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Letteratura latina G. B. Conte - Riassunto, Sintesi del corso di Letteratura latina

Riassunto dei seguenti trenta autori del manuale di letteratura latina di Conte: Agostino, Apuleio, Catullo, Cesare, Cicerone, Ennio, Giovenale, Girolamo, Livio, Livio Andronico, Lucano, Lucilio, Lucrezio, Marziale, Nevio, Orazio, Ovidio, Petronio, Plauto, Plinio il Vecchio, Properzio, Quintiliano, Sallustio, Seneca, Stazio, Svetonio, Tacito, Terenzio, Tibullo, Virgilio. Mi scuso per eventuali errori di battitura o distrazione

Tipologia: Sintesi del corso

2021/2022

Caricato il 07/02/2022

ffrancescagianelli
ffrancescagianelli 🇮🇹

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Scarica Letteratura latina G. B. Conte - Riassunto e più Sintesi del corso in PDF di Letteratura latina solo su Docsity! LETTERATURA LATINA (G. B. Conte) LIVIO ANDRONICO Vita Le date di nascita e di morte sono ignote. Sappiamo che era greco, e giunse a Roma come grammaticus di greco e latino, autore e attore di testi scenici, probabilmente al seguito di Livio Salinatore da Taranto, di cui fu liberto e che dunque gli diede il prenome romano. Le uniche date certe che possediamo sono il 240 e il 207 a. C. Nel 240 a. C. una sua opera fu il primo testo drammatico messo in scena a Roma; nel 207 a. C. compose un partenio, un “canto di fanciulle” in onore a Giunone, che gli portò grande successo: la sua associazione professionale, il collegium scribarum histrionumque, ebbe infatti la possibilità di insediarsi in un edificio pubblico, il tempio di Minerva sull’Avetino. Opere Delle opere di Livio Andronico resta soltanto una sessantina di frammenti, dovuta a citazioni di autori repubblicani o di grammatici; abbiamo i titoli di otto tragedie → Achilles, Aegisthus, Aiax mastigòphorus (Aiace con la frusta), Equos troianus, Hermiona (tutte legate al criclo della Guerra di Troia); Andromèda, Dànae, Tèreus. Compose anche palliate, che ebbero però minore risonanza rispetto alle tragedie; ci restano sei frammenti da un verso, a volte anche incompleto, e l’unico titolo attestato con abbastanza sicurezza è quello di Gladiolus (Sciaboletta). Per noi, l’opera più significativa di L. A. è l’Odusia, una traduzione in saturni (=in metro latino) dell’Odissea, di cui ci sono pervenuti trentasei frammenti per una quarantina di versi. Fonti Le poche informazioni sulla vita di L. Andronico che sono oggi accettate, provengono essenzialmente da Cicerone e da Livio. Cicerone ci informa di un’antica controversia, mossa da Accio, che datava 209 a. C. la venuta a Roma di Livio Andronico; ciò collocherebbe, però, il culmine della sua attività in contemporaneo a Ennio e Plauto, cosa che appare assai improbabile. NASCITA DELLA TRADUZIONE POETICA Livio fu indicato dai grandi classici romani (Varrone, Cicerone, Orazio) come iniziatore della letteratura latina. Sebbene, come tutte le “consacrazioni” di questo tipo, possa risultare una forzatura, è certo che fu un autore di grande importanza, soprattutto per la portata storica rappresentata dalla traduzione dell’Odissea in lingua latina e in metro italico. Non è certo sua l’invenzione del fenomeno della traduzione scritta; tuttavia, pare che sia stato il primo a concepire l’idea di tradurre un’opera letteraria da una lingua straniera. Le finalità erano contemporaneamente letterarie e culturali. Finalità culturali → dando la possibilità di leggere l’Odissea anche ai romani che non conoscevano il greco, Livio rende disponibile a una fascia più ampia un testo fondamentale della cultura greca. Da Orazio sappiamo inoltre che l’Odusia fu a lungo utilizzata anche come testo scolastico nel corso del I secolo a. C. Finalità letterarie → tratto fondamentale dell’Odusia è che è stata concepita come operazione artistica: è un testo sia fruibile come opera autonoma, sia conservatore non solo dei contenuti ma anche della qualità artistica del modello. Fu un’operazione complicata a causa della mancanza di una tradizione epica: Livio si impegnò per dare solennità e intensità al suo linguaggio letterario, utilizzando moduli già arcaici per il proprio tempo (esempio i genitivi in -as, l’imperativo insece per “dimmi”) e attingendo al formulario della tradizione religiosa (esempio traduce “Musa” con Camena, antichissima divinità italica, puntando sull'etimologia ancora corrente che la vedeva derivata da carmen, “poesia”). È interessante notare la volontà di Livio di aderire il più possibile al testo originale, che lo porta a conservare ciò che il pubblico romano può recepire ed a modificare ciò che è intraducibile. Altre volte, più che per motivi di trasmissione del messaggio, si ha l’impressione che Livio modifichi il testo per finalità artistiche → tipica del gusto della poesia romana arcaica è la ricerca del pathos, della forza espressiva e della tensione drammatica. La capacità di Andronico di “drammatizzare” il racconto Omerico fa pensare che egli possa essere stato un significativo drammaturgo. Il patetico della poesia latina arcaica può essere meglio apprezzato negli scarni versi in cui è possibile il confronto con l’originale greco → es. per l’Aiax mastigophorus abbiamo l’Aiace di Sofocle. Spesso le tragedie latine arcaiche prendono a modello i poeti attici del V secolo a. C., in primis Sofocle ed Euripide. NEVIO Vita Gneo Nevio fu un cittadino romano di origine plebea, che combatté negli ultimi anni della prima guerra punica. Sorprendentemente, sembra che non si appoggiarsi a nessun protettore aristocratico, e anzi i suoi versi portano tracce di polemiche anti-nobiliari, specie contro la potente famiglia dei Metelli. Morì a Utica, verosimilmente in esilio, fra il 204 e il 201 a. C. o nel primo decennio del secolo successivo. Opere Nevio scrisse numerose tragedie (di cui almeno due praetextae, il Romolus e il Clastidium); un suo testo teatrale venne rappresentato già nel 235 a. C. Delle tragedie di argomento greco ci restano sette titoli e circa cinquanta frammenti; del Romolus e del Clastidium abbiamo solo due frammenti; infine, conosciamo i titoli di quasi trenta commedie e un’ottantina di frammenti. L’opera più significativa di Nevio è il Bellum Poenicum, un poema in saturni. Ci restano una sessantina di versi a fronte dei 4000/5000 originali, trasmessi prevalentemente da grammatici. L’opera venne ripartita successivamente in sette libri da un grammatico contemporaneo do Accio, Lampadione. Fonti Le poche notizie su Nevio che possediamo provengono soprattutto da Cicerone e da San Girolamo. Notevole interesse suscita un’allusione di Plauto contenuta nel Miles gloriosus → parla di un poeta incarcerato e costretto al silenzio, che alcuni vorrebbero identificare con Nevio, sebbene si tratti di una corrispondenza per niente sicura. TRA MITO E STORIA Nevio è il primo letterato latino di nazionalità romana, ed è il primo ad essere pienamente calato nel vivace quadro politico dell’epoca a lui contemporanea. Difatti, il Bellum Poenicum è il primo testo epico latino di argomento romano, oltretutto un argomento estremamente attuale. Risulta molto originale anche la scelta di legare alla prima guerra punica il racconto mitico dell’origine di Roma, partendo dalla vicenda di Enea. Accostando le sue peregrinazioni a quelle di Odisseo, e affondandone le radici nella caduta di Troia, nell’opera di Nevio viene a costituirsi uno strato “omerico”, comprendente Iliade e Odissea. Vi era però anche quello che potremmo definire uno strato storico → il racconto della guerra contro Cartagine. Non sappiamo come i due strati si collegassero fra loro, ma può darsi che Nevio abbia inserito nella narrazione persino un incontro di Enea con Didone. È importante insistere sull’importanza nazionale del poema, ma non per questo deve passare in secondo piano la fondamentale ispirazione omerica ed ellenistica del Bellum Poenicum. Nevio recupera infatti la tradizione ellenistica del poema storico-celebrativo, e l’incrocio fra Iliade-guerra di Troia e Odissea-viaggi di un eroe sembrano riprendere l’analoga scelta fatta da Apollonio Rodio per le Argonautiche. Stile a. Figure di suono → sebbene i frammenti impasti siano scarsi, bastano a mostrare una significativa varietà di tono e impasto lessicale. Ripetizioni, allitterazioni ed assonanze costituiscono la struttura portante del saturnio che, di per sé, avrebbe una struttura piuttosto debole. b. Confronto con il linguaggio poetico greco → Nevio giunge addirittura a superare la ricchezza lessicale e formulare della dizione omerica, sperimenta composti e combinazioni sintattiche del tutto nuovi, senza mai rendere meccanicamente i e “a calco” i ricchi epiteti greci. poi distruggerne altre altrettanto fondamentali (coerenza drammatica, sviluppo psicologico, realismo linguistico, serietà d’analisi, senso del limite). 3. IL “LIRISMO COMICO” Nel caso di Plauto, i modelli greci sono andati quasi in toto perduti: si instaura perciò un movimento circolare, tale per cui dai testi plautini ci si ricostruisce un’idea dei modelli, per poi misurare su di essa il quid originale dell’autore romano. Spesso la critica analitica ha lavorato sulle incoerenze e le difficoltà dell’azione drammatica, attribuendole esclusivamente a quest’ultimo, procedura talora meccanica e che induce in errore. Un altro errore è stato quello di indentificare come “plautino” ogni aspetto del testo di Plauto, oppure sottoscrivendolo nelle file di un’imprecisata “comicità italica”. Sono spesso state definite “difetti” di Plauto le scelte di trascurare la coerenza dell’azione drammatica (unità d’azione) e la psicologia dei personaggi. In realtà sono semplicemente aspetti dai quali Plauto distoglie il proprio interesse, a favore di altri. Personaggio del servo e “metateatro” Il servo è senza dubbio il personaggio preferito da Plauto → figura “tipica”, non particolarmente individualizzata sul piano psicologico, gestisce lo sviluppo dell’intreccio. Ciò fa di lui un equivalente del poeta drammatico, uno spazio di rispecchiamento che potremmo definire metateatro. È infatti il servo, più di ogni altro, a giocare con le parole, creando metafore, immagini, doppi sensi. Nonostante sia il personaggio socialmente più debole, sulla scena è punto di attrazione per gli altri personaggi e per gli stessi spettatori. Plauto ha non solo ampliato, per quanto possibile, lo spazio del servitore, ma ha anche assimilato altri personaggi a questo ruolo o a questo livello: per esempio quando personaggi socialmente rispettabili sono fatti rientrare nella sfera di comicità di pertinenza dello schiavo. Servendosi del materiale derivato dai modelli, già pregni di un proprio significato, Plauto crea combinazioni dalle nuove sfaccettature: mentre i personaggi svolgono il ruolo previsto, ne sono insieme i mattatori → una sottile patina di distacco li rende qua e là ironici e autoironici. Gioco che, sebbene ci sia il rischio, non dissolve mai l’azione drammatica, anzi la trasforma in quello che Barchiesi chiama “lirismo comico” → contatto ed equilibrio fra la materia dell’intreccio e l’aprirsi di “occasioni” in cui l’azione si fa libero gioco creativo. 4. LE STRUTTURE DEGLI INTRECCI E LA RICEZIONE DEL TEATRO PLAUTINO Tuttavia, è possibile cogliere anche negli intrecci, l’aspetto in cui Plauto è più legato alle sue fonti, intenzioni autentiche e storicamente determinate. a. Rovesciamento dei valori → la lotta per un bene (donna e/o denaro per ottenerla) si tramuta spesso in una fase critica in cui possono vacillare valori sociali e familiari di riconosciuta importanza (liberi trattati da schiavi, uomini sposati che desiderano la donna amata dai figli…), fino a sconvolgere, esempio nelle commedie degli equivoci, principi ancora più generali come l’identità personale. b. Riassestamento dei valori → lo scioglimento della commedia porta sempre allo scioglimento dell’equivoco, al ricomporsi del giusto quadro sociale e materiale; questa ricostruzione dal disordine all’ordine piace particolarmente ai romani, tanto più perché vivevano in prima persona i problemi toccati. I nomi greci di luoghi e personaggi, o certe istituzioni e prassi legali proprie della cultura greca, garantiscono al genere comico di avere sede “altrove”, con solo occasionali ma puntuali allusioni alla realtà romana (“straniamento” dell’azione). Tuttavia, non vi è alcuna intenzione di lanciare un messaggio morale o culturale: basta anche solo pensare al protagonismo indiscusso dello schiavo furbo e amorale, che ottiene la ricostituzione dell’ordine con l’inganno, personaggio che rende impossibile un’identificazione. La commedia plautina ha ben poco di sovversivo: orientata al ritorno all’ordine, anche l’immoralità e imprevedibilità del servo per conseguire fini buoni, crea una contraddizione di fono, un paradosso interno tra realtà e finzione a cui l’autore non propone una soluzione. Ciò impedisce al pubblico qualsiasi chiara identificazione. 5. Fortuna del teatro plautino Le “venti commedie” (ventuno, ma la Vidularia ricomparve solo all’inizio dell’Ottocento nel Palinsesto Ambrosiano) continuarono ad essere copiate per tutto il Medioevo, ma non lette (maggiore fortuna Terenzio). Circa dalla generazione di Petrarca, cominciarono ad avere una buona diffusione le prime otto commedie; dal 1429, tornano in circolazione an che le altre dodici. Sarà di grande riferimento per la “pallista” italiana fino a inoltrato periodo umanistico (La Mandragola, Machiavelli). Anche la florida produzione teatrale del ’500 (Shakespeare, Calderon, Molière, Ruzante, ecc.) risulta collegata a una traccia della tradizione plautina. Diversamente da Terenzio, Plauto restò a lungo estraneo alla tradizione scolastica per via di lingua, stile, metrica difficili, e perché in Terenzio vi era una più marcata intenzione etica. Fu importante, per la comprensione e riscoperta di Plauto, la ricerca di canoni artistici più liberi → importante l’operato di Gotthold Ephraim Lessing, autore teatrale fra Sette e Ottocento. ENNIO Vita Quinto Ennio nacque nel 239 a. C. presso Rudiae, cittadina della regione che i Romani chiamavano Calabria, oggi la Puglia al sud di Taranto, area profondamente grecizzata. Svetonio lo definisce semigraecus, ed egli stesso sottolinea spesso la propria natura “trilingue” → latino, greco, osco. È verosimile che egli si sia formato nel raffinato ambiente di Taranto, per giungere a Roma in età matura nel 204 a. C., in piena guerra punica. Si legherà a Marco Fulvio Nobiliore, poiché lo seguirà in Grecia col compito di illustrare in versi la campagna militare che poi sarebbe culminata nella battaglia di Ambracia (189 a. C.), alla quale Ennio dedica molto probabilmente una praetexta. Verrà protetto dalla famiglia di Nobiliore e dagli Scipioni, e, a ricompensa dei suoi meriti, riceverà la cittadinanza romana onoraria. Spenderà i suoi ultimi anni scrivendo il poema epico degli Annales. Opere Ennio è l’autore arcaico di cui ci restano più frammenti; dato certo è che scrisse e mandò in scena molte tragedie, cominciando presto e terminando con il Thyestes nel 169 a. C. Restano una ventina di titoli di coturnate, per circa 400 versi; traccia di due praetextae, l’Ambracia e le Sabinae, una di argomento contemporaneo e una mitico-leggendario; due titoli incerti di commedie, Caupuncula e Pancratiastes. Il capolavoro che l’ha reso un punto di riferimento fondamentale della letteratura latina arcaica sono gli Annales, poema epico in esametri che narra la storia di Roma in diciotto libri. Vi è poi una larga varietà di opere minori: (a) Hedyphagètica → Il mangiar bene, gastronomia; (b) Sota, un testo in versi detti appunto “sotei”, dall’inventore Sotade di Maronea; (c) quattro libri di Saturae, in metri diversi, perse; (d) Scipio → poesia celebrativa in onore del vincitore di Zama; (e) opere di ambito filosofeggiante: Euhèmerus → pensiero di Evemero da Messina; Epicharmus → poeta Epicarmo (V secolo a. C.); Protrepticus = “discorso di esortazione”, opera per noi imprecisabile, forse una raccolta di insegnamenti morali. (f) Certamente vi fu anche una produzione di epigrammi, in distici elegiaci. Fonti Risulta interessante il fatto che molte delle notizie su Ennio tramandate da autori a lui successivi fossero di origine autobiografica: vi era nelle sue opere una voce diretta e personale, si vantava della cittadinanza romana, si poneva in aperta polemica con i suoi predecessori. Curiosa anche l’esistenza di una sua tradizione figurativa → statue, dipinti: è una novità il fatto che vengano tributati a uno scrittore, segno di un cambio nella mentalità romana. 1. IL TEATRO Sebbene si sia cimentato anche nella commedia, Ennio fu essenzialmente poeta tragico, per la tensione stilistica dei versi e per la vigorosa tendenza al patetico. Traduce e si confronta secondo la prassi della aemulatio con i tragediografi dell’Atene del V secolo: Euripide, il suo favorito → Alexander, Andromacha aechmalòtis, Hecuba, Iphigenìa, Medea exul; Eschilo → Eumènides, ultima e spettacolare componente della trilogia dell’Orestea, e forse l’Hectoris lustra; Sofocle → l’Aiace. L’immagine di Ennio-autore teatrale che traspare dalle fonti è quella di un grande vecchio venerato ma lontano, grave, passato. In realtà, per il suo tempo Ennio doveva essere molto ben calato nella realtà del teatro, sensibile al gusto del pubblico, moderno e uomo di teatro. La rielaborazione dei testi teatrali non vuole soltanto compiacere il pubblico, ma anche produrre effetti di scena e rafforzare gli elementi drammatici della narrazione. Il rapporto con i modelli greci non è puramente emulativo, ma vuole essere l’impegno di un teatro vivo, continuo della prassi greca di non attenersi, al momento della rappresentazione di un dramma, a un testo fisso → interpolazioni, modificazioni da parte degli attori o dell’autore. Non esisteva nemmeno il concetto filologico di autentico. L’intensificazione patetica che sembrerebbe propria del vertere enniano non è dovuta a un passionale gusto latino, ma è inserita nel testo da Ennio come tratto di una langue drammatica greca → tipicamente ricca di espressioni ridondanti, in cui c’è più esternazione stilizzata di sentimenti che un vero e proprio contenuto informativo o progresso drammatico. Il fine di questa enfatizzazione dei sentimenti sembra essere quello di suscitare la partecipazione emotiva del pubblico, interessarlo e coinvolgerlo. È questa la ragione anche della scelta di Ennio di mantenere, per certe tragedie, il coro, nonostante le difficoltà pratiche della scena latina. Infine, la versione parodica del Poenulus fatta da Plauto reca un frammento della resa spettacolare di Ennio → ci fa sapere che, ad un certo punto, un attore si rivolgeva direttamente agli spettatori. Scopo di tale scelta era forse favorire un’identificazione tra pubblico e personaggi. 