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letteratura italiana, Appunti di Letteratura Italiana

appunti delle lezioni prese in presenza

Tipologia: Appunti

2019/2020

Caricato il 13/06/2023

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alessia-de-filippo-12 🇮🇹

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Scarica letteratura italiana e più Appunti in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! Storia letteraria con autori e opere Il mondo umanistico e signorile 1380-1494 In ambito letterario, nel momento in cui passiamo dal 200/300 al 400 abbiamo l’impressione di trovarci di fronte ad un panorama totalmente cambiato, abbiamo davvero l’impressione di trovarci davanti ad una inversione di tendenza, in particolare nell’uso della lingua attraverso la quale la letteratura si esprime, si passa cioè dallo scrivere prevalentemente in volgare al latino, basti pensare al de Vulgari Eloquentia di Dante un trattato rivolto ai dotti scritto in latino, ma per elogiare il volgare. Veniamo perciò da due secoli che hanno prodotto molta letteratura in volgare con l’arrivo del 400 lo scenario cambia radicalmente. Quella eredità lasciata del volgare non viene raccolta e già nella fine del 300 qualche segnale inizia a manifestarsi. Ad esempio, con Petrarca si parla di “preumanesimo”, Petrarca credeva molto nel latino e in lui ci sono molti degli atteggiamenti pienamente sviluppati poi dagli umanisti. È al latino ora, nel primo 400, che si affida il compito di esprimere le tesi culturali e ideologiche del tempo. L’uso del latino è legato ad un intenso interesse per la cultura classica, è la latinità che interessa maggiormente i primi umanisti, in particolare è l’epoca della fine della repubblica o il primo principato romano che maggiormente interessa gli umanisti, essi guardano a Virgilio per la poesia e Cicerone per la prosa. Questi non sono i modelli esclusivi, ma prevalentemente è a Virgilio e Cicerone che guardano. Gli umanisti sono appassionati della classicità e in questo primo momento sono grammatici, retori, credono molto nella bella parola tanto da assumere quasi un atteggiamento di distacco verso le altre scienze propriamente dette proprio perché amano la potenza della parola e dell’eloquenza. Ciò che caratterizza l’umanesimo del primo 400 è la credenza che l’oratoria e l’eloquenza non devono essere delle discipline fine a sé stesse, ma avere un’applicazione pratica, da qui si giunge all’umanesimo “civile” che comprende la passione sì per la bella forma dei testi e della parola, ma con ricadute pratiche, gli scrittori di questo periodo sono sì scrittori e poeti, ma sono anche politici e cancellieri che si dedicano ad attività pubbliche. Cosa si intende per “Umanista”? il termine deriva dall’espressione “studia humanitas” che i dotti di fine ‘300 avevano desunto dai testi di Cicerone. Gli “studia humanitas” erano quelli studi convenienti all’uomo libero. L’umanesimo si caratterizza per la preminenza di un gruppo ristretto di saperi (retorica, storia, poesia e filosofia) di cui si afferma l’assoluta centralità per la formazione dell’uomo e del cittadino rispetto ad altre discipline. Il movimento umanista diffonde una considerazione nuova del mondo classico, basata su un'interpretazione delle opere non più operata alla luce del pensiero cristiano, ma del loro contesto storico, ossia il contesto storico in cui le opere vengono realizzate. Che tipo di approccio hanno con il mondo classico gli umanisti? Anche Dante considerava suo maestro Virgilio e stimava profondamente i classici, ma il nuovo approccio degli umanisti, dal primo ‘400 è il senso critico, gli umanisti hanno un approccio critico nei confronti dei testi, sono uomini che hanno viaggiato alla ricerca dei testi antichi e sconosciuti al medioevo, questi uomini hanno indagato e ricopiato in modo fedele e preciso i testi antichi hanno periodizzato a differenza del medioevo che concepiva il passato come qualcosa di non altro da se, ossia non concepiva il tempo antico con la distanza storica che gli umanisti hanno, gli umanisti non mescolavano il presente con l’antico. Per avvalorare l'autenticità e la natura dei manoscritti ritrovati, gli umanisti, sulla scia di Petrarca, favorirono la nascita della moderna filologia, scienza intesa a verificare la natura dei codici contenenti le opere degli antichi e determinarne la natura. Il latino medievale è un latino fortemente contaminato che ha perduto la purezza linguistica originaria ciò accade di nuovo per la mancanza di distanza storica, è con gli umanisti che si comincia a parlare di età antica ed età moderna. L’approccio critico ha dimostrato che la “Donazione di Costantino” è un falso. Il latino della scolastica, scolastica è il termine con il quale comunemente si definisce la filosofia cristiana medioevale, è quel latino da cui gli umanisti prendono le distanze, ma non solo dal latino della scolastica anche dall’approccio deduttivo della scolastica, quest’ultima affermava infatti la preminenza della teoria sulla pratica, gli umanisti invece credevano che tutto andasse dimostrato, un atteggiamento quindi critico del passato e del presente. La letteratura del 2/300 a che tipo di struttura sociopolitica era legata, cosa cambia nel ‘400? La letteratura trecentesca è legata all’istituzione del comune, questa letteratura umanista è invece legata alla signoria o dei principati. C’è stata dunque una trasformazione, e quando noi parliamo di letteratura in lingua latina, che tanto caratterizza questo primo 400, dobbiamo pensare principalmente alle signorie. Le signorie influenzano la produzione degli autori che risiedevano nelle varie corti. Tra le varie signorie quelle che maggiormente spiccano sono quelle di Firenze, Mantova, Venezia, il Regno di Napoli, lo Stato della Chiesa quindi c’è un grande frazionamento, ma le signorie non sono comparse all’improvviso esse derivano dai comuni, alcuni critici parlano della nascita delle signorie come di una “rifeudalizzazione” in realtà chi parla di rifeudalizzazione non tiene conto che già i comuni contengono in se il potenziale di diventare signorie, si pensi ad esempio alla tendenza nei comuni italiani di stringere matrimoni di convenienze per formare alleanze o la tendenza di investire nel contando ovvero nei latifondi. Si pensi alla Firenze dantesca, una città dilaniata dalle guerre civili e ancora i comuni del 200/300 si facevano la guerra fra di loro, tutto ciò appartiene al mondo feudale, perciò il comune contiene già la possibilità di trasformarsi in signorie. Gli autori che noi troviamo nel ‘400 vivono infatti nelle signorie. Un luogo particolarmente significativo delle signorie erano le corti (elemento di novità rispetto ai comuni i quali ne erano sprovvisti) le corti ritornano come nell’epoca feudale, la corte è il cuore pulsante della cultura, della politica e dell’arte. La corte ha tutta una serie di funzionari e burocrati che orbitano intorno al signore, tutto è in funzione della politica che un determinato principato ha scelto, ad esempio a Ferrara sono stati scritti L’Orlando Innamorato, L’Orlando Furioso e la Gerusalemme liberata tutti e tre poemi epici cavallereschi, proprio perché la signoria di Ferrara amava questo genere. La Firenze di Lorenzo invece prevede una produzione letteraria con altre determinate caratteristiche. Gli autori che incontriamo in questo periodo sono cortigiani spesso dipendenti del signore. Tutte le grandi opere letterarie, pittoriche e scultorie sono state realizzate in questo periodo nell’Italia rinascimentale e tutto ciò ha ragion di essere nella politica delle corti che avevano grande interesse a investire nell’arte perché questa si traduceva in potere e rispetto, certamente anche per un gusto spiccato per l’estetica e la bellezza che caratterizzava i potenti dell’epoca, ma soprattutto per un senso di supremazia che animava questi signori che in questo periodo si contendevano i migliori artisti al fine di circondarsi di prestigio e magnificenza. Lo stato della chiesa in questo periodo è paragonabile ad una qualsiasi altra signoria con a capo il papa, lo stato del vaticano è uno stato nazionale e politico ora più che mai. Prima il potere universalistico legato alla chiesa era molto più forte rispetto al ‘400 e si faceva sentire di più. La Chiesa estendeva i suoi tentacoli ovunque in Europa. Questo universalismo si smorza, il papa diventa un principe lui stesso, la chiesa ora è fortemente politicizzata e quindi corrotta, ciò genererà sempre più malcontento fino ad arrivare ad Erasmo da Rotterdam e la riforma protestante del 1517. Basti pensare a Girolamo Savonarola collocato nel secondo ‘400 bruciato sul rogo proprio per aver proposto una alternativa all’ortodossia imposta dal Vaticano, la chiesa era attenta a non far diffondere pensieri religiosi altri, esterni all’ortodossia, si pensi che in questo periodo nasce l’indice dei testi proibiti e avviene il ripristino del tribunale dell’inquisizione. Questo approccio critico ci porta ad una altra serie di considerazioni: si rompe in questo momento l’unità culturale di tutte le scienze e le arti dalla teologia, quel rapporto di dipendenza della cultura in tutte le sue forme con la teologia, che ha caratterizzato tutto il medioevo, tende a sciogliersi con gli umanisti. Pensiamo all’arte, la letteratura nel medioevo era considerata serva della teologia, si partiva dal presupposto che la verità era stata rivelata da Cristo, si partiva cioè dal presupposto che la verità non andava ricercata in quanto essa era stata già rivelata. Nel medioevo il mondo si concepiva in uno stretto rapporto fra piano verticale (uomo-dio) e piano orizzontale (uomo e suoi simili), la vita terrena aveva senso solo se si concepiva come passaggio per arrivare poi al cielo, si concepiva la vita come quella di creature che aveva di Valla è non solo un lavoro di tipo filologico, ma anche un'analisi dell'epoca storica in questione. Valla scrive inoltre il Piacere, il Libero arbitro e Eleganze della lingua latina un testo filologico volto al recupero del latino classico. Guarino Veronese (1374- 1460) È uno dei più importanti maestri e pedagoghi del ‘400, è il fondatore della pedagogia umanistica. Il programma scolastico adottato dai primi teorici pedagogici dell'umanesimo rifletteva una rivoluzione metodologica rispetto all'insegnamento medievale. La pedagogia umanista, adottando, sul modello platonico, il dialogo come mezzo di conoscenza, intendeva coinvolgere lo studente nel processo di apprendimento tramite un clima cordiale e di dolcezza, abolendo in toto la violenza fisica. Marsilio Ficino Lo collochiamo nella seconda metà del ‘400 è un artista neoplatonico appartenente alla Accademia Platonica che insieme alla Accademia Romana e quella Pontaniana fondata da Giovanni Pontano formano le tre accademie principali per la formazione degli umanisti. Questi nuovi intellettuali si formano non più negli istituti ecclesiastici e nelle università, ora si formano nelle Accademie dei centri culturali che si diffondono in questo periodo e si diffonderanno sempre più numerosi in tutta Italia. Le produzioni in volgare sono principalmente religiose: prediche, sacre rappresentazioni, ossia messe in scena in piazza in cui gli attori si muovevano su fondali fissi al fine di rappresentare testi sacri in maniera dissacrante e in dialetto al fine di far passare messaggi morali e religiosi in ottava rima, nelle rappresentazioni si evince un modello realistico nella lingua e nei contenuti. I predicatori più famosi sono San Bernardino da Siena e Girolamo Savonarola. Nel primo ‘400 anche al volgare si riserva una parte della letteratura specie quella religiosa e di basso registro. Alcuni nomi della produzione in prosa che hanno scritto novelle e facezie sono: Giovanni Sercambi autore di 155 novelle nel Novelliere in cui il modello è Boccaccio, anche Sercambi, come Boccaccio nel Decameron, pensa ad una cornice, qui c’è anche una moria come a Firenze con Boccaccio, ma in questo caso non c’è un insieme di novellieri, ma è l’autore che racconta le novelle agli udenti queste novelle che sono trasposizioni della vita mercantile, tramite il Novelliere abbiamo uno spaccato della mercantile in Italia, circa 20 delle 155 novelle sono trasposizioni di novelle di Boccaccio. Gentile Sermini scrive 40 novelle, questa raccolta contiene novelle in gran parte di argomento licenzioso. Giovanni Sabadino degli Arenti autore di altre novelle riunite nelle Porretane composte da 61 novelle. Si tratta di una raccolta di novelle, raccontate per passare il tempo da un gruppo di gentiluomini e gentildonne bolognesi trasferitisi ai bagni della Porretta per la cura delle acque, simili per molti aspetti al Decameron di Boccaccio. Un’opera simbolo di questo genere è La novella del Grasso Legnaiuolo, essa ha avuto 3 edizioni la più lunga delle quali ha avuto come autore Antonio Manetti. La novella è uno spaccato della vita bohemienne fiorentina, è una narrazione di una beffa ordita da Filippo Brunelleschi ai danni di un ebanista, questa novella rende bene l’idea dell’ambiente artistico fiorentino. Un’altra opera rappresentativa è Le Facezie del Piovano Arlotto di Arlotto Mainardi è una raccolta di facezie di motti arguti in volgare, ma questo libro non l’ha realizzato Arlotto Mainardi che era famosissimo all’epoca, il vero autore è un anonimo che puntando sulla fama di Mainardi si firma con il suo nome. C’è anche la poesia in volgare ma di che tipo di poesia si tratta? È una poesia scritta in volgare, ma è comico realistica o comico giocosa, i maggiori autori sono: Domenico di Giovanni detto il Burchiello e Antonio Cammelli detto il Pistoia. Il Burchiello è appassionato del gioco con i suoni, alcune sue opere sono quasi nonsense mentre per il Lasca ricordiamo la sua vena satirica, il Lasca c’è quando Carlo VII scende in Italia e di quell’evento ne scriverà in modo satirico. Leggiamo il sonetto Sospiri azzurri di speranze bianche di Domenico di Giovanni (Burchiello). Sospiri azzurri di speranze bianche mi vengon nella mente, e tornan fuori, seggonsi a pie' dell'uscio con dolori, perché dentro non son deschetti o panche. Così le mosche, quando sono stanche, nelle selve de i Barbari o de' Mori, seguitate da fieri cacciatori, nelle gran nebbie par lor esser franche. Quei nugoli che dormon co i pie' mezzi, fanno al liuto mio si lunga guerra, che corda non vi sta che non si spezzi. Tanto fe' Diomede in Inghilterra, ch'arebbe fatto di lui cento pezzi, se non che un nibbio lo levo' di terra. Dice Cato, e non erra, se una mosca cacasse quanto un bue, le rotelle varrebbon molto piùe Notiamo nel sonetto la satira contro la poesia dotta e nebulosa (i “nugoli”: le nuvole), sentita dal Burchiello come sostanzialmente vuota e sciatta nonostante il suo tono pretenzioso. Ma più che di satira, è opportuno parlare di divertita parodia: il Burchiello rifà il verso ai poeti troppo «profondi» e oscuri. La peculiarità dei sonetti burchielleschi consiste in uno sfrenato accumulo di nonsense e di brucianti incongruità, dove strumenti di lavoro, animali, vegetali, sinestesie folli, antropomorfizzazioni, inversioni di senso, creano delle sovrabbondanti e dissennate nature morte che minano qualsiasi luogo comune della lirica di ascendenza petrarchesca. Dall’inizio del ‘400 le opere letterarie sono scritte principalmente in latino. Nella seconda metà del ‘400 andiamo a riscontrare un’inversione di tendenza, dalla seconda metà del ‘400 vediamo infatti che il volgare diventa protagonista della produzione letteraria, ma questa letteratura non perde il carattere elitario il registro rimane sempre elevato, prodotto da dotti per un pubblico dotto e istruito, il volgare adoperato è infatti purificato dal dialetto, è un volgare simile al latino. Gli scrittori restano cortigiani. Una data di inizio di questa svolta è il 1441, nel 1441 Leon Battista Alberti promuove il certame coronario una gara di poesia in volgare, per promuovere l’uso di questa lingua, con a tema l’amicizia, questo interesse nella lingua volgare si esprime anche nel desiderio di avere una lingua letteraria non solo scritta, ma anche parlata come il volgare, da questo momento troviamo spesso autori che scrivono sia in volgare sia in latino come Poliziano, Sannazzaro, Boiardo, ma un volgare depurato da elementi popolari, più vicino al latino. Questi autori conoscono benissimo la letteratura latina e il mondo classico. Vuol dire che conoscono benissimo la letteratura latina e la mitologia, questi autori tendono a riproporre in volgare quel mondo classico che tanto amano, avviene il contrario di quello che avveniva nel medioevo, ad esempio sappiamo bene che Dante conosce bene i classici, ma essendo un uomo del medioevo tendeva a cristianizzarli, nel medioevo l’antico si vestiva di moderno, qui è il contrario è il moderno a vestirsi di antico, basti pensare a Poliziano che vagheggia l’età dell’oro o Boiardo che ripensa alle virtù cavalleresche. Si verifica che abbiamo lo sviluppo della letteratura umanistica da una parte, ma portare avanti il pensiero umanista significa anche portare avanti la laicità degli studi. Dall’altra parte si sviluppa anche molto la cultura popolare. Da questo momento avremo un’Italia spaccata da una parte una cultura alta, elitaria e chiusa mentre tutto il resto rimane fuori non solo dalla letteratura ma anche dai valori progressisti che questa cultura promuove. Questa letteratura della seconda metà del ‘400 fa prevalere la forma sui contenuti, guarda ai classici antichi e ai classici moderni come le tre corone, non è più un umanesimo “civile” ora la letteratura diventa sempre più distaccata dai temi reali, gli autori eseguono un vero e proprio lavoro di intarsio sagomando e approcciandosi ad esercizi stilistici che prendono spunto da molti autori di epoca diversa. Ricordiamo che siamo ancora in fase di preclassicissimo e gli autori erano più liberi, dal ‘500 parleremo di vero e proprio classicismo. Leon Battista Alberti (1404- 1472): fa parte della seconda generazione di umanisti di cui fu una figura emblematica per il suo interesse nelle più varie discipline. Un suo costante interesse era la ricerca delle regole, teoriche o pratiche, in grado di guidare il lavoro degli artisti. Ha scritto in latino e in volgare, era un artista ecclettico, era musicista, pittore e scrittore, è famoso per il trattato “Della famiglia” è un trattato in 4 libri in volgare che esprime bene la mentalità borghese dell’epoca basata sulla masserizia opposta alla liberalità, la masserizia è un valore borghese, si basa sulla buona amministrazione della casa e dei soldi, la liberalità era invece un valore feudale basato sulla prodigalità e il disinteresse per il denaro, la masserizia è uno dei nuovi valori che si affermano nella vita borghese. Un altro importante tema trattato da Alberti è quello del rapporto “virtù-fortuna” un tema centrale per gli umanisti che avevano scalzato Dio dalla storia e avevano messo l’uomo al centro della storia, la conseguenza è un rimescolamento del rapporto “virtù/fortuna” per Alberti la fortuna andava contrastata con la quiete e la saggezza, secondo Alberti la pacatezza stanca la fortuna a differenza di Machiavelli che sostiene che la fortuna si combatte tramite l’impeto giovanile. Secondo Alberti il combattere la fortuna con la saggezza non ha ricadute solo individuali, ma anche per tutta la comunità ecco quel valore “civile” che ancora caratterizza gli umanisti come Alberti. Lorenzo il Magnifico (1449-1492): si è formato alla scuola di Cristoforo Landino, Marsilio Ficino, un poeta neoplatonico fondatore dell’Accademia Platonica, Giovanni Argiropulo ossia la scuola degli umanisti. Lorenzo non scrive in latino, ma esclusivamente in volgare, Lorenzo faceva letteratura come un esercizio artistico e in lui vediamo la convergenza della letteratura antica, moderna e la tradizione popolare, queste tre figure convergono in Lorenzo e formano degli intarsi letterari. Le Rime di Lorenzo delineano una sorta di percorso evolutivo che va da Petrarca (un classico moderno) verso uno stilnovismo neo platonizzato di tipo misticheggiante influenzato dalla scuola di Ficino, il Corinto è un’egloga pastorale, nella quale Lorenzo rifà i modelli antichi, nel Corinto Lorenzo ha presente il Teocrito della letteratura greca, Virgilio e Boccaccio nella Ninfale Fiesolano. Corinto è un pastore innamorato non corrisposto di Galatea una sacerdotessa volta al culto di Diana stessa situazione di Africo e Mensola nel Ninfale Fiesolano. Lorenzo nel Corinto tiene conto dei modelli classici e della letteratura romanza. La Nencia da Barberino è un poemetto rusticano che ha per protagonisti Vallera e Nencia il poemetto è nettamente diverso dal Corinto non tanto per il contenuto che è pressoché uguale, ma per la forma, il Corinto ha modelli alti mentre la Nencia ha modelli bassi e popolari, sono entrambi esercizi letterari. Il pubblico è in grado di partecipare a questo esercizio letterario in quanto nel Corinto ritroveranno la forma alta e riferimenti ai classici mentre nella Nencia ritroveranno riferimenti popolari, ma entrambi hanno dietro un lavoro raffinato e attento da parte di Lorenzo. Leggiamo ora un pezzo dal Corinto. Anche se la poesia è scritta in volgare il registro linguistico è quello alto, possiamo notare però che le parole al plurale sono di registro popolare in quanto l’aggettivo rimane singolare, ma il sostantivo è al plurale. I motivi principali del Corinto di Lorenzo sono tre: la celebrazione della bellezza della donna, celebrazione del sentimento elegiaco, celebrazione delle gioie del mondo e la i' sono stato in città e 'n castella e mai ne vidi ignuna tanto bella. 