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Letteratura latina: dalle origini alla fine dell'impero romano, Sintesi del corso di Letteratura latina

Riassunto del manuale di letteratura latina di Conte, completo ed esaustivo. ISTITUZIONI DI LETTERATURA: Agostino, Apuleio, Catullo, Cesare, Cicerone, Ennio, Giovenale, Girolamo, Livio, Livio Andronico, Lucano, Lucilio, Lucrezio, Marziale, Nevio , Orazio, Ovidio, Petronio, Plauto, Plinio il Vecchio, Properzio, Quintiliano, Sallustio, Seneca, Stazio, Svetonio, Tacito, Terenzio, Tibullo, Virgilio.

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

In vendita dal 03/07/2020

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Scarica Letteratura latina: dalle origini alla fine dell'impero romano e più Sintesi del corso in PDF di Letteratura latina solo su Docsity! Gian Biagio Conte LETTERATURA LATINA Manuale storico da!e origini a!a fine de! ’impero romano Riassunto Gli autori sono disposti per generi letterari: - Livio Andronico, Nevio ed Ennio - Teatro: Plauto e Terenzio, Seneca tragico - Satira: Lucilio, Persio e Giovenale, Marziale - Lucrezio, De rerum natura - Cicerone e Seneca: la letteratura filosofica - La storiografia: Cesare, Sallustio, Livio, Tacito e Svetonio - Virgilio - Orazio - L’elegia: Cornelio Gallo, Tibullo, Properzio e Ovidio - Lucano e Stazio - Plinio - Quintiliano - Apuleio e Petronio - I padri della chiesa: Agostino e Girolamo - Cronologia Gli scarsi frammenti mostrano una notevolissima volontà di aderenza all’originale e di chiarezza: tradurre significa tanto conservare ciò che può essere recepito, quanto modificare ciò che, come si dice, è intraducibile (o per limiti del mezzo linguistico o per differenza di cultura e mentalità). Omero parla di un eroe «pari agli dei», ma questa nozione non è accettabile alla mentalità romana: e Andronico varia, senza perdere in solennità, e traduce summus adprmus («grandissimo e di primo rango»). In altri casi si ha l’impressione che Andronico modifichi Omero per intenzioni specificamente artistiche. ⚠ Andronico è un contemporaneo dei poeti alessandrini!! Questo autore (che Orazio sentirà come «primitivo») a sua volta è molto distante nel tempo dalla poesia omerica, ed è portatore di un suo gusto e di una sua poetica. Tipica della poesia romana arcaica, rispetto ai modelli greci, è la ricerca del pathos, della forza espressiva e della tensione drammatica. ↓ Questa capacità di «drammatizzare» il racconto omerico ci fa pensare che Andronico fu anche un significativo drammaturgo. Anche i testi drammatici di Andronico, come l’Odusia, avevano dei precisi modelli greci: ma nel campo teatrale i Romani furono, fin dall’inizio, più liberi nel trasformare i modelli, al massimo adattatori, ma non propriamente traduttori. Le differenze tra i poeti latini e i loro modelli sono un prezioso strumento per misurare i caratteri originali della nuova cultura. La ricerca del patetico, ed esempio, è una costante di poetica in quasi tutta la poesia latina arcaica, e si apprezza meglio là dove abbiamo il contorcano di un modello greco. I modelli tragici a cui si indirizzo furono verosimilmente - come faranno quasi sempre Ennio, Nevio, Pacuvio e Accio - testi attici del V secolo, in preferenza Sofocle ed Euripide. Per il rapido sviluppo letterario che seguì alla sua opera, Andronico passò molto presto di moda: non solo Cicerone e Orazio trovavano primitiva la sua arte, ma già Ennio sembra polemizzare contro il suo predecessore. => La letteratura scolastica di Andronico sarò probabilmente più della sua fortuna letteraria: di lui restava il «busto» di un progenitore. Nevio VITA Gneo Nevio, cittadino romano di origine campana, combatté nella prima guerra punica, probabilmente negli ultimi anni di guerra. Sembra che fosse un plebeo di nascita, e questo sarebbe una rarità: non sono molti nella Roma arcaica i letterati romani di origine plebea. La sua biografia reca tracce di polemiche anti-nobiliari, e non abbiamo indizi che si appoggiasse a protettori aristocratici. Si racconta che attaccasse in poesia la potente famiglia nobiliare dei Metelli, che gli risposero minacciosamente; si sospetta anche che fosse incarcerato per certe allusioni contenute nei suoi drammi. Morì, forse in esilio, a Utica (in Africa) nel 204 o nel 201, lasciando una diffusa fama letteraria. La data di morte è incerta: molti pensano, con buone ragioni, al primo decennio del II secolo. OPERE Numerose tragedie (fra cui almeno due praetextae, il Romulus e il Clastidium di cui abbiamo solo due brevissimi frammenti) e commedie. Delle tragedie ci sono arrivati 7 titoli e una cinquantina di franamenti per un totale di una settantina di versi; delle commedie conosciamo 28 titoli e possediamo un’ottantina di frammenti per un totale di centoventicinque versi. ⚠ La sua opera principale è il Bellum Poenicum (La guerra punica), in saturni. Relativamente breve in omaggio alla poetica ellenistica, il poema doveva contente 4000/5000 versi: ne restano appena una sessantina, trasmessi prevalentemente da grammatici. L’opera non aveva divisioni in libri, ma fu poi ripartita in sette libri da un contemporaneo di Accio, il grammatico Lampadione. 3 Il poema narrava la storia di Enea che da Troia giunge nel Lazio e, nella sua parte principale, la storia della prima guerra punica che Nevio aveva vissuto (il problema del collegamento narrativo tra queste due sezioni è difficile da risolvere sulla base dei frammenti che abbiamo). Composto negli anni della guerra annibalica (cioè dopo il 218), il poema aveva un contenuto di grande attualità per il pubblico romano. TRA MITO E STORIA Livio Andronico => prima figura di letterato latino Nevio => il primo letterato latino di nazionalità romana => e ci appare anche come il primo letterato romano vivacemente inserito nelle vicende contemporanee, partecipe di eventi storici e politici sia per esperienza personale che per scelta letteraria. => È anche, in tutta l’epoca medio-repubblicana, il solo letterato romano che prenda parte autonoma e atti alle contese politiche. Il forte impegno di Nevio nella vita politica di Roma traspare dai caratteri originali della sua opera: il Bellum Poenicum è il primo testo epico latino che abbia un tema romano (in questo senso, Nevio è un capofila quanto Andronico); Il Bellum Poenicum è un’opera molto originale. La scelta di un tema storico quasi contemporaneo non esaurisce la novità dell’opera. => Nevio non si limitava a trattare la prima guerra punica, nel momento in cui Roma affrontava nuovamente la tremenda minaccia cartaginese; il suo racconto, con un salto temporale arditissimo, affondava nella preistoria di Roma. Dai frammenti sappiamo che Nevio raccontava con una certa ampiezza (circa un libro) la leggenda di Enea. => Abbiamo un Nevio per così dire «omerico»: la fondazione di Roma si collegava alla caduta di Troia, e iv agili per mare di Enea erano in qualche odo paralleli alle peregrinazioni di Odisseo. In questa fase Nevio doveva dare notevole spazio all’intervento divino (gli dei dell’Olimpo erano improtatnisismi nell’epica omerica): nel nuovo poema nazionale romano => il tradizionale apparato divino assumeva anche una missione storica, e sanzionava, attraverso grandiosi conflitti, la fondazione di Roma. ⚠ Questa ardita saldatura tra mito e storia nazionale innestava l’ascesa di Roma in una specie di visuale cosmica, naturalmente nutrita di cultura greca. Il poema aveva, come sua struttura portante, uno strato storico, il racconto della guerra contro Cartagine. Purtroppo non sappiamo con sicurezza come questi due strati fossero connessi. Sicuro è che non c’era nessun tipo di narrazione continua => mito di fondazione e storia contemporanea si affrontavano a blocchi distinti. Potrebbe essere che Nevio avesse trovato il modo di inserire tra i viaggi di Enea anche un incontro con Didone: in questo modo, un grande arco di tensione drammatica avrebbe saldato i destini dei due popoli => se così fosse, Nevio sarebbe molto più vicino all’Eneide di quanto lo siano gli Annales di Ennio). NEVIO E I MODELLI GRECI È giusto insistere sull’ispirazione nazionale del poema, e sull’originalità della struttura, ma non conviene staccare troppo Nevio dalla tradizione letteraria greca, farne quasi un contraltare del «traduttore» Andronico. => Nevio deve essere stato un profondo conoscitore di poesia greca, anche la sua Campania (come la Taranto di Andronico) era zona di lingua e cultura ellenica. ⚠ Il Bellum Poenicum presuppone omero, e presuppone anche la tradizione ellenistica del poema storico-celebrativo, in cui si cantava secondo il codice omerico qualche vicenda storica di interesse contemporaneo. L’idea di intrecciare una storia di viaggi e una storia di guerra (il viaggio di Enea, la guerra romano-cartaginese) sembra indicare un «incrocio» fra Iliade (la guerra di Troia) e Odissea (i viaggi di un eroe) [=> è interessante notare che il più grande poeta epico del III secolo, Apollonio Rodio, aveva non diversamente combinato i modelli dei due testi omerici nelle sue Argonautiche.] 4 Lo stile: a) le figure di suono b) il confronto con il linguaggio epico greco c) creazione di un linguaggio «storiografico» Anche certi aspetti di stile rilevano in Nevio una originale mescolanza di cultura poetica ellenistica e ispirazione nazionale. => notevoli varietà di tono e di impasto lessicale. Un caratteristica di tutta la lingua poetica arcaica è l’importanza delle figure di suono: ripetizioni, allitterazioni, assonanze tendono a formare la struttura portante del verso. => in particolare, il saturnio, questo verso dalla struttura così «debole» (e così irregolare per i letterati romani a partire da Ennio), trovava una sua armatura formale proprio nelle ripetizioni foniche. La sperimentazione di un nuovo linguaggio poetico si sviluppo in due direzioni principali. La sezione «mitica» del poeta impone a Nevio la «sfida» del linguaggio poetico greco, con la sua inesauribile riserva di epiteti preziosi. La sezione «storica» poneva problemi altrettanto cruciali anche se di natura diversa. => Nevio adatta il suo stile poetico a una lunga narrazione continua, il cui modello sarà stato più nella storiografia che in opere poetiche. Nevi introduce in poesia numerosi termini tecnici e non rifugge da vocaboli prosaici, che la poesia classica scarterà. ↓ Nel complesso, il Bellum Poenicum appare come un’opera di forte sperimentalismo. Dopo il tramonto del saturnio, la fama del poema sarà sempre più oscurata dagli Annales di Ennio. Linguisticamente obsoleto, Nevio epico avrà tuttavia un suo preciso influsso nell’ispirazione dell’Eneide, e mantiene a lungo il suo prestigio come esempio di poesia civile. IL TEATRO L’opera di Nevio presenta forti caratteri di originalità; questo vale anche per la produzione teatrale. Romulus e Clastidium sono i primi titoli a noi noti di praetextae, tragedie di argomento romano. Il Romulus trattava la drammatica storia della fondazione di Roma: uno dei personaggi in scena doveva essere il tiranno Amulio. Il Clastidium, a giudicare dal titolo, doveva essere una celebrazione della vittoria di Casteggio contro i Galli Insubri; il vincitore, Marco Claudio Marcello, morì nel 208, ma non sappiamo quando esattamente la tragedia sia stata composta => un argomento così vicino nel tempo è una grossa novità. Oltre alle praetextae, Nevio compose anche tragedie mitologiche, di cui parecchie legate al ciclo troiano (prediletto anche da Andronico). Due titoli, Equos Troianus e Danae, ricorrevano già in Livio; al ciclo troiano si riallacciava anche l’Hector proficiscens (Ettore che parte per l’ultimo duello con Achille) e l’Iphigenia. Ci rimangono inoltre frammenti di una tragedia storicamente piuttosto significativa, il Lycurgus (il mito trattava del culto di Dionisio, che stava prendendo piede anche a Roma, specie negli strati popolari). Più importante è la produzione comica che fa di Nevio il più notevole predecessore di Plauto, e che suggerisce un talento letterario estremamente versatile: i grandi comici del II sec. non praticano generi «seri», e le commedie di Ennio hanno lasciato poca traccia. Tra i testi comici neviani (di cui restano titoli greci e latini) si distingue la Tarentilla (La ragazza di Taranto), ci cui abbiamo un frammento assai vivace, il ritratto di una ragazza civettona. Dai frammenti si ricava una colorita inventiva verbale, che preannuncia Plauto. Sembra che Nevio componesse palliate d modelli greci, perché Terenzio in un suo prologo segnala che già Nevio usava contaminare i «modelli»; ma qualche titolo potrebbe benissimo indicare opere di ambiente romano (togate). La fortuna di Plauto e Terenzio arrivaò ben presto a eclissare il teatro comico neviano. 5 Il titolo degli Annales fa riferimento agli Annales Maximi, le pubbliche registrazioni di eventi condotte anno per anno. Non dobbiamo pensare che Ennio trattasse tutti i periodi con lo stesso ritmo e la stessa concentrazione. Ennio è molto più selettivo di uno storico, e si occupa (quasi esclusivamente) - giudicare dai frammenti rimasti - di avvenimenti bellici; molto poco invece di vita politica interna. Le fonti => Gli Annales utilizzano ampiamente fonti storiografiche, di natura però a noi misteriosa => l’unica deduzione sicura è che Ennio abbia conosciuto l’opera storica di Fabio Pittore. Tra le fonti poetiche primeggia Omero, anche se lo stile poetico rivela chiari influssi di certa poesia ellenistica. Sembra che Ennio avesse pianificato, in origine, una narrazione in quindici libri. In tal caso, l’opera avrebbe avuto un’efficace conclusione con il trionfo di Fulvio Nobiliore narrato nel XV libro, ed eventualmente con la consacrazione, da parte di Nobiliare stesso, di un tempo per le Muse, le divinità greche del canto e della poesia. (=> al trionfo di Nobiliare già si richiamava l’Ambracia). Per motivi non del tutto chiari - probabilmente per «aggiornare» la sua opera con la celebrazione di altre vittorie romane - Ennio aggiunse poi tre libri al piano originario. La sua opera rimase contrassegnata da due grandi proemi, al libro I e al libro VII: sono i momenti, ben evidenziati nell’architettura complessiva del racconto, in cui i poeta prende più direttamente la parola e svela l’ispirazione e le ragioni del suo fare poesia. ↓ Nel primo proemio il poeta raccontava di un suo sogno [=> il motivo deriva dai proemi alla Teogonia di Esiodo e agli Aitia di Callimaco: era consuetudine che il poeta derivasse il suo canto da un incontro con le Muse, dispensatrici di doni poetici.] => Tuttavia Ennio, che pure aveva care le Muse, immaginò qualcosa di molto più audace: nel sogno appariva l’ombra di Omero, il capofila di tutti i poeti epici; e questo fantasma non solo faceva a Ennio delle rivelazioni, ma addirittura gli garantiva di essersi reincarnato - secondo la dottrina pitagorica sulla metempsicosi, la reincarnazione ciccia e continua delle anime - proprio in lui, nel poeta romano Ennio. => Ennio si presentava così, nel modo più diretto immaginabile, come la reincarnazione e addirittura il vivente «sostituto» del più grande poeta greco di tutti i tempi. Questa scena di iniziano alla poesia resterà famosa in tutti la letteratura romana. => non si potrebbe indicare un simbolo più impressionante della volontà con cui i porti romani si appropriano dei modelli greci, facendosi «incarnare» da essi. Nel proemio al libro VII, il «proemio al mezzo» degli Annales, Ennio dava più spazio alle divinità simboliche di tutta la sua poesia, le Muse che con lui prendevano piena cittadinanza a Roma. Il poeta sottolineava che queste erano proprio le Muse degli grandi poeti greci, non più le «Camene» dell’arcaico e ormai superato Andronico; e certamente polemizzava anche con Nevio, che aveva poetato in saturni, il verso - così lo definisce Ennio - cantato da Fauni vatesque, il verso del passato precivilizzato, adatto alle divinità campestri e agli ancestrali profeti. Ennio è raffigurato come il primo poeta dicti studiosus, cioè, con un preciso calco linguistico dal greco, il primo poeta filologo, cultore della parola; in altri termini, il primo che può stare alla pari con la raffinata cultura alessandrina e con la poesia contemporanea di lingua greca. => I poeti alessandrini del III-II secolo si presentavano appunto come poeti e insieme critici, produttori di poesia e insieme studiosi, e teorici, della letteratura. Ennio, nell’affermare ongolgiosmnete la sua priorità fra i romani, poteva riferirsi all’impronta di essere stato il primo ad adottare l’esametro dattilico, il verso regolare della grande poesia greca. 8 " Annales => come poesia «formativa» Sul piano dei contenuti morali e ideali, gli Annales accentuano una tendenza che già doveva essere operante in Nevio: fissare nel testo epico non solo racconti di gesta, ma anche valori, esempi di comportamento, modelli culturali (così come la Grecia aveva fatto dell’epica di Omero il proprio «Libro» fondamentale). Ennio è il più grande poeta di una cerchia aristocratica che «rilegge» la storia di Roma in funzione dei propri valori ed interessi. => La visione del mondo che Ennio comunica nel suo poema è, per quanto possiamo capire, il trionfo dell’ideologia aristocratica. Gli Annales celebravano la storia di Roma come somma di imprese eroiche, dettate dalla virtus degli individui: degli individui eccellenti, i grandi nobili e magistrati che hanno giudicato disciplinati eserciti alla vittoria. Dai frammenti che emergono ritratti di grandi condottieri e grandi uomini di stato. Ennio attribuiva alla letteratura un grande ruolo: è la posta che deve portare incivilimento. Tipica di questo periodo è la ricerca di una concezione «colta» e «umanistica» della virtus; e infatti Ennio non elogia solo, omericamente, le virtù guerriere, ma anche, forse soprattutto, le virtù di pace: saggezza, moderazione, saper pensare e saper parlare. => Questo aspetto degli Annales fa già pensare alla generazione di Terenzio, e al tentativo di amalgamare tradizionali virtù aristocratiche e cultura greca, sviluppando insieme individualismo e senso delle relazioni sociali in una sintesi modernizzante. <Ennio restò per molti secoli il poeta nazionale romano, raggiunto in questa sfera esemplare solo da Virgilio. Gli Annales non potevano già contenere una sintesi compiuta dell’imperialismo romano. => è bene ricordare che Ennio morì circa un anno prima della tappa più importate di questo processo, la battaglia di Pidna. Certamente la sua opera recava testimonianza di un mutamento, ma difficilmente Ennio poté tracciare un consolidato bilancio: il primo, vero bilancio dell’imperialismo romano sarà tracciato nella generazione successiva da Polibio. LINGUA, STILE E METRICA Ennio è un poeta profondamente e audacemente «sperimentale» => una buona parte dei frammenti enniani sono citati, dai grammatici tardi, proprio per le loro peculiarità (morfologiche, gramamticali, metriche o lessicali) per la presenza cioè di singoli tratti non comuni, o non classici. Accoglie nel suo testo epico numerosi grecismi; non solo parole greche, o costrutti alla greca, ma persino desinenze greche: inventò un occasionale genitivo in -oeo per riprodurre il genitivo omerico in -oio (forma esclusivamente poetica). Abbreviò in do l’accusativo di domus, ancora ricalcando Omero, che ha una forma do per dama, «casa». Scrisse sovente esametri tutti in dattili e tutti in spondei; con pause sintattiche praticamente in ogni punto del verso; escogitò parola come taratantara, per riprodurre il suono di una tromba militare. Particolare interesse è l’allitterazione e la distribuzione dei suoni nel verso. Lo stile allitterante era istituzionale, tipico dei carmina più antichi; lo troviamo nei proverbi, nelle leggi, nelle formule sacrali, e passa anche nei saturni di Nevio. => Ennio lo «importò» nell’esametro, sottoponendo così un verso greco agli effetti di uno stile specificamente romano (nella poesia greca l’allitterazione non gioca un ruolo apprezzabile). Molte innovazioni dello sperimentatore Ennio ebbero grande futuro nella letteratura romana. La ripresa dell’esametro greco fece storia, ma non fu l’unica conquista di Ennio. ⚠ Egli lavorò per adattare la lingua latina all’esametro e l’esametro alla lingua latina. Sicuramente elaborò regole precise per la colorazione delle parole nel verso, per l’incorno di fonemi vocalici e per l’uso delle cesure. => Se i suoi esametri ci sembrano anarchici e capricciosi, è perché ci fa velo il 9 contrasto con i versi fluidi e manierati di Catullo e di Ovidio: ma questi poeti possono ormai contare su una lunga tradizione esametrica. L’aspetto più arcaico dello stile enniano (quello che i porti successivi sentiranno più estraneo e superato) sta nell’incontro fra esametro e stile allitterante. Questo stile ripetitivo era per così dire connaturato a versi come il senario platino o il saturnio neviano: versi metricamente molto liberi, con infinte possibilità di realizzazione. => In quei versi l’allitterazione dava una specie di regolarità, di «armatura» ritmica. => MA l’esametro era, per sua natura e struttura, un verso molto più uniforme e regolare; applicato all’esametro, lo stile allitterante suonava monotono e cadenzato. I poeti successivi faranno un uso più selettivo e misurato delle figure di suono nei loro esametri, cercando di «motivarle», cioè di usarle solo con particolari finalità espressive. Questa evoluzione fu comunque graduale e progressiva. Un autore come Lucrezia è ancora profondamente legato alle temperie stilistica enniana => la soglia decisiva si colloca verso la rivoluzione stilistica dei poetae novi. Al culmine di questa evoluzione, Virgilio allittera molto meno di Ennio, e spesso, lo fa perché vuole suonare enniano, far sentire nei suoi versi il codice di una poesia più antica e tradizionale, ma ormai lontana. 10 - e poi, diminuzione di parti dialogate per far crescere le parti cantate. => è questo un aspetto in cui Plauto si distacca nettamente dai suoi modelli greci: la predilezione di Plauto (senza dimenticare il suo predecessore Nevio) per le forme «cantate» è uno dei fattori principali che regolano il vertere, la ricreazione in latino dei modelli greci. => «Riscrivere» il contenuto di una scena passando dal codice piano e prosaico dei trimetri greci alle fantasiose armonie dei cantica è già, ovviamente, un’operazione di elevata autonomia artistica. La grande forza di Plauto, simbolo della commedia romana antica, sta appunto nel “comico” che riesce ad estrapolare dalla singole situazioni, dalla creatività verbale. Originalità di Plauto: a) linguistica: presenza di giochi di parole, bisticci, metafore e similitudini, bizzarri paragoni mitologici, enigmi, doppi sensi: questo compatto registro di stile è senza dubbio un’iniziativa originale di Plauto. b) strutturale: ristrutturazione metrica e cancellazione della divisione in atti.