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Letteratura italiana, quattrocento e cinquecento, Appunti di Letteratura Italiana

Secolo 400 e 500 di storia letteraria.

Tipologia: Appunti

2017/2018

Caricato il 28/12/2018

giulio-anelli
giulio-anelli 🇮🇹

4.3

(12)

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Scarica Letteratura italiana, quattrocento e cinquecento e più Appunti in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! QUATTROCENTO E CINQUECENTO I. Quattrocento, i due tempi dell’umanesimo fiorentino Con le espressioni umanesimo civile e umanesimo laurenziano si distinguono due momenti storico-letterari successivi del quattrocento fiorentino: il primo fa capo alla figura del cancelliere Salutati – caratterizzato da un legame strettissimo fra istituzioni politiche e cultura – il secondo che gravita intorno Lorenzo de’ Medici – caratterizzato da un mecenatismo che tende a chiudere gli intellettuali all’interno del potere, allontanandoli da un impegno attivo nella società. È tuttavia innegabile che il consolidarsi del “principato occulto” dei Medici modificò nel profondo la funzione dell’intellettuale fiorentino. In un primo momento egli si identificava con l’istituzione politica di cui era parte attiva: la repubblica, il governo democratico della città. In seguito, a partire dalla seconda metà del secolo, l’intellettuale si realizza al di fuori della gestione diretta della cosa pubblica: egli si concede alla protezione di un mecenate (Lorenzo) che gli consente di dedicarsi in pace e a tempo pieno a propri studi. Gli intellettuali operanti nella prima metà del Quattrocento sono dunque ancora molto legati alle istituzioni repubblicane di Firenze e al regime oligarchico. In questo clima matura il mito della fiorentina libertas e in tal senso va inquadrata anche la strenua difesa di Dante, Petrarca e Boccaccio. Esemplare, in tal senso, la Laudatio Florentinae urbis di Leonardo Bruni, scritta intorno al 1403: una vibrante rivendicazione della polis fiorentina, egualitaria e rispettosa dell’autorità delle leggi, a fronte delle signorie del nord, viste come pure e semplici tirannidi. La seconda fase dell’umanesimo fiorentino è introdotta dall’attività di Cristoforo Landino (1492-1498), nel quale la passione civile dei cancellieri umanisti lascia il posto a un impegno esclusivamente letterario e filologico. Maestro di Lorenzo, lettore di oratoria e poetica nello Studio fiorentino, autore di una raccolta poetica in latino – Xandra – di un commento di Dante e di un dialogo filosofico. Fu però l’attività di Lorenzo il Magnifico e della cosiddetta “brigata laurenziana”, il cenacolo di intellettuali che si riunivano intorno a lui, a indirizzare questa seconda fase verso una cultura filologica di carattere prevalentemente letterario. Fecero parte di questo gruppo, tra gli altri, Luigi Pulci (e il fratello Luca), il Poliziano, Pico della Mirandola. Inizialmente la brigata si caratterizzò per il gusto popolareggiante dei due fratelli Pulci, specie di Luigi autore del Morgante, mentre, in un secondo tempo, essa si aprì all’influenza della raffinata poesia del Poliziano. Lorenzo il Magnifico, perciò, a soli vent’anni signore di Firenze dal 1469, rappresenterà l’estrema espressione di tale osmosi tra spirito umanistico e gestione del potere: si porrà infatti come punto di riferimento non solo dei difficili equilibri tra gli stati italiani, ma anche come il magnetico collettore di geniali artisti e dei più importanti intellettuali del nostro Rinascimento. Intorno al Magnifico convergono, insomma, una moltitudine di interessi culturali. Lo stesso Lorenzo presenta una personalità complessa, tanto che lo stesso Machiavelli riconoscerà in lui la compresenza di “due persone diverse, quasi con impossibile congiunzione congiunte”. 