell’attenzione interpretativa dalla produzione del testo alla ricezione di esso. Un’altra conseguenza è che non esiste più il concetto di responsabilità dell'autore, ad es. Manzoni scrive per una finalità progettuale e se ne prende la responsabilità. La responsabilità è in chi legge, non in chi produce, questa posizione risente anche della posizione del post-strutturalismo e del postmoderno (ammettendo che esiste una responsabilità perché per lungo tempo, il postmoderno dice che la letteratura è un gioco di citazioni). Questi due elementi (spostare l’attenzione sulla ricezione ed eliminare la responsabilità dell’autore) segnano il post strutturalismo senza uscire dal testo, quindi sono legati ad un’idea di letteratura che non esce da essa stessa ma parla di sé stessa. Il postmoderno a questo aggiunge la fine della storia e quindi la fine della responsabilità di lettura di un certo sistema culturale secondo una determinata ottica. Quindi siamo tutti fuori e senza storia, siamo in un momento in cui l’elemento temporale è meno importante dell’elemento spaziale, lo spazio perciò inizia ad assumere sempre più importanza e dunque, teoricamente, è un gran caos, in quanto si è dopo la modernità ma non si sa qual è il progetto complessivo che sancita la fine dell’umanesimo e della modernità indica quale sia il futuro su cui bisognerà costruire. Questo è anche il motivo per cui la letteratura si è sempre più attaccata alla letteratura del presente, 20 quindi non più una letteratura che costruisce un progetto futuro, ma una letteratura che rappresenta il mondo che ci circonda, meno realisticamente possibile. Questi tre elementi non vanno bene al pensiero d’autore, infatti la prima accusa fatta dalle scrittrici riguarda il concetto della non esistenza dell’autore/autrice. Dopo tutta la fatica subita affinché venisse riconosciuto il loro ruolo e dopo aver fatto di tutto affinché l’autrice avesse una responsabilità verso quello che produceva, tra l’altro essendo una rappresentazione diversa da quella dominante venivano cancellati i loro testi, non erano favorevoli a voler rinunciare alla responsabilità o al racconto del progetto del mondo e di loro stesse che raccontavano nei testi. Non ci sono elementi, nella scrittura femminile, di post-strutturalismo, dopo averci messo una vita per far sentire la loro voce quindi non vogliono eliminarla. Le autrici recuperano l’elemento dell’atto della lettura perché il testo è l’integrazione delle due voci, esiste la necessità della voce dell’autrice e della lettrice, cioè entrambi i loro vissuti che quindi portano al centro sia il testo prodotto sia l’esperienza che hanno del mondo le due soggette e dunque non si è chiuse nel testo, ma si recupera un sapere che viene dal contesto e questo è un atto di responsabilità. Il pensiero delle donne, negli anni ’90, produce sul piano teorico una serie di considerazioni importanti: il concetto di posizionamento (o sapere) situato, cioè sia il soggetto che produce sia quello che legge esistono, ma ci sono molti più soggetti, cioè dentro questi soggetti (a seconda delle epoche) esistono più saperi che derivano dalle diverse appartenenze (come ad es. geografiche, religiose, conoscenza di lingue diverse, appartenenza a delle comunità più piccole in altre più grandi) che i soggetti hanno, quindi ogni soggetto è fatto da una serie di saperi. All’interno del movimento delle donne questo è utilizzato soprattutto da coloro che non si riconoscono nel modello del femminismo bianco dominante, ad esempio le donne afroamericane. Quindi ogni persona è diversa, in filosofia questo concetto ha conciso con la diffusione del pensiero della differenza. Questo è il segnale dell’accettazione di una serie infinita di elementi che costituiscono la complessità dei soggetti. Quindi il posizionamento è l’accettazione e il riconoscimento di tutti quei saperi situati dentro un soggetto e che lo caratterizzano. Questo concetto porta ad una pluralità di visioni, infatti si abbandona la teoria femminista e si passa ai gender studies e si comincia ad affermare che i generi sono sì declinati socialmente, ma l’appartenenza al genere è uno dei diversi saperi situati ed esso stesso si porta dietro altri tipi di sapere. Non più scrittura, ma scritture; non più donna, ma donne; non più sapere, ma saperi; diventa plurale per la pluralità, per la diversità di soggetti che producono saperi diversi. Quindi non solo si parla di chi produce e di chi legge il fare letterario, ma di soggetti complessi che producono e leggono il testo, e si parla dell’atto di lettura come l’esito della relazione di soggetti complessi nel testo. La teorica Spivak lavora sul concetto di responsabilità per quanto riguarda la traduzione, quest’ultima consente di inserire in altre culture quel che viene prodotto da una cultura, oggi la traduzione non è più omologante, cioè non si produce più un testo assolutamente percepibile nella cultura d’arrivo come se fosse proprio, ma si mantengono le differenze originarie. La riflessione complessiva, negli anni ‘80-‘90, sulla traduzione recuperava il concetto di una necessità alla traduzione che pur favorendo la comprensione del testo, nello stesso momento mantenesse le specificità del testo di appartenenza mantenendo l’attrito tra il testo di partenza e 21 quello di arrivo, questo comporta un profondo inserimento nella cultura dei saperi situati sia nel testo originario sia nei saperi di cui si farà portatore chi lo traduce nella cultura di arrivo. Tutto ciò fa riflettere la Spivak sul concetto di responsabilità, chi traduce ha una responsabilità nei confronti del testo, deve conservare il più possibile l’identità originaria consentendone la lettura in una cultura altra. Non si tratta solo di buona conoscenza della lingua di partenza e di quella in cui si traduce, ma anche di difesa delle identità del testo e del soggetto che ha scritto il testo che sono contenuti nel testo. La Spivak utilizza la metafora del rapporto erotico per il rapporto con il testo, perché è tun rapporto intimo con il testo, è un rapporto sia d’amore che fisico che chiama in atto la responsabilità di chi traduce il testo, la traduzione è un atto politico perché conserva i soggetti identitari che hanno prodotto il testo nel trasmetterli a soggetti che hanno una cultura diversa. Un altro concetto importante è quello di marginalità, dei soggetti eccentrici, cioè il concetto di Teresa de Lauretis, la quale dice che chi racconta le culture è un soggetto centrale, cioè politicamente dominante, che decide quali sono i ceti dominanti che producono quel sapere e dunque qual è la marginalità, definendo il canone si definisce anche quel che è esterno ad esso. Il pensiero delle donne recupera il concetto di margine, perché i soggetti eccentrici (fuori dal centro) per la de Lauretis sono più potenti politicamente se vive la sua posizione negativa in maniera positiva. Sapere situato, posizionamento, soggetto eccentrico sono tutte metafore spaziali, infatti i gs usano queste metafore spaziali in epoca post-moderna, infatti il post-moderno si porta dietro la crisi del tempo, cioè che la categoria temporale non è l’unica che serve per vedere il mondo e cresce il ruolo della categoria spaziale, si dà ancora oggi maggiore importanza agli spazi in cui viviamo e ciò che si portano dietro. Una cultura come quella femminile in cui il corpo ha un ruolo importante, il soggetto che è un corpo occupa uno spazio. Le metafore spaziali hanno dunque questa grande importanza perché il post-moderno ha rimesso al centro le qualità corporeo-spaziali. Il soggetto eccentrico se sa di occupare questa posizione eccentrica e la vive è più potente perché ha un insieme di prospettive, può vedere i gruppi dominanti e quelli marginali, è una sorta di rivendicazione critica del potere della marginalità, essa non è una posizione negativa, lo sembra perché viviamo in una società che vede centro e margine come superiore ed inferiore, ma recuperando la marginalità come elemento positivo si possono vedere gli elementi positivi sia del centro che del margine. Questi tre concetti (posizionamento e sapere situato, responsabilità e marginalità) sono quelli fondamentali su cui valutano e lavorano i gs sul modo in cui le diverse culture, società e saperi declinano il maschile ed il femminile. In un passaggio del “Secchio di Duchamp” è citato Umberto Eco nel punto in cui si parla di responsabilità, infatti per il Nome della rosa lui quando gli venne chiesto il motivo per cui lo scrisse lui rispose che ne aveva voglia e voleva avvelenare un monaco, se una domanda simile venisse fatta a Manzoni per capire come lui avrebbe risposto (per i Promessi Sposi) dovremmo pensare alla Storia della colonna infame cioè la storia in cui Manzoni ricostruisce il processo contro i cosiddetti untori, cioè le persone che ritenevano che spargendo unguenti ecc. spargessero anche il morbo e per questo vennero ingiustamente uccisi, ma Manzoni scrive questo testo non per parlare di loro, ma perché erano usciti altri testi che cercavano di dimostrare come queste persone fossero state vittime dell’ignoranza dell’epoca e della inadeguatezza delle leggi, quindi non che i giudici fossero colpevoli, ma semplicemente ignoravano le ragioni della diffusione del morbo, la legislatura non li aiutava e quindi fu un errore legato alla storia, mancavano gli strumenti per capire. 22 Nei gs per definire quanto appena detto si usa il concetto di nomadismo, cioè il movimento continuo tra i saperi che viene attuato nella decodificazione del testo, un movimento che non si esaurisce, perché l’esperienza di chi legge un testo, quindi crea la relazione con il soggetto, modifica il soggetto che legge e le letture successive, quindi, non sono mai identiche, l’atto di decifrazione del testo modifica il soggetto. Nelle new technologies il concetto viene sviluppato diversamente, infatti il testo viene modificato dalla codifica; oggi si producono identità testuali modificabili dal web, ma in origine quando il testo veniva codificato ed affidato all’analisi si faceva un’opera più vicina a quella che è la produzione: il testo veniva tradotto da un linguaggio appartenente alla lingua storica naturale ad un linguaggio formale, con tutto ciò che comporta. La codifica è un processo di traduzione, il soggetto che attua il processo di codificazione incide molto, perché lui decide se il linguaggio è naturale o formale, e quindi già c’è un’ingerenza del soggetto, ma anche perché lui dirà se il linguaggio è formale o naturale in base alla cultura storico sociale a cui appartiene, il soggetto che codifica è dunque portatore dei suoi saperi situati, ad es. non i tutte le culture “sei un leone” significa essere coraggioso. È importante ricordare che il genere del soggetto ed i suoi saperi si declinano in base ad una sua appartenenza che è storica e culturale e quindi ogni volta che c’è una traduzione il soggetto agisce in base ai suoi saperi. Il testo un’entità variabile, non un’invarianza, e bisogna essere consapevoli che si ha una metodologia mobile, cioè che si ha un testo che muta; per un certo tempo le new technologies hanno dato l’illusione che il testo fosse un’invarianza, per dimostrarlo basta osservare che il linguaggio cambia col passare del tempo e che la ricodifica comporta un aggiustamento temporale e specchio del nostro tempo. Queste riflessioni, dagli anni ’90 in poi, ci hanno spinto a fare delle riflessioni su come si modifica tutto il nostro sapere. Riassumiamo dei termini che utilizzeremo nella nostra lettura: Posizionamento invece che neutralità, il testo è frutto di posizionamenti, è il riconoscimento di un soggetto che ha nella propria cultura una somma di saperi. Siccome i soggetti che si muovono nel tempo e nella storia hanno posizionamenti e saperi diversi, si parlerà di cartografie ed esse contengono l’idea del valore politico del quadro che si traccia, infatti il contesto che viene tracciato tiene conto delle relazioni di potere tra i soggetti. Si parlerà invece di tradizioni, di genealogie, che integrano la tradizione trasmessa dal gruppo dominante con la propria specifica ed individuale serie di testi di autori/autrici che formano il sapere situato del soggetto produttore e del soggetto che legge. Si utilizzerà il concetto di figurazione e di simbolico, invece che di immagini di retorica, perché essa è un linguaggio canonizzato, invece il simbolico tiene conto dello specifico ed individuale uso della retorica o delle forme dei traslati delle immagini e dei valori simbolici; quindi quando diciamo simbolico significa che c’è la conoscenza di un linguaggio retorico condiviso e l’uso proprio. La figurazione e non il topos perché essa ha un valore politico, cioè ha un contenuto che è trasmissibile tra i soggetti in base alle relazioni di potere, è importante anche la differenza in cui viene usato, cioè non la consuetudine (come invece lo è il topos) ma l’uso di un’immagine riconoscibile, ma con un significato di valore che potrebbe essere diverso da quello tradizionale. Il concetto di relazione. Tutti questi concetti ricapitolati non vanno considerati come uno più importante dell’altro o opposti uno all’altro, ma sono esito di un movimento tra concetti, quando si parla di genealogia si ha l’idea di qualcuno che si muove all’interno di tradizioni e vi produce all’interno un movimento. 25 Se continuiamo a vedere le donne come oggetto di scrittura o rappresentazione e donne come soggetto di scrittura in letteratura volgare italiana ci sono due modelli positivi e due negativi, in quel momento la letteratura era imbevuta di cristianesimo e quindi i modelli femminili sono Eva e Maria e la letteratura gioca con questi due modelli. Nel sistema dominante le figure positive del femminile sono vergini, se no moglie e madre (i due modelli positivi); questi declinano Maria che li possiede tutti e tre contemporaneamente. Quindi la figura femminile per eccellenza era la santa, il modello femminile per eccellenza che in genere appartiene al ceto medio-alto è quella della santità femminile e molte di esse scrivono (es. Caterina di Siena). L’altra via è stata trovata dai poeti italiani che cercano di attribuire un elemento di positività ad una donna che non rientra nei due modelli ed inventano la figura della donna angelicata, prima di essere donna-angelo è semplicemente una donna che in linea con il “De amore” è in grado di tirare fuori dall’uomo tutte le conoscenze importanti, è una donna sposata (non con l’uomo che dice di amarle) e che attraverso il sentimento che riesce a suscitare (sebbene non venga consumato) è in grado di tirare fuori dall’uomo le virtù e conoscenze personali, questa virtù poi diventerà morale e quindi in grado di convertire al cristianesimo (qui siamo al Dolce Stil Novo) fino che la donna consente la conoscenza di Dio (Divina Commedia). La donna in grado di suscitare nell’uomo i sentimenti e le conoscenze migliori è nel Canzoniere di Petrarca che si conclude con una canzone alla Vergine, quindi Laura muore e viene sostituita dalla Vergine, quindi non diventa santa come Beatrice ma il movimento è identico, e così tutte le donne degli stilnovisti, le quali incarnano la capacità di fa arrivare alla fede. Quindi la scrittura o delle sante o quella poetica che recupera una via intermedia tra santità e femminile declinato diversamente da Maria ed Eva. Le seguaci di Eva in letteratura sono le donne condannate, quindi le eretiche, anche loro appartenenti al ceto medio-alto, in quanto debbono avere una conoscenza della Bibbia e quindi in grado di leggere e scrivere, ad un ceto medio-basso appartengono le streghe che hanno un sapere più vicino alla natura. Eretiche e streghe condividono con le sante un elemento, cioè che spesso quel che hanno detto e fatto ci arriva attraverso una mediazione, per le seconde i confessori e le consorelle, quindi c’è una grande importanza per quanto riguarda i saperi situati; per le prime quel che abbiamo deriva maggiormente dagli atti processuali, una delle prime cose che aveva l’Inquisizione era cancellare i testi prodotti dagli eretici. Le cose cambiano nel 1500, perché l’Umanesimo è più laico rispetto alla cultura precedente e quindi le donne come oggetto di rappresentazione rimangono nella lirica, ma iniziano ad avere un ruolo diverso nella trattatistica, es. gli Asolani di Bembo, c’è una maggiore stratificazione della rappresentazione del femminile e la figura della donna combattente viene recuperata nel poema cavalleresco dalla tradizione medievale a tal punto che Ariosto dedica a questo tema il XX canto dell’Orlando Furioso e nomina tutte le donne importanti e a lui contemporanee, come Vittoria Colonna. Il canone conserva dal 1500 più i nomi delle donne che scrivono, quindi non si hanno più solo scritture tramandate da altri soggetti, ma anche i generi più tradizionali. Si comincia anche però a parlare di una figura non positiva, la cortigiana, come non solo donna di palazzo, ma con un’accezione di prostituta, anche perché la maggior produzione di stampa veniva dal Veneto dove la figura di cortigiana-prostituta era riconosciuta, quindi abbiamo scritti di cortigiane che descrivono come si diventa tali ed inizia una trattatistica specifica su quest’attività spesso scritta da donne. 26 Con il Barocco la situazione politica italiana cambia. Quello che nel 1500 non poteva accadere ma che era auspicato da Guicciardini e Machiavelli era un principe unico che potesse unificare l’Italia, ma non fu possibile perché entrambi avevano sopravvalutato la reggenza di Lorenzo il Magnifico, infatti l’Italia era frammentata. La situazione nel 1600 peggiora ancora di più a causa delle guerre di successione che vengono combattute in Italia ed essa si frammenta ancora di più, questo ha una conseguenza sul fare letteratura: gli autori/autrici sono più mobili, prima la cultura veniva in Italia ad imparare, ora è l’intellettuale italiano che va fuori dall’Italia in quanto i regimi sono soprattutto accentratori e permettono ai letterati di scrivere solo quel che vogliono loro, insieme all’Inquisizione. Questo movimento di letterati comporta anche che si guardi a cosa si fa in Europa per la prima volta, non è l’Italia a dettare le regole della lingua, delle forme e dei generi letterari, ma comincia molto lentamente a guardare quel che avviene fuori, da questo nascono generi letterari che prima non esistevano nella nostra tradizione, anche se con diverse caratteristiche. Si sviluppa la trattatista non dialogica, cioè il pamphlet in cui l’autore/autrice prende posizione senza necessariamente essere dialogico (come era nel 1500) in esso c’è una sola voce narrante che espone una teoria, uno dei temi che diventa centrale nella trattatistica è quello della superiorità tra uomo-donna. Quindi la prima modificazione è il progressivo abbandono del trattato dialogico a favore del trattato mono-vocale sul modello del pamphlet. Un altro elemento importante sono i romanzi nel senso moderno del termine. In Europa già dai primi anni del 1600 già c’è il Don Chisciotte e tutte le sue imitazioni sul modello del romanzo in prosa, anche in Italia c’è una stagione ricca di romanzi di cui si è persa traccia perché il romanzo è arrivato in Italia come un genere marginale perché destinato ad un pubblico vasto, mentre il Italia i generi hanno un pubblico molto ristretto. In genere il romanzo in Italia è contrapposto al poema epico, genere considerato come forma nobile di letteratura, il romanzo è considerato una traduzione in prosa per il “popolino” indegna delle gerarchie dei generi più alti, ma da noi ci fu una grande produzione di romanzi, infatti la stampa era diventata competitiva e voleva arricchirsi con dei testi letti da un numero alto di persone. L’introduzione dei caratteri mobili nella stampa abbatte i costi di essa e questo permetteva una maggiore tiratura e quindi si cerca un numero maggiore di persone che leggono e dei formati più versatili (piccoli), questi elementi incidono sul fare letterario perché l’autore sa che il libro richiederà determinate forme di produzione. Un altro elemento importante è che più aumentano le persone che viaggiano più va creata una letteratura che interessa loro e che sia trasportabile. Il romanzo si diffonde anche perché leggibile e scritto per il piacere della letteratura, senza finalità didascaliche, quindi sono perlopiù romanzi avventurosi o storici, un grande autore fu Brusoni; ci sono addirittura serie di romanzi con il titolo di mezzi di trasporto, es. “La peota smarrita”, ad indicare che il tempo che va riempito è quello del viaggio, sia le persone in generale che gli intellettuali viaggiano e la letteratura va dietro questo. Molti romanzi sono di traduzione inglese-francese. I romanzi seguono tre grossi filoni: storico, religioso (di ambientazione clericale) e quello cavalleresco-avventuroso (costruiti sulla suspense e sul rallentamento della vicenda, a volte in diversi volumi). In Italia ci si inizia a domandare varie cose sui diversi generi, in un primo momento si discute sulla figliazione del romanzo dal poema epico, poi tra ‘600-‘700 sul rapporto con la narrazione storica che aveva una gran parte di invenzione. Dato che la storia insegna ci si inizia a chiedere se insegnasse meglio la storia o il romanzo, nel 27 grandi illuministi italiani che per primi si dedicano alla narrazione della storia della letteratura italiana per cui i loro giudizi sono tenuti molto in conto ed è per questo che Cornaro a molti sia sconosciuta. Tagliaboschi scrisse che la Cornaro “risultò una stella brillante ai suoi coevi, non per intrinseca luminosità, ma perché sola nel cielo altrimenti buio delle donne acculturate”, questo nella “Storia della letteratura italiana”, pubblicata nel 1780, segnò la chiusura definitiva della fortuna italiana ed europea della Cornaro. Scrive inoltre che l’eccezionalità la rese famosa, ma nulla più di doti. Cornaro invece non è un fenomeno isolato nel 1600, quindi una parte delle accuse di Tiraboschi deriva dall’ignoranza, ce ne furono diverse come ad esempio Maddalena Salvetti. Salvetti nasce a Firenze nel 1557, quindi ha un pezzo della sua esistenza radicato nell’ultima parte del ‘500, da due nobili fiorentini, si occupò di teologia, quindi un argomento pericoloso, e questa sua attività di studio continua anche dopo il matrimonio, quando l’idea era che l’attività di studio fosse occasionale in attesa del matrimonio; la diffusione dei suoi contenuti filosofici avviene attraverso la lirica, genere alto non praticato da chi ritenuto incapace di usarlo, pubblica una raccolta “Rime toscane” in cui fa a gara consapevolmente (infatti li cita) con i poeti e filosofi più importanti del periodo, cioè Tasso e Chiabrera. Salvetti muore nel 