* = Plauto ha lavarato con tenacia per assimilare i singoli modelli attici e tutto il loro codice formativo (convenzioni, modi di pensare, personaggi tipici, drammaturgia, espressività), ma poi ha lavorato con la stessa intensità per distruggere molte qualità fondamentali dei modelli che si era scelto => elimina sviluppo psicologico, realismo linguistico; proprio le qualità che determinano l’originalità e il valore della Commedia Nuova. Dato di fondo: ⚠ fortissima prevedibilità degli intrecci e dei «tipi umani» incarnati dai personaggi. Plauto vuole questa prevedibilità: non vuol porre interrogatici problematici sul carattere dei suoi personaggi, né ha particolare interesse per l’etica o la psicologia. Come se non bastasse, Plauto tende ad usare dei prologhi espositivi che forniscono informazioni essenziali allo sviluppo della trama, a spese di qualsiasi sorpresa o colpo di scena. Quali sono gli tratti estremamente distintivi della commedia di Plauto, facilmente riconoscibili e descrivibili? => intrecci e personaggi fissi con conseguente prevedibilità di una certa trama, di una storia e di determinati personaggi. => La riconoscibilità dei personaggi era affidata all’abito di scena. ⚠ Si discute sulla presenza delle maschere*: ci sono certamente nel II sec. e le troviamo più avanti ed è probabile che ci fossero anche prima e non solo perché gli autori erano tutti uomini (c’erano le parrucche) ma anche perché le maschere che non servivano solo al riconoscimento ma anche all’amplificazione delle voci. Manoscritto Vaticano Latino 3868, IX secolo, in cui sono contenuti elementi di IV secolo, in cui vediamo che prima di ogni commedia vi è una edicola, nella quale sono inserite delle maschere. Il servo è caratterizzato dall’abito corto, il pallio. Si è discusso se queste immagini risalgono alle rappresentazioni ma è molto probabile che siano la riproduzione, miniatura di un lettore (risalgono al IV secolo). I personaggi in azione si possono ridurre a un numero limitato di «tipi», che riservano in genere epoche sorprese: il servo astuto, il vecchio, il giovane, il lenone, il parassita, il soldato. Questi «tipi» sono inquadrati fin dai prologhi, dove, infatti, si insiste non sui loro nomi propri, ma sui termini tipologici, e il pubblico ha così fin dall’inizio una traccia per capire gli eventi sulla scena. Mentre l’uso di personaggi tipici è una risorsa molto frequente nella drammaturgia, più caratterista è la prevedibilità degli intrecci. => Tutte le pièces si possono ridurre a una lotta fra due antagonisti per il possesso di un «bene»: generalmente una donna e/o (l’equivalenza è a suo modo indicativa) una somma 3 di denaro necessaria per accaparrarsela. La lotta si decide, naturalmente, con il successo di una parte e il danneggiamento di un’altra. A vincere è il giovane, e il perdente ha in sé le giustificazioni del suo essere perdente: è un vecchio, un uomo sposato, un lenone, un ricco trafficante di schiave => la vittoria finale di una parte sull’altra trova piena rispondenza nei codici culturali che il pubblico già possiede, «saturandone» le aspettative legittime. LO SCHEMA DELLA COMMEDIA PLAUTINA Prima della commedia vi è sempre un argumentum, una sintesi della vicenda. In alcuni casi esistono addirittura due argumenta, e uno dei due è addirittura acrostico, in quanto le lettere iniziali dei singoli versi compongono il titolo della commedia. All’inizio della commedia è sempre presente un prologo, in cui un personaggio, una divinità oppure un’entità astratta, personificata, presentano l’argomento della rappresentazione. Un’altra peculiarità della commedia plautina è la facilità nella distinzione nitida, secondo gli antichi dettami, tra i deverbia e i cantica, ovvero tra le parti dialogate, dove gli attori parlano tra loro e le parti cantate, per lo più monologhi. LE COMMEDIE DEL RICONOSCIMENTO Plauto, nella sua commedia, ricorre spesso allo schema classico dell’intrigo amoroso, dove il sogno d’amore incontra sempre delle difficoltà che poi verranno superate. Sono commedie che ruotano tutte su un riconoscimento, un’identità prima nascosta, o mentita, o casualmente perduta, e poi, fortunosamente, rivelata a tutti. Si parla di «commedie del riconoscimento». Queste commedie possono passare per una lunga serie di errori e confusioni di persona (=> si parla allora di «commedia degli equivoci», come nel caso dei Menaechmi), oppure assai spesso il problema dell’identità salta fuori sono nel finale. Il riconoscimento finale, il più conosciuto agnitio, è un ulteriore elemento strutturale importante nelle sue commedie, grazie al quale anche le vicende più intricate, più agognate, trovano una fortunosa soluzione. Tutta la commedia tende al riconoscimento finale o alla soluzione del problema. Per esempio ragazze che compaiono in scena come cortigiane o schiave riescono a recuperare la piena libertà, trovando anche l’amore. Un lieto fine in chiave plautina. La forma di gran lunga preferita - e senza dubbio la più divertente - è quella che si è definito spesso «commedia del servo»: l’azione di conquista del «bene» messo in gioco è delegata dal giovane ad un servo ingegnoso. La coppia «giovane desiderante - servo raggiratore» è la pi solida costante tematica del tetro di Plauto. Il servus è personaggio centrale nel metateatro plautino. Il servus è tra i personaggi più utilizzati nella commedia di Plauto, ha doti che lo fanno essere eroe e beniamino dell’autore oltre che degli spettatori. Questa figura aiuta sempre il protagonista a superare le difficoltà facendo ricorso all’astuzia, utilizzando inganni e trabocchetti. Esistono diverse tipologie di servo, come figura teatrale, per esempio il servus currens o il servus imperator. Nella commedia di Plauto però si delinea chiaramente meglio la figura del servo intrallazzatore. Rappresenta il motore della storia, è sempre al corrente di ciò che accade e trova spesso la soluzione giusta ad ogni situazione o problema. Viene definito servo abile e astuto, molto affezionato al suo giovane padrone tanto da cercarne di favorire l’amore. Il servus è l’artefice della beffa, espediente narrativo fondamentale per rendere la vicenda comica grazia ad intrighi e menzogne. Come la cifra stilistica della commedia plautina, anche il servus callidus trae origine dalla commedia greca. Per completare il quadro manca una forza onnipresente, la Fortuna, la Tyche che è regina incontrastata nel teatro ellenistico. La presenza della Fortuna ha un grande valore stabilizzante. Il servo ha bisogno di una alleato, e la trama comica ha spesso bisogno di uno scatto irrazionale, di un quoziente imprevedibile. 4 «Commedie della Tyche» e «commedie del servo» trovano così un centro di equilibrio, e questi due filoni, i preferiti da Plauto, si saldano in una visione del mondo cha ha inesauribili potenziali di comicità. ⚠ *Bisogna tenere conto del fatto che il testo è nato per la scena, per essere rappresentato; dunque, senza divisione in atti: il testo che noi vediamo è successivo e si deve alla tradizione teatrale. Il teatro antico, in più, non prevedeva tanti attori quante parti: il capo comico nel testo antico aveva affidati tutti o la maggior parte dei cantica. Caratteristica del teatro plautino: - rottura della finzione scenica => ci si rivolge direttamente agli spettatori - spesso l’alter ego del poeta è il servo - i cantica, cioè le parti cantate, sono la parte più importante; arrivavano ad essere anche 1/3 di tutto il testo (è il caso della Casina), mentre nello Pseudolus i cantica sono 1/4; - le creazioni linguistiche, i giochi di parole; tipiche anche del successore di Plauto Cecilio Stazio. Plauso trasforma i suoi modelli secondo tendenze e preferenze che possono, o no, piacere, ma che sono in sé coerenti, orientate in un senso preciso. Plauto tende a trascurare la severa coerenza dell’azione drammatica e le sottili sfumature nel carattere dei personaggi. => Ma NON si deve ridurre il teatro un’unità d’azione e psicologica. Plauso preferisce e costruisce un altro teatro. I «difetti» che la critica spesso riconosce a Plauto (=> mancanza di continuità e di coerenza drammatica, dispersività dell’azione, schematicità della psicologia, convenzionalità dei sentimenti) sono piuttosto sacrifici: Plauto rinuncia a certe virtù dei suoi modelli greci per spostare l’accento su altri interessi. Uno di questi è proprio la costruzione dei personaggi, un tipico «difetto» del teatro plautino. Fra tutti i personaggi della Commedia Nuova Plauto ha chiaramente un suo favorito: è il servo, figura che prende in Plauto uno spaio del tutto eccezionale. é quasi sempre lo schiavo furbo a gestire lo sviluppo dell’intreccio; è lui il solo che, stando sulla scena, può controllare, influenzare, commentare con ironia e lucidità lo sviluppo degli avvenimenti. Il servo, d’alta parte, è una figura atipica, non troppo individualizzata sul piano psicologico. La posizione del servo astuto, che regge le fila dell’intreccio, ne fa spesso quasi un equivalente del poeta drammatico: come se il teatro plautino trovasse in questa figura uno spazio di rispecchiamento => è ciò che alcuni chiamano «metateatro». Non a caso il servo è il personaggio che, più di ogni altro, gioca con le parole. Pur essendo il personaggio socialmente più «debole» sulla scena è lui la figura centrale e il punto di attrazione, per il pubblico e per gli altri personaggi. Gli intrecci plautini: a) rovesciamento dei valori La messa in gioco di un «bene» si tramuta in una fase critica, dove possono vacillare valori sociali e familiari di riconosciuta importanza: persone libere sono trattate come schiave, padri insidiano le donne desiderate dai figli, uomini sposati le pretendono da libertini a spese degli scapoli. In questa fase della struttura narrativa, le commedie minacciano una sovversione di tutto ciò che il pubblico accetta come normale e naturale. => La commedia platina tratta questi conflitti entro il piano comico dell’intreccio, senza mai assumere direttamente, come avverrà in Terenzio, un valore di riflessione critica e di rinnovamento delle mentalità tradizionale. b) riassestamento dei valori Lo scioglimento tipico della commedia consiste in un «rimettere a posto le cose». La punizione del lenone, la sconfitta del vecchio la riunione della coppia di innamorati predestinata, lo scioglimento 5 Terenzio FONTI Il riferimento principale è la Vita Terentii contenuta nel De viris illustribus di Svetonio (composta introno al 100 d.C) e tramandataci come introduzione al commento a Terenzio del grammatico Elio Donato, nel suo De poetis del IV secolo). Ci è, quindi, giunta una biografia che risale in gran parte a Svetonio - autore di biografie sia di carattere storico che letterario - all’interno di un’altra opera, di carattere grammaticale che riguardava l’opera terenziana (lo stesso accade per la vita di Virgilio e Orazio). Svetonio utilizzava ampiamente eruditi di età repubblicana, ma la qualità delle notizie è controversa, dato che molti particolari della vita erano oggetto - fin dai tempi stessi di Terenzio - di voci contrastanti e di polemiche. Il commento di Donato è una delle migliori opere del genere giunte fino a noi. La stessa data di nascita è dubbia perché il 184 è attestato anche come anno di morte di Plauto (era uso nelle biografie antiche sincronizzare nascite e morti di autori che venivano in qualche modo a «succedersi» nell’eccellenza in un determinato genere letterario). Anche l’aneddoto secondo cui Terenzio avrebbe letto il suo primo lavoro - l’Andria - al grande commediografo Cecilio Stazio, ricevendone grande incoraggiamento, potrebbe essere fatto apposta per collegare due diverse generazioni letterarie. VITA La data di nascita non è conosciuta con precisione; si ritiene sia nato lo stesso anno della morte di Plauto, nel 184 a.C.; più probabile una data di circa 10 anni anteriore. Originario di Cartagine, sarebbe giunto a Roma come schiavo di un certo senatore; Terenzio Lucano. Siamo a qualche anno di distanza dalla seconda guerra punica, ma non è chiaro di quale precisa occasione si tratti. Tutte le fonti antiche sottolineano i suoi stretti rapporti con Scipione Emiliano e Gaio Lelio, questi nobili furono sicuramente suoi protettori. Su questi rapporti correvano voci ostili di vario tipo, sia di natura sessuale, sia letteraria; i veri autori delle opere terenziane sarebbero stati Scipione o Lelio (questo tipo di illazioni ha paralleli anche nella biografia di Shaekespeare). È chiaro che queste voci vanno inquadrate nel clima di una rovente polemica, sia letteraria che politica, che caratterizzava quegli anni. Sarebbe morto nel 159, all'età di circa 26 anni (per alcuni morì a 35 anni), o comunque ben prima della terza guerra punica, nel corso di un viaggio in Grecia, intrapreso per scopi culturali. Il dato, se genuino, è interessante, perché questi tour culturali della Grecia diventeranno in seguito caratteristici nella formazione dei Romani colti. Un episodio del genere è riferito anche a proposito della morte di Virgilio. I dettagli sulle circostanze di morte (annegamento) sono poco credibili: si può pensare ad un voluto accostamento con la morte per annegamento attestata anche per il grande comico Menenandro, suo riconosciuto ispiratore. Svetonio riporta alcune ipotesi, tra cui il naufragio e il dolore di aver perduto, con i bagagli, 108 commedie rimaneggiate dagli originali di Menandro reperiti in Grecia. OPERE La cronologia delle opere è attestata con precisione nelle didascalie anteposte, nei manoscritti, alle singole commedie (frutto del lavoro filologico e delle ricerche erudite dei grammatici antichi). Terenzio scrisse soltanto 6 commedie, tutte giunte a noi integralmente: Andria, rappresentata (con medio successo) nel 166; Hècyra (La suocera), rappresentata nel 165 con totale insuccesso (nonostante la bravura di Ambivio Turione, l’attore e impresario teatrale di tutte le commedie terenziane), poi riproposta senza successo insieme agli Adelphoe, infine rappresentata con successo (al terzo tentativo) sempre nell’anno 160; Heautontimorùmenos (Il punitore di se stesso), rappresentata con buone sito nel 163; Eunuchus, nel 161: fu il maggior successo di pubblico e «commerciale» per Terenzio; Phormio, rappresentata (con successo) nel 161; Adelphoe (I fratelli), nel 160. 7 I mod lli greci utilizzati da terenzio, e dichiarati nei prologhi, appartengono tutti alla Commedia Nuova attica: Menandro, Difilo, e il meno celebre Apollodoro di Casto. MODELLI: rispetto a Plauto, Terenzio opera una maggio selezione soprattuto dalla N a (Commedia Nuova, νέα κωµῳδία) nello specifico Menandro (ad esempio, nel caso dell’Adelphoe si ispira a u a comm dia omonima di Meandro, di cui ci sono giunti pochi e ementi). Per questo forte legame artistico col commediografo greco e per il linguaggi e lo stile medio, quotidiano, ispirato a una idea di elega za e purezza, fu definito da Cesare dimidiate Men der, ovvero "Menandro dimezzato”, per a riduzione al to o medio che è quello del dialogo. Inoltre, n tiam come, mentre i t toli delle commedie plautine sono tutti romani n l differenziar i dalla tradizione greca, Plauto mette com titolo della commedia il nome di un servo; il teatro di Terenzio è più ellenizzato: Adelphoe e Andria sono titoli greci e Terenzio non li modifica. Si discute sulla pronuncia di Adelphoe, se fosse mantenuta alla greca o con la ritrazione alla latina. É necessario ricordare qualche nota storica: Le pur controverse notizie biografiche inseriscono Terenzio al centro di quella che gli storici moderni usano chiamare «età degli Scipioni». Il debutto teatrale di Terenzio risulta collocarsi due anni dopo la battaglia di Pidna (168) che, con la definitiva vittoria sui Macedoni, costituì un momento cruciale nell’evoluzione della potenza romana e nei rapporti di Roma con l’oriente greco. Da qui in avanti, per circa 20 anni, si ha un lungo periodo di pace, in cui Roma consolida la sua posizione di potenza imperiale. Di qui in avanti, possiamo parlare di appropriazione del mondo greco, con conseguente modificazione nel gusto e nella mentalità, nella crescita di beni di lusso e dei consumi d’arte, e, soprattutto, negli interessi per nuovi modelli culturali e ideologici. In questo ambito va collocata la casata degli Scipioni, un centro di elaborazione della cultura grecizzante e le innovazioni che apportò Terenzio nella poesia scenica. ↓ Il genere comico era stato, con Plauto, un grande momento di intrattenimento popolare. Poco importa da questo punto di vista quanto fosse profondamente raffinata l’arte di Plauto. => le commedie di Plauto riuscivano ad avere successo presso il più vasto pubblico, il quale (sul piano dei contenuti) non era sottoposto a sforzi di apprendimento e meditazione => le trame offrono al pubblico un convenzionale canovaccio di riferimento, senza che troppo si scavi nella psicologia dei personaggi in azione. LA RICERCA PSICOLOGICA E «TIPIZZAZIONE» ANTICONFORMISTA Gli intrecci terenziani sono quelli consueti dalla Commedia Nuova e alla palliata: giovani innamorati, genitori che li ocntrastano, schiavi indaffarati a soddisfare i desideri dei loro padroncini; e quasi sempre ,alla fine, il «riconoscimento» che risolve la situazione. Il teatro di Terenzio accetta l’inquadramento convenzionale e ripetitivo di queste trame, senza alcuno sforzo di originalità, e lo fa per concentrare l’interesse sui «significati»: per la sostanza umana che è mesa in gioco dagli intrecci della commedia. In questo quadro di sostanziale fedeltà ai «canovacci» tradizionali, la scelta innovativa di Terenzio è quella dell’approfondimento della psicologia del personaggio. Ma è bene intendersi: spesso Terenzio, più che alla rappresentazione psicologica dell’individuo, sembra interessarsi a quella del «tipo» (quindi il giovane innamorato, la ragazza a lui dedita, il padre tradizionalista ecc.). => anche se tipizzati, i personaggi terenziani sono spesso anticonvenzionali: la suocera per niente bisbetica, anzi pensosa della felicità della nuora, la prostituta moralmente migliore di tanta gente «perbene», caratteri inattivi rispetto alle aspettative del pubblico. 8 => Il difficile tentativo di Terenzio è usare un genere fondamentalmente popolare per comunicare anche sensibilità e interessi nuovi. => e a questa tensione innovativa si possono ricondurre le gravi difficoltà incontrate da Terenzio nel suo rapporto con il pubblico (per questo alcune delle sue commedie non ebbero successo!!) + Contribuì, senz’altro, allo scarso successo di Terenzio presso il pubblico di massa, l’approfondimento psicologico, che comportava inevitabilmente una riduzione della comicità. Una delle commedie, l’Hècyraaaa ebbe sorte esemplarmente infelice: alla prima rappresentazione, nel 165, il pubblico le preferì uno spettacolo di funamboli; alla seconda, nel 160, tutti se ne andarono quando - nel bel mezzo della rappresentazione - si sparse la voce che contemporaneamente stava cominciando uno spettacolo di gladiatori; solo alla terza rappresentazione (sempre nel 160) la recita poté arrivare al termine. Le vicende del teatro terenziano sono sintomatiche del declino del teatro popolare italico e del progressivo divaricarsi dei gusti del pubblico di massa e l’élite colta, nutrita di raffinata cultura greca. => il teatro di Terenzio mette in scena gli ideali di rinnovamento culturale dell’aristocrazia scipionica. POETICA E RAPPORTO CON I MODELLI In Terenzio, l’interesse per i contenuti morali e culturali non va a scapito della tecnica drammaturgica. Al contrario, Terenzio è uno dei letterati latini più professioni, più consapevoli degli aspetti tecnici del proprio lavoro. L’interesse di Terenzio per la Commedia Nuova attica, e in particolare per Menandro, mostra bene la coesistenza di due aspetti => egli offriva 1. sia un modello culturale => collegato all’interesse di Terenzio per valori come l’humanitas 2. sia un modello letterario, un raffinato esempio di sole e di tecnica drammatica. ↓ Le commedie di Menandro erano state un modello importante anche per Plauto. Ma Plauto non era particolarmente vicino alla poetica di Menandro: la verosimiglianza, cardine della poetica menandrea, non è per Plauto un valore assoluto. Nella palliata platina il gioco scenico finisce facilmente per rispecchiare se stesso, mettendo in crisi l’effetto di realtà dell’intreccio scenico: è quello che è stato definito il «metateatro» plautino. => Terenzio cura molto di più la coerenza dell’illusione scenica. Lo sviluppo dell’azione non prevede mai sviluppi «metateatrali»; vengono anche rigorosamente eliminate quelle battute dei personaggi che non abbiano una diretta motivazione interna allo svolgimento drammatico e che si rivolgono direttamente al pubblico (interrompendo così l’illusione scenica). => La palliata di Terenzio non apre al suo interno nessuno spazio di autocoscienza. Questi momenti di riflessione vengono tutti concentrati nello spazio del prologo. IL PROLOGO COME «SPAZIO D’AUTORE» L’importanza data al prologo come istituzione letteraria è la principale innovazione tecnica di Terenzio aspetto alla tradizione plautina. Nella tradizione risalente alla Commedia Nuova, il prologo era generalmente concepito come uno spazio espostivio, di informazione preliminare alla comprensione della trama (=> non solo dava gli antefatti dell’azione, ma anticipava anche una parte dello sviluppo della trama e accennava anche allo «scioglimento» => questo metteva il pubblico nella posizione di concentrarsi sullo sviluppo dell’azione, e capace di apprezzare gli effetti dell’ironia che via via sorgevano dalla situazione scenica). ↓ Terenzio rinuncia a questa funzione informativa dei prologhi, anche a costo di qualche oscurità nella conduzione dell’intreccio. Adopera i suoi prologhi come personali prese di posizione dell’autore: chiarisce il rapporto con i modelli greci che ha utilizzato, e risponde a critiche dei suoi avversi su 9 questioni di poetica (introducono discussioni di carattere letterario). => è evidente che questo nuovo tipo di prologo presuppone un pubblico più avanzato, attento a problemi di gusto e di tecnica: senz’altro anche più ristretto e selezionato. ↓ Durante la sua carriera di commediografo (dal 166, anno di rappresentazione della prima commedia, Andria), venne accusato di plagio («furtum») ai danni delle opere di Nevio e Plauto (entrambi condividevano come lui le idee di Menandro) e di aver fatto da prestanome ad alcuni protettori, impegnati in politica, per ragioni di dignità e prestigio che non smentisce mai (l'attività di commediografo era considerata indegna per il civis romano). Terenzio stesso si difese tramite le sue commedie: nel prologo degli Adelphoe (I fratelli), per esempio, egli rifiuta l'ipotesi che lo vede prestanome di altri, segnatamente dei membri dello stesso Circolo degli Scipioni. Venne accusato di mancanza di uis comica e di uso della contaminatio, cioè di «rovinare» i suoi modelli greci creando delle inopportune mescolanze, ibridi di testi diversi (da qui contaminare fabulas, la tecnica di «incrociare» modelli letterari diversi in un unico testo). A questa accusa egli risponde (nel prologo dell’Andria) che così fanno tutti gli altri commediografi (Nevio, Plauto, Ennio) e aggiunge che non può essere accusato di furtum, se usa parti diverse di commedie usate da altri. ORIGINALITÀ DI TERENZIO L’uso dei modelli greci è difficile da riscontrare per noi dal momento che dei suoi originali (i testi di Menandro da lui citati come fonte nei prologhi) non ci sono pervenute che scarsi e casuali frammenti. Il problema dell’originalità è perciò difficile da analizzare in modo conclusivo. " Caratteristiche della commedia di Terenzio: - linguaggio medio - il linguaggio usato da Terenzio è quello della conversazione ordinaria tra persone di buona educazione e cultura, quindi un linguaggio settoriale diverso dallo stile di Plauto, in cui erano presenti neologismi e giochi di parole atti a far ridere lo spettatore; - tema dell’humanitas nei rapporti familiari: particolarmente importante in Terenzio è anche il messaggio morale sotteso a tutta la sua opera, volta a sottolineare la sua humanitas, cioè il rispetto che ha nei confronti di ogni altro essere umano, nella consapevolezza dei limiti di ciascuno, ben sintetizzato dalla sua frase più famosa: «Homo sum: humani nihil a me alienum puto» («Sono un uomo: nulla che sia umano mi è estraneo», Heautontimorumenos, v. 77); - rinnovo dei tipi (è il caso della suocera, dove Sostrata non è litigiosa ma è preoccupata e attenta nei confronti della nuora); - personaggi in cui lo spettatore potesse identificarsi (altro elemento di differenza presente tra i personaggi plautini e quelli terenziani) e viene messa in risalto la psicologia di questi ultimi. Inoltre la figura dello schiavo, il vero personaggio delle commedie di Plauto, viene notevolmente ridimensionata; - ricerca di intreccio complesso, potremmo dire coerenti e meno complessi: caratteristica propria di Terenzio è quella di incastrare più intrecci: «commedia duplex», cioè con due coppie di protagonisti (è il