2 I' sono stato a Empoli al mercato, a Prato, a Monticelli, a San Casciano, a Colle, a Poggibonzi, e San Donato, a Grieve e quinamonte a Decomano; Fegghine e Castelfranco ho ricercato, San Piero, e 'l Borgo e Mangone e Gagliano: più bel mercato ch'entro 'l mondo sia è Barberin dov'è la Nencia mia. 3 Non vidi mai fanciulla tanto onesta, né tanto saviamente rilevata; non vidi mai la più leggiadra testa, né sì lucente, né sì ben quadrata; con quelle ciglia che pare una festa, “ciglia” sineddoche quand'ella l'alza ched ella me guata; entro quel mezzo è 'l naso tanto bello, che par proprio bucato col succhiello. 4 Le labbra rosse paion de corallo, e havvi drento duo filar' de denti che son più bianchi che que' del cavallo: da ogni lato ve n'ha più de venti. Le gote bianche paion de cristallo, senz'altro liscio, né scorticamenti, rosse entro 'l mezzo, quant'è una rosa, che non se vide mai sì bella cosa. 5 Ell'ha quegli occhi tanto rubacuori, che la trafiggere' con egli un muro; chiunch'ella guata convien che 'nnamori, ma ella ha 'l cuore com'un ciottol duro, e sempre ha drieto un migliaio d'amadori, che da quegli occhi tutti presi furo; la se rivolge e guata questo e quello: i', per guatalla, me struggo el cervello. 6 La m'ha sì concio e 'n modo governato, ch'i' più non posso maneggiar marrone; e hamme drento sì ravviluppato, ch'i' non ho forza de 'nghiottir boccone; i' son com'un graticcio deventato, e solamente per le passïone ch'i' ho per lei nel cuore (eppur sopportole!), la m'ha legato con cento ritortole. 7 Ella potrebbe andare al paragone tra un migghiaio de belle cittadine, che l'apparisce ben tra le persone co' suo begghi atti e dolce paroline; l'ha ghi occhi suoi più neri ch'un carbone di sotto a quelle trecce biondelline, e ricciute le vette de' capegli che vi pare attaccati mill'anegli. 8 Ell'è dirittamente ballerina, che la se lancia com'una capretta, girasi come ruota de mulina, e dassi della man nella scarpetta; quand'ella compie el ballo, ella se 'nchina, po' se rivolge e duo colpi iscambietta, e fa le più leggiadre riverenze che gnuna cittadina da Firenze. 9 La Nencia mia non ha gnun mancamento, l'è bianca e rossa e de bella misura, e ha un buco ento 'l mezzo del mento che rabbellisce tutta sua figura; ell'è ripiena d'ogni sentimento, credo che 'n pruova la fesse natura, tanto leggiadra e tanto appariscente, che la diveglie el cuore a molta gente. 10 Ben se ne potrà chiamare avventurato, chi fie marito de sì bella moglie; ben se potrà tenere in buon dì nato, chi arà quel fioraliso sanza foglie; ben se potrà tener santo e bïato, e fien guarite tutte le sue doglie, aver quel viso e vederselo in braccio, morbido e bianco, che pare un sugnaccio. 11 Se tu sapessi, Nencia, el grande amore ch'i' porto a' tuo begli occhi tralucenti, e la pena ch'i' sento, e 'l gran dolore che par che mi si svèglin tutt'i denti, se tu 'l pensasse, te creperre' el cuore, e lasceresti gli altri tuo serventi, e ameresti solo el tuo Vallera, che se' colei che 'l mie cuor disidèra. 12 Nenciozza, tu me fai pur consumare, e par che tu ne pigli gran piacere; se sanza duol me potessi cavare, me sparere' per darti a divedere ch'i' t'ho 'nto 'l cuore, e fare'tel toccare; tel porre' in mano e fare'tel vedere; se tu 'l tagghiassi con una coltella e' griderrebbe: - Nencia, Nencia mia bella! – 13 Quando te veggo tra una brigata, convien che sempre intorno mi t'aggiri; e quand'i' veggo ch'un altro te guata, par proprio che del petto el cuor me tiri; tu me se' sì 'nto 'l cuore intraversata, ch'i' rovescio ognindì mille sospiri, pien' de singhiozzi, tutti lucciolando, e tutti quanti ritti a te gli mando. 14 Non ho potuto stanotte dormire, mill'anni me parea che fusse giorno, per poter via con le bestie venire, con elle insieme col tuo viso addorno; e pur del letto me convenne uscire, puosimi sotto 'l portico del forno, e livi stetti più d'un'ora e mezzo, finché la luna se ripuose, al rezzo. 15 Quand'i' te vidi uscir della capanna, col cane innanzi e colle pecorelle, e' me ricrebbe el cuor più d'una spanna, e le lagrime vennon pelle pelle; “pelle pelle” geminatio eppoi me caccia' giù con una canna, dirieto a' mie giovenchi e le vitelle, e avvïa'gli innanzi vie quinentro per aspettarti, e tu tornasti dentro. 16 I' me posi a diacer lungo la gora, abbioscio su quell'erba voltoloni, e livi stetti più d'una mezz'ora, tanto che valicorno e tuo castroni. Che fa' tu entro, ché non esci fuora? Vientene su per questi valiconi, ch'i' cacci le mie bestie nelle tua, e parrem uno, e pur saremo dua. L’inizio della Nencia ricalca le formule della tradizione lirica: dama è l’appellativo rivolto dai cavalieri alle nobili fanciulle oggetto del loro amore. La donna amata è descritta come una creatura dotata di una bellezza straordinaria. L’innamorato, seguendo i canoni della tradizione epica, passa ad elencare i luoghi che ha visitato. In questo caso, però, non si tratta di città lontane o territori misteriosi, ma dei più noti luoghi di mercato della Toscana. In nessuno di questi luoghi il pastore Vallera ha trovato una donna tanto onesta e allevata secondo saggi principi (saviamente rilevata) come la sua Nencia. Questa fanciulla ha la La fera sparve via dalle suo ciglia, ma ’l gioven della fera ormai non cura; anzi ristringe al corridor la briglia, e lo raffrena sovra alla verdura. Ivi tutto ripien di maraviglia pur della ninfa mira la figura: parli che dal bel viso e da’ begli occhi una nuova dolcezza al cor gli fiocchi. 39 Qual tigre, a cui dalla pietrosa tana ha tolto il cacciator li suoi car figli; rabbiosa il segue per la selva ircana, che tosto crede insanguinar gli artigli; poi resta d’uno specchio all’ombra vana, all’ombra ch’e suoi nati par somigli; e mentre di tal vista s’innamora la sciocca, el predator la via divora. 40 Tosto Cupido entro a’ begli occhi ascoso, al nervo adatta del suo stral la cocca, poi tira quel col braccio poderoso, tal che raggiugne e l’una e l’altra cocca; la man sinistra con l’oro focoso, la destra poppa colla corda tocca: né pria per l’aer ronzando esce ’l quadrello, che Iulio drento al cor sentito ha quello. 41 Ahi qual divenne! ah come al giovinetto corse il gran foco in tutte le midolle! che tremito gli scosse il cor nel petto! d’un ghiacciato sudor tutto era molle; e fatto ghiotto del suo dolce aspetto, giammai li occhi da li occhi levar puolle; ma tutto preso dal vago splendore, non s’accorge el meschin che quivi è Amore. 42 Non s’accorge ch’Amor lì drento è armato per sol turbar la suo lunga quiete; non s’accorge a che nodo è già legato, non conosce suo piaghe ancor segrete; di piacer, di disir tutto è invescato, e così il cacciator preso è alla rete. Le braccia fra sé loda e ’l viso e ’l crino, e ’n lei discerne un non so che divino. 43 Candida è ella, e candida la vesta, ma pur di rose e fior dipinta e d’erba; lo inanellato crin dall’aurea testa scende in la fronte umilmente superba. Rideli a torno tutta la foresta, e quanto può suo cure disacerba; nell’atto regalmente è mansueta, e pur col ciglio le tempeste acqueta. 44 Folgoron gli occhi d’un dolce sereno, ove sue face tien Cupido ascose; l’aier d’intorno si fa tutto ameno ovunque gira le luce amorose. Di celeste letizia il volto ha pieno, dolce dipinto di ligustri e rose; ogni aura tace al suo parlar divino, e canta ogni augelletto in suo latino. 45 Con lei sen va Onestate umile e piana che d’ogni chiuso cor volge la chiave; con lei va Gentilezza in vista umana, e da lei impara il dolce andar soave. Non può mirarli il viso alma villana, se pria di suo fallir doglia non have; tanti cori Amor piglia fere o ancide, quanto ella o dolce parla o dolce ride. 46 Sembra Talia se in man prende la cetra, sembra Minerva se in man prende l’asta; se l’arco ha in mano, al fianco la faretra, giurar potrai che sia Diana casta. Ira dal volto suo trista s’arretra, e poco, avanti a lei, Superbia basta; ogni dolce virtù l’è in compagnia, Biltà la mostra a dito e Leggiadria. 47 Ell’era assisa sovra la verdura, allegra, e ghirlandetta avea contesta di quanti fior creassi mai natura, de’ quai tutta dipinta era sua vesta. E come prima al gioven puose cura, alquanto paurosa alzò la testa; poi colla bianca man ripreso il lembo, levossi in piè con di fior pieno un grembo. 48 Già s’inviava, per quindi partire, la ninfa sovra l’erba, lenta lenta, lasciando il giovinetto in gran martire, che fuor di lei null’altro omai talenta. Ma non possendo el miser ciò soffrire, con qualche priego d’arrestarla tenta; per che, tutto tremando e tutto ardendo, così umilmente incominciò dicendo: 49 «O qual che tu ti sia, vergin sovrana, o ninfa o dea, ma dea m’assembri certo; se dea, forse se’ tu la mia Diana; se pur mortal, chi tu sia fammi certo, ché tua sembianza è fuor di guisa umana; né so già io qual sia tanto mio merto, qual dal cel grazia, qual sì amica stella, ch’io degno sia veder cosa sì bella». 50 Volta la ninfa al suon delle parole, lampeggiò d’un sì dolce e vago riso, che i monti avre’ fatto ir, restare il sole: ché ben parve s’aprissi un paradiso. Poi formò voce fra perle e viole, tal ch’un marmo per mezzo avre’ diviso; soave, saggia e di dolceza piena, da innamorar non ch’altri una Sirena: Iulio si era allontanato di molto dai suoi compagni di caccia, inseguendo la preda desiderata, la cerva, ma non riesce a guadagnare terreno e sente il suo cavallo senza fiato; eppure, seguendo la sua vana speranza, giunse in un prato verde e pieno di fiori: lì, sotto un velo candido, apparve lieta una ninfa e scomparve la bestia. Iulio fa come la tigre a cui il cacciatore ha sottratto i figli dalla tana scavata nella roccia, e lo insegue rabbiosa nella selva dell'Ircania, credendo di insanguinare presto i suoi artigli; poi resta istupidita dal riflesso di uno specchio, che sembra somigliare ai suoi figli, e mentre la sciocca resta ammaliata da quella visione il cacciatore si allontana a grandi passi. Cupido, nascosto dentro i begli occhi della ninfa, adatta la cocca della sua freccia alla corda dell'arco, poi lo tira col braccio muscoloso, a tal punto che le due estremità dell'arco stanno per toccarsi; tocca la mano sinistra con la punta dorata della freccia, la parte destra del petto con la corda: e la freccia viene scagliata ronzando nell'aria, quasi nello stesso istante in cui Iulio la sente conficcarsi nel suo cuore. “ghiacciato sudor tutto era molle” Poliziano descrive gli effetti della freccia di Cupido. “lunga quiete” come a dire che Iulio non si era mai innamorato prima di allora. La Ninfa sembra la musa Talìa se prende in mano la cetra, sembra Minerva se impugna la lancia: se ha in mano l'arco e al fianco la faretra, potresti giurare che sia la casta Diana, sono tutti riferimenti alla mitologia da parte di Poliziano. La ninfa era seduta sopra l'erba, allegra, e aveva intrecciato una piccola ghirlanda con tutti i fiori creati dalla natura, dei quali la sua veste era dipinta. E non appena rivolse lo sguardo al giovane, alzò la testa un po' impaurita; poi, preso il lembo della veste con la mano bianca, si alzò in piedi col grembo pieno di fiori. Rispose allor Margutte: - A dirtel tosto, Margutte inizia a dissacrare la religione io non credo più al nero ch’a l’azzurro, islamica, dicendo che ama bere molto ma nel cappone, o lesso o vuogli arrosto; vino e mangiare tanto. e credo alcuna volta anco nel burro, nella cervogia, e quando io n’ho, nel mosto, e molto più nell’aspro che il mangurro; ma sopra tutto nel buon vino ho fede, e credo che sia salvo chi gli crede; “credo-crede” paronomasia 116 e credo nella torta e nel tortello: Margutte ora dissacra la trinità l’uno è la madre e l’altro è il suo figliuolo; cristiana. e ’l vero paternostro è il fegatello, e posson esser tre, due ed un solo, e diriva dal fegato almen quello. E perch’io vorrei ber con un ghiacciuolo, “ghiacciuolo” – grande recipiente per se Macometto il mosto vieta e biasima, trasportare il cibo credo che sia il sogno o la fantasima; 117 ed Apollin debbe essere il farnetico, “Apollin” i cristiani lo credevano un e Trivigante forse la tregenda. Dio dei saraceni come “trevigante” in La fede è fatta come fa il solletico: quanto fede pagana. per discrezion mi credo che tu intenda. “tregenda” – convegno di diavoli Or tu potresti dir ch’io fussi eretico: acciò che invan parola non ci spenda, vedrai che la mia schiatta non traligna e ch’io non son terren da porvi vigna. “terren da porvi vigna.” Riferimento alla parabola del buon vignaiolo 118 Questa fede è come l’uom se l’arreca. Vuoi tu veder che fede sia la mia?, Margutte dice di essere nato da una che nato son d’una monaca greca monaca ortodossa e da un papasso e d’un papasso in Bursia, là in Turchia. Islamico. E nel principio sonar la ribeca “ribeca” – strumento musicale a corde mi dilettai, perch’avea fantasia cantar di Troia e d’Ettore e d’Achille, non una volta già, ma mille e mille. “mille e mille” geminatio 119 Poi che m’increbbe il sonar la chitarra, Margutte dice di aver ucciso il padre io cominciai a portar l’arco e ’l turcasso. E di portare come compagni i Un dì ch’io fe’ nella moschea poi sciarra, peccati. e ch’io v’uccisi il mio vecchio papasso, mi posi allato questa scimitarra e cominciai pel mondo andare a spasso; e per compagni ne menai con meco Margutte pecca sia dei peccati greci tutti i peccati o di turco o di greco; che di quelli turchi. 120 anzi quanti ne son giù nello inferno: io n’ho settanta e sette de’ mortali, che non mi lascian mai lo state o ’l verno; pensa quanti io n’ho poi de’ venïali! Non credo, se durassi il mondo etterno, si potessi commetter tanti mali quanti ho commessi io solo alla mia vita; ed ho per alfabeto ogni partita. 121 Non ti rincresca l’ascoltarmi un poco: tu udirai per ordine la trama. Mentre ch’io ho danar, s’io sono a giuoco, rispondo come amico a chiunque chiama; e giuoco d’ogni tempo e in ogni loco, tanto che al tutto e la roba e la fama io m’ho giucato, e’ pel già della barba: guarda se questo pel primo ti garba. 122 Non domandar quel ch’io so far d’un dado, “dado, fiamma e traversin” sono o fiamma o traversin, testa o gattuccia, espressioni del gioco d’azzardo. e lo spuntone, e va’ per parentado, ché tutti siàn d’un pelo e d’una buccia. E forse al camuffar ne incaco o bado o non so far la berta o la bertuccia, o in furba o in calca o in bestrica mi lodo? Io so di questo ogni malizia e frodo. 123 La gola ne vien poi drieto a questa arte. Qui si conviene aver gran discrezione, saper tutti i segreti, a quante carte, del fagian, della stama e del cappone, di tutte le vivande a parte a parte dove si truovi morvido il boccone; e non ti fallirei di ciò parola, come tener si debba unta la gola. Margutte continua ad elencare i suoi peccati e le sue malefatte… 128 Un che ne manchi, è guasta la cucina: non vi potrebbe il Ciel poi rimediare. Quanti segreti insino a domattina ti potrei di questa arte rivelare! Io fui ostiere alcun tempo in Egina, e volli queste cose disputare. Or lasciàn questo, e d’udir non t’incresca un’altra mia virtù cardinalesca. 129 Ciò ch’io ti dico non va insino all’effe: Nell’enumerare la vastità dei suoi pensa quand’io sarò condotto al rue! Peccati Margutte si rifà all’alfabeto Sappi ch’io aro, e non dico da beffe, dicendo che per ora è solo alla F e col cammello e coll’asino e col bue; dice a Morgante “pensa quando arriverò e mille capannucci e mille gueffe al rue” ossia alla R. ho meritato già per questo o piùe; dove il capo non va, metto la coda, e quel che più mi piace è ch’ognun l’oda. 130 Mettimi in ballo, mettimi in convito, ch’io fo il dover co’ piedi e colle mani; io son prosuntüoso, impronto, ardito, non guardo più i parenti che gli strani: della vergogna, io n’ho preso partito, e torno, chi mi caccia, come i cani; e dico ciò ch’io fo per ognun sette, e poi v’aggiungo mille novellette. 131 S’io ho tenute dell’oche in pastura non domandar, ch’io non te lo direi: s’io ti dicessi mille alla ventura, di poche credo ch’io ti fallirei; s’io uso a munister per isciagura, s’elle son cinque, io ne traggo fuor sei: ch’io le fo in modo diventar galante che non vi campa servigial né fante. 132 Or queste son tre virtù cardinale, la gola e ’l culo e ’l dado, ch’io t’ho detto; odi la quarta, ch’è la principale, acciò che ben si sgoccioli il barletto: non vi bisogna uncin né porre scale dove con mano aggiungo, ti prometto; e mitere da papi ho già portate, col segno in testa, e drieto le granate. 133 E trapani e paletti e lime sorde e succhi d’ogni fatta e grimaldelli e scale o vuoi di legno o vuoi di corde, e levane e calcetti di feltrelli che fanno, quand’io vo, ch’ognuno assorde, Né forte braccio, né ardire animoso, Né scudo o maglia, né brando affilato, Né altra possanza può mai far diffesa, Che al fin non sia da Amor battuta e presa. 3 Questa novella è nota a poca gente, Perché Turpino istesso la nascose, Credendo forse a quel conte valente Esser le sue scritture dispettose, Poi che contra ad Amor pur fu perdente Colui che vinse tutte l’altre cose: Dico di Orlando, il cavalliero adatto. Non più parole ormai, veniamo al fatto. 4 La vera istoria di Turpin ragiona Che regnava in la terra de orïente, Di là da l’India, un gran re di corona, Di stato e de ricchezze sì potente E sì gagliardo de la sua persona, Che tutto il mondo stimava nïente: Gradasso nome avea quello amirante, Che ha cor di drago e membra di gigante. 5 E sì come egli avviene a’ gran signori, Che pur quel voglion che non ponno avere, E quanto son difficultà maggiori La desïata cosa ad ottenere, Pongono il regno spesso in grandi errori, Né posson quel che voglion possedere; Così bramava quel pagan gagliardo Sol Durindana e ’l bon destrier Baiardo. 6 Unde per tutto il suo gran tenitoro Fece la gente ne l’arme asembrare, Ché ben sapeva lui che per tesoro Né il brando, né il corsier puote acquistare; Duo mercadanti erano coloro Che vendean le sue merce troppo care: Però destina di passare in Franza Ed acquistarle con sua gran possanza. 