1610 e passa il testimone ad un’altra poetessa di levatura e studiosa di teologia e filosofia, cioè Margherita Sarrocchi. Sarrocchi è campana e nasce nel 1560, lascia la Campania per studiare a Roma, la sua formazione rispetto a quella di Salvetti è più enciclopedica, parte infatti dalla conoscenza della filosofia e della teologia, poi amplia al greco, lettere e matematica, ha una concezione tardo-rinascimentale della cultura, quindi una concezione che vede la cultura come più forme di sapere non specifiche; a Roma frequenta gli intellettuali più importanti del periodo, tra cui Giambattista Marino. L’opera principale di Sarrocchi è un poema epico che racconta le gesta di un patriota albanese ed è intitolata Scanderbeide (dal soprannome del protagonista), siamo nel periodo in cui Marino scrive il poema Adone, ma quello di Sarrocchi è poema radicato nella contemporaneità politica e storica, dedicato ad un personaggio appartenente alla realtà storica (non ad un personaggio mitologico) e ne costruisce la mitologia di questo eroe, ecco perché dal punto di vista professionale il rapporto con Marino si rovina, perché quella di S. è un’opera epica impegnata politicamente in un secolo in cui i letterati si tenevano lontani dagli impegni politici e, ancor con più coraggio, si schiera dalla parte dell’indipendenza di uno Stato. Quella di S. è una scelta che va contro la cultura dominante italiana, usando il genere dominante in essa, è un tradimento del genere, la scrittura delle donne pratica questo tradimento, cioè apparentemente assume la forma dominante di un genere letterario specifico per svuotarla dall’interno e riempirla di altro. Un altro grande rapporto della S. è con Galilei, è una strenua difenditrice della fisica galileiana, di questo c’è una testimonianza: un amico di Galileo, Bettoli, scrive da Perugia alla S. per sapere cosa ne pensa della scoperta del telescopio, quindi la invoca in qualità di persona autorevole riconoscendo la sua grande erudizione e considerandola come testes veritatis, scrivendo inoltre che lei ha costruito un circolo intellettuale attorno a sé, quindi lui pensa che lei sappia tutto della cosa che lui le chiede perché essendo la novità del momento crede che lei ne abbia discusso con gli intellettuali che la circondano, dunque S. è considerata una figura talmente importante e autorevole da ritenere che la sua opinione su un argomento scientifico è ritenuta fondamentale come quella di Galileo. Altre testimonianze la vedono discutere con i pittori del tempo. Un’altra donna importante del periodo è Artemisia Gentileschi (seconda metà ‘500, da famiglia di 30 pittori), figura anche lei scomparsa, fino che a metà del ‘900 Longhi ha riportato alla memoria la sua produzione artistica; la riscoperta della G. ha permesso la riscoperta di tutta una serie di figure di scrittrici ed ha smontato il mito della figura di pittrice femminile come quella che dipingeva fiori e nature morte, infatti lei con la sua pittura rappresentava i miti, le morti e altre scene potenti della tradizione, quindi distrugge il topos che si era creato attorno alla pittura femminile. Artemisia crea anche una scuola di pittura a Napoli, ma la maggior parte della sua fama è legata al processo, quindi come venivano recuperati i documenti delle eretiche e delle sante, ciò vuol dire che il processo vedeva come imputato Artemisia, non lo stupratore, A. subisce la frattura delle mani perché confessi di aver tentato il pittore che l’aveva stuprata. Dunque, anche sulla figura di Artemisia si è voluta fare un’azione di eliminazione delle notizie relative a lei e poi si è ricostruita la sua figura attraverso le sue lettere. Quando ci sono queste figure occorre pensare che attorno vi sia un tessuto sociale e culturale che ammette determinati comportamenti. Lucrezia Marinelli, del 1571, è veneziana e nata in una famiglia di medici (padre e fratello), quindi come Artemisia c’è una trasmissione di sapere famigliare, e quello veneziano è un ambiente aperto e quindi non ci sono contrasti al sapere di conoscenza di Lucrezia. Marinelli si interessa alla letteratura, alla filosofia e alla musica; il genere che pratica è il poema eroico, quindi quello da poco teorizzato da Tasso, che viene dato alle stampe nel 1595 con il titolo “La colomba sacra”, nell’incipit vengono citati quattro intellettuali che sono l’espressione dei circoli letterari più importanti a Venezia in quel periodo, tanto li conosce quanto frequenta questi circoli tant’è che nel 1600 il più importante stampatore veneziano pubblica il testo principale della Marinelli: “Le nobiltà e le eccellenze delle donne ed i difetti e mancamenti degli uomini” quindi un trattato in cui per la prima volta, dopo secoli nel dibattito tra genere maschile e femminile, c’è una voce femminile che dice la sua su questo tema. In questo testo M. parla riguardo al tema del dolore, contrappone al dolore provato dall’uomo in battaglia il dolore provato dalla donna alla perdita di marito e figli generati essi stessi con dolore, c’è dunque un punto in cui a partire dall’esperienza individuale e dell’esperienza concessa alla donna per eccellenza (quella della maternità), quindi la M. da un punto sempre visto con debolezza (donna madre=vulnerabile) ne fa un punto di forza la donna è capace di sopportare la sofferenza più degli altri. Quindi abbiamo visto queste donne che si muovono tra la conoscenza scientifica (prima solo maschile), che frequentano circoli intellettuali (quindi allo stesso livello di autorevolezza che la cultura riconosce agli uomini), donne che fanno propria la produzione del poema eroico e in versi, trasformandolo in discorso non più sul piano amoroso, ma sulla forza ed interpretazione politica, donne che praticano la forma del trattato e donne pittrici. Nel 1700 ci sono cambiamenti di rapporti tra Stato e Chiesa, la Francia e l’Inghilterra hanno una Chiesa separata dal controllo di Roma; è un secolo in cui la classe borghese diventa sempre più importante in Europa, il basso clero si è emancipato dal controllo centrale dello Stato della Chiesa e dal dispotismo illuminato del ‘700; tutti questi fattori portano ad un cambio della concezione culturale e verso una tendenza un po’ più democratica rispetto al secolo precedente. In Italia l’area più importante è quella dell’assolutismo austriaco, Maria Teresa d’Austria principessa illuminata ed aperta ad una serie di modificazioni sociali e culturali importanti. Parini era il ministro della sanità sotto di lei, quindi nel ‘700 ci sono personalità che sono, oltre che letterati, impegnati politicamente, sono attivi nella costruzione del dispotismo illuminato, quindi quella forma di attenzione di un governo centralizzato, ma alle condizioni complessive. Ci sono numerose donne che nel ‘700 frequentano l’università di Bologna, sia le materie 31 umanistiche che quelle scientifiche, tra cui medicina come faceva Trotula (unico nome di donna che figura tra quelli dei medici della scuola medico salernitana del XIII sec., autrice di un trattato di ostetricia). Le donne che praticavano medicina, le curatrici, finivano nel grande gruppo degli eretici, solo nel 1700 si ha una professoressa di ostetricia (Maria delle Donne), ma la personalità più importane è Maria Gaetana Agnesi (1718-1799) studia filosofia e scienze naturali. Agnesi si pone una questione importante: quella del sapere e scrive (1748) un testo che è intitolato “Istituzioni analitiche ad uso della gioventù”, cioè un manuale universitario, a tal punto che Agnesi insegna all’università di Bologna matematica e storie naturali. Dunque laureata, scrive un manuale di formazione per la gioventù ed ottiene la cattedra universitaria. A questo punto si crea una serie di donne intellettuali, ma la cosa importante è che la trattatistica di difesa del genere femminile abbandona la contrapposizione di maschile e femminile e inizia a diffondersi un dibattito sull’opportunità degli studi delle donne, cioè che le donne studino, soprattutto per quanto riguarda l’istruzione superiore (infatti le basi dello scrivere e del leggere già c’erano nella classe aristocratica) nel campo scientifico. Un atto fondamentale del luteranesimo fu la traduzione in tedesco della Bibbia, fatta dalle donne le qual sono traduttrici della Bibbia ed è per questo che le questioni sulla traduzione del testo sacro dal punto di vista teorico nascono in Germania. Il dibattito in questo momento vede al centro la necessità di studiare per avere pari opportunità. Elisabetta Caminer Turra fu una giornalista del ‘700 per “L’Europa letteraria” e “Il giornale enciclopedico”, fu anche traduttrice; la sua collaborazione con questi periodici non fu solo di tipo narrativo-letterario, ma pubblicò anche articoli. L’attività culturale delle donne portò poco a poco una maggiore attenzione alla situazione politica, ci sono infatti due donne importanti nell’Illuminismo italiano: Giulia Beccaria (mamma di Manzoni) e Eleonora de Fonseca Pimentel la quale partecipò ai moti della repubblica napoletana del 1799, quindi rappresenta per eccellenza la prima forma significativa di partecipazione ad una situazione politica dello Stato italiano, per il suo forte impegno politico fu impiccata perché ritenuta partecipe di questi movimenti. Pimentel fu anche lei una giornalista, scrisse sul “Monitore napoletano”, giornale fondamentale del ‘700 e primo periodico politico nella Repubblica di Napoli, lo fondò e diresse e lo usò per diffondere le sue idee politiche (idee che venivano dalla rivoluzione francese); nel contesto la sua figura fu così significativa che la sua idea politica delineata sul giornale raggiunsero la Francia e che lì vennero utilizzate come base per la propria Costituzione. Giulia Beccaria (1762-1841) visse i moti risorgimentali, frequentava gli ambienti illuministi; il padre fu uno degli illuministi più antichi, ma decise che si dovesse sposare e le fece sposare Pietro Manzoni che lei presto abbandonò portandosi via suo figlio. Giulia Beccaria è un importante modello femminile perché nella linea della figura femminile come costitutrice di circoli intellettuali, la sua casa a Parigi diventa un circolo intellettuale aperto sia a curiosità che a riflessioni più importanti, una parte della critica interpreta l’apertura di A. Manzoni a pensieri filosofici e religiosi di matrice diversa da quella cattolico tradizionale italiana legati all’aria che si respirava nell’area del circolo della madre. Con il 1800 e il 1900 si inizia a vedere una modificazione sociale importante innanzitutto legata alla famiglia. La famiglia tra ‘700 e ‘800 subisce delle modificazioni importanti, dal punto di vista giuridico viene sancita l’inconsistenza giuridica delle donne, cioè il responsabile della figura femminile nell’atto 32 visione astratta dei sentimenti che corrisponde ad un modello che ha finalità di altro tipo rispetto al raccontare la condizione reale dei rapporti uomo-donna nella famiglia e al di fuori, è una figurazione che nasce da una concezione letteraria maschile. L’istituzione matrimoniale reale non corrisponde con quella raccontata dalla letteratura, un es.: è Una donna di Sibilla Aleramo, in cui la protagonista lascia la famiglia (marito e figlio) per fare una carriera intellettuale (giornalista) questo serve per denunciare una situazione reale in cui ciò non è possibile essere madre e produttrice intellettuale, anche precedentemente era un’eccezione una madre che una volta divenuta tale continuasse a scrivere. Quindi, il romanzo sentimentale permette una maggiore libertà in quanto poco normato, ma permette anche di definire un’altra figura del sentimento corrispondente al contesto sociale e alle sue regole, una rappresentazione più realistica che è anche una denuncia di quella negazione di sé che la donna deve subire per rimanere dentro le convenzioni sociali. Questo passaggio è particolarmente significativo per l’esemplificazione che ci dà di quelle che possiamo ritenere le determinazioni con cui il sociale agisce sulla scrittura delle donne. Innanzitutto l’appartenenza sociale e di classe è una determinazione, infatti nascere in una classe non ricca rappresenta in questo momento una limitazione, infatti se la famiglia originaria è ricca si ha la possibilità di accedere agli strumenti che consentono di arrivare al lavoro intellettuale, dall’altra parte è raro che possa avvenire, nel caso di Matilde Serao il padre era già un intellettuale e ci tiene a fornire anche a lei un’educazione. Legata all’appartenenza sociale è significativo il grado d’istruzione che è direttamente proporzionale a quello di provenienza sociale; via via che l’istruzione si allarga, insieme ala diffusione della scrittura e delle forme di produzione scritta diminuisce l’ostacolo e aumenta la possibilità di accesso (all’istruzione). Continuano ad essere importanti i salotti, essi sono ambienti elitari, infatti sono tenuti da una persona di alto rango che sceglie chi accogliere, quindi non è uno spazio di inclusione. Ricordiamo anche lo sviluppo di canali di diffusione che vanno dall’editoria ai periodici, più il canale di diffusione è ampio e condiviso e più l’ostacolo della comunicazione della scrittura viene meno, questo perché il soggetto che scrive partecipa in modo profondo al sistema letterario e culturale. Un altro elemento storico importante tra l’’800 e il ‘900 è la dichiarazione del Regno d’Italia (1861) che comporta dal punto di vista culturale due conseguenze importanti. La prima conseguenza è la percezione che esista uno Stato di fatto e di diritto che coincida con una lingua nazionale e la delusione che l’Italia ancora non è unita (mancano all’annessione sia Roma che la questione veneta), manca ancora un’integrità corporea seppure c’è un’integrità linguistica. La lingua però era elitaria, non veniva parlata, ma era una lingua letteraria. La seconda conseguenza è che il Regno unitario che esce da questo processo rappresenta per i ceti intellettuali che vi hanno partecipato una delusione. Si era creato un regno non costituzionale; lo spirito che animava il processo risorgimentale non era condiviso e gli intellettuali se ne accorsero, infatti la situazione socio-economica dei territori unificati era profondamente diversa dal Nord al Sud; è un Stato che non riconosce il suffragio universale, era una votazione basata sul censo; era un Regno monarchico, quindi c’erano i privilegi delle classi aristocratiche. Tutto ciò appena scritto non era quel per cui avevano lottato gli intellettuali risorgimentali, quindi furono molto delusi. C’è anche da ricordare che quel che c’era stato precedentemente fu il Romanticismo che aveva fatto dell’autodeterminazione dei popoli uno degli elementi fondamentali del ruolo degli intellettuali, si recupera il concetto di popolo, il concetto che intendiamo noi ora, quindi “popolo” che intende tutta 35 la sua totalità. Il Romanticismo aveva anche costruito un discorso politico sulla centralità di tutto il popolo nella costituzione dell’identità nazionale, questo aveva tradotto nel mito che la letteratura che meglio esprime la Nazione è quella che viene direttamente dal popolo, come i cantati e i poemi anonimi. Lo Stato che sarebbe dovuto uscire da questo processo, quindi, avrebbe dovuto dare visibilità al popolo nella sua complessità. Quindi, il secondo Romanticismo (che subentra dopo l’Unità d’Italia) si fa interprete di questa delusione mettendo in crisi le idee romantiche, l’ideale romantico convive con la consapevolezza della distruzione cui è destinato, cioè la riflessione dell’intellettuale dell’epoca si incentra sul dualismo tra spiritualità e carnalità, tra anima e razionalità, visti come due elementi di contrasto inconciliabili nell’uomo e che nello Stato diventano tra la necessità di governare attraverso leggi che commettono un’ingiustizia e l’aspirazione al bene supremo per tutti quanti, è una sorta di compromesso sia politico che intellettuale. Gli scapigliati (gli intellettuali del II Romanticismo) sono estremamente critici con il governo appena nato, quindi se il dibattito intellettuale di Manzoni e Leopardi era sull’astratta teoria della giustizia e del bene, gli scapigliati invece richiamo alla necessità di declinare quest’astrazione nella drammaticità della vita individuale, quindi quell’aspetta dell’umanità che appartiene alla quotidianità e dunque un destino di morte e sofferenza. Per una serie di ragioni legate a quanto appena scritto, il genere che meglio dà voce a questa situazione diventa il romanzo. Ad esempio con Fogazzaro si è dopo gli anni ’70 del 1800, fu autore di due romanzi “Piccolo mondo antico” e “Piccolo mondo moderno”, il discrimine tra i due è l’Unità d’Italia, infatti nel primo il protagonista va a combattere una delle guerre d’indipendenza; nella narrazione sentimentale del “Piccolo mondo antico” viene raccontato come ancora dopo l’unificazione non ci sia una compenetrazione delle diversità di classe e sullo sfondo si raccontano le vittorie e sconfitte delle guerre del processo risorgimentale e come queste aumentino soprattutto nelle classi aristocratiche il senso di sicurezza, cioè che questo privilegio sociale è difficilmente rimovibile. “Piccolo mondo antico” vorrebbe raccontare il “dopo”, cioè il ritorno dalla guerra e la costituzione dello Stato, invece l’unica salvezza che ha il protagonista è non la possibilità di costruire completamente il nucleo famigliare, ma la fuga nell’ambito religioso, infatti il protagonista diventa sacerdote. Quindi in uno Stato che non soddisfa il bisogno di idealità poiché a malapena si occupa delle necessità materiali, l’unica fuga è ancora nella trascendenza. Questa è una profonda denuncia della situazione del popolo per cui si generano altre forme narrative come il superuomo di D’Annunzio che estremizza l’atro polo, l’aristocrazia intellettuale che non considera il popolo. La formula risolta da Fogazzaro, di narrare insieme il contesto politico, sociale e storico e una situazione sentimentale in cui questo contesto ricada all’interno di una condizione individuale, riguarda quasi tutti i romanzi del periodo, è una lettura profondamente critica dell’idea che lo Stato unitario avrebbe consentito a tutti di esprimere le proprie personalità. Verga su questo è chiarissimo, infatti mostra che il destino avanti a noi non è di felicità, lo Sato non assicura la felicità come era pensato per l’Illuminismo, il Risorgimento italiano era imbevuto di Illuminismo, auspicava ad uno Stato che garantisse la felicità e il benessere di tutti. Il romanziere e la romanziera se ne fanno voce, il romanzo diventa lo strumento per denunciare la delusione degli intellettuali raccontando la dinamica del ceto intellettuale. Siccome la scrittura delle donne tiene presente la tradizione e il proprio discorso genealogico, essa entra in contatto con questo sistema, quindi da una parte è consapevole del discorso fatto su questo (quindi che ciò che raccontato è anche una conseguenza negativa del progetto). 36 Ricapitolando, abbiamo detto che ci sono dei cambiamenti generali come la modificazione dello statuto famigliare, modificazioni nel campo editoriale, apertura a lavori prima preclusi, crescita e consapevolezza di una questione femminile condivisa e quindi una costruzione di rete insieme ad altre donne. Tutto ciò comporta un inserimento femminile sempre più consapevole ed attivo nel contesto sociale, ma anche un inserimento che porta a riflettere sulla propria identità e condizione, è quindi un movimento di andata e ritorno dall’individuale al collettivo e viceversa, cioè soggetti che impongono la propria presenza e soggetti che facendo questo si interrogano su di sé. Dall’altra parte c’è una situazione condivisa anche dalle donne, le quali devono via via somatizzare quel che ha portato l’unificazione italiana e quel che ha comportato, quando gli intellettuali e le intellettuali si pongono di fronte a queste situazione utilizzano la scrittura come uno strumento che è sia di denuncia sociale che di denuncia di una determinata situazione, quindi se l’intellettuale denuncia la propria impossibilità di credere nei suoi ideali, le intellettuali denunciano una serie di istituzioni che invece di garantire lo sviluppo dell’identità singola la precludono. Per denunciare questi elementi in Italia si usa il romanzo e le donne lo sfruttano ancora di più perché da una parte avanzano una critica nei confronti della rappresentazione del sentimento nella tradizione letterale dicendo che non corrisponde a nessuna realtà, dall’altra parte utilizzano il romanzo per denunciare i disagi sociali legati alle classi e/o alle donne. Tutto ciò ci fa comprendere come mai molte scrittrici si arrabbiavano se definite femministe, infatti percepivano la loro azione come socialmente complessiva e che mirava a lavorare sui disagi sociali indipendentemente dal sesso generati da un’istituzione appena nata che doveva assicurare felicità. Quindi questo fastidio derivava dalla percezione della propria pratica come certamente una pratica politica la cui finalità principale non era richiamare l’attenzione sul ruolo della donna, ma su una situazione sociale sbagliata rispetto ad un’idea di Stato che doveva garantire felicità a tutti. In questo contesto si pone Enrichetta Caracciolo (Il secchio di Duchamp). Enrichetta scrisse un romanzo storico sul modello manzoniano, nonostante sappia che precedentemente c’è stato un dibattito fortissimo all’interno della produzione letteraria italiana da Foscolo a Manzoni sulla qualità del romanzo storico. Un altro elemento importante del legame tra romanzo e processo risorgimentale è nel fatto che la storia non è più un elemento di confronto col romanzo (ad es. quale istruisse o corrompesse di più tra i due), ma ora il romanzo deve raccontare la storia o contemporanea (come “Le ultime lettere di Jacopo Ortis”) o antica. Nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis (Ugo Foscolo) la moglie (e madre di Teresa) vive separata dal marito perché lui vuole programmare il matrimonio della figlia come era stato programmato il suo, quindi non potendo imporre la sua volontà la moglie se ne va, invece la madre di Jacopo è presente continuamente a preservare l’idea della sopravvivenza. Quindi le due figure di madre all’interno dell’Ortis hanno una potenzialità negativa, come quella della madre di Jacopo che lo vuole distrarre dal processo risorgimentale portandolo via dalle arie di combattimento, la madre di Teresa è priva di potenza politica è al di fuori del romanzo, di lei Foscolo non scrive nulla tranne (tramite Teresa) che vive lontana per questo motivo. (Tornando al discorso che il romanzo deve raccontare la storia) In Manzoni è raccontata una storia antica che racconta allegoricamente la storia presente, quindi (Manzoni ne è l’esempio) il romanzo fa un percorso in cui la dimensione storica è presente, come succede anche nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis, la storia è necessaria in questo momento, in quanto è il tema su cui l’intellettualità si interroga. 