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Letteratura Italiana - Il Basso Medioevo, Sintesi del corso di Italiano

Un lungo excursus sul Basso Medioevo: la letteratura in Europa. Presenti coordinate storico-culturali sul periodo del Duecento e Trecento. Analisi dello sviluppo della letteratura e delle sue varie forme in Italia.

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

Caricato il 14/01/2021

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Scarica Letteratura Italiana - Il Basso Medioevo e più Sintesi del corso in PDF di Italiano solo su Docsity! COORDINATE STORICO-CULTURALI Il Basso Medioevo - compreso tra i secoli XI e XIV - è caratterizzato da un grande fermento negli ambiti più diversi della vita culturale: dalle arti alle scienze, dalla filosofia alla letteratura. In quest'ultimo settore, il fermento è legato soprattutto a un evento davvero epocale: il passaggio dal latino ai volgari nazionali o meglio l'affiancarsi dei volgari nazionali al latino come lingue della scrittura, evento che ha permesso a tutti gli intellettuali che si esprimevano per iscritto usando soltanto il latino di avere la possibilità di usare entrambi gli idiomi a seconda del pubblico che hanno di fronte e a seconda del «genere letterario» cui appartiene l'opera (bilinguismo). Se si guarda alla cronologia, la prima fioritura della letteratura in volgare si registra in Francia, attorno al Mille, dove nell’ambiente raffinato delle corti la letteratura non è più sfruttata come veicolo di insegnamento, ma come libera forma d'intrattenimento, e considerata in tal senso una forma d’arte. Anche in Italia la nascita della letteratura volgare è strettamente legata alla civiltà cortese: la prima scuola poetica della nostra tradizione si riunisce infatti, nella prima metà del Duecento, attorno all'imperatore e re di Sicilia Federico II; ma il fenomeno sociale più significativo di questo periodo storico è lo sviluppo nell'Italia centro-settentrionale dei comuni, forme di autogoverno della città che acquisiscono nel tempo una fisionomia istituzionalmente riconosciuta rendendosi di fatto indipendenti dalle autorità superiori (papato e impero). Con la scuola siciliana inizia una tradizione di poesia lirica che, per ampiezza e qualità dei risultati, non avrà rivali in Europa sino al Rinascimento. Alla fine del Duecento, in Toscana, un gruppo di giovani intellettuali recupera le forme e i contenuti che erano stati propri dei poeti provenzali (i trovatori del sud della Francia), ma dà alla lirica un'impronta più marcatamente personale e autobiografica: sono i cosiddetti stilnovisti. All'esempio degli stilnovisti, e soprattutto alla Vita nova di Dante, guarderà il massimo lirico del Trecento, Francesco Petrarca, che col suo Canzoniere offrirà all'Europa un modello di confessione in versi la cui influenza perdurerà almeno sino alla rivoluzione delle forme poetiche avvenuta in età romantica (tra Settecento e Ottocento). Il quadro è meno trionfale per ciò che riguarda la narrazione in prosa: la novella e il romanzo sono generi soprattutto francesi, ma è proprio da questi generi che Giovanni Boccaccio prenderà spunto per la realizzazione del suo capolavoro: il Decameron. Perciò prima del Decameron la prosa veniva utilizzata essenzialmente per narrare al fine però di un interesse educativo o moralistico. NOVITA’ SUL PIANO SOCIALE E POLITICO A questa prodigiosa vitalità culturale fa riscontro un quadro socio-politico altrettanto movimentato: tra il X e il XIV secolo la popolazione italiana raddoppia; da un lato, migliorano le condizioni alimentari e quelle igieniche (infatti fino alla metà del Trecento non si registrano epidemie tanto gravi quanto quelle che avevano afflitto l'Europa nell'AIto Medioevo), e poi migliorano anche le condizioni economiche medie, e ciò soprattutto in conseguenza di due fatti: 1) l'ampliamento della rete dei commerci - i mercanti italiani non si muovono più soltanto in un ambito locale o nazionale ma viaggiano in tutta Europa, acquistando ben presto sulla concorrenza straniera un primato commerciale e finanziario – evento che porta alla nascita delle prime banche 2) allo scopo di tutelare l'attività mercantile, nascono le prime compagnie assicurative. Tutto ciò, a sua volta, è conseguenza del fiorire dell'industria manifatturiera: le merci italiane (i tessuti pregiati in modo particolare) hanno grande successo nelle fiere che si tengono, per esempio, nella regione francese della Champagne. Ma all'origine dell'espansione economica c'è soprattutto un rapporto più dinamico tra le città e la campagna Il modello feudale, fatto di unità economicamente indipendenti (i feudi1) in cui la campagna è al servizio del signore feudale e della sua corte, cessa di essere l'unico modello possibile. 1 Feudo= beneficio da parte di un sovrano a un fedele (vassallo) di uno o più diritti su un territorio Nel corso del XII e del XIII secolo i nuovi soggetti politici, i comuni, conquistano le campagne circostanti (il cosiddetto contado) riducendo il potere dell'aristocrazia feudale: la produzione agricola entra così a far parte di un più aperto sistema economico fondato sulla compravendita. Frattanto, si affinano le tecniche agricole e si amplia la superficie coltivabile, grazie a numerose opere di bonifica e colonizzazione: così nel giro di pochi secoli, specialmente in aree ricche come la Toscana, cambia profondamente l'aspetto del paesaggio italiano. LA SOCIETA’ E LA CULTURA- DUECENTO VS TRECENTO DUECENTO Il quadro politico italiano dopo l’anno Mille appare diviso in 4 aree di influenza: 1) CENTRO-NORD (Regno Italico) è soggetto all’autorità dell’imperatore tedesco; 2) MEZZOGIORNO è sotto il controllo dell’Impero bizantino; 3) SICILIA è in mano agli Arabi; 4) CAMPANIA è sotto il dominio longobardo Di conseguenza non è possibile, con una tale frammentazione, parlare di una unitaria storia italiana. Poco dopo il Mille il vescovo Adalberone formula nella sua Poesia a re Roberto una teoria della società del tempo, detta teoria dei tre ordini: la società si compone di tre ceti o classi