7 Cento cinquanta millia cavallieri Elesse di sua gente tutta quanta; Né questi adoperar facea pensieri, Perché lui solo a combatter se avanta Contra al re Carlo ed a tutti guerreri Che son credenti in nostra fede santa; E lui soletto vincere e disfare Quanto il sol vede e quanto cinge il mare. 8 Lassiam costor che a vella se ne vano, Che sentirete poi ben la sua gionta; E ritornamo in Francia a Carlo Mano, Che e soi magni baron provede e conta; Imperò che ogni principe cristiano, Ogni duca e signore a lui se afronta Per una giostra che aveva ordinata Allor di maggio, alla pasqua rosata. Scendendo a Napoli incontriamo Pontano presso la corte aragonese conquistata dagli Aragonesi ai danni degli Angioini nel 1442. È una corte vivace soprattutto quella angioina di metà 300 che segna la produzione napoletana di Boccaccio. Con l’avvento degli aragonesi ritorna nella corte un forte interesse per gli studi e per le lettere, infatti proprio a Napoli verrà fondata l’Accademia Pontaniana, segno della vivacità culturale di Napoli. Masuccio Salernitano lo ricordiamo per un Novellino di 50 novelle prende ispirazione da Boccaccio, ma molto più esasperato, le beffe sono più pungenti, anche per Masuccio vale il discorso utilizzato per il ferrarese, Masuccio tende a utilizzare una lingua che più di guardare alla lingua toscana guarda al napoletano, per elevarlo e renderlo una lingua nobile. Sempre a Napoli Sannazzaro invece sceglie di utilizzare il toscano della tradizione infarcito di latinismi una lingua derivata dall’alta formazione di Sannazzaro andando ad avvalorare quella che di lì a poco sarebbe diventata la tesi di Bembo che sancirà il Toscano come lingua letteraria. Sannazzaro scrive sia in volgare che in latino, in latino dobbiamo ricordare le Egloghe Piscatorie, ma di sicuro la fortuna di Sannazzaro è L’Arcadia un prosimetro che ha per oggetto la vita pastorale abbiamo 12 egloghe e 12 prose che si alternano, Jacopo Sannazaro studiava in accademia e Azio Sincero è il nome accademico di Sannazzaro e anche il nome del protagonista dell’Arcadia. Azio è un pastore dell’Arcadia una regione greca utilizzata molto spesso nella letteratura, la letteratura pastorale si presta bene ad essere ripresa nel momento in cui nel ‘500 la letteratura diventa una letteratura di evasione e non legata a temi sociali, Azio è afflitto dalle pene d’amore e viene a scoprire della morte della amata mentre si trova in Arcadia dove trova altri pastori a cui racconta le sue pene. L'Arcadia è un prosimetro composto da 12 prose intervallate da 12 egloghe. Dal punto di vista della lingua il poeta ha deciso di petrarchizzare fortemente il lessico costituendo così il primo vero modello di una letteratura in prosa e poesia che, toscaneggiando fuori di Toscana, ambisse a collocarsi come 'italiana' in senso totale, superando la grande frammentazione linguistica della cultura quattrocentesca ed aprendo la strada al classicismo rinascimentale. Leggiamo la prima prosa e la prima poesia dell’Arcadia di Sannazzaro. I due più acuti politici del 500 ossia Machiavelli e Guicciardini evidenziano l’inizio di una crisi in Italia che parte dalla fine del ‘400, sottolineano come la morte di Lorenzo sarà piena di conseguenze, la prima sarà la fine dell’equilibrio che il Magnifico aveva ottenuto fra i 5 stati più grandi della penisola ossia: Firenze, Milano, Roma, Napoli e Venezia. La morte di Lorenzo e la conquista di Carlo VIII dell’Italia da avvio alle guerre d’Italia una serie di periodi in cui gli eserciti francesi, spagnoli, tedeschi e svizzeri imperversavano in Italia, stipulando alleanze e depredando dove potevano, basti pensare al sacco di Roma del 1527, fino al trattato di Cateau-Cambrésis del 1559 che sancisce la dominazione spagnola in Italia, in realtà la Spagna prende in maniera diretta Milano e il sud Italia, ma in maniera indiretta prese tutta Italia tramite trattati e accordi, bisognerà aspettare al 1861 per avere l’Italia libera dagli stranieri. Luigi Pulci nel 25° canto del Morgante maggiore presso le colonne d’Ercole un diavolo preannuncia la futura navigazione nell'Oceano e la scoperta di nuove terre nell'altro emisfero, abitate da popoli pagani per i quali non è esclusa la salvezza nonostante non abbiano conosciuto il messaggio cristiano. Il discorso del diavolo è significativo, sia perché ipotizza la scoperta del Nuovo Mondo con circa dieci anni di anticipo, sia in quanto rovescia il principio cristiano che condanna in modo inesorabile tutti coloro che (anche senza colpa) ignorano il Vangelo e gli insegnamenti di Gesù. Questo è un pensiero oggi molto magnanimo, ma all’epoca era blasfemia, superare le colonne d’Ercole ha significato una grande rivoluzione culturale e commerciale, esplorare nuove terre oltre i confini conosciuti significa superare il Non Plus Ultra andando a creare il mito del “buon selvaggio” con la scoperta dei nuovi popoli, se da una parte c’era il desiderio di schiavizzare e uccidere gli indigeni dall’altra abbiamo il mito letterario del “buon selvaggio” che attribuiva ai nativi una serie di virtù che in realtà non esistono. La riforma protestante ha determinato la perdita dell’importanza dell’Italia come centro d’Europa quale sede della chiesa cattolica la quale già da tempo versava in pessime condizioni fra corruzione e ambizione di potere politico. La riforma protestante ha determinato quindi la riforma e la controriforma cattolica. La riforma è stata una reazione che la chiesa ebbe dall’interno, la chiesa diventa consapevole delle condizioni gravi in cui si trovava e decide di rinnovarsi promuovendo azioni caritatevoli, partendo in missione per educare i nuovi popoli scoperti, favorendo la nascita di nuovi ordini e una nuova attenzione alla disciplina ecclesiastica. La controriforma invece è un’azione esterna verso coloro che sono i suoi nemici, i riformatori e gli eretici, in un’epoca in cui si sviluppa il pensiero laico e critico la chiesa procede invece al contrario, applicando la censura e il rigido controllo. Nel ‘500 entriamo nel “rinascimento” dobbiamo fare cautela ad usare questo termine, abbiamo un momento di fioritura di tutte le arti, dobbiamo parlare di “rinascimento” ma considerando anche istanze opposte, un rinascimento che ha difficoltà a procedere ad esempio Machiavelli muore nel 1527, e viene già visto come una specie di spirito malefico: la sua “ragion di stato” individua l’agire politico e i suoi valori, muore Machiavelli e questa ragion di stato deve fare i conti con la chiesa, la politica viene di nuovo attratta nella morale cattolica, come lui anche Giordano Bruno o Galileo Galilei, tutti esponenti di quel pensiero che nasce dal pensiero critico e laico e che ora viene a scontrarsi con la controriforma, è sì “rinascimento” ma con le sue difficoltà. La letteratura in questo contesto diventa sempre più d’evasione, sempre più improntata alla forma e nel ‘500 con l’avvento del regolismo e lo scolasticismo la poesia diventa puro valore formale imbrigliato da determinate regole, quindi quando parliamo di autonomia delle arti parliamo di ben altro, non della forma, ma autonomia del contenuto rispetto ai valori imperanti nell’epoca, nel ‘500, in una società così rigidamente controllata dall’ortodossia questa autonomia si perde a favore di un regolismo esasperato della forma. Quando parliamo di “rinascimento” dobbiamo tenere conto anche del fatto che il tempo di cui ci stiamo occupando non è frutto di una visione univoca ed ufficiale, ma parliamo anche di un mondo subalterno, una cultura parallela a quella ufficiale, quando il mondo subalterno acquisirà una coscienza di classe potrà avere una voce, ma fino ad allora comunque questo mondo esiste e produce una propria letteratura. Per quanto riguarda il Cortigiano come figura, esso è il produttore e fruitore della cultura ufficiale, il cortigiano produttore deve avere un duplice rapporto: con la politica e con il pubblico, dipende perciò molto dalla politica che i signori della corte in cui vive scelgono, infatti molte opere in questo periodo avranno un carattere encomiastico, e un’altra dipendenza la avrà con il pubblico che cerca sempre più evasione dallo squallore della vita di corte, i cortigiani vogliono elevarsi e andare oltre queste visioni, il cortigiano produttore è dentro questa vita squallida di corte seppur spesso nelle opere testimonia delle inquietudini rispetto ai tempi incerti che stanno vivendo e ciò diventa uno specchio dei tempi, le corti infatti erano definite, “misere” da Machiavelli e “inique” da Tasso. Il primo ‘500 è un periodo fortemente caratterizzato dalla volontà di regolare, precisare e definire questi autori: Pietro Bembo, Baldassarre Castiglione e Giovanni della Casa autori delle Prose della Volgar Lingua, Il Cortigiano e Il Galateo ci presentano delle opere che sono fortemente connotate in questo senso, il primo Baldassarre Castiglione (1478-1529): la sua opera più famosa è il Cortigiano, per Baldassarre il cortigiano deve saper fare tutto e deve avere diverse qualità come la pratica dello sport, deve essere un buon conversatore, conoscere l’eloquenza ed essere un uomo a cui non deve mancare l’arguzia. La qualità che mai deve mancare nel cortigiano è la disinvoltura ossia la “sprezzatura”, deve essere sciolto e naturale in tutto ciò che fa. Tutto ciò che sa e conosce è frutto di un faticoso processo di apprendimento, ma deve mantenere la grazia, non mostrare lo sforzo, ma far apparire tutto naturale e disinvolto. Qui possiamo notare che esiste un ideale al quale puntare, lo scopo è di trascendere dalla realtà difficile del ‘500, il buon cortigiano è una raffigurazione altra da sé esattamente come la letteratura che cerca di puntare ad ideali e a far evadere dalla realtà. Ricordiamo inoltre che in un’epoca come questa il genere del trattato è un genere molto in voga. Leggiamo dal Libro del Cortegiano di Baldassarre Castiglione Libro I, capitolo XXV Libro I, capitolo XXVI Giovanni della Casa (1503-1556): anche lui come Castiglione è autore di un trattato riguardante il giusto comportamento che il cortigiano deve avere. Della Casa scriverà infatti il Galateo. Il Galateo è la versione “tascabile” del Cortigiano. Il Galateo era stato pensato per la consultazione immediata in determinate e specifiche circostanze a differenza del Cortigiano che era un vero e proprio trattato. Il contenuto dei due testi è lo stesso. Leggiamo dal Galateo overo de’ costumi di Giovanni della Casa, Capitolo III. Leggiamo dalle Rime di della Casa O sonno, o de la queta, umida, ombrosa “ombrosa notte” enjambement notte placido figlio; o de’ mortali “mortali egri” enjambement “egri” ossia infelici egri, conforto; oblio dolce de’ mali “mail sì gravi” enjambement sì gravi ond’è la vita aspra e noiosa; soccorri al core omai, che langue e posa non have, e queste membra stanche e frali solleva: a me ten vola, o sonno, e l’ali tue brune sovra me distendi e posa. Ov’è ’l silenzio che ’l dì fugge e ’l lume? “dì – lume” Endiadi E i lievi sogni, che con non secure vestigia di seguirti han per costume? Lasso, che ’nvan te chiamo, e queste oscure e gelide ombre invan lusingo. O piume d’asprezza colme! o notti acerbe e dure! il Sonno è mitologicamente definito figlio della Notte (placido figlio). La notte è rappresentata come calma (queta), morbida (umida) e misteriosa (ombrosa). Il sonno è il conforto dei mortali infelici, e il poeta lo invoca dicendo “: vieni in soccorso al cuore ormai che è tormentato e non ha pace.” Dice al sonno “vola verso di me con le tue ali scure, il Sonno nella mitologia è raffigurato come una divinità alata. Dov’è il silenzio che fugge la luce chiara del giorno? Dove sono i sogni impalpabili, vaghi (lievi), che sono abituati ad accompagnarti (di seguirti han per costume) con passi incerti (non secure vestigia)? Povero me! che invano ti chiamo e invano cerco di attirare (lusingo) queste ombre fresche e oscure. Il poeta cerca di lusingare le ombre della notte, apportatrici del bramato riposo, o letto pieno di sofferenza, o notti crudeli e tormentose.” In questi versi, il poeta, triste e stanco, prega inutilmente che il sonno venga a liberarlo dagli affanni e dalle preoccupazioni quotidiane. Il sonetto ha un marcato riferimento alla poesia di Petrarca. Il sonetto selezionato è un testo molto moderno. Il testo risente di motivazioni personali di della Casa, l’autore, ha vissuto gli ultimi anni della sua vita in grave depressione per non aver ricevuto la porpora cardinalizia, questo sonetto quindi si presenta molto particolare rispetto agli altri sonetti del periodo, possiamo ricordare della Casa infatti come l’iniziatore della tecnica dell’enjambement nella lirica italiana. Si ha un enjambement quando il lettore è costretto ad andare a capo e l’unita metrica e l’unità sintattica non coincidono, c’è una sfasatura, l’enjambement accelera la lettura, ma della Casa usa spesso segni di interpunzione che rallentano il ritmo. A proposito della lirica del ‘500 è sì una lirica vicina a Petrarca che spesso anzi lo ricalca fedelmente, ma il discorso sulla lirica resta un discorso complesso, non esistono solo rimandi petrarcheschi, anzi in questo periodo bisogna stare attenti ad indagare il rapporto che si viene a creare fra innovazione e imitazione fra moderno e antico, di sicuro Petrarca non era l’unico modello, c’era anche la tradizione latina, i sentimenti umanistici come l’amore per la natura e i paesaggi, un altro tema è l’amore coniugale, pensando a Pontano notiamo subito una spiccata vivacità nella rappresentazione della natura. Citiamo ora alcuni nomi di poetesse che spiccano in questo periodo, sono tutte autrici di liriche alcune più vicine al modello petrarchesco altre meno: Veronica Franco, Veronica Gambara, Tullia D’Aragona, Chiara Matraini, Isabella Di Morra, Vittoria Colonna e Gaspara Stampa. Di novelle abbiamo già parlato nella seconda metà del ‘400 ad esempio con Giovanni Sercambi, con Gentile Sermini fino a Masuccio Salernitano, citato insieme Sannazaro. Questi sono i nomi di spicco degli autori delle novelle fino al ‘500. Scrivere novelle fino ad ora significava guardare di sicuro al Decameron di Boccaccio, abbiamo parlato di autori che copiano esplicitamente novelle dal Decameron. Abbiamo un modello di riferimento, ma ormai vecchio di 2 secoli rispetto a gli autori che si basano su quel modello, bisognerà dunque far attenzione al rapporto, innovazione/imitazione, troveremo sì l’imitazione al Boccaccio, ma con innovazioni apportate dagli autori ad esempio è il caso di Masuccio Salernitano che ha reso le beffe di Boccaccio più esasperate e pungenti, aggiungendo quindi un motivo di innovazione nel modello. Molto interessante sarà in questo periodo la riscoperta di Seneca, autore che userà toni cupi e macabri, due toni che si sposeranno molto bene con l’epoca, ricordiamo infatti che l’Italia del ‘500 si vive una profonda crisi e inquietudine derivata dalle guerre d’Italia. Seneca è quindi un autore molto sentito proprio perché si sente affinità con i temi cupi e crudi che gli autori del ‘500 vivono in prima persona. Parlando di novella nel primo ‘500 ricordiamo autori come: Matteo Bandello (1485-1561) autore di 214 novelle divise in 4 parti, 3 uscite quando era in vita e una postuma, Bandello, ispirandosi al Boccaccio, sostituisce la cornice boccacciana con una lettera dedicatoria per ognuna delle 4 parti, una lettera che lui dedica ad un personaggio della corte che amava leggere novelle e proprio in virtù del rapporto imitazione/innovazione, oltre all’imitazione di Boccaccio, c’è l’innovazione nella realtà storica all’interno delle novelle, che rappresentano molto bene i tempi che l’autore sta vivendo, la lingua scelta da Bandello non è quella di Boccaccio, Bandello rifiutò i canoni bembeschi preferendo un linguaggio di uso tipicamente cortigiano. Agnolo di Firenzuola, lo ricordiamo come completamente agli antipodi rispetto a Bandello per quanto riguarda la lingua che era tipicamente cinquecentesca, si può dire quasi manieristica, Agnolo compone solo 10 novelle nei Ragionamenti D’amore e lo ricordiamo come autore della traduzione dell’Asino D’oro di Apuleio. Anton Francesco Grazzini (1505-1584) detto il “Lasca” autore delle Cene una raccolta di novelle, in questa raccolta abbiamo uno spaccato della vita borghese, ossia la rappresentazione di personaggi borghesi che si danno aria da nobili. Giambattista Giraldi Cinzio: Autore degli Ecatommiti un’altra raccolta di novelle. Veniamo ora al Poema, quando parliamo di poema pensiamo di sicuro al Furioso di Ariosto, l’Orlando Furioso rappresenta sicuramente un punto di riferimento, ma si può comunque fare lo stesso ragionamento che abbiamo fatto per gli altri generi ossia il rapporto imitazione/innovazione. Di sicuro nel ragionamento possiamo basarci sulla libertà compositiva di questo genere, come già notato con Boiardo, in cui troviamo tantissimi personaggi e storie, è tipico del genere non avere uno schema preciso, ma avere una larga libertà compositiva che è propria del poema cavalleresco che da questo momento in poi chiameremo “romanzo”. Contestualmente avviene una riscoperta della poetica di Aristotele un genere che viene riscoperto in questo periodo di primo ‘500, e la riscoperta della poetica di Aristotele è un fatto molto importante che va nella direzione della codificazione e del regolismo: i diversi generi avranno ora una sempre maggiore codificazione specifica per ogni genere. Nella poetica di Aristotele ci sono dei precetti che vanno in direzione opposta rispetto alla libertà compositiva del romanzo, un precetto importante riguardava l’eroe protagonista, solo uno doveva essere l’eroe, se analizziamo il Furioso noteremo che non rispetta i dettami aristotelici. Giangiorgio Trissino è sicuramente un autore che ha fatto del precettismo aristotelico un dogma ad esempio scrive L’Italia Liberata dai Goti un testo che fa riferimento al classicismo e rimane fedele alla storia tralasciando la materia cavalleresca. Giambattista Giraldi Cinzio scrive Intorno al Comporre dei Romanzi in riferimento al Poema cavalleresco, all’interno di questo testo teorico Cinzio teorizza la possibilità di allargare le maglie del precettismo aristotelico: optando sì per un solo eroe, ma che vive mille avventure e non la singola storia che prevedeva Aristotele. La Madigi di Bernardo Tasso (il padre di Torquato) è un esempio di Poema che segue il consiglio di Cinzio. Per quanto riguarda la tragedia ci troviamo di fronte ad un genere tipicamente cortigiano ed è un genere che si presta bene alla precettistica appena citata. Esistono sì dei precetti, ma si è liberi di aderire alla teoria o seguire una propria ispirazione. Citiamo qui la Sofonisba di Trissino come modello di assoluto rispetto dei precetti aristotelici, dobbiamo ricordare anche l’Antigone di Luigi Alamanni. di Giovanni Rucellai dobbiamo ricordare la Rosmunda e l’Oreste, tutti e tre esponenti della linea aristotelica, gli ultimi due autori non si sono occupati solo di tragedia ma hanno composto anche due poemetti didascalici sulla falsariga delle Georgiche trattasi della Coltivazione di Alamanni e le Api di Rucellai. Trattiamo ora della Commedia e il Teatro, di sicuro la commedia è un genere più borghese rispetto alla tragedia. Per il teatro il ‘500 è di fondamentale importanza, i primi teatri nasceranno in questo periodo, l’uomo del ‘500 ha una mentalità che apprezza molto la teatralità e lo spettacolo, la stessa rappresentazione del cortigiano è una falsa, una recita. Le compagnie teatrali diventano sempre più stabili e le rappresentazioni nella corte si spostano dal cortile alla sala del palazzo, quindi all’interno, per non parlare poi delle scenografie sempre più curate. Il tutto faceva parte del discorso politico, ossia i vari signori attraverso il teatro cercavano di mandare messaggi politici. Per la commedia possiamo fare lo stesso discorso di rapporto fra imitazione e innovazione, di sicuro la commedia si sviluppa secondo il modello latino, ma di sicuro ci sono delle innovazioni, ad esempio alcuni personaggi vengono ripresi e ammodernati oppure vengono creati in questo momento, come Fra Timoteo della Mandragola di Machiavelli figura di frate inconcepibile nella tradizione classica della commedia. Quando parliamo della Commedia del primo 500 possiamo fare riferimento a Pietro Aretino e Angelo Beolco detto “Il Ruzzante” e per entrambi si nota un certo anticlassicismo, infatti entrambi cercano di rappresentare la società cinquecentesca come realmente era e non di falsarla o idealizzarla. Pietro Aretino (1492-1556) era un poligrafo ossia ha scritto un po’ di tutto oltre alle commedie, ha scritto trattati erotici, ha scritto le Pasquinate ossia dei componimenti satirici basati sulla falsariga di vere lamentele dei cittadini romani che scrivevano contro la curia romana in piazza Navona, per queste satire ottenne l’esilio da Roma. Importanti sono le sue 5 commedie: La Cortigiana, Il Marescalco, La Talanta, Lo Ipocrito e Il Filosofo in queste commedie si nota la vena anticlassicista, nelle sue commedie si evidenzia la “satira del pedante” il pedante è sinonimo del cortigiano, che vive negli schemi, ingessato nei suoi precetti. sicuramente un ritratto non idealizzato, ma calato nella realtà. Dall’approccio realistico deriva la considerazione pessimistica che ha degli uomini, che Machiavelli definisce: “ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori, fuggitori de' pericoli, cupidi di guadagno, a tal punto che gli è più agevole dimenticare l’uccisione del proprio padre che la perdita del proprio patrimonio”. Dal pessimismo di Machiavelli deriva la necessità di stato. Nei capitoli centrali del Principe, egli si ritrova a dare dei consigli considerati particolarmente spregiudicati. Lo stato è necessario a garantire la tranquillità della civiltà e delle virtù civiche. Per mantenere lo stato occorre la virtù civica, e poi le leggi, religione e milizie. La religione intesa da Machiavelli è in prospettiva laica, intesa non intimamente, ma come un fatto sociale, atto a garantire alcune virtù. Se un popolo ha una fede in comune collabora al mantenimento dello stato. Machiavelli ebbe parole dure per la chiesa, perché secondo lui non ha fatto abbastanza per il mantenimento dello stato, inoltre per lui il cristianesimo rammollisce in quanto sposta l’attenzione dalla terra al cielo. Tutto concorre allo stato e a garantire la collettività. L’uomo è il cittadino, come essere sociale, come animale politico e quindi egli è giudicato proprio in base al suo grado di socialità e alla forza delle sue virtù civili. Da qui l’insistenza di Machiavelli per la virtù civile. È la virtù che fa il buon uomo di governo. L’uomo è concepito come unico attore della storia, una specie di eroe, in riferimento anche ai grandi uomini politici del passato, questo eroe agisce in determinati contesti e dobbiamo parlare non solo della virtù, ma anche dell’occasione e della fortuna. Occasione è la situazione condizionante. Egli dice che ci si può trovare di fronte all’uomo più virtuoso, ma deve ritrovarsi a dover operare nella situazione storica (Machiavelli farà riferimento a uomini valoroso del passato, questi uomini ricevettero dalla fortuna l'occasione di dimostrare e mettere in pratica la loro virtù, Mosè ad esempio ha ricevuto questa occasione dal fatto che il popolo d'Israele fosse prigioniero in Egitto), l’occasione storicizza l’uomo politico. La fortuna, è cioè quella serie di eventi che sfuggono al volere dell’uomo e della sua previsione e può succedere che anche i progetti meglio preparati possono fallire. Racconta di Borgia che si ammalò e non poté essere presente ad un conclave, e quando riuscì ad ottenere l’elezione del papa che voleva, egli (il