caso dell’Adelphoe). ⚠ Rispetto all'opera di Plauto, tuttavia, quella di Terenzio si differenzia in modo sensibile in vari punti. Innanzitutto, il pubblico ideale di Terenzio è più colto di quello di Plauto: infatti, in alcune commedie si trovano alcuni argomenti socio-culturali del Circolo degli Scipioni, di cui faceva parte. Inoltre, contrariamente alla commedia plautina, denominata motoria per la loro eccessiva spettacolarizzazione, 10 Questo suo cambiamento è in realtà suscitato non da una vero e propria trasformazione, ma dalla voglia di rivincita verso il fratello, molto più benvoluto di lui. Tema del doppio: In tutta la commedia il tema del doppio è presente e ricorre con insistenza. Già dal titolo - Adelphoe, traslitterazione latina del duale greco di Adelfos, “fratello” - si intuisce quanto questa peculiarità sia significativa. I componenti delle varie “coppie” di elementi (i due fratelli anziani, i due fratelli giovani cresciuti da padri diversi, le due ragazze amate, i due modi di vivere delle due famiglie…) sono spesso, sotto vari aspetti, posti in contrapposizione. Dàemea e Micione sono l’uno l’opposto dell’altro, per valori e per occupazioni, e sono spesso in contrasto; l’unica cosa che li accumuna, oltre al legame di sangue, è l’amore che provano verso i propri figli. In loro può essere vista la contrapposizione tra il valore morale della tradizione applicato strenuamente da Demea e la vita liberale, agiata e dedita ai beni terreni vissuta da Micione, che mantiene tuttavia un animo buono e generoso. Anche Ctesifone ed Eschino sono opposti: il primo è timido e oppresso dalla rigidità del padre, il secondo è un fannullone, anche se di indole buona, come suo padre adottivo; tuttavia vanno d’accordo, e si vogliono bene, tanto che Eschino arriva a rapire per Ctesifone la donna che ama. Bacchide stessa, una prostituta, è posta in contrasto, anche se indirettamente, con Panfila, una ragazza povera ma nobile. Sono parecchi i commenti sul testo di Terenzio: Ashmore, Cupaiuolo, Dziatzko - Kauer e 1976, Martin (Cambridge), archive.org. 13 Il teatro dopo Plauto e Terenzio Dopo l’età arcaica, dopo Plauto e Terenzio, non abbiamo più commedie, non ce ne sono arrivate. Assistiamo a una vera e propria crisi della commedia, più precisamente, crisi della palliata, cioè della commedia di argomento greco, che vede l’avanzare della togata (la commedia di argomento romano). => Tra II e I sec. alcuni autori come Titinio e Atta scrivono delle commedie con personaggi romani; l’ambientazione non è più Atene, ma Roma o Velletri e il ruolo del servo, centrale nella palliata, diminuisce rispetto ai tipi più consoni alla famiglia romana. Non è certo il fiorire della togata che mette in crisi il teatro comico: è soprattuto il prevalere di generi popolari. => Nel I sec. a.C abbiamo la produzione di mimi e commedie atellane, neri nati come italici, o anche pre-letterari, che assumono adesso un valore letterario. I protagonisti sono quelli affini al genere comico: ad esempio, un titolo è Maccus Copo di Lucio Pomponio (che significa “lo scemo che è oste”); o anche Maccus agricolo. I temi tipici dell’atellana sono quelli molto corporei: «ci sono due azioni tipiche dell’atellana e sono il mangiare e il cacare». Una comicità di questo genere, rispetto a quella di Terenzio, è più volgare, più di consumo. Ci avviciniamo a un genere che diventa molto comune in età imperiale: letteratura d’uso, cioè solo per l’intrattenimento. Il prevalere di questi generi rispetto alla commedia fa si che questa via via scompaia. Nel frattempo il canone della tragedia ci ha consegnato solo testi di età imperiale e nulla di quanto era stato prodotto in età arcaica. Il teatro nasce con Livio Andronico con una produzione tragica, quindi abbiamo di sicuro una tradizione di tragedia in età arcaica ma non c’è arrivata. ⚠ C’è dunque stata una selezione con la quale sono stati individuati dei canoni e tutto il resto non è stato più copiato: Plauto e Terenzio per la commedia, Seneca per la tragedia. Sappiamo che la tragedia fiorisce in età arcaica. Quali sono gli autori di tragedie? 1) Livio Andronico e Nevio (III sec.) 2) Ennio e Pacuvio (tra III e II sec.) 3) Accio tra il 170 e l’85 (quindi, tra II e I sec.) => Produzione interroga di tragedie che va dal III sec. al I sec. a.C. Poi la tragedia entra in crisi. Anche la tragedia, come la commedia, è di due tipi: - la coturnata: di argomento greco - la praetexta: di argomento romano La differenza tra la tragedia greca e quella romana è determinata dalla struttura del teatro romano: quello greco è un teatro monumentale con una grande orchestra, il che permetteva al coro grande movimento. Lo spazio del teatro romano non è lo stesso: all’inizio era un teatro improvvisato, per strada, e questo fa si che le parti corali si riducono notevolmente, addirittura la parte del coro venne ridotta al corifeo (viene affidata a gruppo ridotti a addirittura a uno solo = il corifeo), e veniva recitata e non più cantata. Questa evoluzione e modifica generale della struttura del coro è anche dovuta a una questione di gusti: le parti corali sono previste nella commedia greca (Aristofane), ma se pensiamo a un autore come Menandro, queste parti sono sostituite con intermezzi di carattere musicale. Quindi: non è solo una questione di spazi ma anche di gusti: la funzione del coro in generale nel teatro dall’età classica (V sec.) fino al teatro ellenistico si riduce. Sulla tragedia influisce poi anche lo spazio. 33 Che cosa prevede la scena? Come possiamo anche ricavare da una terracotta policroma, oggi conservata al Museo Nazionale di Palazzo Massimo a Roma in cui è rappresentata Andromaca che tiene per mano il figlio Astianatte, l’unico bambino della scena, con in testa un capello frigio, l’argomento della tragedia romana è legato al mito troiano che è il tema cardine della storia romana delle origini (anche l’epica tratta questo argomento). I protagonisti della tragedia sono: Achille, Aiace, il cavallo troiano; lo stesso Nevio; anche Ennio predilige questo tema ma più in generale tende a imitare Euripide, e quindi Andromaca e Medea. Dunque: = tema troiano + modello euripideo Questa scelta è motiva da ragioni di carattere stilistico: il teatro Euripideo è pieno di ricorsi alle sentenze, ma anche da questioni filosofiche e psicologiche: insistenza sul carattere drammatico e tragico dei personaggi. Questo, ovviamente, non è una norma, il che vuol dire che non esclude il modello sofocleo (tema di Edipo). Quindi: sappiamo che la tragedia fiorì in età arcaica fino al I sec. a.C. e che poi ebbe una sua crisi. Augusto cerca di far fiorire la tragedia, e il suo tentativo si spiega in vista del suo valore originario, cioè quello politico.* Ecco perché in età augustea troviamo autori di tragedie: - Vario - Ovidio con la sua Medea di cui ci sono pervenuti solo dei frammenti e il cui contento e carattere possiamo desumere dalla Medea di Seneca e dalle altre opere dello stesso Ovidio (le Metamorfosi e le Eroidi) La volontà di Augusto di far rifiorire la tragedia è testimoniata dalle opere di Orazio: Ars poetica e l’Epistola I del II libro o anche detta Epistola ad Augusto => le quali trattano il tema del teatro; nell’Ars poetica si tratta il prepon, cioè l’argomento, che cosa è adeguato per ogni genere letterario e poi in generale quali sono i personaggi e i temi caratteristici per ogni tipo di rappresentazione. Cosa fa Ovidio? Ovidio trasforma la tragedia in senso retorico ancora di più di quella Euripidea. L’apporto di Ovidio alla tragedia lo possiamo misurare attraverso Seneca, perché quella di Ovidio non c’è arrivata. La Medea di Seneca è Medea maga, è rappresentata mentre ordisce i suoi veleni e racconta le sue ricette nel dettaglio. Si apre con un soliloquio in un ambiente oscuro perché abbiamo una allocuzione diretta a Selene (Diana) che è anche la luna. Seneca riflette su questa caratteristica di Medea maga e questa rappresentazione lo troviamo proprio nella Medea di Ovidio, nelle Metamorfosi. Leggendo il testo di Seneca abbiamo un ripresa delle sentenze retoriche di Ovidio. Cosa è cambiato dalla tragedia arcaica a Seneca?* La formazione scolastica e letteraria a Roma. In particolare, da Cicerone in poi e nell’età di Seneca il Vecchio sono previsti degli esercizio scolastici di carattere retorico. Questo fa si che da questo momento lo stile diventa estremamente retorico, come si vede in Seneca. Ciò porta E. Norden (Prosa d’arte latina) a definire - vedendo la differenza di stile di autori come Seneca e Lucano, rispetto a quelli di età imperiale - il nuovo stile della tragedia Nuovo. 34 RAPPORTO CON I MODELLI GRECI Di quasi tutte le tragedie senecane possediamo i corrispettivi modelli greci, nei confronti dei quali è possibile valutare l’atteggiamento dell’autore. Rispetto a quello tenuto dai tragici latini arcaici, in Seneca si denota una maggiore autonomia (=> dopo la grande stagione augustea, la letteratura latina non si limita a «tradurre», ma si misura alla pari con quella greca, in libera emulazione), e al tempo stesso però presuppone un rapporto continuo col modello, sul quale Seneca opera interventi di contaminazione, di ristrutturazione, di razionalizzazione nell’impianto drammatico. *Anche se diretto, il rapporto con gli originali greci è mediato comunque dal filtro del gusto e della tradizione latina. => il linguaggio poetico delle tragedie ha la sua base costitutiva nella poesia augustea (molto cospicua e pervasiva la presenza di Ovidio), dalla quale Seneca mutua anche le raffinate forme metriche, come i metri lirici orazioni usati negli intermezzi corali. Le tracce della tragedia latina arcaica si avvertono soprattutto nel gusto del pathos esasperato, nella tendenza al cumulo espressivo e alla frase sentenziosa: => la ricerca delle sententiae è alimentata dal gusto retorico del tempo. Questa tendenza si di manifesta anche nella frammentazione dei dialoghi in serrate corrispondenze stichiche (un verso per ogni personaggio), in una costante ricerca della brevitas asiana. => Da sempre infatti sul teatro di Seneca grava il marchio della retorica asiana, percepibile nella continua tensione, nell’enfasi declamatoria, nello sfoggio di erudizione, in quelle tinte fosche e macabre che hanno propiziato la fortuna moderna di Seneca tragico. Spesso l’esasperazione della tensione drammatica è ottenuta mediante l’introduzione di lunghe digressioni (= ekphràsies) che alternano i tempi dello sviluppo scenico, inserendosi nella tendenza, proprio del teatro senecano, a isolare singole sceme come quadri autonomi, estraniati dal contesto della dinamica teatrale (=> il che contribuisce a far pensare che questi «pezzi di bravura» dovessero esser letti nelle sale di recitazione). L’OCTAVIA Oltre alle nove tragedie senecane, il ramo secondario della tradizione ne trasmette un’altra intitolata Octavia: vi si rappresenta la sorte di Ottavia, la prima moglie di Nerone da lui ripudiata, una volta innamorato di Poppea, e fatta uccidere. => Si tratta, quindi, di una tragedia di argomento romano, una praetexta (l’unica rimastici), ma la sua autenticità è oggi negata. Le ragioni principali contro l’autenticità, al di là del forte sospetto ingenerato dal fatto che lo stesso Seneca vi compare come personaggio del dramma, sono nella descrizione di un avvenimento come la morte di Nerone (nel 68, successiva di tre anni a quella di Seneca), preannunciata dall’ombra di Agrippina, condotta in maniera troppo corrispondente alla realtà storica per non far sospettare che la profezia sia stata scritta ex eventu, da qualcuno che aveva cioè conoscenza esatta di come le cose si erano svolte. Inoltre, l’autore mostra grande familiarità con l’intera produzione senecana: sembra trasferire nella tragedia brani versificati tratte dalle sue opere filosofiche. Mostra, quindi, sul piano stilistico, affinità notevoli con le tragedie autentiche, andrà collocata in un ambiente vicino a Seneca, e in anni non troppo posteriori alla sua morte (70-80 d.C.) " Le caratteristiche delle tragedie senecane sono: - Seneca si ispira ai modelli greci ma insiste sull’umanizzazione dei personaggi (tratto che era già tipico di Euripide), alla loro drammatizzazione in senso romano; - mette in scena scontri familiari - aggiunge scene cruente che è una delle ragioni per cui ha grande successo nella letteratura inglese del Rinascimento (es.: Orazio nell’Ars poetica ci dice che la Medea non uccide i figli in scena, invece, nella Medea di Seneca, vengono uccisi sulla scena) - modifica la plot, inserendo su scene di carattere riflessivo generale, quindi di carattere filosofico, che affida al coro. Possiamo parlare di una vera e propria differenza di ritmo della tragedia tra Seneca e i suoi modelli. 37 La Phaedra La Fedra di Seneca si ispira, presuppone il celebre modello euripideo: l’Ippolito (quello superstite ma anche quello anteriore, perduto), nonché probabilmente, una tragedia perduta di Sofocle e la quarta delle Heroides ovidiane. Tratta dell’amore incestuoso di Fedra per il figliastro Ippolito e del drammatico destino che si abbatte sul giovane, restio alle seduzioni della matrigna, la quale si vendica, denunciandolo al marito Teseo, padre di Ippolito, e provocandone la morte. Il tema centrale, affrontato anche da Ovidio in una epistola, è quello dell’incesto, la violazione e il rovesciamento delle leggi di natura. È importante sottolineare che la valenza del mito è diversa da Euripide a Seneca: a Roma l’incesto viene percepito in modo diverso, vi era persino una legge di Augusto contro i rapporti incestuosi; l tragedia senecana ha, dunque, un carattere sociale e giuridico. Differenze tra il modello euripideo e la versione senecana: - mentre nell’Ippolito di Euripide Fedra si dichiara ad Ippolito mediante una lettera, che sarà poi quella lettera che poi che scrive Ovidio, nella sua Fedra Seneca sostituisce la lettera con un dialogo tra i due. - Ippolito viene accusato dal padre Teseo che gli augura la morte. Mentre in Euripide solo due versi sono dedicati alla morte di Ippolito che alla fine, dopo un dialogo, si riconcilia con il padre, in Seneca la scena cruente della morte è descritto nel dettaglio e non vi è alcuna riconciliazione. - In entrambe le commedie Fedra muore suicida: nell’Ippolito tramite impiccagione, nella versione senecana si procura la morte con la spada. Questa incongruenza non è indifferente, al contrario vi è una differenza simbolica tra il suicidio per impiccagione e quello per spada: il primo è il suicidio dei vili, il secondo è simbolo di una morte eroica (=> la stessa Didone muore suicida per un colpo di spada). ↓ La tragedia di Seneca culmina, dunque, con la morte della protagonista, Fedra, la vera protagonista di questa versione. Questo spiega, anche, lo slittamento del titolo. L’Oedipus - La tragedia di Sofocle è corale, nel senso che abbiamo vari personaggi che entrano ed escono dalla scena. - La versione di Seneca è individuale (per cominciare: nel prologo abbiamo un monologo). Il tema dell’Edipo è la scoperta, una scoperta progressiva, la scoperta della propria origine e poi della propria colpa: l’incesto e l’assassinio. Si è detto che Edipo raccoglie i tecmeria, gli indizi attraverso cui giungere alla conclusione, metodologia di Ippocrate. - La tragedia di Sofocle è una scoperta per gradi (v. 343) - Quella di Seneca è una tragedia retorica e statica, immobile. In Seneca, già al verso 36, Edipo si dichiara colpevole: la tragedia è già finita, i personaggi sanno già tutto; è una tragedia interiore, non di azioni ma di parole, Seneca insiste sul procedere dello stato d’animo e sulle riflessioni. Nel saggio di Mastronarde si sottolinea come nell’Edipo troviamo anticipati nel prologo tutti una serie di temi che troviamo poi sviluppati nella commedia. Rivalutazione del 900 delle opere senechiane: saggio su Seneca di Eliot, che oltre a essere uno scrittore era anche uno studioso del teatro vittoriano e a lui si deve una definizione famosa: in Seneca tragico «il dramma è tutto nella parola». 38 Per Eliot, non ci sono conflitti se non quelli della passione, quelli del desidero con il dovere. L’Edipo è un dramma personale, individuale e questo fa si che l’azione si sposti dalla scena alla parola: AZIONE INTERNA. Questo spiega perché il teatro senecano è stato definito come una tragedia retorica: se il dramma viene retorizzato, spostandosi dalla scena alla parola, la parola è tutto. Dunque, la differenza tra l’Edipo di Sofocle quello di Seneca è una questione anche di stile, di modalità narrativa e di tempi. - Nell’azione sofoclea abbiamo una riscoperta del passato, una raccolta di indizi che portano Edipo a scoprire la sua colpa; - l’azione di Seneca è concentrata sul presente (Paduano), tragedia narcisistica: tutto passa tramite Edipo: quella che si racconta è la sua interpretazione della realtà. L’Edipo di Sofocle, per Seneca è una tragedia sbilanciata: al v. 343 Tiresia sostiene che è Edipo l’origine di tutti i mali, smascherandolo. Edipo, però, non ci crede perché egli è un uomo razionale e sa di non essere figlio di Laio, e quindi non si ritiene essere colpevole; egli sa di avere ucciso un vecchio, ma non sa che era Laio, suo padre. Vi è, quindi, in Sofocle, un personaggio che sa e che a un certo punto dice la verità, facendo scattare quella che è stata definita l’ironia tragica: al verso 343 si scopre il colpevole, si viene a sapere la verità e gli spettatori sapendo quello che il solo Edipo ignora, possono apprezzarne la tragicità di una fine che loro possono già immaginare. La profezia di Tiresia porta Edipo a pensa che Creonte e Tiresia ordinano un complotto contro di lui per scalzarlo dal trono. Egli, in effetti, aveva diritto di governare in quanto sposo di Giocasta e perché aveva salvato la città risolvendo l’Enigma della sfinge, ma egli non è tebano e non è un discendente di Laio: sente il suo potere messo in discussione. Il tema edipico sarò sfruttato, nello specifico nel 600, quando sarà in molti casi ripreso per parlare di legittimità del potere. La differenza strutturale tra le due versioni è affidata a due scene centrali che Seneca introduce per ritardare lo svelamento. - un exstispicio, un sacrifico in cui un augure, Tiresia, consulta le viscere e si vede che le viscere sono invertite - una evocazione: dopo le viscere, viene allora chiamato dal mondo dei morti Laio, è un caso si descrizione infera in Seneca, in un bosco, perché le sono boscose sono considerate di accesso agli inferi. È, dunque, Laio evocato, nella versione senecana, a dirci chi è il colpevole. Seneca mette in atto una operazione che il teatro moderno poi recupera ed è il rallentamento dell’azione per non far scoprire subito il colpevole. Ne viene una tragedia caratterizzata dal dubbio: il Tiresia di Seneca non conosce la verità e non la conosce nemmeno tramite il sacrifico, mentre in Sofocle Tiresia era l’unico a conoscere la verità. La fase successiva è analoga a quella di Sofocle: morte naturale di Polibo, il padre adottivo di Edipo e arrivo del pastore, a cui Seneca darà il nome di Forbante e così lo conosceremo in tutta la tradizione teatrale successiva, che, presente all’omicidio di Laio, riconosce Edipo. Perché Edipo si acceca? Vuole una morte lunga, cerca una punizione che sia degno della sua colpa, la morte è una sofferenza troppo breve; egli vuole una morte che lo tenga lontano dai suoi genitori. 39 Fondandosi su queste attestazioni, è probabile che il valore di «mescolanza e verità» fosse quello originario e che lo si percepisse anche nell’impiego letterario del termine. Il nome, dunque, non è greco [=> come non lo è atellana: mentre quasi tutti gli altri generi letterari a Roma hanno correntemente nomi greci]. Quintiliano contrappone la satira agli altri generi: satura quidem tota nostra est, «la satira è un genere integralmente romano». I tentativi degli stessi poeti satiri di crearsi una specie di genealogia retrospettiva in Grecia chiamando in causa la mordacità della commedia ateniese del V secolo (Aristofane), o ispirandosi ai giambi di Callimaco, non incidono su quello dato di fondo. Per quanti apporti culturali greci la satira abbia via via accolto, la stessa struttura «aperta» del genere incoraggiava innesti e mescolanze, l’impulso originario è specificatamente romano. LA SATIRA COME «SPAZIO PERSONALE» La satira risponde alla ricerca di un genere letterario disponibile ad esprimere la voce personale del poeta. Se consideriamo come riferimento l’epoca di Ennio, la produzione letteraria latina ci appare già assai articolata: nessuno dei generi canonici di poesia prevede uno spazio di espressione «diretta», il cui poeta possa rispecchiare il suo rapporto con se stesso e con la realtà contemporanea. SATIRA ENNIANA Varietà, voce personale, impulso realistico, sono caratteri che in qualche modo discerniamo anche nei frammenti di satira enniana. Si tratterebbe di 4 o 6 libri, ognuno formato da più componimenti in metro vario. Ma vari, soprattutto gli argomenti ricostruibili: una favoletta di un contadino e di una allodola, il ritratto satirico di un parassita, dialoghi, un dibattito tra Vita e Morte; soprattutto, interventi in prima persona del poeta e accenni di autoritratto. Per questo aspetto, Ennio ha un posto improntate nello sviluppo di un’«autocoscienza» del poeta. Non sappiamo, invece, se già la sua satira contenesse spunti di polemica e veri e propri attacchi a personaggi contemporanei. Saremmo inclini a cercare piuttosto in Nevio - noto per i suoi attacchi a una certa famiglia nobiliare - questa dimensione aggressiva del satirico: ma non è neppure certo che Nevio componesse saturae e della satira di Pacuvio ignoriamo tutto. Comunque sia, questa forma di poesia varia (per metro e per temi) e personale, cioè aperta alla voce del poeta e del realismo quotidiano, si offrì a Lucilio come un ideale mezzo espressivo da perfezionare. La grande importanza storica di Lucilio sta nell’esserci concentrato esclusivamente sul genere della satira - che Ennio, non dimentichiamolo, aveva praticato come un genere minore fra tanti altri, subordinato all’epica e alla drammaturgia. Lo sviluppo della satira significa anche la crescita di un nuovo pubblico, interessato alla poesia scritta, culturalmente avvertito, e desideroso di una letteratura più aderente alla realtà contemporanea. => Lucilio diceva di volere per sé lettori che non fossero né troppo docti né troppo poco. => Non a caso deride il gusto enfatico e declamatorio e i generi poetici elevati: questa è un’altra improntate convergenza tra Lucilio e il gusto callimacheo, e un altro filo che connette Lucilio all’esperienza neoterica. TEMI DELLE SATIRE LUCILIANE: a) la parodia del Concilium decorum b) descrizione di viaggi; il filone gastronomico c) l’amore; le questioni letterarie Una produzione di 30 libri non può certamente essere ricostruita sulla base di frammenti brevi. Per quanto sappiamo, Lucilio affrontò uno spettro molto ampio di argomenti. 2 Il I libro componeva una ampia composizione nota come Concilium deorum; attraverso una parodia dei concili divini, scena tipica dell’epos (Omero, Ennio); Lucilio prendeva di mira un certo Lentulo Lupo, personaggio inviso agli Scipioni: gli dei decidevano di farlo morire per indigestione. La mescolanza di parodia letteraria e contenuto libellistico ci ricorda un’opera come sarà l’Apokolokyntosis di Seneca. Il III libro conteneva la colorita narrazione di un viaggio in Sicilia: il tema del viaggio che ritroveremo per esempio nella satira oraziana; e in più di una satira si fornivano precetti culinari. Nel libro XXX si descriveva un sordido banchetto; più in generale accenni alla gastronomia connessi con il tema polemico del lusso a tavola ricorrono in più libri. Il libro XVI pare fosse dedicato alla donna amata: quindi Lucilio è anche un antesignano della poesia personale d’amore, tendenza che ritroveremo sempre più centrale negli epigrammi catulliani e nell’elegia augustea. 