sociali, dove ognuno ha un suo ruolo e compito: - Orantores, coloro che pregano - Bellatores, coloro che combattono - Laboratores, coloro che lavorano Una teoria molto particolare che rispecchia l’organizzazione gerarchica della società medievale, anche se il quadro delle funzioni sociali è più articolato, specie in seguito alla fioritura del commercio nel Basso Medioevo; una visione della società che avevano i ceti dominanti, laici ed ecclesiastici, e che sarà fino all’avvento della Rivoluzione francese il quadro ideologico per l’interpretazione dei fatti sociali. All'interno di questa società medievale gli intellettuali sono coloro che si occupano di questioni relative alla cultura, alla politica, alla vita sociale. Questo termine onnicomprensivo non esisteva nel Medioevo, perché gli uomini di pensiero erano legati a istituzioni scolastiche: l'intellettuale era il magister ('maestro') o il litteratus ('colui che conosce il latino', la lingua della comunicazione coita); era insomma in primo luogo un insegnante. Inoltre, poiché dopo la caduta dell'Impero Romano l'istruzione era passata nelle mani delle istituzioni ecclesiastiche, l'intellettuale medievale era generalmente un ecclesiastico 2 . Le molte 'istruzioni per i principi' scritte in questo periodo contengono precetti relativi alla vita pratica (come cacciare, come fare la guerra, come amministrare lo Stato, ecc.), ma non dicono nulla sulle nozioni del leggere e dello scrivere, considerate evidentemente come competenze del tutto accessorie. Fatto salvo alcuni casi isolati, le persone colte erano generalmente i chierici, gli unici che avevano la possibilità di seguire un regolare corso di studi. Il sistema scolastico medievale contemplava anche lo studio delle cosiddette arti liberali (cioè le arti degne dell'uomo libero), divise nelle arti del Trivio - grammatica, retorica e logica -e del Quadrivio - aritmetica, geometria, musica e astronomia. Ma in questo caso il discorso scientifico non era mai puramente scientifico, ma era sempre subordinato alla fede e interpretato alla luce della dottrina cattolica. Un rapporto ambivalente legava anche gli intellettuali cristiani ai grandi autori pagani. Da un lato, essi ne apprezzavano lo stile e la profondità di pensiero; dall'altro, il contenuto delle opere dei classici latini e greci era spesso incompatibile con i testi sacri. 2 Nelle scuole cattedrali (cioè organizzate presso la chiesa cattedrale) e nelle scuole dei monasteri i maestri forma- vano i loro più giovani confratelli. Questo spiega perché, fino almeno al Duecento, la grande maggioranza dei laici fosse analfabeta, anche nelle sfere più al- te della società (nobili, grandi borghesi): nella formazione del gentiluomo, la cultura aveva generalmente un ruolo secondario. romanzi che narrano la costruzione della personalità del personaggio principale, la sua formazione, attraverso l'avventura. LA LIRICA PROVENZALE Anche la lirica in volgare nasce e si sviluppa a Sud della Francia, nelle regioni della Provenza e della Linguadoca, dove si compone in la lingua d'oc e i lirici che compongono in questa area e in questa lingua sono detti trovatori. I temi della poesia provenzale o trobadorica sono molteplici: a) la cronaca e la vita politica contemporanea b) la satira, poiché spesso i poeti intrattengono il loro pubblico con scherzi e invettive all'indirizzo dei loro avversari c) la morale e la religione d) l'amore. È il tema principale della lirica trobadorica (prevalentemente composta da canzoni), ma si tratta di un particolare tipo di amore, idealizzato e immateriale - un amore detto cortese. L'amore dei trovatori non raggiunge mai il suo scopo; il desiderio del poeta amante non viene mai soddisfatto: egli ama, e perciò loda, corteggia, implora una donna che è già sposata; talvolta la donna amata (a cui ci si appella generalmente con uno pseudonimo) è l'irraggiungibile signora della corte presso la quale il poeta si trova e il poeta si offre a lei come il vassallo al suo signore. Dal punto di vista della ricezione dei testi, vanno sottolineati soprattutto due elementi: Il primo è che quella trobadorica e per lo più poesia originalmente pensata per essere recitata davanti a una corte È probabile che essa corrispondesse a una sorta di spettacolo pubblico: qualcosa di ben diverso rispetto alla nostra attuale esperienza della poesia, che è un'esperienza solitaria, fatta quasi esclusivamente attraverso la lettura. Il secondo elemento è la musica. Nella poesia trobadorica parole e musica vanno insieme, analogamente a ciò che avviene nelle moderne canzoni: il poeta mette in musica i propri testi oppure, una volta composti, si rivolge a musici professionisti. Comunque sia, la recitazione dei testi presupponeva quasi sempre l'accompagnamento musicale (come nella lirica monodica e corale dell’antica Grecia). LETTERATURA ITALIANA La storia della letteratura italiana del Medioevo non è una storia unitaria: alcune regioni come la Toscana e l'Emilia conquistano subito un primato culturale che conserveranno stabilmente nei secoli successivi, altre come la Sicilia e il Mezzogiorno d'Italia in generale conoscono una breve fioritura poetica, coincidente a grandi linee col regno di Federico II. Al costituirsi di una letteratura italiana in volgare sono d'ostacolo sia la frammentazione politica (il papa, l'imperatore tedesco, la monarchia francese), sia la frammentazione linguistica. Ovunque e a ogni livello della comunicazione scritta veniva usato il latino, e nessuno dei dialetti parlati e scritti nelle varie regioni italiane godeva di un prestigio tale da potersi imporre a scriventi originari di altre aree della penisola. La storia della letteratura italiana è così la storia delle sue varietà regionali: manca un idioma comune; manca - e mancherà sino alle soglie dell'età moderna - un pubblico nazionale che ne favorisca e solleciti la creazione. Al di sopra di questa vita multiforme dei dialetti sta la lingua della comunicazione colta, il latino. LA POESIA La poesia italiana nasce in ritardo rispetto a quella di altre regioni europee e i