37 quell’atteggiamento di delusione o di non sufficiente appagamento delle risposte che lo Stato italiano dava alla situazione sociale. “Opportunità e giustizia del Decreto” dimostrare e confermare con argomenti di fatto, cioè verità vissute, non con argomenti inventati, ma con fatti veri. “Disingannare a un tempo coloro, se pur ne restano ancora di buona fede, che tenesser quei luoghi per asili di tutte le religiose virtù”, riprende e ribalta il dittico usato dalla baronessa prefatrice, con la prefatrice era citata prima la denuncia della condizioni di depravazione del clero e poi dopo l’utilità del testo all’Italia, qui invece è rovesciato: prima il documento di appoggio politico, poi la condanna morale, è lo smascherare quei misteri che fanno credere che nei conventi si pratichi la virtù. “Che la gente chiusa ne’ conventi sia ormai inutile affatto alla società, non v’è chi l’ignori” Qui subentra un concetto fondamentale che ha ragione di essere in quanto Enrichetta è una donna che racconta la condizione dei conventi e monasteri femminili che sono quasi tutti di clausura. Gli ordini maschili spesso hanno un’attività anche esterna al convento (es. di guarigione o i Francescani). Quindi lei dice che queste figure sono inutili alla società, non sono realmente inserite né inseribili in un sistema sfruttabile dal punto di vista sociale. “Ma non basta: voglionsi pure svelare certi misteri, per mostrarla non tanto inutile quanto, e anche più, nociva, siccome quella che rappresenta un ordine d’idee in opposizione e in contrasto con le idee non pur professate dagli uomini meglio pensanti del secolo, ma già radicate eziandio nella pubblica e generale opinione.” “Ma non basta: voglionsi pure svelare certi misteri” è l’altra cosa che vuole fare, quindi oltre a dire che quei luoghi sono di depravazione, vuole dire che quelli non sono misteri Quindi vuole svelare quei misteri a cui non credono più solo le menti meglio pensanti (Illuministi), ma anche l’opinione pubblica comune. Tutto ciò per la reclusione maschile, non femminile. “Senza la reclusione monastica, tante giovanette d’ingegno peregrino si sarebbero elle vedute, per isnaturatezza di parenti e per sobbillamento di confessori, sepolte in carceri inaccessibili a ogni lume sociale, a ogni voce dell’umanità?” Cioè è uno spreco di ingegno femminile che si attua perché ad es. “isnaturalezza femminile” sta ad indicare l’uso delle famiglie di far diventare monache le parenti femminili scomode (es. monaca di Monza), per secondo si ha il “sobbillamento di confessori” quando i parenti non usano i confessori; queste due azioni rubano un “ingegno” che potrebbe essere destinato al progresso del regno appena creato e lo uccidono, il termine ignegno è vicino al termine di genio romantico (siamo ancora nella prima fase del secondo romanticismo), uno degli assunti principali del Romanticismo è ritenere l’opera letteraria produzione del genio ingenuo, cioè che non si coltiva il genio ma è innato perché nell’idea di creazione letteraria c’è una certa sacralità. “poi, nel pentimento d’un voto che le strappava irrevocabilmente agli affetti e ai doveri della famiglia pe’ quali erano state create dal Signore, dopo una esistenza cachettica, scendere immature nella tomba, senza il compianto della madre, delle sorelle, delle congiunte e compagne?” Quindi una vita depressa e inutile per la comunità e sé stesse, muoiono immature, non c’è creazione 40 della soggettività in quanto abbandonate in una reclusione in cui si abbandonano le spinte verso la creazione di sé. Non solo, sono recluse in uno spazio altro, cioè sono di clausura, quindi prigioniere in questo ambiente e morire senza il compianto dei genitori, ma nemmeno delle consorelle, infatti questa comunità forzata che si crea all’interno degli ordini ecclesiastici non crea una rete sociale. “So che non pochi, né inoperosi sono, colla sottana e senza, i partigiani del monachismo” Tra laici ed ecclesiastici sono molti coloro che sostengono il monachesimo. “e che potrebbero essi obiettare, che, se veri fossero i miei giudizi intorno agli effetti della reclusione monastica, tutte le monache, ora che ne hanno la libertà, avrebbero già abbandonato i chiostri; il che non avviene, massime nelle nostre provincie meridionali.” Questa è un’obiezione intelligente, infatti si chiede se per assenza di libertà e per autorità paterna, famigliare ecc. queste donne vengono obbligate a stare nel chiostro chiede perché ora che i chiostri non ci sono più non se ne vanno, la risposta è che per godere di libertà bisogna avere la consapevolezza di avere un’identità diversa da quella a cui si è stati costretti. “Risponderò che i confessori di quelle infelici fanno loro prima, anzi sola ed esclusiva cura del deprimerne e immiserirne gli spiriti, insinuandovi massime d’egoismo e di misantropia, che non sono certamente quelle della religione di Cristo, facendo lor vedere fuori del parlatorio la perdizione e l’abisso;” Cioè è un condizionamento psicologico, i cancellieri producono un condizionano tale per cui il fatto che uscire dal chiostro rappresenti la perdizione totale è tale che sono loro stesse a non voler uscire dal chiostro. La vera libertà si ha quando si ha la libertà di scegliere tra proposte diverse non quando una di queste viene imposta in maniera tale da sembrare l’unica soluzione possibile e questo non ha a che vedere, per Enrichetta, con la morale cristiana. “mostrando sul limitare del chiostro le maledizioni del Cielo e i fulmini di Roma,” Sono due cose diverse: le maledizioni del Cielo sono la perdizione eterna, i fulmini di Roma sono le punizioni che vengono dal mondo ecclesiastico (i processi). “pronti a scoppiare sul capo di chi osasse oltrepassare. D’altronde la mia è narrazione di fatti recentissimi: io cito date, luoghi, persone: ognuno potrà riscontrar la verità agevolmente” Qui Enrichetta riprende un punto centrale delle narrazioni miste di storia ed invenzioni, per Manzoni è un problema che esiste in quanto viene raccontata una storia di cui il lettore contemporaneo non ha un’esperienza diretta, quindi ha bisogno di informazioni storiche, è un problema che non si pone se viene raccontata una storia contemporanea, in quanto il lettore condivideva con il narratore la situazione esperienziale. Se si racconta una storia passata lo scrittore deve dare informazioni storiche, quindi Manzoni sapeva già che il paradosso del romanzo storico sta nel fatto che l'elemento di ostacolo è la distanza tra quel che viene raccontato e l’esperienza del pubblico che legge. Qui Enrichetta sa che i fatti recentissimi sono comprensibili, quindi tutti avranno modo di sapere che quel che dice è verità e quindi non riconoscibili dal lettore, quindi non ha bisogno di inserire altro che dati generali (le tabelle che inserisce). È un’operazione di documentazione, l’esperienza personale diventa un elemento di documentazione storica, cioè Enrichetta si pone essa stessa come documento storico e questo è la prima volta che succede. “Mi si potrà piuttosto apporre d’aver taciuto qualche particolare che mi riguarda, d’aver lasciato nell’ombra alcune vicende non indegne forse di esser tratte a miglior luce: ma io risponderò che il danno è tutto mio, avendo più d’una volta con ciò tolto alle mie Memorie il vantaggio del colorito e quel drammatico rilievo che le avrebbe fatte più attrattive. Ma a quel silenzio e a quelle omissioni 41 fui indotta dal rispetto dovuto agli estinti, alle famiglie, ed anche a me stessa.” Da notare che dice “io risponderò”, IO, cioè da a sé stessa una posizione autorevole ed autoritaria, non usa il condizionale attenuativo italiano. In seguito sottolinea che il suo scopo non è fare un’opera di estetica letteraria, ma vuole che le sue informazioni siano utili e non belle. È una voce narrante autorevole. Questa prefazione è datata 1864 a Napoli, la prefazione precedente si colloca nella patria letteraria di Firenze, Enrichetta difende invece la propria identità “Napoli”. È stato come dire che la sua è un’esperienza napoletana, ma vuole arrivare alla letteratura di tutta la nazione, la cui sede è Firenze. Dopo queste soglie il testo è composto da 25 capitoli in cui una piccola parte (cap. 1 a 4) riguardano la vita dell’attrice Enrichetta dall’infanzia all’entrata nel chiosco. Sono capitoli importanti perché Enrichetta mette al centro di essi tutti gli stereotipi sulla formazione femminile dell’epoca, compreso il fatto che i primi amori sono il prodotto di un’induzione che fa la cultura sulla mente femminile. Il terzo capitolo tocca un tema centrale della visione uomo-donna occidentale: la gelosia; qui Enrichetta fa capire che anche questo è un sentimento costruito socialmente, quindi chi lo vive risponde ad una serie di modelli tramandatogli che mette in atto perché la convezione sociale lo richiede. Il quarto capitolo parla del lutto del padre, l’infelicità di E. deriva dal lutto paterno, i soldi infatti finiscono, la madre si risposa e si sbarazza delle figlie collocandole in vari ruoli. E. ha per eredità del padre una rendita di cui lei potrà usufruire una volta maggiorenne, si vedrà che compiuti i 18 anni cambia il rapporto con la madre, prima era un’autorità dopo smette di esserlo ed E. coglie questa cosa. Anche Virginia Woolf dice che i soldi sono una cosa importante oltre ad avere uno spazio per sé, il problema dello spazio verrà poi trattato anche da E., c’è una comunanza tematica femminile. Denaro e spazio contribuiscono alla formazione dell’identità femminile, infatti solitamente l’uomo detiene la totalità dello spazio e decide la donna dove può stare e quanto può usare del denaro a disposizione. Tra il chiostro e l’abbandono comincia fino al cap. 17esimo il resoconto di quel che succede nella sua vita monastica. Lo spartiacque tra il quarto e il 17esimo cap. è il cap. 18esimo intitolato 1848 anno fatidico per l’Italia, anno in cui definitivamente si va verso l’unificazione dei regni sabaudi, e per E. che comincia a capire che l’Italia somiglia a lei, cioè così come il processo risorgimentale aveva il compito di liberare l’Italia dai vincoli stranieri che la stringevano, lo stesso doveva fare lei, l’Italia è la metafora di E., anche lei, infatti, doveva liberarsi dai vincoli che le erano imposti dalla vita ecclesiastica. È interessante, nella parte prima, come descrive il condizionamento psicologico a cui è sottoposta, condizionamenti tali che persino lei, che ha un grande senso di sé, non ha avuto strumenti per resistere al condizionamento psicologico che da parte del potere famigliare, ecclesiastico e la consuetudine popolare, anche lei che avrebbe potuto resistere cade nel vincolo pronunciando i voti. Tutto il resto del libro è un tentativo di annullare i propri voti, di far riconoscere come infondati perché estorti con il condizionamento psicologico i voti, questo è un punto importante anche della lotta femminista, cioè di portare a riconoscere che esiste anche una violenza psicologica oltre che violenza fisica. Il tema che E. affronta non sono tanto le coercizioni fisiche, ma soprattutto la coercizione psicologica che deriva dal condizionamento educativo sociale. 42 l’indigena aristocrazia, senza che le classi inferiori ne riportassero alcun vantaggio, dico che una delle prime e più cospicue famiglie di Napoli è la Caracciolo, alla quale mi onoro di appartenere. Mio padre, secondogenito di Gennaro Caracciolo, principe di Forino, nacque nel 1764. Abbracciò la carriera delle armi (ben tenue e scarso, per la legge allor vigente dei fedecommissi, essendo l’appannaggio de’ secondi nati)”, fa una riflessione: suo padre in quanto secondo genito non è erede e quindi poteva fare solo una carriera militare, le femmine in convento e i maschi militari. “e sposò di quarant’anni una giovanetta palermitana, che ne contava appena quattordici. Teresa Cutelli (così chiamavasi la donzella)”, donzella è un termine tipicamente romanzesco che proviene dal romanzo d’avventura, è un termine obsoleto anche per E., quindi questa parte si alimenta di una serie di termini che vengono dalla prima forma di letteratura letta dalle giovinette dell’epoca. “mi metteva alla luce il giorno 17 gennaio 1821, dopo quattro altre femmine, e mi dava il nome d’Enrichetta, nome d’una monaca zia paterna”, tutti questi dettagli obbediscono al vero della narrazione e gli danno verosimiglianza, non sta coprendo la propria identità, il fatto di appartenere ad una famiglia nobiliare di quel titolo accresce l’auctoritas dell’autore e dà ancora di più l’idea di testes veritatis perché è di nascita nobile e le famiglie originarie vivono in loro il meccanismo di funzionamento naturale dall’aristocrazia nella divisione dei compiti e dei ruoli tra figli e genitori. Quindi ci dà tutti gli elementi per capire le circostanze che spingono la sua famiglia ad agire in un certo modo. “Nacqui in Napoli nel palazzo di mia famiglia, poche settimane prima che l’Italia e la Grecia, questi due emisferi dell’antica civiltà, rialzassero la fronte a desiderii d’indipendenza”, inconsapevolmente, poi in seguito consapevolmente, crea un legame tra la propria biografia e la Storia che la circonda. Altra caratteristica della famiglia e di E. è il nomadismo, il padre è militare e si sposta frequentemente e la famiglia con lui: “e non aveva che tre soli mesi, allorché dalla famiglia fui condotta a Bari, essendo stato mio padre (che giunto era allora al grado di maresciallo) chiamato per sovrana ordinanza al comando di quella provincia.”. Dopodiché racconta un suo smarrimento privo di incisione, non ci accresce di indizi essenziali al racconto, ma diventa importante per due motivi: il primo “Rammento”, è il primo ricordo che abbiamo del soggetto, quindi contribuisce a costruire l’identità dell’auctor, il primo racconto dell’infanzia è la prima memoria dell’infanzia e viceversa la prima memoria dell’infanzia è la prima che merita di essere raccontata perché indica l’inizio del processo di formazione del soggetto che è voce narrante del racconto. E. si perse e quel che racconta è un tentativo di rendere movimentato il racconto dei primi anni inserendo un imprevisto capace di generare una suspence, è un tentativo di riprodurre il movimento di rallentamento tipico di un romanzo. “La precipitazione con cui mia madre ricuperò la sua diletta proprietà”, diletta proprietà è un termine importantissimo perché la figlia in genere è proprietà del padre, ma la madre di E. riveste un ruolo autorevole per tutta la narrazione e quindi viene già istillato nel lettore l’idea di un rapporto autoritario in questa fase, chi ha un vero elemento di potere e controllo è la madre di E. non il padre. Il trasferimento della famiglia da Bari viene raccontata come un’altra peripezia determinata da una tempesta. Tutti questi elementi: il finto rapimento, la terribile tempesta; in realtà non portano a nulla, sono elementi che in una narrazione normale sarebbero dotati di un potere di peripezia, ma di fatto non ottengono nulla. Finalmente giungono a Napoli e con queste peripezie si arriva ai 7 anni. 45 “Tre giorni dopo, il sole spuntava nello splendore consueto del cielo siculo, ed il mare, perfettamente abbonacciato, ci riprometteva un prospero tragitto. Giungemmo Reggio in poche ore di traversata, e cordialissima fu l’accoglienza usataci dagli abitanti in riva al mare. Quattro carrozze menarono la nostra famiglia al grandioso palazzo destinato a mio padre. L’amenità del luogo, l’allegra comitiva, la calabra ospitalità ci fecero in pochi giorni dimenticare e i disagi sofferti per tre anni nella capitale, ed il sibilo sinistro della tempesta. Facili a dissiparsi son le tracce che imprime la sventura nella puerile età. Presentiva io forse allora le tempeste e i guai che m’aspettavano?” Pur nella scarsa rilevanza di quel che ha appena raccontato E., la voce narrante chiude questa parte assumendo due funzioni essenziali che in genere appartengono al narratore omnisciente. Primo: la capacità di dedurre un significato universale dagli eventi che sono accaduti (quel che per gli antichi era la moralisatio), in genere si esprime con delle massime di verità a sostegno delle quali si richiama tutto quel che si richiama in precedenza. “Facili a dissiparsi son le tracce che imprime la sventura nella puerile età” è chiaro che questa è la voce narrante che assume la funzione moralizzatrice, ovvero ricava un insegnamento di natura generale da quel che è accaduto. La seconda osservazione riguarda l’ultima frase che invece rimanda alla funzione di regia in cui in forma dubitativa la voce narrativa anticipando ciò che verrà, cioè il rapimento e la tempesta come metafore di ciò che poi arriverà. Qui si è avuto un’anticipazione della forma del romanzo sentimentale e insieme una serie di costruzione del romanzo d’avventura in forma allegorica, cioè una parte di romanzo in cui le peripezie fungono d’allegoria i quelle che cambieranno l’esistenza di E.. L’educazione sentimentale era fatta prevalentemente sulla forma letteraria, questo emerge nel capitolo in cui parla dell’innamoramento, cioè il cap. 2. “Entrata però che fui nel quattordicesimo anno, le mie forme presero uno sviluppo inaspettato, al pallore succedette il vermiglio, che sembrava maggiore di quello fosse in effetto, pel colore bruno della mia carnagione. Disgraziatamente (se l’amore può chiamarsi disgrazia), allo sviluppo del corpo concorse precoce pur quello del cuore. Sparì d’un tratto la serenità imperturbata della puerizia; non più il riconfortatore balsamo del sonno. Mi sentii un vuoto nell’animo, vuoto sommamente penoso, che bramai di riempire coll’ottenimento d’un oggetto vago, indistinto”, vago ed indistinto sono due termini tipici del Romanticismo italiano, sono tipici di Leopardi. “non per anco da me stessa determinato. Bastava uno sguardo, un detto per conturbarmi la misura de’ palpiti”, in questo c’è poco realismo, sono tutti stereotipi che derivano dalla tradizione narrativa sentimentale romantica precedente. “Sopravveniva poscia il disinganno; quello sguardo era stato lanciato dal caso, quella parola era stata pronunziata per mera gentilezza, senza che il cuore vi avesse avuto parte alcuna. Rigorosa d’altronde era l’educazione che a noi dava la madre. Essa ci misurava l’ora che, per godere del pubblico passeggio, eraci lecito di trattenerci sul verone; la benché minima trasgressione poi era punita con severo castigo.”, è la madre a scandire il tempo, godere del pubblico passeggio, il pubblico corrisponde all’esposizione. Già nella sua giovinezza quindi il tempo dell’essere esposta all’esterno era già normato dalla madre che norma questo aspetto dell’educazione. “Poi era punita con severo castigo. Ma chi non sa quanto ribelli a’ castighi siano le aspirazioni del cuore a quattordici anni? Ben sa il ver chi l’impara, Com’ho fatt’io con mio grave dolore!” Spirò appunto nel verone l’ultimo de’ miei giorni allegri. Nella folla de’ vagheggini, che sfilavano al di sotto, distinsi un avvenente giovane, intento più d’ogni altro a 46 tributarmi sguardi d’ammirazione.” I vagheggini sono coloro che fanno la corte; folla è un termine che sarà poi importantissimo nel romanzo dell’‘800. Come nel De Amore la prima forma di contatto avviene attraverso lo sguardo, questa è una narrazione che ha alle spalle tutta la tradizione antica. Il corpo del ragazzo, che in seguito viene descritto ha grazia nelle proporzioni, nel senso rinascimentale del termine, quella che Castiglione definiva tale nel Cortegiano, qui emerge che E. sapeva di tutta la tradizione narrativa e letteraria precedente. Il ragazzo, Carlo, non era adatto e quindi la madre lo esclude. Il capitolo successivo è intitolato: “La gelosia”. Il suo incipit è: “Alludendo al tradizionale sistema di depravazione con cui gli or decaduti tirannelli della nostra penisola snaturavano i costumi de’ loro sudditi, scrisse il più acuto e più arguto de’ critici tedeschi, mancato non ha guari alle lettere, che il maestro Gioacchino Rossini era il solo uomo di stato dell’Italia. Heine definì così gl’istinti della stirpe latina colla profondità che non seppe impiegare nell’esame dell’indole germanica. Egli soggiornò in Napoli, e studiò da vicino il predominio tremendo della melomanìa nei Napoletani.” E fa già capire la diffusione della lirica, strumento popolare di diffusione degli ideali risorgimentali sul piano dello spettacolo (il romanzo lo fa in letteratura). Dice inoltre che la parte sentimentale, la modalità con cui si enfatizza e si racconta il sentimento ci fa apparire agli occhi degli altri (in questo caso ai tedeschi, con Heine) come un popolo destinato alla depravazione, il coltivare attraverso gli strumenti di comunicazione di massa il sentimento amoroso in tutte le sue forme, tra cui la gelosia, da parte dei governatori è un modo per controllare attraverso la depravazione i sottocorsi. “Fu detto pure, che con tre F un principe, discepolo di Machiavelli, avrebbe potuto governare comme il faut le genti dell’italia meridionale: Festa, Farina, Forca; la prima a favor de’ nobili, la seconda per i lazzaroni, la terza per i baffuti liberali. Di farina vi fu penuria talvolta, ma la festa e la forca hanno divertito i Napoletani con esuberanza.” Quindi anche la forca è uno spettacolo attraverso la quale si fa verso il popolo e si attua una forma di educazione. In seguito inserisce tutta un’altra serie di dati: “La “festa”, elemento primordiale e costitutivo del regime borbonico, dividevasi in tre specie; eravi la festa sacra, la festa di corte, la festa profana. Suddividevasi poi in cinque principali segreterie di stato: solennità ecclesiastiche, inseparabili da’ prodigi de’ santi, e da quelli dell’arte pirotecnica: ballo: teatro: accademia: carnovale. V’erano de’ giorni di gaia, in cui, se ballava il principe in palazzo, ogni suddito fedele, che non fosse reverendo o podagroso, doveva mettere le gambe in movimento. E negli ultimi giorni del carnovale, quando S. M., indossato il costume di maschera, e salita sull’indorato carro, a dritta e sinistra, lungo la via di Toledo, prodigava a bizzeffe, sotto la forma d’inzuccherati sassolini, le dovizie della regale sua munificenza, quale onore per ogni suddito devoto e leale di ricevere sulla faccia 47 museo di antichità può, al pari del monastero di femmine napoletano, presentare tanto piene di vita e di movimento le reliquie del Medio Evo, curiosamente incassate in lavori d’intaglio dell’epoca di Carlo V, le