papa) morì prematuramente. Egli tuttavia non concede troppo spazio alla fortuna, ma fa una sorta di 50 e 50 tra fortuna e virtù. Per Machiavelli l’uomo è fabbro del proprio destino, destino non individuale in quanto il principe non è mai l’uomo che agisce per sé. La lungimiranza deve far parte delle virtù, perché il principe deve essere in grado di prevedere ciò che può succedere. Egli usa la metafora del fiume che straripa, se si agisce sugli argini del fiume, se si fa in modo che tale piena non possa essere distruttiva, ecco che ho fatto il mio meglio contro la fortuna. Quando non esercito il mio libero arbitrio, la fortuna prende il comando. La duttilità è un’altra virtù che dovrebbe avere il principe, bisogna non essere rigidi. Cauto e impetuoso, l’uomo politico deve sapere usare queste abilità, non deve eccedere. La fortuna resta inattaccabile sul 50%, ma per l’altra metà l’uomo può fare qualcosa. Machiavelli costruisce una vera e propria morale politica, distinta da quella individuale. la morale politica è quella dell’uomo di stato, l’uomo che non agisce per il suo vantaggio ma per lo stato, cioè la collettività. Leggiamo dal Principe di Niccolò Machiavelli Capitolo XXV Quanto possa nelle umane cose, e in che modo se gli possa ostare. Capitolo XXVI Esortazione a liberare la Italia da’ barbari. Le storie fiorentine di Machiavelli sono una raccolta di 8 libri commissionati dallo studio fiorentino dal cardinale Giulio De Medici, nei primi 4 libri tratteggia la storia di Firenze dalla caduta dell’impero romano d’occidente (476 d.c.) al 1434 e negli ultimi 4 libri parlerà dal 1434 al 1492 data di morte di Lorenzo De Medici, pur parlando di storia l’intento di Machiavelli è di validare le sue tesi politiche, nel proemio delle storie fiorentine Machiavelli riproverò Poggio Bracciolini e quelli storici come lui l’essersi concentrati sulle vicende esterne alla storia fiorentina e non all’interno, si vede un atteggiamento ben preciso ossia un carattere prammatico attinge infatti alle fonti, ma non le sottopone alla indagine filologica come aveva già fatto nei Discorsi sopra la prima decade di Tito Livio, ciò che interessa maggiormente il Machiavelli storico infatti è la ricerca di prove nella storia a sostegno delle sue tesi politiche e non la realtà storica imparziale. Il Machiavelli letterato è autore anche di una novella ossia il Demonio in cui narra un tema misogino: una donna può far disperare anche il diavolo, ma di sicuro è famoso per la Mandragola che è un testo importantissimo, essa narra una beffa erotica ai danni di un marito (Messer Nicia) che desideroso di avere un figlio si fa abbindolare da un falso medico (Callimaco) che aveva il desiderio di giacere con la sposa (Lucrezia) e ci riuscirà. Possiamo notare una concentrazione sull’aspetto psicologico dei personaggi che hanno tutti dei caratteri ben definiti e riconoscibili. Interessante nel prologo dell’opera, datata 1518, è notare come l’autore sia particolarmente triste, Machiavelli infatti è turbato dalla sua impossibilità di partecipare all’attività politica, nel prologo evidenzia una mancanza di virtù e una corruzione dilagante. Le opere di letteratura di Machiavelli sono anche quelle storiche, Machiavelli è figlio del rinascimento il suo pensiero è intriso dei pensieri di questo periodo. Machiavelli scrive in maniera letteraria anche quando tratta della politica infatti sceglierà la forma del trattato che è un genere letterario ben definito, ha dei canoni strutturati e Machiavelli li rispetta. La letterarietà in Machiavelli è un presupposto non qualcosa di derivato. Francesco Guicciardini (1483- 1540) nasce a Firenze e si occupa anche lui come Machiavelli di politica. Guicciardini fu governatore di Modena e di Reggio Emilia, nel 1526 fu governatore delle Romagne, ebbe quindi ruoli di rilievo in politica, si pensi ad esempio alla sua partecipazione nella lega di Cognac costituita contro Carlo V re di Spegna a favore di Francesco I re di Francia, ma la lega fu un fallimento. Dopo il sacco di Roma e la caduta dei medici nel 1527 iniziò ad allontanarsi dalla politica per poi ritornare quando sarebbero tornati i Medici, ma i Medici lo allontanarono dalla politica per cui dal 1537 al 1540 si ritirò nella sua villa di Arcetri per scrivere la Storia d’Italia, la sua opera maggiore. Parlare di Guicciardini facendo sempre riferimento a Machiavelli è molto importante. È un rapporto che lo stesso Guicciardini si sentì di fare con Machiavelli, Guicciardini è infatti autore del Considerazioni intorno ai Discorsi del Machiavelli sopra la prima deca di Tito Livio. Ma anche nei Ricordi Politici e Civili si rifà spesso a Machiavelli, e lo fa anche in termini polemici. Ad esempio Guicciardini non condivide di Machiavelli questo costante richiamo agli antichi, e soprattutto il suo sforzo di ritrovare nella storia degli insegnamenti utili a giustificare le sue tesi, abbiamo infatti visto come il Machiavelli storico non si premura di fare una cernita e indagare in modo filologico dai testi a cui attinge, l’importante per lui è trarre l’insegnamento vicino al suo pensiero. Questo significa contrapporre al tentativo di Machiavelli di costruire una scienza politica, il tentativo di Guicciardini di costruire una teoria politica fondata sulla valutazione del singolo caso. Come diceva Guicciardini “il singolo caso visto nelle varietà delle circunstanze, le quali non si possono fermare con una medesima misura” in Guicciardini la qualità fondamentale del politico e dello studioso di politica è il “buono e perspicace occhio in grado di individuare il particolare di ogni specifico evento”. Vediamo in Guicciardini una analisi che mira a individuare con l’occhio perspicace il particolare irripetibile, non risaliamo dal particolare all’universale come in Machiavelli, ma restiamo concentrati sul particolare e su esso costruiamo una teoria dell’analisi, una analisi accurata che in virtù della discrezione insegni su come regolarsi volta per volta, questa visione non è solo una teoria politica, ma anche quasi emozionale, in Guicciardini infatti troviamo l’incapacità di vincere il pessimismo, non ha lo slancio eroico come in Machiavelli, il pessimismo di Guicciardini è sconsolato, Guicciardini non riesce a vedere che egoismo e interesse nell’esercizio dell’uomo, un pessimismo dunque sia intellettuale che sentimentale, perché Guicciardini si esprime in modo tale da farci pensare al pessimismo in politica come quasi si trattasse della vita, Guicciardini ha di fondo la consapevolezza della vanità della vita, nel ricordo 15 dice “Io ho desiderato, come fanno tutti gli uomini, onore e utile; e n'ho conseguito molte volte sopra quello che ho desiderato o sperato; e nondimeno non v'ho mai trovato dentro quella satisfazione che io mi ero immaginato; ragione, chi bene la considerassi, potentissima a tagliare assai delle vane cupidità degli uomini.” Questo senso di insoddisfazione permane anche nei momenti lieti, proprio da questo pessimismo nasce la morale politica di Guicciardini ossia “il Particulare” cioè l’utile e l’interesse proprio, la storia è considerata un intreccio di egoismi, questo particulare di cui parla Guicciardini ha una forte matrice di egoismo, ma del particulare Guicciardini ci parla estesamente correlandolo alla sua ambizione, il particulare potrebbe anche essere associato al conformismo, Guicciardini non ha una buona impressione del clero e della chiesa tutta, ha infatti pensato più volte di lasciare la fede cattolica in favore di quella luterana, ma non lo ha mai fatto in virtù del particulare, del conformismo. La storia di Italia si compone di 20 libri, essi riprendono da dove i libri di Machiavelli si erano fermati. I testi di Machiavelli erano arrivati fino alla morte di Lorenzo De Medici (1494) Guicciardini prosegue dal 1494 fino alla morte di Papa Clemente VII nel 1534. Parla dell’Italia e delle vicende italiane legate all’Europa, vengono qui fuori le qualità dello storico Guicciardini, viene fuori la sua capacità analitica e la capacità di sintesi, analizza si ogni vicenda, ma riesce a sintetizzare dando una idea di insieme degli avvenimenti. Citiamo altre opere di Guicciardini come: Il diario del viaggio in Spagna (1512) La relazione di Spagna (1514), La relazione della difesa della città di Parma (1521) e i due libri del Reggimento di Firenze (1526) A livello linguistico, nei Ricordi vi è sicuramente uno stile rapido, quasi una nervosità nello scrivere. Leggiamo dai Ricordi di Guicciardini I ricordi 28, 30, 44, 134, 159, 160 e 161 Il tempo delle grandi mutazioni (1494- 1559) Ludovico Ariosto (1474-1533) è tra gli scrittori più rappresentativi del ‘500, egli tradusse in forme poetiche il classicismo aulico, tradusse in forme letterarie le tendenze e i gusti della società cortigiana in cui viveva. Carducci definisce la produzione di Ariosto uno “stupito sognare”. Ariosto nasce a Reggio Emilia al tempo controllata da Ferrara, dopo iniziali studi giuridici si dedica a quelli letterari specialmente in ambito latino, non studiò infatti il greco e di questo se ne rammaricò, dalla letteratura latina attingerà ampiamente e del quale sarà un grande conoscitore. Andrà al servizio di Ippolito D’Este, come cortigiano, con tutta l’ambiguità che essere al servizio della corte comporta. Ariosto subirà spesso questa condizione di dipendente, Ariosto infatti se avesse potuto si sarebbe dedicato esclusivamente all’ozio letterario, mal sopportava la carriera cortigiana. Nelle Satire Ariosto si lamenta infatti della sua condizione di dipendente degli Este. Tra i modelli di Ariosto nelle sue liriche latine ci sono Orazio, Catullo, Virgilio e Ovidio, possiamo ravvisare la presenza di elementi di novità nella produzione lirica, ossia la presenza di elementi realistici all’interno della lirica come il contrasto che esiste fra l’ozio letterario e gli impegni quotidiani, una elegia in particolare ci fa notare questo rifiuto per la carriera cortigiana ossia De diversis amoribus nella quale spicca l’esaltazione della mutevolezza della vita, è un motivo molto interessante, è un motivo fondamentale del poema ariostesco, Ariosto esalta la mutevolezza a discapito della rigidità. Dalle liriche latine ci spostiamo alle opere volgari che sono 5 canzoni, 41 sonetti, 12 madrigali, 27 capitoli e 2 egloghe di temi vari, ma con prevalenza di temi amorosi, questi componimenti in volgare sono sicuramente ispirati dal petrarchismo classicheggiante sulla lezione del Bembo, un classicismo stemperato da un caldo erotismo che Ariosto ricava dagli autori latini. Passiamo ora alle commedie, Ariosto non solo è stato autore di commedie, ma anche allestitore di opere teatrali, inizialmente si utilizzavano testi comici latini, in un secondo momento si cominciò ad usare e produrre testi comici in volgare, Ariosto fu il primo a dar vita alla commedia regolare. Ariosto infatti scrive nel 1508 la Cassaria e nel 1509 i Suppositi, entrambe rappresentate durante il carnevale del 1508 e del 1509, entrambe le opere le scrive in prosa, egli compone si delle commedie regolari, ma di sicuro propone come modello le commedie plautine scritte in senario giambico, per la Cassaria e i Suppositi sceglie la prosa per le commedie successive utilizzerà l’endecasillabo sciolto sdrucciolo in modo da avvicinarsi alla struttura del senario giambico. Del modello plautino abbiamo il conflitto fra giovani e vecchi, ma c’è comunque un elemento di novità ossia c’era il modello latino, ma c’era anche la suggestione della novella italiana in riferimento al Decameron di Boccaccio da cui riprende il motivo dell’intraprendenza dei giovani e l’astuzia dei servi, ritroviamo quindi l’unione fra moderno e antico. Per le altre commedie di Ariosto ossia Il Negromante e la Lena oltre a notare che sono scritte non in prosa, ma in endecasillabi sdruccioli notiamo delle trovate comiche diverse, esse sono caratterizzate dalla satira “Altri in amar lo perde, altri in onori, altri in cercar, scorrendo il mar, ricchezze; altri ne le speranze de' signori, altri dietro alle magiche sciocchezze; altri in gemme, altri in opre di pittori, ed altri in altro che più d'altro aprezze.” Ariosto in queste frasi descrive l’uomo e l’intera vita che esso passa nella vana impresa di raggiungere ciò che più desidera per il quale esso diventa pazzo, in una sorta di pazzia generale, lo stesso Aristo accomuna la follia di Orlando alla propria. È prevalente dunque nei miti la labilità universale, ma di questa labilità Ariosto ce ne parla continuamente, la labilità dell’ippogrifo che continua a perdersi nel cielo, la fuga di Angelica, L’anello incantato che rende invisibili, ovviamente anche nella pazzia di Orlando, ma questa labilità è anche in certe morti che sono molto dolorose come la morte di Isabella. Questo senso della labilità ripropone quel rapporto tra virtù e fortuna di cui parlavano Machiavelli e Guicciardini e l’Ariosto riconosce più forza alla fortuna la quale con la sua forza cieca agisce sull’uomo mettendone a repentaglio il senno che come dice Ariosto “Era come un liquor suttile e molle; atto a esalar, se non si tien ben chiuso”. Ariosto come Machiavelli e Guicciardini è figlio del suo tempo, facciamo sì i conti con un’opera poetica e non politica, ma comunque risente dell’influenza degli avvenimenti che anche Machiavelli e Guicciardini vivono. Questo rapporto fra opere letterarie e politiche è sempre stato presente nella letteratura basti pensare all’umanesimo civile il quale produceva molta letteratura impegnata in senso civico, per poi andare sempre più verso il neoplatonismo quindi una letteratura sempre più slegata dai temi civili e disimpegnata, fatta per evadere in mondi antichi e lontani e con questo modo si risponde ai tempi storici difficili, una letteratura che costruiva sopra alla realtà dura dei mondi ideali. Il Furioso è la massima espressione del rinascimento italiano. Ariosto nel momento in cui fa sua una tradizione antica come quella epico/cavalleresca va a sottoporre tutta questa materia ad un estremo affinamento stilistico, infondendo quel senso di ordine ed equilibrio che sono un tutt’uno con i dettami cortigiani ai quali lo stesso Ariosto presta fede. Il lettore ideale del Furioso è il cortigiano descritto da Baldassarre Castiglione colui che è bravo in ogni cosa, e in ogni cosa manifesta grazia ed equilibrio, esso è il cortigiano ideale, un uomo ideale, un uomo al quale si arriva come Bembo arriva alla lingua ossia una lingua depurata e letteraria. Contemporaneamente il Furioso è scritto nella lingua ideale del Bembo le quali idee Ariosto apprezza moltissimo, possiamo parlare del Furioso come un’opera la quale caratteristica maggiore è l’armonia e l’equilibrio, essa non è solo armonia dei contenuti, ma anche armonia di stile, una armonia che non porta mai ad eccessi, si potrebbe pensare che la follia di Orlando sia una esagerazione, ma si deve pensare che Orlando non si scollegherà mai completamente dai rigidi dettami della vita civile, sarà inoltre una pazzia temporanea e non perpetua. Le varie situazioni “eccessive” che si trovano dentro il Furioso vengono attenuate attraverso l’intervento della lingua, ad esempio Zerbino un personaggio che viene trafitto sotto gli occhi della sua amante Isabella, quando viene ferito il suo sanguinare è temperato dalla lingua per non offendere il pubblico di lettori, Ariosto descrive così la scena “Le lucid’ arme il caldo sangue irriga per sino al pie di rubiconda riga” Ariosto offre la possibilità di allontanarsi dalla scena di sangue e mantenersi sempre entro i limiti del buongusto, “Coli talhora un bel purpureo nastro ho veduto partir tela d’argento” paragona lo scorrere del sangue di Zerbino ad un ricamo rosso su una tela d’argento, nel momento in cui il lettore legge una scena crudele quella crudeltà viene attenuata. Stessa cosa accade quando Orlando in preda alla follia decapita un villano, Ariosto scrive: “uno ne piglia, e del capo lo scema con la facilitá che torria alcuno da l’arbor pome, o vago fior dal pruno.” Lui paragona la decapitazione allo staccare dall’albero il frutto o il fiore dal cespuglio. Ariosto esprime quella misura ed eleganza che erano parte essenziale del cortigiano. Un’armonia che si esprime, quasi prevalentemente, in forma di lingua e stile. Chi voglia intendere le ragioni di questo scrivere che non arriva mai a gli eccessi deve leggere il Galateo di Della Casa, quest’ultimo rimprovera Dante di aver fatto dire a Beatrice un termine come “scotto” un termine basso, Dante quindi secondo Della Casa fa parlare Beatrice come un villano, Della Casa suggerisce di eliminare dal parlato di una persona elegante tutte le parole basse o che abbiano un suono sgradevole. Castiglione invece non era del tutto aderente alle tesi del Bembo, in lui troviamo una certa libertà, ma comunque anche Castiglione sostiene che la lingua letteraria deve essere più elevata di quella del parlato, le parole nelle opere teatrali devono essere scelte accuratamente. Ecco che ora comprendiamo bene le scelte stilistiche di Ariosto che sono il frutto della scelta classicistica e aristocratica del ‘500, una lingua e uno stile eleganti e armoniosi. Veniamo ora a quella che è stata definita l’”ironia” di Ariosto, per “ironia” noi intendiamo un distaccamento dalla realtà, l’impostazione classicistica si trasforma in una sorta di distanziamento dalla realtà tutto viene elevato, ma non si arriva mai all’estremo. In realtà non stiamo parlando di ironia, ma ci troviamo di fronte ad una rappresentazione della realtà in senso classicistico ossia quell’atteggiamento che passa per le forme del classicismo è un segno dell’eleganza di Ariosto quale classicista e aristocratico, parlare di ironia nel Furioso sarebbe un’attribuzione anacronistica, volendo attribuire un significato moderno ad un atteggiamento del classicismo cinquecentesco. Veniamo ora ai contenuti del poema. Abbiamo già ricordato come Ariosto abbia alle spalle una lunga tradizione di cantari, ma l’autore più vicino ad Ariosto per questo genere è Boiardo quest’ultimo aveva scritto tre libri, dei quali solo due completi e l’ultimo solamente iniziato concludendo il poema dell’Orlando Innamorato all’ottavo canto del terzo libro. Nel primo verso dell’ottava quinta del Furioso si può riconoscere un omaggio al Boiardo, l’autore dell’Orlando Innamorato non viene mai nominato esplicitamente nel Furioso, ma a Boiardo rimanda l’espressione “innamorato” nel primo verso dell’ottava quinta appunto, anche se all’epoca il romanzo di Boiardo circolò con il nome de “l’innamoramento di Orlando” e non “Orlando Innamorato”, ma comunque possiamo considerare questo termine come un rimando al predecessore. Non da subito Ariosto si allontana da Boiardo, nel leggere il Furioso ci si accorge di un gradualmente allontanamento dall’Innamorato, tutto riprende dalla fuga di Angelica, da quel momento in poi tutto il carosello di battaglie, amori, intrighi e magie riprende, tutto ciò che accade prima della fuga di Angelica noi lo ricaviamo dal Boiardo. Quando Ariosto incomincia il Furioso ci troviamo nel momento in cui Re Carlo signore di Francia affida Angelica, la bellissima principessa del Catai, al duca Namo di Baviera per far concertare i paladini Rinaldo e Orlando sulla guerra contro i Saraceni che hanno invaso l’Europa, il Re inoltre promette ai due che chi di loro si fosse distinto di più in battaglia avrebbe avuto la mano di Angelica. Ma le cose non vanno proprio come sperato, la battaglia viene vinta dai Saraceni e non dai Cristiani, Angelica approfittando della confusione fugge dalla tenda del Duca Namo e da questo preciso momento parte l’invenzione ariostesca anche se durante il racconto ci troveremo al cospetto di personaggi trattati precedentemente da Boiardo. La fuga di Angelica presuppone un inseguimento, inseguimento vuol dire ricerca da parte dei cavalieri, e la ricerca è il tema fondamentale di tanta tradizione dei poemi cavallereschi. Questa ricerca ha la particolarità della sospensione, Ariosto interrompe una ricerca e ne incomincia un’altra e successivamente riprende la ricerca precedente. L’inseguimento dell’oggetto ricercato è il vero motore della macchina narrativa del Furioso. Orlando insegue Angelica, Rinaldo insegue Baiardo il suo cavallo e Angelica, Bradamante insegue Ruggero, Ferrau cerca l’elmo di Orlando, tutti cercano qualcuno o qualcosa. Ma la ricerca non si compie, viene sistematicamente sospesa, questa tecnica viene chiamata “Entrelacement”. Passiamo ora alla Lingua utilizzata nel Furioso basandoci sull’ultima revisione del 1532, quella che poi ha portato all’ultima edizione del 1532 appunto, abbiamo già parlato dell’ammirazione che Ariosto aveva per Bembo del quale scrive “la veggo Pietro Bémbo, che’l puro e dolce idioma nostro leuato fuor del volgare velo tetro quale esser dee ci ha col suo esèpio mostrato”. Ariosto sostiene che Bembo ha rivelato in tutto il suo splendore l’italiano letterario depurandolo da elementi volgari. Le novità stilistiche nell’ultima revisione del Furioso sono tante, sul piano lessicale vengono eliminati vocaboli troppo popolani e alcuni