1. Lorenzo il Magnifico, esordi letterari Lorenzo il Magnifico (1449-1492) nasce quando la guida della famiglia è ancora saldamente legata nelle mani del nonno Cosimo il Vecchio, e i medici sono al culmine della loro fortuna e del loro grande mecenatismo. Lorenzo si era affacciato al mondo della letteratura e della poesia agli inizi degli anni Sessanta del Quattrocento. Dall’interno della sua famiglia si può dire che gli venissero, in senso culturale, messaggi contraddittori. Da una parte c’era il nonno, Cosimo, propugnatore del nuovo umanesimo greco-latino della quale cultura aveva fatto una vera e propria bandiera di famiglia. D’altra parte c’era la madre del Magnifico, tipica rappresentante del gusto popolare, semicolto, rigorosamente in volgare. Nonostante la sua formazione umanistica, il giovane Lorenzo, come poeta, appartiene inizialmente al versante materno della cultura familiare. Non per nulla i fratelli Pulci gli sono, in questi anni, personalmente molto vicini. La loro impronta si rileva in tutte le opere giovanili di Lorenzo e anzi, lui stesso, favorisce la poesia comico-burlesca. Molto attento alle esigenze del popolo, il Magnifico non manca di organizzare spettacoli e divertimenti di massa. Non solo: inaugura un genere letterario da recitare proprio in occasione del carnevale: il canto carnascialesco. Il canto carnascialesco è propriamente una canzone cantata da un gruppo di figuranti che impersonano arti, mestieri, particolari gruppi sociali, personaggi della cronaca cittadina e della storia contemporanea. Tali canzoni presentano un carattere assai particolare: sono infatti tutti testi a doppio senso osceno. Da una parte, a livello semantico, costituiscono una riserva linguistica di grande interesse, registrando così nomenclature varie e specifiche. D’altra parte invece, ogni oggetto e gesto del mestiere allude a pratiche e circostanze sessuali. Altra cosa sono invece i trionfi, fra cui rientra la poesia più nota del Magnifico, Quant’è bella giovinezza, ovvero Trionfo di Bacco e Arianna. I Trionfi sono carri allegorici in genere ispirati alla mitologia classica, che sfilavano in occasioni festive, accompagnate da musiche e canti. Con la composizione del De summo bono, Lorenzo cambia bruscamente registro. L’opera mette in scena il dialogo tra Lauro (Lorenzo stesso) e Marsilio (il filosofo Marsilio Licinio) e testimonia il rapporto profondo che si è ormai instaurato fra il giovane signore di Firenze e l’antico filosofo di famiglia. Dal ’73, non a caso, cominciano i dissapori di Luigi Pulci con alcuni esponenti della cerchia medicea, primo fra tutti Licinio stesso, dileggiato in vari sonetti pulciani. Con la svolta e l’avvicinamento al neoplatonismo di Licinio, Lorenzo riallaccia dunque la cultura medicea con quello che era stato il suo programma originario, propugnato dal vecchio Stanze, si muove tra l’incertezza e il dubbio, svolgendo una sottile critica alla fiducia nelle parola poetica e alla sua capacità di evocare i grandi ideali di gloria, amore, potere. II. Il cinquecento: idee, cultura e istituzioni Rispetto al Quattrocento, il nuovo secolo vede un accentrarsi ancora più forte delle attività intellettuali e culturali all’interno della corte. Il Libro del Cortegiano di Baldassar Castiglione (1531), rappresentandoci tre serate alle corte di Urbino, ci restituisce l’immagine più altamente idealizzata di quel mondo e del suo livello di raffinatezza intellettuale. Nella rappresentazione castiglionesca, la corte è il luogo della conversazione, del civile scambio e confronto di idee. La corte è, tipicamente, caratterizzata dalla presenza femminile: depurata da ogni tensione o sottinteso erotico, essa imposta la qualità e il livello dello scambio intellettuale cortigiano, che non può addentrarsi in terreni troppo specialistici, dato che le donne rappresentano un livello di cultura raffinatamente mondano sì, ma non professionale, ben lontano dai rigori della formazione umanistica. Tuttavia l’idealizzazione del Libro del Cortegiano non manca di provocare, per contrasto, contestazioni, parodie, riscritture grottesche, che si incaricano di svelare il vero volto della corte cinquecentesca. Più esagerata di tutti, Pietro Aretino parlerà della corte come dello “spedale delle speranze, sepoltura delle vite”. Ma anche senza giungere a questi eccessi, le spinose difficoltà incontrate dall’Ariosto nel suo rapporto con gli Este, o l’inquietudine, alla fine del secolo, di Tasso, ci parlano della corte come di un luogo esigente e spietato, duramente competitivo e carico di insidie. Allo stesso tempo però costituiva l’unico palcoscenico capace di assicurare lustro, fama, visibilità, successo. D’altronde nel Cinquecento tutta l’Italia è governata dai principi, e il loro mecenatismo è ormai la fonte di gran lunga principale di finanziamento e di sostegno di ogni attività culturale. 