dipinture della Divina Commedia e del Decamerone, ristaurate dal pennello di Calderòn de la Barca, e di Cervantes? Il funebre manto della clausura salvò incolume questa necropoli, come lo strato lapillare del Vesuvio conservò i papiri d’Ercolano, e le mummie di Pompeia.” Ha messo in relazione la Divina Commedia e il Decameron con i prodotti che sono, secondo lei, il moderno rifacimento, cioè la modalità moderna di rappresentazione degli stessi intenti, quindi che le monache sono lasciate ad un livello di formazione medioevale senza lo sviluppo successivo. Cita poi delle fonti che dimostrano quello che lei sta dicendo rinforzando la sua tesi di come le donne siano preparate per entrare in convento. La negatività di questo genere letterario è contrapposta alla positività della sua biografia che sarà il contrario di una santità del convento, di un’agiografia, sarà il racconto di una emancipazione da questa forma di santità e dalle finalità della letteratura di quel tipo che nel suo tempo era chiamato ad esercitare. “Avendo intitolato questo capitolo “Scene e costumi”, riunirò in esso tutto ciò che relativamente alle monache ed ai preti ho io stessa veduto nei quattro monasteri da me abitati, o che mi giunse all’orecchio di altri chiostri napoletani; come pure farò laddove discorrerò de’ tre voti d’umiltà, di castità e di povertà delle monache. Seguirò questo metodo d’esposizione, per non aver a ritornare più volte sullo stesso argomento, troncando il racconto.” Anche questa è una tecnica manzoniana, quindi metterà insieme tutto ciò che serve per non interrompere poi il testo, proprio come fa Manzoni. Sono pause narrative che fungono, in Manzoni, da armamentario informativo per il lettore che prende tutto ciò che gli serve e procede nella narrazione; E. fa la stessa cosa. Quindi il modello di Manzoni è ben conosciuto da E. nella forma del romanzo storico italiano, forma diversa da quella anglosassone. Memoria, autobiografia, romanzo, catalogo cioè un testo di donna che conferma che l’utilizzo del genere letterario è un utilizzo innovativo che ibrida i generi, è un tradimento dei generi letterari, in quanto sono tutti generi che permettono una certa libertà in quanto non hanno una rigidità normativa e per cui E. li può fondere e muoversi tra essi a seconda delle convenienze. C’è un’atra definizione generica della Memoria significativa, la vicenda che ci racconta è tragica, l’enfasi del tono tragico non appartiene ad E., ma c’è un punto verso la fine, quando E. fa la spia, i pizzini vengono nascosti nella biancheria che esce dal convento, ma l’intelligenza di E. sta nel fatto che produca due tipi di pizzini. Una varietà che contiene l’informazione che deve uscire dal conventa, e un’altra che contiene esche perché E. sa di essere sottoposta a controllo da parte dei confessori e delle gerarchie ecclesiastiche inserendo false informazioni e prese in giro sui sacerdoti. Una volta al termine di questi pizzini inserisce un epigramma ironico che si riferisce al confessore per eccellenza di quel momento (Eziandio) che dice: “Vuol ragazze l’Eziandio… Non è prete anch’ei, per Dio? Prete, o frate, tanto basta: 50 Sono tutti d’una pasta.” Immediatamente dopo aggiunge: “Chiedo grazia al lettore di questa scappata: voleva quasi toglierla; ma le Memorie, non sono, siccome la storia, obbligate a sopprimere il lato comico.” Quindi la voce narrante ha una consapevolezza del genere letterario, sa che se avesse scritto una stria, nel senso di una costruzione di fini storici, non si sarebbe potuta concedere una licenza comica, in questo caso invece sì, infatti non serve ad altro se non ad alleggerire il tono che potrebbe sembrare tragico e per ribadire ancora che non sta facendo una storia, ma una memoria e quindi può mantenere il lato comico che appartiene alla realtà. Quindi nella Memoria c’è un realismo più ampio che consente di mantenere insieme elementi di natura diversa (tragici e comici) e c’è invece un vero storico che richiede solo serietà, la serietà del tragico appartiene solo alla storia, non alla memoria. Solo la Memoria che è narrazione di esperienza ed esperienza stessa può permettersi il comico senza venir meno alla rigorosità di ciò che sta facendo. Finora abbiamo toccato più volte la figura della madre vedendo che la funzione educativa sociale che norma, cioè, il rapporto del soggetto con la comunità, si manifesta quando il corpo di E. diventa dominante, quindi con l’adolescenza in cui la trasformazione del corpo coincide con la trasformazione della fase di crescita di E., questa fase coincide con la necessità di normare il rapporto del mutamento corporeo che il soggetto ha attraversato, con l’esterno. Via via che le forme ed il rossore di E. si manifestano, la madre acuisce l’educazione rendendola più rigida e quindi sin dal momento in cui l’identità del soggetto coincide con l’esposizione alla vista, il materno assume una funzione di controllo e coercitiva e questo si innesta con la prima forma della comunità e con l’altro da sé rappresentato dalla norma matrimoniale. Questo tema che nell’autobiografia di E. compare quasi all’inizio, cioè la modificazione corporea che entra il relazione con l’autorità moderna, si ripropone nel momento in cui E. entra nel chiostro. Questo perché l’entrare nel chiostro significa, nella pratica ecclesiastica, una morte ed una rinascita, quindi l’abbandono di un’altra forma di relazione con il corpo, relazione di tipo sociale in quanto il corpo inserito nella comunità, e l’ingresso come corpo in una comunità differente. Un altro motivo è perché il corpo subisce una serie di mutamenti, dal taglio dei capelli al cambio del vestito, il vestito è una forma di interrelazione sociale, esso è narrazione del rapporto tra corpo e il sociale che lo circonda. Questi due mutamenti, e quindi la mortificazione del corpo, significano l’abbandono di un corpo mondano per l’accettazione di un corpo religioso e tutto ciò che questo comporta. L’abbandono di alcuni elementi corporei rappresenta l’abbandono di un mondo e l’entrata ad un mondo altro, come E. stessa scrive. La conferma di questo si ha perché quando alla fine rientrerà nel mondo si ha il passaggio reciproco: “Cominciavano frattanto a crescermi i capelli, caduti la prima volta sotto le forbici di San Gregorio, e pel corso di tredici anni tosati come quelli delle pecore. A mano a mano che le treccie allungavano, mi parea di guadagnar terreno nello stadio della personale indipendenza, e mi pareva mill’anni che, non più tocchi dal ferro servile, si ripristinassero all’onore primiero. Mi rimaneva un’altra insegna della servitù: l’abito monastico.” Quindi ad un certo punto, quando si ritira in una sorta di regione esterna, le si allungano i capelli quindi nuovamente una modificazione corporea segna l’entrata in un mondo non coercitivo, non segna un ritorno in quanto E. non rientra esattamente nella condizione di partenza, infatti si contrappongono tre mondi: quella secolare dell’aristocraticità d’appartenenza, e quello finale di 51 liberazione. Il tema del rapporto con il suo corpo porta E. a riflettere sullo stimolo che esiste nelle scelte che dovrebbero caratterizzare i comportamenti che dovrebbero essere applicati in un monastero e quelli reali delle suore. Infatti, nel momento della vestizione, in cui E. abbandona il suo lato mondano, E. lo fa perché ha un concetto di onestà ed adesione al modello che la spinge, ma le altre monache non l’hanno fatto, cioè il cambio fisico non è consistito per loro nell’abbandono del mondo precedente. Racconta poi tutta una serie di caratteristiche comportamentali che rappresentano come il cambio fisico è simbolico per E., ma per molte delle consorelle è solo un travestimento, concetto importantissimo diverso dal concetto di nuova identità. 26 marzo 2019 Il corpo si manifesta con tutto ciò che è sua afflizione negativa. La prima narrazione di un sentimento amoroso si narra la prima volta dove c’è un cambio corporeo, sono pochissimi i passaggi in cui E. parla di sé, uno di questi punti è quello appunto dove lei parla del suo quattordicesimo anno di età, dove entra nella fase sentimentale del proprio percorso emotivo, quindi il corpo cambia e comincia a manifestarsi, questa è una figurazione. Il corpo ha il linguaggio di una malattia, la malattia è forma espressiva del linguaggio corporeo laddove esiste un impedimento, quindi nel momento in cui alla protagonista viene impedito qualcosa, in questo caso il corrispondere di un amore il corpo si ammala. Il ricorso di questa figurazione è determinato da una corrispondenza nel vissuto esperienziale delle donne in cui l’impedimento corporeo somatizza. Nel corso della narrazione anche storica, i soggetti più fragili esprimono attraverso la malattia o attraverso forme di essa la situazione di disagio. Dunque, è normale che la letteratura recepisca questa figurazione come manifestazione di disagio, quindi ogni volta che c’è un impedimento E. si ammala e questa forma di manifestazione corporea è comune anche ad altre monache sottoposte a questa situazione di disagio, E. parla proprio dell’isteria sua e delle altre come espressione della costrizione e della clausura a cui queste donne vengono sottoposte. Il corpo femminile in questa situazione si manifesta negativamente, non la potenza dell’innamoramento, non il libero sfoggio della propria corporeità, ma con la malattia. Quindi la sofferenza come forma di ribellione. Si tratta di figurazione, non di topos, la differenza tra i due consiste che il secondo è un termine che fa parte della retorica tradizionale e viene tradotto banalmente come un luogo comune, la caratteristica del topos è la ripetizione acritica di esso, quindi si riproducono degli schemi (es. il topos amoenus collega al luogo piacevole la prefigurazione dello stato d’amore, ma è sempre costruito secondo schemi precisi: acqua che scorre, boschetto, vegetazione di un verde brillante; tutti gli elementi hanno una fissità che corrisponde alla fissità che esso trasmette), il topos ha una sua fissità formale, nel senso che ci sono una serie di elementi che devono esserci e una fissità contenutistica che corrisponde al contesto letterario nel quale si introduce. La figurazione ha degli elementi riconoscibili che si ripetono, ad es. la malattia come manifestazione del corpo a cui è delegato il linguaggio, però può avere significati diversi che dipendono dal contesto in cui viene utilizzato, anche se all’interno dello stesso genere letterario (ad es. nella letteratura agiografica la malattia non trasmette solo un significato, ma anche diversi, infatti può essere punizione di una colpa, il corpo si ammala perché l’anima lo è, ma anche una prova di una santità), per questo il rapporto corpo-malattia non è un topos, ma una figurazione perché modifica il significato a seconda della finalità che lo stesso contesto dà a quell’immagine. Normalmente viene scelta a partire da un sapere condiviso, nel topos il sapere condiviso si crea, affinché un topos si identifichi come tale è necessario che si costruisca una tradizione letteraria che lo continui a ripetere, la figurazione è costruita da soggetti che condividono un determinato sapere, 52 giorni festivi.” Quindi il vestito è la manifestazione esteriore del corpo del raggiungimento del terzo ordine, cioè della raggiunta condizione di perfezione. “Questa veste adunque era la prerogativa che ne donava la voce attiva e passiva, e ci faceva partecipe de i beni del monastero.” Attiva e passiva, cioè non si seguiva solo la Regola del monastero, ma si era attivi in tutto ciò che concerneva il monastero, è questa veste che consente questo. “Questa medesima veste ne vestivamo ne i giorni estremi di nostra vita, con la quale si moriva e si andava alla sepoltura” Così si torna al punto iniziale chiudendo il cerchio. Il vestito e la morte sono strettamente legati; il vestito come forma di appartenenza ad un’identità e che segna una sorta di marchiatura, è segno della vestitura divina ricevuta, il vestito è lo stesso che si porta il giorno della morte, quindi il corpo e la morte sono unificati dal vestito. Colei che dà quest’altro corpo (il vestito) è la madre, infatti il discorso sul corpo (partito dalla morte) ha un legame fortissimo con il materno e la sua funzione. Una delle poche rappresentazioni nell’opera di E. del materno che non riguarda il rapporto con sua madre lega la maternità ad aspetti economici, diventa presagio del rapporto con il materno di E., infatti nel rapporto che lei ha con la madre i problemi sono finanziari. Questa prefigurazione si ha nella descrizione della festa dell’Assunzione di Maria, ricorrenza molto importante nella religione cristiana in quanto inserita anche nel calendario pagano e quindi rievoca il bisogno di mantenere una consuetudine di un’abitudine precedente al Cristianesimo, ma al contempo di trasforma in parte della storia biblica. La prima cosa che ci dice E. è che questa festa è un miscuglio di sacro e profano. “Questa festa, singolare miscuglio di sacro e di profano, di cristiano e d’idolatrico, di costume europeo e di indiano, mette in gran movimento le genti de’ paesi limitrofi e delle Calabrie. Due smisurati cavalli di carta pesta, montati da due giganti della stessa materia, veggonsi drizzati nella piazza dell’Arcivescovado. Una pelle di cammello, da’ Messinesi chiamato Beato (non so perché), copre due altri uomini della plebe. Il cammello si accosta ai venditori d’ogni genere, e questi, per devozione, intromettono nella bocca spalancata del questuante quadrupede una porzione della loro merce, la quale viene raccolta in sacchi per le spese della festa.” È una forma di donazione simile alle offerte alimentari fatte durante il Ramadan. I commercianti danno parte delle loro merci in dono, ma come se nutrissero il cammello, che sembra un corpo vero non una recita. “La parte più rilevante della solennità consiste nella seguente processione: una macchina enorme è condotta per la città. Sopra la stessa messi in movimento rotatorio parecchi pezzi, simboleggianti i corpi celesti, come il sole, la luna, i pianeti, ecc. Vi sono pur fatti rotare de’ cerchi, che grandi alla base, vanno impicciolendosi alla sommità.” La capacità realistica-descrittiva di E. qui tocca una parte importante, vengono descritti i corpi che compongono la macchina, la scenografia, lo scenario è raccontato nei suoi minimi dettagli. “Bella e sontuosamente fregiata è quella macchina, eretta e posta in azione ad onore di Colei che diede la 55 luce al Dio della carità!” Indicare la Vergine in questo modo è una prefigurazione di ciò che non avviene, infatti la Vergine non viene celebrata in maniera caritatevole. “Ma le sue funzioni ti rammentano il famoso carro di Jagganatha, o le nefande ecatombe de’ Druidi.” Evidentemente E. conosce l’induismo e la religione celtica. “A quella vista ti rifugge il cuore, né puoi contenerti dal gridare all’orrenda barbarie.” Definisce orrenda barbarie la celebrazione, prima della descrizione espone il suo giudizio. “A’ raggi del sole, della luna, e intorno a’ cerchi sono legati de’ bambini lattanti, le cui snaturate madri, mercé il vile guadagno di pochi ducati che dà loro l’impresario dello spettacolo, li fanno simboleggiare gli angioletti che accompagnano l’Assunta al cielo.” Una delle poche figure di madre esterne al rapporto di E. con la propria madre è quella della madre naturale che vende il corpo all’impresario dello spettacolo, non si tratta di qualcosa di religioso, ma di uno spettacolo, ha perso così la sua solennità religiosa. Queste madri vendono i propri figli per un po’ di tempo a simboleggiare gli angioletti che accompagnano la Vergine. “Questi innocenti pargoletti, non d’altro colpevoli se non d’essere nati figli di madri inumane, e d’aver veduto il mondo in un secolo non abbastanza dirozzato,” I figli non sono colpevoli di nulla, se non di essere nati in un mondo ancora non abbastanza evoluto per evitare queste atrocità. “scendono o morti o moribondi dalla ruota fatale, dopo di aver girato in sensi opposti per sette ore.” Ancora una volta la madre è legata al guadagno, guadagna attraverso il corpo dei figli come se ne fosse proprietaria e ancora una volta porta morte. “Terminata la festa, o per meglio dire, giunto al termine il sagrifizio, accorrono stipate, affollate, urlanti le madri, l’una respingendo l’altra, questa bussando quella, e tutte di conserva impazienti di verificare se morta o salva sia uscita la respettiva loro creatura. Comincia allora una scena d’altro genere, che talvolta finisce con ispargimento di sangue. Non essendo, pel grande numero, facili a riconoscersi dalle madri i sopravvissuti figli,” C’è ancora una volta uno spettacolo. Il rapporto materno è egoisticamente distratto, le madri non riconoscono i figli, c’è un’indistinzione del figlio. E. segnala un’altra classe fragile, se le monache sono fragili, i lattanti lo sono ancora di più perché non sono riconosciuti nemmeno da coloro che hanno generato il corpo, non hanno identità. E. proietta su questo rapporto il suo rapporto con la madre, sempre di natura economica. “l’una disputa all’altra il frutto delle sue viscere, mentre le imprecazioni delle disputanti e i lamenti i delle più addolorate si mescolano agli scherni assordanti degli spettatori e a’ fischi della ciurmaglia.” Ci sono tre forme di ferocità: la prima delle madri nei confronti dei figli, poi quella delle madri che non riconoscono i propri figli e infine quella degli scherni degli spettatori. “Quelle poi fra le devote, che tornano in casa loro prive del proprio figlio, consolansi dicendo, che Maria, invaghitasi 56 dell’avvenente angioletto, ha voluto menarlo seco lei in paradiso.” Questa è un’ulteriore mostruosità, non ci si può appagare della morte del figlio con questa convinzione. “Appagate da tale convinzione, s’intrattengono a banchettare” Banchettare è un’altra manifestazione corporea. “colle femmine del vicinato, infino a che scialacquato sia del tutto il prezzo ottenuto, non dubitando di percepire da’ preti ulteriori soccorsi, in memoria de’ loro angioletti involatisi gloriosamente a’ beati Elisi.” Il rapporto madre-figlio è soprattutto di natura economica, il corpo figliale è una proprietà materna che arriva fino al punto di usare con merce di scambio il corpo del figlio per la sopravvivenza: la madre vende il figlio per mangiare. Il Cristianesimo ha alle spalle una serie di culti numerosi, anche il concetto di comunione che significa “mangiare il corpo di Cristo” viene da una tradizione passata, anche certe forme narrative dei santi (come S. Bartolomeo che viene squagliato vivo) derivano da pratiche pagane, quindi c’è tutto un simbolico. Nella trasposizione cinematografica dei Viceré la morte è un rito famigliare, al corpo morto vengono dedicate una serie di cure che sono della famiglia, c’è tutta una dialettica, più volte viene esposto il corpo imbalsamato di un loro antenato santo questa esposizione ricorda la santità di quella famiglia aristocratica. Quindi, il Cristianesimo e il Cattolicesimo legati al culto dei santi hanno cristallizzato l’immagine del corpo morto come fondamentale, la reliquia ha un potere di grazia perché conserva la santità del corpo del santo. Il corpo morto ha una funzione centrale nel rapporto tra singolo e divinità: il santo è stato Dio. L’ostentazione del corpo morto e di quel che lo riguarda è fondamentale. È evidente che in questo immaginario il corpo morto gira intorno alla santità, infatti E. parla di angioletti che sono finiti in Paradiso. La componente di macabro è consustanziale del Cattolicesimo post-tridentino, il Cristo adorato è morto, sono rarissime e più recenti le rappresentazioni del Cristo risorto. Il macabro è l’elemento con cui la Chiesa tridentina incuteva il timore della morte, dell’inferno e quindi cerca una convinzione che si innesta sulla base della cultura popolare. E. vive un rovesciamento di ruoli: colei che è autorevole e gestisce i soldi è la madre, il padre è rappresentato da E. come affettuoso e curativo. “Per la paura de’ terremoti, non potemmo tornare in casa, che la mattina del sesto giorno; non già perché cessato del tutto fosse il pericolo, ma perché mio padre, ormai settuagenario, e pregiudicato inoltre nella salute dal lungo disagio, accusava un malessere generale. Io amava, adorava questo padre con tenerezza non comune: l’amava più della madre, e non senza ragione. V’ha de’ genitori, i quali non contenti di usare un’ingiusta predilezione a favore d’uno o di più figli, hanno pure l’imprudenza amara di farne in famiglia incauta mostra. Mia madre (aggravo con dolore la sua memoria) non andava esente di tale debolezza, giacché, per non so quale istinto, prona alle domestiche preferenze, non si prendeva almeno la cura caritatevole di velarle agli occhi de’ meno amati. Ora nel numero delle sue predilette non era 57 mi rinchiudere, per pietà! Al solo nome del monastero mi sento presa dalla disperazione!». Ella si alzò bruscamente, svincolandosi dalle mie braccia, ed in tuono severo mi disse: «Tuo padre non ha lasciato per te né dote né tutore:” Quindi la colpa viene trasferita su chi aveva avuto il ruolo di cura e non preoccupandosi del destino che avrebbe avuto E. “l’arbitra della tua sorte sono io sola…” La madre ha una funzione materna, ma nel senso autorevole, è un materno autoritario che decide per il soggetto cui è sottoposto. “le leggi divine ed umane t’impongono l’ubbidienza, e, affé di Dio, tu ubbidirai!».” È una minaccia, la sua autorità è assoluta e decisa sia dalle leggi divine che terrene. La costruzione del rapporto con la madre è possibile solo quando raggiunge l’età dell’autonomia economica. A questo punto il conflitto col materno termina e inizia il conflitto con la gerarchia ecclesiastica, conflitto che domina tutto il cap. XVI. 28 marzo 2019 La funzione autoritaria che aveva caratterizzato il materno, passa quindi sul peggio della gerarchia ecclesiastica: il Papa (Pio IX). I patroni italiani avevano riposto la speranza di poter realizzare uno stato nazionale a guida papale, nel ’49 questo sogno di infrange definitivamente. L’episodio che stiamo per raccontare risale al ’48, quando E. sente di poter scavalcare le gerarchie ecclesiastiche a lei più vicine intermediarie rispetto al Papa. Quindi decide di scrivere direttamente al pontefice, ma il cardinale Riario le risponde che tutto ciò che fa parte della sua diocesi e va al pontefice ritorna a lui per la valutazione, per cui E. si accorge presto che il suo carceriere è Riario. Il conflitto nel senso di impedimento al rientro nel mondo, finora svolto dalla madre in quanto aggiunge l’ostacolo economico per uscire dal convento. Riario svolge la funzione di cardinale carnefice, visita più volte E. per darle la giusta direzione, la riga morale e le regole comportamentali, quindi diventa un carnefice in quanto queste regole sono contrarie ai desideri di E. la quale raggiunta la maggiore età e finita la necessità di stare in monastero per ragioni economiche, E. spera che essendo costretta a questa condizione ci possa essere lo scioglimento dei voti. Riario è rappresentato da E. con tutte le qualità contrarie a quelle che dovrebbe avere un ecclesiastico, già nelle pagine precedenti ha descritto la condotta delle consorelle come contraria a quella purificante che dovrebbero avere. Quella di Riario viene considerata più una carica temporale che spirituale, è più un uomo politico e quindi ne ha tutte le caratteristiche: vanesio, passionale e ha una forma di erudizione che, a detta di E., hanno tutte le classi aristocratiche, cioè un’erudizione di seconda mano, non dalla lettura diretta dei testi, quindi una strumentazione pedagogico didascalica semplificante che non ne fa un vero erudito, per E. è un ignorante, è un finto erudito e finto religioso che si attiene ad una condotta moralmente eccepibile. Ha una serie di caratteristiche del tutto mondane, nell’ambito maschile è una sorta di gerarchia ecclesiastica che viene dalle famiglie nobiliari per le quali la conversione consiste nell’abbracciare una determinata forma di attività politica, per questo il suo ruolo è di applicare norme. Il fatto che la sua figura abbia un qualcosa a che vedere con l’autorità materna è legato alla scomparsa della figura della madre che scompare, muore, e lui diventa colui che agisce sulla libertà di E. dicendole addirittura di andare ala funerale della madre, è proprio una continuità autoritaria. 