dialettismi, sul piano fonetico vengono eliminati gli incontri fra “n” e “l”, viene introdotta la dittongazione di tipo toscano “buono” anziché “bono” e “lieve” invece di “leve” forme già descritte da Bembo. L’intento era la normalizzazione della lingua che sarà poi la linea guida del petrarchismo cinquecentesco, la lingua del terzo Orlando Furioso sarà una lingua che parla a tutte le corti d’Italia e in grado di superare i limiti di spazio imposti dal municipalismo. Proprio grazie alla sua lingua il Furioso riesce a imporsi non solo nella corte ferrarese, ma abbraccia un orizzonte più largo. Analizziamo ora i tre filoni principali del Furioso che abbiamo già citato: il filone bellico il filone amoroso il filone encomiastico L’argomento bellico inizia con l’invasione della Francia e l’assedio di Parigi da parte del re saraceno Agramante, inizialmente l’esercito saraceno sembra avere la meglio anche grazie a Rodomonte, formidabile guerriero saraceno e al re di Spagna alleato di Agramante. I due paladini più importanti dello schieramento cristiano sono Rinaldo e Orlando che si perdono dietro la bella Angelica permettendo ai saraceni di avanzare. Il ritorno in campo di Rinaldo costringe però i Saraceni alla ritirata e successivamente ad una sconfitta in una battaglia navale, la vicenda si conclude con l’ultimo scontro fra i 3 migliori paladini cristiani Orlando, Brandimarte e Oliviero contro i 3 migliori paladini saraceni: Agramante, Gradasso e Sobrino Il duello si conclude con la morte di Brandimarte ad opera di Gradasso, il quale viene poi ucciso da Orlando, quest’ultimo sconfigge i nemici assicurando la vittoria al Re Carlo Magno. La tematica bellica si intreccia più volte con quella amorosa tanto che le vicende sentimentali influiscono sull’andamento delle battaglie, tutta la vicenda amorosa inizia dall’assedio di Parigi e dalla fuga di Angelica, la quale inseguita da diversi cavalieri si imbatte nel bellissimo Medoro un soldato saraceno ferito, del quale si innamora e con lui ritorna nella sua terra natale: il Catai. Orlando recatosi in un bosco in cui la coppia di Angelica e Medoro aveva inciso i propri nomi sugli alberi, impazzisce alla vista dei loro nomi e alla scoperta che Angelica non sarebbe stata sua, si dà alla devastazione di tutto ciò che incontra, abbiamo già citato la decapitazione da parte di Orlando di un villano. Il Paladino accecato dalla gelosia si reca prima in Spagna per poi attraversare lo stretto di Gibilterra a nuoto, nel frattempo il cavaliere Astolfo dopo aver domato l’Ippogrifo, una creatura incrocio tra un cavallo ed un grifone, con testa, ali e zampe anteriori di aquila, ed il resto del corpo da cavallo, si reca sulla Luna dove in una ampolla ritrova il senno di Orlando che dopo aver odorato l’ampolla ritorna in se e riprende a combattere contro i saraceni. Ma ci sono anche altri amori come quello di Isabella (principessa mussulmana) e Zerbino (cavaliere cristiano) oppure quella di Brandimarte e Fiordiligi. Del filone encomiastico fa invece parte la storia fra Ruggero (guerriero saraceno) e Bradamante (sorella di Rinaldo e quindi cristiana) i due che si amano, ma devono costantemente dividersi a causa di tutta una serie di battaglie, sono presentati come i capostipiti della famiglia d’Este, inoltre Ruggiero discenderebbe dalla stirpe troiana del grande Ettore. Ma la storia d’amore fra i due viene contrastata dal mago Atlante il quale rapisce e imprigiona Ruggero nel suo castello incantato dal quale sarà liberato da Bradamante, ma l’ippogrifo rapisce Ruggero per condurlo sull'isola di Alcina. Incontra Astolfo sull'isola di Alcina, che lo mette in guardia contro la maga. Ciononostante, Ruggero sta per innamorarsi della maga Alcina quando riceve l'anello fatato che Bradamante gli ha mandato e riesce a sfuggire ad Alcina, fuggendo dall'isola con Astolfo. Ruggero e Bradamante si recano a Vallombrosa per la conversione di Ruggiero e per potersi sposare, ma la guerra riprende e le nozze devono essere rimandate, alla conclusione delle ostilità Ruggero scopre che Bradamante è stata promessa a Leone figlio di Costantino re dell’impero romano d’oriente, ma dopo un duello fra Bradamante (sotto mentite spoglie) e Ruggero, Leone rinuncia a lei cosicché finalmente si possa celebrare il matrimonio. È importante segnalare altri testi, oltre all’Innamorato, che hanno preceduto il Furioso citiamo per esempio l’Innamoramento di Carlo, l’Innamoramento di Filone e Berta e l’Innamoramento di Rinaldo di fine ‘400 e infine l’innamoramento di Guidon Selvaggio del 1516. Faceva la comparsa nel 1505, con autore il veneziano Niccolò degli Agostini, una continuazione dell’Innamorato come una specie di quarto libro del Boiardo. Un’ulteriore continuazione che si riallacciava al libro di Agostini apparve nel 1514 con il titolo: Quinto e fine di tutti li libri de Lo Innamoramento de Orlando ad opera di Raffaele da Verona. Nel 1520 Agostini pubblicava Ultimo e fine de tutti i libri dell’Orlando Innamorato. Dopo il Boiardo come vediamo ci sono stati diverse riprese del tema dell’Innamorato. A differenza però di tutte queste continuazioni che come il Furioso si riallacciano all’Innamorato, quella dell’Ariosto costituisce un’opera completamente autonoma, una prima edizione esce nel 1516, la seconda edizione è del 1521 come la precedente di 40 canti e la terza e definitiva di 46 canti è del 1532, tra il 21 e il 31 il Furioso vede una fittissima ristampa e nel giro quegli anni l’autore si propone di ampliare la vicenda trattata, ma soprattutto di sottoporre il suo scritto ad una attenta revisione della lingua più attenta ai dettami del Bembo e che potesse essere apprezzata in tutta Italia. Nell’edizioni del 16 e del 21 notiamo infatti come il Furioso sia ancora un’opera fortemente “padana” e legata alla tradizione Ferrarese a carattere municipale, al contrario l’ultima si riconduce alla piena realizzazione del classicismo volgare con tutta una serie di collegamenti anche ad avvenimenti Italiani ed Europei e non più solo gli avvenimenti circoscritti nella municipalità di Ferrara. potere signorile e il rapporto di dipendenza fra cortigiano e signore, si evidenzia così il culto della forza, del valore militare, il senso del prestigio, della superiorità nobiliare, tutto afferisce al valore epico, ed epico/encomiastico dal momento in cui ci sono dei riferimenti evidenti alla famiglia regnante e alla vita di corte. Al centro di questo sistema di valori ci sono i valori della fedeltà, dell’onore, della gratitudine, di cui danno prova tutti i personaggi positivi, ma Ariosto da voce anche al lato negativo dell’eroico, con molte figure di figure saraceni come per esempio Rodomonte, Ariosto segue le vicende di Rodomonte che sono vicende distruttive, rivolte ai danni dei cristiani, riferisce del suo intervento nelle nozze di Ruggero e Bradamante, riferisce della forza oscura che da Rodomonte deriva. Abbiamo quindi l’epico che si descrive in maniera positiva e negativa e poi abbiamo il romanzesco che deriva da una forza interna che quasi si oppone all’epico, per cui il Furioso non può essere solo il poema della celebrazione della casa d’Este, o la rappresentazione delle peripezie di Carlo Magno che condurranno al matrimonio fra Ruggero e Bradamante, perché il cammino verso questi esiti è alterato da tante deviazioni che fanno capo a due movimenti portanti e tipici del romanzo cavalleresco: la forma del movimento dell’inchiesta e la forma del movimento della ventura. L’inchiesta nel genere cavalleresco era rivolta alla ricerca del valore, ma in Ariosto questa inchiesta si frantuma e si personalizza e si rivolge ad oggetti inconsistenti o evanescenti come se l’inchiesta si volgesse quasi verso il romanzesco e come nei romanzi cavallereschi l’inchiesta viene sospesa o addirittura dimenticata, per l’emergere di una nuova avventura, quindi per l’intervenire di altri eventi. Angelica è sicuramente un personaggio primario per questo meccanismo della ricerca, perché lei è l’oggetto del desiderio per eccellenza, ed è proprio per le diverse attese ed avventure che Angelica si innamorerà di Medoro e scatenerà la follia di Orlando, dal momento in cui Angelica fuggirà in oriente scomparirà dal poema lasciando un vuoto. Ricerca e Ventura che abbiamo detto essere elementi romanzeschi, quindi più da ciclo arturiano che da Chanson de Geste, sono sostenuti e prolungati dal continuo emergere del meraviglioso, ad esempio l’anello di Angelica, l’Ippogrifo, il castello di Atlante e le varie maghe ed è proprio al meraviglioso che si riconduce la singolarità dello spazio e del tempo, spazio e tempo non si chiudono entro le prospettive epiche dell’assedio, del viaggio verso una meta definita, come sarebbe nella prospettiva epica, ma romanzescamente queste dimensioni si dilatano, torniamo a parlare di spinta centripeta e centrifuga riferita allo spazio: spinta centripeta verso il centro epico delle vicende, ossia Parigi e spinta centrifuga che porta lontano da Parigi, verso i luoghi più distanti e fantastici. Così anche il tempo appare diverso, il tempo si misura diversamente in storie diverse, il tempo e lo spazio sono quindi romanzescamente intesi. Leggiamo dall’Orlando furioso di Ariosto i canti I, II, XXIII (solo i versi da 100 a 136), XXIV (1-14). Passiamo ora alla lettura del primo canto del Furioso. Orlando Furioso, Canto I Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, le cortesie, l’audaci imprese io canto, che furo al tempo che passaro i Mori d’Africa il mare, e in Francia nocquer tanto, seguendo l’ire e i giovenil furori d’Agramante lor re, che si diè vanto di vendicar la morte di Troiano sopra re Carlo imperator romano. Ariosto nell’esordio ci dice di che cosa si parlerà, ci parlerà di donne, di cavalieri, di cortesie e di grandi imprese, sono qui indicati 2 dei 3 temi principali ossia quello delle armi con riferimento al ciclo della chanson de geste e quello romantico arturiano. Di questi sei termini, “i cavalieri”, “l’arme”, “le audaci imprese”, si rifanno al genere epico e gli “amori”, “Le donne” e le cortesie si rifanno al genere romanzesco. “che furo al tempo che passaro i Mori…” tutto questo avvenne quando i saraceni arrivarono in Francia portando la guerra, seguendo i giovanili furori di Agramante che volle vendicare la morte di Troiano ucciso da Orlando ai comandi di Carlo Magno, l’informazione del desiderio di vendetta noi la ricaviamo da Boiardo il quale ne aveva già parlato nell’Innamorato. Dirò d’Orlando in un medesmo tratto cosa non detta in prosa mai né in rima: che per amor venne in furore e matto, d’uom che sí saggio era stimato prima; se da colei che tal quasi m’ha fatto, che ’l poco ingegno ad or ad or mi lima, me ne sará però tanto concesso, che mi basti a finir quanto ho promesso. Ariosto dirà di Orlando, cosa non detta mai né in prosa né in rima, quindi qualcosa che non ha precedenti, Orlando che per amore impazzì da uomo saggio che era prima, Ariosto lo farà se non impazzerà lui a sua volta, se appunto non impazzirà per la sua donna come Orlando. Orlando è figlio di Milone e governatore della Marca di Bretagna, nella storia cade a Roncisvalle, nell’epopea francese è il più valoroso dei paladini di Carlo Magno ed è un guerriero che si distingue per severità e castità, già nell’Innamorato si avvicina però alla figura di cavaliere errante, suscettibile alla bellezza femminile, ma non arriva per questo alla follia, prerogativa del Furioso, nella parola “cosa” nel secondo verso della seconda ottava Ariosto si riferisce proprio alla follia, con “cosa non detta in prosa mai né in rima” si riferisce proprio alla follia. “se da colei…” Ariosto si riferisce ad Alessandra Benucci donna amata da Ariosto vedova di Tito Strozzi che Ariosto sposò segretamente nella seconda metà del ‘500. Piacciavi, generosa Erculea prole, ornamento e splendor del secol nostro, Ippolito, aggradir questo che vuole e darvi sol può l’umil servo vostro. Quel ch’io vi debbo, posso di parole pagare in parte e d’opera d’inchiostro; né che poco io vi dia da imputar sono, che quanto io posso dar, tutto vi dono. Questa è l’ottava encomiastica rivolta ad Ippolito d’Este per il quale Ariosto era al servizio quando pubblicò la prima edizione dell’opera. Ariosto dice vi piaccia nobile prole, ornamento e splendore del secolo nostro, gradire questo poema che il vostro servo può fare. Quello che vi devo in termini di gratitudine ve lo posso dare attraverso la mia opera, né posso essere rimproverato che vi do poco, tutto quello che posso donarvi io vi donerò. Voi sentirete fra i piú degni eroi, che nominar con laude m’apparecchio, ricordar quel Ruggier, che fu di voi e de’ vostri avi illustri il ceppo vecchio. L’alto valore e’ chiari gesti suoi vi farò udir, se voi mi date orecchio, e vostri alti pensier cedino un poco, sí che tra lor miei versi abbiano loco. Sempre rivolgendosi ad Ippolito dice: Sentirete, tra gli eroi che mi appresto a lodare, il nome di Ruggiero che fu tra i vostri avi, il suo alto valore e le sue gesta vi farò udire se vorrete ascoltarvi, e spero di riuscire a raccontarvi queste vicende se la mia narrazione troverà luogo fra i vostri “altri pensieri” in riferimento alle preoccupazioni politiche ed economiche. Ruggiero è figlio di Ruggiero II di Risa, personaggio già molto importante in Boiardo e presentato nell’Innamorato come capostipite degli estensi. Orlando, che gran tempo inamorato fu de la bella Angelica, e per lei in India, in Media, in Tartaria lasciato avea infiniti et immortal trofei, in Ponente con essa era tornato, dove sotto i gran monti Pirenei con la gente di Francia e de Lamagna re Carlo era attendato alla campagna, Ecco che qui possiamo trovare forse un riferimento al Boiardo con la prima e l’ultima parola del primo verso della quinta stanza. Ariosto riassume qui quanto già avvenuto nell’Innamorato: Orlando è appena tornato dall’oriente con Angelica, raggiunge il Re Carlo accampato sui monti Pirenei, in realtà l’azione del Furioso ha inizio laddove l’Innamorato si interrompe anche se va notato che Boiardo si era interrotto con la sconfitta dei Francesi a Parigi mentre Ariosto fa un passo indietro, iniziando a narrare dall’arrivo di Orlando sui Pirenei. Riprende quindi la vicenda un po’ prima rispetto a quanto si era interrotta con Boiardo. Angelica è figlia del re del Catai, è una donna molto bella e sfuggente, già nell’Innamorato aveva fatto invaghire di sé già Orlando e Rinaldo. Re Marsilio è il re di Spagna alleato di Agramante. Facciamo un piccolo riassunto delle vicende del primo canto. Orlando perde Angelica questa volta non in terra nemica, ma tra la sua gente per volere di Carlo Magno che la sottrae dalla vista di Orlando e Rinaldo e la affida al Duca Namo per far meglio concentrare i due paladini sulla guerra contro i saraceni, ma durante una battaglia in cui i Cristiani hanno la peggio Angelica fugge dal duca Namo. Angelica ora sta scappando da Orlando e da Rinaldo. Angelica mentre scappa incontra Rinaldo, Rinaldo era alla ricerca di Baiardo il suo cavallo scappato dal campo di battaglia, ricordiamo che successivamente verrà detto che Angelica ha bevuto alla fontana dell’odio mentre Rinaldo a quella dell’amore, per questo Angelica detesta così tanto Rinaldo dal quale cerca di fuggire appena lo incontra sul suo cammino. Angelica incontra Ferrau in una fonte, ma Rinaldo giunge sul luogo e inizia una sfida fra Rinaldo e Ferrau. Il duello fra questi due cavalieri termina per l’intervento di Rinaldo che invita Ferrau a cessare di combattere per inseguire Angelica che approfittando dello scontro riesce a fuggire di nuovo. Ferrau e Rinaldo di mettono alla ricerca di Angelica e giungono ad un bivio, non sapendo quale strada prendere i due cavalieri si dividono, dal punto di vista narrativo questa divisione comporta l’inizio di due storie quella di Ferrau che ha preso una strada e quella di Rinaldo che ne ha presa un’altra. Ferrau giunto al bivio compie un giro che lo fa arrivare al punto di partenza, nel luogo in cui si era consumato lo scontro con Rinaldo. Presso il fiume Ferrau incontra lo spirito di Argalia, fratello di Angelica ucciso da Ferrau, in quella circostanza prima che Argalia morisse chiese a Ferrau di lasciare il suo corpo nel fiume insieme alla sua armatura, Ferrau chiese però in prestito l’elmo di Argalia con la promessa di restituirlo entro qualche giorno. Il fiume è quindi una sorta di tomba di Argalia, lo stesso fiume in cui precedentemente Ferrau si era recato per dissetarsi durante una battaglia, bevendo l’elmo gli cadde in acqua restituendolo casualmente così ad Argalia. Ora quando i due si incontrano di nuovo lo spirito di Argalia rimprovera Ferrau di non aver mantenuto la promessa, perché solo casualmente l’elmo era tornato nel fiume e non per volontà di Ferrau. Tra il colloquio tra i due Ferrau decide di mettersi alla ricerca di Orlando per prendergli l’elmo con più onore e non rubarlo. Rinaldo prendendo l’altra strada ritrova Baiardo che però fugge di nuovo e Rinaldo continua a cercarlo. Angelica nel frattempo durante la fuga si imbatte in Sacripante un altro suo spasimante, Angelica vuole approfittare della protezione del l’angelico sembiante e quel bel volto ch’all’amorose reti il tenea involto. Rinaldo è il figlio di Amone fratello di Milone padre di Orlando, è già presente nei cantari italiani ma diventa un personaggio di spicco in Boiardo e Ariosto. Baiardo era un cavallo famoso nella tradizione ripreso prima da Boiardo e poi di Ariosto. Appena Rinaldo drizza lo sguardo riconosce Angelica anche da lontano che lui amava tanto. La donna il palafreno a dietro volta, e per la selva a tutta briglia il caccia; né per la rara piú che per la folta, la piú sicura e miglior via procaccia: ma pallida, tremando, e di sé tolta, lascia cura al destrier che la via faccia. Di su di giú, ne l’alta selva fiera tanto girò, che venne a una riviera. Angelica tira indietro il cavallo, cambia direzione, e lo lancia a tutta velocità nel bosco, senza scegliere una direzione precisa, ma si affida completamente al cavallo “di su, di giù” ci rimanda al canto quinto dell’inferno di Dante. Angelica fugge e si ritrova in una riviera. Su la riviera Ferraú trovosse di sudor pieno e tutto polveroso. Da la battaglia dianzi lo rimosse un gran disio di bere e di riposo; e poi, mal grado suo, quivi fermosse, perché, de l’acqua ingordo e frettoloso, l’elmo nel fiume si lasciò cadere, né l’avea potuto anco riavere. Ferrau era il nipote di Marsilio re di Spagna, dal Boiardo apprendiamo che accecato dalla passione amorosa per Angelica ne ferisce a morte il fratello Argalia. In questo fiume dove giunge Ferrau lascia cadere il suo elmo mentre beveva voracemente l’acqua per riposarsi dalla battaglia. Quanto potea piú forte, ne veniva gridando la donzella ispaventata. A quella voce salta in su la riva il Saracino, e nel viso la guata; e la conosce subito ch’arriva, ben che di timor pallida e turbata, e sien piú di che non n’udí novella, che senza dubbio ell’è Angelica bella. Gridando quanto poteva andava gridando Angelica, mentre Ferrau è chino mentre cerca l’elmo nell’acqua sente il grido Angelica, si alza, la vede, la riconosce e si accorge che è Angelica molto turbata. E perché era cortese, e n’avea forse non men dei dui cugini il petto caldo, l’aiuto che potea tutto le porse, pur come avesse l’elmo, ardito e baldo: trasse la spada, e minacciando corse dove poco di lui temea Rinaldo. Piú volte s’eran giá non pur veduti, ma ’l paragon de l’arme conosciuti. E siccome era cortese, (la cortesia poteva essere presente in ogni cavaliere di ogni schieramento) non meno di Rinaldo e Orlando i due cugini, cerca in tutti i modi di aiutare Angelica e sguaina la spada correndo verso Rinaldo che poco temeva Ferrau, infatti non solo si erano già visti varie volte, ma non avevano anche combattuto l’uno contro l’altro. Cominciâr quivi una crudel battaglia, come a piè si trovâr, coi brandi ignudi: non che le piastre e la minuta maglia, ma ai colpi lor non reggerian gl’incudi. Or, mentre l’un con l’altro si travaglia, bisogna al palafren che ’l passo studi; che quanto può menar de le calcagna, colei lo caccia al bosco e alla campagna. Cominciò quindi una battaglia violenta, a piedi entrambi, con le spade sguainate, i colpi erano così feroci che non solo non erano rette dall’armatura ma erano così potenti che nemmeno gli scudi reggevano a quei colpi, in quel momento Angelica pensa bene di fuggire. Poi che s’affaticâr gran pezzo invano i duo guerrier per por l’un l’altro sotto, quando non meno era con l’arme in mano questo di quel, né quel di questo dotto; fu primiero il signor di Montalbano, ch’al cavallier di Spagna fece motto, sí come quel c’ha nel cor tanto fuoco, che tutto n’arde e non ritrova loco. Dopo che per molto tempo, ma invano, i due guerrieri cercavano di sottomettere l’avversario, con le armi in mano, visto che erano abili entrambi nessuno dei due era più forte dell’avversario, per primo Rinaldo che parlò appassionatamente a Ferraù dicendo: Disse al pagan: — Me sol creduto avrai, e pur avrai te meco ancora offeso: se questo avvien perché