primi documenti di poesia italiana in volgare si collocano tra la fine del Cento e l'inizio del Duecento. Recente è la scoperta di una canzone d'amore (Quando eu stava) databile agli ultimi anni del XII secolo o ai primi del XIII, e localizzabile con ogni probabilità in arca padano orientale: si tratta del più antico componimento d'argomento amoroso scritto in un volgare italiano; per il resto, le poesie di quest'epoca sono tutte d'argomento morale e religioso. Come era accaduto anche nelle altre letterature romanze, il distacco dal latino è infatti spesso motivato dall'esigenza di far intendere un messaggio edificante a un pubblico di incolti. Si tratta dunque di componimenti elementari sia per la struttura metrica e retorica, sia per i concetti adoperati. Più tardi, a partire da gli anni Venti e Trenta del Duecento, la poesia religiosa in volgare conoscerà un'espansione più organica, concentrata nelle regioni centro-settentrionali della penisola, dove i maggiori esponenti sono san Francesco d'Assisi e Iacopone da Todi, al cui nome è legata l'espansione del genere poetico di materia sacra, la lauda. LA SCUOLA SICILIANA Un consistente gruppo di poeti in volgare si raccoglie attorno alla corte dell'imperatore Federico II, intorno al XIII secolo. Sono per lo più siciliani ma, dato che si tratta di una corte itinerante, anche pugliesi, calabresi, campani, sono notai, cancellieri, funzionari che coltivano la poesia come attività separata dagli impegni professionali. La lingua in cui la maggior parte di loro scrive è un siciliano illustre e ricco di latinismi e provenzalismi: una lingua diversa, quindi, più raffinata e colta rispetto al siciliano grezzo. Lo stesso selezionatissimo repertorio lessicale adoperato dai lirici siciliani allontanava questa poesia dal registro quotidiano e realistico, che avrebbe richiesto un'aderenza maggiore al dialetto, e spingeva gli autori a confrontarsi con le lingue della tradizione colta, il latino e il provenzale. La poesia dei siciliani è quasi esclusivamente poesia d'amore, rari i testi d'argomento morale, assente invece il tema politico. Tale scelta tematica ha probabilmente motivazioni di ordine linguistico e stilistico: sia che il volgare, lingua della comunicazione privata, venisse ritenuto inadatto ad esprimere contenuti di rilievo pubblico; sia che il tema dell'amore avesse agli occhi dei funzionari-poeti della cerchia di Federico un prestigio particolare, analogamente a ciò che avverrà mezzo secolo dopo con i cosiddetti stilnovisti. Anche parlando d'amore, tuttavia, i poeti siciliani manifestano una volontà di chiusura e isolamento rispetto al contesto storico-sociale Nelle loro canzoni manca regolarmente la tornata, cioè quella stanza di congedo che nelle canzoni provenzali e toscane serve a indirizzare il testo all'amata, o a un destinatario individuato, o al pubblico dei lettori. Rarissime sono le tenzoni, cioè quegli scambi tra poeti di sonetti o canzoni che formeranno invece il tessuto connettivo della società letteraria italiana nel secondo Duecento e nel Trecento. Quanto al contenuto dei testi, in essi vi è una quasi totale assenza di eventi traumatici o liberatori; infine, il poeta-amante osserva scrupolosamente il precetto trobadorico del celor ('nascondere'), cioè della salvaguardia del proprio amore e del buon nome della donna attraverso il silenzio per timore dei maldicenti. Queste caratteristiche fanno della poesia dei siciliani un'esperienza puramente privata che non sembra aver bisogno né di un pubblico né di un confronto con gli altri rimatori. Riguardo alla metrica invece, tre sono le forme adottate dalla poesia siciliana: la canzone (forma metrica polistrofica) occupa di gran lunga il posto più importante, mentre fanno qualche rara apparizione il discordo (sorta di lunga canzone in versicoli fittamente rimati e schema metrico irregolare) e il sonetto (componimento monostrofico, di solito suddiviso in due quartine e due terzine di versi endecasillabi). Mentre il discordo verrà presto abbandonato a vantaggio di forme meno irregolari, il nuovo genere metrico del sonetto (inventato forse da Giacomo da Lentini) avrà un'enorme fortuna, e sarà insomma il lascito più significativo della scuola poetica siciliana alla tradizione letteraria europea. Così come la gamma dei generi metrici, altrettanto povera e ristretta è quella dei motivi e del lessico poetico3. Anche il repertorio delle metafore e delle parole contempla un ristretto numero di elementi che si ripetono di testo in testo con minime variazioni. Dalla contaminazione tra la retorica cortese e la retorica sacra nasce l'immagine dell'amata come nuovo miracolo, bella come e più del sole e delle stelle, lucente più delle pietre preziose. L'impressione che si ricava da una lettura del corpus della poesia siciliana è dunque quella di trovarsi di fronte a un'attività di laboratorio condotta a partire da pochi elementi-base da parte di un nucleo di intellettuali compatto per estrazione sociale e per fisionomia culturale e artistica: a questo terreno comune di linguaggio e di immagini si affida l'identità di una scuola poetica siciliana. Ma una storia della lirica siciliana non si può scrivere perché le informazioni che si riescono a ricavare dai testi sono troppo scarse e, soprattutto, perché sono troppi i vuoti nella documentazione relativa agli autori. Si propone generalmente una scansione in due tempi: una prima e una seconda generazione sicilianaAlla generazione dei fondatori, fioriti nella prima metà del secolo, appartiene Federico II di Svevia (1194-1250), i cui manoscritti attribuiscono un sonetto e tre canzoni, promotore di un'attività culturale sia nel campo delle arti sia in quello della filosofia. Alla figura dell'imperatore è strettamente legata quella di Pier della Vigna (1190-1249), il più influente consigliere di Federico. Il ruolo di caposcuola però viene assegnato a Giacomo da Lentini, al cui nome sono legate tutte le conquiste formali che la poesia siciliana consegna alla nostra letteratura. Se non l'inventore, egli è certo uno dei primi frequentatori del