60 Questo rapporto porta E. a reazioni fondamentali: scrivere, infatti E. dice di aver iniziato a scrivere le sue memorie in questa situazione, è come se E. fosse il confessore di Riario con la stessa funzione che i confessori esercitavano sulle mistiche obbligandole a scrivere: la scrittura anche come strumento di apprendimento dell’esperienza per coglierne il senso. E. pone l’inizio della sua scrittura nel ’48. La scrittura si collega al conflitto ed esso la costringe a scrivere la verità sulla sua esperienza. Inizia a predicare anche il genere della scrittura ufficiale: scrive al Papa raccontando la propria esperienza e mostrando le forme di condizionamento che l’hanno costretta a prendere i voti senza vocazione; queste lettere non arrivano al Papa, Riario le rimanda indietro. Altra cosa che inizia sistematicamente da questo rapporto è l’autoformazione di E. che inizia a leggere e sceglie cose migliori da quelle che leggeva precedentemente. Nel XVIII E. racconta il desiderio per lei sempre più forte di sapere cosa succede fuori e per questo si fa portare il giornale. “Intanto, alimentato quotidianamente da’ diari, il mio entusiasmo cresceva a mano a mano che mi era dato vedere i preti frementi di fanatismo e di rabbia” Le vicende storiche che coinvolgono il movimento risorgimentale esterno arrivano attraverso due canali a E.: i giornali e i segni di trasformazione corporea che a seconda di quel che avviene fuori vede sui corpi dei preti che definisce negromanti, quindi mette preti e stregoni sullo stesso piano in quanto essi sono successori di un oscurantismo di cui la stregoneria e negromanzia vera sono immagine. “La faccia di questi negromanti mi serviva di telegrafo. Spandevasi un giallume itterico sulle loro contratte fattezze? Le cose andavano egregiamente.” Se erano gialli di rabbia significava che al di fuori stavano vincendo i gruppi bellici contrari al potere temporale della Chiesa. Il corpo e i suoi segni sono fonte di informazione, E. decodifica i segnali corporei. C’è, quindi, un’esperienza tradizionale basata sulla scrittura (i giornali), ma anche un’esperienza che E. ha acquisito all’interno del monastero e la rende strumento di conoscenza. “Incoraggiata da tali riflessioni, presi a scrivere una seconda istanza da essere consegnata in mano propria al Sommo Pontefice.” In questo la madre l’aiuta andando lei stessa a Roma per tentare di consegnare veramente la lettera al Papa. “Deposto però il tuono supplichevole, feci uso questa volta di concetti robusti, quali convenivano a’ tempi.” Quindi cambia scrittura, quindi non usa più lo stile dimesso dalla scrittura delle donne (così come definito dalle femministe) e che deve appropriarsi di un lessico autorevole e che si pone sullo stesso piano dell’interlocutore, un tipo di scrittura maschile. “Dissi adunque schiettamente, lo stato monastico non esser che un residuo di barbarismo orientale: il monastero, non altro che prigione per coloro che non vi erano entrati di buon animo; non avendo io commesso alcun delitto né contro Dio né contro il prossimo, non sapere per qual legge inumana dovessi languire, e morir poi disperata in un carcere; sperare tuttavolta di trovare ascolto nella misericordia di un pontefice il quale all’Italia, alla cristianità promessa aveva un’èra novella di riordinamento.” Quest’ultima parte è direttamente riferita a Papa Pio IX il quale è il Papa della libertà, ma non fa 61 nulla per quelle donne che sono finite contro loro volontà nei monasteri. “Conchiudeva, che se si volesse persistere a negarmi l’impetrata giustizia, io, intrepida davanti a qualsiasi rischio, avrei finalmente usato della libera stampa, e di più lingue, per notificare al mondo intero l’enormità del mio sagrifizio.” E. è moderna, infatti contrappone al meccanismo dell’oscurantismo legato ancora ad un’epoca di barbarie l’industria culturale che sta crescendo, sa il potere della stampa già nel 1864 (anche se i fatti sono del ’48), dice che possiede la capacità di scrivere un articolo di giornale anche in più lingue, quindi raggiungendo un pubblico europeo e dunque l’incoerenza di Papa Pio IX nel predicare la libertà e mantenere un meccanismo oscurantista verrà conosciuta da tutti. Il tono di E. è quindi diventato conflittuale e minaccioso, non è più il tono della supplica, descrive una gradualità di accrescimento nella sua capacità di usare la scrittura che diventa sempre più autorevole e conflittuale. La prima forma di parola conflittuale è un dialogo con Riario in qui gli tiene testa. Però rispetto alla scrittura delle Memorie e alla sua prima epistola cambia tono, infatti il conflitto consente all’IO di cresce e di diventare sempre più autorevole ed autoritario rispetto alla situazione in cui si trova. A questo punto si concretizza il passo terminale del processo linguistico-metaforico costruito da E.: E. diventa l’Italia, si identifica con essa sono metafore. Nel XX capitolo scrive: “Perché non prendi consiglio e conforto dalla storia di questa tua patria?”, consiglio pre apprendere ciò che bisogna essere, fare e dire; conforto perché se succede all’Italia non è così poi grave ‘che succeda anche a lei. “Spinta da contrarie passioni, governata da fiacco volere, abbandonata alle seduzioni altrui dalla propria famiglia, adescata da ogni parte, cadde la misera Italia nel servaggio, come precisamente vi cadesti anche tu.” L’Italia è individualizzata, cioè diventa una singola identità e quindi, ad esempio, viene spinta da contrarie passioni come una persona, governata da fiacco volere da genitori che come nell’individuo non hanno la capacità di governare in modo corretto, la sua propria famiglia sarebbero le classi aristocratiche che dovrebbero governare, attirata (adescata) da ogni parte come potrebbe accadere ad una ragazza. Quindi la vicenda dell’Italia è diventata equiparabile alla vicenda di un individuo che cresce all’interno di una classe aristocratica. “Così pur essa languì per lungo tempo carcerata nel chiostro, che principi spirituali e temporali le fabbricarono; così pianse, implorò, protestò.” Quindi l’Italia è stata prigioniera anch’essa in un chiostro, cioè la serie di impedimenti che i governi spirituali e temporali le hanno imposto dividendola, smembrando la sua identità a pezzi come accadde ad E. “Conformi sono le tue vicende alle peripezie di lei: comune l’espiazione, comuni i voti al rinnovamento, comuni perfino gli sforzi recenti a ricuperar l’esercizio della propria volontà…” Quindi diventare chi decide di sé stesso: sia l’Italia tutta che diventa Stato sia per E. la libertà di scegliere per lei. “Ed ora tu retrocedi…! E in qual momento? Alla vigilia della redenzione; mentre allo splendore 62 sacrificare la loro funzione di moglie, madre ecc. per offrire la propria attività al processo politico di costituzione dell’Italia; sta dicendo alle donne di abbandonare l’idea che l’unica forma di destino che le aspetti è il gineceo e invece sacrifichino questo destino per partecipare al processo di costituzione dell’Italia. “Invece di scrivere romanzi, che con effimere commozioni mi snervano il cuore, che con effeminati affetti mi sbaldanziscono l’animo, m’isteriliscono le aspirazioni, provatevi piuttosto a ritemprarmi, se potete, il cuore a fecondi concetti, a sentimenti virili!” Si riferisce ai romanzi sentimentali dicendo che non è detto che le donne debbano leggere o scrivere i romanzi d’amore, ma consiglia di provare a ritemprare il cuore a fecondi concetti e sentimenti virili, cioè con i trattati filosofici. “Ecco come mi rialzerete dall’inerzia in cui giaccio, ecco come mi preparerete a secondarvi nella grande opera dell’incivilimento!” Sta usando un tu generico, dicendo di provare a scrivere qualcosa in cui il modello sia quello eroico disposto a sacrificare quello che dovrebbe essere il destino femminile all’Italia, di non scrivere romanzi sentimentali, ma eroici che si ispirino a quel modello. Facendo questo tutte le donne interverrebbero, secondo E., a questo processo. Rispetto al rapporto con la scrittura e la trasmissione culturale di essa in cui il conflitto rappresenta un elemento fondamentale, senza di esso E. non si interrogherebbe su dei punti fondamentali, cioè: è possibile riconoscere un ruolo diverso al soggetto femminile, dall’altro punto se è possibile produrre una letteratura che spinga a questo modello e non a quello tradizione e se è possibile, attraverso questo modello, che le donne costituiscano forma di processo di costituzione dell’Italia e quindi rete tra di loro. In qualche modo si potrebbe dire che quello di E. è un romanzo di formazione perché attraverso questi passaggi (il rapporto con il corpo, con l’autorità, con la scrittura come risposta alla reclusione) E. costruisce un’idea femminile diversa che non abbia il lavoro famigliare come unico lavoro e che abbia un ruolo di cittadina attiva. È possibile prospettare un progetto differente per l’identità femminile nella misura in cui c’è il processo di crescita della figura femminile che è determinato dall’ostacolo conflittuale, infatti esso ha consentito ad E. di crescere. L’ostacolo conflittuale ha consentito ad E. di trovare un modo diverso per essere femminile dentro il nuovo Stato che si sta costituendo, questo processo è lo stesso che E. spera per tutte le altre cittadine. Nella conclusione infatti, deponendo il velo, E. cambia nome, questo è un cambio d’identità. Nell’ultimo capitolo scrive: “Ma che importano d’ora innanzi le mie sensazioni?”, in quanto le sue sensazioni non importano più, contavano prima, quando doveva costruire la narrazione del suo percorso. “Stucchevole superfluità. Il dramma è giunto al termine:” dramma è una delle poche volte in cui usa questo termine generico endogeno per indicare la sua scrittura, in quanto il dramma è una serie di peripezie e conflitti. “la mia storia finisce in questo giorno, che per l’Italia è giorno di nuova creazione.” L’Italia serva è finita e quindi finisce anche la storia di quell’E. “Quell’io che vestito di gramaglia si cattivò, o lettore, la tua pietà, solo perché all’intorno di lui tutto era lutto e silenzio, ora sparisce, 65 siccome stella sopraffatta dal fulgore del sole nascente.” È una metafora antichissima, la nascita come apparizione del Sole. Quell’IO (lei) non c’è più, era un’IO legato al vestito dell’oscurantismo, la metafora del buio è quella dell’oscurantismo. “Da quell’istante considerai strappato pur l’ultimo filo che mi vincolava allo stato monastico; e il nome di cittadina, che dato a tutti non contiene comunemente alcuna distinzione, divenne per me il titolo più proprio, più bello ancora dell’antico civis romanus, come quello che per noi risale all’unità di Dio, santificata nel sangue di Cristo, e rivela, sostituita alla città di Roma, una città Italia.” Ha così saldato tutti i fili metaforici che aveva messo nel suo testo. Quell’IO non esiste più quindi serve un altro nome, quindi prende quello di cittadina ed è l’inverso di quello che era E., in quanto lei non poteva essere altro se non quella E., invece il nome cittadina non fa distinzione, è generico, in quanto non contiene distinzione. Così E. non ha più un destino individuale, ma collettivo a cui è potuta arrivare attraverso un percorso individuale dell’io, un percorso di crescita uguale a quello dell’Italia che ha potuto portare ad una nuova identità. È meglio di un civis romanus perché l’unità d’Italia comporta la risoluzione del conflitto tra potere temporale e spirituale e quindi l’unità di Dio con quella della Terra, infatti non dice più una città di Roma, ma di tutta l’Italia, è un modo per far cambiare identità anche all’Italia cambiandole epiteto, perché la città di Roma è in realtà diventata tutta l’Italia. Quindi, la romanità come fusione del potere temporale e spirituale passa da Roma a tutta Italia, quest’ultima diventa Roma. “Perciò se qualcuno da allora in poi mi ha chiamato per abitudine Suora o Canonichessa, io l’ho interrotto dicendo: chiamatemi Cittadina, e se volete aggiungere una distinzione dite: quella cittadina che provocò e promosse il Plebiscito delle donne in Napoli.” Infatti, E. è stata colei che ha proposto il voto delle donne a Napoli insieme ad una sua sorella, quindi vuole essere ricordata per un dato collettivo. “Se però non sono amica della sottana nera, non conservo per essa risentimento. Ho deposto i miei rancori col velo nero che lasciai sull’altare.” Non ce l’ha più con i preti, non sono più gli antagonisti. “E di molti insegnamenti pratici mi riconosco debitrice alla lunga reclusione.” Anche Manzoni alla fine dei Promessi Sposi chiede quale sia il succo della storia. E. stessa scrive che ha avuto un insegnamento pratico che viene dal vissuto e questi fatti gliel’ha insegnati la reclusione. “Se pel tratto di vent’anni non mi avesse il destino ribadita al piede la catena del galeotto, se fossi passata a marito giovinetta, avrei forse nella scuola del mondo imparato altrettanto a scemere le malvagie passioni sul loro nascere, le passioni che sbocciano nell’aria chiusa e si nutrono di ire, di rancori, di gelosie, di sospetti?” Sono domande retoriche la cui risposta è no, cioè se avesse seguito il destino tradizionale femminile non avrebbe imparato l’essenza della vita che è capire la cattiveria e quando un’azione è male. Quindi, questo lo ha imparato dalla limitazione del corpo. 66 Oltre ad aver imparato la vera natura del male ha imparato anche come la limitazione, la chiusura ecc. sia la vera causa dei conflitti, è in ciò che impedisce la libera espressione dell’individuo che si genera il male ed è per questo che considera la clausura una barbarie, perché in essa nasce il male. E. rovescia il concetto per il quale la clausura sia luogo solo di purezza e bene, perché il concetto contrario da lei espresso è quello che caratterizza l’Italia, è il selvaggio dell’Italia che l’ha fatta luogo di male e conflitti, se infatti l’Italia avesse avuto modo di esprimere la propria identità nazionale tutto ciò non sarebbe avvenuto come non sarebbe avvenuto ad E. E. è quindi riconoscente al suo percorso, in quanto le ha dato un sapere diverso che le donne dovrebbero avere ed è per questo che le donne devono combattere, infatti l’altro elemento di clausura rappresentato dal matrimonio da giovinetta impedisce di avere un altro elemento di conoscenza fondamentale per la propria identità, cioè quello di esperienza propria della radice passionale del male, cioè sapere che nasce dal vissuto. E. ha una chiarezza nel concepire la scrittura come una forma di narrazione di un progetto di sé, E. ha un progetto per sé che vuol raggiugere superando gli ostacoli che incontra ed in seguito scrive che sono proprio quegli ostacoli che le hanno permesso di raggiungere il suo obiettivo dandole più lucidità mentale. È evidente che una pratica di scrittura di questo tipo presuppone che alle sue spalle ci sia una tradizione di scrittura femminile. Quella di E. è una sorta di autobiografia storica, l’elemento di finzione è minimale. Nei tre libri obbligatori c’è un percorso che porta fino al romanzo vero e proprio. Il prossimo libro che tratteremo è Una fra tante di Emma Ferretti Viola, pseudonimo, è una storia che Emma definisce vera in quanto capita a molte donne che capitano a donne in quelle situazioni, è molto narrativo nella prima parte e nel seguito diventa praticamente un pamphlet, non c’è più una coincidenza tra voce narrante e voce della protagonista (Barberina), quindi c’è una maggiore letterarietà rispetto alla storia di E. Il libro di Matilde Serao è un romanzo vero e proprio, è tutto inventato, anche se si riferisce a fatti che storicamente sono accaduti, il personaggio che agisce non subisce la legge che racconta. Questi tre testi raccontano condizioni femminili determinate da una condizione storico-politica dell’Italia rappresentano un lento allontanamento dalla forma documentaria a quella finzionaria. Il libro della Serao è una storia finta per dimostrare la cattiveria di una legge, si è in un processo lento in cui la scrittura femminile si emancipa dalla sudditanza del vero storico affermato da Manzoni, verso una creatività immaginativa e creativa, anche se di denuncia, quest’ultimo è un elemento che caratterizza tutti e tre i testi, infatti l’azione collettiva che la storia individuale esercita. Nel mentre si racconta una storia che proietta la costruzione di un sé contemporaneamente si attua anche l’azione di una denuncia di una determinata condizione, per questo motivo queste scritture sono state chiamate realistiche. Nel mentre fa questo percorso lo sforzo è quello di usare poco le etichette critiche e di capire le qualità interpretative del testo. 1 aprile 2019 Con la Serao ci si sposta a Milano, il suo vero nome era Emilia Ferretti Viola ed apparteneva ad una famiglia dell’aristocrazia milanese ed è impegnata politicamente. Appartiene all’impostazione politico-femminile filantropica, cioè quell’impiego che porta alla tutela delle condizioni di disagio femminili e dei minori e di altri soggetti, in questo si inserisce anche la rivendicazione dell’importanza del ruolo femminile. Emilia vive la prima guerra mondiale, infatti nasce nel 1844 e morirà nel 1929, quindi la prima g.m. la colloca in un punto storico avanzato rispetto alla Caracciolo. 67 evocato, è evocata dal fatto che la qualità dell’identità di B. è definita come se fosse appena uscita dal convento, ma con lo stereotipo di luogo di purezza e semplicità, non come in Enrichetta. “al servizio di una famiglia d’agiati commercianti. Era fresca e robusta, timida come una signorina appena uscita di convento, ignorante come le pecore e le capre che aveva portato a pascere per tanti anni nei monti ove era nata.” Non è casuale la similitudine tra B. e gli animali, verrà ripetuta più volte, perché qui ha un valore positivo come lo hanno i monti della campagna, la città è luogo di corruzione perché non dà a chi vi entra gli strumenti adatti per capire come bisogna entrare in questo spazio. È definita ignorante rispetto allo spazio in cui si trova, questi elementi con cui è descritta non sono negativi, ma lo diventano nel momento in cui il soggetto che le ha si trova in uno spazio diverso. “Essa esciva dalle valli solitarie delle sue montagne, come l’educanda esce dalle mura del chiostro:”, il problema è che esce, se no questi elementi non sarebbero stati negativi. “ingenua, vergognosa, maravigliandosi di tutto e di tutti. Anch’essa, come l’educanda, era stata rinchiusa in un breve spazio di terra segregato dal resto del mondo; anch’essa era stata abituata ai lunghi silenzi, alle placide e dolci contemplazioni, e alla monotona disciplina del lavoro.” Chiostro e convento assomigliano dal punto di vista sociale alla campagna, il concetto fondamentale è quello di confine e separazione, nella scrittura femminile il concetto di separazione/confine è molto importante e può essere declinato sia buono come cattivo, il buono in questo momento è dalla parte del luogo che protegge. La descrizione di B. si articola in tre momenti: prima c’è una descrizione fisica senza dettagli, poi le qualità morali e infine la classe sociale, infatti scrive: “Barberina di casa sua era poverissima.”, motivo per cui esce dal suo luogo idilliaco. Non dice di famiglia, ma di casa sua, anche qui quindi è sottolineata la figura dello spazio, l’appartenenza ad uno spazio. Quando sarà in città, B. spiegherà che in casa sua non avvertiva questa povertà. “Essa lo sapeva da un pezzo, perché glielo dicevano i genitori, non perché se ne fosse accorta da sé: aveva già sedici anni e ancora non capiva bene che cosa volesse dire la povertà. Mentre era ancora a casa sua, indovinava che la miseria era cosa che non soltanto la minacciava allora, per la quale pativano e si tormentavano i genitori, ma che era una disgrazia che l’avrebbe sicuramente perseguitata nell’avvenire, ed alla quale non poteva sfuggire in nessun modo.” Quindi è una condizione che le appartiene di destino, infatti è condivisa nel contesto in cui si trov e ne è destinata, per cui non è un elemento di pericolo a cui fare più attenzione. “Essa non aveva mai patito per il freddo dell’inverno o per il sole cocente dell’estate; la polenta dura e stantia che le davano i genitori aveva sempre bastato al suo gagliardo appetito, e al suo gusto era parsa ognora squisita; il vecchio giaciglio di paglia bastava ai suoi sonni placidi e profondi, e non aveva ancora provato il desiderio di cose migliori. Con la forza viva della giovinezza essa attingeva vigore e salute in tutto ciò che era intorno a lei. Attingeva nell’aria vibrata del monte, nel calore del sole, un piacere di vivere che era fecondo di vita.” Quindi in realtà B. è parte della natura, da essa lei trae energia, non vi è differenziazione, è un elemento naturale in quel contesto e ha tutto ciò per sopravvivere a quella condizione. Infatti, dopo la similitudine con gli animali, c’è una similitudine con la natura: “Cresceva come un fiore esposto alla brezza pura e fragrante della montagna. E in quel lusso di natura l’essere povera le sembrava cosa assurda, e non l’intendeva più di quello che l’intendessero i fiori e le pecore della sua mandria.”