2. GLI ANNALES In generale, una funzione celebrativa fu pervasiva in tutta l’opera di Ennio → unendo la tradizione omerica (celebrazione di gesta eroiche) a quella più recente ellenistica (sorta di poesia “di corte”) che vedeva poesia e panegirico strettamente legati, sembrò riproporre a Roma questo modello di “poeta al seguito”. Si dedicò pertanto, nell’ultima parte della sua attività letteraria, al conseguimento dell’obiettivo più alto = il grandioso progetto di una celebrazione di tutta la storia romana → gli Annales, narrazione continua “dalla caduta di Troia ai giorni nostri”. Segue dunque un ordine cronologico, ma non per questo si concentra allo stesso modo su tutti gli avvenimenti: ad esempio, la prima guerra punica, già trattata da Nevio, grande predecessore, appare sacrificata. Distribuzione della materia per libri: I-III → ampio proemio, venuta di Enea in Italia, storia della fondazione di Roma, e drammatiche avventure di Romolo e Remo, periodo dei re; IV-VI → guerre con i popoli italici e grande guerra contro Pirro; VII-XI → guerre puniche, con più risalto sulla seconda; X-XII → principalmente le campagne in Grecia, successive alla vittoria su Annibale; XIII-XVI → guerre in Siria e, nel libro XV, vittoria di Fulvio Nobiliore sugli Etoli; XVI-XVIII → campagne militari più recenti, forse fino al 169 a. C., anno di morte del poeta. Il titolo Annales fa riferimento agli Annales Maximi, documenti che contenevano gli avvenimenti significativi anno per anno. Le fonti storiografiche sono a noi ignote, sebbene possiamo ipotizzare che Ennio abbia conosciuto Fabio Pittore; quelle poetiche sono numerose: Omero in primis, ma anche abbondanti echi stilistici della poesia ellenistica; Nevio con il Bellum Poenicum è presente, ma talvolta anche come oggetto di critica distanziante. 3. ENNIO E LE MUSE: LA POETICA Originariamente, gli Annales prevedevano 15 libri (con quindi la vittoria di Nobiliore del 187 a. C. in conclusione e l’edificazione, forse, di un tempio dedicato alle muse. Le ragioni per cui sono stati aggiunti altri tre libri non sono ben precisate; forse derivano dalla volontà dell’autore di aggiornare l’opera con conquiste e vittorie più recenti. 4. TEMI E FORTUNA DELLE COMMEDIE DI TERENZIO Quelli che più spesso furono citati come i difetti di Terenzio, una virtus comica a cui mancherebbe vis (forse “slancio, energia” dell’azione drammatica), derivano da una scelta consapevole. Questi aspetti, più tipici della commedia plautina, vengono sacrificati per approfondire il carattere dei personaggi, mossa che è in linea con un’adesione al modello di Menandro ma che è anche dovuta alla circolazione (nell’età scipionica) degli ideali dell’humanitas, influenzati dalla philantropìa greca → la celebre fare dell’Heautontimorumenos, homo sum: humani nihil a me alienum puto ne diverrà manifesto. La commedia terenziana di maggior successo immediato sarà tuttavia l’Eununcus, la più plautina delle sue creazioni, che dimostra come Terenzio possedesse anche attitudini puramente comiche e drammaturgiche che sono solite passare in secondo piano. Terenzio ebbe fortuna in particolar modo per la purezza della sua lingua e la raffinatezza del suo stile → elogiato da Cicerone, Cesare; conobbe successo anche trai lettori cristiani, e le sue commedie furono introdotte nei programmi scolastici. Durante il rinascimento l’interesse per Terenzio si manifestò sottoforma di volgarizzamenti e riadattamenti poetici: sappiamo che Ariosto tradusse alcune commedie (non ci è rimasto nulla) e abbiamo la traduzione dell’Andria di Machiavelli; Molière fu ammiratore e imitatore di Terenzio. LUCILIO Vita Se la data di morte, il 102 a. C., risulta essere certa, quella di nascita pone una questione spinosa: la fonte cui ci si affida, San Girolamo, si è probabilmente confuso con un quasi omonimo nel dire che Lucilio morì a quarantasei anni; l’altra data probabile sarebbe il 180 a. C., anche se si preferisce individuare in astratto una data intermedia, ca. 168- 167 a. C. Lucilio apparteneva a una distinta e nobile famiglia campana di Suessa Aurunca, e la sua giovinezza fu strettamente legata al circolo degli Scipioni. Fu il primo letterato di buona famiglia a scegliere una vita da scrittore, appartata di proposito da cariche pubbliche e dalla vita politica. Opere Scrisse trenta libri di satire, di cui noi abbiamo scarsi frammenti. L’edizione che circolava nel I secolo a. C. è attribuita a Valerio Catone ed è organizzata secondo un criterio metrico: libri 1-21: componimenti in esametri dattilici; libri 22-25: forse distici elegiaci; libri 26-30: metri giambici e trocaici, poi esametri → furono questi, forse, i primi ad essere composti: si delinea perciò un percorso di progressiva scelta a favore dell’esametro, solitamente utilizzato per l’epica, come ironica provocazione. Forse il titolo che Lucilio aveva dato era Schèdia = termine greco per “improvvisazioni”; Saturae è il termine con cui Orazio userà chiamare il genere di poesia inventato in questo momento da Lucilio. Fonti Citazioni in grammatici es. Nonio Marcello, allusioni cospicue nelle opere di Orazio molti frammenti conservati poiché contenevano termini rarissimi e difficili. LUCILIO E LA SATIRA L’opera di Lucilio di radica sullo sfondo culturale dell’età scipionica → l’esperienza dei rapporti col potere è, tuttavia, diversa da quella vissuta da Terenzio: Lucilio è un ricco membro dell’aristocrazia provinciale, della classe degli equites, e può permettersi di esporsi con maggiore indipendenza di giudizio e verve polemica. Già per i dotti latini erano misteriose le ragioni per cui il genere viene chiamato satura. L’etimologia che legherebbe la parola al greco sàtyros (“satiro”) è falsa, sebbene antica; invece, il latino satura lanx indicava nella lingua arcaica un piatto di primizie (sorta di “insalata mista”) offerto agli dei, da cui sarebbe derivato un valore lessicale di “mescolanza e varietà”. Dunque l’etimologia non è greca, e così il genere: per quanti apporti culturali la satira abbia via via accolto dal greco, resta uno dei pochi generi letterari che i romani vantano essere stati propria creazione originali: Quintiliano → satura quidem tota nostra est. La satira sembra nascere come genere letterario disponibile ad esprimere una voce personale del poeta, in cui egli riflette sulla sua attività letteraria e sul suo rapporto con la realtà contemporanea. Già le satire di Ennio contenevano qualcosa di questa varietà, impulso realistico, voce personale, anche se non sappiamo se fossero presenti aperte polemiche nei confronti di personaggi contemporanei, come ad esempio in Nevio. Il merito di Lucilio sta nell’essersi concentrato esclusivamente sul genere della satira, che Ennio aveva sempre trattato come sottogenere rispetto a epica e drammaturgia. L’operato di Lucilio è, per altro, indizio della nascita di un nuovo pubblico, interessato alla poesia scritta, culturalmente avvertito e desideroso di una letteratura più aderente alla realtà contemporanea. Temi delle satire luciliane Dagli scarsi frammenti che abbiamo, sappiamo che Lucilio aveva affrontato uno spettro molto ampio di argomenti nelle sue Satire. a) Parodia del Concilium deorum → nel I libro, gli dei riuniti in concilio discutono di cose umane secondo le modalità e i protocolli adoperati dal senato; b) descrizione di viaggi → il III libro contiene la colorita narrazione di un viaggio in Sicilia (tema del viaggio resterà nella satira oraziana); in diverse satire si dispiegava il filone gastronomico: precetti culinari, polemiche contro il lusso a tavola; c) amore → pare che il XVI libro fosse dedicato alla donna amata, il che fa di lui un antesignano anche della grande poesia d’amore; d) sono inoltre attestate disquisizioni su problemi letterari, di retorica e poetica, questioni grammaticali che si rifanno alla poetica di Accio, che tuttavia Lucilio critica come troppo declamatoria. È chiara, in Lucilio, la presenza di un programma letterario decisamente unitario e innovativo, sostenuto da una personalità di vivace anticonformismo; amalgama tratti appartenenti a diversi generi letterari: il linguaggio grandioso dell’epica rivivendolo sottoforma di parodia, include linguaggi specializzati finora estranei alla poesia, e forme proprie del linguaggio di tutti i giorni → questo fa sì che Lucilio sia uno di punti in cui la letteratura latina si avvicina di più al realismo moderno. Per la sua capacità di presa sul reale nuova e audace, Lucilio resterà un modello per la satira latina di tutti gli autori da Varrone in poi; Orazio, pur criticandone la scarsa rifinitura formale, lo consacrerà a inventor del genere. LA POESIA NEOTERICA E CATULLO Cicerone e i poetae novi Quella di poetae novi (/cantori Euphorionis) è una definizione attribuita in modo dispregiativo da Cicerone a quei letterati di tendenze innovatrici, che rifiutavano la poesia tradizionale (= Ennio). Questo processo di rinnovamento del gusto e della poesia latina si inserisce nel generale fenomeno di ellenizzazione dei costumi, tanto criticato dal partito catoniano, e dovuto al fascino che la raffinata e colta civiltà orientale esercitava sull’arcaica società romana di cittadini-soldato. Le istanze di rinnovamento e di apertura alla cultura greca trova espressione nella cerchia scipionica; e, sul piano letterario, sfocia nella sperimentazione di nuove forme poetiche. Poesia nugatoria → poesie di tono leggero, in brevi componimenti come poteva essere l’epigramma, destinate al consumo privato e che vengono dette nugae (“bagatelle”) per la loro natura disimpegnata. Derivano infatti dall’otium, lo spazio sottratto agli impegni civili; nuovo interesse per sentimenti privati come l’amore e attenzione meticolosa all’elaborazione formale, intenso labor limae. Rivolta etica → vi è, da parte dei neoteroi, un vero e proprio rifiuto dell’impegno: aspra critica nei confronti di una tradizione oramai vuota (mos maiorum, ruolo del civis romano → appartengono al passato). In questo ritirarsi nella vita privata si accostano alla corrente dell’epicureismo che però, d’altro canto, vedeva nell’amore un’insidiosa malattia (mentre per i neoteroi era sentimento centrale della vita). Nascono pertanto nuovi generi letterari → l’epigramma e l’epillio (poema mitologico in miniatura, in cui l’autore faceva sfoggio della propria erudizione; spesso miti a tema erotico). Si ha perciò una vera e propria rivoluzione, un rinnovamento del linguaggio passando per i principi della scuola callimachea. 1. I POETI PRENEOTERICI Figura molto importante nel periodo di tempo che va dai Gracchi a Silla è Quinto Lutazio Catulo. Nasce attorno al 150 a. C., nel 102 fu console collega di Mario (e vinse con lui i Cimbri nel 101), cadde vittima della persecuzione mariana. Scrisse opere di carattere storico e autobiografico, fu oratore elegante e raffinato, e poeta: introdusse alla lingua latina epigrammi di stampo greco, e può essere considerato erede del gusto scipionico. Attorno a lui si raccolsero uomini accomunati da questo nuovo gusto per la poesia leggera e d’intrattenimento, in quello che fu poi designato “circolo di Lutazio Catulo”. Non si trattò, però, di un vero e proprio circolo: erano membri di diversa estrazione sociale e orientamento politico; ciò che li collegava era la somiglianza nei gusti letterari. È probabile che ne facessero parte i poeti Valerio Edìtuo → ci restano due epigrammi d’amore, di manierata fattura alessandrina; Porcio Lìcino → abbiamo anche due frammenti di una sua opera in versi sulle origini della poesia latina; a questo filone storico-letterario doveva rifarsi anche il De poetis di Volcacio Sedìgito. Nell’Erotopaegnia (Scherzi d’amore) di Levio emerge un gusto per lo sperimentalismo linguistico, e un accentuato carattere lusivo; la grazia diviene artificio, ricercatezza leziosa. Si accostano a Levio altri due suoi contemporanei, Mazio e Sueio. Mazio scrisse una traduzione dell’Iliade in esametri, e si cimentò nel genere dei mimiambi, nuovo per i latini; a differenza dei mimi di Laberio e Siro, i suoi mimiambi non erano destinati alla rappresentazione. Sueio è invece autore di un Moretum (“La focaccia”); dai pochi esametri dell’opera citati da Macrobio emerge, più che un precursore dell’idillio, l’impressione di un pedante erudito. 2. I POETI NEOTERICI Rispetto alla prima poesia nugatoria, la poesia di Levio è già più avanzata e meno dipendente da quella ellenistica → è giusto considerarlo un precursore ancora più diretto della poesia neoterica. Una figura quasi caposcuola delle nuove tendenze è Valerio Catone → nasce probabilmente agli inizi del I secolo, fu grammatico, maestro di poesia, critico e poeta. Scrisse lavori filologici e compose anche opere poetiche, forse epilli, dal carattere mitologico, molto apprezzate dai contemporanei → Dictynna (o Diana), Lydia. Suo amico fu Marco Furio Bibaculo, che Tacito e Quintiliano ricordano aver scritto aspri epigrammi contro Augusto. Scrisse un poema epico-storico in onore di Cesare Pragmatica belli Gallici, un poema sul ciclo troiano, l’Etiopide, e un’erudita opera in prosa, le Lucubrationes. Publio Terensio Varrone Atacino continuò la poesia di stampo enniano con la composizione del Bellum Sequanicum, ma aderì al nuovo gusto poetico con un’opera chiamata Leucadia in onore della donna amata, fra gli incunaboli della poesia erotica; scrisse satire e, cosa più importante, una libera traduzione delle Argonautiche di Apollonio Rodio, le Argonautae. Infine, sappiamo che furono neoteroi Cinna e Calvo, amici di Catullo. C. Ennio Cinna fu poeta che sentì particolarmente l’influenza del poeta greco Partenio di Nicea; la sua opera più nota, Zmyrna, è un poemetto di argomento erotico-mitologico. Licinio Calvo fu un famoso oratore, ma soprattutto poeta → epigrammi di invettiva politica, epitalami, componimenti di argomento amoroso e anche un epillio intitolato Io. 3. CATULLO Anche la componente più ellenizzata della classe dirigente romana vide sempre di cattivo occhio la filosofia epicurea, poiché minatoria delle principali strutture della res publica: anche Cicerone, nel suo eclettismo filosofico la rifiutò con vigore. Cominciò a diffondersi discretamente negli strati elevati della civiltà solo nel I secolo a. C.: Calpurnio Pisone Cesonino, aristocratico di rango consolare, si pose a protezione dei filosofi epicurei. Sappiamo dalle Tusculanae disputationes di Cicerone, inoltre, che circolavano presso la plebe divulgazioni di filosofia epicurea in cattiva prosa. D’altronde, lo stesso Epicuro predicava semplicità e chiarezza nella diffusione della filosofia. La scelta di Lucrezio del poema epico-didascalico, quindi, stupisce → va forse ricondotta alla volontà di farsi accettare presso la classe aristocratica, dimostrando che anche l’epicureismo poteva ammantarsi di una bella forma; l’altra ragione è esposta da Lucrezio stesso → la poesia si presenta come il miele che cosparge l’orlo di un bicchiere contenente una medicina amara. Richiama non solo Omero, di cui si professa reverente ammiratore, ma anche tutta la tradizione epico- didascalica, specie Empedocle. Cicerone ebbe uno strano atteggiamento nei suoi confronti: quando, circa dieci anni dopo la pubblicazione del De rerum, intraprende un’aspra polemica nei confronti dell’epicureismo, non fa alcuna menzione dell’opera di Lucrezio. Non è chiaro il motivo di tale atteggiamento: forse l’eccezionalità della forma poetica, ma chiaro è che questo silenzio non lascia alcuno spazio e credibilità di interlocutore a colui che aveva scritto un’opera potenzialmente disgregatrice per la società aristocratica cui Cicerone si rivolgeva. 2. IL POEMA DIDASCALICO Il titolo De rerum natura è traduzione puntuale del Perì physeos di Epicuro, un’opera per noi perduta di cui possiamo apprendere solo parte dei contenuti per trasmissione indiretta. Si suppone, per un cenno contenuto nel primo libro, che l’opera sia stata scritta solo dopo la pretura di Memmio, nel 58 a. C. Il poema è articolato in tre diadi di libri, aventi in sintesi i seguenti argomenti: I libro → apertura del poema con l’inno a Venere, esposizione dei principi della filosofia epicurea = atomi, aggregazione-disgregazione, critica agli altri filosofi naturalisti; II libro → analisi del clinamen; III libro → corpo e anima sono entrambi costituiti da atomi, tuttavia di forma diversa = anche anima sottoposta a disgregazione; IV libro → procedimento della conoscenza con la teoria dei simulacra + digressione sull’amore; V libro → dimostrazione della mortalità del nostro mondo; VI libro → spiegazioni naturali dei fenomeni fisici; explicit = peste di Atene. Altri esempi di poemi didascalici precedenti Lucrezio: non molti in latino. Ennio → Epicharmus in settenari (Euhemerus in prosa); Accio → Pragmatica (settenari), Didascalica (versi + prosa); Arato di Soli → Fenomeni e pronostici; Nicandro. Significativi i poeti ellenistici, da cui tuttavia Lucrezio di differenzia in quanto ambisce a spiegare e a persuadere della validità della dottrina epicurea. La si insinua perciò nelle sue opere una sorta di tensione fra lettore-autore, discepolo-insegnante: Lucrezio espone il sublime dell’immensità della natura, di fronte al quale richiede una partecipazione degna del lettore. Il De rerum natura è inoltre poema del necessario, non del meraviglioso come lo erano stati quelli ellenistici. Così dunque si spiega la rigorosa struttura argomentativa che impregna il poema → sillogismo, analogie tese a spiegare con immagini concrete ciò che appare più lontano e incomprensibile. Interessante è anche il contatto che il De rerum ha con la letteratura diatribica (> diàtriba) → schema di presentazione semi-drammatica del contenuto, con frequenti e vivaci spunti satirici. 3. STUDIO DELLA NATURA E SERENITÀ DELL’UOMO Confutazione della religio tradizionale, che opprime e schiavizza gli uomini sotto la minaccia di pene eterne → pericoloso poiché elemento di coesione sociale, ma anche di controllo politico da parte delle classi dominanti. In linea con la dottrina di Epicuro, gli dei sono visti come distanti, incuranti delle vicende umane → allora la religiosità è intesa come capacità di vivere serenamente e contemplare ogni cosa con mente sgombra da pregiudizi. Nel libro V si spiega l’origine storica del timore religioso per l’ignoranza, ad esempio, delle leggi che governano i fenomeni naturali. 4. IL CORSO DELLA STORIA E LE ORIGINI DEL MONDO Lo sforzo di Lucrezio tende a far sì che la mancanza di spiegazioni razionali riguardo certi fenomeni non induca il lettore ad accettare spiegazioni superstiziose o di origine mitologica. Nella trattazione del progresso umano tratta tappe sia positive sia negative. Fra quelle positive, per esempio, la scoperta del linguaggio, del fuoco, dei metalli, dell’agricoltura, spesso scoperte fortuitamente suggerite dalla stessa natura. Il progresso materiale è visto di buon occhio, ma viene valutato negativamente nel momento in cui fa sorgere altri bisogni non necessari (cupidigia, guerra, ambizioni) → è pertanto sbagliato considerare l’epicureismo come un edonismo sfrenato, in quanto i piaceri che si mira a soddisfare sono semplici e naturali. 5. L’INTERPRETAZIONE DELL’OPERA È scorretto e poco sensato ricercare nel De rerum natura tracce di un ipotetico disturbo psichico di Lucrezio; dalla lettura dell’opera, emerge anzi una tensione illuministica da parte dell’autore, che tenta di persuadere razionalmente il lettore della validità di una dottrina in cui egli stesso crede profondamente. Condanna della passione amorosa come cedimento a una passione irrazionale, svincolata dai dettami della natura (riguardanti invece l’impulso alla riproduzione). Esaltazione della ratio come portatrice di serenità e libertà interiori; tuttavia, il solo razionalismo non basta ad evitare l’angoscia, ad esempio, dell’uomo di fronte all’idea che la sua vita debba terminare. Alcuni critici hanno voluto vedere, nell’irrigidimento di Lucrezio di fronte alla spiegazione di tali dubbi, un autore intimamente dissidente nei confronti di un sistema filosofico di aspetto sereno ma tuttavia incapace di rispondere ad angosce primordiali. 