sonetto, genere metrico che avrà un enorme successo con i rimatori toscani, e nel suo canzoniere si trovano riuniti tutti i temi, i motivi, le soluzioni formali che ebbero corso tra i poeti siciliani, come il paradosso dell'incomunicabilità, per cui il poeta non può manifestare il suo amore se non svilendo sè e la donna, o l’ineffabilità del sentimento. Così come Giacomo de Lentini, anche Guido delle Colonne viene ricordato come poeta insigne della scuola federiciana: di lui ci restano l’Historia destructionis Troiae, caso più unico che raro di traduzione in 3 Motivi ricorrenti quello dell'effetto beatifico che ha per il poeta la visione della donna amata, o quello del dolore del poeta per la sua ritrosia, motivo che a sua volta dà origine a una costellazione di topor: il pianto senza consolazione, la gelosia, il fuoco d'amore, ecc.; quello dei maldicenti che seminano discordia tra l'amante e l'amata; quello della lontananza o del servizio amoroso, equiparato al rapporto di fedeltà che lega il vassallo al suo sovrano. esperienza della vita (questo lamento sulla miseria anticipa per esempio le confessioni in versi di Cecco Angiolieri). 3. Infine, così come nella poesia di Guittone, vi è in quella di Monte una componente politica. Tuttavia per le sue dichiarazioni politiche Monte non si serve più della forma “soggettiva” della canzone, ma cerca invece il dialogo, il contraddittorio con altri poeti: la tenzone composta da 17 sonetti che oppone il guelfo Monte ad altri rimatori fiorentini di parte ghibellina sul tema della discesa di Carlo I d'Angiò in Italia resta uno dei macrotesti più interessanti e atipici della letteratura italiana del Medioevo. L'altra tradizione lirica, quella che resta fedele, pur innovando, alla lezione dei siciliani, ha in Bonagiunta Orbicciani e in Guido Guinizelli i suoi massimi esponenti. Bonagiunta è stato definito «l'autentico trapiantatore dei modi siciliani in Toscana» (Contini): egli è piuttosto refrattario alle innovazioni formali e tematiche che vengono proposte da Guittone e dai suoi allievi. Scrive alcuni sonetti moraleggianti sul tema della fortuna o della modestia o della cautela nei giudizi: ma si tratta di una morale in tono minore, molto lontana da quella aggressiva e risentita di Guittone. Quanto alle canzoni, a differenza di quanto accade in Guittone, l'indignazione non si converte in discorso o in manifesto politico. Per il resto Bonagiunta si conferma poeta d'amore nella tradizione siciliana, anzi, egli sembra fare sua la componente euforica di quella poesia: la benedizione dell'amore, il ringraziamento per la gioia raggiunta, ecc. Un'ulteriore prova di sicilianità la troviamo nel metro: Bonagiunta compone canzoni di estensione canonica, non aggiunge code o farciture alla formula classica del sonetto, ed è l'unico rimatore non federiciano a comporre discordi. Ma egli è anche innovatore: si deve a lui l'invenzione della ballata laica d'argomento amoroso. GUIDO GUINIZELLI In Emilia, Guido Guinizelli (1230-1276) compone secondo i modi dei siciliani, poco concedendo alla nuova maniera di Guittone, e agisce così da precursore nei confronti dello stilnovo fiorentino, che lo riconoscerà come «padre». Del suo esiguo canzoniere, due testi sono soprattutto importanti: iI primo è il botta e risposta in sonetti con Bonagiunta, che l'aveva accusato di essersi dato ad uno stile poetico oscuro e sottile (con prob. riferimento alla canzone Al cor gentil); la replica di Guido nel sonetto Omo ch'è saggio, è un sarcastico invito alla prudenza e alla riservatezza, che ogni uomo saggio deve avere nell'esprimere il proprio pensiero sino a che non sia sicuro di essere nel giusto. Il secondo testo di grande rilievo è la canzone Al cor gentil. L'assimilazione tra amore e cuore gentile (cioè 'nobile', 'virtuoso'), resterà un punto fermo nella teoria d'amore dei lirici italiani del Duecento. Nelle stanze successive, questo pensiero centrale viene sviluppato e arricchito grazie a metafore tratte dalla fisica e dall'astronomia: il cuore gentile è una pietra preziosa, è ferro nel quale si cela il diamante (amore); al contrario, il cuore non nobile è fango sul quale il sole splende invano. La quarta stanza precisa i termini dell'opposizione tra nobiltà e non-nobiltà: la gentilezza risiede nella virtù, non nel denaro o in natali illustri. La sesta e ultima stanza compie quell'assimilazione tra donna amata e angelo che avrà importanza cruciale nello sviluppo dell'ideale stilnovista. LO «STILNOVO» La critica raccoglie generalmente sotto il nome di poeti stilnovisti, insieme con il giovane Dante, Guido Cavalcanti, Cino da Pistoia, Lapo Gianni. In realtà questa etichetta è convenzionale: è vero che i poeti appena menzionati ebbero rapporti anche amichevoli tra di loro, ed è vero che tra le loro poesie esistono analogie notevoli sia dal punto di vista ideologico sia dal punto di vista formale. Ma il nome di stilnovo e l'unità della cosiddetta scuola sono dedotti dai critici da ciò che Dante dice nel De vulgari eloquentia, nella Vita nova e nella Commedia: con Cino, Cavalcanti e Lapo Gianni - scrive Dante - egli ha dato vita a un modo di far poesia del tutto nuovo (e migliore) rispetto alla «maniera antica» di Guittone e degli altri toscani: l'unico poeta italiano della precedente generazione che si salva, a giudizio di Dante, è Guido Guinizelli: è lui l'autore che merita il titolo di iniziatore e padre del nuovo corso poetico. Con gli altri tre massimi poeti del Duecento - Giacomo da Lentini, Guittone e Bonagiunta - Dante fa i conti in un passo famoso della Commedia che è anche quello in cui si afferma a chiare lettere l'assoluta superiorità del « dolce stilnovo » . Dal punto di vista della forma, lo stilnovo porta con sé una semplificazione dello stile: lo sperimentalismo di Guittone e dei suoi seguaci cede il passo a una maniera più regolare, il trobar clus viene sostituito da una maniera leu ('lieve, facile, comprensibile') contro l'oscurità dei predecessori. Una semplificazione analoga investe anche la metrica dei testi: i poeti guittoniani avevano lunghissime