. Il concetto di ricchezza si declina solo quando arriva in città, questo consente di rendere dolorosa la sua esistenza. “Il suo sviluppo intellettuale fu lento. Non era provocato artificialmente, ma nasceva spontaneamente in lei per combinarsi poi con quello che era fuori di lei. I suoi pensieri si risvegliavano lenti e maravigliati nelle lunghe ore di ozio, mentre 70 pasceva le pecore e sedeva canterellando sul pendìo del monte.”, in questa parte E. con una buona intuizione rappresenta la psicologia di B., la spinta che porta a questo romanzo deriva anche dal fatto che E. è molto attenta nella descrizione di quel che è il meccanismo mentale del personaggio che sta costruendo, una delle violenze psicologiche subite da B. è il costringere o pretendere una reazione psicologica di comprensione degli eventi che accadono che non può avvenire perché non appartengono alla sua formazione, E. non commette mai l’errore di dire che B. non comprende completamente né di dire che la corruzione cittadina avviene completamente per un tentativo di forzare fino in fondo l’appartenenza di B. alla città. È come se i due meccanismi casualmente e tragicamente cospirassero contro il destino di B. la quale ha una sua predisposizione, un suo meccanismo, e la città ne ha un altro suo. “Quasi sempre nascevano sotto l’evocazione di certe melodie strascicanti e monotone che la bambina inventava da sè, seguendo con gli occhi le nuvole che le passavano sopra il capo o guardando i vapori che luminosi e lenti ascendevano verso sera sull’orizzonte.” B. è figura di una persona in cui la sua forma di conoscenza si alimenta con la sua fantasia, la fantasia è stimolata dall’appartenenza alla natura e quindi la sua forma principale di conoscenza è la fantasia, non la razionalità, anche questo è un elemento di contrasto la città pretende la razionalità, non la fantasia. B. ha tutti i caratteri destinati alla vittima. Continuano le similitudini con la natura: “Se la ginestra o il timo del monte potessero risvegliarsi a poco a poco alla coscienza di vivere, lo farebbero come lo faceva lei, senza sgomento, senza orgoglio, con una profonda e serena convinzione del proprio diritto d’essere, con un sentimento della propria dignità istintivo e gagliardo, che traeva dalla coscienza di solidarietà con tutta la natura, con tutto ciò che ha vita o apparenza di vita, la sicurezza del proprio valore.”, quindi c’è un rapporto di tutt’uno, la stima che B. ha in sé deriva dal fatto che tutta la natura si impone nella naturalezza della sua esistenza e il proprio valore sta nel riconoscere il proprio diritto di esistere. La natura esiste, per cui B. che si identifica in essa non si pone il problema sul suo valore, chi vive in città e ha perso questo contatto con la natura si pone tanti problemi mentali. Dopo questa descrizione serena di come viveva B. subentra la peripezia, il cambiamento radicale introdotto da un “Ma”. “Ma venne un tempo nel quale l’avvenire temuto e ignoto le si avvicinò a un tratto. A sedici anni la bambina, cresciuta sino allora con le virtù e le ignoranze degli animali e dei fiori, diventava cosa più perfetta, più umana, presentiva e desiderava altre sensazioni, altri piaceri. E mentre ella così progrediva dall’infanzia insciente alle speranze dell’adolescenza, i suoi genitori, poverissimi, che a mala pena campavano la numerosa famiglia, pensarono di metterla al servizio, per liberarsi così da un peso troppo grave alla loro miseria. Per questo si rivolsero al parroco del villaggio che giaceva a piè del monte sul quale avevano la loro modesta casupola”, quindi c’è già un cambiamento spaziale: loro non stanno in un villaggio lontano, ma ancora più lontano in quanto vivono su un monte. “egli aderì di buon grado alle loro istanze, promettendo il suo ajuto, e raccomandando la Barberina ad una signora che abitava una vicina città.” Quindi, B. scende dal monte per andare al villaggio, poi il parroco la manda in una città intermedia dove c’è una signora che la manda in un’altra città, questi dettagli servono ad ingigantire l’elemento di allontanamento anche una lontananza di tipo concettuale dal mondo di B. che lei non riesce a colmare. “Da quel giorno Barberina non ebbe più pace.” Dopodiché inizia la storia della prima percezione dell’essere fuori posto. “Le parve che ogni cosa avesse mutato intorno a lei,”, finora era un tutt’uno con la natura. “e che perfino in lei stessa fosse avvenuto un cambiamento; le pareva che nella sua valle silenziosa e deserta giungessero ad ogni istante i rumori del di fuori, voci lontane, grida di 71 folla.” L’immagine della folla è fondamentale nel romanzo di fine 1800, è la moltitudine indistinta. Quindi, prima ancora di andare in città lei sente essa irrompere nella montagna attraverso un’operazione di fantasia, come se il confine si iniziasse a rompere già da quando si iniziava a pensare al cambiamento. “E provava una curiosità irresistibile di vedere, di sapere, di uscire dalla solitudine e tuffarsi nella vita, e insieme a questo desiderio violento le veniva anche una grande paura di quel mondo che non conosceva e che pur desiderava.”, c’è quindi un desiderio di B., la previsione dello spostamento e di superamento di confine è l’apertura al mistero, la montagna e il silenzio non generano desiderio in cui si prevede il passaggio oltre il confine che fa nascere il desiderio. Emma riprende la metafora inziale scrivendo: “Era l’educanda che usciva dalle mura del collegio, pura, ingenua, desiderosa di vivere. La natura la dava alla società. La società la prese.”, è un prendere che è inglobare e metafora della violenza con cui viene presa. “La signora alla quale il parroco l’aveva raccomandata la mandò ben presto a chiamare. Barberina vide allora per la prima volta una piccola città; vide le case, le vie, le botteghe, l’andirivieni della gente per le strade, e si sentì strappata a un tratto e per sempre alla quiete dei suoi monti. Vide dei ricchi e si sentì povera.”, è bastata la prima piccola città per far capire a B. la distanza tra il suo desiderio e ciò che lei può realmente avere, quindi i ricchi la fanno sentire povera. C’è poi un’immagine che insieme alla folla diventa fondamentale nella rappresentazione dello spazio urbano, cioè la stazione. Parlando della grande città in cui doveva andare B. scrive: “Nel sentire quel nome la Barberina rimase sgomenta. L’aveva sentita nominare tante volte quella città; l’avevano nominata dinanzi a lei gli uomini di casa sua, il babbo e il nonno. Il nonno c’era stato, era il solo che l’avesse vista, e quando ne parlava lo faceva con rispetto, con ammirazione, e solamente il babbo rispondeva, mentre le donne non azzardavano di metter bocca in quel discorso, quasi che si trattasse un argomento troppo elevato per esse; e ora la piccola Barberina, come solevano chiamarla a casa sua, doveva andarci, e andarci tutta sola!”, quindi grande città, grande spazio e chi si sposta sono gli uomini. Solo il padre gli risponde perché è un discorso che pertiene al maschile, ne hanno esperienza i soggetti maschili che si muovono e già questo avverte che le città sono spazi a rischio per le donne. La seconda cosa che apprende B. è che deve andare presto in questa città, quindi non c’è più tempo per godere ciò che ha. Qui infatti c’è uno degli spazi lirici più belli del romanzo, in cui si racconta il ritorno a casa dopo il dialogo con questa mediatrice e c’è un altro stereotipo: B. è un tutt’uno con la natura ed essa assume su di sé tutti gli aspetti che caratterizzano l’animo di B. in quel momento e infatti quando B. torna a casa e piove. La pioggia rappresenta il pianto ed è un elemento tipico di tutta la letteratura ottocentesco in cui il paesaggio viene personificato e su di esso si proiettano le sensazioni emotive di un personaggio sul paesaggio e sullo scenario che lo circonda. La natura assume l’espressione di pianto e infelicità. “Barberina tornò a casa mesta e pensosa. Dei grossi goccioloni le cadevano di sotto alle palpebre sulle guancie rosee e delicate. Camminava pel solito sentiero che metteva alla casupola dei genitori; saliva il pendìo ombroso e fiorito del monte, e le pareva di non appartenere più alla gente che abitava in quella casupola, di essere già un’estranea fra quegli alberi e quei prati. Le sembrava che anche le sue pecore la guardassero con maraviglia, non riconoscendola più. Si ricordò allora delle pecore che il babbo conduceva al mercato, le quali tornavano segnate di rosso o di turchino da chi l’aveva comprate; e le parve di dover avere anch’essa in qualche parte del corpo un segno simile a quello delle pecore, che indicasse come ella non apparteneva più alla famiglia sua, alla mandra, alla valle.”, è il primo passaggio dall’essere un tutt’uno con la natura libera e incontaminata ad essere un oggetto di proprietà. “Pianse. Sì, adesso era povera, lo sapeva, ne era certa. Aveva visto le belle case, le 72 Questi due sono i motivi di solitudine. “Così, a misura che vedeva più gente e più cose che alla gente appartengono, a misura che osservava più da vicino, e che ogni cosa prendeva ai suoi occhi una forma più chiara e precisa, le veniva una paura superstiziosa di tutto quello che udiva, un ribrezzo morale indefinito, simile alla paura di una malattia contagiosa;” gente, come se lei non lo fosse. B. ha un presentimento di quel che sarà il suo destino, c’è come una preparazione retorico stilistica di quel che avverrà, attraverso una serie di elementi che portano sulla sessualità del corpo e sulla moralità o immoralità che tali discorsi possono portarsi dietro. Cita la malattia perché il disagio del corpo si manifesta attraverso questo. “le pareva che una povera ragazza come lei fosse più d’ogni altra esposta a subire tutto il male che ci poteva essere, ma non sapeva che male fosse; era una paura lontana, vaga e senza motivo.”, qui Emma lascia vedere un elemento fondamentale della scrittura femminile e del pensiero successivo delle donne sulla loro scrittura, cioè che c’è un’antica sapienza del corpo che si trasmette da donna a donna a partire dal rapporto materno. Quindi, questo presentimento proviene dal sapere antico. “Tutta la sua esistenza seguiva così oscuramente il suo corso dalla cucina alle botteghe, dal pianerottolo ove ciarlavano le serve alla strada ove correva timida e affaccendata per far la spesa o accompagnare i bambini.”, il chiuso della casa che è al contempo protettivo e limitante della potenza di B. e l’aperto della strada che è pericolosa. “Le pareva d’essere in un fondo di pozzo torbido, ma tranquillo, ove tutti lavoravano senza speranza, senza distrazione, intorpiditi leggermente dalla mancanza di sole e di ventilazione.” C’è l’immagine del pozzo, è un’immagine inconscia in cui è conservato il deposito del nostro vissuto. La Ginzburg in una lettera esprime la sua posizione avversa all’idea di questo serbatoio di esperienze che crea problemi, lo reputa uno strumento di forza perché solo sapendo ridiscendere nel chiuso delle nostre esperienze si può raccontare un vissuto che possa diventare condivisione con le altre, quindi la Ginzburg lo valorizza, c’è bisogno di cercarlo questo sapere arcaico e depositato nelle esperienze, è come se ci fosse un vissuto che viene da una condivisione di esperienze di genere che si depositano in noi e che, se diventa elemento attivo di produzione, diventa una forza perché è un’esperienza individuale di un vissuto collettivo e che viene depositato in noi. Il pozzo è tranquillo perché è consolante, per la G. è un luogo in cui rifugiarsi e non uscire più, oppure può essere luogo da cui si emerge per produrre e mettere in comune il saper che si è scoperto. “E in quel luogo triste e profondo s’agitava una gran massa di gente che si odiava, che si derideva, che soffriva o scherzava, che si pigiava oscenamente col pensiero e col fatto.”, non c’è una folla che consiste in una rete, ma è un annullamento in un caos in cui ci si isola, non si crea una rete. “Quello che faceva più soffrire la Barberina era la mancanza di quell’aria sana e pura che l’aveva fatta tanto ricca di salute e di forza ne’ suoi monti;”, quindi la condivisione del sapere. “soffriva inoltre di dover vivere fra tanta gente, di abitare con essa quelle case alte e oscure, che si facevan ombra tra loro, consumandosi a vicenda la luce e l’aria.”, addirittura le case della città si personificano. Le case sono chiuse e fagocitano il soggetto, lo spazio si appropria dei corpi che fagocita. “E le pareva che tutta quella gente dovesse consumare incessantemente anche qualcosa di più che luce e aria, qualcos’altro d’ignoto, quasi vi fosse un intenso dolore che facesse vivere la grande città, e che essa richiedesse una depredazione morale ignota, mostruosa come un delitto, dolorosa come un sacrifizio.” Emma sta ancora più inserendo B. nelle scorie che la città mangia, la città è un corpo che mangia queste scorie per nutrire la sua depravazione morale. “Parevale 75 che ci volesse di più che del denaro per far correre quelle eleganti vetture, per vestire così bene quelle belle signore e quei signori, per innalzare tutti quei monumenti che vedeva per le strade e per creare tutti quei teatri de’ quali sentiva vantare maraviglie; le pareva che ci volesse qualcos’altro ancora per raggiungere gli scopi della civiltà; che ci volesse uno sforzo intenso e misterioso, che facesse fruttare le fibre e i muscoli e li traducesse in lusso e in piaceri. E di questi strani sogni della sua immaginazione aveva paura come di cosa vera.” Emma è feroce nei confronti dello Stato nato dal processo risorgimentale, ci si forgia di essere civili, ma si sta costruendo una civiltà sulla depravazione che coincide con la mercificazione del corpo delle donne senza la volontà delle donne. Qui c’è una delle modalità che Emma usa per inserire le proprie idee, cioè le domande retoriche: “Chi aveva incominciato a pensare pel primo a tutto questo? A inventare il lusso, i divertimenti, tutte quelle centinaia di cose che vedeva senza intendere, complicati istrumenti di civiltà che la sgomentavano, come fossero strumenti di tortura? C’era dunque della gente felice anche qui? felice come lo era stata lei una volta, quando lo era tanto, che non aveva neppure coscienza di esserlo?” [Minuti mancanti] “Alla Barberina veniva allora voglia di ridere. Che nei libri ci fossero delle chiacchiere simili a quelle dei bambini o dei bottegai che conosceva? Ma a che serviva il fermare così le parole, invece di lasciarle andare per la loro strada e morire come la gente e tutte le cose di questo mondo?”, la negatività sta nel non essere parole naturali conservatrici, la parola scritta nasce per memoria, per conservare. Per B. significa sottrarre alla morte, dare eternità che in natura non esiste. “Parlavano forse soltanto di fatti strani, come ne vedeva molti senza intenderli; o erano forse pieni di parole, come certe vetrine erano piene di oggetti rari, de’ quali non sapeva a che cosa potessero servire?”, quelli che lei vedeva e non intendeva erano legati all’immoralità e le vetrine servono per vendere, quindi si sta chiedendo se anche la parola diviene oggetto di acquisto. “Quanta confusione di cose crea la gran quantità di gente che vive assieme pigiata nello stesso luogo! E quella confusione la sgomentava come cosa che deve traboccare e invadere,” , quindi la spaventa che la ristrettezza del luogo preveda un’infrazione dei confini, una contaminazione di ciò che è dentro e fuori. “e allora pensava con stanchezza e desiderio ai lunghi silenzi della sua valle, e alla lontana e dolce canzone di Luca.”, la spazialità è un elemento fondamentale nel discorso di Emma, e la contrapposizione tra spazio chiuso e aperto sia anche una contrapposizione tra civiltà corrotta e condannabile della città e invece una natura in cui il corpo si espande e ne diventa parte e in cui la morte non ha valenza negativa, la morte che fa paura è quella della città. Infatti, strappare dalla morte le parole è un elemento negativo perché si dà corpo ad una consistenza anomala. B. finisce in ospedale, altro spazio chiuso e rappresenta un altro momento di conoscenza per B. infatti in esso conosce: l’espropriazione del corpo che avviene dopo la morte. In ospedale accanto a lei c’era un’altra donna: “Dall’altra parte le giaceva accanto un’altra malata. Era una donna di mezza età, brutta, scarmigliata, con gli occhi neri e lucenti.”, caratteristiche che stereotipicamente appartengono all’immagine della strega. “Quando la Barberina si voltò da quella parte la donna le disse: _ È la prima volta che ci viene? _ Sì, _ rispose timidamente la Barberina. 76 La malata sorrise sinistramente. Ci sono già stata sei volte io. Avvezzandocisi non si sta poi tanto male. In che sala la porteranno? _ In che sala...? _ ripeté la Barberina maravigliata. Ah, non lo sa? Auf... che dolore _ disse la donna interrompendosi e contorcendosi. Stette zitta un momento, poi, rimettendosi nella positura di prima, riavviò il discorso. _ Che male ha? _ Non lo so _ rispose la Barberina.”, quindi B. non sa nulla di quel che la riguarda, in quel momento. “Non lo sa? _ esclamò l’altra, e la guardò per un pezzetto con curiosità. _ Sei di certo una contadina?” Quindi l’insipiente per eccellenza è la contadina, la dicotomia che si è creata è cittadina-contadina. “chiese di nuovo, ma dandole questa volta senz’altro del tu,” questo indica una superiorità. “dopo che la giovanetta aveva dato prova di tanta ignoranza. _ I miei genitori sono pastori... _ Ah! _ fece con disprezzo la donna che si contorceva pe’ dolori, e non disse più nulla.” Ad un certo punto la donna anche a lei si riferisce alla morte dicendo che si parte: “Per il camposanto. Ci portan via come cani. È ancora grazia se ci portano via senza farci a pezzi per studiarci. Siamo la povera gente noi... Ci prendono i nostri corpi anche dopo morti _ e le diede un’occhiata maligna e sfacciata;” in questa figura femminile c’è molto cinismo che incarna quello cittadino rispetto alla generosità contadina e deriva dal fatto dell’essere cittadino povero, non si è proprietario di nulla, persino del proprio corpo quando si muore, B. subisce una morte morale, una perdita di controllo del proprio corpo. “Hai paura? Barberina fe’ cenno col capo di sì e voltò il viso dall’altra parte. _ Vergognati... Di che cosa hai paura? Forse ti ha messo spavento quello che t’ho detto ora... del tagliarci a pezzi? Ma non capisci che lo fanno dopo; quando non sentiamo più nulla? Che cosa te n’importa? Non hai ancora imparato a desiderare la morte tu?”, questo segna il punto decisivo nei confronti della morte, B. non la deve più intendere come parte naturale del ciclo della vita, in città la morte non è una cosa naturale, ma un lusso. “Non ci facessero male se non altro che quando siamo morte!”, questo prefigura quel che accadrà a B. “E la donna si voltava e rivoltava nel letto, lamentandosi sempre”, è interessante che questa donna faccia questo discorso mentre sta male, il corpo è argomento e motivo del discorso. “È un lusso che non è fatto per noi l’aver paura di morire. Per Dio santo che male! _ e cacciò un urlo. La servente che passava di lì si fermò al suo letto e le domandò se aveva bisogno di qualche cosa, ma la malata si lamentava e si contorceva sempre senza rispondere; più tardi venne anche una suora di carità, la quale cercò di confortarla con delle buone parole, dicendole che presto l’avrebbero portata in un’altra sala e le avrebbero date delle medicine che l’avrebbero fatta guarire, e intanto l’esortava a raccomandarsi al Signore.” E infatti, l’altra parte del cinismo che distrugge la filosofia di B. è la credenza religiosa, chi viene dalla campagna ha una forte credenza religiosa. Alle parole della donna che le dicono di non preoccuparsi del corpo che verrà tagliato lei vorrebbe rispondere della vita post morte, la fede nella vita successiva. “La donna rispose con un’alzata di spalle e con un lamento. Poi, quando la suora era andata via, si voltò verso il letto che le stava a fianco dal lato opposto a quello di Barberina. _ Pregare! _ esclamò con disprezzo. Barberina sentì ridere. Era un riso soffocato, triviale. Dio buono, pensò la ragazza, come si ride male, in questo luogo! Non sarebbe meglio che piangessero? Che cosa c’era lì dentro in 77 _ Coraggio... sì, ne ho, ma non possiedo nulla, non conosco nessuno qui... Dove posso andare? _ disse ancora la povera Barberina.” Dopodiché, pur di mandarla via, la portinaia la manda da un’altra donna, dall’ortolana. C’è un passaggio importante in cui la signora Rosa rivela la sua natura egoistica: “La signora Rosa era molto noiata della piega che prendeva la conversazione, e pensava tra sé e sé al modo di districarsi da questo imbroglio. La Barberina la supplicava sempre, e parlava sempre di trovare il modo di raggiungere la sua signora; cosa che alla portinaja sembrava tanto ineffettuabile quanto assurda. […] Ma io sono una povera vecchia, che non può far altro che raccomandarla, raccomandarla tanto alla Madonna santissima perché la protegga, e raccomandarla anche a della brava gente, perché la prendano, o le trovino un servizio.”, questa è un’attestazione di potere, anche lei è povera, ma ha il potere di trovarle lavoro. “Su via, coraggio; non faccia delle storie qui in portineria; se il padrone di casa passasse ora, sentirebbe il che mi tocca. Non si scherza con lui, sa? Mi manderebbe via senz’altro, se la tenessi qui anche soltanto fino a questa sera.”, quindi questa è la vera ragione, non è un potere usato per misericordia o aiuto, ma la paura per sé. Quindi la manda dalla fruttivendola. B. prima di andare dalla Beppa (l’ortolana) chiede a Rosa se può andare all’ospedale. “Signora Rosa, _ disse piano, _ se la Beppa non mi trova un servizio subito, potrei tornare all’ospedale? _ All’ospedale! _ esclamò questa. _ Che, le ha dato volta il cervello? Ma se è guarita, che cosa la ci vuol fare all’ospedale? Crede che sia una locanda? Dio buono, ragazzina, non la ci pensi neppure all’ospedale, e ringrazi la Madonna d’esserne uscita così sana e forte. Troverà di certo un posto e migliore di quello di prima, grazie al cielo. Vada, vada dalla Beppa. E la Barberina, mormorando un grazie e un saluto, chinò il capo, e soffocando un singhiozzo, uscì.” La Beppa domina il IV capitolo. “Giunta dall’ortolana, avrebbe voluto entrare subito nella bottega bassa ed umida, tutta piena di paniere, di legumi, di piatti e vasi in terraglia, e nascondersi affatto nel fondo di essa;”, gli aggettivi per descriverla sono importantissimi, non è uno spazio soleggiante, ma anch’esso affollato di