1. L’ars typographica, Aldo Manuzio Prima della fine del Quattrocento la stampa a caratteri mobili si era diffusa in tutta Europa. Questo perché immediatamente si erano intuiti dagli stessi intellettuali del tempo gli enormi vantaggi di questa “rivoluzione inavvertita”. Con il miglioramento delle tecniche tipografiche si era in grado di produrre un numero potenzialmente illimitato di copie identiche, in tempi assai più ridotti rispetto al lavoro dei copisti e a costi più bassi. Innanzitutto la stampa favorì il processo di alfabetizzazione e acculturazione; la maggior circolazione diffuse anche l’abitudine alla lettura silenziosa, alla percezione visiva e all’astrazione, inaugurando in sede didattica nuovi metodo di insegnamento e di studio. Le botteghe degli stampatori diventarono lentamente centri di rielaborazione e produzione culturale di straordinaria importanza, punto d’incontro per molti intellettuali che trovarono nell’attività editoriale un’alternativa economicamente valida alla carriera cortigiana e a quella ecclesiastica. Come insigne esempio di stampatore-editore può essere citato sicuramente Aldo Manuzio, umanista e filologo. La figura di Aldo Manuzio risultò fondamentale per il rapporto fra l’editoria e la filologia umanistica prima, e l’affermazione del classicismo rinascimentale poi. Negli anni del tracollo di Bisanzio molti dotti greci si rifugiarono in Italia, recando con sé fornitissime biblioteche in lingua originale e ricchi patrimoni di conoscenze: Manuzio fu sicuramente l’artefice di un’ampia diffusione della cultura greca nella nostra penisola, fondando la sua stamperia proprio a Venezia. Nella pubblicazione degli autori antichi Manuzio metteva a frutto la sua formazione umanistica, in particolare coordinava l’equipe internazionale di collaboratori che si era raccolta attorno alla sua officina che dette vita all’Accademia Aldina, cui parteciparono, fra gli altri, Pietro Bembo, Sabellico e Erasmo da Rotterdam. Frequenti però anche i periodi di crisi, dovuti soprattutto alla saturazione del mercato. Le cause più comuni di tali situazioni possono essere ricercate nella contemporanea pubblicazione della stessa opera da parte di più stampatori. Oppure anche nella difficoltà di piazzare la merce: spesso è la lontananza della tipografia dai maggiori centri commerciali della Penisola a segnare l’inizio della crisi. Ma uno dei principali fattori di modificazione del mercato librario nel secondo Cinquecento fu l’intervento della Chiesa che dettò nuove regole e nuovi indirizzi all’editoria attraverso alcuni suoi istituti: il Tribunale dell’Inquisizione con ampi poteri censori sull’editoria, esercitati periodicamente attraverso l’Indice dei libri proibiti o il divieto di pubblicazione delle opere. 2. La tradizione eretica della lirica quattrocentesca Con il termine “petrarchismo” si è soliti indicare la tradizione poetica del XVI secolo, spesso con accezione negativa, come poesia convenzionale, formalizzata, ripetitiva. Il modello di Petrarca esercita nella lirica un fascino significativo, ma non esclusivo ancora prima della sua codificazione ufficiale ad opera di Pietro Bembo. La compresenza di svariate tradizioni poetiche, dalla lirica cortese alla dantesca, da quella petrarchesca a quella boccacciana, con calchi e reminescenze dei poeti classici latini, si unisce spesso negli autori di quest’epoca ad evidenti debiti nei confronti della tradizione popolareggiante. A questo processo di ibridismo stilistico se ne accompagna poi uno parallelo sul piano linguistico: in un substrato toscano si innestano costantemente latinismi, idiotismi e dialettismi. Possiamo parlare per questa fase di petrarchismo eretico, dato che il Canzoniere diviene un repertorio di termini, espressioni, loci comune, adatti a costruire una trama di fondo su cui innestare le molteplici contaminazioni. Siamo, insomma, molto lontani da un’imitazione-emulazione, cosciente e integrale del modello petrarchesco, quale si presenta invece nel primo Cinquecento grazie alla mediazione bembiana. 