i fulgenti rai del nuovo sol t’abbino il petto acceso, di farmi qui tardar che guadagno hai? che quando ancor tu m’abbi morto o preso, non però tua la bella donna fia, che, mentre noi tardian, se ne va via. Avrai creduto di aver offeso solo me, ma invece avrai offeso anche te, dal momento che siamo innamorati entrambi qui stiamo solo perdendo tempo, se tutto ciò sta accadendo perché sei innamorato di Angelica, se tardiamo entrambi che guadagno avrai? Anche se mi uccidessi non avresti comunque qui Angelica con te, che mentre noi tardiamo lei va via. Quanto fia meglio, amandola tu ancora, che tu le venga a traversar la strada, a ritenerla e farle far dimora, prima che piú lontana se ne vada! Come l’avremo in potestate, allora di ch’esser de’ si provi con la spada: non so altrimenti, dopo un lungo affanno, che possa riuscirci altro che danno. — Conviene correre insieme per prenderla, quando l’avremo presa allora si deciderà con la spada chi ne sarà il vincitore, se continuiamo invece a lottare ci farà solo danno. Al pagan la proposta non dispiacque: cosí fu differita la tenzone; e tal tregua tra lor subito nacque, sí l’odio e l’ira va in oblivïone, che ’l pagano al partir da le fresche acque non lasciò a piedi il buon figliol d’Amone: con preghi invita, et al fin toglie in groppa, e per l’orme d’Angelica galoppa. A Ferrau la proposta non dispiace e si preferisce posticipare il duello. Tra di loro nacque subito una sincera tregua tanto che Ferrau non lascia a piedi Rinaldo che aveva perso il cavallo, ma lo invita sul suo destriero per mettersi sulle tracce di Angelica. Oh gran bontá de’ cavallieri antiqui! Eran rivali, eran di fé diversi, e si sentian degli aspri colpi iniqui per tutta la persona anco dolersi; e pur per selve oscure e calli obliqui insieme van senza sospetto aversi. Da quattro sproni il destrier punto arriva ove una strada in due si dipartiva. Troviamo qui un’altra fase che ci fa capire il pensiero di Ariosto che loda la virtù dei cavalieri antichi. Erano rivali e di fede diversa e nel corpo sentivano ancora i colpi che avevano scagliato l’uno contro l’altro, ma ora sono alleati e vanno per il bosco senza essere sospettosi l’uno dell’altro, fino a giungere ad un bivio. E come quei che non sapean se l’una o l’altra via facesse la donzella (però che senza differenzia alcuna apparia in amendue l’orma novella), si messero ad arbitrio di fortuna, Rinaldo a questa, il Saracino a quella. Pel bosco Ferraú molto s’avvolse, e ritrovossi al fine onde si tolse. Giunti al bivio non sapendo dove andare i due di divisero in quanto entrambe le strade presentavano tracce recenti, si affidarono al caso. Ferrau andò per il bosco, ma girò in tondo e si ritrovò per la riviera. Pur si ritrova ancor su la riviera, lá dove l’elmo gli cascò ne l’onde. Poi che la donna ritrovar non spera, per aver l’elmo che ’l fiume gli asconde, in quella parte onde caduto gli era discende ne l’estreme umide sponde: ma quello era sí fitto ne la sabbia, che molto avrá da far prima che l’abbia. Il mover de le frondi e di verzure, che di cerri sentia, d’olmi e di faggi, fatto le avea con subite paure trovar di qua di lá strani vïaggi; ch’ad ogni ombra veduta o in monte o in valle, temea Rinaldo aver sempre alle spalle. Il muovere della vegetazione che Angelica sentiva le faceva provare paura mentre si lanciava di corsa fuggendo nel bosco, ogni ombra che Angelica vede la fa impaurire e teme si tratti di Rinaldo. Qual pargoletta o damma o capriuola, che tra le fronde del natio boschetto alla madre veduta abbia la gola stringer dal pardo, o aprirle ’l fianco o ’l petto, di selva in selva dal crudel s’invola, e di paura triema e di sospetto: ad ogni sterpo che passando tocca, esser si crede all’empia fera in bocca. Angelica viene paragonata a un cucciolo di daino o capriolo che ha visto uccidere la madre uccisa da un predatore, fugge velocemente e in maniera disordinata, ma ha sempre paura di trovarsi davanti il predatore che ha ucciso la madre. Quel dí e la notte e mezzo l’altro giorno s’andò aggirando, e non sapeva dove. Trovossi al fine in un boschetto adorno, che lievemente la fresca aura muove. Duo chiari rivi, mormorando intorno, sempre l’erbe vi fan tenere e nuove; e rendea ad ascoltar dolce concento, rotto tra picciol sassi, il correr lento. Angelica si ritrova in un boschetto con due ruscelli. Qui possiamo notare l’amore sviluppato nel ‘400 e nel ‘500 per il paesaggio slegato dall’intervento divino, ma bello in se stesso, una bellezza laica e non per forza frutto di un progetto divino. Quivi parendo a lei d’esser sicura e lontana a Rinaldo mille miglia, da la via stanca e da l’estiva arsura, di riposare alquanto si consiglia: tra’ fiori smonta, e lascia alla pastura andare il palafren senza la briglia; e quel va errando intorno alle chiare onde, che di fresca erba avean piene le sponde. In questo luogo Angelica decide di riposarsi convinta di essere molto lontana da Rinaldo. Ecco non lungi un bel cespuglio vede di prun fioriti e di vermiglie rose, che de le liquide onde al specchio siede, chiuso dal sol fra balte quercie ombrose: cosí vòto nel mezzo, che concede fresca stanza fra l’ombre piú nascose: e la foglia coi rami in modo è mista, che ’l sol non v’entra, non che minor vista. Vede un cespuglio che si specchia nell’acqua, riparato del sole fra le alte querce, il fogliamo di questo cespuglio è così fitto che non ci entra né il sole né la vista umana, quindi un cespuglio cavo all’interno utile per proteggere Angelica. Dentro letto vi fan tenere erbette, ch’invitano a posar chi s’appresenta. La bella donna in mezzo a quel si mette, ivi si corca et ivi s’addormenta. Ma non per lungo spazio cosí stette, che un calpestio le par che venir senta: cheta si leva, e appresso alla riviera vede ch’armato un cavallier giunt’era. Giunge però un cavaliere, Angelica lo spia dal cespuglio. Se gli è amico o nemico non comprende: tema e speranza il dubbio cuor le scuote: e di quella aventura il fine attende, né pur d’un sol sospir l’aria percuote. Il cavalliero in riva al fiume scende sopra l’un braccio a riposar le gote: e in un suo gran pensier tanto penètra. che par cangiato in insensibil pietra. Angelica non sa se questo cavaliere gli è amico o nemico, attende quindi per capire la situazione, rimane in silenzio mentre il cavaliere si siede sulla riva, si siede e si regge il viso sul palmo della mano. Pensoso piú d’un’ora a capo basso stette, Signore, il cavallier dolente; poi cominciò con suono afflitto e lasso a lamentarsi sí soavemente, ch’avrebbe di pietá spezzato un sasso, una tigre crudel fatta clemente. Sospirando piangea, tal ch’un ruscello parean le guancie, e ’l petto un Mongibello. Con “Signore” Ariosto si riferisce al Cardinale Ippolito riprendendo una tradizione già spesso usata dai cantari per richiamare l’attenzione degli uditori. Il cavaliere visto nel boschetto da Angelica è molto triste e desolato “petto un Mongibello” il Mongibello è un vulcano, quindi ha nel cuore un vulcano, è perciò innamorato. — Pensier (dicea) che’l cor m’aggiacci et ardi, e causi il duol che sempre il rode e lima, che debbo far, poi ch’io son giunto tardi, e ch’altri a còrre il frutto è andato prima? a pena avuto io n’ho parole e sguardi, et altri n’ha tutta la spoglia opima. Se non ne tocca a me frutto né fiore, perché affliger per lei mi vuo’ piú il core? Il cavaliere che parla è Sacripante, Sacripante parla di Angelica che per lei prova un profondo amore e si dispera perché teme che qualcuno l’abbia già posseduta e che Angelica non è più vergine. A stento Sacripante dice di aver avuto qualche sguardo da Angelica, si chiede “dal momento che qualcuno ha già posseduto Angelica perché per lei, tu pensiero, mi vuoi ancora affliggere il cuore?” La verginella è simile alla rosa, ch’in bel giardin su la nativa spina mentre sola e sicura si riposa, né gregge né pastor se le avicina; l’aura soave e l’alba rugiadosa, l’acqua, la terra al suo favor s’inchina: gioveni vaghi e donne inamorate amano averne e seni e tempie ornate. La giovane vergine è simile alla rosa, che mentre riposa sola e sicura nel bel giardino, sullo stelo su cui è nata, non è avvicinata né da gregge né da pastore; l'aria dolce e l'alba che porta rugiada, l'acqua, la terra si chinano a renderle omaggio: bei giovani e donne innamorate vogliono sempre ornare con essa i seni e le tempie. Ma non sì tosto dal materno stelo rimossa viene e dal suo ceppo verde, che quanto avea dagli uomini e dal cielo favor, grazia e bellezza, tutto perde. La vergine che ‘l fior, di che più zelo che de’ begli occhi e de la vita aver de’, lascia altrui corre, il pregio ch’avea inanti perde nel cor di tutti gli altri amanti. Sia vile agli altri, e da quel solo amata a cui di sé fece sì larga copia. Ah, Fortuna crudel, Fortuna ingrata! trionfan gli altri, e ne moro io d’inopia. Dunque esser può che non mi sia più grata? dunque io posso lasciar mia vita propia? Ah più tosto oggi manchino i dì miei, ch’io viva più, s’amar non debbo lei!» Sia vile per gli altri e sia amata da quel solo al quale si è donata in così larga misura. Ah, fortuna crudele, fortuna ingrata! gli altri trionfano e io muoio di stenti. Dunque può essere che non mi sia più gradita? dunque posso lasciare la mia propria vita? Ah, piuttosto finiscano i miei giorni, che io non viva più, se non devo amare lei! Se mi domanda alcun chi costui sia, che versa sopra il rio lacrime tante, io dirò ch’egli è il re di Circassia, quel d’amor travagliato Sacripante; io dirò ancor, che di sua pena ria sia prima e sola causa essere amante, è pur un degli amanti di costei: e ben riconosciuto fu da lei. maniere, e il vero angelico sembiante, improviso apparir si vide inante. Mai una madre alzò lo sguardo con tanta gioia o stupore sul figlio, che aveva sospirato e pianto per morto avendo sentito che l'esercito era tornato senza di lui, rispetto alla gioia e allo stupore con cui il saraceno si vide all'improvviso apparire di fronte la nobile presenza, i modi leggiadri e il vero aspetto angelico della donna. Pieno di dolce e d’amoroso affetto, alla sua donna, alla sua diva corse, che con le braccia al collo il tenne stretto, quel ch’al Catai non avria fatto forse. Al patrio regno, al suo natio ricetto, seco avendo costui, l’animo torse: subito in lei s’avviva la speranza di tosto riveder sua ricca stanza. Pieno di affetto dolce e amoroso, corse dalla sua donna e dalla sua dea, che lo abbracciò al collo strettamente, cosa che forse non avrebbe fatto in Catai. Avendo costui accanto il suo animo pensò subito al regno di suo padre, al luogo natio: subito si accende in lei la speranza di rivedere presto il suo ricco palazzo. Ella gli rende conto pienamente dal giorno che mandato fu da lei a domandar soccorso in Oriente al re de’ Sericani e Nabatei; e come Orlando la guardò sovente da morte, da disnor, da casi rei: e che ‘l fior virginal così avea salvo, come se lo portò del materno alvo. Lei gli spiega per filo e per segno cosa era successo dal giorno in cui lo mandò a domandare soccorso in Oriente, al re dei Sericani e dei Nabatei [Gradasso]; e come Orlando la protesse spesso dalla morte, dal disonore, da ogni sciagura: e disse che la sua verginità era intatta, come quando era uscita dal ventre materno. Forse era ver, ma non però credibile a chi del senso suo fosse signore; ma parve facilmente a lui possibile, ch’era perduto in via più grave errore. Quel che l’uom vede, Amor gli fa invisibile, e l’invisibil fa vedere Amore. Questo creduto fu; che ‘l miser suole dar facile credenza a quel che vuole. Forse era vero, ma non era però credibile a chi fosse padrone del suo intelletto; ma a lui sembrò facilmente possibile, essendo perduto in un errore ben più grande [essendo innamorato]. Amore rende invisibile ciò che l'uomo vede, e viceversa. Questa cosa venne creduta; infatti il misero è solito credere quello che vuole che avvenga. «Se mal si seppe il cavallier d’Anglante pigliar per sua sciocchezza il tempo buono, il danno se ne avrà; che da qui inante nol chiamerà Fortuna a sì gran dono (tra sé tacito parla Sacripante): ma io per imitarlo già non sono, che lasci tanto ben che m’è concesso, e ch’a doler poi m’abbia di me stesso. «Se il cavaliere d'Anglante [Orlando] non seppe approfittare per sua stupidità dell'occasione favorevole, avrà il suo danno; d'ora in avanti la fortuna non gli offrirà più un simile dono (così Sacripante parla tra sé): ma io non intendo imitarlo e lasciare un simile bene che mi è concesso, così che poi debba lagnarmi di me stesso. Corrò la fresca e matutina rosa, che, tardando, stagion perder potria. So ben ch’a donna non si può far cosa che più soave e più piacevol sia, ancor che se ne mostri disdegnosa, e talor mesta e flebil se ne stia: non starò per repulsa o finto sdegno, ch’io non adombri e incarni il mio disegno.» Coglierò la rosa fresca e mattutina, poiché se tardassi a farlo potrebbe perdere la sua freschezza. So bene che non si può fare a una donna una cosa più soave e piacevole, anche se si mostra sdegnosa, e a volte se ne sta triste e in lacrime: non lascerò che un rifiuto o uno sdegno simulati mi impediscano di intraprendere e portare a termine il mio progetto». 59 Così dice egli; e mentre s’apparecchia al dolce assalto, un gran rumor che suona dal vicin bosco gl’intruona l’orecchia, sì che mal grado l’impresa abbandona: e si pon l’elmo (ch’avea usanza vecchia di portar sempre armata la persona), viene al destriero e gli ripon la briglia, rimonta in sella e la sua lancia piglia. Così parla Sacripante; e mentre si prepara a sedurre Angelica, un gran rumore che strepita dal bosco vicino gli rintrona le orecchie, sicché abbandona l'impresa suo malgrado: indossa l'elmo (infatti aveva l'antica abitudine di essere sempre armato), raggiunge il cavallo e lo imbriglia, rimonta in sella e impugna la lancia. 60 Ecco pel bosco un cavallier venire, il cui sembiante è d’uom gagliardo e fiero: candido come nieve è il suo vestire, un bianco pennoncello ha per cimiero. Re Sacripante, che non può patire che quel con l’importuno suo sentiero gli abbia interrotto il gran piacer ch’avea, con vista il guarda disdegnosa e rea. Ecco che un cavaliere attraversa il bosco, con l'aspetto di un uomo feroce e coraggioso: la sua armatura è bianca come la neve, per cimiero ha un pennacchio bianco. Re Sacripante, che non può sopportare che quello col suo arrivo improvviso gli abbia interrotto il piacere intrapreso, lo fissa con sguardo sdegnato e iroso. 61 Come è più appresso, lo sfida a battaglia; che crede ben fargli votar l’arcione. Quel che di lui non stimo già che vaglia un grano meno, e ne fa paragone, l’orgogliose minacce a mezzo taglia, sprona a un tempo, e la lancia in resta pone. Sacripante ritorna con tempesta, e corronsi a ferir testa per testa. Appena si avvicina lo sfida a duello, convinto di disarcionarlo facilmente. Quell'altro, che credo abbia lo stesso suo valore e lo dimostra, tronca a metà le orgogliose minacce di Sacripante e, al tempo stesso, sprona e mette la lancia in resta. Sacripante corre a sua volta come il vento e vanno a cozzare l'uno contro l'altro. 62 Non si vanno i leoni o i tori in salto a dar di petto, ad accozzar sì crudi, sì come i duo guerrieri al fiero assalto, che parimente si passar li scudi. Fe’ lo scontro tremar dal basso all’alto l’erbose valli insino ai poggi ignudi; e ben giovò che fur buoni e perfetti gli osberghi sì, che lor salvaro i petti. Né i leoni né i tori saltano per scontrarsi nel petto così feroci, come i due guerrieri in quel fiero assalto in cui si trapassarono entrambi gli scudi. Lo scontro fece tremare dal basso in alto le valli erbose, sino alle colline aride; e meno male che le corazze erano di buona fattura, cosicché salvarono i loro petti. 63 Già non fero i cavalli un correr torto, anzi cozzaro a guisa di montoni: quel del guerrier pagan morì di corto, ch’era vivendo in numero de’ buoni: quell’altro cadde ancor, ma fu risorto tosto ch’al fianco si sentì gli sproni. Quel del re saracin restò disteso adosso al suo signor con tutto il peso. I cavalli non fecero un cammino obliquo, ma cozzarono come due montoni: quello di Sacripante morì all'istante, pur essendo da vivo uno dei migliori destrieri: l'altro cadde a sua volta, ma si rialzò appena sentì gli sproni nel fianco. Quello del re saraceno rimase a terra addosso al suo padrone, con tutto il peso. 64 L’incognito campion che restò ritto, e vide l’altro col cavallo in terra, stimando avere assai di quel conflitto, non si curò di rinovar la guerra; ma dove per la selva è il camin dritto, correndo a tutta briglia si disserra; e prima che di briga esca il pagano, un miglio o poco meno è già lontano. odon la selva che li cinge intorno, con tal rumore e strepito, che pare che triemi la foresta d’ogn’intorno; e poco dopo un gran destrier n’appare, d’oro guernito e riccamente adorno, che salta macchie e rivi, ed a fracasso arbori mena e ciò che vieta il passo. Non avevano percorso due miglia quando sentirono risuonare la foresta che li attornia con un tale rumore e strepito che sembra che tutto tremi nelle vicinanze; e poco dopo appare un gran destriero, bardato in oro e riccamente adornato, che salta cespugli e ruscelli, e con gran fracasso porta via gli alberi e tutto ciò che ostacola il suo cammino. 73 «Se l’intricati rami e l’aer fosco, (disse la donna) agli occhi non contende, Baiardo è quel destrier ch’in mezzo il bosco con tal rumor la chiusa via si fende. Questo è certo Baiardo, io ‘l riconosco: deh, come ben nostro bisogno intende! ch’un sol ronzin per dui saria mal atto, e ne viene egli a satisfarci ratto.» «Se i rami intricati e l'aria scura (disse Angelica) non ingannano i miei occhi, è Baiardo quel destriero che con tale rumore si apre la strada in mezzo al bosco. Questo è certo Baiardo, io lo riconosco: oh, come capisce le nostre necessità! Infatti un solo cavallo per entrambi sarebbe inadatto, ed egli viene veloce a darci una mano». 74 Smonta il Circasso ed al destrier s’accosta, e si pensava dar di mano al freno. Colle groppe il destrier gli fa risposta, che fu presto al girar come un baleno; ma non arriva dove i calci apposta: misero il cavallier se giungea a pieno! che nei calci tal possa avea il cavallo, ch’avria spezzato un monte di metallo. Il Circasso smonta e si avvicina al cavallo, e pensava di prendere il freno in mano. Il destriero gli risponde con la groppa, rapido a voltarsi in un baleno; ma i calci che sferra non giungono al bersaglio: povero Sacripante, se fosse stato colpito! infatti il cavallo nei calci aveva una tale forza che avrebbe spezzato una montagna di metallo. 75 Indi va mansueto alla donzella, con umile sembiante e gesto umano, come intorno al padrone il can saltella, che sia duo giorni o tre stato lontano. Baiardo ancora avea memoria d’ella, ch’in Albracca il servia già di sua mano nel tempo che da lei tanto era amato Rinaldo, allor crudele, allor ingrato. Poi se ne va mansueto da Angelica, con aspetto umile e atteggiamento umano, come il cane saltella intorno al padrone che ne è stato lontano due o tre giorni. Baiardo si ricordava ancora di lei, quando ad Albraca gli dava da mangiare con le sue mani, nel tempo in cui lei amava Rinaldo che, invece, era crudele e ingrato verso di lei. 76 Con la sinistra man prende la briglia, con l’altra tocca e palpa il collo e ‘l petto: quel destrier, ch’avea ingegno a maraviglia, a lei, come un agnel, si fa suggetto. Intanto Sacripante il tempo piglia: monta Baiardo e l’urta e lo tien stretto. Del ronzin disgravato la donzella lascia la groppa, e si ripone in sella. Prende la briglia con la mano sinistra, con l'altra tocca e accarezza il collo e il petto: quel destriero, che aveva un meraviglioso ingegno, si fa guidare da lei come un agnellino. Intanto Sacripante coglie il momento favorevole: monta Baiardo e lo sferza e lo tiene stretto. La fanciulla lascia la groppa del suo cavallo, ora privo del peso di Sacripante, e si rimette in sella. 77 Poi rivolgendo a caso gli occhi, mira venir sonando d’arme un gran pedone. Tutta s’avvampa di dispetto e d’ira, che conosce il figliuol del duca Amone. Più che sua vita l’ama egli e desira; l’odia e fugge ella più che gru falcone. Già fu ch’esso odiò lei più che la morte; ella amò lui: or han cangiato sorte. Poi, volgendo lo sguardo a caso, vede venire un guerriero a piedi che fa risuonare le armi. Avvampa tutta d'odio e d'ira, poiché conosce il figlio del duca Amone [Rinaldo]. Lui la ama e la desidera più della sua vita; le lo odia e lo rifugge più di quanto la gru faccia col falcone. Un tempo era lui ad odiare lei più della morte, mentre lei lo amava: ora hanno rovesciato i ruoli. 78 E questo hanno causato due fontane che di diverso effetto hanno liquore, ambe in Ardenna, e non sono lontane: d’amoroso disio l’una empie il core; chi bee de l’altra, senza amor rimane, e volge tutto in ghiaccio il primo ardore. Rinaldo gustò d’una, e amor lo strugge; Angelica de l’altra, e l’odia e fugge. E questa cosa è stata causata da due fontane la cui acqua produce un effetto opposto, entrambe poste nelle Ardenne e non lontane l'una dall'altra: una riempie il cuore di desiderio amoroso, mentre chi beve l'altra rimane senza amore e trasforma in ghiaccio il precedente ardore. Rinaldo aveva bevuto dalla prima e amore lo strugge; Angelica aveva bevuto dall'altra e lo odia e lo sfugge. 