6. LINGUA E STILE DI LUCREZIO Dalla lettera che Cicerone spedisce al fratello Quinto apprendiamo che l’autore amava Lucrezio sia per l’acutezza come pensatore sia per grandi capacità di elaborazione artistica. La critica ha faticato a staccarsi dal confronto con Virgilio, le cui Georgiche sono l’opera più vicina per genere letterario e cronologicamente al De rerum. La lingua di Lucrezio, spesso giudicata ripetitiva, rude e arcaica, va collocata nella sua dimensione storica e nel contesto dell’opera. Le ripetizioni concorrono al fine di persuadere il lettore, oppure a richiamarlo all’attenzione (nessi di transizione); il latino mancava di un linguaggio filosofico → necessità di ricorrere a nuove perifrasi, grecismi, ecc… Tuttavia, Lucrezio sfrutta abbondantemente gli arcaismi derivati dal lessico enniano, in particolare i composti, creandone anche egli stesso (specie avverbi). In campo grammaticale, si hanno fenomeni come desinenza -ier dell’infinito anziché in -i, oppure genitivo bisillabico -ai anziché -ae. L’esametro lucreziano predilige l’incipit dattilico, e tende a comporre il verso in due parti equivalenti. Dimostra di avere una conoscenza profonda della letteratura greca → Omero, Platone, Eschilo, Euripide; poeti ellenistici come Callimaco ed Antipatro. Tuttavia, la mancanza del latino di un linguaggio astratto già pronto genera evidenza e “corporalità” descrittiva; la sorprendente prolificità di immagini genera il lessico dell’enthusiasmòs poetico posto a servizio di una missione didattica vissuta con eccezionale ardore. 7. FORTUNA DI LUCREZIO CICERONE Vita Nasce nel 106 a. C. ad Arpino da un’agiata famiglia equestre. Ottimi studi di filosofia e retorica a Roma, ed è introdotto al foro dal grande oratore Lucio Licinio Crasso. Stringe un’amicizia destinata a durare a lungo con Tito Pomponio Attico, presta servizio nella guerra sociale dell’89 a. C. agli ordini di Pompeo Strabone, e debutta come avvocato nell’81 o poco prima. Tra il 79 e il 77 compie un lungo viaggio in Grecia e in Asia, per poi sposare Terenzia (da cui due figli) al ritorno. Ricopre i vari incarichi politici del cursus honorum fino al consolato del 63. Importante la questura in Sicilia → nel 70 sosterrà vittoriosamente la causa dei siciliani contro l’ex governatore Verre. Durante il consolato reprime la congiura di Catilina, successo che tuttavia lo porterà all’esilio nel 58, in quanto sarà accusato di aver mandato a morte senza processo i complici. Comincia così, in contemporanea con la formazione del primo triumvirato (accordo privato), il suo declino. Tenterà, dopo l’esilio, una difficoltosa collaborazione con i triumviri, e comporrà diverse opere retoriche nel periodo tra 56 e 51 → De oratore, De re publica, inizia a lavorare al De legibus. Ottenuta l’amnistia di Cesare dopo il primo periodo di guerre civili, resterà fino alla sua morte (44 a. C.) lontano dalla vita politica; tenterà un ritorno associandosi a Ottaviano, per finire però nelle liste di proscrizione dopo il suo voltafaccia e il secondo triumvirato. Sarà ucciso nel 40 a. C. dai sicari di Antonio. Opere Di Cicerone ci sono rimaste numerosissime opere: orazioni (molte giunte a noi per tradizione diretta; vi sono anche una trentina di titoli di orazioni perdute), opere retoriche, epistolari, opere poetiche, e sappiamo che scrisse anche opere in prosa oggi perdute; sono inoltre le sue stesse opere la fonte principale di notizie che abbiamo sulla sua vita. 1. TRADIZIONE E INNOVAZIONE NELLA CULTURA ROMANA Le notizie biografiche di Cicerone sono fondamentali, in quanto rendono conto del periodo di profonda crisi che porta al tramonto della res publica attraverso il punto di vista di un intellettuale sensibile e attivo, che propone un progetto etico-politico per porre rimedio a questa crisi. Per il grande talento che possedeva nel manipolare le parole a fini persuasivi, lo strumento da lui più utilizzato ai suoi scopi fu la retorica, tesa al mantenimento dell’egemonia del blocco sociale aristocratico. Con il passare degli anni e l’accatastarsi delle delusioni, tuttavia, abbandona la trattazione di indicazioni concrete e pratiche, riflettendo maggiormente sui fondamenti della politica e della morale. Vuole dare una guida, una base ideale etico-politica ad una classe dominante che si mantenga conservativa rispetto a quelli che sono i valori nazionali (mos maiorum), ma che non per questo rifiuti un’apertura alla cultura greca, o sia insensibile a un otium nutrito di arti e letteratura. Gran parte dell’opera di Cicerone è dunque riflesso di una società attraversata da spinte contrastanti, per la quale egli ricerca un equilibrio fra istanze di ammodernamento e conservazione dei valori tradizionali. 2. L’EGEMONIA DELLA PAROLA: CARRIERA POLITICA E PRATICA ORATORIA Pro Roscio Amerino Non la prima causa difesa da Cicerone, ma importante per la risonanza che ebbe nella società romana. Difendere Sesto Roscio dall’accusa di patricidio rivoltagli dai reali assassini del padre per toglierlo di mezzo e impossessarsi così delle sue proprietà. Difficile poiché il piano era sostenuto da Lucio Cornelio Crisogono, potente liberto di Silla allora detentore di poteri pressoché assoluti: era necessario citare Crisogono in quanto principale responsabile, coinvolgendo però il meno possibile Silla. Lo stile è ancora acerbo, legato agli schemi dell’asianesimo allora di moda, con periodi scorrevoli, vivaci, pieni di metafore e neologismi. Emerge invece a pieno titolo la capacità ritrattistica ciceroniana di creare taglienti quadri satirici (Crisogono). Verrinae Dopo aver ricoperto, nel 75, il ruolo di questore in modo onesto e rispettabile in Sicilia, in siciliani stessi lo chiamarono in aiuto nel processo a Verre, accusato di malversazione, nel 70. In maniera energica e rapida Cicerone raccolse tutte le prove necessarie a sostenere il processo entro la fine del 70 (poiché, per l’anno successivo, era stato designato come console il difensore di Verre, Q. Ortensio Ortalo). Cicerone fece in tempo ad esibire solo la prima delle actiones in Verrem (pubblicherà poi in cinque libri la Actio secunda in Verrem), che già bastò a schiacciare Verre ed a farlo fuggire dall’Italia condannato poi in contumacia. Lo stile delle Verrine è già maturo, e stride contro l’esasperante ampollosità di Ortensio. Ciò non significa che si tratta di uno stile arido o secco → il periodare è armonioso, retoricamente costruito come una complessa architettura; la sintassi è duttile e la gamma dei registri varia. Il primo scritto filosofico è del 46, un’operetta sui Paradossi degli Stoici dedicata a Marco Bruto. La produzione si intensifica nel 45, in corrispondenza di dolorosi avvenimenti nella vita privata (come la morte della figlia Tullia) e del ritiro dalla vita politica dopo l’instaurazione della dittatura di Cesare. L’Hortensius (perduto) è un’esortazione alla filosofia su modello di uno scritto aristotelico; gli Academica, che trattavano problemi gnoseologici, ebbero una doppia redazione in priora e posteriora. Il De finibus bonorum et malorum è considerato da alcuni il capolavoro di Cicerone filosofo. Dedicata a Bruto, tratta di questioni etiche, ovvero del sommo bene e del sommo male, ed ha una struttura estremamente armonica ed elegante. Anch’esse dedicate a Bruto, le Tusculanae disputationes sono l’opera più appassionata di Cicerone. Sono il maggiore punto di contatto di Cicerone con lo stoicismo più rigoroso, e vedono l’autore stesso come personaggio insieme a un anonimo interlocutore; i cinque libri trattano rispettivamente i temi della morte, del dolore, della tristezza, dei turbamenti dell’animo e della virtù come garanzia di felicità. Risultano essere, pertanto, una summa della filosofia antica con tema il raggiungimento della felicità; per la forte partecipazione emotiva dell’autore, le sue parole sono pregne di un’appassionata solennità e di un’intensità lirica senza eguali nella prosa latina. Argomenti religiosi/teologici → De natura deorum, De diuinatione, De fato. Nel Cato maior de senectute e nel Laelius de amicitia, precetti filosofici trovano incarnazione in figure della tradizione romana. In molte di queste opere, l’impegno di Cicerone è rivolto al riordinamento del materiale filosofico ellenistico per proporlo in un blocco di senso comune che sia punto di riferimento per la classe dirigente romana. Teoria della conoscenza Cicerone aderì al probabilismo degli Accademici, una sorta di scetticismo pragmatistico L’eclettismo filosofico Il metodo che Cicerone segue nel trattare dei problemi filosofici di maggiore importanza è da lui esposto nel V libro delle Tusculanae. Si sforza di proporre le sue teorie come opinioni, di mettere a confronto tutte le opinioni possibili e di essere aperto e tollerante, in linea con i principi dell’humanitas. L’unico brusco caso di rifiuto e chiusura si ha nell’epicureismo, in quanto particolarmente minatorio dei valori tradizionali romani: in particolare, Cicerone non può tollerare la messa in discussione del sistema religioso tradizionale, che per lui sta alla base dell’etica. Alla confutazione della filosofia epicurea dedica i primi due libri del De finibus. Altri dialoghi di argomento religioso sono il De natura deorum e il De diuinatione. Se Cicerone riconosce che la filosofia che forniva ai cittadini romani la base morale più solida era lo stoicismo, è tuttavia simpatizzante nei confronti di filosofie moderatamente aperte al piacere, come quella peripatetica. E, sul piano teoretico, l’espressione di questa apertura/tentativo di conciliazione fra teorie diverse è rappresentata dal probabilismo accademico. La vecchiezza e l’amicizia Nel Cato maior de senectute, ambientato nel 150 Cicerone si proietta nella figura solenne dell’antico Censore, variando tuttavia nella sua rappresentazione → da rude agricoltore della Sabinia, ne fa un cultore raffinato dell’humanitas e della socievolezza. Il Laelius de amicitia, all’indomani della morte di Cesare e dunque unito al ritorno di Cicerone sulla scena politica, è più battagliero. Ambientato nel 129, nel corso delle agitazioni gracchiane, l’amico morto Lelio intrattiene i suoi interlocutori con una disquisizione sul valore e sulla natura dell’amicizia. Se per i romani amicitia era sempre stata la creazione di legami personali a scopo di sostegno politico, qui Cicerone sembra invitare a ricondursi ai precetti greci sulla philia. Propone inoltre di allargare la base sociale dell’amicizia oltre i confini della sola nobilitas. Doveri della classe dirigente Esposti nel De officiis, un trattato che vuole suggerire ai romani una morale della vita quotidiana che permetta all’aristocrazia di riacquistare il controllo sulla società. Afferma di rivolgersi in primis ai giovani. L’opera è tratta dal trattato Sul conveniente di Panezio di Rodi (professava uno stoicismo moderato, fece parte del circolo di Scipione Emiliano) + qualche fonte eclettica, ed è divisa in tre libri → sull’honesum, sull’utile e sulla combinazione fra i due. Il sistema delle virtù Alla virtù cardinale della giustizia viene affiancata la beneficentia → se la giustizia vuole rendere “a ciascuno il suo”, la beneficenza ha il compito di collaborare positivamente al benessere della comunità. Essa, tuttavia, solleva un problema non indifferente: troppe volte si era infatti visto come la largitio nelle mani di demagoghi senza scrupoli aveva portato al trascinamento delle masse con esiti catastrofici. Un’altra virtù fondamentale nel sistema di Panezio è la magnitudo animis, l’istinto a primeggiare sugli altri, che dev’essere però adeguatamente imbrigliato per evitare una ritorsione a sfavore della res publica (scrive negli anni in cui l’esempio di Cesare è sotto gli occhi di tutti). Dunque il logos, la ragione, ha il compito di controllare gli istinti e di trasformarli in virtù. Prime origini del galateo L’ultima virtù è quella della temperanza, che si esprime in un aspetto esteriore di decorum, un senso di equilibrio, armonia dei pensieri, eleganza e raffinatezza. Sembra dare i principi di una sorta di galateo ante litteram, suggerendo consigli sulla toilette, sull’abbigliamento, sulla conversazione d’intrattenimento e su come dovrebbe essere la casa dell’aristocratico romano. Il concetto guida di decorum consente inoltre di fondare la possibilità di una pluralità di atteggiamenti e di scelte di vita → ognuno deve seguire, nella propria vita, ciò che più si addice al proprio talento. Giustifica così una vasta gamma di attività ritenute “sospette” nella società romana, come il dedicarsi ad attività economiche, alla gestione del patrimonio, alla cura di una vocazione scientifica o spirituale. Flessibilità della filosofia. 6. LINGUA E STILE Così come Lucrezio, anche Cicerone lamentò una carenza nel lessico romano a “rendere” la terminologia filosofica greca; opera in direzione dell’evitamento del grecismo, cosicché i suoi testi si riempiono di sperimentazioni e di parole nuove destinate a diventare fondamento della tradizione culturale europea → qualitas, quantitas, essentia… Per la sua chiarezza espositiva, la sintassi utilizzata da Cicerone diverrà solida base della prosa europea → periodo complesso e armonioso, regolato da un’architettura logica rigorosa. Sostituzione della paratassi con l’ipotassi = concetto centrale a cui erano subordinati altri elementi. Entra in gioco una grande varietà di toni e registri stilistici, con altrettanta mobilità di effetti nel lettore → tre gradazioni di stile (semplice, temperato, sublime) corrispondenti alle tre esigenze discorsive corrispondenti (probare, delectare, mouere). La disposizione verbale è sempre accuratissima, volta a creare il numerus, sorta di sistema di regole metriche adattate alla prosa volte a creare, appunto, una prosa ritmica. La sede specializzata di questi effetti metrico-ritmici è la clausola. 7. LE OPERE POETICHE Cicerone poeta non fu particolarmente brillante: già i contemporanei non lo apprezzavano e, nel caso di alcune opere, addirittura lo sbeffeggiarono. Cicerone, al contrario, aveva un’alta opinione della sua poesia. Scrisse in gioventù poemetti alessandrineggianti con argomento mitologico. Il Limon, opera miscellanea, conteneva giudizi su altri poeti in versi. L’opera poetica più fortunata furono gli Aratea, una traduzione in esametri dei Fenomeni di Arato; in generale, i suoi lavori migliori saranno proprio le traduzioni dal greco, in cui si dimostra capace di vero pathos. Scrisse due poemi epici: il Marius, probabilmente opera giovanile, e il De consulatu suo, in tre libri, composto intorno al 60 per celebrare la propria battaglia contro Catilina durante il consolato. È l’opera più derisa, mediocre e colma di stucchevoli lodi che Cicerone si autoprodigava. Per quel che riguarda la prima produzione poetica ciceroniana, egli potrebbe essere definito un precursore dei neoterici (anche se ellenistico/alessandrino più che callimacheo); segue il periodo dei poemi epico-storici di tipo enniano. Sebbene le opere non ebbero particolare fortuna, come versificatore la sua influenza fu significativa → contribuì a regolarizzare l’esametro latino per quel che riguarda la posizione delle cesure e la specializzazione di certe formule in clausola. Sono presenti echi di questo suo esercizio in Lucrezio, Virgilio, fino ad Orazio e Ovidio. Favorì lo sviluppo in poesia dell’enjambement e dell’incastro verbale. 8. L’EPISTOLARIO L’epistolario di Cicerone è un documento rimastoci di inestimabile valore: scritte tra il 68 a. C. e il luglio del 43 a. C. (manca però l’anno del consolato), per un totale di circa 900 lettere, illuminano molti aspetti della personalità di Cicerone; si pensi inoltre che non sono state scritte e pensate per la pubblicazione, ma solo per i riceventi → contengono confidenze, sentimenti ed emozioni personali, cambi d’umore, talora anche i retroscena meno edificanti della sua azione politica, scritti con una sintassi diversa da quella delle altre opere, ellittica e gergale, e nel linguaggio del sermo cotidianus delle classi elevate di Roma. Spaziano per quel che riguarda i toni, contenuti e occasioni: da biglietti frettolosi, a vivaci resoconti politici, a lettere elaborate che risultano simili a piccoli trattati. Si dividono in: - 16 libri Ad familiares, 62-43 a. C., spedite a parenti e amici; - 16 libri Ad Atticum, suo migliore amico sin dalla prima gioventù, 68-44 a. C.; - 3 libri Ad Quintum fratrem, 60-54 a. C.; - 2 libri Ad Marcum Brutum di autenticità controversa poiché tutte del 43 a. C. 9. FORTUNA DI CICERONE Suoi detrattori → oratori di tendenza “atticista”, Asinio Pollione e, specie per i gusti stilistici, Sallustio. Nel I secolo d. C. il suo stile rivaleggerà con quello frammentario, nervoso, punteggiato di sententiae di Seneca. Nel Medioevo sarà uno dei mediatori dei valori della civiltà antica, maestro di filosofia e arte; con la scoperta di parte dell’epistolario ad opera di Petrarca, crescerà anche l’interesse per la figura umana e storica. Il Rinascimento vedrà contrapposti ciceroniani e anticiceroniani, che discutono sul modello sintattico da adoperarsi nella prosa. Negli ultimi due secoli, la risonanza di Cicerone risente della generale svalutazione della cultura latina a vantaggio di quella greca, e dell’interpretazione storica ad opera dell’autorevole Theodor Mommsen, che parlò di lui come campione di un’eloquenza ricca ma povera di pensiero. CESARE Vita Nasce a Roma nel 100 a. C., comincia a servire nell’esercito in Asia poiché imparentato con Mario e Cinna, e dunque perseguitato dai sillani. Torna a Roma nel 78 a. C. e comincia la carriera politica → questore, edile, pontefice massimo, pretore, propretore; nel 60 stipula il cosiddetto primo triumvirato con Pompeo e Crasso, e riveste il consolato nel 59 a. C e ottiene per l’anno successivo l’incarico proconsolare nell’Illiria e in Gallia Cisalpina e Narbonese. Da qui comincia ad espandersi fino a conquistare l’intera Gallia, presentandola come operazione difensiva e preventiva. Non ottenendo il passaggio diretto dall’incarico proconsolare al consolato, decide di marciare in Italia dando inizio alla guerra civile (gennaio 49): il grandissimo potere personale che si era assicurato gli aveva portato l’ostilità del senato repubblicano, il quale gli invia contro Pompeo → Cesare lo sconfigge a Farsàlo nel 48 a. C. Sconfitti gli ultimi focolai pompeiani è padrone incontrastato di Roma; viene però ucciso nel 44 a. C., il 15 di marzo, da un gruppo di repubblicani preoccupati dalle tendenze autocratiche e regali da lui dimostrate. Opere spurie → Epistulae ad Caesarem senem de re publica e Invectiva in Ciceronem. Improbabile la scrittura di un poema da titolo Empedoclea, probabilmente opera di un omonimo amico di Cicerone. Le fonti sono la Cronaca di San Girolamo, cenni sparsi qua e là in vari autori (specialmente Dione Cassio). 1. MONOGRAFIA STORICA COME GENERE LETTERARIO I proemi delle monografie sallustiane sono piuttosto ampi, e mostrano una particolare ansia dell’autore volta a giustificare la propria attività intellettuale. Essa resterà sempre subordinata all’attività politica e compiuta con molto meno orgoglio di quanto non facesse, per esempio, Cicerone. Il focus di Sallustio si rivolge, attraverso la monografia, alla crisi che ha irrimediabilmente corrotto società e istituzioni: difatti, il Bellum Catilinae indaga il punto più acuto che raggiunge la crisi a Roma, la gravità di un pericolo di sovversione fino a quel momento ignoto; nel Bellum Iughurtinum affronta invece il nodo della nobilitas incapace di resistere alla cupidigia per difendere lo Stato, insistendo perciò sulla prima resistenza che riuscirono a opporre i populares. 