3. Il “classicismo” bembiano La rivoluzione imposta dal Bembo, in perfetta sintonia con le sue posizioni ideologiche nell’ambito letterario, fu di interpretare Petrarca alla luce delle esigenze culturali e della sensibilità estetica del Rinascimento e di offrire, quindi, accanto alle riflessioni teoriche un modello preciso e concreto cui riferirsi nell’atto della scrittura lirica. Bembo capisce che la rinascita del volgare come strumento della comunicazione letteraria, dopo il predominio del latino nel corso del Quattrocento, è possibile soltanto se si fondano dei canoni che rispondano all’ideale estetico rinascimentale di eleganza, armonia, equilibrio, misura, ordine e proporzione, e che si incarnino in modelli di stile e di sensibilità non più identificati nei grandi della latinità, ma fra i classici della letteratura volgare. Ecco allora la centralità di un testo quale le Prose della volgar lingua (1525), ove Bembo, propugnando il fiorentino trecentesco come lingua letteraria e riaffermando l’urgenza dell’ottimo modello, consacra Petrarca e Boccaccio come archetipi di stile e maestri di letteratura in sintonia con il gusto e la sensibilità del tempo. 4. La questione della lingua La proposta linguistica bembiana suscitò comunque, all’interno dei circoli intellettuali italiani, un fertile dibattito, tradizionalmente indicato come questione della lingua. Alla tesi arcaizzante delle Prose si affiancarono altri due orientamenti: quello che privilegiava una lingua “cortigiana” e quello che sosteneva l’uso di una lingua moderna toscana, fiorentina o senese. Sostenitore della prima tesi fu Vincenzo Colli detto il Calmeta con il suo trattato Della volgar poesia, in cui proponeva come modello la lingua parlata dagli intellettuali della curia romana. Sulle stesse posizioni si collocò Giangiorgio Trissino, scopritore e divulgatore del De vulgari eloquentia, che nel suo dialogo Il castellano teorizzava una lingua colta di base toscana, ma arricchita dai diversi linguaggi regionali. In sintonia con tali proposte si trovò anche Baldassar Castiglione che, nel primo libro del suo Cortegiano, ribadì la linea dell’eclettismo linguistico, suggerendo di attingere alle parlate delle varie corti e mantenendo come modello prestigioso da imitare la corte pontificia. Se anche questa proposta viveva su un’astrazione, tuttavia ebbe il pregio di cercare un’apertura della lingua letteraria, cioè scritta, verso la lingua parlata e di caldeggiare un ideale di lingua fondato sull’uso oltre che sulla tradizione. La propensione verso un modello linguistico consacrato dall’uso avvicinò la posizione cortigiana alla tesi toscana o fiorentina, sostenuta da pensatori come indisciplinata non meno che irresistibilmente creativa, è quanto di più lontano si possa immaginare dalla levigata bellezza trecentista del toscano predicato dal Bembo. Tuttavia Aretino non rappresenta solo la pars destruens della letteratura cinquecentesca, egli riesce a costruire un diverso percorso professionale e artistico all’interno delle lettere rinascimentali. Il rifiuto del servizio cortigiano e la scelta di Venezia, dove egli vivrà liberamente del proprio mestiere di scrittore, diviene un gesto addirittura simbolico. Il suo rapporto privilegiato con l’industria tipografica configura un nuovo tipo di intellettuale, profondamente coinvolto nella tecnologia di produzione del libro e consapevole del contesto editoriale e culturale in cui opera. Aretino, come molti altri scrittori inquieti, si dedicherà a una produzione varia e vastissima, passando con grande duttilità dai Sonetti lussuriosi e dai “dialoghi puttaneschi” a opere di carattere sacro e agiografico. In Aretino spicca la libertà da ogni imitazione di modelli e la presenza di un’unica legge da rispettare: il successo di pubblico che si trasforma in successo editoriale. La definizione di poligrafo indica perciò questa disponibilità a sperimentare i generi più diversi, anche antitetici, con lo scopo di sfruttare al massimo il mercato tipografico. In polemica con il gusto petrarchistico, che egli aveva seguito nella prima opera Opera nova, Aretino compose nel 1524 i Sonetti lussuriosi che provocarono tanto clamore da dover abbandonare Roma. Le esperienze di uomo e letterato, le vicende quotidiane, da quelle pubbliche a quelle più intime, private, talvolta scabrose, diventano per l’aretino materiale per i suoi volumi che compongono le