oggetti, chiuso e asfissiante. “ma la bottega era piena; un uomo vuotava precisamente allora, nel piccolo spazio rimasto vuoto nel mezzo di essa, un paniere d’erbe, e i bambini della Beppa occupavano quel po’ di posto che ancora rimaneva libero. La Barberina dovette dunque fermarsi in istrada, dinanzi alle paniere delle pesche, dell’uva e delle susine, che l’ortolana aveva esposto in bell’ordine, separate le une dalle altre da lunghe fila rosse di pomodori.”, il fatto che lei non riesca ad entrare già prefigura quel che sarà, il confine della porta non viene superato. La prima accoglienza di Beppa è positiva, era rimasta al fatto che fosse domestica della famiglia, poi quando apprende che cercava lavoro risponde: “Gran ciacciona quella Rosa portinaja! _ disse, _ la mi va ad inventare a questa povera ragazza che ho tanti servizi!... N’avevo, sì, la settimana scorsa, ma ora si son tutti accomodati.”, quindi B. non può trovare una soluzione. Ora si apre un punto fondamentale del capitolo: “In quel punto una donna venne per comperare delle susine. Era una vecchia vestita civilmente, ma con un abito logoro e sudicio, un cappello unto e bisunto, che poteva essere stato bello in altri tempi, ma che ormai non era soltanto fuor di moda, ma quasi quasi non stava più insieme, tanto era sdruscito e usato. Quella donna, mentre comprava le susine, scegliendole in un paniere ad una ad una, toccandole tutte con delle dita magre e lunghe, di un color livido che le faceva sembrar ancor più sudice di quello che erano, sbirciava di tempo in tempo la 80 Barberina con curiosità maliziosa.”, Emma usa come spia per dire al lettore le qualità di questa donna senza ancor dirle, una serie di elementi descrittivi che sono contrappostivi: apparentemente appartiene alla civiltà quindi può sembrare di classe elevata, ma porta i segni dello scarto ed è immagine della corruzione morale e dei vestiti. Ha un cappello, ma è unto e bisunto. Non è una vecchiaia che è antichità, ma decrepitezza, non è simbolo di una solennità, ma di disfacimento e corruzione. A ciò si aggiunge un elemento corporeo, oltre quello di vestito che è di presentazione sociale, cioè il colore delle mani, elemento di vecchia e sudiciume fisco che è immagine di quello morale in quanto è stereotipato. Il lettore lo sa, B. non se ne accorge. “La povera ragazza non se ne avvedeva. Guardava la Beppa che pesava le susine, e il fondo della bottega pieno di panieri, fra i quali ruzzavano i bambini dell’ortolana; dietro a lei, nella via aperta, passava incessantemente, stridula e chiassosa, una corrente umana, che non si chetava e che non riposava mai.”, quindi è schiacciata dalla folla che le impedisce di entrare in bottega delle persone e delle cose e la folla che si muove alle sue spalle che non accoglie e spinge via. “Barberina pensava alla signora Rosa, alla Beppa, alla portineria umida e buia, e alla bottega oscura che le stava dinanzi, ci pensava con desiderio, con invidia, stando nella strada, quasi fosse nel mezzo di un fiume guardando con angoscia la riva.”, l’impossibilità di stare in quegli spazi che lei avvertiva come protettivi rispetto alla strada. “Sperava che la Beppa le rivolgesse spontaneamente la parola, e l’invitasse a restare, o almeno le indicasse dove poteva andare. Ma la Beppa non la guardava neppure. La poveretta, vergognosa, umiliata, chinò il capo, e acciecata dalle lagrime che le pendevano fra le palpebre, fece un passo e si scostò dalla bottega. Non sapeva se doveva volgersi a destra, o a sinistra. Per lei era tutt’uno.”, non ha senso dell’orientamento, quello spazio non le appartiene. “Se avesse potuto indovinare la via che, traverso le grandi campagne che si stendevano intorno alla città, conduceva ai piedi de’ suoi monti; se avesse saputo come fare per arrivarci, sarebbe andata per quella via, così sola com’era, stanca e debole, e avrebbe camminato notte e giorno.”, non possiede il senso dell’appartenenza allo spazio. “Ma essa ricordava che i suoi monti erano lontani; rammentava che glieli avevano fatti vedere un giorno i bambini della sua signora, e che le erano apparsi quella volta come una sfumatura azzurra e lucente all’orizzonte, tanto distanti, che il vederseli così lontani l’aveva allora accorata profondamente; adesso ripensava a quella sfumatura azzurra, vi pensava con terrore e si sentiva proprio e interamente abbandonata da tutti.”, non può tornare nello spazio da cui proveniva, è uno spazio di confine e questo la fa cadere. Tornando indietro, quando B. va via e si scopre cosa fosse passato nella mente della signora Rosa. “Alla signora Rosa non parve vero che fosse andata via. Si rimise gli occhiali, accomodò per bene i guanciali sudici e mezzi vuoti del suo seggiolone, e nella sua triste abitazione, nella sua povertà oscura e malinconica ebbe finalmente il piacere di godersi una volta in vita sua il lusso di un egoismo da signori,”, il lusso di questa classe intermedia è il poter chiudere egoisticamente fuori chi ha bisogno di aiuto. “quello di sentirsi seduta comodamente, al sicuro, in un’abitazione pressoché sua, protetta dal freddo e dalla fame,”, quella era la condizione in cui aveva cacciato B., una condizione in cui non è protetta da freddo e fame. Mentre parla di ciò che la signora R. ha in positivo, scrive in negativo quel che B. non ha: “mentre quell’altra se ne andava via sola, senza asilo, senza sapere se avrebbe trovato al giungere della sera un ricovero per la 81 notte. E intanto il gattone dormiva saporitamente, e la portinaja chiudeva di tempo in tempo le palpebre sotto gli occhiali, e sembrava che l’egoismo soddisfatto mormorasse dolcemente, quasi russasse di piacere, sotto al pelo della bestia e sotto ai logori cenci della donna.”, è anche lui un gatto cittadino ed egoista come la portinaia. “Se a noi fosse dato un sesto senso per udire il segreto agitarsi del pensiero, udremmo così fors’anche l’intiera città mormorare dolcemente, e il brontolìo di piacere dell’egoismo soddisfatto, escendo dalle sue alcove, dalle sue case, dalle sue vie, ci assorderebbe, tormentoso e insistente, avvolgendoci dovunque. Ma l’egoismo è muto per noi; i suoi dolori e le sue gioje sono silenziose, e passa nelle fibre umane senza rumore, pudico e ignobile.” Questo è il punto di Emma, la depravazione morale della città nasce dall’egoismo cittadino, dall’impossibilità di fare rete e protezione. Qui c’è il pensiero politico di Emma. 4 aprile 2019 Quindi, la mancanza della solidarietà femminile è uno degli elementi dell’isolamento cittadino e ne abbiamo viste le ragioni per quel che riguarda la portinaia. La motivazione dell’ortolana sono differenti. B. viene bloccata tra la bottega e la strada dove passa la folla, c’è una riflessione su di questo molto importante. Infatti, vede la strada piena di gente, l’ortolana vuole che se ne vada in quanto fa cadere il decoro del negozio. B. vedendo dietro di sé la folla inizia una riflessione affidata alla voce narrante: “Ma tutta quella gente non capiva, non sentiva dunque nulla? La disperazione di quella giovanetta, quasi ancora bambina, che piangeva lì in mezzo a loro, nessuno fra tanti l’intendeva? Eppure passavano delle mamme portando seco con amore, sorridenti e attente i loro bambini, c’erano delle donne che rimbalzavano impaurite soltanto perché la ruota di una carrozza era passata troppo vicino alla loro veste, altre spaventate indietreggiavano perché il bambino dell’ortolana, annaffiando il lastricato dinanzi alla bottega, aveva minacciato di schizzarle coll’acqua, altri si salutavano premurosi o s’incontravano sorridenti; era dunque tutta quella gente capace anch’essa di sentire paura e affetto, e mostravasi anzi puerilmente esagerata nella propria sensibilità; eppure alla sua angoscia non v’era fra tutta quella gente chi prestasse attenzione.”, quindi tra l’egoismo della portinaia e quello dell’ortolana si colloca quello complessivo della gente, la cui qualità è l’indifferenza a partire dalle figure femminili (donne e madri). “Ad essa, annientata dalla disperazione del più crudele abbandono, non riusciva di far intendere a nessuno quanto soffriva! Chi se ne avvedeva? In quel momento ricordò le belle botteghe già vedute altre volte nelle vie principali della città. Ricordò con chiarezza morbosa tanti piccoli oggetti di lusso, tante piccole invenzioni ingegnose che v’avea ammirate, le quali dovevano servire alle necessità della vita dei ricchi; tutte cose che non aveva mai più rammentate dal giorno in cui i bambini della sua signora gliele avevano mostrate e descritte con orgoglio e loquacità infantile. Ora, a un tratto, le tornavano alla mente. Come mai, pensava la fanciulla, quelli stessi che hanno inventate delle macchine che cuciono da sé, delle lenti maravigliose sulle quali rimane impressa per sempre l’immagine umana, dei fili miracolosi che portano lontano le parole con la velocità del pensiero, delle macchinette semplici come balocchi da bambini che pure ti sanno fare mille e mille gingilli graziosi e inutili, come mai quella stessa gente tanto attenta ai bisogni degli altri, tanto sapiente e ingegnosa nel soddisfarli, non aveva mai preveduto un bisogno crudele come il suo, e non aveva, prevedendolo, inventato nulla per rimediarvi?”, qui torna più forte di prima la metafora iniziale. Il lusso è diventato tecnologia, la contrapposizione è tra la tecnologia come strumento per 82 e che la spensierata indifferenza del ricco, che ricrea l’intelligenza in codeste lotte,”, Emma attacca la classe aristocratica che insieme alle altre classi alte ha contribuito al processo risorgimentale, svagandosi con esso. “impoverisce sempre più il bisognoso senza compensarlo in verun modo di quello che gli toglie, così si fa sempre più il vuoto intorno al povero, il soccorso s’allontana sempre più da lui, il mondo ideale che lo confortava,”, lo confortava con un’idea di trascendenza. “dilegua senza che nella realtà gli venga sostituito il benefizio di una solida istruzione;”, qui sta il problema: se si fosse sufficientemente istruiti si saprebbe l’esistenza di determinati sussidi, quindi il punto focale di tutto è la formazione, la necessità di educare tutti i propri sudditi a prescindere dalla classe d’appartenenza. “e se nelle ore di tribolazione cercherà un soccorso sulla stessa via, ove i suoi avi incontravano il prete e si prostravano con esso dinanzi agli altari, dubitiamo assai che incontrandovi invece un libero pensatore e vedendo su quegli stessi altari rovesciati, la dea Ragione o l’immagine dell’uomo scimmia, ne tragga le consolazioni che s’ebbero i suoi padri.”, sta dicendo che la religione aiutava i bisogni del corpo e dava un’ideale più o meno positivo, il laico non sa contrapporre ad esso un’altra idealità, che potrebbe essere quella della ragione, non lo sa fare e quindi non sa consolare la condizione umana. Per questo chi è povero è anche moralmente misero, non ha un appiglio per sopportare questa condizione. “E a questa miseria morale e materiale, che accresce di tanto la miseria già esistente nel mondo, non si riparerà così presto. Stolto e puerile è lo spirito che spinge i più alla demolizione, e gli animi loro sono quasi sempre incapaci di misurare la grandezza e l’efficacia della cosa che demoliscono.”, si dovrebbe, quindi, stare attenti a demolire qualcosa senza prima mettere qualcosa che sostituisca a quel che viene abbattuto. “L’intelletto grossolano dei demolitori non capisce quanta grandezza di vita civile, quanta fede gagliarda nell’opere buone, quanta intensità di lavoro e di forze ci vorrà per ricostituire nel mondo cosa che valga e superi le religioni perdute.”, il problema non è quello di creare un’altra religione, ma di capire che i bisogni spirituali e materiali sono dell’essere umano e bisogna rispondergli con qualcosa, se quello di prima è abbattuto serve una nuova carità civile. Il V capitolo non fa andare avanti sulla vicenda, Emma interrompe nel momento della massima tensione, si inizia infatti a capire che Emma non troverà niente da Beppa e Rosa, l’obiezione di Emma è fatta in anticipo. Inizia a prendere la forma di pamphlet. Inizio del capitolo sesto. Beppa prova a fare da passa barile tra commercianti: “La Beppa non sapeva che farsene di quella ragazza che piangeva sulla porta della sua bottega; servì la vecchia, guardò ancora la Barberina, e vedendo che dopo fatta una mossa per andarsene si era di nuovo fermata, le disse: _ Provi dal droghiere di faccia... _” Immediatamente dopo si inserisce la vecchia, da notare con che voce, infatti Emma non perde occasione per accentuare i contrasti di questo personaggio, ci sono elementi contrastanti che da una parte giustificano la caduta in errore di B., ma dall’altra non giustificano quella del lettore che dovrebbe sapere perché ci sono quegli aspetti, è B. che non riesce a capire: “la vecchia a queste parole fissò con molta curiosità l’ortolana e la Barberina; si avvicinò alla ragazza, e con voce stridula e carezzevole ad un tempo, le chiese: Che cos’ha questa bella giovane che piange? le è seguìta forse qualche disgrazia? _ È fuori di servizio e non sa dove andare. È uscita oggi dall’ospedale, poverina, _ replicò la Beppa, guardando la vecchia con aria diffidente e nello stesso tempo sperando che le 85 potesse dare qualche suggerimento per liberarsi da quella seccatura.” La vecchia si mostra dispiaciuta e B. risponde: “Barberina si sentì tutta commuovere per quelle buone parole così piene di compassione e d’interessamento; guardò la sconosciuta che le aveva dette, si asciugò gli occhi, e le rispose con voce tremante per la voglia di piangere e per la gran debolezza che provava: _ Il mio paese è lontano lontano,”, non riprende quel che ha detto la Beppa, ma lamenta la lontananza spaziale come la vera natura della sua difficoltà: non appartiene a questo luogo. “non conosco nessuno qui, i miei padroni sono partiti e non so più che cosa fare.”, B. ha un momento di grande lucidità, le fa cogliere la ragione del suo smarrimento: lei è smarrita perché non è nel suo spazio. La vecchia le offre servizio e, infatti, B. la reputa buona. A questo punto Emma ripete le sue caratteristiche: “Era una brutta vecchia. Ma quel viso rugoso e quei capelli bianchi ispiravano fiducia e rispetto alla ragazza; le ricordavano la sua nonna, che filava la sera seduta sulla pietra del focolare accanto a lei, e sulle ginocchia della quale aveva poggiata tante volte la testa addormentandosi, mentre essa le contava delle novelle.”, è un’immagine bellissima, infatti l’elemento che tranquillizza B., appartiene al suo paese, all’area della memoria e alle favole, quindi al linguaggio dell’infanzia e l’idea che la trasmissione che avviene attraverso al racconto (le persone anziane trasmettono saggezza attraverso i racconti). Quindi, B. commette un errore: non vede che è brutta (segnale stereotipato narrativo: brutto è cattivo), coglie solo che è vecchia. B. segue l’anziana. “e poi dicono che la provvidenza non c’è. _ Oh c’è, c’è di certo, _ esclamò la Barberina tutta commossa, _ c’è, e m’ha mandato lei! Se sapesse quale era la mia disperazione! Ma non sarò ingrata: vedrà; mi saprò fare onore dai miei padroni, lavorerò notte e giorno e mi ricorderò sempre di quello che ho sofferto in questa mattina. _ La Barberina aveva ritrovata finalmente la parola,”, quindi nel momento in cui riesce ad identificare nel personaggio una conoscenza, un sapere che le appartiene come la nonna, ritrova la paura. “La vecchia l’ascoltava con aria di compiacenza. Di tempo in tempo sorrideva, ma quel suo sorriso agghiacciava la parola ardente e grata della Barberina, perché era un sorriso sfacciato, maligno e pieno d’ironia;”, questi ultimi tre termini sono gli stessi utilizzati da Emma per i racconti che sembrano fastidiosi a B., quindi al lettore questo dice che si sta andando verso quel campo dell’immoralità che B. ha appena presentito nei discorsi che non comprende. “ma quando poi riprendeva a parlarle con quel suo fare untuoso,”, nel sistema occidentale l’unto è segno di ambiguità ingannevole. “con quella sua voce, stridula sì, ma a momenti quasi melliflua, allora la Barberina si faceva coraggio e le discorreva di nuovo a cuore aperto, con tutta la candida ingenuità del suo animo.”, B. è ingenua, la vecchia il contrario; qui si gioca l’impossibilità di B. di capire i segni corporei dello spazio in cui si trova, non li sa decodificare, infatti nel suo sistema linguistico e di valori la vecchiaia ha un valore positivo, qui ha un valore positivo se accompagnata da altri elementi. B. non ne tiene conto perché nel suo posto natio la vecchiaia ha solo valori positivi. Non è un caso che la motivazione della Beppa sul non essere solidale con B. è in questo capitolo, quindi se delle motivazioni della portinaia Emma ne aveva parlato trattando il lusso e l’indifferenza, ora la Beppa le serve per parlare di un altro tipo di egoismo. “Quando la Beppa vide la Barberina che s’allontanava in compagnia di quella donna, portando sotto il braccio l’involtino dei suoi panni, e con il fazzoletto che aveva sul capo stretto sotto la gola e messo in modo che quasi le nascondeva il viso, col suo portamento umile e 86 modesto e quella sua aria tanto giovanile che quasi sembrava ancora bambina, allora la Beppa crollò il capo, fece una smorfia e volse il viso dall’altra parte fissando per un momento, con paura, la sua piccina che giuocava seduta sopra una paniera nel fondo della bottega. Se la figurò grande, la vide con l’immaginazione così come aveva visto adesso la Barberina in compagnia di quella donna; poi pensò alla bottega, all’economie già fatte, all’eredità che s’aspettava da una parente, e il suo sguardo si rasserenò. Andò a dare uno schiaffetto di compiacenza alle guancie paffute della bambina; poi, tornando sulla soglia della bottega, brontolò fra sé, rialzando il grembiale sopra un fianco: _ Gran ciacciona quella signora Rosa!” Beppa ha questo atteggiamento indifferente perché proietta sulla figlia il rischio e la paura che capiti la stessa cosa di B. a sua figlia, il desiderio di allontanamento è anche nel non voler vedere quello che potrebbe accadere e quel che accade nei fatti poi. Questo rischio comune si contrasta con l’indipendenza economica, quindi se Rosa è soddisfatta di aver raggiunto un semi-lusso potendosi addormentare in uno spazio suo, Beppa vuole dare a sua figlia la tranquillità economica, lei ha creato un meccanismo tale per cui la trasmissione che passa a sua figlia è soprattutto averle dato un’indipendenza economica grazie alla quale lei potrà decidere della sua vita. A B. mancando l’indipendenza economica ha un destino segnato. C’è una figura secondaria in realtà importante: Giustina. B. ha sempre delle tappe intermedie, non arriva mai subito allo spazio destinatole. Prima di essere portata in una casa chiusa, B. sosta nella casa della vecchia in cui c’è un correlativo oggettivo, cioè un personaggio che è prefigurazione sia di quel che poi avverrà, ma anche della trasformazione interiore che l’appartenenza a quel determinato spazio comporta nei soggetti che vi abitano, cioè Giustina, la serva della mezzana (vecchia). Sono interessanti anche gli elementi che caratterizzano la casa della mezzana: “Dopo un quarto d’ora di cammino, la donna si fermò dinanzi ad una vecchia casa con una porticina bassa e stretta che metteva ad una scala mezza rovinata, ripida e sudicia.”, la casa è vecchia e sudicia come la mezzana e quando ne aveva descritto gli abiti ne aveva parlato come in decadenza, questa allo stesso modo è una casa in rovina che rappresenta il decadimento morale. “Fece passare avanti la Barberina e salì dietro a lei sino al primo piano. Si fermò sul pianerottolo e mise il capo fuori di una finestra dinanzi alla quale passava una ringhiera che faceva il giro di tutto il cortile della casa. Era un cortile stretto e buio. La casa era altissima, e visto dalle ultime ringhiere quel cortile doveva rassomigliare al fondo di un pozzo.”, questo è l’abisso visto dapprima come sensazione interiore di B., poi come un abisso vero e proprio di sofferenza in cui si trovava B. e ora ha un correlativo oggettivo (la casa). Se Giustina è un correlativo oggettivo del personaggio interiore di B., la casa è il correlativo oggettivo della città come luogo di corruzione, quindi il simbolo materiale che porta elle sue componenti il tema della decadenza morale. “Vasi di fiori, cocci ripieni di terra nella quale crescevano delle pianticelle scolorite e cadenti,”, non c’è la vivacità della pianta. “cenci d’ogni dimensione e colore”, non vestiti, ma cenci. “empivano tutte quelle ringhiere dalle quali sgocciolava sempre, ora dai cenci lavati, ora dalla terra umida dei fiori, qualche rigagnolo di acqua torbida e sudicia, la quale, cadendo nel cortile, lo manteneva umido e fangoso, quasicché ci piovesse sempre.”, nemmeno l’acqua è positiva, c’è lo stereotipo concentrato della negatività. Gli stereotipi spaziali creano un’aspettativa e creano un’appartenenza di significato. Dentro questa casa a cui si arriva attraverso una guida che ha tutte le caratteristiche di questo 87 servire una signora che abitava in una casa tanto bella, che la sua timidità e la sua inesperienza sarebbero apparse in ogni sua parola, e tremava di non essere ben accolta.”, sappiamo ancora una volta che nella fase d’immissione in questo nuovo spazio B. viene chiusa in una camera, cioè quella della trasformazione in cui deve avvenire l’abbandono, anche formale attraverso il cambio del vestito e della percezione di sé, della sua concezione originaria verso l’adozione di quella nuova. Infatti, la prima cosa che avviene in questa stanza è l’arrivo di nuovi indumenti che B. deve indossare. Nella stanza ci sono altri elementi contraddittori: il mobilio è bello, ma ci sono le persiane (le gelosie) chiuse a metà (“Le finestre della camera erano aperte, ma le gelosie chiuse sino a metà altezza della finestra non lasciavano penetrare nella camera senonché la luce che veniva dall’alto.”), quindi un altro elemento che è simbolo di ciò che è fuori, è posto in alto a simboleggiare la sua irraggiungibilità dal basso che viene occupato dal soggetto, il basso è simbolo della condizione morale occupata dal soggetto, come nel Medioevo c’è la contrapposizione di tipo topologico che vede il basso come negativo e l’alto come positivo. “Barberina, stanca di starsene oziosa ad aspettare, s’avvicinò alla finestra e volle aprire le gelosie. Ma erano chiuse e assicurate in modo che non le riescì di aprirle. Guardò allora traverso le piccole sbarre di legno”, diventa una prigione, le sbarre indicano una forma di chiusura e separazione dell’esterno. “vide un giardinetto chiuso fra delle case e delle mura, umido e malinconico, senza che in esso