2. LA CONGIURA DI CATILINA E IL TIMORE DEI CETI SUBALTERNI Catilina aveva intravisto la possibilità di coalizzare una sorta di “blocco sociale” avverso al regime senatorio. Riesce a mettere insieme un esercito di disperati: proletariato urbano, ceti poveri di alcune regioni, aristocratici indebitati. Cicerone, durante il suo consolato, riesce a raccogliere le prove necessarie per smascherare la congiura e condannarne i complici. Sulla loro sorte si dibatte in senato, dove si vedono contrapposte la figura di Catone, che sostiene la proposta della pena di morte, e quella di Cesare, che propone una pena più mite. Sallustio ritrae questi due uomini politici come due personaggi dalle virtù opposte e complementari, i soli grandi uomini del suo tempo. La paura dei ceti possidenti in reazione al fenomeno catilinario può sembrare esagerata; tuttavia, in assenza di essa si spiega a fatica la risonanza che ebbe la congiura. Sallustio, e con lui altri storici, vedevano nella congiura catilinaria l’espressione di una più profonda degradazione della società romana. All’indagine di essa è dedicato un ampio excursus sotto forma di cosiddetta “archeologia”: viene tracciata una rapida storia dell’ascesa e poi degradazione di Roma. Il punto di svolta è individuato nella distruzione di Cartagine, che segna la fine del metus hostilis (paura del nemico), che teneva salda e compatta la collettività cittadina. Sallustio critica Silla, e in particolare l’orrore delle proscrizioni, con grande asprezza. In un secondo excursus viene condannato il cosiddetto “regime dei partiti” → era necessario abolire la conflittualità all’interno del blocco dei ceti possidenti per salvaguardarne i privilegi. Egli vedrà probabilmente in Cesare il princeps che aveva teorizzato anche Cicerone. Sarà però in forte disaccordo con la sua scelta di “inquinare” il senato con personaggi provenienti dai ranghi militari. Sarà leggermente deformato il ritratto di Cesare che Sallustio fa parlare durante il processo ai catilinari: non vuole indicarlo come capo dei populares dopo avere condannato la presenza di fazioni, e inoltre insiste su motivi legali nel suo discorso a sfavore della condanna a morte degli accusati, in linea con la propaganda cesariana di quegli anni (vedi Commentarii). Passa in seguito a delineare i ritratti di Cesare e Catone. Sembra essere stato il primo a tentare una mediazione serena fra i due personaggi. Cesare → liberalità, munificentia, misericordia, energia instancabile che sorreggeva la sua brama di gloria. Catone → virtù tradizionali di integritas, seueritas, innocentia, ecc. Il ritratto dunque che emerge, nell’opera, di Cicerone, non è quello grandioso che lo stesso console aveva proposto di sé, ma per lo più si tratta di un magistrato che, superando angosce e incertezze, fa il proprio dovere pur non essendo un eroe. Un possente ritratto, seppur nella sua malvagità, è quello che Sallustio realizza di Catilina: un ritratto moralistico, coerente con il moderatismo politico dell’autore: a parlare non è solo Catilina, ma tutta la degradazione morale che investe numerosi membri della società romana. 3. IL BELLUM IUGHURTINUM Giugurta, dopo essersi impadronito con il crimine del regno di Numidia, corrompe gli aristocratici romani inviati a combatterlo per ottenere una pace vantaggiosa; viene dunque inviato in Africa Metello, che ottiene successi vantaggiosi ma non decisivi; decisivo sarà l’intervento di Mario, luogotenente di Metello che, divenuto console nel 107 a. C., ottiene l’incarico di portare a termine la guerra contro Giugurta. La narrazione della guerra in Numidia emerge da uno sfondo che condanna la degenerazione della vita politica e, in particolare, la nobiltà corrotta. In un excursus che non manca di condannare il regime dei partiti (mos partium et factionum), Sallustio bersaglia aspramente la nobiltà. Un discorso che pronuncia Memmio ne illustra i difetti, mentre affida a Mario l’affermazione di una nuova aristocrazia, un’aristocrazia della uirtus fondata non sui dirritti di nascita ma sui talenti (+ l’energia spesa a svilupparli). Questi discorsi sono rappresentativi dei migliori valori etico-politici espressi dalla “democrazia” romana nella lotta contro la nobiltà. Il giudizio su Mario non è tuttavia scevro da ombre: al tempo in cui Sallustio scrive, è conscio tanto dei meriti che l’homo nouus ebbe nella guerra Giugurtina quanto delle responsabilità di cui si caricò durante la guerra civile. Inoltre, lo storico non sembra approvare l’arruolamento dei capite censi, provvedimento che sta alla base dell’origine degli eserciti personali destinati a distruggere la repubblica. Ambigua come la figura Catilina è infine quella di Giugurta: la sua energia è riconosciuta quale segno di uirtus, seppur corrotta. Una corruzione, fra l’altro, non insita ma che sorge progressivamente in lui. Tuttavia, Sallustio non si risparmia contro il suo personaggio, e nemmeno cerca di illuminare la situazione dal suo punto di vista. 4. LE HISTORIAE Sono l’opera di più ampio respiro di Sallustio. Iniziano nel 78 a. C. e, a causa dell’incompiutezza per la morte dell’autore, non sappiamo fino a che punto dovessero protrarsi. I frammenti che ci sono rimasti, comunque, non superano il 67 a. C.; alcuni di essi sono particolarmente ampi: abbiamo quattro discorsi, una lettera di Pompeo e una di Mitridate. Quest’ultima è particolarmente importante, poiché in essa il re del Ponto si fa portavoce delle lagnanze dei popoli assoggettati dai romani → critica la loro sete di ricchezze e potere inestinguibile. L’opera dell’ultimo Sallustio sembra essere pregna di pessimismo → morto Cesare, vede comparire sulla scena politica solo demagoghi e avventurieri; non c’è più speranza di riparazione dei costume, e non più ha nessuno dalla parte di cui schierarsi. 5. LO STILE L’epoca in cui Sallustio scrive aveva visto il rinnovarsi sia dell’oratoria, con Cicerone, sia della poesia, con i neoteroi. Ci si aspettava ora un rinnovamento della lingua della storiografica. Cicerone pensava più a una scrittura che fosse riadattamento del modello oratorio. Invece, spinte innovative più determinanti vennero da Sallustio. Lo stile di Sallustio si fonda sull’inconcinnitas, sull’uso frequente di antitesi, asimmetrie, uariationes di costrutto che producono un inquieto dinamismo cui fa da contrafforte il vigoroso controllo dell’autore. Il difficile equilibrio che prodotto dà un effetto di grauitas austera e maestosa, cui contribuisce parecchio anche la patina arcaizzante. L’arcaismo è in realtà prodotto non solo dalla scelta di parole desuete, ma anche dall’uso frequente della paratassi e di una generale economia dell’espressione, con asindeti, ellissi, a cui reagisce però la tendenza all’accumulo di parole quasi ridondanti. Largamente presente e dalla patina ancora arcaica è l’allitterazione. Sul piano della tecnica narrativa, Sallustio rinuncia agli effetti drammatici e alle movenze tipici della storiografia “tragica”, alla ricerca di sobrietà e austerità. Tuttavia, questa limitazione approda paradossalmente ad una tragicità del discorso ancora più intensa e drammatica proprio perché controllata. 6. LE EPISTULAE E L’INVECTIVA Due opere come l’Inuectiua in Ciceronem e le Epistulae ad Caesarem senem de republica sono da considerarsi false, cioè prodotto del grande successo che ebbe fra i romani il personale e potente stile di Sallustio. In particolare, può darsi che le operette siano state confezionate nelle scuole di retorica del I secolo d. C. 7. FORTUNA DI SALLUSTIO In antichità fu, in generale, molto apprezzato. Il suo più illustre ammiratore e imitatore fu Tacito, e in futuro le influenze dei due autori si trovarono insieme combinate. Nella modernità, nonostante non abbia lasciato tracce persistenti nello stile della sua prosa, Alfieri dichiara di amarlo particolarmente, e lo traduce con grande impegno. VIRGILIO Vita Nasce presso Mantova nel 70 a. C. da piccoli proprietari terrieri, si forma a Roma e a Napoli. Nelle Bucoliche Virgilio richiama le gravi confische e poi ridistribuzioni di proprietà terriere del 41 a. C. → alcuni commentatori si sono chiesti se Virgilio stesso non fosse stato soggetto a provvedimenti di questo tipo, perdendo i propri possedimenti mantovani per poi riacquistarli; in questo caso, non sarebbe nemmeno certo grazie a chi sarebbe stato in grado di riavere le terre, forse Ottaviano? Entra in contatto con il futuro princeps dopo la pubblicazione delle Bucoliche, tramite il legame con il circolo di Mecenate. Negli anni che vanno fino alla battaglia di Azio lavora alle Georgiche, poema raffinato in perfetta sintonia con l’ambiente di Mecenate. Dalla salita al potere di Augusto in poi sarà del tutto assorbito dalla composizione dell’Eneide, pubblicata postuma per volere del princeps senza che l’autore riuscisse a darvi l’ultima revisione. Opere e fonti Bucolica → dieci brevi componimenti in esametri, collegati da una struttura di simmetrie interne; i componimenti sono anche detti egloghe, e sono stati composti fra 42 e 39 a. C. Georgica → poema didascalico in quattro libri di esametri, completato nel 29 a. C. Aenèis → poema epico in dodici libri, esametri; presenti alcune incongruenze narrative e ripetizioni compositive, e alcuni versi incompleti che Virgilio chiamava tibìcines = “puntelli” a sostegno di un edificio in costruzione. I testi di quella che è nota come Appendix Virgiliana sono probabilmente spuri. Di Virgilio esistono una serie di Vitae tardoantiche e medievali in cui è presente un nucleo di informazioni proveniente da Svetonio. La più famosa di queste è la Vita scritta da Elio Donato, attivo nel IV secolo d. C. come grammatico. 1. LE BUCOLICHE Teocrito e Virgilio Nelle Bucoliche virgiliane ritorna molto di Teocrito, grande autore ellenistico finora non particolarmente frequentato dai romani. Negli Idilli, il poeta greco tenta di ricostruire in maniera nostalgica e dotta un mondo pastorale illuminato dalla poesia, in un paesaggio statico di vita quotidiana rarefatta. Ha spazio, all’interno di questa poesia, anche la trattazione di grandi temi, ma essa viene fatta in modo semplice ed estraniato. L’incontro di Virgilio con Teocrito risulta essere molto felice, producendo un’opera che non è imitazione del modello, ma suo pari. Le Bucoliche possono ritenersi il primo testo della letteratura augustea. Lo splendido equilibrio dello stile e la simmetria della struttura dell’opera non nascondono l’irrompere di conflitti ed inquietudini → Roma è divenuta grande per la vita semplice e laboriosa del contadino italico, ma contemporaneamente è anche la Città, luogo di discordia e degenerazione. La storia di Aristeo e Orfeo La digressione finale del IV libro ha carattere narrativo. Tramite la tecnica alessandrina dei racconti a incastro, vengono collegati i personaggi mitologici di Orfeo ed Aristeo in una trama di sottili richiami. La storia vuole proporre due modelli → Orfeo può dominare la natura con il suo canto, ma subisce lo scacco della legge naturale della morte; Aristeo prende la strada della paziente lotta contro la natura (anche nella tradizione mitologica era un eroe civilizzatore) che, con l’obbedienza tenace ai precetti divini, lo porta fino alla rigenerazione delle api (bugonia = nascita delle api da carcasse bovine). La digressione narrativa illumina perciò la sostanza del messaggio didascalico, e ne viene illuminata a sua volta. 4. DALLE GEORGICHE ALL’ENEIDE 5. L’ENEIDE Omero e Augusto Il confronto, indubbiamente e intenzionalmente presente, con Omero si articola in modi molteplici: - contaminazione di Omero: si ha una metà “iliadica” dell’Eneide e una “odissiaca”, invertite rispetto alla cronologia delle opere omeriche e con esiti ugualmente invertiti: i libri I-VI sono complessivamente odissiaci, ma per Enea non è un ritorno a casa, bensì un viaggio verso l’ignoto; i libri VII-XII sono iliadici, ma si concludono con la vittoria dei troiani. - continuazione di Omero: nel presentare avvenimenti che seguono la guerra di Troia, l’Eneide si pone come continuum rispetto all’Iliade; inoltre Enea, nel III libro, segue in parte la traccia di Odisseo affrontando pericoli che già egli aveva attraversato; - ripetizione di Omero: la guerra nel Lazio sembra essere ripetizione della guerra di Troia; tuttavia, stavolta i troiani sono vincitori ed Enea uccide Turno così come Achille aveva ucciso Ettore. → Virgilio giunge dunque a “lodare Augusto partendo dai suoi antenati”. Fra la distruzione di Troia e la fondazione di Roma c’è uno scarto di quasi quattro secoli: in qualche modo, Virgilio legittima un legame della storia romana con il mondo omerico, e può al contempo guardare il mondo di Augusto con occhio distaccato. La leggenda di Enea Pare che vi fossero, ai tempi di Virgilio, diverse leggende che legavano la distruzione di Troia alla fondazione di Roma. L’eroe troiano Enea cominciò ad acquisire particolare popolarità tra II e I secolo, nel contesto politico delle conquiste: i Romani, nell’espandere la propria egemonia sul Mediterraneo greco e poi in Oriente, si potevano presentare come vendicatori dei troiani sconfitti dai greci, e perciò legittimati a muovere guerra. Inoltre, la gens Iulia di cui facevano parte Giulio Cesare e Ottaviano, si assicurò nobilissime origini vedendo il proprio capostipite nel figlio di Enea, Ascanio/Iulo. L’Eneide svolge la storia di Enea dall’ultimo giorno della guerra di Troia fino alla fusione di Troiani e Latini in un unico popolo dopo la vittoria in Lazio. Dalla narrazione emerge una significativa rielaborazione delle fonti storico-antiquarie operata da Virgilio → a tutti i popoli italici (Latini, Etruschi, persino i Greci con Pallante) è in qualche modo riconosciuto un ruolo costruttivo per la genesi di Roma. È infine importante dire che l’opera non è un poema storico, sebbene i motivi storico-politici giochino un ruolo fondamentale e significativo. Il taglio dei contenuti è dato piuttosto da una selezione drammaturgica del materiale, che ricorda più Omero che Ennio. Il nuovo stile epico Lo stile virgiliano seppe conciliare il massimo di libertà con il massimo di ordine. La ricerca neoterica della perfezione formale aveva portato a un irrigidimento nella collocazione dei vocaboli che produceva effetti di monotonia. Lavorando sull’esametro, Virgilio giunge a dargli il massimo di regolarità contemporaneamente al massimo di flessibilità. Uso delle cesure: la struttura ritmica del verso è resa regolare dall’uso di cesure principali in configurazioni privilegiate. Tuttavia, la sapiente e diversificata disposizione di cesure accessorie contribuisce a dare maggiore colore all’esametro, e a far sì che esso possa calzare in molteplici situazioni: può favorire un periodare ampio per pacate descrizioni, oppure uno più breve concitati momenti patetici. Anche le allitterazioni hanno un uso regolato e motivato: amplificano l’effetto di pathos, producono fonosimbolismo, richiamano momenti diversi della narrazione. La tradizione richiedeva al genere epico una lingua elevata → perciò l’Eneide è l’opera con il maggior numero di arcaismi (omaggi alla maniera di Ennio o della tragedia arcaica) e poetismi (grecismi e neologismi). Il tratto, però, più significativo della lingua virgiliana è caratterizzato da un “nuovo manierismo, né gonfio né sottile, fatto di parole normali”. Uso cioè di molti termini non marcatamente poetici: la sperimentazione sintattica lavora su un lessico che resta semplice e diretto, che però ne esce rinnovato nei suoi effetti, come se le parole subissero un processo di straniamento. L’Eneide dà largo spazio a procedimenti formulari, come il citare precisamente il numero di guerrieri o navi, l’origine degli oggetti, dare epiteti stabili, ecc. Le formule della tradizione vengono però caricate di nuovi significati: ad esempio, gli epiteti tendono ad essere utilizzati per coinvolgere il lettore nella situazione e, spesso, anche nella psicologia del personaggio. Aumenta dunque la soggettività → apertura al pdv dei personaggi, del narratore, addirittura del lettore, ma tutto sapientemente ricomposto in unità grazie all’intervento del poeta. Omero e Augusto (II): le ragioni dei vinti L’Eneide racconta le vicende di una missione voluta dal Fato. Non manca, però, di sondare i sentimenti dei personaggi, posti sempre in primo piano: abbiamo così le ragioni di Didone, e quelle di Turno, eroe che si fa supplice ma non viene risparmiato da Enea, colto da uno scatto d’ira vendicativa al ricordo di Pallante. Virgilio chiede molto ai suoi lettori → devono insieme apprezzare la necessità fatale della vittoria e ricordare le ragioni dei vinti, guardare il mondo da una prospettiva superiore e insieme partecipare alle sofferenze degli individui. In sostanza, accettare insieme oggettività epica, che contempla dall’alto il ciclo provvidenziale della storia, e soggettività tragica, campo di disputa tra ragioni individuali e verità relative. 