 Sono poi ampiamente attestate disquisizioni su problemi letterari: giudizi su questione di retorica e di poetica, vere e proprie analisi critico letterarie e grammaticali. IL «REALISMO» STILISTICO DI LUCILIO Non possiamo dire quanto le satire luciliane - nel loro ampio sviluppo cronologico - fossero legate da un programma unitario, ed è comunque pericoloso immaginare questo poeta come una sorta di riformatore. È invece chiara l’esistenza di un programma unitario e innovativo, sostenuto da una personalità di vivace anticonformismo. La sua poesia rifiuta un unico livello di stile, e si apre in tutte le direzioni: amalgama il linguaggio elevato dell’epoca, rivissuto come parodia, e i linguaggi specializzati che finora restavano esclusi della poesia latina: parole tecniche, di retorica, scienza, medicina, sesso, gastronomia, diritto e politica; e forme di linguaggio di tutti i gironi, attinte ai diversi strati sociali. In questa prospettiva Lucilio è quanto di più vicino al realismo moderno offre la letteratura latina: tende persino a simulare l’improvvisazione. La critica del poeta batte con vivo umorismo sui più diversi aspetti della vita quotidiana, rivissuti alla luce di ideali filosofici, visti nel loro contrasto con la realtà. In questo senso, non manca un impegno educativo, intimamente legato alla critica sociale e all’anticonformismo. La disarmonia dello stile di Lucilio è certamente una scelta meditata, rivolta a un preciso programma espressivo, che fonde insieme vita e arte. LA FORTUNA DI LUCILIO Come voce «personale» del genere satirico (ex praecordiis ecfero versum, dice un suo celebre frammento), Lucilio resterà un modello per tutti i poeti satirici latini, da Varrone in poi. Orazio critica Lucilio come poeta del suo tempo, per la vena torrenziale e la scarsa finitura formale; ma lo consacra quale inventor della satira. D’alta parte, almeno un’aspetto dell’eredità di Lucilio andò inevitabilmente perduto: un certo tono di vivace polemica personale, anche politica, era legato a precise condizioni sociali e istituzionali: nella Roma imperiale, la satira dovrà cercarsi altri bersagli. Per quest’aspetto, Orazio sente Lucilio lontano da sè, quasi quanto è lontana la commedia di Aristofane. 3 La satira sotto il principato: Persio e Giovenale Anche se la rispettiva produzione poetica è separata da circa mezzo secolo (l’uno scrive sotto Nerone, l’altro nell’arco di tempo da Nerva ad Adriano), Persio e Giovenale mostrano importanti tratti comuni. Tutti e due dichiarano di ricollegarsi alla poesia satirica di Lucilio e di Orazio, ma, al di là delle intenzioni programmatiche, questo genere letterario conosce una trasformazione piuttosto marcata. Le innovazioni sono vistose sia nella forma che ora assume il discorso satirico, sia per quel che riguarda la destinazione sociale delle opere. Le satire di Lucilio e Orazio, ad esempio, assumevano come verosimile riferimento la cerchia degli amici, mentre quelle di Persio e Giovenale, pur se formalmente rivolte a un destinatario singolo, sono in realtà dirette a un pubblico generico di lettori-ascoltatori, di fronte ai quali il poeta si atteggia a censore del vizio e dei costumi. La forma del discorso non più quella della conversazione «costruttiva» che, mentre guarda ai difetti umani, si dispone a sorridere e a far sorridere: nasceva di qui, nella satira oraziana in particolare, una sorta di complicità fra autore e ascoltatore, che era il segno di una comunanza di linguaggio abilmente conquistata; l’ascoltatore, quasi diventava attivamente compartecipe nell’elaborazione di un modello di vita. Ora che all’ascoltatore è negata ogni vicinanza e ogni possibile identificazione, la parola del poeta satirico si pone su di un piano diverso di comunicazione: distacca e più alto. La forma dell’invettiva prende il posto del modo confidenziale e garbato, del sorriso autoironico, dall’indulgente comprensione per le comune debolezze umane che caratterizza la satira oraziana. => Il poeta, mentre si erge a correggere gli uomini, fa sue quelle forme di moralismo arcigno che proprio la satira oraziana aveva rifiutato. Si notano nella poesia di Persio e Giovenale i segni vistosi di un nuovo gusto letterario; sono le spinte anticlassiche di quel «manierismo» che nasce in reazione al classicismo dell’eta augustea e fiorisce nel primo secolo d.C. e oltre. La trasformazione dei caratteri formali della satira post-oraziana si deve anche alle mutate modalità della sua produzione e destinazione: prima alla lettura individuale, la satira di Persio e Giovenale è destinata all’esecuzione orale, alla recitazione in pubblico e punto naturalmente a far colpo sull’uditorio: il ricorso ai procedimenti più appariscenti della retorica e direttamente funzionali a tale scopo. PERSIO: OPERE Della sua non copiosa produzione Persio non pubblicò nulla in vita: si prese cura dell’edizione delle sue opere l’amico Cesio Basso, dopo averle sottoposte alla revisione di Cornuto al quale Persio morendo aveva anche lasciato la sua ricchissima biblioteca. Questi sconsigliò la pubblicazione delle prime prove poetiche (una tragedia praetexta, un libro di viaggi, un elogio dell’eroica Arria Maggiore), autorizzando, invece, dopo lievi ritocchi, sulla parte finale dell’opera quella del libro delle satire, che fu accolto da immediato successo. PERSIO: LA FORTUNA Anche Quintiliano e Marziale attestano la fama conseguita da Persio con il suo unico libretto. Fama che cresce e si diffonde soprattutto fra gli apologisti e i Padri della Chiesa (Tertulliano, Lattanzio, Girolamo, Agostino), ma anche fra i poeti e i grammatici della tarda antichità (quando fiorisce attorno a quel testo così oscuro un’intensa attività di glossatori e scoliasti) e resta alta per tutto il Medioevo che ovviamente apprezza in Persio il moralista intransigente. 4 LA FORTUNA La fama di Giovenale, ignorato dagli scrittori del II e del III secolo, fiorisce nel IV, soprattuto tra poeti e grammatici (come Servio), quando comincia a nascere quella messe di scolii che sarebbe proseguita per tutto il Medioevo a conferma della sua diffusione nelle scuole.=> Diffusione favorita ovviamente dal carattere spiccatamente moralistico dei suoi versi e attestata anche alla grande quantità di manoscritti trasmessici (più di 100). Noto a Dante, a Petrarca e agli umanisti, Giovenale conoscerà grande fortuna soprattutto nella tradizione satirico moralistica europea, da Ariosto a Parini, da Alfieri a Hugò a Carducci. Marziale Marco Valerio Marziale nacque a Bilbilis, nella Spagna Terragonese, il primo marzo di uno degli anni che vanno dal 38 al 41 d.C. (queste e altre notizie biografiche ci vengono dai versi e da una lettera di Plinio il Giovane). Venne a Roma nel 64, trovandovi il generoso appoggio della famiglia spagnola più in vista nella capitale, quella di Seneca, che lo introdusse nella buona società: conobbe Calpurnio Pisone e gli ambienti dell’opposizione senatoria a Nerone, sui quali però nel 65 si doveva battere la cruenta repressione dell’imperatore. Da allora, per alcuni anni, condusse probabilmente vita modesta, svolgendo attività poetica come cliente. Dovette comunque ottenere una certa notorietà se nell’80 compose e pubblicò una raccolta di epigrammi per celebrare l’inaugurazione del teatro Flavio: l’opera gli valse un riconoscimento, anche economico, del nuovo imperatore Tito. Dall’84-85, comincia a pubblicare regolarmente i suoi componimenti: il suo successo gli arrise, e ricoprì anche cariche onorifiche (fu tribuno militare, e quindi ottenne il rango equestre), vendo a contatto con personalità eminenti (come il futuro imperatore Nerva e scrittori quali Silio Italico, Plinio il Giovane, Quintiliano, Giovenale), ma non ne conseguirono consistenti benefici economici. => Sono ricorrenti le sue lamentele per i disagi sofferti e per la difficoltà di trovare protettori e patroni disposti a concedergli riconoscimento e sostegno. Nell’87-88, infastidito dalla vita cittadina, lascia Roma per un soggiorno a Forum Corneli (Imola) e in altre città emiliane, ma torna dopo breve tempo nella capitale, che lascia definitamente nel 98, quando si decide a tornare (grazie all’aiuto di Plinio il Giovane che gli paga il viaggio) nella su Bilbilis. Li trova la tranquillata cercata ma anche la grettezza di un ambiente provinciale dove rimpiange la turbolenta vita di Roma, deluso e sempre inquieto muore a Bilbilis verso il 104. OPERE Di Marziale ci resta una raccolta di epigrammi distribuita in 12 libri composti e via via pubblicati tra l’86 e il 102 d.C. Tale corpo centrale è preceduto da un’altro libro a sé di una trentina di epigrammi (Epigrammatum liber), composto autonomamente nell’80 e oggi noto come Liber de spectaculis o Liber spectaculorum, e seguito da altri due libri (comunemente citati come XIII e XIV) dotati anch'essi di titolo autonomo. => Xenia e gli Apophoreta, pubblicati tra l’84 e l’85: si tratta di brevissime iscrizioni ognuna di un solo distico, per accompagnare a mo’ di etichetta apposta nell’oggetto doni di varia natura, in occasione della festa dei Saturnali. La disposizione attuale dell’intero corpus marzialiano riproduce probabilmente quella di una edizione antica, successiva alla morte dell’autore. I metri sono vari: accanto al distico elegiaco, largamente prevalente, sono frequenti anche falecio e scazonte, ma non mancano altri metri diversi. Varie sono anche le dimensioni dei componenti: dall’epigramma di un solo distico a quelli di dieci o più versi, fino ad alcune decine. Nell’ordinare gli epigrammi nei libri, Marziale ha distribuito in modo equilibrato e vario i carmi facendo attenzione al loro metro e all’estensione, attento soprattutto ad evitare ripetitività e piattezza. 7 L’EPIGRAMMA Un aspetto importante della cultura letteraria dell’età dei Flavi, nel clima di restaurazione morale che la caratterizza, è la tendenza al recupero del genere poetico più alto: l’epica (Stazio, Silio Italico, Valerio Flacco); ma si assiste anche alla diffusione e al cospicuo successo di un genere come l’epigramma che - è lo stesso Marziale ad attestarlo - è considerato il più umile di tutti. A Roma l’epigramma non aveva una grande tradizione: fra i suoi auctores Marziale indica, accanto ai poeti minori (Domizio Marso, Albino Vano Pedone, Lentulo Getulico), soprattutto Catullo, che svolge un funzione importante di mediazione fra cultura greca e latina nella storia di questo genere letterario. EPIGRAMMA COME POESIA COMMEMORATIVA E COME POESIA D’OCCASIONE L’origine dell’epigramma risale all’età greca arcaica, dove la sua funzione era essenzialmente commemorativa: era inciso ad esempio su pietre tombali o su offerte votive, a ricordare una persona, un monumento, un luogo o un evento famoso. In età ellenistica l’epigramma, pur conservando la sua caratteristica brevità, mostra di essersi emancipato dalla forma epigrafica e dalla destinazione pratica: è un tipo di componimento adatto alla poesia d’occasione, a fissare nel giro di pochi versi l’impressione di un momento, di un piccolo avvenimento quotidiano (la funzione svolta dal sonetto e dalla lirica nella poesia moderna). I temi sono di tipo leggero: erotico, simposiaco, satirico-parodistico, accanto a quelli più tradizionali, ad esempio di carattere funebre. Nell’ambito della poesia latina, l’epigramma non aveva una grande tradizione e di essa ben poco ci è rimasto: con l’eccezione di Catullo, quasi nulla sappiamo dei poeti che Marziale indica come suoi auctores. È vero, per altro, che, oltre ai poeti di professione, molti uomini politici amavano comporre versiculi, per questi la poesia epigrammatica era poco più di un modo raffinato di impiegare il loro otium, quasi un passatempo senza grandi ambizioni di dignità letteraria. => È solo con l’opera d Marziale che l’epigramma trova riconoscimento artistico. L’EPIGRAMMA DI CATULLO A Roma Catullo valorizza la forma breve come la più idonea a esprimere sentimenti, gusti, passioni, cioè i temi della vita individuale, nonché a farsi strumento di vivace espressione polemica. Marziale farà dell’epigramma il suo genere esclusivo, l’univa forma della sua poesia, apprezzandone soprattutto la duttilità e la facilità ad aderire ai molteplici aspetti del reale. La verità, la mobilità di un genere agile come l’epigramma sono i pregi che Marziale polemicamente contrappone ai generi illustri, all’epos e alla tragedia, coi loro toni seriosi e i loro contenuti abusati, quelle trite vicende mitologiche sono tanto lontane dalla realtà della vita quotidiana. È proprio il realismo, l’aderenza alla vita concreta, che Marziale rivendica come tratto qualificante della propria poesia e che vede orgogliosamente riconfermato dall’enorme successo che il pubblico gli accorda. Nei suoi epigrammi quel pubblico poteva trovare la concisa rievocazione di un evento spettacolare, la commemorazione di fatti concreti, nascite, matrimoni, feste, celebrazioni: vi ritrovava cioè la propria esperienza filtrata e nobilitata da una forma artistica dotata di pregnanza espressiva. => Un tipo di poesia, quindi, che coniuga fruibilità pratica e divertimento letterario, tratteggiando un quadro variegato e incisivo della realtà quotidiana, con le sue contraddizioni e i suoi paradossi. Marziale osserva lo spettacolo della realtà e dei vari personaggi che ne occupano la scena con uno sguardo deformante che ne accentua i tratti grotteschi e li riconduce a tipologie ricorrenti (parassiti, vanitosi, plagiari, spilorci, imbroglioni…): deformazione e grottesco sono il frutto di una tecnica di rappresentazione molto ravvicinata, un’effetto ottico che, secondo i modi propri dell’epigramma scommatico, focalizza singoli personaggi e tratti isolati, negando loro un fondo, un contorno, come se, per meglio mostrarli, fossero strappati al contesto, come fossero sospesi nel vuoto «de-realizzati». 8 L’atteggiamento del poeta è però quello di un osservatore attento ma per lo più distaccato, che raramente si impegna nel giudizio morale e nella condanna: una satira sociale priva di asprezza, che di fronte allo spettacolo assurdo del mondo cui si trova ad assistere preferisce il sorriso all’indignazione risentita e ama vagheggiare per contrato, una vita fatta di gioie semplici e naturali, di passatempi tranquilli e affetti sinceri. IL MECCANISMO DELL’ARGUZIA I temi degli epigrammi di Marziale sono vari e investono l’intera esperienza umana: accanto a quelli più radicati nella tradizione (come l’epigramma funebre) altri riguardano più da vicino le vicende personali del poeta o il costume sociale del tempo. Rispetto alla tradizione, l’epigramma di Marziale sviluppa fortemente l’aspetto comico-satirico: in ciò prosegue un processo avviato già da un precedente autore di epigrammi, il poeta greco di età neroniana, Lucilio, che aveva fatto largo spazio ai personaggi caratterizzati da vistosi difetti fisici, a tipi e caratteri sociali rappresentati comicamente, e si inserisce nella tradizione satirica romana, attenta all’analisi del costume sociale e pronto a tratteggiarne i tipi più rappresentativi. Ma da Lucilio Marziale muta alcuni procedimenti formali, come ad esempio la tecnica della trovata finale, della battuta che chiude in maniera brillante il breve giro del pensiero. => LA TECNICA DELLA TROVATA FINALE La tendenza a concentrare l’arguzia nella chiusa si avvertiva già nell’epigramma ellenistico, ma era stato appunto Lucilio a sviluppare questo procedimento e sarà Marziale a perfezionarlo: con lui l’epigramma acquista una fisionomia e una forma tipica, diventa un meccanismo comico costruito appunto in funzione del fulmen in clausala, della stoccata finale. Le forme compositive sono svariate, ma generalmente si riconducono a una modalità ricorrente che ha indotto i critici a fissare uno schema-tipo dell’epigramma, costruito su una prima parte, che descrive la situazione, l’oggetto, il personaggio, suscitando nel lettore una sensazione di attesa, e la parte finale che con effetto bruscamente sorprendente (aprosdòketon) scarica quella tensione in un paradosso in un’impennata illuminante. Una poesia realistica come quella che Marziale pratica comporta un linguaggio e uno stile conformi, aperti alla vivacità dei modi colloquiali e alla ricchezza del lessico quotidiano. Un altro aspetto rilevante della sua poesia è il realismo osceno: accanto ai termini che designano la realtà umile e ordinaria, Marziale si compiace spesso di introdurne altri drasticamente osceni. => Un poeta duttile come Marziale sa alternare forme espressive molto varie, passando da toni di limpida sobrietà ad altri di maggiore eleganza e ricercatezza. => I suoi epigrammi celebrativi e adulatori sono un documento importante del linguaggio manierato in uso negli ambiti di corte e nella sfera della cultura ufficiale. 9 • la gnoseologia • la teoretica • ma anche la FISICA • e la LOGICA => l’obiettivo, la vera sfida era trovare elementi unificanti di tutti questi aspetti 
 epicureismo e stoicismo sono i sistemi filosofici che hanno maggiore impatto sul mondo latino; entrambi presentano una volontà onnicomprensiva di tutti questi argomenti => si vuole elaborare un sistema che riesca a spiegare in maniera coerente tutti gli aspetti del reale, dalla metafisica alla logica, alla fisica, all’etica. QUINDI La letteratura filosofica è ampia. Spesso si distingue tra letteratura filosofica e letteratura tecnica. È una distinzione legittima però bisogna tenere presente che in molti testi che chiamiamo tecnici in realtà si trattano argomenti filosofici o si assume una prospettiva filosofica. ESEMPIO: Le Naturales queastiones, forse l’opera di Seneca meno conosciuta, è dedicata - a differenza della stragrande maggioranze delle opere che trattano etica - alla fisica => si occupa di quello che possiamo definire la filosofia naturale. => vengono trattati disparati fenomeni, le comete, i terremoti, l’arcobaleno, la pioggia, la grandine, tutta una serie di fenomeni naturali. Molti di questi argomenti li troviamo trattati in opere che solitamente definiamo come opere di carattere tecnico. => è un confine labile. Opere come il De architettura di Vitruvio sono considerate opere tecniche, trattatista tecnica => l’aspetto filosofico non è centrale ma c’è = all’interno della categoria di opere filosofiche scritte in prosa ci sono anche opere tecniche che appartengono a questa categoria in cui il tema filosofico emerge ma come di sostrato = non è un’indagine filosoficamente orientata Dentro al concetto di letteratura filosofia si inseriscono generi letterari diversi: il De rerum natura di Lucrezio è un poema epico didascalico il De otio di Seneca è invece definito un dialogo (=> questa definizione è problematica, come la categoria stessa di dialogo! => nel De otium non c’è un dialogo, piuttosto è una sorta di monologo, dove ogni tanto interviene un tu generico come interlocutore ma, di solito, per sollevare quelle che dal punto di vista retorico sono delle occupationes, = possibili obiezioni che hanno una funzione argomentativa, un mezzo attraverso cui l’autore manda avanti la propria argomentazione). Prima distinzione 1) letteratura filosofia in versi (= poesia epica didascalia) 2) letteratura filosofia in prosa (dialogo, trattato e l’epistola) L’epistola non nasce legata alla filosofia! è un genere letterario che non è connotato come filosofico, però ha una tradizione: a partire da Platone troviamo delle epistole di carattere filosofico che poi si conserve in età ellenistica (Epicuro). QUINDI All’interno della prosa filosofica ci sono diversi generi e ancora: diverso è un dialogo come lo intende Cicerone dove c’è una fitio, dei personaggi che parlano e propongono un determinato pensiero; ancora più distante dal concetto di dialogo è quello che poi troveremo in Seneca, dove non c’è alcun elemento dialogico. 2 ➣ ➣ POESIA EPICA DIDASCALICA Cosa ci fa definire il genere epico, detto epico-eroico, epico-narrativa? - la scelta del metro: esametro => i generi letterari sono legati a un determinato metro - ampiezza: la poesia epica di solito si compone di più libri, tra l’altro vi è una numerologia precisa => legata al numero 24 (i poemi omerici avevano 24 libri ciascuno) e che nella tradizione diventa il numero 6 => multipli di 6 => l’Eneide ha 12 libri. Ciò sarebbe valso pure per la Pharsaglia di Lucano, giuntaci in dieci libri, se l’autore, ucciso nella congiura dei Pisoni, fosse vissuto abbastanza per completarla; e ne siamo sicuri perché è costituita in modo antifrastica all’Eneide che è di 12 libri. - struttura narrativa: racconta una storia - elementi tematici: quali sono gli argomenti? si può parlare di tutto? => raccontano di eroi, di dei, di miti, di guerra MA trasportato anche sul piano storico [Annales, esempio di come si possa passare dall’epica eroica all’epica storica => dovevano raccontare a storia di Roma dalle origini => trapasso dal piano mitico-eroico al piano storico ⚠ un poema epico stoico che elimina completamente l’apparato mitico è la Pharsaglia di Lucano che è un poema tutto stoico, dove gli dei non esistono (=> grande frattura rispetto alle convenzioni di genere perché Lucano elimina completamente l’apparato divino - che era una delle altre caratteristiche del genere epico - a favore di un fatto che - ]. Cosa distingue la poesia didascalica dall’epica eroica? => il metro è sempre l’esametro - situazione didattica (al posto di una situazione narrativa): CHE VUOL DIRE? vuol dire che abbiamo tre elementi: un maestro, un discepolo e qualcosa da insegnare Il maestro coincide con la persona loquens; il discepolo può coincidere con il dedicatario, ma è un tu che spesso diventa un tu generico che si spersonalizza, così di fatto il destinatario del poema sono tutti i lettori. - a livello formale, il poema didascalico può essere composto di più libri ma anche di un singolo libro (il cosiddetto «monodius» = libro unico); ⚠ Qual è un altro elemento caratteristico della teorizzazione dei generi letterari? (pensiamo all’ars poetica di Orazio) => uno degli elementi caratteristici della teoria dei generi letterari è quello di trovare un “protos euretes(?)” => chi è stato il primo a fondare questo genere? => molto spesso un genere viene definito alludendo all’inventor. Se leggiamo un pezzo delle Georgiche, il carme del poeta alasca, di Esiodo, considerato il proto euretes della poesia didascalica. Quali opere ha scritto Esiodo? Le Opere e i Giorni (VIII -VII a.C.) che sono l’unica opere di Esiodo che ci è giunta integra e modello della poesia didascalica, mentre frammentaria ci è giunto il Catalogo delle donne => dobbiamo sempre tenere presente il mondo greco, perchè c’è solo un genere che è totalmente romano, e cioè la satira, «satira tota nostra est» Una cosa che si nota è: - nella filosofia didascalica si individuano due filoni: • tradizione filosofica (sistematico) => PARMENIDE (VI - V), SENOFANE (VI -V) ed EMPEDOCLE (V) => non scrivono in prosa! ⚠ Una delle caratteristiche più sorprendenti della letteratura filosofica greca è la scelta della prosa => Talete, primo filosofo della tradizione occidentale, scrive in prosa; tutti i filosofi presocratici scrivono in prosa ad eccezione di questi; o i sofisti prima e Platone e Aristotele poi. => È una scelta consapevole: una delle caratteristiche della lirica arcaica è il concetto di maestro di carità; il poeta lirico in quanto poeta ispirato si faceva portatore, tramite, intermediario del dio per portare una verità; aveva una forte funzione didascalica, in quanto strumento nelle mani della divinità. La tradizione filosofica ha in Grecia un segno fortissimo che è quello della razionalità. Lo scarto più forte rispetto a un modo di spiegare i fenomeni che è di natura sostanzialmente 3 geologica, la filosofia cerca di spiegare i fenomeni in modo razionale => all’insegna del logos. Anche coerentemente con questa volontà di contrapposizione rispetto a un altro modo di spiegare i fenomeni c’è la scelta della prosa. => Tradizionalmente poi la poesia è un metodo per pericoloso perché ha una fortissima forza psicagociga, perché muove, commuove, fa leva sul pathos e non sul logos, e questo è pericoloso soprattuto per le filosofie ellenistiche. Può essere usata ma con cautela, perché è potenzialmente veicolo di falsità. QUINDI La filosofia in Grecia parte in prosa; poi abbiamo una serie di filosofi che scelgono il medium poeticum. Pensiamo ad Empedocle che cerca una dizione che è fortemente oracolare => la scelta della poesia diventa anche un metro per rendere solenne la sua opera; la sua filosofia sposta molto il peso dal logos a una visione di tipo iniziatico-teologico. => Come muore Empedocle tradizionalmente? Si butta nell’Etna per diventare un dio e se ne ritrovano solamente i calzari dorati che fanno capire che è stato divinizzato. In età ellenistica III-II sec. a.C. in Grecia si trovano una serie di poemi di carattere didascalico che però possono essere definiti appartenenti a una • tradizione catalogica (analitica) = non un genere per veicolare un sistema filosofico nel suo complesso ma diventa uno strumento per descrivere in maniera dettagliata un determinato fenomeno di tipo tecnico. Gli esempi più noti sono: - Archestrato (IV Edupàtheia) => descrizione di prodotti tipici divisi per località => viene considerato un autore chiave del concetto di parodia; lui sceglie l’esametro e recupera tutta una serie di stilemi metrici, è un testo parodico dell’epica narrativa - Arato (IV-III, Phianomena) {poeta famosissimo nel mondo greco, la sua opera è una descrizione delle costellazioni, nella seconda parte descrive tutti i fenomeni naturali che servono per la previone del tempo => argomento tecnico, trattato dentro un poema didascalico} - Nicandro (II, Theriakà, Alexiphàrmaka) {la prima è una descrizione di animali velenosi, la seconda di medicine per curarsi di un animale velenoso, rimedi naturali} L’esordio del poema parodico di Archestrato è seguito nella generazione successiva da una serie di poemi didascalici composti da poeti dotti e rispondono a un gioco letterario tra modelli esiodei e omerici (=> Arato è pieno di omerismi, di glosse, di termini ricercati, per parlare di tutt’altro che di eroi o di filosofia) QUINDI La situazione che si viene a creare in età ellenistica è questa: la poesia didascalica finisce per avere un aspetto un po’ bicipite. Il proto euretes è Esiodo, da cui partono due tradizioni differenti: una in cui la poesia didascalica diventa strumento letterario per trattare un sistema filosofico in maniera complessiva e un’altra in cui diventa uno strumento tecnico per trattare un argomento tecnico in maniera analitica. Storicamente siamo anche in due periodi storici diversi: età classica ed seconda età ellenistica. (Arato era amico di Callimaco che ne fa un elogio) Qual è l’aspetto più interessante della poesia tecnica è la natura catalogica, è un catalogo, un elenco che non è presente sono nell’Opera e i giorni (che da indicazioni sulla navigazione e sull’agricoltura, istituendo un calendario astronomico); se pensiamo a un’opera come la Teogonia o il catalogo delle donne, è evidente la struttura catalogata che era già presente nel poema di tipo narrativo (=> II libro dell’Iliade) 4 di Lucrezio, come tu mi scrivi, ci sono davvero i bagliori del talento, ma anche i segni di una grande arte letteraria». Alcuni deducono dal tono della frase che il poeta doveva essere morto da poco, e Cicerone leggesse allora per la prima volta il manoscritto che li era stato affidato per la pubblicazione (l’emendauit di Girolamo), ma la supposizione è labile. Mentre gli Aratea di Cicerone si compongono di un solo libro, il De rerum natura si compone di 6 libri, tradizionalmente divisi in 3 diadi, ma si può discutere su quanto sia efficace questa tripartizione strutturale. È un poema diverso da quello di Cicerone perché non è di natura tecnica e catalogata, ma è propriamente filosofico. => Attraverso il De rerum natura Lucrezio si propone di descrivere in maniera complessiva tutto il sistema della filosofia di Epicuro. Epicureo e l’epicureismo sono il modello filosofico ma nn il modello formale => il modello formale di Lucrezio è Empedocle. Lucrezio dice bisogna prendere le distanze dalla filosofia di Empedocle, ma di inserirsi nella linea della sua tradizione letteraria. => Empedocle è un modello non filosofico ma dal punto di vista del genere letterario. La scelta del genere didascalico è influenzata dal modello empedocleo. Qual è il poema didascalico successivo nella storia della letteratura latina? Le Georgiche di Virgilio in 4 libri, la seconda opera di Virgilio. Sono la rielaborazione di molti modelli e rappresentano un dialogo serratissimo con il De rerum natura. Nel III libro delle Georgiche abbiamo due temi: il primo quello dell’eros degli animale e il secondo quello della peste del peste del Norico. Questi due pannelli sono chiaramente costruiti in un rapporto di serrata intertestulità con il loro modello lucreziano. Si richiama da un lato al finale del IV libro del De rerum natura, la famosissima digressione sull’eros, e al finale del IV, la peste ad Atene. Virgilio, però, sposta quella che è una riflessione tutta incentrata sull’uomo sugli animali perché in realtà nelle Georgiche il mondo della natura è costantemente e profondamente umanizzato. Non è un caso che sempre nel III libro Virgilio cita Lucrezio dicendo beato colui che ha potuto conoscere le cause delle cose. È chiaramente un modo per inserirsi all’interno di una tradizione letteraria: beato lui ma anche io posso cantare qualcosa che è tematicamente più basso, non sono le rerum causam, le calse dei fenomeni, sono la vita dei campi. Tra l’altro questo inciso virgiliano è fondamentale per demolire l’idea del suicidio di Lucrezia => perché sarebbe suonato involontariamente ironico che a solo un trentennio di distanza venisse definito felix un suicida. => Di solito, è uno degli argomenti che viene portato per depotenziare la notizia di Girolamo di Lucrezio pazzo. E poi procedendo c’è Ovidio. Quali sono i due poemi didascalici di Ovidio? - Ars amatoria: in cosa è affine al poema epico didascalico? C’è la relazione, la struttura didattica, didattica => c’è un maestro che insegna qualcosa. Si compone di III libri. Il primo è dedicato all’uomo e a come sedurre le donne, il secondo agli uomini a come mantenere l’affetto di una donna e il terzo alle donne su come sedurre gli uomini. Rientra nella categorizzazione di poema didascalico perché riproduce la struttura didascalica, ma si differenzia per il metro: è scritta in distici. => Ovidio sceglie sempre i distici, tranne nella Metamorfosi che è in esametri. Sceglie il distico in un poema didascalico perché è adeguato all’argomento; è un poema che insegna come gestire gli affari amorosi; questo argomento si presta per affinità al metro elegiaco. => Lo scarto rispetto alla convenzione di genere è motivato a modello tematico! 