79 Quel liquor di secreto venen misto, che muta in odio l’amorosa cura, fa che la donna che Rinaldo ha visto, nei sereni occhi subito s’oscura; e con voce tremante e viso tristo supplica Sacripante e lo scongiura che quel guerrier più appresso non attenda, ma ch’insieme con lei la fuga prenda. Quel liquido, misto a un segreto veleno, che muta l'amore in odio, fa sì che la donna, che ha visto Rinaldo, si oscura subito nei suoi occhi; e con voce tremante e viso rabbuiato supplica Sacripante e lo scongiura di non aspettare che quel guerriero si avvicini di più, ma che fugga insieme a lei. 80 «Son dunque (disse il Saracino), sono dunque in sì poco credito con vui, che mi stimiate inutile e non buono da potervi difender da costui? Le battaglie d’Albracca già vi sono di mente uscite, e la notte ch’io fui per la salute vostra, solo e nudo, contra Agricane e tutto il campo, scudo?» Il saraceno disse: «Godo dunque di così poco credito presso di voi, che mi stimate inutile e incapace di difendervi da costui? Già avete dimenticato le battaglie di Albraca, e la notte in cui io fui il solo scudo alla vostra salvezza, solo e disarmato contro Agricane e tutti i suoi uomini?» 81 Non risponde ella, e non sa che si faccia, perché Rinaldo ormai l’è troppo appresso, che da lontan al Saracin minaccia, come vide il cavallo e conobbe esso, e riconobbe l’angelica faccia che l’amoroso incendio in cor gli ha messo. Quel che seguì tra questi duo superbi vo’ che per l’altro canto si riserbi. Lei non risponde e non sa cosa fare, perché Rinaldo ormai le è troppo vicino, e da lontano minaccia il saraceno, non appena ha visto il cavallo e riconosciuto l'uomo, e dopo aver riconosciuto il volto angelico che gli ha incendiato il cuore d'amore. Ma quello che accadde tra questi cavalieri così superbi lo racconterò nel canto seguente. Orlando Furioso, Canto II Rinaldo intima a Sacripante di scendere da cavallo. Ne segue un alterco che li porta a sfidarsi a duello. Mentre Sacripante e Rinaldo si combattono furiosamente, constatando che Rinaldo sta avendo la meglio, Angelica fugge a cavallo inoltrandosi nel bosco. Raggiunta una valle incontra un eremita a cui esprime la sua volontà di fuggire dalla Francia per sottrarsi a Rinaldo. L'eremita allora, con un incantesimo, evoca uno spirito infernale che parte alla ricerca dei duellanti e, interrompendo lo scontro, li convince che la bella Angelica sta intanto fuggendo a Parigi con Orlando. Rinaldo recupera Baiardo e si precipita subito a cavallo a Parigi, qui incontrerà Carlo Magno, reduce dalla sconfitta contro i mori, che lo invierà però immediatamente in Inghilterra per chiedere aiuto, temendo uno nuovo scontro con Agramante. Rinaldo ubbidisce malvolentieri, ma per la fretta di ritornare a Parigi, si imbarca il giorno stesso nonostante una violenta tempesta che ingrossa il mare. Nel frattempo Bradamante, alla ricerca di Ruggiero, attraversando il boschetto, incontra nei pressi di una fonte un cavaliere addolorato e abbattuto. È il conte Pinabello, figlio di 11 Quando vide la timida donzella dal fiero colpo uscir tanta ruina, per gran timor cangiò la faccia bella, qual il reo ch'al supplicio s'avvicina; né le par che vi sia da tardar, s'ella non vuol di quel Rinaldo esser rapina, di quel Rinaldo ch'ella tanto odiava, quanto esso lei miseramente amava. 12 Volta il cavallo, e ne la selva folta lo caccia per un aspro e stretto calle: e spesso il viso smorto a dietro volta; che le par che Rinaldo abbia alle spalle. Fuggendo non avea fatto via molta, che scontrò un eremita in una valle, ch'avea lunga la barba a mezzo il petto, devoto e venerabile d'aspetto. 13 Dagli anni e dal digiuno attenuato, sopra un lento asinel se ne veniva; e parea, più ch'alcun fosse mai stato, di conscienza scrupolosa e schiva. Come egli vide il viso delicato de la donzella che sopra gli arriva, debil quantunque e mal gagliarda fosse, tutta per carità se gli commosse. 14 La donna al fraticel chiede la via che la conduca ad un porto di mare, perché levar di Francia si vorria per non udir Rinaldo nominare. Il frate, che sapea negromanzia, non cessa la donzella confortare che presto la trarrà d'ogni periglio; et ad una sua tasca diè di piglio. 15 Trassene un libro, e mostrò grande effetto; che legger non finì la prima faccia, ch'uscir fa un spirto in forma di valletto, e gli commanda quanto vuol ch'el faccia. Quel se ne va, da la scrittura astretto, dove i dui cavallieri a faccia a faccia eran nel bosco, e non stavano al rezzo; fra' quali entrò con grande audacia in mezzo. 16 -- Per cortesia, -- disse -- un di voi mi mostre, quando anco uccida l'altro, che gli vaglia: che merto avrete alle fatiche vostre, finita che tra voi sia la battaglia, se 'l conte Orlando, senza liti o giostre, e senza pur aver rotta una maglia, verso Parigi mena la donzella che v'ha condotti a questa pugna fella? 17 Vicino un miglio ho ritrovato Orlando che ne va con Angelica a Parigi, di voi ridendo insieme, e motteggiando che senza frutto alcun siate in litigi. Il meglio forse vi sarebbe, or quando non son più lungi, a seguir lor vestigi; che s'in Parigi Orlando la può avere, non ve la lascia mai più rivedere. -- 18 Veduto avreste i cavallier turbarsi a quel annunzio, e mesti e sbigottiti, senza occhi e senza mente nominarsi, che gli avesse il rival così scherniti; ma il buon Rinaldo al suo cavallo trarsi con sospir che parean del fuoco usciti, e giurar per isdegno e per furore, se giungea Orlando, di cavargli il core. 19 E dove aspetta il suo Baiardo, passa, e sopra vi si lancia, e via galoppa, né al cavallier, ch'a piè nel bosco lassa, pur dice a Dio, non che lo 'nviti in groppa. L'animoso cavallo urta e fracassa, punto dal suo signor, ciò ch'egli 'ntoppa: non ponno fosse o fiumi o sassi o spine far che dal corso il corridor decline. 20 Signor, non voglio che vi paia strano se Rinaldo or sì tosto il destrier piglia, che già più giorni ha seguitato invano, né gli ha possuto mai toccar la briglia. Fece il destrier, ch'avea intelletto umano, non per vizio seguirsi tante miglia, ma per guidar dove la donna giva, il suo signor, da chi bramar l'udiva. 21 Quando ella si fuggí dal padiglione, la vide et appostolla il buon destriero, che si trovava aver vòto l'arcione, però che n'era sceso il cavalliero per combatter di par con un barone, che men di lui non era in arme fiero; poi ne seguitò l'orme di lontano, bramoso porla al suo signore in mano. 22 Bramoso di ritrarlo ove fosse ella, per la gran selva inanzi se gli messe; né lo volea lasciar montare in sella, perché ad altro camin non lo volgesse. Per lui trovò Rinaldo la donzella una e due volte, e mai non gli successe; che fu da Ferraù prima impedito, poi dal Circasso, come avede udito. 23 Ora al demonio che mostrò a Rinaldo de la donzella li falsi vestigi, credette Baiardo anco, e stette saldo e mansueto ai soliti servigi. Rinaldo il caccia, d'ira e d'amor caldo, a tutta briglia, e sempre invêr Parigi; e vola tanto col disio, che lento, non ch'un destrier, ma gli parrebbe il vento. 24 La notte a pena di seguir rimane, per affrontarsi col signor d'Anglante: tanto ha cretuto alle parole vane del messagger del cauto negromante. Non cessa cavalcar sera e dimane, che si vede apparir la terra avante, dove re Carlo, rotto e mal condutto, con le reliquie sue s'era ridutto: 25 e perché dal re d'Africa battaglia et assedio v'aspetta, usa gran cura a raccor buona gente e vettovaglia, far cavamenti e riparar le mura. Ciò ch'a difesa spera che gli vaglia, senza gran diferir, tutto procura: pensa mandare in Inghilterra, e trarne gente onde possa un novo campo farne: 26 che vuole uscir di nuovo alla campagna, e ritentar la sorte de la guerra. Spaccia Rinaldo subito in Bretagna, Bretagna che fu poi detta Inghilterra. Ben de l'andata il paladin si lagna: non ch'abbia così in odio quella terra; ma perché Carlo il manda allora allora, perch'al scender del monte avesse inciampo; e una giovane bella meco avea, del cui fervido amor nel petto avampo: e ritrovai presso a Rodonna armato un che frenava un gran destriero alato. 38 Tosto che 'l ladro, o sia mortale, o sia una de l'infernali anime orrende, vede la bella e cara donna mia; come falcon che per ferir discende, cala e poggia in uno atimo, e tra via getta le mani, e lei smarrita prende. Ancor non m'era accorto de l'assalto, che de la donna io senti' il grido in alto. 39 Così il rapace nibio furar suole il misero pulcin presso alla chioccia, che di sua inavvertenza poi si duole, e invan gli grida, e invan dietro gli croccia. Io non posso seguir un uom che vole, chiuso tra' monti, a piè d'un'erta roccia: stanco ho il destrier, che muta a pena i passi ne l'aspre vie de' faticosi sassi. 40 Ma, come quel che men curato avrei vedermi trar di mezzo il petto il core, lasciai lor via seguir quegli altri miei, senza mia guida e senza alcun rettore: per li scoscesi poggi e manco rei presi la via che mi mostrava Amore, e dove mi parea che quel rapace portassi il mio conforto e la mia pace. 41 Sei giorni me n'andai matina e sera per balze e per pendici orride e strane, dove non via, dove sentier non era, dove né segno di vestigie umane; poi giunse in una valle inculta e fiera, di ripe cinta e spaventose tane, che nel mezzo s'un sasso avea un castello forte e ben posto, a maraviglia bello. 42 Da lungi par che come fiamma lustri, né sia di terra cotta, né di marmi. Come più m'avicino ai muri illustri, l'opra più bella e più mirabil parmi. E seppi poi, come i demoni industri, da suffumigi tratti e sacri carmi, tutto d'acciaio avean cinto il bel loco, temprato all'onda et allo stigio foco. 43 Di sì forbito acciar luce ogni torre, che non vi può né ruggine né macchia. Tutto il paese giorno e notte scorre, E poi là dentro il rio ladron s'immacchia. Cosa non ha ripar che voglia tôrre: sol dietro invan se li bestemia e gracchia. Quivi la donna, anzi il mio cor mi tiene, che di mai ricovrar lascio ogni spene. 44 Ah lasso! che poss'io più che mirare la ròcca lungi, ove il mio ben m'è chiuso? come la volpe, che 'l figlio gridare nel nido oda de l'aquila di giuso, s'aggira intorno, e non sa che si fare, poi che l'ali non ha da gir là suso. Erto è quel sasso sì, tale è il castello, che non vi può salir chi non è augello. 45 Mentre io tardava quivi, ecco venire duo cavallier ch'avean per guida un nano, che la speranza aggiunsero al desire; ma ben fu la speranza e il desir vano. Ambi erano guerrier di sommo ardire: era Gradasso l'un, re sericano; era l'altro Ruggier, giovene forte, pregiato assai ne l'africana corte. 46 «Vengon» mi disse il nano « per far pruova di lor virtù col sir di quel castello, che per via strana, inusitata e nuova cavalca armato il quadrupede augello. » « Deh, signor, » dissi io lor « pietà vi muova del duro caso mio spietato e fello! Quando, come ho speranza, voi vinciate, vi prego la mia donna mi rendiate. » 47 E come mi fu tolta lor narrai, con lacrime affermando il dolor mio. Quei, lor mercé, mi proferiro assai, e giù calaro il poggio alpestre e rio. Di lontan la battaglia io riguardai, pregando per la lor vittoria Dio. Era sotto il castel tanto di piano, quanto in due volte si può trar con mano. 48 Poi che fur giunti a piè de l'alta ròcca, l'uno e l' altro volea combatter prima; pur a Gradasso, o fosse sorte, tocca, o pur che non ne fe' Ruggier più stima. Quel Serican si pone il corno a bocca: rimbomba il sasso e la fortezza in cima. Ecco apparire il cavalliero armato fuor de la porta, e sul cavallo alato. 49 Cominciò a poco a poco indi a levarse, come suol far la peregrina grue, che corre prima, e poi vediamo alzarse alla terra vicina un braccio o due; e quando tutte sono all'aria sparse, velocissime mostra l'ale sue. Sì ad alto il negromante batte l'ale, ch'a tanta altezza a pena aquila sale. 50 Quando gli parve poi, volse il destriero, che chiuse i vanni e venne a terra a piombo, come casca dal ciel falcon maniero che levar veggia l'anitra o il colombo. Con la lancia arrestata il cavalliero l'aria fendendo vien d'orribil rombo. Gradasso a pena del calar s'avede, che se lo sente addosso e che lo fiede. 51 Sopra Gradasso il mago l'asta roppe; ferí Gradasso il vento e l'aria vana: per questo il volator non interroppe il batter l'ale, e quindi s'allontana. Il grave scontro fa chinar le groppe sul verde prato alla gagliarda alfana. Gradasso avea una alfana, la più bella e la miglior che mai portasse sella. 52 Sin alle stelle il volator trascorse; indi girossi e tornò in fretta al basso, e percosse Ruggier che non s'accorse, Ruggier che tutto intento era a Gradasso. Ruggier del grave colpo si distorse, e 'l suo destrier più rinculò d'un passo: e quando si voltò per lui ferire, da sé lontano il vide al ciel salire. 53 Or su Gradasso, or su Ruggier percote ne la fronte, nel petto e ne la schiena, 64 Questa cittade, e intorno a molte miglia ciò che fra Varo e Rodano al mar siede, avea l'imperator dato alla figlia del duca Amon, in ch'avea speme e fede; però che 'l suo valor con maraviglia riguardar suol, quando armeggiar la vede. Or, com'io dico, a domandar aiuto quel messo da Marsilia era venuto. 65 Tra sì e no la giovane suspesa, di voler ritornar dubita un poco: quinci l'onore e il debito le pesa, quindi l'incalza l'amoroso foco. Fermasi al fin di seguitar l'impresa, e trar Ruggier de l'incantato loco; e quando sua virtù non possa tanto, almen restargli prigioniera a canto. 66 E fece iscusa tal, che quel messaggio parve contento rimanere e cheto. Indi girò la briglia al suo viaggio, con Pinabel che non ne parve lieto; che seppe esser costei di quel lignaggio che tanto ha in odio in publico e in secreto: e già s'avisa le future angosce, se lui per maganzese ella conosce. 67 Tra casa di Maganza e di Chiarmonte era odio antico e inimicizia intensa; e più volte s'avean rotta la fronte, e sparso di lor sangue copia immensa: e però nel suo cor l'iniquo conte tradir l'incauta giovane si pensa; o, come prima commodo gli accada, lasciarla sola, e trovar altra strada. 68 E tanto gli occupò la fantasia il nativo odio, il dubbio e la paura, ch'inavedutamente uscí di via: e ritrovossi in una selva oscura, che nel mezzo avea un monte che finia la nuda cima in una pietra dura; e la figlia del duca di Dordona gli è sempre dietro, e mai non l'abandona. 69 Come si vide il Maganzese al bosco, pensò tôrsi la donna da le spalle. Disse: -- Prima che 'l ciel torni più fosco, verso uno albergo è meglio farsi il calle. Oltra quel monte, s'io lo riconosco, siede un ricco castel giù ne la valle. Tu qui m'aspetta; che dal nudo scoglio certificar con gli occhi me ne voglio. -- 70 Così dicendo, alla cima superna del solitario monte il destrier caccia, mirando pur s'alcuna via discerna, come lei possa tor da la sua traccia. Ecco nel sasso truova una caverna, che si profonda più di trenta braccia. Tagliato a picchi et a scarpelli il sasso scende giù al dritto, et ha una porta al basso. 71 Nel fondo avea una porta ampla e capace, ch'in maggior stanza largo adito dava; e fuor n'uscia splendor, come di face ch'ardesse in mezzo alla montana cava. Mentre quivi il fellon suspeso tace, la donna, che da lungi il seguitava (perché perderne l'orme si temea), alla spelonca gli sopragiungea. 72 Poi che si vide il traditore uscire, quel ch'avea prima disegnato, invano, o da sé torla, o di farla morire, nuovo argumento imaginossi e strano. Le si fe' incontra, e su la fe' salire là dove il monte era forato e vano; e le disse ch'avea visto nel fondo una donzella di viso giocondo, 73 ch' a' bei sembianti et alla ricca vesta esser parea di non ignobil grado; ma, quanto più potea, turbata e mesta, mostrava esservi chiusa suo mal grado: e per saper la condizion di questa, ch'avea già cominciato a entrar nel guado; e che era uscito de l'interna grotta un che dentro a furor l'avea ridotta. 74 Bradamante, che come era animosa, così mal cauta, a Pinabel diè fede; e d'aiutar la donna, disiosa, si pensa come por colà giù il piede. Ecco d'un olmo alla cima frondosa volgendo gli occhi, un lungo ramo vede; e con la spada quel subito tronca, e lo declina giù ne la spelonca. 75 Dove è tagliato, in man lo raccomanda a Pinabello, e poscia a quel s'apprende: prima giù i piedi ne la tana manda, e su le braccia tutta si suspende. Sorride Pinabello, e le domanda come ella salti; e le man apre e stende, dicendole: -- Qui fosser teco insieme tutti li tuoi, ch'io ne spegnessi il seme! -- 76 Non come volse Pinabello avenne de l'innocente giovane la sorte; perché, giù diroccando, a ferir venne prima nel fondo il ramo saldo e forte. Ben si spezzò, ma tanto la sostenne, che 'l suo favor la liberò da morte. Giacque stordita la donzella alquanto, come io vi seguirò ne l'altro canto. Orlando Furioso canto XXIII (100-136) Mentre è alla ricerca del guerriero saraceno Mandricardo con cui deve battersi a duello, Orlando capita casualmente nei luoghi che poco tempo prima videro l'amore felice di Angelica e Medoro, narrato precedentemente dall'autore e conclusosi con la partenza dei due sposi per il Catai: giunto in un "locus amoenus" dove vede dappertutto i segni dell'amore di Angelica e del fante saraceno, tenta dapprima di convincersi che la cosa non sia vera, finché l'incontro fortuito col pastore che aveva dato alloggio ai due amanti gli toglie ogni dubbio e lo priva del senno, facendolo precipitare in una furia cieca e distruttiva. L'episodio ha un'importanza centrale nel poema, non solo ovviamente perché spiega le circostanze in cui Orlando diventa "furioso", ma soprattutto perché dà modo all'autore di ironizzare bonariamente sulla follia di tutti gli uomini, sempre pronti a inseguire le illusioni d'amore anche a costo di perdere la ragione (come è capitato anche ad Ariosto, per sua stessa ironica ammissione). Orlando ritroverà il senno quando Astolfo lo andrà a recuperare sulla Luna. 100 Lo strano corso che tenne il cavallo del Saracin pel bosco senza via, fece ch'Orlando andò duo giorni in fallo, né lo trovò, né poté averne spia. Giunse ad un rivo che parea cristallo, ne le cui sponde un bel pratel fioria, di nativo color vago e dipinto, e di molti e belli arbori distinto. Lo strano percorso che compì il cavallo del saraceno [Mandricardo] nel bosco senza sentieri, fece sì che Orlando andasse a vuoto per due giorni, e non lo trovò e non poté scoprirne traccia. Giunse ad un ruscello così limpido che sembrava cristallo, sulle cui sponde c'era un bel prato fiorito, con bei fiori variopinti e in cui crescevano molti begli alberi. spelunca opaca e di fredde ombre grata, dove la bella Angelica che nacque di Galafron, da molti invano amata, spesso ne le mie braccia nuda giacque; de la commodità che qui m'è data, io povero Medor ricompensarvi d'altro non posso, che d'ognor lodarvi: «Liete piante, erbe verdi, acque limpide, grotta ombrosa e gradevole per le fresche ombre, dove la bella Angelica che nacque da Galafrone, amata invano da molti, spesso giacque nuda tra le mie braccia; io, povero Medoro, per la comodità che mi avete offerto qui, non posso ricompensarvi se non lodandovi sempre: 109 e di pregare ogni signore amante, e cavallieri e damigelle, e ognuna persona, o paesana o viandante, che qui sua volontà meni o Fortuna; ch'all'erbe, all'ombre, all'antro, al rio, alle piante dica: benigno abbiate e sole e luna, e de le ninfe il coro, che proveggia che non conduca a voi pastor mai greggia.» e [posso solo] pregare ogni signore amante, e i cavalieri e le dame e ogni persona, del posto o straniera, che la sua volontà o il caso conduca qui, affinché dica alle erbe, alle ombre, alla grotta, al fiume, alle piante: vi siano benevoli il sole e la luna, e il coro delle ninfe possa proteggervi a che nessun pastore conduca mai da voi il gregge». 110 Era scritto in arabico, che 'l conte intendea così ben come latino: fra molte lingue e molte ch'avea pronte, prontissima avea quella il paladino; e gli schivò più volte e danni ed onte, che si trovò tra il popul saracino: ma non si vanti, se già n'ebbe frutto; ch'un danno or n'ha, che può scontargli il tutto. Era scritto in arabo, che il conte [Orlando] conosceva bene come il latino: fra le molte lingue che sapeva bene, di quella era espertissimo e spesso gli evitò danni e sconfitte, quando si trovò tra il popolo saraceno: ma non se ne vanti, se un tempo gli fu utile, poiché ora ne ha un danno che può fargli scontare tutto. 111 Tre volte e quattro e sei lesse lo scritto quello infelice, e pur cercando invano che non vi fosse quel che v'era scritto; e sempre lo vedea più chiaro e piano: ed ogni volta in mezzo il petto afflitto stringersi il cor sentia con fredda mano. Rimase al fin con gli occhi e con la mente fissi nel sasso, al sasso indifferente. Quell'infelice lesse lo scritto svariate volte, pur cercando invano di non trovarci quello che diceva; e lo vedeva invece sempre più chiaro ed evidente: ed ogni volta si sentiva il cuore in mezzo al petto stretto da una mano gelida. Rimase infine con gli occhi e la mente fissi sulla roccia, non molto diverso da essa [impietrito]. 