6. FORTUNA DI VIRGILIO ORAZIO Vita Nasce nel 65 a. C. da una famiglia di liberti che, nonostante le ristrettezze economiche, riesce a garantirgli una buona educazione → studierà nella scuola locale di Venosa e poi a Roma, per intraprendere il consueto viaggio di studi in Grecia a vent’anni. Nel 38 viene presentato da Virgilio e Vario a Mecenate, che nove mesi dopo lo ammette nel circolo dei suoi amici. Gli donerà un podere nella campagna sabina (probabilmente nel 33 a. C.) → la piccola proprietà di famiglia era stata confiscata dai triumviri dopo che si era arruolato in Grecia a sostegno di Bruto. Sarà in rapporti stretti con Augusto, una relazione di devota cordialità che non scadrà mai in servilismo, al punto che Orazio poté permettersi di rifiutare garbatamente l’invito a diventare segretario personale del princeps. Opere e fonti Epòdi; Satire; Odi; Epistole. Fonte principale è Orazio stesso, ma è anche importante una Vita Horati dedotta dal De uiris illustribus di Svetonio. ▪ GLI EPODI COME POESIA DELL’ECCESSO Diciassette componimenti scritti fra 41 e 30 a. C., pubblicati insieme al II libro delle Satire. Il nome richiama alla forma metrica → epodo = verso più corto che ne segue uno più lungo, formando un distico. Orazio li chiama iambi, facendo riferimento al ritmo e, insieme, alludendo al recupero del tono aggressivo tradizionalmente associato alla poesia giambica greca. La raccolta è ordinata secondo il criterio editoriale metrico di matrice alessandrina e caratterizzata da una grande varietà degli argomenti → carmi di invettiva, epodi erotici, epodi civili… Come il poeta stesso dichiara, la produzione degli Epodi è legata all’esperienza giovanile → schieramento accanto a Bruto in Grecia e confisca, dopo Filippi, della propria casa. A queste angosce possono ricollegarsi molte asprezze polemiche, toni carichi, linguaggio poetico violento; non bisogna tuttavia dimenticare che queste sono caratteri che già erano imposti dalle regole del genere. Orazio rivendica di essere stato il primo a trasferire alla poesia latina i metri e l’ispirazione aggressiva di Archiloco; sottolinea però che i contenuti sono suoi originali. Inoltre, se la polemica di Archiloco, aristocratico greco del VII secolo a. C., dava voce ai suoi odi e rancori, Orazio si trova nella condizione di liberto espropriato appena uscito da una difficile esperienza politica → può solo schierarsi contro nemici “minori” e, talvolta, anche fittizi. Lo spirito di Archiloco è però sfruttato anche per esprimere le ansie e le passioni appartenenti ad un’intera generazione solcata dalle guerre civili. Anche i Giambi di Callimaco influenzano Orazio nella scelta di riservare molteplicità di toni, livelli stilistici e temi a questo genere, sebbene stesse contemporaneamente lavorando alle Satire, che era invece il genere che la letteratura romana associava tradizionalmente alla varietà e alla molteplicità. ▪ LE SATIRE Due pinti, il primo (forse 35 a. C.) da 10 componimenti, il secondo (30 a. C.) da 8 componimenti. Argomenti estremamente vari → letterario programmatico (1,4; 1, 10 e 2, 1); incontentabilità umana (1, 1), adulterio (1, 2), ecc… Un genere tutto romano Sia Quintiliano che Orazio estromettono Ennio dalla tradizione satirica, indicando Lucilio come l’inventore del genere → sceglie l’esametro, la usa come strumento per l’aggressione personale, la critica mordace. Era inoltre importante l’elemento autobiografico che Lucilio impianta nel genere. La satira e la diatriba: la morale oraziana Nella coscienza letteraria di Orazio, la propria satira è avvertita come luciliana. Ciononostante, ne avvertiva e sottolineava le differenze, pur dando maggiore accento a quelle relative allo stile, criticando di Lucilio la sciatta e abbondante facilità. Un’altra importante differenza riguarda anche la forma dei contenuti. In Lucilio non viene mai chiarificato il rapporto fra diatriba e aggressività. La satira di Orazio è invece un collegamento stabile ed equilibrato fra questi due tipi di componimento. All’aggressione come piacere gratuito, subentra in Orazio l’esigenza di analizzare i vizi per individuare, in un mondo di corruzione, una strada “per pochi” attraverso la crisi. La satira oraziana è dunque intimamente collegata al circolo di intellettuali e pensatori guidato da Mecenate. Orazio, in aggiunta, non sente l’esigenza di avere bersagli di elevato livello sociale: gli basta un piccolo mondo di irregolari, tratto dalla strada. Lo scheletro della morale oraziana è costituito da materiali filosofici mutati dalla tradizione ellenistica → non si inserisce in nessuna particolare corrente di pensiero; sono fondamentali i concetti di autàrkeia e di metriotès. Forse la tradizione filosofica che più prende piede nella satira oraziana è l’epicureismo. La morale oraziana, per il suo realismo ed empirismo, entrerà in conflitto con il rigorismo e l’astrattezza degli Stoici. con ellissi, enjambement, costruzioni greche, iperbati; espressività garantita dal virtuosismo metrico e dall’arte della collocazione delle parole. b. La collocazione delle parole = la iunctura → accostate ad altre, perfettamente incastrate in una trama perfetta di richiami, le parole acquistano un nuovo spessore semantico, come se fossero pronunciate per la prima volta. c. Sobrietà e limpidezza → massima economia linguistica per ottenere il massimo di espressività. Strutture ben disegnate all’interno delle quali le singole parole acquistano per azione reciproca un’intatta energia comunicativa. ▪ LE EPISTOLE: PROGETTO CULTURALE E ANACORESI FILOSOFICA Dopo la grande stagione della poesia lirica, Orazio torna al sermo, all’esametro della conversazione. Le Epistulae acquistarono identità propria rispetto alle Satire come raccolta di lettere; per il resto, Orazio chiamava entrambe sermones, “conversazioni”. È indubbio che fossero state pensate per un pubblico, non come epistole private. Si tratta probabilmente di una sperimentazione di genere originale → se non costituivano una novità le epistole in versi, non era probabilmente mai esistita una raccolta sistematica di questo tipo. Ciò che più le distigue dalle Satire è il mutamento di ambientazione fisico → le Satire prevedono uno sfondo cittadino, le Epistulae appartengono all’angulus, alla dimensione di un paesaggio appartato, protetto, ciò che in Lucrezio poteva essere il sapientum templa serena. Nel cantare, e tentare di trasmettere, l’amore per una ritirata vita, il tema didascalico di matrice Lucreziana è rielaborato e rinnovato → nel genere epistolare il destinatario è quasi parte attiva, sebbene l’autore affronti con malinconica perplessità anche la possibilità che il messaggio non venga adeguatamente recepito. Rispetto alle Satire manca anche l’aggressività comica che di esse era tratto fondamentale e distintivo. È come se l’autore si fosse arreso, poiché riconosce le contraddizioni insite nella propria morale. Contemporaneamente alla convinzione che non sia più possibile un equilibrio fra autarchia e metriòtes, è urgentemente avvertita la necessità della saggezza. Non sembra però più in grado di costruire un modello di vita soddisfacente → si risolve in un ritiro inquieto dalla società. La ricerca di una morale stabile infruttuosa sembra essere costantemente legata a una pervasiva insoddisfazione di sé, a un irreparabile stato di noia = strenua inertia. Se la morale si fa più incerta, paradossalmente l’impianto didascalico si fa ancora più forte per la natura epistolare dei testi. L’Ars poetica In qualità di critico autorevole e affermato, Orazio si inserisce all’interno del dibattito sulla politica culturale e critica letteraria in atto fra gli intellettuali dell’entourage augusteo. Spesso è addirittura Augusto il destinatario (implicito o esplicito) di questi discorsi. Se l’Eneide aveva saputo dare risposta alla richiesta di un poema epico-storico che cantasse la grandezza dei maiores, restava invece irrisolta la questione del teatro latino. In una sorta di disputa fra antichi e moderni, Orazio si schiera dalla parte dei moderni, condannando il legame ancora troppo forte con il teatro latino arcaico (preferito, fra l’altro, anche da Augusto). L’Ars poetica orienta la sua analisi dell’arte e della poesia, dunque, su problemi della letteratura drammatica: Orazio vuole un’arte che sia, in linea con i suoi principi, raffinata, colta, paziente, attenta (convenienza e decorum). ▪ LA FORTUNA L’ELEGIA: TIBULLO E PROPERZIO Il punto massimo di fioritura dell’elegia a Roma è la seconda metà del I secolo a. C. Nell’antica letteratura greca “elegia” indicava un componimento poetico il cui metro era l’èlegos; di questa parola non si conosce invece l’etimo precisa, forse “flauto” in una lingua orientale. Originaria della Ionia, l’elegia poi si diffonde e trova spazi in svariate occasioni di vita pubblica e privata → carattere guerresco, esortatorio, polemico, politico e moraleggiante, erotico o usato nelle lamentazioni funebri. Tracce cospicue di quest’ultimo uso nell’Andromaca euripidea e nella Lide di Antimaco → è proprio sulla scia di quest’ultimo che inizia ad instaurarsi una connessione tra autobiografia e mito che sarà molto produttiva fra gli elegiaci greci. La questione dell’origine dell’elegia latina è tra le più dibattute nella storia della filologia classica: ▪ il tedesco F. Leo sosteneva una derivazione diretta dall’elegia ellenistica, tesi oggi rifiutata perché il carattere fortemente soggettivo e autobiografico latino non ha precedenti in nessun poeta ellenistico; ▪ riallacciandosi a questo motivo, F. Jacoby considerava l’elegia latina una continuazione/ampliamento dell’epigramma greco proprio per l’elemento soggettivo; tuttavia, la teoria dell’epigramma non spiegherebbe la funzione del mito nell’elegia latina. L’elemento autobiografico è forse contenuto in nuce dall’elegia ellenistica, mentre la poesia latina ne fa il proprio stendardo; non bisogna però tralasciare altri tratti che, indubbiamente, vi svilupperà accanto → tratti oggettivi, gnomici, elementi propri di altri generi letterari come la commedia, l’epigramma, la tragedia, la lirica, la bucolica. Il rischio di scadere nel biografismo è controllato dal fatto che si scelgono una serie di ruoli e comportamenti convenzionali, situazioni tipiche che vanno a costituire quello che potremmo chiamare un universo elegiaco, dotato di un proprio codice etico e di propri valori aggreganti. Il seruitium amoris → l’elegia latina è anzitutto poesia d’amore: canta l’esperienza totalizzante dell’asservimento del poeta a una domina da lui amata, che però lo fa soffrire con la sua crudeltà e infedeltà. Il poeta si abbandona a una sorta di compiaciuta acquiescenza al dolore, a una voluttà della sofferenza. Le delusioni amorose fanno si che proietti la propria vicenda nel mondo ideale del mito. Si distacca dalla realtà conducendo una vita irregolare, di nequitia → degradazione e disinteresse nei confronti dei valori e dei doveri del ciuis. È interessante notare come la poesia elegiaca, nell’esibire la sua ribellione ai valori del mos maiorum, non fa altro in realtà che trasferirli e inglobarli nel proprio universo → un amore “istituzionalmente” irregolare che tende spesso a configurarsi come coniugale, vincolato dalla fides, salvaguardato dalla pudicitia, diffidente dalla luxuria. Le ragioni dell’amore e l’attività poetica arrivano a delimitare lo stesso universo → la poesia, che nasce dall’esperienza diretta del poeta-amante, deve al tempo stesso servire come mezzo di corteggiamento e seduzione della donna. Ne segue dunque una precisa scelta di poetica, ossia il rifiuto della poesia elevata tramite il motivo tradizionale della recusatio. È in tutto e per tutto evidente il debito che i poeti elegiaci hanno con Catullo e la poesia neoterica: è condivisa 1) la rivoluzione del gusto letterario = ricerca di raffinatezza formale ed eleganza concisa; 2) la rivolta morale = il gusto dell’otium, di una vita estranea all’impegno civile e politico. TIBULLO Vita e testimonianze Date molto incerte, si pensa alla nascita fra 55 e 50 a. C. e alla morte poco dopo quella di Virgilio, a fine 19 / inizio 18 a. C. Sappiamo inoltre che fu suo protettore l’aristocratico repubblicano Messalla Corvino, che mantenne una posizione di prestigio anche durante il regime augusteo. Opere La tradizione ci ha trasmesso una raccolta eterogenea di elegie in quattro (tre, ma poi in età umanistica si è cominciato a divulgare il quarto in due parti) libri, non tutte autentiche: sono da attribuirsi a Tibullo i primi due libri e alcuni componimenti del IV → i componimenti 2-6 dedicati all’amore della nipote di Messalla, Sulpicia, a Cerinto, e gli ultimi due. I libro → iniziato dopo il 32 e pubblicato nel 26-25 a. C., comprende cinque componimenti su dieci (1, 2, 3, 5, 6) dedicati alla figura di Delia, donna capricciosa e volubile corteggiata dal poeta in una relazione tormentata; ad essi sono alternati elegie per un giovinetto, Màrato, dal tono velato di ironia giocosa e meno sofferto, relazione dai confini molto sfumati (4, 8, 9); vi è un’elegia per il compleanno di Messalla (7) e l’elegia conclusiva (10) celebra la vita campestre. II libro → nuova figura Nemesi ha sostituito Delia (3, 4, 6), più avida e spregiudicata; compleanno dell’amico Cornuto (2); la prima descrive la celebrazione degli Ambarvalia, una festa agricola; nomina di Messalino, figlio di Messalla, in un collegio sacerdotale (5). Il mito della pace agreste Lo scenario abituale della poesia elegiaca, la vita cittadina che fa da sfondo ad amori e intrighi si contrappone al mondo idealizzato della vita agreste, spazio di evasione dalle amarezze di un’esistenza tormentata, nell’ideale ritorno a una felice età dell’oro. Essa sostituisce la funzione esercitata nell’elegia dal mondo del mito. Lo spazio è convenzionale e stilizzato, perciò sono interessanti e degni di nota i rari accenni indubbiamente autobiografici. Due sono i temi dominanti dell’elegia di Tibullo → il bisogno del rifugio e il tema della pace: l’antimilitarismo, l’esecrazione degli orrori della guerra, si accordano con un mondo popolato da gente semplice, con l’idillio bucolico di memoria virgiliana. Dietro a questo scenario risuona un antico patrimonio di valori agresti che mette in luce la contraddizione che la poesia elegiaca porta con sé → aderisce all’ideologia arcaizzante del principato augusteo e al rilancio dei valori tradizionali, all’interno di una struttura dichiarata anticonformista e ribelle. Tibullo poeta doctus (stile) Tibullo, pur non inclinandosi ad esplicite dichiarazioni di poetica rispetto alla derivazione alessandrina del proprio mondo elegiaco (come invece Properzio), presenta nelle sue opere molti tratti distintivi della poesia ellenistica. Gli può essere attribuito l’epiteto di poeta doctus, anche se non nei termini di sottile erudizione esibita dai greci. La sua poesia ha infatti uno stile attentissimo, frutto di un laborioso e regolare lavoro di levigazione. L’espressione risulta limpida, semplice, Quintiliano parlerà di stile tersus atque elegans, a cui corrisponde la dimensione del sottovoce. Il ritmo ha una lieve cantabilità che acquista talora la parvenza di una rima. Il Corpus Tibullianum I codici più importanti, Ambrosiano e Veticano del secolo XIV, hanno trasmesso una raccolta di componimenti (solo in parte da attribuire al poeta) detta Corpus Tibullianum. Lydgamo A un poeta con pseudonimo Lydgamus sono da attribuire i primi sei componimenti del libro III del corpus. Incrociando le date che si possono ricavare dai componimenti, risulta improbabile che questo poeta coincida con Tibullo. Resta aperta la questione sulla sua identità, senz’altro da attribuire in generale a un poeta della cerchia di Messalla. Il Panegirico di Messalla e altri componimenti Da attribuire a un altro poeta del circolo è anche il mediocre Panegirico di Messalla, primo componimento del IV libro, probabilmente composto poco dopo il suo consolato del 31 a. C.). Degli altri componimenti del IV libro attribuiti a Tibullo si è già detto peima; restano fuori i componimenti 7-12, biglietti d’amore di Sulpicia a Cerinto (forse ellenizzazione di Cornutus = amico del poeta) attribuiti alla stessa Sulpicia. PROPERZIO Vita Ciò spiega la tendenza soprattutto giovanile ad accogliere con entusiasmo le nuove forme di vita della Roma dei suoi tempi. Essendo parte di una generazione estranea alle guerre civili, si fa portavoce dell’insofferenza verso i modelli di vita arcaici proposti dal regime, dell’aspirazione a una forma di vita più rilassata, incline a godere dei nuovi lussi importati dall’oriente. È tuttavia errato considerarlo un oppositore politico di atteggiamento antiaugusteo. Anche la sua poetica risulta essere “moderna”: essenzialmente antimimetica, antinaturalistica e fortemente innovatrice rispetto alla tradizione classica. È una poesia dal compiaciuto estetismo, dall’eleganza scettica → poesia di un gusto che fa della letteratura un ornamento della vita. 2. GLI AMORES Sono l’esordio poetico di un Ovidio non ancora ventenne. Mostrano, accanto ai temi tradizionali (= poesie d’occasione e avventure d’amore, baruffe con l’amata, scenate di gelosia, ecc.) dei grandi elegiaci romani, Tibullo e, soprattutto, Properzio, anche tratti spiccatamente nuovi: a. mancanza di una figura femminile unificante attorno a cui si raccolgano le varie esperienze amorose. Qua e là viene nominata Corinna, figura tuttavia tenue e probabilmente senza un corrispettivo reale. Il poeta stesso afferma di non riuscirsi ad appagare di un unico amore, preferendone due o addirittura di subire il fascino di qualsiasi donna bella; b. un altro elemento centrale dell’elegia precedente, il pathos, arriva a stemperarsi e banalizzarsi. Le pene d’amore del poeta diventano poco più che un lusus, il poeta osserva la propria esperienza amorosa con ironia e distacco intellettuale; c. poco presente il seruitium amoris a favore del seruitium nei confronti di Amore = non la donna, ma l’esperienza stessa di Amore diventa in sé totalizzante; d. nuovo peso acquistato dalla coscienza letteraria del poeta, che rivendica un ruolo della poesia non per forza subordinato alla vita, al rispecchiamento del reale. Vuole porsi essa stessa come centrale nella vita del poeta. 3. LA POESIA EROTICO-DIDASCALICA Ars amatoria, Remedia amoris e Medicamina faciei femineae costituiscono un vero ciclo di poesia erotico- didascalica, esito naturale della concezione dell’amore maturata negli Amores. Un aggancio fra le due parti è costituito dalla figura tradizionale della lena, astuta ed esperta mezzana che consiglia le giovani donne, rielaborata e incarnata nelle opere didascaliche dal poeta stesso, che si fa regista della relazione erotica e supervisore del gioco delle parti. La relazione amorosa ha perduto il suo carattere di passione struggente: è un gioco intellettuale, un divertimento galante in cui ruoli, situazioni, comportamenti sono tutti già codificati → ciò che resta da fare al poeta è redigere un inventario di tale universo elegiaco. L’Ars amatoria, in metro elegiaco, impartisce consigli su come conquistare le donne (I) e conservarne l’amore (II), per poi dare (III libro) consigli alle donne su come sedurre gli uomini. L’andamento precettistico si interrompe qua e là con inserti narrativi di carattere mitologico e storico messi in scena a mo’ di exempla. La figura del perfetto amante in Ovidio possiede disinvolta spregiudicatezza, insofferenza e impertinente aggressività nei confronti della morale tradizionale, specie nella delicata sfera dell’etica sessuale e matrimoniale (su cui particolarmente si concentravano gli sforzi restauratori di Augusto). Il carattere libertino e spregiudicato dell’Ars non è altro, tuttavia, che una patina scintillante e provocatoria. L’esperienza dell’amore totalizzante non c’è più, si è rientrati nella dimensione del lusus privo di ogni velleità di ribellione contro la morale dominante. L’eros ovidiano non fa altro che reclamare una certa tolleranza, uno spazio in cui sospendere la severità di una regola morale oramai inadeguata al costume della Roma ellenizzata. In realtà, osservando attentamente, Ovidio offre un tentativo di riconciliazione della poesia elegiaca con la società in cui vive → ne individua una vistosa contraddizione: critica il sistema etico tradizionale ma non ne forma uno proprio, e finisce con l’elaborare modelli tratti proprio a partire dalle virtù del mos maiorum. Ciò che Ovidio propone è un’accettazione del nuovo stile di vita della scintillante Roma augustea, capitale anche del bel vivere e dei costumi. All’esaltazione degli agi e delle raffinatezze contribuisce anche il poemetto Medicamina faciei femineae, sui cosmetici per le donne, tradizionalmente rifiutati e criticati. Il ciclo didascalico si conclude con i Remedia amoris, che si pongono l’obiettivo di curare chi soffre per il mal d’amore, visto non come una pena incurabile ma come qualcosa di cui liberarcisi se esso provoca sofferenza. 