Lettere, opera subito consacrata come un successo dal pubblico. La misura breve dell’epistola è congeniale alla natura esuberante ed estroversa dell’autore e alla sua versatilità. Se con l’epistolario Aretino fonda un nuovo genere di indubbia fortuna, l’epistolografia in volgare, è anche vero che egli non fa altro che ricollegarsi, rinnovandola nei contenuti, ad un’istituzione letteraria tradizionale, cioè all’epistola umanistica. L’opera più famosa dell’Aretino, i Ragionamenti o le Sei giornate, si inserisce nel genere codificato dal trattato che, proprio nel primo cinquecento, aveva prodotto esempi insigni come gli Asolani e il Cortigiano, ma rappresenta per contenuti e stile l’antitesi dei suddetti modelli. Nell’opera viene proposto un paradossale itinerario a rovescio dallo stato monacale a quello di prostituta; successivamente si traduce in veri e propri precetti comportamentali. Emerge con evidenza l’intento parodico e dissacratorio nei confronti sia della concezione spiritualizzata dell’amore neoplatonico, qui sostituito dall’esaltazione della carnalità e dall’istinto, sia dei valori ideali del gentiluomo di corte cui subentrano quelli dell’arte puttanesca. Un altro piano in cui emerge una radicale contrapposizione rispetto il modello ufficiale è quello del linguaggio che viene stravolto attraverso l’innesco di termini gergali, osceni, dialettali e, a livello sintattico, della parlata libera. 2. Berni e la tradizione burlesca Principale esponente del filone antipetrarchista e fondatore di un nuovo modo di poetare, detto appunto alla bernesca, Berni rispecchia una figura di intellettuale inquieto, radicalmente diversa da quella dell’Aretino che diventò uno dei suoi maggiori antagonisti. Versi particolarmente violenti si giustificano col rifiuto totale da parte del Berni del mito dello scrittore indipendente ed eccezionale professato dall’Aretino. L’attrazione di Berni per la tradizione comico-giocosa del Trecento e per la letteratura burlesca di epoca umanistica si rivela già nella prima opera di rilievo: la Catrina, farsa di argomento rusticano del 1516. Nel 1526, esattamente l’anno seguente all’opera di Bembo, esce il Dialogo contro i poeti che può essere considerato il manifesto della poetica bernesca. Nell’opera si afferma il rifiuto della concezione umanistica-rinascimentale della poesia come suprema e quasi sacra forma di conoscenza a vantaggio di una poetica del divertimento in nome dell’esigenza di naturalezza e spontaneità. Negli stessi anni della riscrittura dell’innamorato del Boairdo, compone gran parte dei sonetti e dei capitoli che verranno raccolti nelle Rime. Questi testi possono perfettamente illustrare sul piano dei contenuti e della forma come si sia realizzato l’intento antipetrarchistico professato dall’autore nel Dialogo contro i poeti L’intento parodistico nei confronti del modello bembiano è evidente nel sonetto Chiome d’argento, il quale ne rovescia a sua volta un altro. Il sonetto gioca su un’operazione letteraria molto abile: apparentemente sembra ritornare l’uso di un lessico elevato e altisonante, ma in verità il senso è radicalmente ribaltato attraverso un’operazione di degradazione. Il ribaltamento dei temi bembiani avviene in modo dissimulato e non immediatamente contestabile. Un’altra forma poetica attraverso cui Berni realizza l’opposizione ai canoni letterari del tempo è il Capitolo. Berni recupera questa formula inserendovi, invece che riflessioni politiche e morali, contenuti satirici e polemici. La poesia bernesca si presenta pertanto come poesia delle cose, in contrapposizione a quelle delle parole usurate dalla tradizione. L’attenzione è rivolta alla bruttezza, al deforme, ad amori bassi di cortigiane o amori omosessuali, la materialità viene esasperata in volgarità. Il registro è senza dubbio basso, caratterizzato da prolissità, disarticolazione sul piano discorsivo, abuso di digressioni, lingua media che affianca espressioni dotte a locuzioni plebee. 