crescesse neppure un fiore;”, quindi il giardino che in genere è espressione di natura che finora è stata positiva, qui non dà vita. “delle donne litigavano in un cortile vicino, e le loro voci stridule, e le parole ingiuriose e sconce che profferivano, arrivavano chiare e distinte agli orecchi della Barberina, quasi fossero vicine a lei o nella stessa camera.”, le prime voci che sente nel nuovo ambiente sono come quelle dei racconti che la mettevano in imbarazzo. B. ha con le parole un rapporto complesso e complicato: o è una parola che non comprende e che decodifica in modo diverso e a lei contrario, quindi che la fa sbagliare, oppure sono parole che si riferiscono a qualcosa di morboso che le crea paura e vergogna. Anche queste voci sono stridule e quindi sgradevoli. “La ragazza si allontanò dalla finestra. Le metteva malinconia il guardare in quel giardino buio e desolato, e anche le voci di quelle donne le mettevano una certa paura addosso, come se quelle ingiurie oscene fossero dirette a lei.”, il passaggio sintetizza il valore di questi due elementi introdotti ed inutili al senso della narrazione, ma servono a dare allo spazio un valore di rappresentazione simbolica: il giardino la spaventa perché non genera vita e le voci la spaventano perché è come se presagissero un destino di corruzione a cui poi effettivamente B. è destinata. Arrivano i vestiti e B. viene quasi costretta dalla serva della tenutaria ad indossarli. “le presentò un bel vestito di lana leggera, in colori chiari, e fatto come quelli delle signore; le dette della bella biancheria e le fece provare due o tre paia di scarpe, perché scegliesse quel paio che le stava meglio.”, c’è una contraddizione tra l’opulenza dei vestiti che le vengono offerti con la condizione che B. pensa di sé come domestica. B. non capisce: “La Barberina non ci capiva proprio niente a questi discorsi, ma il fare autorevole, quasi prepotente della donna l’intimidiva troppo, perché ardisse di interrogarla o di opporsi alla sua volontà.”, quindi l’atteggiamento di B. è attrazione e repulsione per i vestiti che ha davanti. “La Barberina guardava e toccava con maraviglia il bel vestito che doveva indossare. Non ne aveva mai portati di così belli, né in colori tanto chiari. Le faceva piacere di mettersi addosso quella bella stoffa, eppure provava una ripugnanza nascosta e dolorosa all’idea di 90 dover svestire il modesto abitino di tela che le aveva comprato la sua buona signora di prima.” In seguito Emma fa un’esatta contraddizione tra il vestito che B. porta e quello che dovrebbe indossare, questo è fatto per certificare ancora di più al lettore il passaggio che avviene, infatti il vestito traveste, ovvero veste l’identità del ruolo che essa deve svolgere e quindi B. è chiamata a lasciare con l’abito il ruolo di domestica e passare a quello di prostituta. “Era un abitino scuro, e la sua signora le aveva sempre detto che una ragazzina nel suo stato non doveva mettersi certi abiti di colori chiassosi o fatti alla moda, come quelli delle signore. La sua prima padrona le aveva dato più volte dei buoni consigli,”, quindi nel momento di cambio d’identità si vengono a scoprire le ragioni della marchiatura precedente, cioè perché quel vestito era adatto a B., la sua prima donna le aveva fatto per un po’ di tempo da madre, ma viene appreso solo ora. “le aveva parlato dei pericoli che minacciano le giovanette abbandonate, le imprudenti e leggere; ed ora, improvvisamente, quei consigli si affacciavano alla sua memoria,”, quindi per la prima volta B. comincia a cercare un vocabolario con cui decifrare il senso di ciò che le sta avvenendo e lo ricerca nei consigli della sua vecchia padrona raccontandolo solo ora, perché ora sente la necessità di richiamare quella prima forma di sapere trasmesso datole dalla vecchia padrona. “e le pareva di udire in sé una voce che le gridasse di non levare il suo povero abitino e di non mettere quella bella veste.”, quindi di non attuare quel passaggio di identità e di non appartenere alla casa a cui appartiene quell’abito e ciò che lo spazio e quell’abito portano con sé. La servente insiste e gioca sull’incapacità di B. di non arrivare pienamente a capire dove si trova e la minaccia di cacciarla di casa se non indossasse l’abito, quindi alla fine B. cede. “Non fece più obbiezioni; e ritraendosi vergognosa e timida in un canto per non farsi vedere da quella donna, che senza nessun riguardo se ne stava in mezzo alla camera osservandola sfacciatamente, si spogliò e si rivestì.”, abituata a vivere in questo modo la serviente valuta la merce: “Siete un bel pezzo di ragazza”, la serviente ha un potere indiretto in quanto è in contatto con chi lo ha realmente in quella casa. “disse la donna, e aggiunse qualche altra osservazione che fece diventare la Barberina rossa rossa come un galletto. Se la sua padrona di prima avesse sentito!”, B. misura la distanza tra questo modo di parlare e presentare il corpo e il modo in cui esso è visto e percepito dagli altri rispetto a come lo faceva la sua prima padrona. A questo punto accade un altro passaggio fondamentale in tutta la storia della letteratura: l’eroe che si specchia. Il rapporto con lo specchio è fondamentale, da ricordare Rinaldo che viene liberato dagli incantesimi specchiandosi, il vedersi nello specchio è la registrazione profonda del proprio cambio identitario. Oppure il mito della Medusa che viene distrutta perché il suo sguardo torna a sé stessa attraverso lo specchiarsi. L’autovedersi, il prendere consapevolezza della propria identità e del proprio vedere è una delle forme metaforiche con cui il pensiero occidentale simboleggia l’autoriflessione del soggetto su di sé in un destino. La serviente gira lo specchio e fa vedere a B. sé stessa: “La Barberina obbedì, e quasi quasi non si riconobbe. La ragazza che vedeva nello specchio le parve un’altra; si vide più grande, più snella, ma non per questo le parve che il suo aspetto avesse migliorato;”, le parve un’altra perché lo sta per diventare. Quando parla dell’essere snella c’è un passaggio squisitamente psicologico: essere snelli non sempre è un elemento di positività, ma è un atto di controllo che induce in tentazione il pensiero maschile per soddisfarlo. B. allo stesso modo non vede un corpo per sé, ma preparato per il desiderio dell’altro, quindi vede un sé confezionato a misura di un altro che di quel sé si deve appropriare, B. quindi non trova in questo 91 un abbellimento. “quell’aria da signorina della quale andava debitrice all’abbigliamento elegante che portava, le sembrò una maschera bugiarda, e si vergognò profondamente nel vedersi vestita a quel modo, come se avesse voluto con quel lusso rinnegare se stessa, i suoi parenti, le persone che amava di più.”, cioè le sue radici identitarie, è uno stravolgimento di ciò che lei è. B. si chiede come farà a pulire con quei vestiti, infatti ancora non ha capito pienamente e la serva le risponde con l’ambiguità del linguaggio che non risponde mai la questione. Ad un punto il sospetto si inizia a creare in B.: “non vorrei per tutto al mondo escire di casa vestita così. _ Perché? _ domandò maravigliata la donna, fermandosi sull’uscio. _ Avrei troppa paura d’esser presa per una... via... m’intende... una ragazza poco per bene.”. B. inizia a capire quello che avviene e la serva ironizza su questo come per intendere che il lettore ha capito, ma B. non del tutto. Il disagio morale diventa innanzitutto fisico: “Barberina si rimise a sedere sopra una seggiola; si sentiva debole e stanca. La malattia patita e della quale non era ancora interamente ristabilita, le commozioni di quella mattina, lo spavento e il dolore, l’avevano scossa assai più di quanto ella potesse rendersi conto in quel momento.”, la reazione fisica è di disagio corporeo. Comincia a ragionare sulla sua condizione parlando di lei come se non fosse lei: “Quella ragazza seduta nel mezzo della camera con quell’abito chiaro addosso le fece quasi paura.”, c’è una scissione: B. parla di quell’immagine come se non fosse lei, ma una parte schizofrenica della propria identità. “Le s’affacciarono a un tratto alla mente mille incertezze e mille paure. La fanciulla ben vestita che vedeva nello specchio, raccontava alla povera Barberina delle tristi istorie, piene di dubbi e di sgomenti. Istorie vaghe, indefinite. Alla Barberina, dal luogo nel quale sedeva, non riesciva di vedere di sé nello specchio se non altro che la persona”, B. non vede il suo viso, ma solo il corpo riflesso, questo è interessante, infatti il viso è la conferma della propria identità nel pensiero occidentale. B. non vede il suo viso e può ancora giocare sull’incertezza che non sia lei colei riflessa nello specchio. “Le sue mani, sbiancate dalla malattia, poggiavano sul bel vestito e le sembravano quelle di un’altra, di una vera signorina; e nel fondo, dietro quel riflesso, il letto parato e una poltrona imbottita e coperta di stoffa rossa accrescevano l’illusione che provava dell’essere sotto il fascino di un sogno e di non vedere in quella spera l’immagine di se stessa”, parato significa preparato. B. ancora nega il suo cambio identitario. “Ma di tempo in tempo la ragazza chinava un poco il capo, e allora rientrando tutta nel campo dello specchio, ci vedeva il proprio viso e si guardava attonita e impaurita. Allora la signorina e la giovanetta tornavano ad essere una cosa sola, e la Barberina provava uno spavento indefinibile di quelle due che erano pure una sola, e lo dovevano essere, eppure erano tanto dissimili fra loro.”, B. vive una duplicità identitaria: tra le due identità non si sa muovere, non sa abbandonare la precedente e non vuole accogliere quella nuova. È una soluzione di continuità che non permette la fusione di queste due identità. “E per acquietarsi Barberina rialzava il capo, e così uscendo di nuovo dal campo dello specchio non ci vedeva più il proprio viso.”, gioca con l’illudere sé stessa di non essere quel corpo che aveva avanti. B. inizia ad avere dei seri sospetti, ma ci è arrivata solo dopo il cambio identitario. “Barberina aveva dei brutti sospetti. Era ignorante, ma pur sapeva vagamente di molte cose che il popolo non tiene occulte alle giovanette, o le nasconde così male, che il vero si rivela a loro sempre più o meno esattamente. E certe cose che la Barberina sapeva a metà, delle quali aveva sentito discorrere o in 92 delicato che si creda capace di riconoscere fra le risa e gli urli triviali di tante perdute, il grido di dolore di una sola che invoca aiuto. E sgomenti della propria incapacità, l’impotenza è scusa ai migliori, che pur vorrebbero rimediare in qualche modo. Si dovrebbe dunque disperare affatto di riparare a questo male e rassegnarsi a questa nuova forma di schiavitù sorta nei tempi moderni?”, si chiede la grandezza dell’ingegno umano, l’ideale della perfezione a cosa serve. “A che servirebbe educare l’orecchio alle sottigliezze dell’armonia, avvezzare i nervi dell’udito ai piaceri dolcissimi della melodia, a che servirebbe portare i sensi a vivere nel campo ideale e a toccar quasi con mano l’idealità e far trasalire al contatto del proprio pensiero, i nervi altrui, a che servirebbe tutto ciò, se nella grande vita del mondo e della società si rimane ciechi e sordi?”, rivendica per la letteratura un ruolo politico e civile, infatti alle spalle e davanti ad Emma ci sono il Romanticismo e l’Idealismo, siamo nel secondo Romanticismo, epoca in cui questi due elementi, l’aspirazione alla perfezione spirituale e la constatazione della caducità umana sono due elementi che convivono, ma Emma si ritrova schiacciata tra di essi perché sa che non ci sono quegli ideali positivi e di Paradiso, ma c’è un ideale di decadenza se la letteratura non abbandona i territori dell’ideale. La letteratura non ha una funzione estetica né didascalica, ma civile per incidere e cambiare il mondo. “Sprechiamo tutti indubbiamente nelle sottigliezze della vita ideale una gran parte di ciò che dovremmo alla realtà”, qui registriamo già negli anni ’70 al realismo, la necessità che la letteratura parli della realtà. “Che cos’è in noi, per esempio, questo amore dell’arte, che prende tanta parte di noi stessi e allontana i più dalle opere grandi della vita pratica?”, torna l’emblema della vita pratica e della vita contemplativa: o si è lo scrittore eremita e non ha rapporti con la società e quindi l’estetica e il bello sono fini a sé stessi e si vuole raggiungere solo quelli, oppure si scende da questo spazio e si inizia a vedere cosa c’è realmente intorno. “che prende i migliori fra noi per acutezza di sensi e prontezza d’ingegno, e li esaurisce in un’opera sterile, e fa fare ad un uomo che soccorrerebbe forse coll’ingegno ai mali di tanti, una statua inutile o una tela infeconda? È un lusso, non una necessità.”, quest’ultima è una dicotomia presente in tutta la scrittura di Emma, cioè il lusso che non tiene conto della necessità diventa depravazione, solo quando il lusso mantiene un’attenzione alla necessità della vita è un elemento della società e non uno che impoverisce e corrompe il cittadino. “È cosa che ci impoverisce, esaurendoci nell’opere della fantasia e che ci rende poi impotenti nell’effettuazione di quello che si potrebbe fare nella vita reale.”, quindi il fare artistico che si ferma all’ideale e non guarda alla pratica e al vissuto è sterile e astratto. “Eppure, trattando ora di una fra le cose che più ci esaurisce l’intelletto, eppure l’arte vera è solamente nel vero, e la creta nella quale il genio artistico deve modellare i suoi ideali è la natura umana, calda e viva, e non soltanto il marmo inerte;”, si riconoscono gli accenni a quel che sarà il verismo e il naturalismo. Bisogna tornare sulla Terra con la nostra riflessione e la denuncia. “Scienza ed arte, tutto rimpatria; e alle lontane speranze succedono i fecondi tentativi per far migliore il presente; e i sogni di perfezioni vaganti fra le nebbie delle astrazioni, diventano audaci tentativi per perfezionare la realtà. Il nostro Dio non è più lontano, inarrivabile, è qui con noi nella natura, negli uomini e nelle cose,”, non è un Dio religioso, ma un’idea astratta di bello che è fuori dal contatto con il vissuto esperienziale. È una scrittura di donna, per cui l’esperienza è il fare un’esperienza, il vissuto è aver fatto un’esperienza e aver ragionato su quest’atto di vissuto e che lo rende un elemento della propria conoscenza. “è nelle speranze e nelle fatiche d’oggi, è nell’abnegazione con la quale si lavora per 95 far più felici quelli che verranno domani.”, questo è il senso della pratica politica per Emma. “Così, anche alla piaga sociale, dalla quale ebbe origine tutta la mia storia,”, quindi il motivo per cui ha raccontato tutto ciò è per una piaga sociale, il suo prodotto di narrazione ha origine in una realtà che la circonda. “si sentirà forse un giorno la necessità di porre rimedio, e un alto sentimento umanitario troverà finalmente modo di riparare ad una condizione di cose tanto intollerabile quanto vergognosa.”, le ultime parole sono di speranza rispetto alla scrittura che vuol dire al contempo che la scrittura che ha prodotto si prefigge un cambiamento nella realtà o oggi o nel futuro. Ha un potere di cambiamento. Si sono visti due modi diversi per cui usare la scrittura, ma entrambi con l’obiettivo di avere un riflesso su quel che è la società che circonda o che si vorrebbe fosse prodotta. Nella scrittura femminile questo obiettivo ha una determinazione più forte riguardo al rapporto esistente tra la creazione di una nazione e la creazione di un’identità nazionale: creare una nazione significa creare un’identità nazionale e mettere chi fa parte di questa nazione in una condizione di poter condividere privilegi e non della condizione nazionale. Lo fa usando molte figure già viste, come la contrapposizione degli spazi, il rapporto con il corpo come interfaccia della società. Nel 1864 c’è il testo della Caracciolo, nel 1878 il testo di Emma, il terzo testo della Serao verrà pubblicato nel 1901 ed è il testo di svolta. Sono passati 40 anni dall’Unità dell’Italia e c’è di nuovo una reazione che viene da una sollecitazione che proviene dal contesto sociale. La differenza dal ’64 al 1901 è che il primo è una finzione completamente autobiografica, quindi lo stile e la forma usata è la prima persona; con Emma siamo in un punto intermedio, infatti la storia è reale, ma l’autrice la camuffa perché reale, quindi gli eventi vengono rappresentati come accaduti, ma viene narrato in III persona, c’è un primo allontanamento dalla realtà; Serao inventa completamente i caratteri e le vicende della storia che racconta, ma parte da un atto parlamentare vero che espropria tutte le proprietà ecclesiastiche che non hanno una finalità di utilità pubblica, quindi tutte quelle inutili alla società, come i monasteri di clausura. La storia è finta perché ambientata in una struttura che non viene chiusa perché è una scuola, quindi nella realtà non accade, ma la Serao lo trasforma in un convento di clausura femminile e quindi lo fa rientrare in quella legge. Matilde Serao è una figura importantissima per la storia delle donne, in quanto incarna le forme della professione femminile. Siamo tra la fine del ‘800 e l’inizio del ‘900 non nasce in Italia, ma in Grecia, si trasferisce quando l’Italia è già unita ed incarna la professionalità intellettuale femminile nella sua completezza, esordisce con i lavori allora consentiti alle donne, come ad esempio la telegrafista dello Stato, non nascendo da una famiglia ricca lavora da subito. In seguito, da autodidatta prende la licenza di maestra e inizia ad insegnare. Come la maggior parte delle intellettuali, inizia la sua professione dopo queste due più generiche collaborando con le riviste e i giornali, questo significa innanzitutto la pubblicazione dei racconti, è lei che inaugura il processo che porterà al giornalismo femminile, in quanto è lei a fondare e dirigere Il Mattino e fonda il giornalismo d’inchiesta. La Serao per molto tempo mantiene nella professionalità giornalistica quella di giornalista vera e propria, è una giornalista completa: dall’organizzazione pratica e materiale della conduzione e direzione di un giornale alla produzione di ciò che va dentro di esso, nei due aspetti dell’articolo di fondo e di cronaca con quello di collaborazione letteraria e quindi pubblicazione di articoli e novelle. Da questo punto di vista è importante questo testo, oltre che dal punto di vista letterario, per la figura di autrice che scrive questo testo per dire qualcosa anche attraverso questa forma di scrittura 96 alla situazione di Stato che si andava definendo e che lei commentava anche attraverso le sue inchieste. 9 aprile 2019 Ricordiamo che la Serao fu giornalista, in quell’epoca il giornalismo era ancora praticato perlopiù dai letterati. Scrive una ventina sia di racconti che di romanzi che in genere vengono pubblicati per volumi, questo comporta dei cambiamenti linguistici e stilistici, infatti il volume (rispetto alla pubblicazione su giornale) non raggiunge un pubblico ampio, ma specialistico per via del costo. Infatti, la lettera a Paolo Bourget è presente solo nel volume, quindi scrive ad un intellettuale (che tradusse la Serao in francese) e autore che appartiene al registro alto della lettura, la lettera a lui sta significare che la Serao sa che il volume è destinato ad un pubblico più specificato e questo fa capire che lei è attenta alla ricezione. È un romanzo-denuncia narrativo, cioè i personaggi e i testi sono inventati, escluso il motivo usato come input per la narrazione: la legge del 1890 che per pubblica utilità prevedeva la reclusione degli spazi ecclesiastici inutili per la società. Nella scrittura della Serao giornalismo e letteratura sono sempre fortemente legati, molto spesso Matilde pratica una fusione in forma narrativa completa di cose scritte parzialmente in articoli, un esempio è un testo del 1883 la conquista di Roma è uno dei suoi testi peggiori scritti da lei, perché lei stessa dice che lo ha fatto per cucire insieme una serie di pezzi di costume in cui era Roma ormai rappresentata come l’ambiente del parlamento e altri aspetti della vita sociale, tutto ciò lo ha messo insieme mettendoci un protagonista che attraversa tutti questi spazi, ma è una forma di pettegolezzo. Il rapporto con lo spazio è nella narrativa della Serao è importantissimo, una critica che le venne mossa più volta era di mettere in una forma narrativa più ampia delle cronache mondane. Il tema dell’espropriazione degli spazi ecclesiastici e di cosa comportasse nei soggetti che ci vivevano, era già stato trattato dalla Serao appena dopo le leggi, pubblicò una serie di articoli sul Mattino sulle conseguenze che quella legge che avrebbe apportato. Questa caratteristica della Serao ci dice che il focus è il contesto che la circonda, cioè il suo impegno nel sociale diventa la linea della sua letteratura, la lett. deve denunciare quindi gli spunti narrativi vengono dal contesto in cui lei vive e non è un contesto anziano del regno, quindi c’è ancora una volta il desiderio di ragionare sul Regno da poco creato. Molte forme della scrittura ricadono nella funzione della scrittura narrativa, come quella giornalistica, per la funzione di denuncia della letteratura. La città è ancora protagonista in questo romanzo, essa diventa ancor di più interno rispetto al romanzo di Emma, il radicamento nello spazio e l’impossibilità di riconoscersi in uno di questi spazi mostra ancora una volta l’impossibilità di accedere ad un’identità sociale. Giovanna della Croce non si inserisce in maniera definitiva nel contesto cittadino, non riesce a fare il passaggio completo all’interno di questi spazi. Nella fine di questo romanzo Giovanna perde anche il suo nome, non lo ricorda più, ed esso insieme al vestito è simbolo dell’identità sociale. L’elemento nuovo del romanzo è la lettera a Bourget perché è un pezzo di poetica, è un po’ nella tradizione delle prefazioni. Nella tradizione del romanzo italiano la prefazione è indirizzata al lettore ideale che viene scelto dalla voce che racconta come incarnazione di tutti gli elementi che formano il proprio pubblico, invece la Serao sceglie sullo stesso modello di professionalità letteraria un autore con cui condividere la poetica trovando delle somiglianze tra il suo personaggio e quello di Bourget. “Mio amico e mio Maestro,”, inizia mostrano che il piano dell’interlocuzione è più affettivo che professionale, come nelle lettere, questa è una caratteristica della scrittura femminile, cioè la commistione continua tra la storia del pubblico e la propria, l’altra caratteristica è che le donne si 97
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