4. LE HEROIDES Oltre all’eros, l’altro punto centrale della lirica ovidiana è il mito. L’opera che più si nutre di esso prima delle Metamorfosi sono le Eroidi, una raccolta di epistole poetiche composta verosimilmente in due fasi: epistole 1-15 → lettere di famose eroine del mito greco (più Didone virgiliana e Saffo, personaggio storico) ai loro mariti o amanti lontani, scritte verosimilmente entro il 15 a. c.; → Penelope a Ulisse, Fillide a Demofoonte, Briseide ad Achille, Fedra a Ippolito, Enone a Paride, Didone a Enea, Ipsipile a Giasone, Ermione a Oreste, Deianira a Ercole, Arianna a Teseo, Canace a Macareo, Medea a Giasone, Laodamia a Protesilao, Ipermestra a Linceo, Saffo a Faone; episcole 16-21 → scritte tra il 4 e l’8 d. C., sono le lettere di tre innamorati più le rispettive risposte delle donne → Paride ed Elena, Ero e Leandro, Aconzio e Cidippe. Lachman considerava valide solo alcune lettere, ovvero quelle direttamente nominate da Ovidio in Amores, II; è tuttavia una forzatura ritenere che Ovidio abbia voluto citare tutte le epistole delle Heroides negli Amores. Con quest’opera Ovidio crea un nuovo genere letterario della cui originalità è orgoglioso; esiste un’elegia di Properzio (IV, 3), cui probabilmente si è ispirato, ma il materiale letterario proviene specialmente dalla tradizione epico tragica greca. Alcuni motivi sono inoltre tipici dell’elegia latina, come sofferenza per la lontananza della persona amata, recriminazioni, lamenti, accuse di tradimento, ecc. Ovidio attua un processo di modellizzazione elegiaca di temi tipici dell’epos, della tragedia e del mito. Ciò avviene non tanto tramite tecniche narrative, bensì come prospettiva che riconduce al proprio linguaggio ogni altro tema. Esempio Didone tenta di persuadere Enea a non partire insistendo sulla propria gravidanza, la guerra di Troia è vista da un diverso pdv, così come il personaggio di Elena. Il lettore viene introdotto in un universo nuovo, né mitico-tragico-epico, né elegiaco, ma fondato sulla compresenza di codici e valori. La forma epistolare impone vincoli → bisogna seguire l’andamento del monologo, che non consentiva particolari sviluppi dinamici o drammatici; brevi momenti narrativi sono inseriti tramite flashback, e ogni epistola si vuole inserita in un determinato taglio temporale, che si determina in un continuum narrativo. Al fine di allargare la prospettiva ristretta dell’eroina sugli eventi, l’autore non può inserire la propria voce all’interno del monologo. Vi penetra così tramite lo strumento dell’ironia tragica: si insinua nelle parole delle eroine, sdoppiando la loro voce. Un ruolo di primo piano è quello costituito dalle cronologie → Ovidio gioca con il rapporto fra tempo del modello (= tempo durativo della storia) e tempo-momento della lettera. Le Heroides si configurano come poesia del lamento; le donne soffrono per amore, ma non solo → si inseriscono altre vicende che ne aggravano la condizione, come la guerra, la violenza paterna per Canace e Ipermestra. Soffrono in quanto donne, subalterne che non possono imporsi, umiliate, abbandonate. Pertanto, si concede al pathos uno spazio molto più ampio che al lusus. Infine, il tratto più significativo delle Heroides è l’attenzione alla psicologia femminile prima d’ora intentata → Ovidio rielabora punti di vista e prospettive, dà voce alle sue ragioni. 5. LE METAMORFOSI Le Metamorfosi hanno come modello un genere di ispirazione esiodea, quello del poema collettivo, in cui si erano poi cimentati anche i poeti ellenistici (Callimaco, Aitia, Nicandro di Colofone, poema sulle metamorfosi). Alla matrice alessandrina, Ovidio mescola l’intenzione di comporre un poema epico, genere bandito da Callimaco. Con ciò sottolinea la propria ambizione, che va al di sopra dei limiti segnati dalle varie poetiche, di realizzare un’opera universale → e di fatto tali saranno i confini delle Metamorfosi, che abbracciano il lasso di tempo che va dalla cosmogonia ai giorni di Ovidio. Con quest’opera, infine, il poeta può avvicinarsi alle esigenze del principato. Composizione e struttura Fino a quando dalla dimensione vagamente acronica del mito non si entra nella storia, le storie sono collegate fra loro non necessariamente da un filo cronologico, bensì da associazioni come contiguità geografica, analogia o contrasto tematico o di metamorfosi, rapporto genealogico fra personaggi, ecc. Sono variabili le dimensioni delle storie narrate, che vanno da scarni accenni a veri e propri epilli. Diversi sono anche modi e tempi della narrazione, che si concentrano nel momento della metamorfosi, descrivendola minuziosamente. Vi è anche una notevole mutevolezza di stile, che si accorda con i toni e temi trattati → solennemente epico, liricamente elegiaco, riecheggiante moduli di poesia drammatica, ecc. Ovidio non tende all’omogeneità di formi e contenuti, quanto piuttosto alla loro calcolata varietà, in un fluido dipanarsi della narrazione. La cesura fra i libri delle metamorfosi è operata di proposito nel vivo, nel mezzo di una vicenda. Fa inoltre ampio utilizzo della tecnica del racconto a incastro, già alessandrina. I personaggi sostituiscono talvolta la sua voce narrante, e si crea un insieme di vicende incorniciate fra loro vertiginoso, labirintico. Come una narrazione che si autoproduce all’infinito. La metamorfosi e l’universo mitico Il tema della metamorfosi è stato spesso accostato all’eziologia, ovvero l’indagine sull’origine di cose ed esseri attuali a partire da una loro forma anteriore (e Ovidio insiste sulla continuità e i tratti comuni fra forma vecchia e nuova). Nell’ultimo libro, il XV, Ovidio tenta di dare retrospettivamente una dignità filosofica alla propria opera tramite un lungo discorso di Pitagora che individua nel mutamento la legge dell’universo a cui l’uomo deve adeguarsi docilmente. Anche se la metamorfosi costituisce il tema unificante, il vero centro del poema ovidiano è l’amore, qui trasferito, come nelle Heroides, nel mondo del mito, di dei e semidei, di grandi eroi. Alla dimensione mitica non corrisponde però un ethos idealizzante: le figure che popolano tale dimensione sono come un ornamento della vita quotidiana, personaggi che agiscono sotto l’impulso di passioni non sempre lusinghiere, assimilati dalla dimensione terrena. Il mondo mitico è divenuto mondo della finzione poetica = summa di uno sterminato patrimonio letterario, di intrecci intertestuali che l’autore sfoggia con orgoglio e consapevolezza. Questo auto-compiacimento dell’autore si esplicita nel modo autoironico e distaccato di guardare l’inverosimiglianza delle vicende narrate, sorridendo qua e là della credibilità di ciò che racconta. Poesia come spettacolo Il mondo delle Metamorfosi è illusorio, ambiguo e ingannevole, che ospita personaggi smarriti e incerti. Anche lingua e stile si piegano a questo scopo: esibendo la sua doppiezza connaturata, il linguaggio rivela così la sua pericolosità, lo scarto fra l’illusorietà e il reale. Il narratore è l’unico depositario del pdv “vero”, tanto che spesso interviene (diversamente dall’oggettivo e impersonale poeta epico) a mostrare quanto i personaggi siano distanti da conoscere la realtà. È notevole la tecnica narrativa fotografica utilizzata per mettere in scena questi eventi meravigliosi, spettacolari → l’insistenza sul carattere visivo di un prodigio messo in scena sotto gli occhi di qualcuno; si sofferma sul paradosso fra nuovo aspetto e antica psicologia del personaggio. Nei suoi gusti, questa poesia amante della spettacolarità e delle sue forme più orride anticipa il gusto del segolo che segue, il manierismo imperiale. 6. I FASTI È l’opera ovidiana sicuramente più vicina alle tendenze culturali augustee, segue la traccia delle “elegie romane” di Properzio → vuole illustrare gli antichi miti e costumi latini seguendo il calendario romano. Erano previsti dodici libri in distici elegiaci, uno per ogni mese dell’anno, ma dopo la relegazione il poeta ha interrotto l’opera. L’opera deve molto anche al modello degli Aitia di Callimaco, sia per la tecnica espositiva sia per il carattere eziologico; se quelle di Properzio erano state prove sperimentali, Ovidio vuole dare vita a un’opera compiuta, ad un nuovo genere poetico. Si impegna in dotte ricerche da fonti antiquarie, attingendo a un enorme bacino dottrinale → mitico, religioso, astronomico, giuridico, ecc. alla ricerca delle antiche origini. L’adesione al programma culturale augusteo resta però superficiale: sullo sfondo di carattere antiquario inserisce materiale mitico di origine greca oppure racconti aneddotici, ovviando ai limiti imposti dalla natura del poema di arido calendario in versi → introduce, in certi momenti idillici, il proprio gusto per il pathos delicato, l’elemento erotico, momenti di realismo, toni giocosi e ironici ( < grauitas). Così facendo, getta uno sguardo malizioso e canzonatorio nei Nasce in Spagna a Cordova, città di tradizioni repubblicane, da una ricca famiglia equestre. A Roma studia compie studi di retorica e filosofia, e nel 31, di ritorno da un viaggio in Egitto di cinque anni, comincia l’attività forense. Relegato in Corsica da Claudio nel 41, Agrippina lo fa rientrare a Roma nel 49 come precettore del figlio minore Nerone, imperatore dal 54. Sarà suo tutore/consigliere assieme al prefetto del pretorio Afranio Burro fino al 62. Dovranno progressivamente scendere a gravi compromessi con il deterioramento dei rapporti senato-principe; con la morte di Burro (appunto nel 62), inviso al nuovo prefetto pretorio (= Tigellino) Seneca si ritirerà a vita privata. Riceverà la condanna a morte di Nerone nel 65 con l’accusa di coinvolgimento nella congiura dei Pisoni, e si suiciderà poco dopo. Opere La maggior parte delle opere di Seneca e di quelle che ci sono pervenute ha carattere filosofico. Alcune di esse sono state raccolte nei dodici libri di Dialogi, così chiamate in richiamo alla tradizione del dialogo platonico. Pubblicati separatamente abbiamo De beneficis, De officiis, De clementiai. Venti libri contenenti le 124 Epistulae morales ad Lucilium. Di carattere più scientifico → le nove cothurnatae, tragedie di argomento greco. Diverse opere perdute: una biografia del padre, orazioni, svariati trattati. 1. I DIALOGI E LA SAGGEZZA STOICA Recupero del genere della consolatio → Consolatio ad Marciam; Ad Heluetiam matrem; Ad Plybium. Tratta di temi morali attorno ai quali si svilupperà in seguito la filosofia senecana = fugacità del tempo, precarietà della vita, ineluttabilità della morte. La produzione filosofica di Seneca può inscriversi nel quadro di un’etica stoica che non conosce dogmatismi. De ira → tre libri, scritti prima dell’esilio (forse nel 40) ma pubblicati dopo la morte di Caligola. Indaga l’origine delle passioni umane, e i metodi per inibirle e dominarle, facendo una sorta di fenomenologia. De vita beata → scritto forse nel 58 e dedicato al fratello, affronta il problema del ruolo giocato dalla ricchezza nel conseguimento della felicità. Spesso accusato di incongruenza fra sua filosofia e sua condotta (aveva accumulato un patrimonio smisurato, forse anche con la pratica dell’usura). L’importante, in sintesi, non è non possedere ricchezze, bensì non farsi possedere da esse. Dialoghi a Sereno (x3) → De constantia sapientis = il primo, pubblicato probabilmente dopo il 41, esalta l’imperturbabilità del saggio stoico; il De tranquillitate animi (poco prima del 62) analizza il rapporto tra otium contemplativo e vita politica del ciuis, suggerendo una via di mezzo. Deve saper giovare agli altri, se non con l’impegno pubblico, almeno con l’esempio e la parola. Infine, nel De otio (nel 62) la scena politica si fa talmente aspra da non lasciare al saggio altra via di scampo se non la solitudine contemplativa. De brevitate vitae → ca. 49-52, tema del tempo e della sua fugacità: sembra non bastare mai perché siamo soliti disperderlo in occupazioni futili. De providentia → dedicato a Lucilio, composto negli ultimi anni di attività, sebbene apra la raccolta; contraddizione fra esistenza di un progetto provvidenziale delle vicende umane e avversità che sembrano colpire più i boni che i disonesti. Spiegato con la volontà degli dei di mettere alla prova la uirtus dei buoni. 2. FILOSOFIA E POTERE Naturalium questionum libri VII = unica opera senecana di carattere scientifico rimastaci, dedicata a Lucilio, tratta dei fenomeni celesti e atmosferici. Sembrerebbe costituire il supporto “fisico” della filosofia senecana, però non c’è nessuna organicità con la materia morale. Nel De beneficiis, terminato nel 64 e dedicato all’amico Ebuzio Liberale, tratta degli atti di beneficenza, dei doveri di gratitudine, e invita soprattutto le classi dirigenti alla filantropia e alla liberalità. Nel De clementia (55-56) traccia un ideale programma politico ispirato a equità e moderazione. Non mette in dubbio (non avrebbe più senso farlo) la legittimità del principato, né le forme apertamente monarchiche che ha raggiunto. Riflette sulla necessità di avere un buon sovrano (riecheggia del governo dei filosofi di Platone) → in un regime di potere assoluto, l’unico freno sul princeps può essere solo la sua stessa coscienza. Entra in gioco qui l’importanza dell’educazione del sovrano, e in generale la funzione della filosofia come direttrice dello stato. Seneca coltiva un ambizioso (fin troppo) progetto di equilibrata e armoniosa distribuzione del potere fra senato e sovrano. Con la degenerazione del governo neroniano dopo il quinquennio aureo, la filosofia senecana si ritirerà, impegnandosi progressivamente ad agire non più sulla ciuitas, ma sulla coscienza dei singoli. 3. LA PRATICA QUOTIDIANA DELLA FILOSOFIA: LE EPISTULAE AD LUCILIUM Dal momento dell’uscita di scena dalla vita politica, le opere di Seneca saranno sempre più rivolte alle coscienze individuali. La sua opera filosofica più celebre è costituita dalla raccolta delle Epistulae ad Lucilium. Dubbio se si tratti di un epistolario reale o meno, può darsi che alcune lettere siano state effettivamente inviate ed abbiano ricevuto una risposta, mentre altre sono state inserite dopo nel corpus. Lo spunto è tratto sicuramente da Platone e da Epicuro; Seneca si vanta di aver dato vita a un nuovo genere letterario, distanziando le sue epistole filosofiche dai comuni epistolari (anche se celebri → Cicerone). Le lettere si configurano come uno strumento di crescita morale, come un diario delle conquiste dello spirito sul lungo cammino verso la sapienza; un cammino condiviso da maestro e discepolo. A mano a mano che esso procede, le epistole si arricchiscono di strumenti in più, diventando a volte veri e propri trattati. Il genere epistolare si rivela efficacie nell’insegnamento dottrinale, prestandosi perfettamente alla pratica quotidiana della filosofia. Si procede per singoli temi, tutti però riconducibili alle tematiche della tradizione diatribica → le norme a cui il saggio uniforma il proprio comportamento, la sua indipendenza, l’autosufficienza/autarchia, l’indifferenza alle seduzioni mondane; è inoltre un progetto non puramente teorico, bensì anche esortativo, pratico, un costante invito al bene. Con il tono pacato e cordiale di chi comprende e condivide le difficoltà del cammino, è proposto l’ideale di una vita dedita al raccoglimento e alla meditazione. La considerazione della condizione umana in cui tutti versano lo porta ad aborrire il trattamento ingiusto degli schiavi; il sapiens stoico resta però un aristocratico, e mostra apertamente il proprio disprezzo nei confronti di certi usi degradati della plebe. Il valore supremo nella vita del sapiens è l’otium, in una condizione di distacco dal mondo che però non esula dall’alacre ricerca del bene e della libertà interiore. 4. LO STILE DRAMMATICO Per Seneca, lo stile dovrebbe badare alle res, non alle parole ricercate ed elaborate: queste sono giustificate solo da un’eventuale funzione psicagogica = fissare nella memoria un precetto, ecc. Il suo programma di stile vorrebbe essere dunque inlaboratus et facilis, lontanamente da quanto è effettivamente risultato. Rifiuta l’ipotassi ciceroniana per uno stile paratattico, frammentario, che gioca su antitesi, ripetizioni e parallelismi ed è rivoluzionario sul piano del gusto. Affonda le sue radici nella retorica asiana e nella predicazione dei filosofi cinici. Frammenta i concetti in minute sententiae, cristallizzandoli e analizzandoli in tutte le loro sfaccettature. Lo stile finisce con il riflettere le spinte che animano la filosofia senecana → ricerca della libertà dell’io e della liberazione dell’umanità. I toni della meditazione interiore si alternano a quelli vibranti della predicazione, sondando i segreti dall’animo umano in modo penetrante e acuto. 5. LE TRAGEDIE Se ne ritengono autentiche nove, tutte di argomento greco = coturnate, impossibili da datare e su cui è difficile avere informazioni anche riguardo un’eventuale messa in scena. I codici più autorevoli le elencano in quest’ordine: 1. Hercules furens → modello dell’Eracle euripideo; 2. Troades → modello delle Troiane e l’Ecuba di Euripide; 3. Phoenissae → unica incompleta, con modello le Fenicie di Euripide e l’Edipo a Colono di Sofocle; 4. Medea → Euripide; 5. Phaedra → Ippolito di Euripide, una tragedia di Sofocle e la quarta delle Heroides di Ovidio; 6. Oedipus → Edipo re di Sofocle; 7. Agamemnon → Eschilo; 8. Thyestes → Euripide e Sofocle, mito dei Pelòpidi; 9. Hercules Oetaeus → dalle Trachinie di Sofocle. Le tragedie di Seneca sono le uniche tragedie latine ad esserci giunte non in forma frammentaria → importanti anche come documento di ripresa del teatro latino tragico, poco fortunato in età augustea. Sappiamo inoltre che la tragedia era la forma letteraria più usata dagli aristocratici per esprimere la propria opposizione al regime in età giulio-claudia e nella prima età flavia. Sotto Tiberio → Mamerco Scauro; Claudio → Pomponio Secondo; Vespasiano → Curiazio Materno. È probabile che, più che alla rappresentazione, le tragedie senecane fossero destinate per lo più alla lettura: era consuetudine non rappresentare più le tragedie al tempo, ma leggerle nelle sale di recitazione. Tuttavia, la truce spettacolarità e la macchinosità di alcune scene sarebbero efficaci solo nel contesto di una rappresentazione drammatica piuttosto che di una lettura. La produzione tragica di Seneca si inquadra perfettamente all’interno del suo pensiero filosofico → mette in scena grandiosi conflissi tra mens bona e furor, ragione e passione. Non si deve però pensare che le tragedie vogliano essere exempla pratici forniti dal mito greco alla filosofia: in questo mondo dalle tinte fosche e dai toni atroci, il logos/ratio alla base della filosofia stoica è sempre destinato alla sconfitta. La lotta tra bene e male arriva, nei singoli personaggi, ad assumere una portata universale. Acquista infine rilievo particolare la figura del tiranno sanguinario e bramoso di potere, riprendendo uno dei temi più cari a Seneca, il tema del potere. Se da un lato si riscontra nelle tragedie una notevole autonomia nei riguardi dei modelli greci, al tempo stesso il rapporto con tali modelli è fondamentale, continuo. Si avverte inoltre il peso della poesia augustea → Ovidio, metri lirici di Orazio negli intermezzi corali e il particolare tipo di senario del teatro tragico augusteo = Varo. Echi invece arcaici sono presenti nella ricerca di un pathos esasperato, nella tendenza al cumulo espressivo, alla frase sentenziosa. Lo stile tipicamente senecano ritorna nella frammentazione dei dialoghi. Si avverte la traccia della retorica asiana nella ricerca della breuitas, nello sfoggio dell’erudizione e nell’esasperante utilizzo di ekphràseis per isolare singole scene come quadri autonomi. È rimasta traccia di un’unica tragedia praetexta (= di argomento romano) attribuita a Seneca: ipotesi scartate, probabilmente frutto di un autore a lui vicino in spazio e tempo. 