3. Teofilo Folengo e l’opera maccheronica Già alla fine del Quattrocento fa la sua comparsa la cosiddetta poesia maccheronica, termine da ricondurre all’ambito gastronomico: pietanza rozza, rusticana; aggettivi che già permettono di cogliere lo spirito di questo genere e sono anche indice di un certo disprezzo nutrito dall’autore verso il mondo villanesco. In realtà la poesia maccheronica è fin dall’inizio tutt’altro che rustica o popolaresca: essa esibisce una grossolanità ben calcolata, letteralmente elaborata, e i suoi creatori sono tutti di estrazione universitaria, dunque ben esperti di latino e perfettamente consapevoli dell’operazione espressiva che la poesia maccheronica comporta. Essa si costruisce attraverso l’applicazione della morfologia latina a un materiale lessicale volgare, anzi dialettale; dallo scontro esplosivo fra aulicità della veste morfologica e bassezza del vocabolario deriva la comicità dell’operazione. Da una parte il latino viene abbassato e irriso, costretto a rivestire lessemi umili, dall’altra il linguaggio grossolano del dialetto viene altrettanto comicamente innalzato dalla morfologia nobilitante latina. In questa tradizione, l’opera di Teofilo Folengo occupa un posto privilegiato. L’originalità di questo autore non va limitata solo all’aspetto linguistico. Anche sul piano dei contenuti sicuramente il lavoro del Baldus rappresenta un’opera singolare: il mondo dei contadini è nel poema osservato in modo più approfondito che altrove, con un’ottica fortemente realistica, capace di cogliere l’essenza del mondo rusticano. I temi popolareschi dell’abbondanza, della fame, della materialità più bassa sono trasfigurati dalla fantasia folenghiana in chiave letteraria e satirica denunciando, da parte dell’autore, interesse verso questo mondo. IV. La rifondazione dei generi teatrali Sotto la spinta della riscoperta e dello studio dei modelli antichi si assiste, nei primi anni del Cinquecento, a quella che si definisce come nascita del teatro. I testi drammaturgici degli autori greci e latini, le riflessioni aristoteliche sulla tragedia sono le basi di tale rinascita, che mira a superre la fluida esperienza quattrocentesca dello spettacolo di piazza, sacro e profano, verso un’idea di teatro come un luogo chiuso, deputato alla recitazione di un testo letterario. Questa vera e propria rivoluzione dell’istituto teatrale moderno ha come scenario la corte, in special modo la corte ferrarese con l’importante stagione rappresentativa dei volgarizzamenti plautini e terenziani promossa da Ercole I d’Este alla fine del Quattrocento. Ed è su questo fertile terreno che inaugura la sua fortunata sperimentazione Ludovico Ariosto, riconosciuto fondatore della commedia “regolare”. Tuttavia se la sperimentazione ariostesca apre felicemente la strada alla rinascita del genere comico nel Cinquecento, essa si dimostra ancora insoddisfacente dal punto di vista linguistico-espressivo. Richiedeva infatti, visto il tema trattato, un linguaggio colloquiale e quotidiano, esigenza di fronte alla quale Ariosto si muove non senza imbarazzo rifiutando di attingere al dialetto ferrarese. Non sarà perciò causale che la definitiva emancipazione del genere comico moderno sia compiuta da autori toscani, gli unici a disporre di una lingua insieme letteraria e d’uso. Con la Calandria Bernardo Dovizi da Bibbiena, e poi Machiavelli con la Mandragola e Clizia, si realizza il fondamentale incontro tra struttura classica e universo comico decameroniano. Guicciardini fu più cinico e disincantato di Machiavelli. Egli, avendo occupato cariche pubbliche importanti e avendo ben conosciuto dall’interno la macchina del potere si mostra meno ottimista di Machiavelli circa la possibilità di cambiare il mondo, magari imitando i glorioso esempi degli antichi. Occorre per Guicciardini muoversi con prudenza e discrezione nella realtà, senza regole generali, badando alla specificità peculiare in cui si opera, il particolare. La realtà non può essere modificata, ma solo assecondata, ci si può adeguare ad essa, ma senza pretese di essere in grado di orientarla. Non a caso l’opera di riflessione politica più nota, i Ricordi, non ambisce alla sistematicità organica: essa è una raccolta di massime di comportamento che non pretendono di dettare norme generali e assolute, ma suggerimenti, osservazioni, suggestioni che nascono dall’esperienza concreta dell’autore. Se questo appello alla concretezza del dato fattuale, della realtà per come essa è, colta senza velami o infingimenti, colloca Guicciardini sulla scia aperta da Machiavelli, in una piena desacralizzazione