canzoni-trattato, mentre questa metrica abnorme non trova eco tra gli stilnovisti. Dal punto di vista dei contenuti, la frattura é ancora più netta: Guittone e i suoi contemporanei avevano usato la poesia in volgare anche e soprattutto per parlare di morale e di religione. Con lo stilnovo, l'amore torna a essere il tema principale della poesia Ciò implica un atteggiamento del tutto diverso, rispetto a quello dei predecessori, di fronte al problema dell'amore tra uomo e donna. I moralisti come Guittone avevano descritto l'amore terreno come un male, gli stilnovisti invece vedono nella donna un'immagine di Dio, un angelo inviato sulla terra per la salvezza degli uomini. Chi è innamorato entra nella cerchia degli eletti e gode di questa beatitudine semplicemente contemplando la bellezza della donna amata: da qui nasce il primato della descrizione - ossia della lode delle virtù fisiche e morali dell'amata. La critica ha parlato, per gli stilnovisti, di un «ritorno ai siciliani»: in effetti la nuova centralità del tema amoroso e l'elaborazione di una complessa teoria dell'amore, rimandano all'antico modello cortese. Non solo gli stilnovisti evitano di affrontare temi politici, etici e religiosi, ma sembrano anche rinunciare a quel dialogo con interlocutori estranei all'arte, non poeti, che era stato tenuto vivo da Guittone. La loro è una poesia indifferente alla quotidianità, che richiede spesso conoscenze di tipo filosofico e teologico e parla dunque a una ristretta élite di letterati. GUIDO CAVALCANTI Il «primo degli amici» di Dante fu Guido Cavalcanti, nato tra il 1250 e il 1260 da una ricca e potente famiglia fiorentina; studiò filosofia ed entrò certamente in contatto con ambienti averroisti: per questo motivo, probabilmente, ebbe fama di eretico. In seguito agli scontri che opponevano tra loro le maggiori famiglie fiorentine, Guido fu esiliato nell'anno 1300 e morì a Sarzana. Il suo canzoniere ha molte sfumature: ci sono rime di corrispondenza, rime di tono burlesco e liriche in cui trova sfogo un'esperienza d'amore dolorosa e devastante. Per Guido l'amore non è un'avventura positiva, bensì un'esperienza tragica, che confina con la morte. I critici hanno parlato di tragedia, ma sarebbe più giusto parlare genericamente di dramma, anche se si richiama la poesia dialogica: in essa i vari attori della rappresentazione amorosa (i sospiri, la donna, il cuore, il dio dell'Amore, gli spiriti) vengono personificati e dotati di parola, così da sviluppare all'interno del testo complessi discorsi a più voci. Una delle due sole canzoni di Cavalcanti rimasteci, lo non pensava che lo cor giammai, fa di questa tendenza all'intreccio di voci un principio strutturale: ognuna delle quattro stanze ospita, insieme al discorso dell'io poetico, parole d'altri: del dio Amore, di uno spettatore, del cuore, della canzone stessa personificata. L'altra più celebre canzone cavalcantiana, Donna me prega, merita di essere ricordata perchè è un prodigio di difficoltà formale e concettuale: gran parte dei suoi versi sono spezzati da una rima interna, alcuni addirittura da due. Il tema è l'amore, o meglio, una serie di domande sull'amore che una «donna» avrebbe posto a Cavalcanti. La difficoltà concettuale sta soprattutto in questo, che Cavalcanti risponde alla sua interlocutrice servendosi della filosofia aristotelica: e la canzone è tutto un fiorire di tecnicismi e astratte definizioni. Donna me prega segna un'importante novità: alla canzone d'amore si sostituisce la canzone sull'amore. La ballata Perch'i' no spero di tornar giammai è insieme a Donna me prega il testo più celebre di Cavalcanti per la sua originalità tematica: non si tratta infatti di una normale lirica amorosa ma di una sorta di testamento lontano da Firenze, il poeta si rivolge alla ballata stessa e la prega di recarsi dalla donna amata facendosi messaggera delle sue ultime parole: egli è infatti convinto che la sua morte sia prossima. È possibile che questa poesia sia davvero una sorta di congedo dall'esilio da parte del poeta morente; ma è anche possibile che si tratti soltanto di una finzione retorica, cioè di una situazione puramente letteraria priva di un concreto fondamento biografico. CINO DA PISTOIA Con Dante e Cavalcanti, il terzo grande poeta stilnovista è Cino da Pistoia. Egli riassume in sé quelli che sono i caratteri distintivi della scuola: uno stile dolce e piano, una misura 'classica' nei metri e nella lingua, l'amore come tema quasi esclusivo. Nato negli anni Settanta del Duecento, morto nel 1337, Cino studiò all'Università di Bologna e fu, oltre che poeta, uno dei massimi giuristi del suo tempo: insegnò a Siena, Perugia, Napoli e scrisse opere importanti in materia di teoria del diritto. Guelfo, esule forse a Firenze nei primi anni del Trecento, partecipò attivamente alla vita civile e politica della sua città assumendo anche incarichi di ambasciatore. Tra gli stilnovisti, Cino è l'autore più prolifico. Buona parte dei suoi testi è dedicata a una donna di nome Selvaggia. Con gli stilnovisti, infatti, i poeti tornano a dare un nome alle donne cantate nei loro versi: come quella che era stata la norma nella lirica classica (Catullo, Properzio, Ovidio); tale nome può caricarsi di significati simbolici grazie alle interpretazioni, ma rappresenta comunque qualcosa di più reale e vero dell'epiteto generico di donna. Cino è sicuramente più sperimentale nei sonetti di corrispondenza, che egli pratica con grande assiduità soprattutto negli anni trascorsi a Bologna. Qui la dolcezza del poeta d'amore lascia spazio a un registro 'medio' che di volta in volta è al servizio della satira, dell'invettiva, della burla. Certo, nessuno dei suoi corrispondenti è all'altezza di Cino: ma è aperta con lui e con loro quella comunicazione tra le regioni d'Italia che presto verrà tenuta viva e potenziata dall'esule Dante Alighieri. LA POESIA COMICO-REALISTICA Nella tradizione mediolatina e francoprovenzale, accanto alla poesia 'seria', d'argomento erotico o morale- religioso, ebbe un ruolo di grande rilievo la poesia burlesca, composta dai