112 Fu allora per uscir del sentimento sì tutto in preda del dolor si lassa. Credete a chi n'ha fatto esperimento, che questo è 'l duol che tutti gli altri passa. Caduto gli era sopra il petto il mento, la fronte priva di baldanza e bassa; né poté aver (che 'l duol l'occupò tanto) alle querele voce, o umore al pianto. Allora fu sul punto di uscire di senno, tanto era in preda al dolore. Credete a me che l'ho sperimentato, questo è il dolore che supera tutti gli altri. Il mento gli era caduto sopra il petto e la fronte era bassa, priva di audacia; e non poté trovare voce per lamentarsi, o lacrime per piangere, a tal punto era pieno di dolore. 113 L'impetuosa doglia entro rimase, che volea tutta uscir con troppa fretta. Così veggiàn restar l'acqua nel vase, che largo il ventre e la bocca abbia stretta; che nel voltar che si fa in su la base, l'umor che vorria uscir, tanto s'affretta, e ne l'angusta via tanto s'intrica, ch'a goccia a goccia fuore esce a fatica. Il dolore impetuoso gli rimase dentro, poiché voleva uscire con troppa fretta. Così vediamo l'acqua che resta nel vaso con il ventre largo e l'apertura stretta, infatti quando lo si capovolge l'acqua che vorrebbe uscire si concentra e si ferma nell'apertura stretta, cosicché ne esce a fatica, goccia a goccia. 114 Poi ritorna in sé alquanto, e pensa come possa esser che non sia la cosa vera: che voglia alcun così infamare il nome de la sua donna e crede e brama e spera, o gravar lui d'insopportabil some tanto di gelosia, che se ne pera; ed abbia quel, sia chi si voglia stato, molto la man di lei bene imitato. Poi torna alquanto in sé e pensa come sia possibile che quella cosa non sia vera: pensa che qualcuno voglia infamare in tal modo il nome della sua donna, e lo desidera e lo spera, oppure che qualcuno voglia far soffrire lui con l'insopportabile peso della gelosia, fino a farlo morire; e pensa che quel qualcuno, chiunque sia, abbia molto ben imitato la mano di Angelica. 115 In così poca, in così debol speme sveglia gli spiriti e gli rifranca un poco; indi al suo Brigliadoro il dosso preme, dando già il sole alla sorella loco. Non molto va, che da le vie supreme dei tetti uscir vede il vapor del fuoco, sente cani abbaiar, muggiare armento: viene alla villa, e piglia alloggiamento. In una speranza così scarsa e debole risveglia il suo spirito e lo rinfranca un poco; quindi sprona il suo Brigliadoro, quando il sole ormai lascia spazio alla luna [è il tramonto]. Non va molto lontano, quando dai camini sui tetti vede uscire il fumo, sente abbaiare i cani e muggire le bestie: giunge a una fattoria e prende qui alloggio. 116 Languido smonta, e lascia Brigliadoro a un discreto garzon che n'abbia cura; altri il disarma, altri gli sproni d'oro gli leva, altri a forbir va l'armatura. Era questa la casa ove Medoro giacque ferito, e v'ebbe alta avventura. Corcarsi Orlando e non cenar domanda, di dolor sazio e non d'altra vivanda. Smonta stanco e lascia Brigliadoro a un bravo ragazzo perché ne abbia cura; un altro gli leva le armi, un altro gli toglie gli sproni d'oro, un altro va a pulire l'armatura. Questa era la casa dove Medoro giacque ferito e dove visse la sua avventura amorosa. Orlando chiede di coricarsi senza cenare, sazio di dolore e di nessun altro cibo. 117 Quanto più cerca ritrovar quiete, tanto ritrova più travaglio e pena; che de l'odiato scritto ogni parete, ogni uscio, ogni finestra vede piena. Chieder ne vuol: poi tien le labra chete; che teme non si far troppo serena, troppo chiara la cosa che di nebbia cerca offuscar, perché men nuocer debbia. Ma quanto più cerca di trovar riposo, tanto più trova travaglio e dolore; infatti vede ogni parete, ogni porta, ogni finestra piena di quelle odiate scritte. Vorrebbe chiederne, poi tiene la bocca chiusa, poiché teme di rendere troppo chiara la cosa che cerca di tenere avvolta nella nebbia, per soffrire di meno. 118 Poco gli giova usar fraude a se stesso; che senza domandarne, è chi ne parla. Il pastor che lo vede così oppresso da sua tristizia, e che voria levarla, l'istoria nota a sé, che dicea spesso di quei duo amanti a chi volea ascoltarla, ch'a molti dilettevole fu a udire, gl'incominciò senza rispetto a dire: Tuttavia gli serve a poco cercare di ingannarsi, poiché anche se non domanda c'è chi gliene parla. Il pastore, che lo vede così triste e che vorrebbe sollevarlo, incominciò senza alcun rispetto a narrargli la storia che lui sapeva e che raccontava spesso a chi voleva ascoltarla, quella di quei due amanti che a molti fu piacevole da ascoltare: Dal fuoco spinto ora il vitale umore fugge per quella via ch'agli occhi mena; ed è quel che si versa, e trarrà insieme e 'l dolore e la vita all'ore estreme. «Queste, che faccio uscire dagli occhi in così gran quantità, non sono più lacrime. Le lacrime non bastarono al dolore: finirono quando il dolore era appena a metà. Ora l'umore vitale, spinto dal fuoco, fugge attraverso quella via [i condotti lacrimali] che porta agli occhi; ed è quello, non le lacrime, che si versa, e porterà il dolore e la vita alla loro fine. 127 Questi ch'indizio fan del mio tormento, sospir non sono, né i sospir sono tali. Quelli han triegua talora; io mai non sento che 'l petto mio men la sua pena esali. Amor che m'arde il cor, fa questo vento, mentre dibatte intorno al fuoco l'ali. Amor, con che miracolo lo fai, che 'n fuoco il tenghi, e nol consumi mai? Questi che mostrano il mio tormento non sono sospiri, né i sospiri sono così. Quelli talvolta si arrestano; io, invece, non sento mai che il mio petto esali in misura minore la mia pena. Amore, che mi brucia il cuore, produce questo vento mentre sbatte intorno al fuoco le sue ali. Amore, com'è questa meraviglia, che alimenti il fuoco e non lo fai mai consumare? 128 Non son, non sono io quel che paio in viso: quel ch'era Orlando è morto ed è sotterra; la sua donna ingratissima l'ha ucciso: sì, mancando di fé, gli ha fatto guerra. Io son lo spirto suo da lui diviso, ch'in questo inferno tormentandosi erra, acciò con l'ombra sia, che sola avanza, esempio a chi in Amor pone speranza.» Io non sono, non sono quello che sembro in viso: colui che era Orlando è morto ed è sottoterra; la sua donna ingrata lo ha ucciso: infatti, mancandogli di parola, gli ha fatto guerra. Io sono il suo spirito diviso da lui, che erra tormentandosi in questo inferno, affinché sia di esempio con la sua ombra, che sola si conserva, a chi pone la sua speranza in amore». 129 Pel bosco errò tutta la notte il conte; e allo spuntar de la diurna fiamma lo tornò il suo destin sopra la fonte dove Medoro isculse l'epigramma. Veder l'ingiuria sua scritta nel monte l'accese sì, ch'in lui non restò dramma che non fosse odio, rabbia, ira e furore; né più indugiò, che trasse il brando fuore. Il conte errò nel bosco tutta la notte; allo spuntare del sole il suo destino lo fece tornare sul fiume dove Medoro scolpì nella roccia l'epigramma. Vedere la sua offesa scritta nel monte lo accese a tal punto, che in lui non restò proprio nulla che non fosse odio, rabbia, ira e furore; non indugiò più e sguainò la spada. 130 Tagliò lo scritto e 'l sasso, e sin al cielo a volo alzar fe' le minute schegge. Infelice quell'antro, ed ogni stelo in cui Medoro e Angelica si legge! Così restar quel dì, ch'ombra né gielo a pastor mai non daran più, né a gregge: e quella fonte, già si chiara e pura, da cotanta ira fu poco sicura; Distrusse lo scritto e la roccia e fece alzare le schegge minute sino al cielo. Infelice quella grotta ed ogni albero in cui si legge di Angelica e Medoro! Quel giorno furono ridotti in tale stato, che non offriranno mai più ombra né frescura a pastori o a greggi: e quel fiume, prima così chiaro e limpido, fu poco sicuro da una tale ira: 131 che rami e ceppi e tronchi e sassi e zolle non cessò di gittar ne le bell'onde, fin che da sommo ad imo sì turbolle che non furo mai più chiare né monde. E stanco al fin, e al fin di sudor molle, poi che la lena vinta non risponde allo sdegno, al grave odio, all'ardente ira, cade sul prato, e verso il ciel sospira. infatti Orlando non smise di gettare rami, ceppi, tronchi, sassi e zolle nelle belle acque, finché le turbò tutte a tal punto che non furono mai più terse né pulite. E alla fine, stanco e bagnato di sudore, quando le forze non rispondono più allo sdegno e al grande odio e all'ira ardente, cade sul prato e sospira verso il cielo. 132 Afflitto e stanco al fin cade ne l'erba, e ficca gli occhi al cielo, e non fa motto. Senza cibo e dormir così si serba, che 'l sole esce tre volte e torna sotto. Di crescer non cessò la pena acerba, che fuor del senno al fin l'ebbe condotto. Il quarto dì, da gran furor commosso, e maglie e piastre si stracciò di dosso. Afflitto e stremato alla fine cade sull'erba, e fissa gli occhi al cielo e sta in silenzio. Per tre giorni e tre notti rimane così, senza assumere cibo e senza dormire. La pena aspra non cessò di aumentare, fino a fargli perdere completamente il senno. Il quarto giorno, spinto da gran furore, si staccò di dosso le maglie e le piastre dell'armatura. 133 Qui riman l'elmo, e là riman lo scudo, lontan gli arnesi, e più lontan l'usbergo: l'arme sue tutte, in somma vi concludo, avean pel bosco differente albergo. E poi si squarciò i panni, e mostrò ignudo l'ispido ventre e tutto 'l petto e 'l tergo; e cominciò la gran follia, sì orrenda, che de la più non sarà mai ch'intenda. L'elmo rimane qua e lo scudo là, le armi lontane e la corazza ancora più lontana: insomma, per farla breve tutte le sue armi si sparsero negli angoli del bosco. E poi si stracciò le vesti e denudò il ventre ispido e tutto il petto e la schiena; e cominciò la grande follia, così orrenda che non se ne sentirà mai raccontare una maggiore. 134 In tanta rabbia, in tanto furor venne, che rimase offuscato in ogni senso. Di tor la spada in man non gli sovenne; che fatte avria mirabil cose, penso. Ma né quella, né scure, né bipenne era bisogno al suo vigore immenso. Quivi fe' ben de le sue prove eccelse, ch'un alto pino al primo crollo svelse: Gli venne una tale rabbia, un tale furore che ogni suo senso rimase offuscato. Non pensò a prendere in mano la spada; e con quella avrebbe fatto cose straordinarie, penso. Ma al suo immenso vigore non serviva né quella, né una scure, né una bipenne. Qui diede subito prova della sua forza, poiché al primo tentativo divelse un alto pino: 135 e svelse dopo il primo altri parecchi, come fosser finocchi, ebuli o aneti; e fe' il simil di querce e d'olmi vecchi, di faggi e d'orni e d'illici e d'abeti. Quel ch'un ucellator che s'apparecchi il campo mondo, fa, per por le reti, dei giunchi e de le stoppie e de l'urtiche, facea de cerri e d'altre piante antiche. e dopo quello ne estirpò molti altri, come se fossero finocchi, ebbi o aneti; e fece lo stesso con querce e vecchi olmi, con faggi, orni, lecci e abeti. Quello che un cacciatore, per tendere le reti, fa per liberare il campo strappando i giunchi, le stoppie e le ortiche, Orlando lo faceva con i cerri e le altre antiche piante. 136 I pastor che sentito hanno il fracasso, lasciando il gregge sparso alla foresta, chi di qua, chi di là, tutti a gran passo vi vengono a veder che cosa è questa. Ma son giunto a quel segno il qual s'io passo vi potria la mia istoria esser molesta; ed io la vo' più tosto diferire, che v'abbia per lunghezza a fastidire. I pastori che hanno sentito quel fracasso, lasciando le greggi sparse nel bosco, vengono tutti qui a vedere che cosa succede, chi da una parte chi dall'altra. Ma io sono arrivato a quel punto, superato il quale, la mia storia potrebbe recarvi fastidio; ed io la voglio rimandare, piuttosto che possa riuscirvi molesta. L'episodio ha ovviamente un ruolo centrale nella trama del poema, poiché Orlando apprende del "tradimento" di Angelica che ha sposato Medoro e perde completamente il senno, abbandonandosi a una furia cieca e distruttrice: a causa della sua pazzia (da cui il titolo dell'opera) il paladino si sottrarrà ai suoi Gli agricultori, accorti agli altru'esempli, lascian nei campi aratri e marre e falci: chi monta su le case e chi sui templi (poi che non son sicuri olmi né salci), onde l'orrenda furia si contempli, ch'a pugni, ad urti, a morsi, a graffi, a calci, cavalli e buoi rompe, fraccassa e strugge; e ben è corridor chi da lui fugge. Gli agricoltori, vedendo l'esempio dei pastori, lasciano nei campi gli aratri, le marre e le falci: alcuni montano sulle case e sui templi, poiché gli olmi e i salici non sono sicuri, da dove possano vedere l'orrenda furia [di Orlando] che distrugge e fa a pezzi cavalli e buoi a pugni, a urti, a morsi, a graffi, a calci; e quelli che scappano da lui devono correre veloci 8 Già potreste sentir come ribombe l'alto rumor ne le propinque ville d'urli e di corni, rusticane trombe, e più spesso che d'altro, il suon di squille; e con spuntoni ed archi e spiedi e frombe veder dai monti sdrucciolarne mille, ed altritanti andar da basso ad alto, per fare al pazzo un villanesco assalto. Già si potrebbe sentire come rimbomba nelle fattorie vicine il gran rumore delle urla e dei corni e delle trombe rustiche, e più frequente ancora il suono delle campane; e si potrebbero vedere mille uomini scendere dai monti con aste, archi, spiedi e fionde, e altrettanti salire dal basso in alto, per condurre un assalto da contadini al pazzo. 9 Qual venir suol nel salso lito l'onda mossa da l'austro ch'a principio scherza, che maggior de la prima è la seconda, e con più forza poi segue la terza; ed ogni volta più l'umore abonda, e ne l'arena più stende la sferza: tal contra Orlando l'empia turba cresce, che giù da balze scende e di valli esce. Come sull'arena del mare l'onda spinta dal vento austro suole venire all'inizio debole, mentre la seconda è più violenta della prima, e la terza segue con maggior forza, e ogni volta l'acqua è più copiosa e colpisce con veemenza via via più grande la sabbia: così contro Orlando cresce lo stuolo di villani, che scende dai monti e sale dalle valli. 10 Fece morir diece persone e diece, che senza ordine alcun gli andaro in mano: e questo chiaro esperimento fece, ch'era assai più sicur starne lontano. Trar sangue da quel corpo a nessun lece, che lo fere e percuote il ferro invano. Al conte il re del ciel tal grazia diede, per porlo a guardia di sua santa fede. Orlando fece morire venti persone, che gli finirono in mano a caso: e questo dimostrò chiaramente che era meglio stargli alla larga. A nessuno è lecito far uscire sangue da quel corpo, che è percosso e colpito invano dal ferro. Il re del cielo diede questa grazia [l'invulnerabilità] al conte, per porlo a guardia della sua santa fede. 11 Era a periglio di morire Orlando, se fosse di morir stato capace. Potea imparar ch'era a gittare il brando, e poi voler senz'arme essere audace. La turba già s'andava ritirando, vedendo ogni suo colpo uscir fallace. Orlando, poi che più nessun l'attende, verso un borgo di case il camin prende. Orlando avrebbe rischiato di morire, se ne fosse stato capace. Poteva imparare cosa vuol dire gettar via la spada e poi voler essere audace senz'armi. La turba si stava ormai ritirando, vedendo che ogni suo colpo non andava a segno. Orlando, visto che nessuno bada a lui, prende il cammino verso un borgo di case. 12 Dentro non vi trovò piccol né grande, che 'l borgo ognun per tema avea lasciato. V'erano in copia povere vivande, convenienti a un pastorale stato. Senza pane di scerner da le giande, dal digiuno e da l'impeto cacciato, le mani e il dente lasciò andar di botto in quel che trovò prima, o crudo o cotto. Dentro non vi trovò nessuno, né piccolo né grande, poiché ognuno aveva lasciato il borgo per paura. C'era una gran quantità di poveri cibi, che si addicevano alla condizione dei pastori. Senza distinguere il pane dalle ghiande, spinto dal digiuno e dall'impeto, Orlando avventò le mani e i denti su quello che trovò prima, crudo o cotto. 13 E quindi errando per tutto il paese, dava la caccia e agli uomini e alle fere; e scorrendo pei boschi, talor prese i capri isnelli e le damme leggiere. Spesso con orsi e con cingiai contese, e con man nude li pose a giacere: e di lor carne con tutta la spoglia più volte il ventre empì con fiera voglia. E vagando da lì per tutto il paese, dava la caccia a uomini e bestie; e correndo per i boschi, talvolta catturò capri snelli e agili capriole. Spesso lottò con orsi e cinghiali, e li sopraffece a mani nude: e più volte si riempì avidamente il ventre con la loro carne e tutta la pelliccia. 14 Di qua, di là, di su, di giù discorre per tutta Francia; e un giorno a un ponte arriva, sotto cui largo e pieno d'acqua corre un fiume d'alta e di scoscesa riva. Edificato accanto avea una torre che d'ogn'intorno e di lontan scopriva. Quel che fe' quivi, avete altrove a udire; che di Zerbin mi convien prima dire. Percorre tutta la Francia in lungo e in largo; e un giorno arriva a un ponte, sotto al quale scorre un fiume largo e pieno d'acqua, da una riva scoscesa. Accanto era costruita una torre che mostrava ogni luogo lì intorno e lontano. Quello che Orlando fece qui, lo sentirete più avanti; prima devo raccontare di Zerbino. “Di qua, di là, di su, di giù” riferimento a Dante nel canto V dell’Inferno. La società di antico regime (1559-1690) Dalla seconda metà del ‘500 il panorama sociale, politico e artistico inizia a mutare. Partiamo dalla data del 1559 che è la data del trattato di Cateau-Cambrésis, l’Italia passa alla dominazione spagnola, questo trattato rappresenta una linea abbiamo la fine di una fase storica e l’inizio di una nuova fase. La Spagna controllerà direttamente il regno di Napoli e il regno di Milano, poi c’è la dominazione indiretta, anche laddove in Italia la Spagna non controllava direttamente un regno intervenivano accordi matrimoniali e alleanze per le quali, anche se non direttamente, molti regni erano sotto il suo controllo spagnolo. Un altro avvenimento importante è il concilio di Trento iniziato nel 1545 e terminato nel 1563, dopo il concilio di Trento il mondo cattolico non sarebbe stato più lo stesso, da una parte si troveranno i cattolici e dall’altra i protestanti. Un altro avvenimento decisivo è il sacco di Roma, avvenuto sì nel 1527, ma ha rappresentato per l’Italia un colpo molto forte che peserà sull’ottimismo degli italiani per molti anni. nel 1547 muore Pietro Bembo uno fra gli artefici massimi del rinascimento in letteratura, nel ’33 muore Ariosto, nel ’40 Guicciardini, come vediamo tutti i grandi protagonisti del Rinascimento scompaiono nella prima metà del’500. In una prima fase della seconda metà del ‘500 la crisi economica che seguì questi eventi non si manifestò in tutta la sua forza, sia nella vita sociale che politica, ma poco dopo lo farà attraverso tutta una serie di avvenimenti come la guerra che per tutta Italia distruggeva le città, poi l’avanzata dei Turchi che nel 1500 mette in seria difficoltà la repubblica di Venezia, poi la peste del 1630 e del 1657, le rivolte di Napoli e Palermo di metà ‘600 soffocate nella violenza. Così i sintomi avvertiti precedentemente andarono aggravandosi sempre di più. Possiamo notare nel secondo ‘500 e nel ‘600 un potere politico e religioso fortemente incentrati al controllo e alla repressione di qualsiasi forma di insubordinazione, inoltre potere politico e religioso sono strettamente alleati nella repressione, repressione di qualsiasi moto di ribellione, di dissenso. Fu il clero a controllare la scuola e la cultura in maniera primaria, sicuramente in questo secolo gli scrittori si trovano a fare i conti con la chiesa e la politica e con la loro smania di controllo e censura. Alla chiesa dobbiamo sicuramente riconoscere un posto centrale nella vita di questo periodo, dalla metà del ‘500 fino a tutto il ‘600 la chiesa va a rioccupare quel posto che aveva tenuto durante il periodo medievale. La riforma protestante, che allontanò da Roma buona parte dell’opinione positiva che l’Europa aveva della Chiesa, non ebbe grandi effetti in Italia, in quanto la sede papale seppe ben contenere questo fenomeno. La riforma protestante provocò una risposta duplice, la prima è la controriforma dall’altra la riforma cattolica. Per riforma cattolica intendiamo un moto di rinvigorimento del sentimento religioso, un rinnovamento interno alla chiesa. Mentre la controriforma fu un fenomeno esterno, un meccanismo per contenere la riforma protestante, in Italia rappresentò lo sforzo autoritario di chiesa e stato di mantenere sotto soggezione della curia i cittadini, per evitare la diffusione della riforma, costringendo dunque ad un vero e proprio ossequio degli scrittori e della classe intellettuale verso la chiesa. È un’epoca che va vista attraverso la riforma e la controriforma e attraverso tutta una serie di atteggiamenti e contraddizioni che lacerano quest’epoca. La chiesa italiana esce quindi vittoriosa dallo scontro con il protestantesimo su suolo italiano, la chiesa italiana che trionfa contro il protestantesimo manifesta il desiderio di esibire questo
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