7 ➣ - poi i Remedia Amoris => una sorta di complemento ideale dell’ars amatoria, dove è chiaro l’intento didattico; e i Medicamina faciei femineae: “I cosmetici delle donne” giunto mutilo, sempre in distici elegiaci. - Un’altra opera ovidiana: i Fasti, opera strana perché sono un progetto abortito e poi ripreso e poi mai ultimato. Dovrebbero essere la descrizione dei mesi del calendario romano, mese per mese vengono riportate una serie di miti di carattere eziologico: vengono riportate le festività con una serie di riti per i quali viene fornito un aition mitologico. => Il modello sono gli Aitia di Callimaco da cui deriva anche la scelta del distico. => è in distici elegiaci e sempre ascrivibile alla poesia didascalica (trattazione di carattere catalogico). A ogni libro doveva essere dedicato un diverso mese ma l’operazione si è fermata al libro sesto; cioè abbiamo solo sei libri completi e l’ipotesi più convincente è che Ovidio vi ci sia dedicato prima dell’esilio e in contemporanea rispetto alle Metamorfosi che hanno molti tratti in comune, alcuni episodi dono addirittura speculari. Poi però Ovidio abbandona questo progetto o perché è alle presa con le Metamorfosi o per l’esilio che per lui è stato un evento traumatico nella sua vita. Ciò che è evidente è che però sul finire della propria vita, con l’esilio Ovidio non rientrerà più a Roma, dopo la morte di Augusto, a cui erano dedicati i Fasti, li dedica a Germanico perché vede in Germanico il suo interlocutore per poter trattare un suo ritorno a Roma. Questa nuova dedica, o nuova elaborazione di cui si vedono le tracce, potrebbe essere l’ultimo disperato tentativo di Ovidio di rientrare in patria. Quali sono le cosiddette «opere dell’esilio»? 1. i Tristia, sono delle elegie nel senso greco del termine: sono dei lamenti sulla sua condizione di esile, sono dedicati a persone di un certo rilievo che possono fare a tramite con Augusto per il suo rientro a Roma cosa che non avverrà mia. 2. le Epistulae ex Ponto Un altro autore che ha scritto un’opera che appartiene al canone del poema didascalico è Manilio, autore difficile da definire, e di cui non sappiamo nulla sua vita. È vissuto tra la fine dell’età augustea e l’inizio dell’età imperiale: il grosso dubbio è se sia l’ultimo dei poeti augustea o il primo dei poeti imperiali. Ha scritto un poema epico didascalico in 5 libri che un numero anomalo tanto che si pensa che si tratti di un poema incompiuto (=> la parte finale non è mai esistita, il poeta non l’ha mai ultimata) o mutila (=> si è persa una parte, ma l’autore l’aveva scritta); o potrebbe essere anche una scelta dell’autore. Tratta di astrologia. => L’aspetto più interessante, al di là del tema, è l’aspetto meta-letterario nel senso che Manilio è uno storico, e tratta l’astrologia da una precisa prospettiva filosofica, è quindi un’opera si tecnica ma fortemente connotata filosoficamente. Per portare avanti le sue idee, instaura un continuo confronto con il modello lucreziano, riprende una serie dii espressioni di Lucrezio rovesciandone il significato per screditare l’epicureismo a favore dello stoicismo. Si crea una specie di dibattito filosofico a distanza tra questi due autori. Inoltre, essendo Manlio l’ultimo dei poeti augustei rielabora tutta la tradizione precedente che è già pieno di eco virgiliani, ma anche liviane; e già un poeta che da un punto di vista tecnico stilistico anticipa la successione successiva dei epici di età Flavia - Stazio, Silio Italico, Valerio Flacco, autori che hanno come referente letterario primario non più Ennio ma Virgilio. => è cambiato il modello di riferimento, il paradigma. Per completare il quadro, deve essere nominato anche Grattio, autore della Cinegetica, poema didascalico che parla dell’allevamento dei cani da caccia. C’è tutta una tradizione greco-latina piuttosto ricca sull’argomento, perché è uno dei temi preferiti dell’antichità; 8 tanto è che un’opera sullo stesso tema, anch’essa giuntaci solo in parte (un centinaio di versi), scritta nella seconda metà del III sec. d.C., da ?, con lo stesso titolo. • Dobbiamo avere consapevolezza di questo genere letterario che è molto ampio e antico, che ha già un peso molto importante nella letteratura greca ed è un genere che abbiamo perduto. È un genere che rinascerà in età umanistica e rinascimentale; abbiamo dei poemi epici (Giordano Bruno) che riprendono questa tradizione; sono trattati filosofici scritti in versi => rielaborano la tradizione classica, soprattuto, Lucrezio e a Manilio che erano appena stati riscoperti, perché vengono scoperti in contemporanea vengono proprio scoperti in questo periodo da Poggio Bracciolini. => Lucrezia e Ovidio non sono due puntini nel nulla!! • E dobbiamo avere ben chiara la situazione Ovidio => Ovidio, come per le opere elegiache, anche per la poesia didascalica, prende un genere letterario e lo rinnova forzandone i confini. È la costante della produzione letteraria ovidiana => Le Metamorfosi sono la summa di questa caratteristica: a che genere letterario appartengono? È difficile definirlo: le Metamorfosi sono formalmente un poema epico => sono scritte in esametri e sono in 12 libri, i criteri esteriori ci sono tutti; ma hanno anche una forte struttura catalogica, non hanno un centro (soprattuto non hanno una narrazione); non c’è un epicentro ma infiniti epicentri che si innestano l’uno con l’altro, non hanno una narrazione. ↓ Un criterio efficace è quello di pensare alla poesia delle Metamorfosi come a una concatenazione di epilli (=> un epos in miniatura che di solito ha un carattere digressivo => carme 64 Catullo => costruiti da cornice al racconto di carattere mitico; è lo statuto di questo sottendere letterario: l’epillio è una narrazione epica compatta - non supera mai i 100 versi - inserita all’interno di un altro testo => è quindi una digressione. Quello che fa Ovidio è prendere questo e farlo diventare la narrazione = Ovidio mette l’excursur, l’ecfrasis al primo piano. LUCREZIO Girolamo (=> Girolamo è il patrono dei traduttore; ha tradito la Bibbia, la vulgata del vecchio e del nuovo testamento e i Chrònicon dall’opera dello scrittore greco Eusebio di Cesarea, un catalogo di fatti messo in sinossi) ci fornisce le indicazioni biografiche: {vedi sopra} => S. Girolamo ci dice che il poeta Tito Lucrezio, in seguito indotto alla pazzia da un filtro d’amore, dopo avere scritto alcuni libri negli intervalli di lucidità che gli lasciava la follia (libri che furono poi riveduti da Cicerone), si uccise di propria mano a 43 anni di età. Questa notizia biografica così concentrata è il plot di di un romanzo: un poeta che assume una droga e impazzisce e convivendo con questa pazzia scrive un’opera straordinaria, ma poi la follia prende il sopravvento e si arriva al gesto estremo del suicidio. Non è un caso che da questa notizia già in età umanistica siano state date una serie di Vite più o meno romanzate di Lucrezio, ed è una tendenza ancora attivo tra 8 e 900: l’esempio più famoso sono le Vite immaginarie di Macel Schwob, di cui una delle vita è un racconto che parte da questa notizia di Girolamo e insieme ad altre notizie ricavabili dal De rerum natura con procedimento autoschediastico e mette insieme una storia. Sula veridicità di questa notizia l’unica cosa da fare è sorprendere il giudizio; certo che è una notizia molto fragile, incerta; la stessa notizia del suicidio è problematica se messa in relazione con quanto affermato da Virgilio nelle Georgiche. E problematico è riferimento a Cicerone: perché Cicerone dovrebbe aver emendauit? C’è una lettera di Cicerone al fallo Quinto nella quale dice di aver letto alcuni brani dell’opera di Lucrezio e dice di averci trovato molte qualità: ne da un giudizio estetico positivo dicendo che c’è molto talento e anche molta tecnica. {Molto spesso questo 9 desiderio. A questo punto Lucrezio introduce una celebre digressione sulla passione d’amore e in versi carichi di dissacrante sarcasmo indica la causa unica di questa passione nell’attrazione fisica. La terza coppia di libri ha per oggetto la cosmologia: il libro V dimostra la mortalità del nostro mondo - uno degli innumerevoli mondi esistenti - analizzandone il processo di formazione; viene quindi trattato il problema del moto degli astri e delle sue cause. Una sezione famosa tratta della origine ferina dell’umanità. Il libro IV si sforza di fornire spiegazioni assolutamente naturali di vari fenomeni fisici, come i fulmini o i terremoti, estromettendone la volontà divina. Sulla descrizione di vari eventi catastrofici si innesta la narrazione della terribile peste di Atene del 430 - che era già stata narrata dallo storico greco Tucidide - con la quale l’opera si chiude piuttosto bruscamente. Probabilmente il De rerum natura non ha ricevuto l’ultima revisione da parte dell’autore: lo dimostrano alcune ripetizioni di versi, e qualche incongruenza. Problemi particolari ha destato il finale del poema. Poiché nel libro V Lucrezio annuncia la descrizione delle sedi beate degli dei, ma non mantiene poi fede alla promessa, si è pensato che proprio questa descrizione, e non quella della peste di Atene, fosse la chiusa progettata del De rerum natura. Se si dovesse accogliere questa supposizione, il poema avrebbe dovuto concludersi con una nota serena che avrebbe fatto da pendant al giocoso inno a Venere col quale si apre, e non con il terrificante quadro della peste di Atene. Ma probabilmente risponde meglio ai reali intenti di Lucrerò la supposizione che la fine progettata del poema fosse proprio la peste di Atene, e non altro: Lucrezio potrebbe aver voluto contrapporre l’ouverture e il finale come una sorta di «trionfo della vita» e di «trionfo della morte», per mostrare come non esista alcuna conciliazione del contrasto eterno di queste due potenze. Caratteristico tema epicureo è spiegare in maniera scientifica questi fenomeni per eliminare ogni forma di causalità divina, perché uno dei grandi temi del De rerum natura e dell’epicureismo è la negazione della causalità divina. L’epicureismo non professa l’ateismo. => Non arriva ad affermare che gli dei non esistono ma sostiene che gli dei si collocano al di fuori della vicenda umana, perché sono collocati anche spazialmente negli intermundia = spazi tra un universo e un altro. => Perché secondo l’epicureismo gli universi sono infiniti nello spazio e nel tempo => contemporaneamente esistono più universi, ciascuno indipendente dall’altro, come giustapposti e negli spazi tra un universo e un altro si trovano gli dei, ma ciascuno è soggetto a un suo tempo, a una dinamica di nascita evoluzione morte. Fondamento dell’epicureismo che l’opera di Lucrezio condivide è l’intento di liberare gli uomini dalla paura degli dei e dalla paura della morte, che sono i più grandi mali. Dalla paura degli dei Epicuro ci libera dicendoci che gli dei, si, esistono, ma non si occupano delle vicende umane e quindi non puniscono gli uomini, e d’altro canto non li aiutano nemmeno. ↓ La confutazione della religio Subito dopo il proemio con l’invocazione a Venere e una sommaria esposizione del piano dell’opera, Lucrezio si rivolge al lettore invitandolo a non considerare empia la dottrina che egli si accinge a trattare, e a riflettere, piuttosto, su quanto crudele e davvero empia fosse la religio tradizionale, che, per esempio, aveva imposto ad Agamennone il sacrificio della figlia Ifigenia per assicurare la partenza della flotta greca alla volta di Troia. All’assassinio della fanciulla è dedicata una scene tra le più elaborate del poema, impostata su un tono volutamente molto patetico. Così, prosegue Lucrezio, la religione è in grado di opprimere sotto il suo peso la vita degli uomini, turbare ogni loro giuoca con la paura: ma se gli uomini sapessero che dopo la morte non c’è che il nulla, se diventassero cioè insensibili alle minacce di pene eterne preferite dagli indovini, smetterebbero di essere succubi della superstizione religiosa e dei timori che essa comporta. A tale fine è necessaria una conoscenza sicura delle leggi che regolano l’universo, e rivelano la natura materiale e mortale del mondo, dell’uomo e dell’anima stessa. Già dai primi versi Lucrezio descrive con chiarezza il nesso tra superstizione religiosa, timore della morte, e necessità di speculazione scientifica; il suo messaggio sarà di fatto ignorato non solo per l’intrinseca difficoltà dell’opera, ma anche, si deve pensare, perché potenzialmente capace di mettere in discussione i fondamenti culturali (e di conseguenza politici e sociali) dello stato romano, che della regio aveva fatto un essenziale elemento di coesione. 12 ↓ Se sui vates è una accentuazione polemica ispirata dal clima culturale del suo tempo, Lucrezio resta peraltro fedele alle teorie di Epicuro in materi di religione. Il filosofo greco era stato il primo uomo che «osò levare gli occhi contro la religione che incombeva minacciosa dal cielo». Per questo egli può essere veneto quasi come un dio, perché ha liberato gli uomini da enormi sofferenze morali: tranne il II e Il IV tutti i libri dell’opera si aprono con una appassionata celebrazione dei meriti di Epicuro. Questi credeva che gli dei fossero delle figure dotate di vita eterna, perfette e felici nella pace degli intermundia, incuranti delle vicende della terra e dell’uomo. Era invece radicalmente esclusa l’ipotesi che l’uomo fosse soggetto agli dei in un rapporto di dipendenza, che da essi, suoi padroni, egli potesse attendersi benefici o punizioni. Anche Lucrezio recupera questo senso intimo della religiosità, intesa come capacità di vivere serenamente e contemplare ogni cosa con mente sgombra da pregiudizi. ↓ Nell’ambito del V libro una sezione della storia dell’umanità è dedicata alla nascita del timore religioso, che sorge spontaneo per ignoranza delle leggi meccaniche che governano, per esempio, il corso perfettamente regolare degli astri, o per lo spavento causato dal fulmine e dalle tempeste (a torto considerati una punizione divina) che invece colpiscono indiscriminatamente colpevoli e innocenti proprio perché dovuti a fenomeni naturali che la fisica epicurea si incarica di spiegare. A torto si è voluto vedere quasi un cedimento da parte di Lucrezio a quei timori e a quelle paure che cerca di combattere: sua intenzione è invece di delineare, in questa circostanza, l’ordine storica di un fenomeno dal quale, appunto, non è difficile ricostruire le cause, ma che nondimeno va - nel presente - combattuto ed eliminato. Di contro, la paura della morte viene eliminata sostenendo che la morte non è nulla per noi: perché? Quando ci siamo noi lei non c’è, quando c’è lei non ci siamo noi. Dal momento che l’anima è morta, perché l’anima come il corpo è fatta di atomi, non ha uno status differente, nel memento in cui il nostro corpo muore anche la nostra anima muore. Non esiste alcuna forma di aldilà nel quale siamo premiati o puniti. => E questo dovrebbe liberare gli uomini dall’angoscia. [li libera da una angoscia ma li fa precipitare in un altra: questo è uno dei grandi problemi dell’epicureismo filosoficamente parlando, un sistema materialista che libera da una angoscia ma di fatto ci fa precipitare in un’altra, quella di cadere, nel vuoto, dell’oblio, della fine, del nulla]. Altra caratteristica importante della filosofia di Epicuro è l’esistenza del vuoto. è un dibattito ancora vivissimo nel ‘600: la fisica del continuo contro la fisica del discontinuo; l’epicureismo è per la fisica del discontinuo: esistono gli atomi ma deve esistere anche il vuoto altrimenti gli atomi non si potrebbero muovere. => Quello epicureo è un sistema filosofico che si dice fa fatica ad accasarsi a Roma: perché? Perché uno dei principi etici dell’epicureismo è il concetto della - «vivi nascosto»: [In greco suona così: láthe biósas. - Lanthano significa nascondersi, e láthe è un avverbio, che significa nascostamente. Da lanthano vengono il verbo latino latere, l’italiano latitante, latente, l’espressione in senso lato, cioè alla lontana. - Il verbo biósas, qui coniugato alla seconda persona singolare, vivi, ha una radice più familiare. La stessa di biologia e biologico: bios in greco è vita.] Che significa? = Il rifiuto della vita politica, della vita attiva in senso politico. È un grande tema cardine. Se questo approccio apolitico può avere senso/è applicabile nell’Atene di IV-III secolo, in cui nasce e si sviluppa l’epicureismo, è molto più problematico il diffondersi questo sistema filosofico nella Roma del I secolo a.C, cioè in piena crisi politica. Ed è per questo che Cicerone che ha un approccio filosofico di tipo eclettico (=> cioè che si permette di scegliere tra sistemi filosofici ciò che ritiene migliore, e questo è un riflesso del suo accademismo; la deriva platonica in età ellenistica è presa dallo scetticismo, ma uno scetticismo relativo e non assoluto, non implica la possibilità per l’uomo di conoscere => implica che non ci sia un dogmatico: cioè davanti a un problema il filosofo non deve interrogarsi volta per volta la soluzione migliore. Questo permette di essere eclettici.), guarda e condanna apertamente tra tutte le filosofie la sola epicurea e lo fa per motivi politici. L’epicureismo a Roma è destabilizzante: se gli intellettuali si rigettano di intervenire e partecipare alla vita politica durante la crisi è esattamente il contrario dell’età ciceroniana. Ma parte Cicerone, sappiamo che l’epicureismo era molto diffuso, soprattuto nell’Italia meridionale. ↓ 13 A parte il rigore intollerante di Catone il Censore, la via scelta dalla classe dirigente romana nei confronti della penetrazione del pensiero greco era stata quella di un filtraggio attento, che eliminare gli elementi potenzialmente pericolosi per l’assetto istituzionale della res publica o potenzialmente corrosivi nei confronti del mos maiorum. => Fu la via battuta dall’élite scipionica, e successivamente da Cicerone. Non è un caso che l’accorto eclettismo filosofico di Cicerone eriga un argine insormontabile proprio nei confronti dell’epicureismo: è visto come dissolutore della morale tradizionale soprattutto perché, predicando il piacere come sommo bene e suggerendo la ricerca della tranquillità, tende a distogliere i cittadini dall’impegno politico in difesa delle istituzioni. Non minori pericoli presentava la posizione epicurea sulle divinità: negando il loro intervento negli affari umani, tendeva a creare impicci a una classe dirigente che usava la religione ufficiale come strumento di potere. Ma se nel II secolo a.C. si era arrivati anche a un provvedimento di espulsione nei confronti dei due filosofi epicurei, Alceo e Filisco, che volevano diffondere la loro dottrina a Roma, nel I secolo l’epicureismo era riuscito a effettuare una discreta diffusione negli strati elevati della società romana. Un personaggio di rango consolare, Calpurnio Pisone Cesonino, si presentava come protettore di filosofi epicurei: nella sua villa di Ercolano teneva lezioni Filodemo di Gàdara; un altro cenacolo epicureo sorgeva a Napoli, dove sotto la guida di Sirone studiarono giovani di diversa estrazione sociale, fra i quali i discendenti di alcune famiglie nobili, e futuro poeti come Virgilio e, probabilmente, Orazio. Sappiamo anche delle propensioni epicuree di Attico, l’amico di Cicerone, di Cesare e del cesaricida Cassio, il che è sufficiente a provare come l’epicureismo reclutasse i suoi adepti in ambedue le fazioni che si scontravano nella vita politica. Meno sappiamo della penetrazione delle dottrine epicuree nelle classi inferiori. È interessante un passo di Cicerone, il quale, nelle Tusculanae disputationes, ci informa del fatto che le divulgazioni dell’epicureismo in cattiva prosa latina, dovute ad Amafinio e a Cazio circolano presso la plebe. In effetti lo stesso Epicuro raccomandava l’estrema chiarezza e semplicità dell’espressione: senza cedere ad antistoriche forzature in senso «democratico», va ricordato l’universalismo del messaggio epicureo, che intendeva rivolgersi non a una élite rigorosamente selezionata, ma a persone di ogni ramo sociale e anche - cosa quasi inaudita nell’antichità - alle donne. Lucrezio tuttavia si mosse su una strada radicalmente diversa da quella di un Amafinio o di un Cazio; per divulgare in Roma la dottrina epicurea egli sceglie la forma del poema epico-didscalico. Ciò deve destare sorpresa: Epicuro aveva condannato al poesia, soprattutto quella omerica, base dell’educazione greca, per la sua stretta connessione con il mito, per il modo in cui irretiva pericolosamente i lettori, allentandoli da una comprensione razionale della realtà. Gli epicurei successivi si attennero scrupolosamente alle direttive del maestro, coltivando tutt’al più, come Filodemo, la poesia scherzosa o di puro intrattenimento. Nella sua scelta Lucrezio fu forse guidato dal desiderio di raggiungere gli strati superiori della società e all’inizio del poema rende esplicito il suo proposito di «cospargere col miele delle Muse» una dottrina apparentemente amara. Non è perciò un caso che Lucrezio - in divergenza radicale dal suo maestro Epicuro - ostenti ammirazione per Omero; ma modelli importanti egli trovava in tutta la tradizione epico-didascaica; in particolare in Empedocle, il poeta-filosofo del V secolo a.C, che proprio nell’età di Lucrezio stava conoscendo a Roma un periodo di rinnovato interesse. => Di Empedocle certo Lucrezio respingeva l’ispirazione filosofica misticheggiante; ma venne probabilmente affascinato dal suo ardore di apostolato, dall’atteggiamento profetico di rivelatore della verità. on un messaggio che, anche quanto ad attrattive letterarie, non avete niente da invidiare alla «bella forma» Cicerone e Lucrezio Gerolamo vuole Cicerone editore del De rerum natura; ma evidentemente Cicerone non poteva condividere gli ideali filosofici di Lucrezio e resta il fatto che, una decina di anni dopo la supposta pubblicazione del De rerum natura, cioè fra il 46 e il 44, quando intraprende nei suoi trattati 14 Per gli epicurei il piacere è il sommo bene, è quello a cui dovremmo tendere; da intendersi non in senso edonismo, in senso fisico, ma è un piacere che deriva dal rispondere ai bisogni naturali, alle necessità, che nasce dalla filia, dall’amicizia, dal vivere e convivere con le persone che amiamo. È un piacere catastemàtico, piacere statico che non produce turbamento, non è una passione. => Il concetto da evitare per la filosofica epicurea è il concetto di pathos, di passione: il pathos è qualcosa che ci turba, che ci fa soffrire; il piacere invece inteso in questo modo è invece qualcosa che ci appaga, ci riempie. Il piacere, l’edonè è risultato a cui si perviene tramite due diversi approcci che sono: aponia = dal greco, a- alfa privativo e pònos, "fatica", "pena" = assenza di dolore, mancanza di dolore fisico atarassia = dal greco, ἀταραξία, “assenza di agitazione”, “tranquillità” = mancanza di turbamento uoluptas hominum diuomque: congiunzione enclitica que che tra le congiunzioni copulative latine è quella che accoppia (mentre, et aggiunge, at specifica) = uomini e dei sono sullo stesso piano, entrambi sono soggetti alla uolupatas; la uoluptas di cui godono gli uomini è la stessa di cui godono gli dei. È questo il filo rosso che tiene uniti tutti i proemi. Perché quello che Lucrezio ripeterà in tutti i proemi è che gli uomini possono avere la stessa sorte degli dei, gli dei sono il modello per gli uomini, non sono coloro che danno premi o punizioni, sono il modello cui dobbiamo tendere, la loro beatitudine spetta a noi => rappresentano l’ideale verso cui gli uomini devono tendere. ancora: genetrix Aeneadum: altra operazione culturale fondamentale: sposta a Roma qualcosa che romano non è. Nel definire Venere madre dei discendenti di Enea sta dicendo che questa filosofia a Roma è a suo agio, pur essendo una importazione straniera e che storicamente poco si adatta alla situazione politica romana. Quello che Lucrezio ci dice con le prime due parole è che giustissimo che stia a Roma, perché Uenus (che è la uoluptas epicurea) è la divinità di tutti i discendente di Enea. E poi anche : alma uenus: la uoluptas viene a specificarsi come motus genitales. Tutta la fisica epicurea si regge su due principi isonomici (= che si equilibrano l’un l’altro): => i motus genitales = i movimenti che danno la vita => e i motus exitiales = i movimenti che portano alla morte Tutta il reale è costantemente soggetto a questi due movimenti: costantemente atomi si aggregano per creare e costantemente atomi si aggregano per distruggere. Questa è la grande legge che sta alla base della fisica epicurea. Ed è anche la legge che governa la struttura di tutto il poema di Lucrezio che si apre con l’inno a Venere, inno di carattere primaverile (viene descritto il rinascere della vita, della natura al ritorno della primavera); e si conclude con la peste di Atene, un quadro desolante di morte. La cosa incredibile di Lucrezio nella descrizione della peste, rispetto al suo modello Tucidide, - ci sono tantissime differenze ma quella più evidente è una - è che Tucidide la prima cosa che dice quando descrive la pesta è io ho avuto la peste e sono guarito e per questo descrivo cosa è successo di modo che se tornerà sapremo come comportarci e sottolinea che ci sono persone che guariscono. => Nella peste di Atene di Lucrezia non ci sono guariti, non c’è alcun riferimento alla guarigione, ma morti e malati si confondono, molto spesso usa l’espressione corpora e non si capisce se si riferisca ai malati o ai morti. => Ne deriva un quadro assolutamente desolante che però ha coerenza tra la struttura dell’opera e la filosofia di Epicuro. C’è questo ciclo di nascita e morte che è lo stesso ciclo che governa il poema. 