giullari e recitata spesso di fronte al pubblico delle città. I suoi temi sono ricavati da una vita quotidiana tutt'altro che rosea, intristita dalla povertà, dalla malattia, dalla senescenza, dalla fame. Ma non mancano piccole gioie materiali e adoperate come tema per la poesia: il vino, il sesso, il gioco. Testi di questo genere si trovano soprattutto nella raccolta dei Carmina Burana, un'ampia antologia di testi poetici latini scritti da vari autori tra il XII e il XIII secolo; ma è assai probabile che ciò che oggi ci rimane sia solo una piccola percentuale di una produzione originariamente molto più vasta, sfuggita però alla registrazione nei codici Questo tipo di poesia comico-realistica non restò appannaggio dei soli giullari, dal momento che ad essa si rivolsero anche poeti sicuramente colti e nobili: di fatto, il registro comico-realistico diventò col tempo una maniera nella quale tutti i poeti - indipendentemente dalla loro estrazione sociale - poterono esercitarsi: tra essi anche gli stilnovisti Guinizelli e Cavalcanti. lo pseudonimo di Floruzza sonetti e canzoni, una delle quali scritta a imitazione della canzone cavalcantiana Donna me prega. -Nel corso del secolo la crisi delle istituzioni comunali e l'affermazione delle signorie ha riflessi importanti anche sull'attività artistica gli intellettuali, che un tempo occupavano i posti più importanti nelle magistrature cittadine, ora vengono arruolati nelle corti signorili per svolgere il ruolo di epistolografi o cancellieri, o di poeti al servizio del signore: Dante e Petrarca svolsero questa mansione, ma molti autori minori loro contemporanei ne fecero una vera e propria professione, come Fazio degli Uberti o Antonio Beccari, i quali furono ospiti della corte milanese dei Visconti. Quanto ai poemi allegorico-narrativi, il Trecento produce due capolavori, la Commedia dantesca e i Trionfi di Petrarca . Ma accanto a questi testi, è da segnalare l'esistenza di una larghissima famiglia di imitatori: al linguaggio in versi vengono affidati temi e compiti che per noi lettori post-romantici possono essere espressi soltanto dalla prosa. In questa vastissima produzione merita un cenno l'Acerba di Cecco d'Ascoli (1269-1327), un poema incompiuto in cinque libri che spiega le proprietà dei pianeti, la natura delle virtù e dei vizi, le proprietà degli animali e delle pietre, ecc. Mentre Cecco polemizza con Dante, opponendo il proprio enciclopedismo e il proprio interesse filosofico e scientifico alle 'favole' narrate nella Commedia, il Dittamondo di Fazio degli Uberti è una chiara ed esplicita imitazione del poema dantesco sia nel metro, sia nei motivi, sia nelle strategie narrative originale è però il tema centrale dell'opera: un viaggio immaginario attraverso tutto il mondo con la guida dell'antico geografo Solino. Il viaggio finisce così per essere un manuale storico-geografico ricco di notizie su luoghi esotici e di leggende che rendono l’opera una sorta di repertorio della letteratura fantastica. LA PROSA Gli esordi della prosa letteraria italiana ci appaiono tardi e incerti. Sin dal XII secolo è attestato l'uso del volgare per brevi scritti di carattere pratico, senza alcuna intenzione artistica, come i registri, le lettere, i libri di conti testi che ritroviamo soprattutto in Toscana: questo perchè tra il XII e il XIII secolo questa è la regione più fiorente a livello economico e commerciale, perciò vi è l'esigenza di registrare per iscritto conti o documenti di varia natura. Sino quasi alla metà del Duecento l'uso del volgare mira soltanto a questo, a una comunicazione più rapida e chiara tra soggetti o alla registrazione di dati a uso strettamente personale. Nel corso del XIII secolo le cose cambiano, prima di tutto nelle scuole e nelle università L'ars notaria e l'ars dictandi, capisaldi dell'insegnamento scolastico, interessano un numero sempre crescente di individui, alcuni del tutto ignari di latino. Si spiega così, con questo graduale ampliamento del pubblico, il proposito di Guido Faba, docente all'Università di Bologna, di fornire al suo lettore-allievo oltre che modelli di epistole in latino, modelli in volgare di materia sia privata sia pubblica. Anche i volgarizzamenti dei trattati latini di retorica rispecchiano presumibilmente una situazione analoga: la retorica, le arti del discorso, escono dalle aule universitarie e diventano strumenti d'uso comune nella vita cittadina d'ogni giorno. Si tratta delle prime tracce del futuro trionfo del volgare. Nelle scritture d'argomento sacro, nella storiografia e nella memorialistica, il prestigio del latino rappresentò a lungo un ostacolo insuperabile per il costituirsi di una tradizione prosastica in volgare, dal momento che esso restava la lingua della comunicazione colta, quella che poteva contare su una lunga tradizione di scrittura. Ma nella prosa morale e in quella scientifica il volgare toscano trovò nel Duecento una più larga applicazione, specialmente con i prosatori toscani Bono Giamboni, Brunetto Latini e Ristoro d'Arezzo. Meno ampia e meno variegata è la prosa narrativa, difatti molti testi che rientrano in questa categoria sono testi 'di frontiera', che stanno cioè a metà strada tra il racconto e il sermone morale, dove la narrazione sottintende una lezione morale. -LA TRATTATISTICA MORALE, RETORICA, STORIOGRAFICA- BONO GIAMBONI Fra i più importanti autori di trattati morali va innanzitutto segnalato Bono Giamboni, attestato tra il 1261 e il 1291. Come molti intellettuali del suo tempo, oltre a comporre opere originali, volgarizzò testi classici e della latinità tarda. Un'ampia conoscenza del Medioevo latino sta del resto a fondamento della sua opera maggiore, il Libro de' vizi e delle virtudi. Nei 76 capitoli del Libro s'intrecciano due storie esemplari: la prima corrisponde al viaggio che il protagonista compie per la propria salvezza spirituale (simile a quello di Dante nella Commedia). Sicuramente di notevole rilevanza è l’episodio che si trova circa a metà del viaggio del protagonista, il quale assiste ad un grande spettacolo esemplare Radunata in