laica della politica, le prospettive poi divergono. Alla fiducia di Machiavelli che la virtù dell’uomo possa modificare, orientandone il corso, la realtà e la storia si contrappone il disincanto di Guicciardini, convinto che nelle realtà delle cose ci si possa solo muovere con prudenza e saggezza pragmatica senza pretese più generali di cambiamento del mondo, in fondo inamovibile. La sola cosa che l’uomo può davvero conoscere è ciò che è già accaduto, ciò che è già evento consegnato agli altri: nella storia, nel suo studio è possibile forse per l’uomo l’unica forma di conoscenza basata su qualche certezza. La grande passione di Guicciardini per la storia, le sue importanti opere storiografiche nascono quindi da queste premesse, così come dalle sue riflessioni politiche. La sua opera Storia d’Italia di fatto inaugura perciò la moderna storiografia: con l’aiuto di fonti, documenti puntuali, ricordi personali, ricerche, Guicciardini ricostruisce gli anni cruciali della crisi politica, istituzionale, militare italiana dalla morte di Lorenzo il Magnifico ai primi decenni del Cinquecento. 2. Machiavelli e Guicciardini lettori e scrittori La formazione culturale e letteraria di entrambi è emblematica: appassionati di cultura classica, particolarmente Machiavelli, non seguono però la tradizionale trafila di studi umanistici: non scrivono opere in latino, privilegiano nettamente il volgare, non hanno esitazione nell’appassionarsi con decisione alla lingua toscana e alla sua letteratura. Machiavelli è lettore di molti grandi classici latini: Livio, Tacito, Aristotele, Polibio, Platone, insieme a Cicerone e commediografi e poeti. Ma soprattutto egli è grande ammiratore della più significativa tradizione letteraria toscana: Dante in particolare, Petrarca, Boccaccio, l’insieme della letteratura quattrocentesca. Di qui la sua costante passione per lo scrivere, per il cimentarsi in genere diversi. Scrive i Decennali, opera storica in terza rima dantesca e sempre in terza rima compone l’Asino. Ma soprattutto è originalissimo autore teatrale: oltre alla Mandragola vanno ricordate le altre due sue commedie, l’Andria e la Clizia. Importante anche il suo epistolario, ricco sia di notazioni di vita quotidiana, di vivace aneddotica come di acute osservazioni da grande politico sulle vicende del tempo. Particolarmente affascinanti i nuclei di corrispondenza con alcuni amici, specie Francesco Vettori e appunto Francesco Guicciardini. Machiavelli scrittore giganteggia naturalmente nelle sue opere politiche: vari generi, la trattatistica (il Principe), il commento (i Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio), il dialogo (con l’Arte della guerra), la narrazione storiografica (con la Vita di Castruccio Castracani e le Istorie fiorentine) sono da lui praticati ma, di fatto, completamente rinnovati, a cominciare dall’uso esclusivo del volgare. Guicciardini, di stirpe aristocratica, gode ovviamente di una raffinata formazione umanistica e letteraria. Ai Ricordi e alla Storia d’Italia, i suoi capolavori assoluti, si aggiunge Dialogo del reggimento di Firenze, ove emerge il suo ideale di Stato repubblicano sotto la guida di un ceto aristocratico addestrato alla vera saggezza. Il contradditorio con l’amico Machiavelli è svolto in un incalzante testo, le Considerazioni intorno ai Discorsi di Machiavelli. Come storico si era applicato anche alla storia di Firenze con due testi di grande interesse: le Storie fiorentine e le Cose fiorentine. 3. Firenze e l’idea di Stato Per Guicciardini, come già per Machiavelli, il punto di partenza obbligato per le proprie riflessioni resta Firenze: la loro grandezza sta nell’aver fatto di questo punto privilegiato di osservazione non un angusto e provinciale angolo prospettico, ma il paradigma di partenza per volgersi al mondo, alle ragioni politiche dell’agire umano. La “fiorentinità” si coglie anche, del resto, sul versante ideologico oltre che linguistico: entrambi restano, in sostanza, legati all’idea dell’eccellenza degli Stati repubblicani (come repubblicana era stata fino a quei tempi la storia di Firenze). L’accedere con vigore e originalità, specie da parte di Machiavelli, alla necessità, per gli Stati più vasti e complessi, della forma del “Regno” non fa dimenticare l’ideale di una comunità a poteri decentrati, fondata sull’equilibrio dei ceti e delle istituzioni, a caratterizzazione democratica e repubblicana; che in Guicciardini si connoterà a differenza di Machiavelli, più in senso aristocratico, con un ruolo primario che, come ceto dirigente, i “migliori”, i potenti, devono assumere nel reggimento di Stato e città. 