17 Inno a Venere: abbiamo una descrizione di tipo primaverile = Uenus viene descritta come il ritorno della primavera; si inizia a creare questa situazione in cui Uenus diventa simbolo sia della uoluptas (come dichiarato nel primo esametro) ma anche dei motus genitales, di questi movimenti che danno la vita e la danno ciclicamente. => Proprio perché Uenus diventa simbolo di questo, per questo motivo il poeta la invoca, perché come la vita si crea, come tutto il reale si crea tramite questi movimenti così anche il testo: questa è una delle grandi intuizioni lucreziane che verrà soprattutto evidenziata nel I e nel II libro => testo e cosmo rispondono alle stesse leggi. E questo è quanto più vero perché: uno dei grandi problemi che ha Lucrezio nel suo poema è che deve spiegare ciò che non si vede, ad esempio come si muovono gli atomi che sono invisibili, e allora deve usare un principio: l’analogia. analogia = descrivere l’ignoto per mezzo del noto, creare delle connessioni tra ciò che non si vede e ciò che si vede, tramite associazioni con cose che esistono; e quindi per spiegare come si aggregano gli atomi, Lucrezio dice che si aggregano come fanno le lettere, tant’è che usa tutta una serie di termini propri della grammatica per spiegare come si combinano gli atomi. => In queso modo al di là del valore gnoseologico dell’analogia, testo e cosmo rispondono alla stessa legge: perché se atomi e lettere si combinano allo stesso modo vuol dire che rispondono alle stesse regole. Ancora di più: diciamo che gli atomi sono alla base di questo poema, Lucrezio usa una base di sinonimi per descriverli, il più frequente è primordia; non usa mai la traslitterazione delle parole greco, atomus, ma una serie di termini traslati, usa elementa che è l’equivalente del greco stoikeia, = gli elementi primi, termine che nella trattatista grammaticale tanto greca quanto latina è usato per designare le lettere. Quindi abbiamo un unico termine che nella sua polisemia si adatta tanto agli atomi che alle lettere e questo rafforza ancora di più il principio analogico. => Per questo il mondo è conoscibile e scrivibile: perché il mondo è consustanziale alla parola. da Il presente non basta (I. Dionigi): Lucrezio applica agli atomi, ai principi della materia e del cosmo, i principi propri della «grammatica», le «lettere dell’alfabeto» (gràmmata in greco) che perirono alla formazione delle parole; instaura una corrispondenza e una solidarietà tra gli elementi vocis («lettere») e gli elementa mundi («atomi»), per cui il poema si configura come un’esecuzione linguistica del cosmo. La coincidenza fra gli elementi primi delle res (i corpi) e gli elementi primi dei verba (le parole) e il trasferimento della terminologia grammaticale alla terminologia atomistica spiegano la «mostruosa regolarità» del poema, consentono la leggibilità del cosmo e proiettano all’origine del tutto il modello alfabetico. Come a dire che in principio era la grammatica. La lingua modello della realtà, il testo del cosmo, l’etimologia dell’atomologia. Compare poi il dedicatario della parola che è Memmio. Memmio è il fallimento più grande di Lucrezio dal punto di vista didattico perché dopo la morte di Lucrezio abbiamo una lettera di Cicerone scritta a Memmio per dissuaderlo dal proposito di costruire la sua villa privata sui resti del kèpos di Epicuro. E Cicerone scrive questa lettera sollecitato dallo scolarca (= dal greco σχολάρχης il capo di una scuola filosofica epicureo) di Atene, perché Memmio sta compiendo un atto che agli occhi degli epicurei è una dissacrazione. => Lui ha comprato dalla città di Atene il sito su cui si trovava il kèpos, il giardino nel quale era nata la filosofia epicurea e ci voleva costruire casa sua; non per omaggio, altrimenti non si spiegherebbe 18 perché lo scolarca insiste con Cicerone, che tra l’altro non era epicureo, pur di avere un intermediario efficace per dissuadere Memmio da questo proposito. E in più questo ci dice un’altra cosa di Memmio: sarà costretto a ritardati ad Atene perché accusato di brogli elettorali; ha fatto tutto ciò che un Epicureo non dovrebbe fare: occuparsi di politica. quindi: - invocazione a Uenus come principio vitale e perché aiuti il poeta nello scrivere il poema - e poi, riattivando ancora una immagine mitologica tradizionale, cioè il rapporto Venere-Marte, topos ben noto, lo risemantizza, lo riempie di un nuovo valore: perché Marte, attraverso la guerra, diventa simbolo dei moti exitiales; e chiede che per un periodo i moti genitales siano più forti di quelli exitiales = chiede un periodo di pace, e lo motiva: perché altrimenti il poeta non potrebbe scrivere la sua opera con serenità e il dedicatario non la potrebbe ascoltare. Questo non è un dettaglio da poco: ci fa capire come ancora un volta (come con la prima parola del poema) c’è un tentativo di adeguare un insegnamento filosofico nuovo con un testo. Non sta dicendo che Memmio in quanto impegnato politicamente deve lasciare i suoi impegni politici per dedicarsi alla filosofica: sta dicendo che spera in un periodo di relativa quiete perché altrimenti non potrebbe mai sottrarsi per motivi politici. Quindi è illegittimo - è detto in maniera implicita - impegnarsi in politica; è un tentativo di rendere meno aspro uno scontro fra culture, è un tentativo di adattare un sistema filosofico a un nuovo contesto culturale. => Professare subito in aperto di poema il concetto del ♒ avrebbe avuto un aspetto deleterio dal punto di vista comunicativo. È lo stesso motivo per cui nel finale del IV libro (testo bellissimo: l’excursus sull’eros) Lucrezio sembra contraddire se stesso: ci ha appena detto che è meglio avere dei rapporti occasionali per evitare che l’amore diventi passione, ma poi dice che è possibile passare tutta la vita insieme a una donnetta non troppo bella perché? Anche qui sta facendo una sorta di concessione al contesto culturale dove si trova a operare. Non può negare completamente la validità del matrimonio, essendo alla base della società. => Ci sono una serie di tentavi di adattamento, di attualizzazione del sistema epicureo alla società romana. quindi: vv. 1-43 : l’inno a Venere seguono poi 5 versi (44-49) che vengono espunti dagli editori, anche nell’edizione del 1921, mentre adesso altri due studiosi (un tedesco e un inglese) stanno lavorando a una nuova edizione critica. Il problema principale è quello di come interpretare le duplicazioni: nel De rerum natura abbiamo una serie di versi, una coppia di versi (o come in questo caso 5) che si ripetono identici in blocco da un libro a un altro. Le ipotesi sono tradizionalmente due: - o sono autentici - o sono delle interpolazioni Cosa è una interpolazione? Una aggiunta fatta a posteriori all’interno della tradizione manoscritta di quel testo di versi o spuri o mal collocati. I versi espunti ritornano identici nei versi 246-251 del libro II nei quali si parla dell’indifferenza degli dei che sono immortali e non si occupano delle vicende umane. Qual è il problema? Se li accettiamo qui è evidente la contraddizione: appena invocata la divinità di assistere nella prova poetica e subito dopo ci dice che gli dei, si, ci sono, ma non ascoltano le preghiere degli uomini. Si pensava già nel 600 che un copista avesse interpolato questi versi, cioè che un copista avesse aggiunto questi versi qui semplicemente per far vedere le contraddizioni di quanto dice Lucrezio, 19 LETTERATURA FILOSOFICA => non è trattata da un unico genere letterario ma comprende più generi che finiscono però all’interno di un unico calderone concettuale e tematico che è quello della letteratura filosofica. (→ Lucrezio = poema didascalico) Se la filosofia a Roma è qualcosa che si inizia a diffondere dal II secolo a.C. in maniere più massiva, nell’epoca dello scontro-incontro culturale con la Grecia, quando la filosofia dal mondo greco inizia a penetrare in modo sempre più capillare a Roma, questo percorso raggiunge il suo periodo più maturo nel I sec. a.C. Abbiamo parlato di Lucrezio, ma… ↓ Contemporaneo di Lucrezio è Cicerone, il grande trasportatore della filosofia greca a Roma. Eppure le differenze tra i due sono molteplici. Iniziamo con il domandarci: perché essendo contemporanei Cicerone non nomina mai Lucrezio? In parte ha i suoi stessi interessi filosofici (ovviamente con un diverso credo filosofico!) ma entrambi si sono occupati di filosofia. Perché Cicerone non lo nomina mai se non una volta sola in una lettera al fratello dando un giudizio positivo sulle qualità letterarie della sua opera? Si è pensato che sia stata una rimozione, una rimozione volontaria per uscire dall’ansia del modello, come il Petrarca che diceva di non aver mai letto Dante. Cicerone e Lucrezio si occupano effettivamente di filosofia pur con armi diverse, prosa da un lato e poesia dall’altro, pur con un’attenzione a sistemi filosofici diversi: - Lucrezio è ortodosso, è epicureo, scrive un poema che è totalmente epicureo => non si occupa di parlare di altre filosofie se non per confutarle; - Cicerone approccio eclettico, frutto del suo credo filosofico che è accademico, l’accademia è la continuazione della scuola platonica, che però si è venuta a caratterizzare con la prospettiva dello scetticismo, NON di tipo pirroniano = mettere in discussione l’uomo, la possibilità di conoscere, ma uno scetticismo relativo, che significa? Che davanti ad ogni problema filosofico è lecito al filosofo interrogarsi su quale sia la scelta migliore, la filosofia migliore, senza preoccuparsi della coerenza dogmatica, sistematica rispetto a un sistema di riferimento più grande, è una forma prima di tutto di antidogmatismo. → Il riflesso di ciò è in Cicerone questo gusto eclettico, il fatto di riportare all’interno dei suoi dialoghi le prospettive di diverse e delle principali scuole filosofiche. Cicerone e Lucrezio hanno entrambi la stessa difficoltà: la «patris sermonis egestas», la povertà della lingua paterna, = la povertà del latino che a differenza del greco è una lingua ben poco adatta alla filosofia, perché è una lingua molto restia all’astrazione, molto concreta tant’è che sia Lucrezio che Cicerone dovranno lavorare in maniera molto intensa e creare un lessico filosofico latino. Cicerone ci lascia nei suoi scritti proprio traccia del processo: spesso nelle sue opere filosofiche di riflessioni di carattere metalinguistica: prende un termine filosofico greco e propone tutta una serie di traducenti latini, scartandoli di volta in volta o sottolineando di ciascuno i pregi o i difetti, si ha l’impressione di un processo in fieri. Si sta creando una nuova lingua per una nuova disciplina. Diverse sono le tecniche usate, Lucrezio deve creare una lingua che sia anche poetica e per questo spesso ricorre alla metafora, all’uso metaforico, all’uso traslato (=> quando parla degli atomi nella prima sezione fa vedere tutti i sinonimi a cui può ricorrere e sono nella maggior parte caratterizzati da uso traslato anche di termini già esistenti). In entrambi si nota la volontà piuttosto chiara di NON inventare neologismi, piuttosto procedono verso una risemantizzazione di un termine già esistente, cioè la tecnicizzazione. 1 LA PRODUZIONE DI CICERONE => molto ampia, di norma si divide in questo modo: Opere poetiche: che sono di fatto tutte opere giovanili a parte gli Aratea che ci sono giunti in maniera più cospicua; sono tutte opere di tradizione indiretta, frammentarie, pochi versi Opere: - politiche (su modello di Platone): De repubblica (54-51), De legibus (post 52?) => vengono scritte più o meno nello stesso periodo: è il periodo dopo l’esilio (ritorna nel 57) e si rende conto della marginalità del suo ruolo a Roma, quando a dominare il panorama romano erano Cesare e Catone. Cicerone, trovandosi ai margini di questo gioco politico molto complesso (=> il dualismo popolares-optimates sta andando in crisi), avendo per tutta la sua vita un senso civico fortissimo => cerca di incidere politicamente attraverso una produzione letteraria => vede nella filosofia la possibilità di formare una nuova classe dirigente. - retoriche: precedenti, De invenzione (circa 84) ma per la maggior parte dello stesso periodo di quelle politiche: De oratore (55), De ottimo genere oratorum (52), Brutus (46), Orator (46). Riflettono, di fatto, lo stesso obiettivo: => sono tutte opere che vogliono formare una nuova generazione di retori, cioè di uomini politici => il suo ideale di politico è colui che non è un generale (che in quel periodo hanno la ribalta = Cesare e Pompeo) => e cerca, quindi, di lavorare su questa idea di figura politica. Significativo è che la maggior parte delle opere filosofiche di Cicerone si concentrano tra il 46-44: - filosofiche: Paradoxa Stoicorum (46), Academia (45); De finibus bonorum et malorum (45); Tusculane disputationes (45); De natura deorum (45); De divinatione (44); De fato (44); Cato maior de senectute (44); Laelius de amicitia (44); De officiis, (44) => questi sono gli anni della dittatura di Cesare => Cicerone è fuori dalla vita politica e prende di nuovo in mano il progetto filosofico e lo fa in modo “matto e disperattimo”: scrive una quantità di testi in pochissimo tempo. Nelle lettere di questi anni si evince l’ansia di voler fare di più, di voler scrivere di più, perché ancora una volta la produzione filosofica diventa uno strumento politico, è il modo con cui formare la prossima generazione di politici, di reagire alla crisi istituzionale e di influenzare la politica di Roma. Morto Cesare, Cicerone sbaglia alcune mosse politiche mettendosi dalla parte di Ottaviano, contro Antonio (le Philippicae) e questo gli vale la morte, dopo che Ottaviano e Antonio si alleano. Opere perdute: Consolatio (45); Hortensius (45); De gloria (44) [=> quelle ultime due, di cui abbiamo solo dei frammenti di tradizione indiretta, dovevano essere due opere fondamentali: l’Hortensius è famoso perché Agostino lo nomina spesso, dicendo che è stato il testo più importante, un invito alla filosofia]; De virtutibus e De augurosi Traduzioni (di testi filosofici greci): del Timeo di Platone (conservato in parte); del Protagora di Platone, dell’Economico di Senofonte (scarsi frammenti) => difficili da datare, ma sono probabilmente opere degli anni giovanili ↓ C’è in Cicerone la volontà di trasferire la filosofia a Roma e di fatto lo accompagna per tutta la vita, in modalità diversa: prima con le traduzioni e poi con dei scritti suoi. Perché a questo stesso fine rispondono anche i dialoghi, il cui modello è senza dubbio quello platonico. Che valore ha il dialogo in Platone? => Platone scrive dialoghi per una ragione filosofica => I c’è il problema della mimesis => il dialogo mette in scena il rapporto mimetico => è la trasposizione scritta di un fatto che è avvenuto prima; è un modo per chiarire al lettore il rapporto tra scrittore e verità. II il dialogo serve per il concetto di maieutica socratica, è lo strumento attraverso cui Socrate può permettere il ricordo e l’anamnesi della verità => anche qui quella della forma del dialogo è scelta filosoficamente coerente al sistema filosofico. In Cicerone il dialogo non ha lo stesso valore. 2 È un dialogo, si, ma i personaggi propongono un determinato sistema filosofico: un determinato personaggio corrisponde un determinato sistema filosofico. => passaggio dal dialogo platonico dove abbiamo un dialogo reale, fatto di botta e risposta, dove questo sistema fa si, tramite passaggi ulteriore, si arrivi ad elaborare un concetto filosofico => di contro a una giusta opposizione di posizioni, quasi sempre (pensiamo al De natura deorum) non c’è un dialogo, ma un monologo (passaggio da una struttura dialogica a una quasi mongolica) => e questa evoluzione si completerà con Seneca, dove la struttura dialogica è del tutto assente. ! Cicerone => eclettismo filosofico a indicare la sua tendenza a astenersi dal formulare egli stesso un’opinione recisa, lo sforzo di esporre le diverse opinioni possibili, e di metterle a confronto per vedere se alcune siano più coerenti e probabili di altre. => obbedisce a una esigenza di un metodo rigoroso, che si sforza di stabilire fra le diverse dottrine un dialogo dal quale sia bandito ogni spirito polemico. humanitas (alla cui elaborazione Cicerone dette un notevole contributo) => atteggiamento intellettuale di aperta tolleranza => tendenza a presentare le proprie tesi solo come opinioni personali, l’uso istintivo di formule di cortesia=> sono tutti rivelatori di un proprio codice di «buone maniere» che rispecchia i comportamenti della buona società romana. ↓ L’eclettismo ciceroniano mostra una chiusura radicale verso l’epicureismo, alla cui esposizione e confutazione sono dedicati per esempio, i primi due libri del dialogo De finibus bonorum et malorum. I motivi dell’avversione ciceroniana verso l’epicureismo sono fra loro strettamente connessi: - la filosofia epicurea conduce disinteresse per la politica => quando, dovere dei boni, è l’attiva partecipazione alla vita pubblica; - l’epicureismo esclude la funzione provvidenziale della divinità (ma non ne nega l’esistenza) e ne indebolisce così i legami con la religione tradizionale, che per Cicerone rimane la base fondamentale dell’etica. L’attività oratoria di Cicerone si intreccia indissolubilmente con le vicende politiche di Roma nell’ultimo cinquantennio della repubblica. PRO ROSCIO ARMERINO => 80 a.C. Cicerone aveva già al suo attivo alcune cause quando assunse la difesa in un processo che, per i suoi risvolti politici, ebbe vasta risonanza nella società romana. Il padre di Sesto Roscio era stato ucciso su mandato di due suoi parenti, in combutta con Lucio Cornelio Crisogono, potente favorito e liberto di Silla, che aveva poi fatto inserire il nome dell’ucciso nelle liste di proscrizione allo scopo di poterne acquistare all’asta, a un prezzo irrisorio, le cospicue proprietà terriere. Gli assassini, per avere le mani libere, cercarono di sbarazzarsi anche del figlio dell’ucciso, ricorrendo all’espediente di accusarlo del parricidio. La difesa, per essere efficace, non doveva tacere le responsabilità di Crisogono, che era stato il vero regista di tutta la faccenda; ma ovvi motivi di prudenza e di opportunità politica invitavano il giovane avvocato a cercare di coinvolgere il meno possibile Silla, allora dittatore e detentore di poteri praticamente assoluti, che di Crisogono era l’influentissimo protettore. => Nonostante provasse disgusto per gli aspetti più ripugnati del regime sillano, Cicerone non poté fare a meno di coprire Silla di lodi di maniera. QUAL ERA LA POSIZIONE POLITICA DI CICERONE? Egli si faceva portavoce di quella parte della nobiltà che, apprezzando l’operato di Silla nella repressione della «democratica» e «popolare», si doleva di aver dovuto fare ciò con la delega del potere nelle mani un solo uomo e con l’ascesa sociale di personaggi come Crisogono. 3 Cicerone scelse la via dell’ironia e dello scherzo: sostenne che le glorie militari di Murena costituivano, ai fini del consolato, un titolo ben maggiore e prese garbatamente in giro l’anacronistico rigorismo stoicheggiante di Catone. La Pro Murena è una fra le orazioni più divertenti di Cicerone: egli – che nonostante tutto aveva sincera stima sia di Servio che di Catone – seppe trovare i toni di una satira lieve e arguta, che non scade mai nella derisione o nella beffa volgare. L’orazione è interessante per altri motivi: prendendo posizione nei confronti dell’arcaico moralismo di Catone, Cicerone incomincia tratteggiare le linee di un nuovo modello etico la cui definizione lo occuperà fino ai suoi ultimi anni: un modello in cui il rispetto per il mos maiorum sia contemperato da quel tanto di «addolcimento» dei costumi, di apertura alle gioie della vita, che ormai concedono i nuovi standard della società. La formazione del primo triumvirato fra Cesare, Pompeo e Crasso, segnò un rapido declino delle sue fortune politiche. => Un tribuno «popolare», Clodio, che aveva verso Cicerone anche rancori di origine personale, presentò nel 58 una legge in base alla quale doveva essere condannato all’esilio chi avesse fatto mettere a morte dei cittadini romani senza processo. La legge mirava a colpire l’operato di Cicerone nella repressione dei catilinari. Non più sostenuto dalla nobiltà, che allontanatosi il pericolo catilinario poteva fare a meno di lui, abbandonato anche da Pompeo, che doveva tenere conto delle esigenze dei triumviri suoi alleati, Cicerone dové soccombere all’attacco di Clodio. => Richiamato all’esilio nel 57, trovò Roma in preda all’anarchia: si fronteggiavano in continui scontri di strada, le opposte bande di Clodio e di Milone. PRO SESTIO In questo clima, nel 56, trovandosi a difendere Sestio, un tribuno accusato da Clodio di atti di violenza, espose una nuova versione della propria teoria sulla concordia dei ceti abbienti. In quanto semplice intesa fra il ceto senatorio ed equestre, la concordia ordinum si rivelava fallimentare: => Cicerone ne dilata il concetto in quello di consensus omnium bonorum = concordia attiva di tutte le persone agiate e possidenti, amanti dell’ordine politico e sociale, pronte all’adempimento dei propri doveri nei confronti della patria e della famiglia. I boni, una categoria che attraversa verticalmente gli strati sociali esistenti, senza identificarsi con alcuno di essi in particolare, saranno d’ora in poi il principale destinatario della predicazione etico-politica di Cicerone. Dovere dei boni sarà non rifugiarsi egoisticamente nel perseguimento dei propri interessi privati, ma fornire sostegno attivo agli uomini politici che rappresentano la loro causa. L’esigenza largamente avvertita a Roma, di un governo più autorevole, spinge tuttavia Cicerone a desiderare che il senato e i boni, per superare le loro discordie, si affidino alla guida di personaggi eminenti, di grande autorevolezza: una teoria che verrà approfondita nel De repubblica. => In questa ottica si spiega probabilmente l’avvicinamento ai triumviri che Cicerone compie in questi anni, nella speranza di condizionarne l’operato, e di far si che il loro potere non prevarichi su quello del senato ma si mantenga nei limiti delle istituzioni repubblicane. => L’avvicinamento non significa, pertanto, un tradimento della nobilitas. PRO CAELIO Fra le orazioni «anticlodiane» un ruolo particolare occupa quella in difesa di Marco Celio Rufo, un giovane brillante, amico personale di Cicerone. Celio era stato l’amante di Clodia, sorella del tribuno (la Lesbia di Catullo), una delle dame eleganti e corrotte di cui abbondava la Roma aristocratica del tempo. 