un'immensa pianura, «tutta la gente del mondo» combatte divisa in due fazioni contrapposte, chi per le Virtù chi per i Vizi. Presto la visione allegorica, diventa storica, e la cornice della battaglia fornisce al narratore il pretesto per un lungo excursus sulla storia del mondo e della cristianità, dalla creazione al peccato originale e dalla fondazione della Chiesa alla lotta contro le eresie. La lotta si chiude con la vittoria delle Virtù e della vera religione: una vittoria parziale, dal momento che rimane aperto il conflitto tra il cattolicesimo e l'Islam. Come spesso le canzoni, le lettere si indirizzano a singoli destinatari confermarli sulla strada del bene o per distoglierli dal vizio. Nate dunque come forma di comunicazione privata, esse vennero presto raccolte dall'autore o dai suoi discepoli a formare un epistolario organico per l'edificazione di tutti. Le 34 lettere che ci rimangono, rispecchiano la forza polemica del Guittone poeta e ne ripetono lo stile oscuro e contorto, gonfio di latinismi, costrutti poetici e di citazioni dalle auctoritates (i classici latini e gli autori cristiani). BRUNETTO LATINI Brunetto Latini è poeta lirico, didattico, traduttore dal latino e trattatista e fu anche coinvolto nella vita politica e civile del suo tempo. Fiorentino di nascita, ricopre incarichi pubblici a Firenze e a Montevarchi: è sindaco, poi ambasciatore del comune di Firenze. Esule per cinque anni in Francia in seguito alla vittoria dei ghibellini, rientra nella città natale nel 1266 e qui ricopre varie cariche sino alla morte, nel 1294. Proprio al suo impegno civile dev'essere collegata l'opera di traduttore. Il volgarizzamento del De inventione ciceroniano si accompagna ad un fitto commento che reinterpreta a beneficio di colui che porta la responsabilità politica, le norme retoriche che nell'originale latino erano prescritte all'oratore: ne deriva un'opera compatta, tanto più interessante e vivace quanto più si allontana, nel commento, dalla traccia del modello. In quest’opera da un lato c'è un ricco apparato didascalico che svolge e chiarifica la terminologia tecnica dai vari genera in cui si suddivide la retorica; dall'altro lato c'è in Brunetto la capacità di rendere meno astratta l'arte retorica inserendola nel vivo della realtà contemporanea Il libro perciò mira a uno scopo pratico, cioè alla formazione intellettuale di chi andrà a ricoprire cariche pubbliche. L'altra opera maggiore di Brunetto, il Tresor ("Tesoro'), scritta in francese durante l'esilio, merita di entrare in un sommario di letteratura italiana anzitutto perché ebbe vasta diffusione presso gli intellettuali toscani del tempo, e in secondo luogo perché il francese è lingua raccomandata per la prosa soprattutto in ragione della sua diffusione internazionale: di fatti anche il Milione di Marco Polo è scritto in francese. Diviso in tre lunghi libri, il Tresor è il rappresentante più insigne, in una lingua volgare, di quella tradizione enciclopedica che sino ad allora non era uscita dai binari del latino scolastico. Il primo libro è un'ampia raccolta di nozioni in materia di teologia, storia, geografia, architettura, etc... Il secondo associa a una lunga sezione sui vizi e sulle virtù una traduzione parziale e un commento dell'Etica di Aristotele. Nel terzo libro sono presenti paragrafi sulla retorica e paragrafi sulla politica indirizzati all'uomo di Stato. RISTORO D’AREZZO Così come la filosofia, anche la scienza parlerà latino. Tra le rare opere scientifiche scritte nel Medioevo in un volgare romanzo La composizione del mondo di Ristoro d'Arezzo è probabilmente quella più estesa e più impegnativa. L'autore non attinge a un unico modello ma contamina fonti diverse: Tolomeo, gli enciclopedisti medievali, i filosofi arabi Averroè e Avicenna, e soprattutto Aristotele. E da Aristotele deriva la categoria concettuale che informa tutto il libro, quella della dialettica degli opposti. La prima parte dell'opera, in 24 capitoli, è dedicata alla cosmologia e alle scienze naturali; la seconda (94 capitoli) prosegue con osservazioni analitiche sui pianeti e sullo zodiaco. Nel finale l'autore si pronuncia su questioni minori che hanno poco a che vedere con la trama generale del discorso: la genesi dell'amore, la ragione per cui il fiato può essere insieme freddo e caldo o la bellezza dei vasi antichi. GUIDO FABA L'istruzione nel campo della retorica ha nel Medioevo un peso notevole. I trattatisti insegnano a mettere insieme un'orazione, un poema, una lettera. Generalmente questa precettistica è in latino e si rivolge a scriventi in latino. Ma nel corso del XIII secolo il volgare prese piede in ambienti che in passato gli erano rimasti preclusi: i tribunali, le cancellerie, persino la Chiesa. Non stupisce, dunque, che la storia della prosa 'di scuola' in volgare si apra con i protocolli di Guido Faba. Guido insegna all'Università di Bologna, massimo centro europeo per gli studi giuridici, e compone in latino una Summa dictaminis a uso dei suoi studenti. Negli anni Quaranta scrive le sue opere maggiori, la Gemma purpurea, un trattato di epistolografia diviso in una sezione di precetti e in una di esempi, e i Parlamenti et epistole (cioè 'Discorsi e lettere'), brevi modelli di orazioni che illustrano gli accorgimenti retorici utili per confezionare un discorso elegante. All'interno dei Parlamenti Guido raccoglie anche modelli di orazioni in volgare, e nella Gemma purpurea gli esempi di exordia presentati al lettore sono nelle due lingue, «litteraliter et vulgariter» ('in latino e in volgare'). È dunque probabile che già nella prima metà del secolo l'epistolografia e l'arte notaria dovessero venire incontro alle esigenze di un pubblico di utenti 'non letterati' sempre più ampio. LA STORIOGRAFIA La grande storiografia in volgare nasce nel primo Trecento, con le Cronache di Dino Compagni e Giovanni Villani. Nel Duecento, la lingua delle scritture storiche è il latino e il loro impianto è piuttosto elementare: si trat- ta o di cronache che mettono in fila, senza analizzarli, piccoli fatti di risonanza lo- di