4. Francesco Guicciardini, vita e opere Francesco dimostra già da subito una forte ambizione politica che lo induce a dedicarsi agli studi giuridici e pianificare poi con lucidità il suo ingresso nell’agone politico fiorentino. Nel 1511 ottiene il mandato di ambasciatore presso il re di Spagna, la legazione è l’occasione per la stesura di alcuni scritti, tra cui si ricorda il Discorso di Logrogno, una prima lucida analisi della crisi politica fiorentina. A questo periodo risulta anche il primo nucleo dei Ricordi, la cui composizione accompagnerà tutta la vita dello scrittore. Alla fine del 1512 i Medici tornano a Firenze e, pur senza abbattere formalmente le istituzioni repubblicane, riprendono di fatto il controllo della città. Rientrato nel 1513, Guicciardini riprende a esercitare l’avvocatura e continua la sua ascesa politica: nel 1514 è prima membro degli Otto di Balìa e dopo entra a far parte della Signoria. Colpisce prima di tutto, nel Guicciardini, il fatto che le sue opere siano in massima parte opere “segrete”, non destinate alla pubblicazione. L’unica scritta per essere divulgata è infatti la Storia d’Italia; ma la più famosa, i Ricordi, arrivò alla stampa nel Cinquecento solo fortunosamente, in miscellanee di massime circa il governo dello stato e le regole del vivere politico; le altre hanno visto tutte la luce assai tardi, a cominciare dall’Ottocento. In parte ciò dipende dal carattere degli scritti guicciardiniani: alcuni di essi, come le Memorie di famiglia, le Ricordanze, gli stessi Ricordi, sono opere private, scritte per sé o tutt’al più per i propri eredi immediati, e appartengono al genere dei libri di famiglia destinati a non uscire dagli archivi familiari. Per altre opere il discorso è diverso. Per i trattati politici deriva la “non pubblicità” dal lacerante contrasto fra il pensiero politico che rappresentano e le funzioni pubbliche rivestite dal loro autore. Ed è un contrasto di cui il Guicciardini è il primo a rendersi conto, è una contraddizione che non si risolve, se non a prezzo di una lucida schizofrenia: da una parte lo spazio necessariamente segreto e privato della riflessione sulla libertà fiorentina, dall’altra quello pubblico degli incarichi medicei, peraltro assolti con ammirevole scrupolo e abnegazione. Fino dal Discorso di Logrogno infatti la sua proposta contempla un contemperamento di poteri che se da una parte rimanda al moderno modello veneziano e alla sintesi delle forme classiche di governo, dall’altra tiene ben presenti le concrete condizioni civili e istituzionali di Firenze. Lo stesso modello torna nello sviluppo più ampio e teoricamente impegnato del Dialogo sul reggimento di Firenze, nel quale vengono esaminate e scartate le forme di governo largo, popolare, giudicate poco efficienti e in balia delle rivalità delle grandi famiglie. La proposta alternativa è ancora una volta quella di un governo misto, che dia sfogo sia alle esigenze di rappresentatività politica del popolo, sia al bisogno di prestigio dei “grandi”, sia infine alla legittima ambizione del singolo di farsi non signore, né principe, ma di emergere come primo cittadino, sia pure in un regime di libertà. Il servizio politico di Guicciardini terminerà con un esito disastroso, un consiglio fatale data a papa Clemente VII di entrare in guerra contro l’imperatore. Sentendosi primo responsabile di quella tragedia, il sacco di Roma, per aver voluto una guerra tanto sfortunata , Guicciardini lascia la luogotenenza e si ritira a Firenze in un clima di aperta avversione contro la sua politica. Si ritira nella sua villa di Finocchieto nei pressi di Firenze dove trova un’ulteriore accusa di furto dei concittadini. Guicciardini in questo periodo scrive la Consolatoria per mitigare la “somma mestizia” della sua nuova condizione, mentre riserva la propria discolpa alle due orazioni Accusatoria e Defensoria.
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