6. L’APOKOLOKYNTOSYS Singolare il Ludus de morte Claudii, più comunemente noto con il titolo greco di Apokolokyntosys. Nel tempo sono sorti diversi dubbi sulla paternità dell’opera. Il titolo si riferisce a una koloynta = una zucca e a un’apoteosi → è da intendersi non come “trasformazione in zucca”, bensì come “divinizzazione di una zucca”. Ha fatto sorgere perplessità la notizia, tramandata da Tacito, secondo cui lo stesso Seneca avrebbe composto la laudatio funebris dell’imperatore morto. Rappresentazione di Claudio che, dopo la sua morte, tenta di assorgere all’Olimpo ma viene cacciato negli inferi, prima schiavo di Caligola e poi del potente liberto Menandro (contrappasso poiché aveva la fama di aver regnato sotto l’influenza dei propri liberti). Il genere rientra in quello della satira menippea: alterna perciò prosa e versi, e ironici richiami a solenni modelli non solo greci, ma anche di Ennio, Virgilio, Catullo, Ovidio → estrapola versi e li inserisce in contesti inadeguati o li piega a significati diversi. 7. GLI EPIGRAMMI Alcune decine di epigrammi in distici tramandati sotto suo nome in un codice del IX secolo, paternità generalmente obiettabile. LUCANO Vita Nasce nel 39 d. C. a Cordova, in Spagna, è nipote di Seneca. Giunto a Roma entra nella cerchia degli amici intimi di Nerone, e pronuncia le sue laudes nei Neronia del 60. Pubblica i primi tre libri del poema a cui da tempo lavorava, la Pharsalia. Brusca rottura con il princeps → secondo le fonti per gelosia letteraria di Nerone, ma forse per il nostalgico repubblicanesimo dell’opera. Caduto in disgrazia, aderisce alla congiura di Pisone per poi, una volta scoperto, ricevere l’ordine di darsi la morte (aprile 65). Opere Si è conservata la principale, la Pharsalia o Bellum ciuile → poema epico in dieci libri, cui probabilmente comincia a lavorare nel 60; si pensa sia incompiuto perché il X libro si arresta bruscamente ed è molto più breve degli altri. Restano inoltre i titoli e, in qualche caso, scarsissimi frammenti, di opere perdute, quasi certamente tutte anteriori alla Pharsalia. Fonti → giovane Gitone, retore Agamennone (prima parte XIV), il rivale di Encolpio per amore di Gitone → Ascilto, il poeta Eumolpo. La vicenda più completa e meglio conservata riguarda l’episodio della Cena Trimalchionis, che si svolge all’insegna della rozzezza e del lusso sfrenato. Le prime peripezie si svolgono in un’indefinita graeca urbs della costa campana; poi Encolpio, Gitone ed Eumolpo saranno costretti a fuggire e lasciare la città, imbarcandosi in una nave mercantile condotta da Lica, acerrimo nemico di Eumolpo. Una tempesta li salverà dalla vendetta di Lica facendoli naufragare e giungere a Crotone, dove escogitano un piano per vivere comodamente alle spalle dei crotoniati, cacciatori di eredità. Il genere letterario: menippea e romanzo Non esiste un corrispondente degli attuali termini che usiamo per definite la narrativa di invenzione (novella, romanzo…), e nemmeno trattazioni teoriche → probabile che fosse genere di grande consumo, ma considerato forse frivolo e basso. In genere, i critici moderni chiamano romanzi due gruppi di opere antiche molto diversi fra loro: a. testi latini → Satyricon di Petronio, Metamorfosi di Apuleio; b. testi greci → serie databile fra I secolo e IV secolo d. C.: Cherea e Callìroe di Caritone, Leucippe e Clitofonte di Achille Tazio, Ephesiakà di Senofonte Efesio, Dafni e Cloe di Longo Sofista, Etiopiche di Eliodoro. I testi greci hanno caratteri uniformi → trattano di amori contrastati, amanti che, per ricongiungersi, affrontano peripezie; versione narrativa di intrecci tipici della Commedia Nuova, con sfondo però ampliato: dal mondo piccolo- borghese di città si passa agli spazi aperti di mare e terre esotiche. L’amore dei protagonisti è inoltre preso sul serio, ispira pathos. L’amore in Petronio, invece, non è trattato con alcuna serietà → il sesso, per lo più omosessuale, è fonte continua di peripezie e situazioni comiche: c’è chi ha pensato al Satyricon proprio come parodia del romanzo d’amore greco. Ciò spiega, certo, molti aspetti; tuttavia, la soluzione appare sforzata sa considerata esclusiva. La narrativa “seria” non è l’unico genere a cui Petronio poteva riferirsi. Attinge alla tradizione della letteratura novellistica, caratterizzata da situazioni comiche, per lo più piccanti e amorali → filone della fabula Milesia, dall’opera greca di Arìstide Milesiakà, i cui materiali, più o meno simili, circolavano a Roma nel I secolo a. C.; nello stesso periodo, lo stesso materiale narrativo era portato in scena dal mimo romano. Una tipica fabula milesia del Satyricon è quella della matrona di Efeso, narrata da Eumolpo sulla nave di Lica. Questa tradizione narrativa risulta quasi completamente perduta, sia perché indegne agli occhi dei dotti copisti medievali, sia, soprattutto, per i contenuti immorali. Il Satyricon è caratterizzato da un’incredibile complessità letteraria: complessa è la trama del romanzo, successione di scene collegate da un gioco di richiami narrativi, e tramite la ricorrenza delle stesse situazioni tipiche che si ripetono in vesti differenti. Encolpio continua ad essere intrappolato in situazioni che la sorte risolve in ulteriori peggioramenti. Forma del romanzo → prosa alternata a cospicui inserti poetici: spesso di Eumolpo, fuori luogo e ironici; ma anche del narratore, Encolpio, che interviene per commentare con ironia gli avvenimenti e rivela la raffinatezza e la versatilità poetica di Petronio. Il narratore passivo, ingenuo e vittima di continui passaggi di fortuna sarà tipico anche del romanzo di Apuleio e, in generale, di tutta la moderna narrativa picaresca (es Don Chisciotte). La libera alternanza di prosa e versi, invece, si avvicina di più alla satira Menippea → mescolanza degli stili, “prosimetro” = mescolanza versi-prosa, forse la struttura narrativa a blocchi. Richiamandosi al filosofo cinico Menippo di Gàdara, Varrone aveva intitolato le sue composizioni satiriche Satire Menippee; vi si allacciava anche l’Apokolokyntosis di Seneca. Pare che questo tipo di satira fosse un contenitore aperto, vario. Il Satyricon avrà, certo, tratti vicini ai latini, Varrone e l’Apolokyntosis, ma presenta anche molte differenze: ha uno sviluppo narrativo più ampio, non c’è un preciso destinatario (/vittima) della satira. Realismo e parodia Dato più originale di Petronio è forse la sua forte carica realistica → nella descrizione di luoghi e scenari tipicamente romani (scuola di retorica, pinacoteca, ecc), nel suo interessarsi alla mentalità delle varie classi sociali (interesse che, nella Cena, si fa anche linguistico). Anche nella satira romana c’erano accenni al realismo → tuttavia finalizzati alla descrizione di tipi sociali ben precisi, ed ha finalità moralistiche. Petronio, invece, offre una visione del reale tanto critica quanto disincantata. La vocazione propriamente satirica risulta essere dunque incompleta; predominante è invece la vocazione alla parodia. Si tratta di una parodia carica di ambiguità, dal senso ultimo inafferrabile → ad esempio, Eumolpo esprime una propria critica del poema epico storico e poi ne dà un esempio nel Bellum ciuile: quest’ultimo raccoglie citazioni virgiliane e spunti da Lucano, di cui sembrerebbe criticare la rinuncia all’intervento delle divinità. Si tratte però di un esempio troppo banale per costituire un’indicazione costruttiva. La situazione, dunque, fa sorridere, ma non emerge nessun messaggio univoco. Suscita sottile ironia anche l’uso di modelli letterari come traccia per le parti narrative, in situazioni tuttavia più degradanti e prosastiche rispetto all’originale (es. ancella che cita Virgilio per convincere la padrona a concedersi a un corteggiatore). Particolarmente forti sono i richiami alla grande epica, in particolare all’Odissea (es Encolpio perseguitato dall’ira di Priapo, dio della sessualità maschile). C’è chi vorrebbe ricondurre a parodia dell’Odissea tutta la narrativa romanzesca e picaresca, ma è una scelta rischiosa. Nel caso del Satyricon, è più naturale, inserire la parodia omerica nel complessivo intreccio di parodie che coinvolge tutta la grande poesia della tradizione. I Priapea Raccolta poetica accostata per affinità tematica a Petronio, ma giuntaci anonima. Conta circa ottanta componimenti con metro e lunghezza variabili, unificati dalla figura del dio Priapo, che con la sua smodata sessualità protegge giardini e orti → nella tradizione romana, mai trattato con timore reverenziale. Il genere priapeo è dunque un tipo di epigramma scherzoso e di tematica esplicitamente sessuale. GIOVENALE Vita Poche e scarse notizie giunte da rari cenni autobiografici nelle satire e da epigrammi dedicatigli da Marziale, di cui fu amico. Decimo Giunio Giovenale sarebbe nato ad Aquino, fra 50 e 60 a. C., da una buona famiglia. Avviato alla retorica, esercitò con scarsi guadagni economici l’avvocatura. Si avvicinò alla poesia in età matura, dopo la morte di Domiziano (96 d. C.); visse nella condizione di cliente, senza indipendenza economica, fino alla morte, avvenuta con certezza dopo il 127 d. C., ultimo dato biografico che possiamo ricavare dalle sue satire. Opere Sedici satire divise in cinque libri: I → 1-5; II → 6; III →7-9; IV → 10-12; V → 13-16. I rari indizi cronologici oscillerebbero fra il 100 e il 127 d. C. Satira I: carattere proemiale e programmatico, polemizza contro le mode e la loro fatuità; denuncia disgusto nei confronti dell’immoralità e della corruzione dilagante, che lo spinge appunto a ritirarsi nella satira; per cautelarsi contro vendette, critica la generazione passata anziché quella presente. II: aggredisce chi nasconde sotto apparente virtù i vizi invece più turpi; bersaglio principale = omosessualità. III: descrive l’abbandono di Roma dell’amico Umbricio poiché troppo malsicura per gli onesti. IV: consiglio indetto da Domiziano per una “grave” questione, ovvero come cucinare un rombo che gli era stato regalato. V: cena del ricco Virrone e umilianti condizioni dei convitati. VI: la celebre feroce requisitoria contro vizi e immoralità delle donne. VII: deplora la generale decadenza degli studi e rimpiange la condizione dei letterati in età augustea. VIII: oppone alla falsa nobiltà di nascita quella vera, quella dell’ingegno e dei sentimenti. IX: riferisce, in forma di dialogo, le proteste di un omosessuale mal ripagato per le sue prestazioni. X: insensatezza delle brame umane. XI: contrappone al lusso dei banchetti dei ricchi la propria modesta cena offerta a un amico. XII: attacca cacciatori di eredità. XIII: attacca imbroglioni e frodatori. XIV: discute educazione dei figli, necessità di accostare l’esempio al precetto. XV: episodio di cannibalismo avvenuto in Egitto. XVI: ultima e incompleta, elenca i privilegi offerti dalla vita militare. La satira “indignata” Tono tipico della satira giovenaliana è quello dell’indignatio, che si pone in netto distacco con la tradizione satirica latina. Critica aspramente non solo la letteratura contemporanea che tratta leggende mitologiche ormai trite, bensì anche il pensiero moralistico romano di impronta stoica. Egli non crede che la poesia possa influire sul comportamento degli uomini, avviati sulla strada del vizio e della corruzione. Il suo è il rancoroso punto di vista di chi, relegato ai margini della società, si limita a guardare un mondo in cui vengono premiati la disonestà e la colpa. Rifiuta di uniformarsi alla tradizione satirica e della morale diatribica precedenti e le soluzioni proposte dalla filosofia romana d’impronta stoica. Tuttavia, resta una critica infruttuosa, che non propone soluzioni ma il cui solo esito è l’idealizzazione nostalgica e utopistica del passato. La furia aggressiva della prima parte delle satire non risparmia nessuno, ma il bersaglio privilegiato sono le donne: le donne talora emancipate e libere, il cui muoversi nella vita sociale personifica, per il poeta, lo scempio stesso del pudore. Fra queste capeggia la cupa figura di Messalina, detta “prostituta” imperiale. Nella seconda parte delle satire, ovvero negli ultimi due libri (satire 10-12 e 13-16), il poeta rinuncia espressamente ai toni duri dell’indignatio, in favore di un atteggiamento più distaccato e mirante all’apàtheia degli stoici. La riflessione si fa più pacate e rassegnata di fronte ai vizi del mondo, anche se non mancano momenti in cui il vecchio furore riaffiora. Lo stile satirico sublime Se nella tradizione precedente la satira, in virtù dell’oggetto trattato ossia la realtà quotidiana, aveva un registro umile e toni familiari (il sermo), il registro di Giovenale si adatta ai caratteri grandiosi di una realtà pervasa da terribili monstra. Lo stile si fa dunque sublime, adatto a una satira tragica: termini aulici vengono impiegati per descrivere le situazioni più scabrose e ripugnanti, al fine di far risaltare per contrasto l’abiezione della materia descritta. Il realismo ha una forte spinta deformante e l’espressione tende ad esplodere nell’iperbole. È icastica e pregnante, densa e sentenziosa: quest’ultimo carattere deve molto alle scuole di retorica e alla declamazione (a lungo praticata da Giovenale), motivo per cui l’autore fu lungamente accusato di scolasticismo. Questo è però un giudizio piuttosto superficiale: in generale, gli strumenti espressivi di Giovenale risultano profondamente coerenti e funzionali alle sue ragioni ideologiche. STAZIO Vita Spesso considerato all’interno del gruppo costituito con Valerio Flacco e Sillo Italico, ritenuti i tre epigoni di Virgilio per la loro produzione epica. Nasce a Napoli fra 40 e 50 d. C., ebbe notevoli successi, da giovane, nelle recitazioni pubbliche e nelle gare poetiche; qualche insuccesso negli ultimi anni. Fu protetto da Domiziano, e morì forse poco prima di lui nel 96 a. C. Opere e fonti Scrisse le Silvae, cinque libri di versi in vario metro, editi gradualmente dal 92 in poi. Due testi epici, Thèbais in dodici libri (92) e Achillèis, incompiuto, di cui ci sono solo il primo libro e l’inizio del secondo. Perduto è un poema storico sulle gesta di Domiziano, il De bello Germanico, e una pantomima che sappiamo ebbe notevole successo, Agàve. Le Silvae costituiscono un notevole bacino di informazioni sull’ambiente di Stazio e i suoi rapporti personali. Vi è anche una testimonianza nella Satira 7 di Giovenale sulle recitazioni pubbliche della Tebaide e sulla produzione commerciale di una sceneggiatura per pantomino. Le Silvae Rispetto alla produzione epica, le Silvae risultano perfettamente inserite nel gusto contemporaneo. Stazio è un letterato professionale che vive della propria produzione poetica ed è inquadrato in una rigida gerarchia sociale, che ha il suo perno centrale nella figura del princeps divinizzato. Il titolo vuole far pensare a una raccolta di carattere occasionale, vario e miscellaneo, quasi fossero “schizzi” (Quintiliano) o improvvisazioni. Uno sforzo di sistemazione del sapere è evidente in tutta la cultura romana della prima età imperiale, che si esprime soprattutto in opere di tipo manualistico che vogliono raccogliere il meglio delle conoscenze in un dato settore/attività, spesso con finalità più pratiche che teoriche. Nella Roma imperiale, che vede una grande diffusione di figure, potremmo dire, “professionali” (medici, architetti, esperti in acquedotti e reti fognarie, agronomi, amministratori), accresce la richiesta di informazione e divulgazione scientifica in tutti i campi del sapere. La curiosità scientifica si afferma anche come forma di intrattenimento, in opere però non rigorose e a cui manca un principio di sistematicità. Si tratta di un nuovo genere letterario = raccolte di mirabilia scritte ad opera dei cosiddetti paradossografi → vi confluiscono curiosità e aneddoti con una pronunciata passione per il sensazionale esotico, i cui autori si dicono viaggiatori che hanno accumulato materiali “freschi” e autentici, frutto dell’esperienza diretta. Il più famoso fu, in età vespasianea, Licinio Muciano. Si trattava per lo più di scrittori dilettanti. L’opera di Plinio, immensa, è realizzazione più compiuta di queste tendenze della cultura romana, che pure avevano avuto illustri precedenti → trattatistica di Varrone e Celso, manuale di architettura di Vitruvio, ecc. Eclettismo e progetto enciclopedico L’autore era vicino a certe posizioni degli Stoici che potevano offrirgli supporto, ad esempio la concezione dell’universo come macchina cosmica retta da una Preveggenza divina. Una certa adesione allo stoicismo emerge dunque dalla cosmologia, senza che l’autore rinunci però a curiose divagazioni magico-astrologiche. Infatti, più favorevole a un enciclopedismo che abbracci seriamente tutto lo scibile umano, è una mentalità di tipo eclettico. Dallo stoicismo, Plinio attinge un generico senso della missione che va coniugato con lo spirito di servizio proprio peculiarmente del suo carattere. Sul piano stilistico, alcuni considerano Plinio il peggior scrittore latino. di certo la mole dell’opera non poteva andare di pari passo con una regolare cura dell’impianto formale. In generale, la tradizione enciclopedica romana aveva sempre conosciuto uno stile sciatto, quasi casuale. Bisogna inoltre dire che lo stile di Plinio non è sempre uguale nel corso dell’opera. Domina una scrittura frammentaria e affastellata, contrastanti con momenti di “tirate” retoriche in cui è individuabile qualche ambizione letteraria. Così come tutti gli autori di età neroniana e flavia, la tendenza è quella di “decostruzione” delle ampie e bilanciate strutture ciceroniane, che qui hanno però un esito di confusione impersonale. Fortuna della Naturalis historia Per la possibilità di dividere l’opera in macrosezioni per argomento, essa ha avuto una duplice sopravvivenza: molto presto si cominciò a manipolarla e a trarne riduzioni, compilazioni di singole parti o argomenti, dunque a utilizzarla per la consultazione. Ciò però non portò alla perdita del testo originale: continuò ad essere copiata nel Medioevo, e funzionò da immensa zattera di salvataggio rispetto a tesori del sapere che rischiavano di perdersi. Paradossalmente, diventò uno dei più autoritari nomi su ogni aspetto del sapere (lui, che aveva scelto di farsi portavoce del sapere di altri). I progressi della scienza dell’Umanesimo fecero in parte sgonfiare questo mito. Questo processo si compie in età moderna, quando il testo pliniano muta di valore: passa da avere un significato pratico a storico. MARZIALE Vita Marco Valerio Marziale, nato a Bilbilis fra 38 e 41 d. C., in Spagna Terraragonese. Venne a Roma nel 64 e fu introdotto nella buona società dalla famiglia di Seneca. Conobbe Calpurnio Pisone e gli ambienti dell’opposizione senatoria a Nerone, per poi condurre vita modesta dopo la repressione della congiura dei Pisoni. Esercita attività poetica nella condizione di cliente, e raggiunge notorietà → infatti compone una raccolta di epigrammi per celebrare l’inaugurazione dell’Anfiteatro Flavio, riconosciuto anche con premio economico da Tito. Dall’84-85 comincia allora a pubblicare regolarmente i propri componimenti, ricevendo successo e anche cariche onorifiche. Venne a contatto con personaggi eminenti, senza però consistenti benefici economici. Lascia Roma nell’87-88, infastidito dalla vita cittadina, per soggiornare in alcune città emiliane. Nel 98 ritorna definitivamente, dopo un breve rientro a Roma, nella natale Bilbilis, dove muore nel 104. Opere e fonti Secondo un’edizione probabilmente postuma, il corpus di Marziale è solitamente diffuso così: 1. Raccolta pubblicata nell’80 con titolo Epigrammaton liber, oggi Liber de spectaculis o Liber spectaculorum; 2. Raccolta in 12 libri di Epigrammi composti e via via pubblicati fra 86 e 101-102; 3. Due libri di titolo autonomo, indicati però anche come XIII e XIV, rispettivamente gli Xenia e gli Apophoreta. Raccolta di componimenti di un solo distico, come un’etichetta da accompagnare l’oggetto su cui erano affissi (“doni per gli ospiti” = xenia e omaggi “da portar via” = apophoreta offerti nei banchetti conviviali). Metri vari → per lo più distico elegiaco, ma anche falecio e scazonte; componimenti di lunghezza varia, accuratamente distribuiti nei libri in modo da evitare ripetitività. 