6 Contro Celio era stata accumulata un congerie di accuse, fra cui quella di un tentativo di avvelenamento nei confronti di Clodia. Fu un processo in cui i rancori personali di tute le parti in causa si intrecciarono strettamente con questioni politiche di rilevanza molto più generale. Attaccando Clodia, in cui indicò l’unica regista di tutte le manovre contro Celio, Cicerone ebbe modo di sfogare il suo astio anche nei confronti del fratello: la donna è dipinta come una volgare meretrice, e accusata perfino di rapporti incestuosi con Clodio. L’orazione per la pittoresca varietà dei toni (che spaziano da quello disincantato dell’uomo di mondo al pathos funereo) è fra le più riuscite di Cicerone. Non è solamente la vena satirica ad avvicinare questa orazione alla Pro Murena, ma anche il maturare una proposta di nuovi modelli etici, rievocando le tappe della vita di Caelio. => Cicerone ha modo di dipingere uno spaccato della società romana nel suo tempo, e si sforza di giustificare agli occhi dei giudici i nuovi costumi che la gioventù ha assunto da tempo e che possono destare scandalo solo agli arcigni moralisti troppo attaccati al passato. => Le virtù che un tempo hanno reso grande lo stato romano, non si trovano più nemmeno nei libri. È ormai tempo di allentare le briglie ai giovani, purché essi non perdano di vista alcuni principi fondamentali: verrà il tempo in cui, sbolliti gli ardori, sapranno tornare sulla nobile via del mos maiorum. PRO MILONE Gli scontri tra le bande di Clodio e di Milone si protrassero a lungo. => Nel 52 Clodio rimase ucciso. => Cicerone si assunse la difesa di Milone. L’orazione è considerata uno dei suoi capolavori, per l’equilibrio delle parti e l’abilità delle argomentazioni, basate sulla tesi della legittima difesa e sulla esaltazione del «tirannicidio». => Ma, nella forma in cui ci è conservata, si tratta di una radiale rielaborazione compiuta in tempi successivi, al processo. => Di fronte ai giudici, Cicerone fece un «fiasco» colossale (e Milone dovette fuggire in esilio): gli cedettero i nervi a causa della situazione di estrema tensione in cui si trovava la città, messa a razzia dai partigiani di Clodio, con le truppe di Pompeo che cercavano di imporre l’ordine. LE ORAZIONI «CESARIANE» 49 a.C. => scoppia la guerra civile => Cicerone aderisce senza entusiasmo alla causa di Pompeo => dopo la vittoria di Cesare, ne ottenne il perdono. Era consapevole che, qualunque fosse stato l’esito, il senato sarebbe risultato indebolito di fronte al dominio schiacciante del vincitore. Nella speranza di contribuire a renderne il regime meno autoritario, ricercò, in un primo periodo, forme di collaborazione, e accettò di perorare di fronte al dittatore le cause di alcuni pompeiani «pentiti». Le orazioni cosiddette «cesariane», Pro Marcello, Pro Ligario, Pro lege Deiotaro, si collocano fra il 46 e il 45. Cicerone mancò probabilmente nella misura della vera dignità: le orazioni abbondano di elogi a Cesare. Nella Pro Marcello si sforza, tuttavia, di additare a Cesare un programma politico di riforma dello stato nel rispetto delle forme repubblicane e delle prerogative del senato. LE FILIPPICHE 44 a.C. => dopo l’uccisione di Cesare, che salutò con giubilo, Cicerone torna ad essere un uomo politico di primo piano. I pericoli per la repubblica non erano finiti => il più stretto collaboratore di Cesare, Antonio, mirava ad assumerne il ruolo, mentre sulla scena politica romana si affacciava anche il giovane Ottaviano, erede di Cesare e con un esercito ai suoi comandi. La manovra politica di Cicerone tendeva a staccare Ottaviano da Antonio e a riportare il primo sotto le ali protettrici del senato. Per indurre il senato a dichiarare guerra ad Antonio e a dichiararlo nemico pubblico, Cicerone pronunciò contro di lui, a partire dall’estate del 44, le orazioni Philippicae, in un numero forse di 18 (ne restano 14). => Il titolo, di controversia paternità ciceroniana, - alcuni scrittori le chiamavano Antonianae, mentre il 7 nome Filippiche venne usato da Cicerone nella suo corrispondenza privata, ma in senso scherzoso – allude alle celeberrime requisitorie di Demostene contro Filippo di Macedonia. La seconda Filippica {=> l’unica che non venne effettivamente pronunciata, ma solo fatta circolare privatamente nella redazione scritta) si distingue per la veemenza dell’attacco e i toni di indignata denuncia. => questa orazione spira odio => Antonio, con una violenza satirica pari solo a quella di certi passaggi della In Pisonem, viene presentato come un tiranno dissoluto, un ladro del denaro pubblico, un ubriacone «che vomita in tutto il tribunale pezzi di cibo fetidi di vino». Ma la manovra politica di Cicerone era destinata al fallimento. => Con un brusco voltafaccia, Ottaviano si sottrasse alla tutela del senato, e strinse un accordo con Antonio e un altro capo cesariano, Lepido (=> secondo triumvirato). I tre divennero i padroni di Roma e Antonio pretese ed ottenne la testa di Cicerone, il cui nome venne inserito nelle liste di proscrizione. Le opere retoriche DE INVENTIONE 84 a.C. => opera giovanile In gioventù Cicerone aveva iniziato, senza portarlo a termine, un trattatello di retorica, il De inventione (inventio = indica il reperimento dei materiali da parte dell’oratore), per il quale aveva largamente attinto alla quasi contemporanea Rhetorica ad Herennium. => Nell’opera si interrogava se l’oratore dovesse accontentarsi della conoscenza di un certo numero di regole o gli fosse necessaria una larga cultura nel campo del diritto, della filosofia e della storia. Un interesse particolare presenta il proemio, dove il giovane avvocato si pronuncia in favore di una sintesi di eloquenza e sapientia (= cultura filosofica). => La sapientia è ritenuta necessaria alla formazione della coscienza morale dell’oratore => l’eloquenza priva di sapientia (cioè quella dei demagoghi e degli agitatori popolari) ha portato più di una volta gli stati alla rovina. La soluzione ciceroniana è pensata esplicitamente per la società romana => molti anni dopo, egli ritornerà sulle stesse tematiche nel De oratore. DE ORATORE Venne composto nel 55, durante un periodo di ritiro dalla scena politica, mentre Roma era sconvolta dalle bande di Clodio e di Milone. Ha forma dialogica. => è ambientato nel 91, al tempo dell’adolescenza di Cicerone, e vi rendono parte alcuni fra i più insigni oratore dell’epoca, fra i quali spiccano Marco Antonio, nonno del triumviro, e Lucio Licinio Crasso (quest’ultimo sostanzialmente il portavoce dello stesso Cicerone). ARGOMENTO Nel I libro Crasso sostiene, per l’oratore, la necessità di una vasta formazione culturale. Antonio gli contrappone l’ideale di un oratore più «istintivo» e «autodidatta», la cui arte si fondi sulla fiducia nelle proprie doti naturali, sulla pratica del foro e sulla dimestichezza con l’esempio degli oratori precedenti. Nel II libro si passa alla trattazione di questioni più analitiche, e Antonio esprime i problemi concernenti la inventio, la dispositio e la memoria. Compare anche un personaggio spiritoso e caustico, Cesare Strabone, al quale è assegnata una lunga e piacevole digressione sulle arguzie e sui motti di spirito. Nel III libro Crasso discute le questioni relative alla elocutio, alla pronuntiatione, cioè in genere all’actio (quasi «recitazione») dell’oratore, non senza ribadire la necessità di una vasta cultura generale e della formazione filosofica. L’AMBIENTAZIONE DEL DE ORATORE La scelta dell’anno 91, per l’ambientazione del dialogo, ha un significato preciso: è l’anno stesso della morte di Crasso (pochi giorni dopo quelli in cui si immagina avvenuto il dialogo) e precede di poco la guerra 8 contemperare le 3 forme fondamentali: l’elemento monarchico si rispecchia nell’istituzione del senato, l’elemento aristocratico nell’istituzione del senato e l’elemento democratico nei comizi. Il libro II si occupava dello svolgimento della costituzione romana. Il libro III trattava la iustitia, ed era in larga parte dedicato a un tentativo di confutazione dell’acutissima critica che l’accademico Carneade aveva svolto dell’imperialismo romano. => La critica si incarnava sul concetto di «guerra giusta», ricorrendo al quale i Romani, col pretesto di soccorrere i propri «alleati» (cioè i sudditi) in difficoltà, avevano progressivamente esteso il proprio dominio ed ampliato la propria sfera d’influenza. Il libro IV si occupava dell’educazione dei cittadini e dei principi che devono regolare i loro rapporti. Nei libri IV e V Cicerone introducea la figura del rector et gubernator rei publicaeeee o princeps (è questa una delle parti più lacunose dell’opera). Nel VI libro il dialogo si conclude con la rievocazione, da parte di Scipione Emiliano, del sogno in cui tempo addietro gli era apparso l’avo, Scipione Africano, per mostrargli, dall’alto del cielo, la piccolezza e l’insignificanza di tutte le cose umane, anche della gloria terrena, e rivelargli tuttavia la beatitudine che attende nell’al di là le anime dei grandi uomini di stato. IL REGIME «MISTO» La teoria del regime «misto» risaliva, attraverso Polibio, al peripatetico Dicearco e allo stesso Aristotele. Nella versione di Scipione, il contemperamento delle 3 forme fondamentali di governo non avviene tuttavia in proporzioni paritetiche. All’elemento democratico Scipione guardava con evidente antipatia, considerando soprattuto come una «valvola di sicurezza» per far scaricare e sfogare le passioni «irrazionali» del popolo. => L’elogio del regime misto si risolve come una esaltazione della repubblica aristocratica dell’età scipionica. LA FIGURA DEL PRINCEPS Date le condizioni lacunose in cui ci è giunta la parte relativa dell’opera, è difficile precisare in che modo veniva delineata la figura del princeps, e come essa si collocava nell’organismo statale. Tuttavia, alcuni punti possono ritenersi assodati: il singolare si riferisce al «tipo» dell’uomo politico eminente, non alla sua unicità => Cicerone sembra pensare a una élite di personaggi eminenti che si ponga alla guida del senato e dei boni, e si raffigura probabilmente il ruolo dei princeps sul modello di quello che nella repubblica romano aveva ricoperto proprio Scipione Emiliano. ⚠ Cicerone non prefigura esiti «augustei», ma intende maniere il ruolo del princeps all’interno dei limiti della forma statale repubblicana: non pensa a una riforma costituzionale, ma alla coagulazione del consesso politico intorno al leader prestigiosi. => L’autorità del princeps non è alternativa a quella del senato, è di sostegno necessario per salvare la res publica. Ma non è tutto: Cicerone disegna l’immagine di un dominatore-«asceta» => Perché la sua autorità non travalichi oltre i limiti costituzionali, il princeps dovrà armare il propio animo contro tutte le passioni «egoistiche», principalmente contro il desiderio di povere e di ricchezza. => è questo il senso del disprezzo verso tutte le cose umane che il Somnium Scipionis addita ai reggitori dello stato. [=> sulla questione Cicerone ritornerà nel De officiis, trattando la magnitudo animi] IL DE LEGIBUS Ispirandosi ancora al modello di Platone, che alla Repubblica aveva fatto seguire le Leggi, Cicerone completa il dialogo sullo stato con De legibus, iniziato nel 52 e probabilmente non pubblicato durate la vita di Cicerone. Se ne sono conservati i primi tre libri e frammenti del IV e del V. L’azione stavolta non è posta in un’epoca estinta, ma nel presente, e interlocutori sono lo stesso Cicerone, il fratello Quinto, e l’amico Attico. => L’ambientazione è la villa di Cicerone ad Arpino e nei boschi e nelle 11 campagne circostanti, rappresentati secondo la modalità del locus amoenus che ha il suo modello nel Fedro di Platone. I personaggi sono caratterizzati con naturalezza e realismo: così Quinto è raffigurato come un ottimate estremista, Cicerone come un conservatore moderato, Attico come un epicureo che quasi si vergogna delle proprie opzioni filosofiche. Nel libro I Cicerone espone la tesi stoica secondo la quale la legge non è sorta per convenzione, ma si basa sulla ragione innata in tutti gli uomini ed è perciò data da dio. Nel libro successivo l’esposizione delle leggi che dovrebbero essere in vigore nel migliore degli stati si basa (⚠ qui sta la differenza principale da Platone) non su una legislazione utopistica, ma sulla tradizione legislativa romana. Nel III libro Cicerone presenza il testo delle leggi riguardanti i magistrati e loro competenze. Le opere filosofiche L’Hortensius, perduto, era un’esortazione alla filosofia, sul modello del Protrettico di Aristotele. Gli Academica, che trattavano di problemi gnoseologici, ebbero una doppia redazione: la prima, i cosiddetti Academica priora, in due libri e la seconda, gli Academica posteriora, in quattro libri. => Ci restano il libro II della prima redazione, intitolato Lucullus (perchè in esso è Lucullo l’interlocutore di Cicerone), e il libro I della seconda redazione, il Varro, in cui è Varrone a esporre le sue teorie, con interlocutori Attico e Cicerone. ↓ TEORIA DELLA CONOSCENZA In sede di teoria della conoscenza, Cicerone aderì, nei suoi anni maturi, al probabilismo degli Accademici, una sorta di scetticismo pragmatistico che, senza negare l’esistenza di una verità oltre i fenomeni, si preoccupa principalmente di garantire la possibilità di una conoscenza probabile, utile a orientare l’azione e ad essa funzionalizzata. Nel libro II degli Academica, Lucullo rimprovera a Cicerone di distruggere la stessa possibilità della conoscenza, rifiutandosi di ammettere l’esistenza di criteri sicuri delle nostre percezioni: se tutto è opinabile, non vi sarà più né certezza né verità. Cicerone replica che anche un dubbio generalizzato non comporta la negazione della verità; nemmeno pensa come gli scettici, che esistano molteplici verità. => Egli e le sue fonti accademiche hanno ben compreso la necessità di guardarsi da errori opposti, di evitare sia il dogmatismo radicale, che rifiuta di dubitare di determinate “apparenze”, sia il radicale scetticismo che spinge il dubbio fino a mettere in questione la possibilità stessa di qualsiasi conoscenza. DE FINIBUS BONORUM ET MALORUM Dedicato a Bruto, è considerato da alcuni il capolavoro di Cicerone filosofo => certo è tra le sue opere più eleganti ed armonicamente costruite. Tratta questioni etiche, e cioè il problema del sommo bene e del sommo male (come dice il titolo), che è affrontato in 5 libri, comprendenti 3 dialoghi: nel primo è esposta la teoria degli epicurei (libri I-III); nel secondo la teoria stoica con le teorie accademica e peripatetica (libri III-IV); nel terzo la teoria eclettica di Antioco di Ascalona, maestro di Cicerone e di Varrone, la più vicina al pensiero dell’autore. TUSCULANAE DISPUTATIONES Sempre di questioni etiche tratta un’altra tra le maggiori opere filosofiche di Cicerone e certo la più appassionata, le Tusculanae disputationes, dedicate anch’esse a Bruto e ambientate nella villa di Cicerone a Tuscolo, da cui il titolo. L’opera - in 5 libri - segna il punto di massimo avvicinamento di Cicerone alle tesi dello stoicismo più rigoroso => è condotta in forma di dialogo tra Cicerone e un anonimo interlocutore (quasi un monologo interiore quindi). 12 Nei singoli libri sono trattati rispettivamente i temi della morte, del dolore, della tristezza, dei turbamenti dell’animo e della virtù come garanzia della felicità. => grande summa dell’etica antica => vasto trattato sul tema della felicità. Nelle Tusculanae Cicerone cerca una risposta anche ai suoi personali interrogativi, una soluzione ai suoi dubbi: di qui la profonda partecipazione emotiva dell’autore agli argomenti trattati, che conferisce allo stile un’appassionata solennità e da raggiungere a talune pagine un’intensità lirica che roba pochi riscontri nella prosa latina. DE NATURA DEORUM, DE DIVINATIONE, DE FATO Questi tre dialoghi sono di argomento religioso: il De natura deorum, in tre libri, è dedicato anch’esso a Bruto; il De divinatione, in due libri e il De fato, giuntoci incompleto. Le ultime due opere sono presentate esplicitamente dall’autore come integrative e complementari rispetto alla prima. ! Lo sforzo di Cicerone si muove, in generale, nel senso di ripensare tutto il corpus di metodi, riflessioni, teorie, cresciuto entro le scuole filosofiche ellenistiche per ricomporlo in un blocco di senso comune: egli intende così offrire un punto di riferimento alla classe dirigente romana, nella prospettiva di ristabilirne l’egemonia della società. => Non guarda solo ai problemi immediati ma si pone questioni che riguardano i fondamenti stessi della crisi sociale, politica e morale della società romana => tenta di escogitare soluzioni di lungo periodo. Non è il caso di interrogarsi sulla originalità filosofica di Cicerone. Anche la rapidità della composizione delle sue opere filosofiche sta a dimostrare che si tratta soprattutto di compilazioni da fonti greche. => è originale nella scelta dei temi, nel taglio degli argomenti, perché nuovi e originali sono i problemi che la società pone. CATO MAIOR DE SECTUTE E LAELIUS DE AMICITIA Un posto particolare, fra le opere filosofiche di Cicerone, occupano i due brevi dialoghi, composti entrambi nel 44 e dedicati ad Attico, in cui i precetti filosofici trovano incarnazione in due figure della tradizione romana. Al Cato maior Cicerone lavora nei primi mesi del 44, poco prima dell'uccisione di Cesare, in un periodo di forzata di forzata in attività politica. Nel personaggio di Catone il Censore, che sceglie a proprio portavoce, Cicerone raffigura l'amarezza per una vecchiaia la quale, oltre al decadimento fisico e all'imminenza della morte, sembra soprattutto temere la perdita della possibilità di intervento politico. L'azione è posta nel 150, l'anno precedente la morte di Catone. Proiettandosi nella figura di un anziano che conserva intatta autorità e prestigio, Cicerone ha modo di rifugiarsi in passato ideale, letterale immaginando di vestire i panni dell'antico Censore. Nel raffigurare quest'ultimo egli si è concesso molte libertà: il personaggio appare come addolcito e ammansito, raffinato cultore della humanitas e bella socievolezza. Nella sua vittoria si armonizzano in maniera perfetta il suo gusto per il l’otium la tenacia dell'impegno politico, due opposte esigenze che Cicerone ha cercato invano di conciliare lungo tutto l'arco della propria vita. Diversa, più combattiva, l'atmosfera che si respira nel Laelius, il quale, all'indomani dell'uccisione di Cesare, accompagna il rientro di Cicerone sulla scena politica. Il dialogo è immaginato svolgersi nel 129, lo stesso anno del De re publica, pochi giorni dopo la misteriosa morte di Scipione nel corso delle agitazioni graccane. Rievocando la figura dell'amico scomparso, Lelio ha modo di intrattenere i propri interlocutori sulla natura e sul valore dell'amicizia stessa. => per i romani, amicitia era soprattutto la creazione di legami personali a scopo di sostegno politico. => Nascendo dal tentativo di superare la tradizionale logica clientelare e di 13 Cicerone crea un periodo di tipo complesso e armonioso, fondato su un perfetto equilibrio e rispondenza delle parti, il cui modello, fin dalle orazioni, egli trovò in Isocrate e in Demostene. Dato il sempre presente modello oratorio, le esigenze dell’orecchio e del ritmo hanno spesso la prevalenza: il periodo ciceroniano è in genere una rigorosa architettura logica. => eliminazione degli anacoluti e delle «costruzioni a senso» e delle molte altre forme di incongruenza che la prosa arcaica latina aveva ereditato dal linguaggio colloquiale. Sostituisce la paratassi (coordinazione) con l’ipotassi (subordinazione) => organizzazione delle frasi in ampie unità che manifestassero un’accurata ed esplicita subordinazione delle varie parti rispetto al concetto principale. Varietà dei toni e dei registri stilistici: ciascuna delle tre gradazioni di stile (semplice, temperato, sublime) viene impiegata a seconda delle esigenze discorsive corrispondenti: probare, delectare, movere; si tratta ovviamene di sapere dove e quando, secondo il canonico principio greco del prèpon. La disposizione verbale è sempre accurata, tale da realizzare il numerus. Nella pratica, il numerus agisce come un sistema di regole metriche adattate alla prosa, in modo che i pensieri gravi trovino un andamento solenne e sostenuto, e invece il discorso piano un’intonazione familiare. La sede privilegiata per questi effetti metrico-ritmici è la clausola, quella parte finale del periodo in cui l’orecchio dell’ascoltatore deve sentirsi impressionato dagli effetti suggeriti dalla successione dei piedi. Le opere poetiche I DUE PERIODI DELLA PRODUZIONE POETICA DI CICERONE Si possono distinguere due periodi: - il periodo della primissima produzione i gusto e modi sostanzialmente alessandrineggianti perché dedicato a componimenti brevi e a contenuto erudito o didascalico => compose poemetti alessandrini di argomento mitologico (Glaucus, Alcyones, Limon); - il periodo dei poemi epico-storici di tipo enniano (o almeno arcaizzante); - fra queste deve fasi è probabile si debba collocare la traduzione degli eruditissimi Fenomeni di Arato. L’opera poetica più fortunata di Cicerone furono probabilmente gli Aratea, una traduzione in esametri dei Fenomeni di Arato, dei quali rimangono porzioni di una certa estenzione. => Cicerone tradusse anche la seconda sezione del poemetto di Arato sotto il titolo Prognostica. I poemi epici: il Marius e il De consolato suo, in tre libri, composto intorno al 60 per celebrare l’anno della gloriosa battaglia contro Catilina (=> un ampio brano di questo poema ci è stato conservato dallo stesso Cicerone nel De divinatione). => Fu l’opera più beffeggiata di Cicerone, già dai contemporanei, e poi dalla critica letteraria del I sec. d.C. => oltre ce per il suo non grande valore poetico, per le stucchevoli loro che l’autore vi si autoprodigava. La sua influenza di versificatore non dovette essere insignificante, almeno per gli aspetti tecnici-artistici: egli contribuì non poco a regolarizzare l’esametro latino (posizione delle cesu nel verso e specializzarsi di certe forme metrico-verbali in clausole); => anzi dai suoi esercizi poetici l’esametro uscì più elegante, certamente più vivace nel ritmo, già molto vicino alla strutturazione che assumerà in età augustea. => echi (soprattuto dagli Aratea) si avvertono in Lucrezio, in Virgilio georgico, finanche in Orazio ed Ovidio. In più: maggiore libertà espressiva nella disposizione delle parole e per la spinta impressa nel discorso oltre i rigidi confini del verso. => Il maestro dell’ampio e articolato periodare prosastico favorì in poesia lo sviluppo dell’enjambement e della tecnica dell’«incastro verbale». Le prove migliori dell’arte poetica di Cicerone saranno quelle di traduttore dai poeti greci, per quanto egli risultò spesso più magniloquente che capace di vero pathos. => Anche in questo caso Cicerone perseguì e riusoì a realizzare il suo constante programma di latinizzazione della cultura greca. 16 ↓↓ QUINDI Lucrezio e Cicerone si ritrovano contemporaneamente ma su fronti diversi ad affrontare la stessa partita: creare/dare una lingua filosofica latina che sia in grado di assimilare e diffondere il latino. => i temi affrontati sono vari: si parla di etica ma anche (in opere come il De natura deorum, il De fato, il De divinatione) c’è una riflessione di più ampio respiro, noi diremmo di filosofia teoretica, di teologia. Di fatto leggendo queste opere filosofiche di Cicerone ci rendiamo conto (soprattuto de divinazione e De naturaa decorum) ci rendiamo conto che quella predestinzione che sono per noi sono familiari tra fisica etica, filosofia teoretica in realtà sono barriere molto più labili di quello che siamo abituatiti a pensare. Perché un’opera come il de natura decorum parla si di teologia ma inserisce tutta una serie di argomentazioni che sono in realtà di fisica, si occupa dei fenomeni naturali, interpretandoli ovviamente in una prospettiva teologica. sono campi che presentano una chiara continuità tra di loro. molto spesso da una riflessione di carattere teologico deriva come conseguenza una digressione di natura etica. facciamo alcuni nomi per capire che Cicerone e Lucrezio sono quello che c’è rimasto in maniera più consistente. Due contemporanei che operarono altrettanto in maniera intensa per trasportare la filosofia greca a Roma sono: Marco Terenzio Varrone (116 - 27 a.C) Opere che si sono conservate: De lingua latina (6 libri su 25) De re rustica molte opere frammentarie o sedute di carattere storiografico, geografico, antiquario (Anquitates) Era autore di opere di argomento filosofico, scientifico, sulla retorica, sul diritto. Era quello che oggi definiremmo un erudito, si occupava di tanti argomenti differenti. Publio Nigidio Figulo (98 - 65 a.C.) filosofo pitagorico ed esoterico pressoché sconosciuto ai più, ma ebbe un ruolo fondamentale per la cultura del I sec. a.C. e per la prima età imperiale; impegnato in una lavoro molto cospicuo di trasposizione di dottrine filosofiche dal mondo greco al mondo latino. a causa degli interessi esoterici che farà si che anche in età imperiale sarà guardato come una figura ambigua, carismatica; non è un caso che Lucano nella Pharsalia lo nomina espressamente per la sua difura che diviene per certi aspetti oracolare, una sorta di saggio. Apuleio (125 - post 170 d.C.) si presenta come filosofo Metamorphoseon libri o Asinus aureus (11 libri) Apologia o De Magia (processo intentato dai parenti di Pudentilla, nel 158) Florida (raccolta di fiori, pezzi oratori) queste due raccolte oratorie, l’apologia è un processo, mentre la florida sono processi epidittici De Platone et eius dogmate De deo Socratis De mundo (rielaboraizone di un trattato aristotelico …) [Perì ermeneias] [Asclepius] considerate spuri 17 Seneca (4 a.C. - 65 d.C.) 15 libro degli Annales di Tacito ci racconta il suicidio di Seneca (e di altri coinvolti nella congiura dei Pisoni, Petronio e Lucano) 39: Seneca è uno degli intellettuali più affermati tanto che Caligola lo vuole condannare a morte 41 - 49: Seneca è esiliato in Corsia da Claudio spinto dalla prima moglie (Messalina) che guardava con sospetto il suo rapporto con le sorelle di Caligola (Giulia Livilla) 49: richiamato da Agrippina dall’esilio, seconda moglie di Claudio dopo l’uccisione di Messalina e diventa precettori di Nerone 54: muore Claudio e diventa imperatore Nerone 59: Nerone fa uccidere la madre 62: muore il prefetto del pretorio Brutto, sostituito da Tigellino; Seneca si rende conto che il suo ruolo è pericoloso e chiede a Nerone la possibilità di ritirarsi a vita privata cosa che non gli viene concessa Nerone capisce che dietro questa richiesta c’è la volontà di allontanarsi dal suo governo e da questo momento in poi i suoi rapporti con la politica si incrinano 65: congiura dei Pisoni, viene accusato di fare parte della congiura e costretto al suicidio OPERE BIPARTITE: Opere poetiche: le tragedie Opere filosofiche: - Dialoghi che comprende 12 opere (in realtà sono 10) - Trattati (De beneficiis a Ebuzio liberale; De clementia a Nerone; Naturales quaestiones) - Epistolae ad Lucilium Opere poetiche: - Tragedie - Apokolokyntōsis o Lupus de morte Claudii (54; prosimetro) - Epigrammi (?) di incerta paternità, nell’Antologia palatina ci sono un gruppo di epigrammi attribuiti a Seneca ma la questione è ancora aperta prosimetro = commistione di sezioni in versi e sezioni in prosa (anche nel Satiricon e nelle satire menippee) Ben poche, fra le opere senecane rimastici, sono databili con sicurezza o buona approssimazione (sicché è difficile cercar di seguire un eventuale sviluppo del suo pensiero, o collegarlo alle vicende biografiche). 1. I DIALOGHI Della vasta produzione senecana, anche fra le opere superstiti quel di carattere filosofico occupano lo spazio maggiore. Alcune di queste opere furono raccolte, dopo la morte di Seneca, in 12 libri di Dialoghi, presente nel principale manoscritto ambrosiano 90 del XVI secolo, copiato a Montecassino, che li conserva in questo ordine con una numerazione forviante (tratta come tre libri il De ira) Il titolo, già noto a Quintiliano che parlava di dialoghi in riferimento alle opere filosofiche, va spiegato: queste opere, tutte brevi a eccezione del De ira, non implicano la forma dialogica (non c’è nemmeno la finzione del dialogo se non un generico rivolgersi al dedicatario interpellato attraverso il tu, riproducendo una movenza che è tipica della diatriba, elemento caratteristico è il botta e risposta con un tu generico - forma retorica dell’occupatio), pare piuttosto dovuta alla grande tradizione del dialogo filosofico risalente fin a Platone: sono trattati, per lo più brevi, su questioni etiche e psicologiche. 18 Le altre opere filosofiche, tramandateci autonomamente, sotto i 7 libri De beneficiis, il De clementia, indirizzato a Nerone, e i 20 libri comprendenti le 124 Epistulae morales ad Lucilium (ma originariamente più numerose, perché abbiamo notizia di un ventunesimo libro). 