storie universali che si riducono a una rozza elencazione degli eventi succedutisi dalla fondazione di Roma (o più indietro ancora) agli anni in cui vive lo scrivente. Unica eccezione la Chronica latina del frate parmense Salim- bene de Adam, che fu testimone diretto di buona parte degli episodi della storia duecentesca da lui narrati. Le due più importanti cronache duecentesche in vol-gare s'ispirano di fatto a questi semplici modelli: la Cronaca pseudolatiniana (co- sì chiamata perché un tempo falsamente attribuita a Brunetto Latini), opera di un fiorentino che anno per anno elenca gli eventi a suo parere più notevoli, ravvivan- do la sua cronaca con aneddoti curiosi circa strani fenomeni naturali, eventi mi- racolosi, leggende dedotte dalla sua fonte primaria, l'opera di Martino Polono; e l'Istoria fiorentina di Ricordano Malaspini (proseguita dal nipote Giacotto fino al 1285), che ripercorre la storia della città dalle mitiche origini fiesolane ai Vespri siciliani EVOLUZIONE DELLA PROSA NEL ‘300 Nel corso del Trecento la pratica della scrittura in volgare interessa un numero sempre crescente di individui, e si diversifica in un'ampia gamma di tipologie. Oltre che nella letteratura d'invenzione (novelle e 'romanzi'), il volgare viene adoperato nella storiografia, nei libri di famiglia, nella letteratura edificante. Tra gli storiografi in volgare hanno un posto di grande rilievo il fiorentino Dino Compagni, che in una breve Cronica narra gli eventi occorsi nella sua città tra il 1280 e il 1312, e Giovanni Villani, che compone una Nuova cronica, pubblicata in dieci e successivamente ampliata dall'autore fino alla sua morte, avvenuta durante la peste del 1348. Se tuttavia la gran parte della prosa trecentesca ci giunge dalla Toscana, la regione culturalmente più avanzata e nella quale il volgare aveva raggiunto un più completo sviluppo, il capolavoro della storiografia del secolo venne scritto nel Lazio: si tratta della Cronica scritta da un Anonimo Romano tra la fine degli anni ‘50 e l'inizio degli anni ‘60 e relativa alla vicenda di Cola di Rienzo. La materia romana sollecita l'impiego del dialetto romanesco e ciò conferisce alla narrazione una insolita vivacità e forza espressiva. Ma lo speciale realismo dell'opera si spiega anche con la circostanza che l'autore, oltre che storico scrupoloso, è pure spettatore di molti degli eventi che racconta. Di recente, la critica ha proposto di identificare l'Anonimo con Bartolomeo di Iacovo di Valmontone, un nobile laziale che intraprese la carriera ecclesiastica: ovviamente l'identificazione non è certa. LA NOVELLISTICA Nell'ambito della narrativa d'invenzione, ben poche opere e ben pochi autori meritano di essere segnalati prima del capolavoro del secolo, il Decameron di Giovanni Boccaccio: la produzione novellistica si intensifica, invece, negli anni subito successivi alla pubblicazione del Decameron. Particolare importanza ha, all'interno di questa linea, la figura di Franco Sacchetti (circa 1332-1400). Nato anch'egli, come Boccaccio, in una famiglia di mercanti, ricoprì cariche importanti nelle principali magistrature fiorentine. Scrisse alcune centinaia di testi poetici e, soprattutto, il libro di racconti noto come Trecentonovelle, composto a partire dal 1385 e ultimato nei primi anni Novanta. Rispetto al più vario repertorio stilistico e tematico del Decameron, Sacchetti compie un'opera di riduzione e semplificazione: manca, a differenza del Decameron, una cornice che permetta all'autore di parlare in prima persona e di coordinare in un unico disegno le diverse novelle, che sono tanto brevi e semplici da meritare piuttosto il nome di aneddoti, o motti, o barzellette. Del realismo boccacciano è accolta insomma solo la componente aneddotica e giocosa, quella che nel Decameron trova posto soprattutto nella sesta giornata. Far ridere o far sorridere: è questo lo scopo a cui Sacchetti sembra ridurre la pratica del 'novellare'. E tale è infatti la cifra del libro: una raccolta di episodi divertenti tratti per lo più dalla vita popolare fiorentina. Di fatto, gran parte dei personaggi che si trovano all’interno della sua opera sono presi direttamente dalla realtà e citati per nome e cognome, cosi da dare luogo a una cronaca giocosa e pettegola piuttosto che a una vera e propria opera d'invenzione. GLI SCRITTORI RELIGIOSI Infine, una spinta decisiva a favore dell'uso del volgare venne dagli scrittori di religione. Non che il volgare venisse adoperato nella liturgia o nelle discussioni teologiche, dove il latino regnerà ancora incontrastato; ma nella predicazione, nella preghiera, nei trattati spirituali la volontà di farsi comprendere da un pubblico più ampio di quello dei soli letterati porta gli autori ad adottare la lingua della comunicazione quotidiana, oppure a volgarizzare scritti religiosi sino ad allora accessibili soltanto in latino: tipico il caso delle leggende legate alla figura di san Francesco. Anche in questo caso è la Toscana il centro del rinnovamento. Qui il domenicano Giordano da Pisa (prima metà del secolo) compone e pronuncia più di settecento prediche in volgare, rivolte non ai confratelli ma alla borghesia mercantile delle città, e perciò scritte nella sua lingua e su temi che più da vicino la riguardano: il lusso, i costumi delle donne, l'usura, la corruzione. E qui Domenico Cavalca (1270-1342), anch'egli pisano, svolge un'importante opera di volgarizzamento di trattati latini relativi alla disciplina del buon cristiano e ai sacramenti: lo Specchio dei peccati, lo Specchio di croce, il Pungilingua. Qui, infine, il domenicano fiorentino Iacopo Passavanti compone, oltre a vari sermoni latini, il trattato Specchio di vera penitenza, una (incompiuta) rassegna dei vizi e delle virtù scritta sul modello dei manuali de poenitentia ma, a differenza di questi ultimi, a beneficio del pubblico ignaro di latino: il quale pubblico - ed è questo il fatto cruciale - entra così in contatto direttamente, senza la mediazione dei sacerdoti, con testi di carattere religioso.
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