 4. IL DE BENEFICIIS E IL RIPIEGAMENTO SULLA MORALE INDIVIDUALE Altra opera filosofica, dedicata all’amico Ebuzio Liberale, sono i sette libri del De beneficiis. Vi si tratta della natura e delle varie modalità degli atti di beneficienza, del legame che istituiscono fra benefattore e beneficato, dei doveri di gratitudine che li regolano e delle conseguenze morali che colpiscono gli ingrati (si sospetta una velata allusione al comportamento di Nerone nei suoi confronti). L’opera, che analizza il beneficio soprattutto come elemento coesivo dei rapporti interni all’organismo sociale, sembra trasferire sul piano della morale individuale il progetto di una società equilibrata e concorde che Seneca aveva fondato sull’utopia di una monarchia illuminata. L’appello, rivolto soprattutto alle classi privilegiate, ai doveri della filantropia e della libertà, nell’intento di instaurare rapporti sociali più umani e cordiali, si configura come la proposta alternativa (con una sorta di prospettiva rovesciata, ma con identica impostazione paternalistica) al fallimento di del progetto. 5. IL DE CLEMENTIA E IL PROBLEMA DEL BUON SOVRANO L’opera in cui Seneca aveva esposto più compiutamente la sua concezione del potere è il De clementia, opportunamente dedicato al giovane imperatore Nerone (negli anni 55-56) come traccia di un ideale programma politico ispirato a equità e moderazione. Seneca non mette in discussione la legittimità costituzionale del principato, né le forme apertamente monarchiche che esso ha ormai assunto: il potere unico era il più conforme alla concezione stoica di un ordine cosmico governato dal logos, dalla ragione universale, il più idoneo a rappresentare l’ideale di un universo cosmopolita, a fungere da vincolo e simbolo unificante dei tanti popoli che formano l’Impero; senza considerare che si era ormai imposto nei fatti, e non sembrava realistico confidare in quel miraggio di una restaurazione della libertas repubblicana che animava i circoli stoicheggianti dell’opposizione aristocratica. Il problema è quello di avere un buon sovrano: e in un regine di potere assoluto, privo di forme di controllo esterno, l’unico freno sul sovrano sarà la sua stessa coscienza, che lo dovrà trattenere dal governare in modo tirannico. La clemenza (che non si identifica con la misericordia o con la generosità gratuita ma esprime un generale atteggiamento di filantropica benevolenza) è la virtù che dovrà informare i suoi rapporti coi sudditi: con essa, e non incutendo timore, egli potrà ottenere da loro consenso e dedizione, che sono la più sicura garanzia di stabilità di uno stato. LA FILOSOFIA ALLA GUIDA DELLO STATO Nella concezione senecana di principato illuminato e paternalistico, la possibilità di instaurare un buon governo, l’importanza che acquista l’educazione del princeps e più in generale la funzione della filosofia come garante e ispiratrice della direzione politica dello stato => è affidata alla coscienza del sovrano e al suo perfezionamento morale. In questa illusione che sembrava rinnovare l’antico progetto platonico del governo dei filosofi, e che determinò in maniera drammatica anche le sue vicende biografiche, Seneca impegno a lungo le proprie energie: mosso sempre dall’impulso ai doveri della vita sociale, e ugualmente lontano dalle posizioni estreme e da un intransigente rifiuto alla collaborazione col princeps come di una servile acquiescenza al suo dispotismo. All’interno di questo ambizioso progetto di equilibrata e armoniosa distribuzione del potere tra un sovrano moderato e un senato salvaguardato nei suoi diritti di libertà e dignità aristocratica, alla filosofia spetta un ruolo assolutamente preminente, quello di promuovere la formazione morale del sovrano e dell’élite politica. 21 La rapida degenerazione del governo neroniano, dopo la parentesi del «quinquennio felice», mette a nudo i limiti di quel disegno, vanificandolo, e la filosofia senecana deve ridefinire i suoi compiti, allentando i legami con la civitas e accettando progressivamente l’impegno ad agire sulle coscienze dei singoli. => privato di un suo ruolo politico, il saggio stoico si pone al servizio dell’umanità. 6. EPISTUALAE MORALES AD LUCILIUM Se è vero che non si possono distinguere troppo nettamente, nella elaborazione filosofica di Seneca, i due momenti dell’impegno civile e dell’otium meditativo (l’aspirazione ad assolvere, nelle forme mediate concesse dalla situazione, una funzione sociale resta forte anche nelle opere tarde) => è tuttavia innegabile che nella produzione successiva al suo ritiro dalla scena politica egli si muove soprattutto nell’orizzonte della coscienza individuale. ⚠ L’opera principale della sua produzione tarda, e la più celebre in assoluto, sono le Epistulae ad Lucilium, una raccolta di lettere di maggiore o minore estensione (fino alle dimensioni di un trattato) e di vario argomento, indirizzate all’amico Lucilio. Chi è Lucilio? Un personaggio di origini modeste, un po’ più giovane di Seneca e proveniente dalla Campania, assorto al rango equestre e a varie cariche polico-amministrative, di buona cultura, poeta e scritture egli stesso. Se si tratta di un epistolario, reale o fittizio, è questione di cui si continua tuttora a discutere: non ci sono difficoltà insormontabili per credere a un reale scambio epistolare: varie lettere richiamano in risposta quelle di Lucilio. Questa ipotesi è peraltro non inconciliabile con la possibilità che altro lettere, specie quelle più ampie e sistematiche, non siano state effettivamente inviate e siano state invece inserite nella raccolta nel momento della pubblicazione. ⚠ L’opera ci è giunta incompleta, e si può datare a partire dal periodo del disimpegno politico (62 - inizio 63). => Costituisce in ogni caso un unicum nel panorama letterario filosofico antico. L’EPISTOLA FILOSOFICA COME GENERE LETTERARIO Lo spunto a comporre lettere di carattere filosofico indirizzate ad amici sarà venuto probabilmente a Seneca da Platone e soprattutto da Epicuro. Comunque sia, egli mostra piena consapevolezza, non priva di orgoglio, di introdurre nella cultura letteraria latina un genere nuovo, che egli tiene polemicamente a distinguere dalla comune pratica epistolare, anche quella di tradizione più illustre, rappresentata da Cicerone. Il modello cui intende uniformarsi è Epicuro, colui che nelle lettere agli amici ha saputo realizzare quel rapporto di formazione e di educazione spirituale che Seneca istituisce con Lucilio. => Le sue lettere vogliono essere uno strumento di crescita morale, un diario delle conquiste dello spirito nel lungo itinerario verso la sapientia. Riprendendo un topos molto comune nell’epistolografa antica, Seneca insiste sul fatto che lo scambio epistolare permette di istituire un colloquium con l’amico, di creare con lui un’intimità quotidiana che, fornendo direttamente un esempio di vita, sul piano pedagogico si rivela più efficace dell’insegnamento dottrinale. Più degli altri generi di letteratura filosofica, la lettera, vicina alla realtà della vita vissuta, si presta perfettamente alla pratica quotidiana della filosofia: proponendo ogni volta un nuovo tema, semplice e di apprendimento immediato, alla meditazione dell’amico discepolo, essa ne accompagna e ne scandisce le tappe, conquista dopo conquista, verso il perfezionamento interiore. => Allo stesso intento obbedisce l’uso di concludere la lettera, nei primi tre libri, con una sentenzia, un aforisma che offre un franano di saggezza su cui meditare. 22 La tendenza delle singole lettere, man mano che l’epistolario procede, ad assimilarsi al trattato filosofico fornisce la conferma del progressivo adeguarsi della forma letteraria ai diversi momenti del processo di formazione. L’epistola = è lo strumento ideale soprattuto per la prima fase della direzione spirituale, fondata sull’acquisizione di alcuni principi basilari, cui farà seguito, con l’accrescimento delle capacità analitiche del discente e l’arricchimento del suo patrimonio dottrinale, il ricorso a strumenti di conoscenza più impegnativi e complessi. ↓ Non meno importante dell’aspetto teorico (Seneca più volte polemizza contro le eccessive sottigliezze logiche dei filosofi) è quello parentetico: la lettera tende non solo e non tanto a dimostrare una verità, quanto ad esortare, ad invitare al bene. ! Gli argomenti delle lettere, suggeriti per lo più dall’esperienza quotidiana, sono svariati, ma vengono generalmente ricondotti alle tematiche della tradizione diatriba => nella varietà e nell’occasionalità, nonché nell’aggancio fra vita vissuta e riflessione morale, sono evidenti le affinità con la satira, soprattutto oraziana. => vedono sulle norme cui il saggio informa la sua vita, sulla sua indipendenza e autosufficienza, sulla sua indifferenza alle seduzioni mondane e sul suo disprezzo per le opinioni correnti. Con il tono pacato, cordiale, di chi non si atteggia a maestro severo ma ricerca egli stesso la via verso la saggezza, una meta mai pienamente raggiungibile, Seneca propone l’ideale di una vita indirizzata al raccoglimento e alla meditazione, al perfezionamento interiore mediante un’attenta riflessione sulle debolezze e i vizi propri e altrui. Il distacco dal mondo e dalle passioni che lo agito si accentua, nelle Epistole, parallelamente al fascino della vita appartata e all’assurgere dell’otium a valore supremo: un otium che è ricerca del bene nella convinzione che le conquiste dello spirito possano giovare anche agli altri. L’obiettivo estremo che il saggio stoico si pone è la conquista della libertà interiore, a cui si accompagna la meditazione quotidiana della morte, cui egli si sa guardare con mente serena come al simbolo della propria indipendenza dal mondo. 7. LO STILE DI SENECA Se il fine della filosofia è giovare al perfezionamento interiore, il filosofo dovrà badare alla res e non alle parole ricercate ed elaborate; queste si giustificano solo se assolveranno a una funzione psicagogica, se contribuiranno cioè a fissare nella memoria e nell’animo un precetto o una norma morale. A fronte di uno stile inlaboratus et facilis, la prosa filosofica senecana è diventata quasi l’emblema di uno stile elaborato, teso e complesso, caratterizzato dalla ricerca dell’effetto e dell’espressione concisamente epigrammatica. Seneca rifiuta la compatta architettura classica del periodo ciceroniano (ipotattico) e dà vita a uno stile eminentemente paratattico => che nell’intento di riprodurre il sermo, la lingua parlata, frantuma l’impianto del pensiero in un susseguirsi di frasi aguzze e sentenzione, il cui collegamento è affidato all’antitesi e alla ripetizione (producendo l’impressione di «sabbia senza calce» che gli rinfacciava Caligola). Questa prosa antiteca all’armonioso periodare ciceroniano e (come avvertiva preoccupato Quintiliano) rivoluzionaria sul piano del gusto (=> destinata a esercitare un grande influsso sulla prosa d’arte europea), affonda le sue radici nella retorica asiana: procedeva mediante un ricercato gioco di parallelismi, opposizioni, ripetizioni, in un succedersi serrato di frammette nevose e staccate (le minutissimae sententiae deplorate da Quintiliano) => e produceva l’effetto di sfaccettare un’idea secondo tutte le angolazioni possibili, fornendone una formulazione sempre più pregnante e concisa. => Di questo stile penetrante Seneca si serve come di una sonda per esplorare i segreti dell’animo umano e le contraddizioni che lo lacerano, ma anche per parlare al cuore degli uomini ed esortare al bene: uno stile intimamente antitetico e conflittuale («drammatico» secondo un’efficace definizione), che alterna i toni 23 LO SVILUPPO DELLA STORIOGRAFIA Dopo l’oratoria, la storiografia è il genere letterario nel quale maggiormente si esprime la crisi politico-sociale dell’età graccana. L’interesse per le vicende contemporanee si unisce al tentativo di fondare un uovo metodo storico, che in in parte ripudia la secchezza della cronica annalistica per auspicare una penetrazione razionale degli eventi, una loro spiegazione causale che dia il giusto spazio alla narrazione dei dibattiti politici accanto all’elencazione delle campagne belliche. =>Incomincia a farsi sentire sui Romani che scrivono di storia l’influsso del razionalismo polibiano. IL NUOVO METODO STORICO: SEMPRONIO ASELLIONE E CELIO ANTIPATRO Questo è particolarmente chiaro nei frammenti del proemio dell’opera storica di Sempronio Asellione (un personaggio della cerchia scipionica che partecipò alla guerra di Numanzia): egli prende esplicitamente posizione contro la storiografia annalistica. Si propone, rompendo con la tradizione annalistica, di narrare solo gli eventi cui egli ha assistito personalmente, e di demonstrare quo consiglio quaque ratione siano avvenuti. Un’altra forma di «rottura» aveva del resto già praticato, qualche anno prima di Asellione, Celio Antìpatro. Costui, di origine plebea, di cultura raffinata, giurista e maestro di eloquenza, aveva scritto dopo il 120 a.C. un’opera storica in 7 libri la quale, anziché rifarsi ab urbe condita, si limitava a trattare monograficamente delle seconda guerra punica. Egli, rivolgendosi a un pubblico il quale dalla narrazione intendeva trarre piacere oltre che insegnamenti, non si limitava alla secca esposizione dei fatti, ma lasciava spazio a elementi fantastici e miracolosi, al pathos tragico, ai racconti di sogni e di apparizioni; al diletto del lettore era probabilmente indirizzata anche la cura dell’elaborazione stilistica. Cicerone sarà grande ammiratore, come si può immaginare, di Celio Antìpatro, mentre criticherà aspramente lo stile disadorno di Sempronio Asellione, contribuendo così alla grande fortuna dell’uno (ne conserviamo quasi 70 frammenti) e al parziale oblio dell’altro. Ma nell’età dei Gracchi incontriamo anche notevoli personalità di storici che si attennero al metodo strettamente annalistico: Lucio Cassio Emìna, Lucio Carlpurnio Pisone Frugi, Gaio Fannio, Sempronio Tuditano. SIENNA E LA STORIOGRAFIA «TRAGICA» Lo storico più notevole dell’età sillana fu senza dubbio Lucio Cornelio Sisenna. Uomo politico di tendenze dichiaratamente aristocratiche, Sisenna scrisse Historiae che trattavano esclusivamente di vicende contemporanee, dalla guerra sociale alla morte di Silla, mentre alla storia più antica era dedicata una rapida introduzione. Sisenna era attento agli eventi politici; ma nella sua narrazione un ruolo importante dovevano giocare i particolari romanzeschi e favolosi, secondo il metodo della storiografia «tragica» (cioè ricca di elementi drammatici), per il quale Sirena si rifaceva a Clitarco, uno degli storici di Alessandro Magno. Lo stile di Sisenna è di un arianesimo spinto, contrassegnato dall’abbondanza di arcaismi, della ricerca di rarità lessicali, della tendenza alle tinte sovraccariche. Cicerone, che pure apprezzava Sisenna, riscontava «qualcosa si puerile» nel suo stile, e ironizzava sui suoi frequenti preziosismi lessicali chiamandolo emendator sermonis usitati. GLI INIZI DELL’AUTOBIOGRAFIA La storiografia latina è in genere elaborata da membri della classe dirigente, ma, con la notevole eccezione di Catone, non da personaggi di grande rilievo politico, i quali probabilmente sentiva l’impegno della ricerca storica e dell’elaborazione stilistica come tempo sottratto alla vera e propria azione politica. 1 In età sillana si assiste al fenomeno di uomini politici importati che scrivono commentarii sulla propria vita e sul proprio operato politico. Questi commentarii, forse talora poco più che raccolte di appunti, non avevano bisogno di particolari cure stilistiche, e potevano anche servire da materiali per gli storici veri e propri. Si è acutamente messo in connessione il sorgere di queste forme di autobiografia con la nascita del ritratto nell’arte figurativa romana, secondo un’interpretazione diffusa (e oggi tuttavia discussa) che vuole il ritratto repubblicano nato in ambito aristocratico ed ispirato dall’ideologia aristocratica. Il periodo cesariano (78 - 44 a.C.) Silla e Cesare si legano, in tutta la loro vita, allo sviluppo di due grandi esperimenti politici. Sia la dittatura di Silla che il «principato» di Cesare, segnano due momenti-chiave nella crisi delle istituzioni repubblicane, e due fasi critiche in cui si avverte anche il matura di nuove soluzioni. La figura dominate nella vita culturale di questa generazione, Cicerone, comincia la sua attività pubblica sotto Silla e la protrae sino a pochi mesi dopo la morte di Cesare. La morte violenta di Cicerone, nel dicembre del 43, appare, persino più che quella di Cesare, come il simbolo della fine di un’epoca. Nello sviluppo della poesia, il periodo 78-44 ha pure una sua soddisfacente «chiusura»: viene abbracciato integralmente lo sviluppo della poesia neoterica, che ha certi suoi precorritori nell’età sillana, giunge a piena maturazione con Catullo, Partenio e il circolo dei poetae novi, e perde vitalità nel periodo delle guerre civili. Per di più, proprio a cavallo del 44-43 si dovettero avere i debutti letterari dei nuovi caposcuola, Cornelio Gallo (il più legato al clima neoterico) e Virgilio (il più innovativo e originale). Ancora, proprio nel periodo cesariano rientra l’isolata fioritura dell’epicureismo lucreziano, che tenui ma non trascurabili fili riconnettono alla cultura contemporanea. Il nostro periodo vede i grandi dibattiti teorici, politici e ideologici, testimoniati dall’opera di Cicerone; la massima fioritura dell’oratoria e politica; il formidabile impulso del pensiero filologico romano; la crescita dell’antiquaria, della linguistica, della biografia, e di altre forme di divulgazione culturale altrettanto vario e complesso. In ombra, tra i vari generi e filo letterari, rimase solo il teatro. Quanto alla storiografia - un genere per eccellenza retrospettivo e ritardatario, che ha bisogno di un suo respiro e stacco dagli avvenimenti - è chiaro che bisogna collocare nelle temperie culturale cesauriana l’opera di Sallustio. Guardando al pensiero cesariano-ciceroniano in termini estremamente generali, il fenomeno che più ci colpisce è l’importanza assunta dal pensiero filosofico-politico. Questa nuova centralità significa anche autonomia. Le riflessioni filosofiche si nutrono sempre più del pensiero greco classico, ma puntano anche, sempre più, a una rilevanza diretta nella sfera politico-sociale. => Roma conosce così lo sviluppo di una vera filosofia «moderna», che si pone a fianco del pensiero greco e vuole ereditarne la capacità di sintesi e di interpretazione della realtà; non senza cercare un adattamento rispetto a tradizioni e intrisi specificamente romani. I grandi pensatori di questo secolo non sono più, come nel precedente, solo autori di lingua greca; Cicerone, Varrone e Nigidio Figulo pretendono un loro spazio autonomo accanto a Posidonio e Filodemo. => La cultura romana interpreta e interroga i grandi testi del pensiero greco con immediato riferimento ai bisogni del presente: si dibatte il ruolo della religione, si teorizza quale sia la migliore costituzione, si analizza in termini etici il comportamento sociale degli uomini. => La 2 cultura poi si interroga su se stessa, cercando di fondare il proprio ruolo nella vita pubblica e nella formazione della classe dirigente. Ancora più in concreto, le riflessioni degli intellettuali, anche le più teoriche, lasciano trapelare le grandi figure della lotta per il potere (i condottieri Cesare e Pompeo). Nella lunga fase di lotta per il potere aperta dalla scomparsa di Silla, i «partiti» si aggregano via via intorno ai grandi capi politico-militari senza troppo connotarsi per comune atmosfere ideali. Il fatto che molti cesariani si possano caratterizzare culturalmente come filo-epicurei non deve condurre a facili estensioni. In realtà, ciò che caratterizza questo periodo non è na particolare coerenza tra azione politica e ispirazione ideologica. => Vero elemento caratterizzante è, invece, l’intensa circolazione di idee e di ideali a matrice filosofica; e, insieme, la forte autonomia che gli intellettuali comincia a pretendere nel quadro della vita sociale. Non si tratta più di precettori o consiglieri al servizio di qualche aristocratico illuminato. => Cicerone illustra in tutta la sua parabola personale l’aspirazione degli intellettuali a farsi parte attiva nella società e nello stato. Cesare 13 luglio del 100 a.C. => nasce da una famiglia patrizia di antichissima nobiltà 78 a.C. => di ritorno dall’Asia, dove aveva servito nell’esercito, incominciò la carriera politica e forense: fu questore nel 68, edile nel 65, pontefice massimo nel 63, pretore nel 62, propretore nella Spagna Ulteriore nel 61. 60 a.C => stipula il «primo triumvirato», accordo segreto, con Crasso e Pompeo. 59 a.C. => riveste per la prima volta il consolato, carica che esercitò con energia e prevaricacene sul collega Bibulo. L’anno successivo ottenne il proconsolato nella Illiria e nella Gallia romanizzata (la Cisalpina e la Narbonese). Prendendo a pretesto presunte prevaricazioni o sconfinamenti, nel territorio gallico posto sotto la sua giurisdizione, da parte di tribù impegnate in vasti movimenti migratori, intraprese l’opera di sottomissione dell’intero mondo celtico, presentandola come un’operazione sopratutto difensiva e preventiva. La conquista delle Gallie si protrasse per sette anni. 10 gennaio del 49 => ostacolato con cavilli giuridici, invase l’Italia alla testa delle sue legioni, dando inizio alla guerra civile. agosto del 48 => sconfisse a Farsalo in Tessaglia l’esercito senatorio guidato da Pompeo 15 marzo del 44 viene assassina da un gruppo di aristocratici di salda fede repubblicana, preoccupati per le tendenze autocratiche e regali che Cesare andava dimostrando. OPERE Opere conservate (che costituiscono i Corpus Caesariuanum): Commentarii de bello Gallico, in 7 libri, più un libro ottavo composto probabilmente da luogotenente di Cesare, Aulo Irzio, per completare il secondo della campagna gallica; Commentarii de bello civili, in 3 libri; un epigramma in versi su Terenzio (=> è il frammento 91 dei Frammenta Poetarum Latinorum de Morel). Opere perdute: diverse orazioni (in una di esse, l’elogio funebre della zia Giulia, si affermava la discendenza la discendenza della gens Iulia, da Iulo-Ascanio e quindi da Enea e Venere); un trattato sui problemi di lingua e stile => il De analògia, terminato nell’estate del 54; vari componimenti poetici giovanili: => un poema Laudes Herculis, e una tragedia Oedipus; un poema Iter, sulla psediizon in Spagna. FONTI Le opere autentiche e spurie dello steso Cicerone; la Vita di Cesare di Svetonio e quella di Plutarco; orazioni e lettere di Cicerone. 3 La veridicità di Cesare e il problema della «deformazione storica» Lo stile scarno dei commentarii cesariani, il rifiuto degli abbellimenti retorici tipici della historia vera e propria, la forte riduzione del linguaggio valutativo, contribuiscono moltissimo al tono volutamente oggettivo e impassibile della narrazione cesarina. Sotto questa impassibilità, la critica moderna ha tuttavia creduto di scoprire interpretazioni tendenziose e deformazioni degli avvenimenti affini di propaganda politica. => MA, indubbia è la connessione dei commentarii con la lotta politica. Invece è indubbiamente una forzatura l’interpretazione che vuole questa ultima opera scritta e divulgata al fine di appoggiare la candidatura di Cesare al secondo consolato. In entrambe le opere la presenza di procedimenti di deformazione è comunque innegabile: non si tratta mai di falsificazioni vistose, ma di omissioni più o meno rilevanti, di un certo modo di presentare i rapporti tra i fatti. Ricorre a lievi anticipazioni e posticipazioni, dispone le argomentazioni in modo da giustificare i propri insuccessi. Coerentemente con queste tendenze della narrazione cesariana, il De bello Gallico, nel suo complesso, non può essere letto come un’esaltazione della conquista. => Cesare mette invece in rilevo le esigenze difensive che lo hanno spinto a interpretare la guerra, ed era del resto consuetudine consolidata dell’imperialismo romano presentare le guerre di conquista come necessarie a proteggere lo stato romano e i suoi alleati da pericoli provenienti da oltre confine. Nel De bello civili Cesare sottolinea come la sua azione si sia sempre mossa nel solco delle leggi, si presenta come politico moderato, dal quale non ci si devono certo attendere accessi rivoluzionari. In ambedue le opere, egli metta in luce le proprie capacità di azione militare e politica, ma - forse diversamente da quanto faceva nelle forme di propaganda non scritta, che si rivolgevano a un pubblico popolare, meno colto e smaliziato - non alimenta l’alone carismatico intorno alla propria figura. La fortuna è un’elemento largamente presente nella sua narrazione, ma non viene presentata come una divinità protettrice; piuttosto un fattore imponderabile che talora aiuta anche i nemici di Cesare e soprattutto ciò che sfugge alle capacità di previsione e di controllo razionale dell’uomo. => Cesare non fa praticamente mai ricorso all’intervento della divinità. I CONTINUATORI DI CESARE Il luogotenente di Cesare, Aulo Irzio, compose il libro VIII del De bello Gallico, per raggiugnere la narrazione di quest’ultimo con quello del De bello civili, tramite il racconto degli avvenimenti degli anni 51-50. Sempre a Irzio si deve probabilmente il Bellum Alexandrinum. Qual è lo stile di Cesare autentico? La maniera di scrivere Cesariana spingeva talora il commentario verso la historia, senza tuttavia rinunciare in niente all’esigenza di sobrietà e attingendo livelli di lapidari eleganza e suggestione che restarono ignoti ai Irzio e agli continuatori. CESARE ORATORE La perdita delle orazioni di Cesare è uno dei danni più gravi subiti dalla letteratura latina, a starsene ai giudizi sempre entusiastici di quelli fra gli antichi che potremo leggerle, come Quintiliano e Tacito. Nel caso del Brutus, Cicerone sembra in qualche misura contrapporre lo stile di Cesare nei commentari a quello delle sue orazioni, cui non avrebbero fatto difetto gli ornamenti retorici; ma è un giudizio sul quale non si può giurare, perché l’intenzione di Cicerone era probabilmente di ridurre questo stile a matrici diverse da quelle atticistiche, insistendo sugli ornamenti retorici e minimizzando la elegantia. Probabilmente lo stile oratorio di Cesare avrà evitato i «gonfiori» (tumores) e i colori troppo sgargianti, ma l’uso accorto degli ornamenta l’avrà salvato dagli estremismi di uno stile scarno e «digiuno», caro agli atticisti più spinti. 6 DE ANALOGIA Lo stesso Cicerone comunque è pronta a riconoscere che Cesare agì da «purificatore» della lingua latina. Cesare espose le proprie teorie linguistiche nei 3 libri De analogia, composti nel 54 e dedicati proprio a Cicerone che certo non le condivideva. I pochi frammenti conservati mostrano come Cesare ponesse a base dell’eloquenza l’accorta scelta delle parole, per la quale il criterio fondamentale è la «analogia», la selezione razionale e sistematica, contrapposta alla «anomalia», l’accettazione di ciò che viene man mano consueto nel sermo cotidianus. La selezione deve limitarsi ai verba usitata, le parole già in uso; Cesare consigliava di fuggire come il nocchiere fa con uno scoglio, le parole strane e inusitate. => È evidente la coerenza di queste prescrizioni con lo stile asciutto e preciso dei commentari. L’analogismo di Cesare è cura della semplicità, dell’ordine, e soprattuto della chiarezza, alla quale talora egli arriva a sacrificare la grazia. Sallustio Gaio Sallustio Crispo nacque ad Amiternum, nella Sabina (vicino l’Aquila), il 1 ottobre dell’86 a.C., da famiglia facoltosa. => Però egli era un homo novus, come il conterraneo Catone il Censore, che fu per lui improntare esempio ideologico e letterario. Compì probabilmente gli studi a Roma, dove i suoi interessi cominciarono presto a gravidare verso la politica. Una notizia non troppo certa lo vuole questore nel 55 o nel 54. Si legò inizialmente ai populares: tribuno della plebe nel 52, condusse una campagna accanita contro l’uccisore di Clodio, Milone, e Cicerone che lo appoggiava. Poco dopo dove subire la vendetta degli aristocratici: nel 50 venne espulso dal senato per indegnità morale. Dopo lo scoppio della guerra civile combatté dalla parte di Cesare, e fu riammesso nel senato dopo la vittoria di quest’ultimo. Una volta sconfitti i pompeiani in Africa, Cesare nominò Sallusti governatore della provincia di Africa nova; ma Sallustio dette prova di malgoverno e di rapacità; al ritorno dalla provincia venne colpito da un’accusa di malversazione. Per evitargli la condanna e la nuova espulsione dal senato, probabilmente Cesare lo consigliò di ritirarsi una volta per tutte dalla vita politica. Fu da questo momento in poi che Sallustio si dedicò alla storiografia. La morte lo colse nel 35 o nel 34, nella sua lussuosa residenza con grande parco tra il Quirinale e il Pincio (i cosiddetti Horti Sallustiniani), facendo sì che restasse incompiuta la sua opera maggiore, le Historiae. OPERE Due monografie storiche: 
 Bellum Catilinae (o De Catilinae coniuratione) Bellum Iugurthinum composte probabilmente negli anni fa il 43 e il 40. Un’opera di più vasto respiro, le Historiae, iniziata intorno al 39 e rimasta incompiuta al libro V; l’opera copriva il periodo fra il 78 e il 67: ne restano numerosi frammenti, fra i quali alcuni di grandi dimensioni. Opere spurie: due Epistulae ad Caesarem senem de re publica, e l’Invectiva in Ciceronem. è per lo più considerata improbabile la notizia che Sallustio avrebbe composto un poema dal titolo Empedoclea in cui confluivano dottrine empedoclee e pitagoriche (=> si tratta probabilmente di un autore omonimo: verosimilmente Gneo Sallustio, amico di Cicerone). 7 FONTI Per la data di nascita ci si basa sulla Cronaca di Girolamo; per le altre vicende della vita e della carriera politica, si fa ricorso a cenni sparsi in varie fonti storiografiche ed erudite. Per il ritiro dalla vita politica è importante la testimonianza dello stesso Sallustio in Bellum Catilinae. LA MONOGRAFIA => GENERE LETTERARIO Ad entrambe le sue monografie Sallustio antepone proemi di una certa estensione, nei quali si sforza di giustificare il fatto di essersi ritirato dalla vita politica, dedicandosi alla composizione di opere storiche. Anche se si nutrono di luoghi comuni della filosofia divulgativa, i proemi sallustiani rispondo all’esigenza profonda di dare conto alla propria attività intellettuale di fronte a un pubblico come quello romano, fedele alla tradizione per cui fare storia è compito più importante che scriverne. Giustificazioni analoghe aveva più volte dovuto fornire Cicerone - a proposito delle sue opere filosofiche - MA in Cicerone la rivalutazione dell’attività intellettuale è compiuta con un orgoglio senz’altro superiore a quello di Sallustio, che alla storiografia attribuisce un valore di gran lunga inferiore a quello della politica. => Per Sallustio la storiografia resta, infatti, strettamente legata alla prassi politica, e la sua maggiore funzione è individuata nel contributo alla formazione dell’uomo politico. Sallustio - e in ciò si fa evidente il contrasto tra la pagina scritta e quanto sappiamo della sua vita - denuncia l’avidità di ricchezza e di potere come i mali che avvelenano la vita politica romana. Ma la cosa più importante è che la stessa storiografia sallustiana tende a configurarsi come indagini sulla crisi. Ciò serve a dare conto dell’impianto monografie delle sue prime opere storiche, che costituiva una novità quasi totale della storiografia romana. L’impostazione monografica serviva in maniera eccellente a delimitare e a mettere a fuoco un singolo problema storico sullo sfondo di una visione organica della storia di Roma. ↓ Così il Bellum Catilinae illumina il punto più acuto della crisi, il delinerarsi di un periodo sovversivo di qualità finora ignota allo steso romano: il Bellum Iugurthinum affronta direttamente il nodo costituito dall’incapacità della nobilitas corrotta a difendere lo stato. Contemporaneamente, l’impianto monografico risentiva dell’esigenza di opere brevi di raffinata fattura stilistica, acuitasi dopo l’esperienza neoterica. => La scelta della monografia portò Sallustio ad elaborare uno stile storiografico. Bellum Catilinae Catilina, la cui «congiura» Cicerone console aveva represso nel 63, aveva intravisto la possibilità di coalizzare una sorta di «blocco sociale» avverso al regime senatorio: il proletariato urbano, i ceti poveri, i membri indebitati dell’aristocrazia. Dopo il proemio, Sallustio muove dal ritratto di Catilina. Aristocratico corrotto, approfittando della detrazione morale dello stato, raggruppa intorno a sé personaggi che, per i motivi più diversi, auspicano un cambiamento di regime. La nobilitas, che grazie ad alcune indiscrezioni comincia a subodorare il complotto, sotto l’effetto dei timori da esso suscitati, decide di affidare il consolato ad Antonio e ad homo novus, Cicerone. Grazie a un proprio accolito, Manlio, raduna a Fiesole un esercito composto in larga parte di disperati e gente piombata nella miseria. Catilina, sconfitto nelle elezioni consolari, compie alcuni attentati alla vita di Cicerone che vanno a vuoto. Cicerone ottiene dal senato i pieni poteri per soffocare la ribellione e nel 63 accusa apertamente Catilina in senato. => Quest’ultimo fugge da Roma e va' a raggiungere Manlio e il suo esercito; il senato dichiara entrambi nemici pubblici. A questo punto Sallustio introduce un excursus sui motivi della degenerazione della vita politica. 8
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