1. L’EPIGRAMMA COME POESIA REALISTICA L’epoca dei Flavi conobbe una coesistenza di epica ed epigrammi. Per l’epica → Stazio, Silio Italico, Valerio Flacco. Il genere dell’epigramma comincia a conoscere un più vasto successo, ma è considerato il più umile di tutti. Mancava, a Roma, di una grande tradizione. Fra i suoi auctores, accanto a minori come Domizio Marso, Albinovano Pedone, ecc., Marziale indica soprattutto Catullo, senz’altro importante mediatore di questo genere letterario fra cultura greca e cultura latina. Nascondo, come dice il nome (= “iscrizione”) come poesia commemorativa. Si staccano poi, in età ellenistica, dalla produzione epigrafica e pratica, pur conservando la breve lunghezza, per diventare più generalmente una poesia d’occasione, atta a fissare nel giro di pochi versi l’impressione di un momento. Argomenti di tipo leggero = erotico, simposiaco, satirico-parodistico, quelli tradizionali di carattere funebre… Non sappiamo nulla dei nomi che Marziale indica come auctores accanto a Catullo. Infatti, solo in questo momento l’epigramma da forma poetica minore troverà il proprio posto nel galateo sociale, acquisendo una nuova dignità artistica. Ebbero però successo, in età imperiale, composizioni in greco come la Corona di Filippo all’epoca di Caligola, o la satira epigrammatica di Lucillio sotto Nerone. A Roma, Catullo descrive la forma epigrammatica come quella ideale per esprimere sentimenti, gusti, in generale i temi della vita individuale. Marziale farà dell’epigramma il suo genere esclusivo, duttile e aderente alla molteplicità della vita quotidiana, pregio contrapposto polemicamente ai generi invece illustri, ossia l’epos e la tragedia. E proprio per questo realismo, per il rispecchiamento della vita concreta i suoi epigrammi ebbero molto successo. Argomenti → concisa rievocazione di un evento spettacolare, spunto per accompagnare regali agli amici, commemorazione di fatti/monumenti concreti, celebrazione di nascite, matrimoni, feste, ecc. Poesia che coniuga dunque fruibilità pratica e divertimento letterario. Marziale si pone a osservatore dello spettacolo della realtà con sguardo deformante, che ne accentua i tratti grotteschi e li riconduce a tipologie ricorrenti. Come se sospendesse nel vuoto e derealizzasse gli oggetti descritti, fornendone una descrizione a focalizzazione ravvicinata e distaccata dal proprio sfondo. Tuttavia, raramente dimostra intenti moraleggianti o di condanna. Satira sociale priva di asprezza. 2. IL MECCANISMO DELL’ARGUZIA Temi degli epigrammi di Marziale vari, con prevalenza dell’aspetto comico-satirico: sviluppa la tradizione che l’autore greco Lucillio portò a Roma sotto Nerone. Da lui mutua anche alcuni procedimenti formali, come la tecnica della trovata finale, l’arguzia concentrata tutta nella chiusa. Individuabile uno schema-tipo → presentazione della situazione/oggetto, creazione di una tensione d’attesa poi scaricata in un paradosso nell’ultima parte, con un fulmen in clausola. Il linguaggio è realistico, aperto a modi colloquiali o anche umili, o drasticamente osceni. Questi ultimi sono giustificati col ricorso al motivo della distinzione fra arte e vita. Tuttavia, Marziale sa anche variare nei toni, dimostrando eleganza e ricercatezza anche negli epigrammi celebrativi e adulatori. QUINTILIANO Vita Marco Fabio Quintiliano nacque in Spagna intorno al 35 d. C., studiò grammatica e retorica a Roma per poi tornare in Spagna dove attività forense. Richiamato a Roma da Galba nel 68 d. C. → maestro di retorica + avvocatura. La sua carriera di insegnante conobbe grande successo (allievi anche Plinio il Giovane e Tacito) tanto che nel 78 Vespasiano gli affidò una cattedra statale lautamente ricompensata; Domiziano lo incaricò di istruire i suoi due nipoti → ottenne in cambio gli ornamenta consulatoria. Si ritirò dall’insegnamento nell’88, morì dopo il 95. Opere Perdute: → trattato De causis corruptae eloquentiae; → due libri De arte rhetorica, dispense tratte dagli allievi. Si è conservata l’opera principale, i 12 libri della Institutio oratoria, iniziata forse nel 93 e pubblicata poco prima della morte di Domiziano, nel 96. Spurie le due raccolte di declamazioni edite a suo nome, 19 declamationes maiores e 145 (originariamente 388, perdute le altre) declamationes minores. Fonti → lo stesso Q. in alcuni passi dell’Institutio; la Cronaca di Girolamo, cenni sparsi in altri autori. 1. I RIMEDI ALLA CORRUZIONE DELL’ELOQUENZA La generale corruzione dell’eloquenza investiva questioni morali e di gusto letterario. Aspetto morale → insegnanti corrotti e corruttori, eloquenza spesso usata a fini di ricatto materiale e morale. Aspetto letterario → era aperto il dibattito fra i diversi orientamenti dell’oratoria = arcaizzante, modernizzante, ciceroniano. Di quest’ultimo fu vessillifero Quintiliano, in polemica con lo stile corrotto e degenerato della cui responsabilità accusava primariamente Seneca. Rimedi individuati nel risanamento dei costumi e nella rifondazione delle scuole. Perciò l’Institutio oratoria delinea un programma complessivo di formazione culturale e morale che gli aspiranti oratori devono scrupolosamente seguire dall’infanzia. È dedicata a Valerio Marcello, e preceduto da una lettera a Trifone, sorta di editore che doveva curarne la diffusione. - Libri I-II → didattici e pedagogici, trattano dell’insegnamento elementare e delle basi della retorica; - Libri III-IX → trattazione più tecnica, analisi delle diverse sezioni della retorica fino all’elocutio e alle figure di parola e di pensiero; - Libro X → insegna i modi per acquistare la facilitas, la disinvoltura nell’espressione; excursus su autori greci e latini, i cui giudizi hanno però un carattere retorico teso a mostrare come la cultura latina possa tenere testa a quella greca; - Libro XI → tecniche di memorizzazione e arte del porgere; - Libro XII → affronta, in maniera però delusoria, tematiche attinenti ai requisiti culturali e morali richiesti all’oratore, accennando al rapporto oratore-principe. Lo scopo è quello di riprendere l’eredità di Cicerone e riadattarla ai propri tempi, nell’intento di recuperare un equilibrio che fosse anche speculare al ripristino del costume dopo l’età neroniana, colma di stravaganze e smodatezze. Pochi anni dopo la pubblicazione dell’Institutio oratoria il nuovo classicismo si sta largamente affermando, sdoganando lo stile di Seneca tanto autorevole e imitato solo pochi decenni prima. Il libro VIII contiene una viva polemica contro le sententiae senecane, divenute ormai puro artificio per rendere vivace e imprevedibile il discorso, e dunque cogliere il lettore di sorpresa con uno scrivere “ad effetto”. Per Q. l’elocuzione doveva essenzialmente svolgersi per la “sostanza delle cose”, Seneca mirava invece a catturare l’ascoltatore. In sostanza, lo scontro fra i due esplicitava quello fra le due istanze del discorso = docere (oggettività delle cose dette) e mouere (carica il senso del discorso sull’ascoltatore e sulla sua percezione). 2. PROGRAMMA EDUCATIVO DI QUINTILIANO Tipo di oratore idealizzato da Quintiliano è vicino a quello ciceroniano; tuttavia, nella sua formazione culturale (che deve comunque essere molto ampia) perde terreno la filosofia a favore della retorica e della letteratura (in primo piano il famoso excursus del libro X sugli scrittori greci e latini). Dà prova di notevole equilibrio anche quando prende posizione nella disputa sulla superiorità di autori antichi o moderni. Nel programma di Quintiliano, le letture degli autori più diversi sono volte a formare lo stile dell’oratore. In generale, il modello additato è quello ciceroniano, ma reinterpretato senza servilismi e alla ricerca di un’ideale equidistanza fra asciuttezza e ampollosità. Avverso all’arcaismo, che di lì a poco avrebbe trovato suo portavoce in Frontone, e all’eccessivo modernismo dell’asianesimo. sull’appoggio delle legioni di stanza in paesi anche remoti. Nel presente Nerva, così come Galba, deve affrontare rivolta di pretoriani che minava alla stabilità del suo potere; come Galba, anche lui sceglie di adottare il proprio successore (con maggiore lungimiranza rispetto a Galba), Traiano, comandante dell’armata in Germania Superiore. Nel primo libro delle Historiae, Galba pronuncia un discorso tramite il quale Tacito chiarisce la propria posizione ideologica: il mos maiorum è adesso inattuale (Galba, così come il figlio adottivo Pisone, lo osservava ossequiosamente), rispetto per vuote formalità dal quale non si trae nessuna capacità di dominare e difendere l’impero → segue infatti un periodo di sanguinose guerre civili. Traiano sarà invece capace di sopire le rivalità e mantenere uniti gli eserciti, rendendosi per altro cari e devoti i soldati. Unica soluzione individuata da Tacito è quella del principato moderato degli imperatori d’adozione: né tiranno come Domiziano, né inetto e manipolabile come Galba. Tacito compì un ampio lavoro di condensazione delle fonti. Lo stile delle Historiae è caratterizzato dalla drammatizzazione del racconto, suddiviso in singole scene. Maestro nel dipingere le masse: folla ora incalzane e spaventosa, ora pacata, ora in preda al panico → traspare il timore misto al disprezzo per le insurrezioni dei soldati e della “feccia” della capitale. Disprezzo non risparmia nemmeno la descrizione dei suoi pari, i senatori, mettendo maliziosamente in luce la turpe discrepanza tra atteggiamenti di facciata e realtà dei sentimenti, es. adulazione-odio covato verso il principe. Abile anche nel ritrarre compiutamente personaggi. Muciano, ad esempio, segue la tipologia del personaggio “paradossale”, eccellente nelle attività pubbliche ma ripugnante nella vita privata. Per Otone, insiste sulla consapevolezza della sua subalternità alle masse, che diviene però in lui condizione della sua energia demagogica/capacità di incidere sulle cose. Come personaggio sallustiano di Catilina, dominato da una virtus inquieta. In generale, la tecnica del ritratto di Tacito mostra molte affinità con Sallustio. Si affida alla inconcinnitas e alla sintassi disarticolata, a strutture slegate che solcano nel profondo l’animo dei personaggi. Tacito compie un salto di qualità rispetto al modello, accentuando la tensione della grauitas e intensificando il pathos, arricchendo il colorito poetico e moltiplicando le iuncturae inattese. Ellissi di verbi/congiunzioni, costrutti irregolari, uariationes, anacoluti, ecc. 5. LE RADICI DEL PRINCIPATO - ANNALES Affonda nelle antiche origini del principato, da morte di Augusto a morte di Nerone (può darsi che volesse intendere l’opera come prosecuzione degli Ab urbe condita liviani, unito al fatto che nei manoscritti il titolo recato è quello di Ab excessu diui Augusti. Riassunto p. 448 Mantiene la tesi della necessità del principato, nel clima tuttavia più duro e tetro sotto i Cesari. Storia di questo primo principato coincide con la storia della perdita della libertà politica dell’aristocrazia senatoria, anch’essa d’altronde coinvolta in un processo di corruzione e degenerazione morale. Critica sia quelli che scelgono la via del servilismo, sia coloro che all’opposto di propongono come martiri, mettendo in scena suicidi filosofici → su questi ironizza tramite la descrizione del suicidio di Petronio, capovolgimento di quelli stoici. In continuità con l’Agricola, i personaggi “sani” dell’élite aristocratica continuano ad impegnarsi nella conduzione generale dell’impero. Ad esempio, stride con la meschina politica urbana di Tiberio la grandiosa opera bellica in Germania di Germanico. In età neroniana spicca l’azione militare di Corbulone. Innegabili, oltre al talento come artista drammatico, sono le doti di storico di Tacito. La sua è una storicità drammatica che non vuole attizzare le emozioni quanto sviluppare una riflessione pessimistica con significative radici in Sallustio. Le passioni più presenti e analizzate nei suoi personaggi sono le passioni politiche, la brama di potere che scatena feroci lotte (rispetto cui sono assolutamente secondari desiderio erotico o avidità di ricchezze). Il conflitto più aspro si svolge nel palazzo imperiale. L’arte del ritratto si affina ancora di più. Il vertice si collocherebbe, secondo alcuni, nel ritratto di Tiberio. Esso è di tipo cosiddetto “indiretto”: viene dato non una volta per tutte ma con commenti progressivamente disseminati nella narrazione. Torvo, austero, oppresso da tristitia, comportandosi con crudeltà e inclementia, sospettoso e taciturno, ma prima di tutto dissimulatore. Pur amando il ritratto morale più che quello scritto, Tacito indugia in un passo nel descrivere la sua ripugnante vecchiaia. Un altro ritratto presente negli Annales come già nelle Historiae è quello del tipo “paradossale”, il cui esempio più celebre è quello di Petronio. Acquista fama grazie all’indolenza, alla mollezza, la neglegentia fa di lui non un immorale ma un raffinato; è tuttavia instancabile e operoso nell’esercizio delle cariche pubbliche. Nel suo suicidio, vissuto all’insegna della leuitas, emergono ugualmente il suo autocontrollo, coraggio, forza, senza che li esibisca in una messinscena stoica. Negli Annales, rispetto allo stile delle Historiae, è individuabile una certa ricerca dello straniamento = predilezione di forme inusitate, accentuarsi dell’inconcinnitas e infittirsi di uariationes, disarmonie verbali, metafore violente che rispecchiano la disarmonia e l’ambiguità dei comportamenti umani. Alcuni hanno voluto infine registrare, nella parte finale dell’opera (dal XIII libro), un’involuzione dello stile → si fa meno acre e insinuante, più sobrio nella selezione lessicale. Tale decisione è da attribuire al nuovo argomento: il principato di Nerone era più prossimo nel tempo rispetto a quello di Tiberio, che sembrava invece ancora radicato nella res publica. 6. FONTI DI TACITO Problema delle fonti a lungo dibattuto. Assodato che poté consultare la documentazione ufficiale → acta senatus, acta diurna populi Romani; raccolte di discorsi di alcuni imperatori, come Tiberio e Claudio; numerose fonti storiche e letterarie, anche di opposta tendenza: Plinio il Vecchio, Vipstano Messalla, Cluvio Rufo (in amicizia con Nerone) e Fabio Rustico (di tendenze invece antineroniane). Un’altra interessante fonte riguarda il genere letterario con nome exitus illustium uirorum, la libellistica che descrive i suicidi di uomini illustri, soprattutto ambitiosae mortes di stoici. SVETONIO Vita Gaio Svetonio Tranquillo, nessuna data certa: per quella di nascita si può supporre, intrecciando notizie da lui e da altri fornite, il 70 d. C. Probabilmente di rango equestre dalle condizioni modeste, esercitò per un po’ l’avvocatura, poi entrò a corte come funzionario grazie alla protezione di personaggi influenti (prima Plinio il Giovane, poi Setticio Claro). Sotto Adriano divenne addetto all’archivio imperiale ed alla corrispondenza del princeps, ruolo fondamentale per le sue ricerche successive. La sua carriera burocratica si interruppe bruscamente nel 122, quando cadde in disgrazie insieme a Setticio Claro: da questo momento non si hanno più sue notizie. Opere Grazie al cosiddetto lessico della Suda (X secolo) abbiamo notizia di una copiosa produzione di opere erudite su svariati argomenti in greco e latino. Prata o Pratum sarebbe un’opera enciclopedica divisa in sezioni per argomento oppure, secondo alcuni, designerebbe l’intera suddetta produzione antiquario-erudita. Il De uiris illustribus era una raccolta di biografie di letterati suddivisa per “generi” (poeti, oratori, storici, filosofi, grammatici e retori), di cui ci è pervenuta la sola sezione De grammaticis et rhetoribus, mutila nella parte finale → 24 capitoli di grammatici e solo 6 di retori; del De poetis ci è giunta tradizione indiretta da Donato e S. Girolamo: da esso sarebbero state estrapolate le Vitae di Terenzio, Virgilio, Orazio, Lucano. Il De vita Caesarum è una raccolta in otto libri composta dalle 12 biografie degli imperatori da Giulio Cesare a Domiziano. Eccettuati i primi capitoli della prima biografia e la dedica a Setticio Claro, l’opera ci è giunta completa. 1. LA BIOGRAFIA IN SVETONIO Il genere biografico, di tradizione greca, era stato a Roma collaudato da Varrone e Cornelio Nepote. Lo schema delle vitae di Svetonio è simile a quello delle biografie contenute nelle Imagines di Varrone e nel De uiris illustribus di Cornelio Nepote, così come quello delle Vite dei Cesari. Queste ultime differiscono, oltre che per le attività svolte, per la maggiore ampiezza. Schema-tipo → notizie sulla nascita (famiglia, data, luogo, circostanze), sviluppo cronologico dell’adolescenza che si interrompe all’ascesa al potere: da qui descrizione sincronica della personalità dell’imperatore, i cui aspetti sono divisi per singole rubriche, con focus sulla vita privata; ritorno all’ordine cronologico per il resoconto della morte e delle onoranze funebri. Della rinuncia alla disposizione cronologica rende conto Svetonio stesso nella vita di Augusto, ove afferma che il suo criterio espositivo procede non per tempora sed per species → incentrata sul personaggio, compone per frammenti episodici con un’impronta decisamente moralistica. Tesi di F. Leo. Sappiamo che la tradizione greca aveva elaborato due diversi modelli di biografie: quello del De uiris illustribus, e cui viene evidentemente adattata anche la biografia dei Cesari, era il modello alessandrino → da sempre per vita di intellettuali e letterati, per cui non era particolarmente significativo il fattore cronologico; un altro modello era il modello plutarcheo, elaborato dal greco Plutarco più o meno contemporaneo a Svetonio → esso aveva un’impostazione più rigorosa in termini di cronologia, e dunque adatta a tratteggiare personalità “pubbliche” come grandi politici o statisti. Con gli anni è poi emerso un tipo di valutazione diverso → il genere biografico sembra essere la forma storiografica più adeguata a dar conto della nuova forma che il potere ha assunto, quella individualistica del principato. È la rinuncia allo schema annalistico, consapevolmente al fatto che oramai le istituzioni repubblicane, seppur ancora vigenti, erano solamente un pro forma. Si fanno dunque più evidenti i modelli romani di Svetonio, laddove prima certe caratteristiche erano sentite come fortemente alessandrine. In particolare, sembrano influenti gli elogia e le laudationes funebres, esemplificate grandiosamente dalle Res gestae di Augusto. Infine, l’attenzione alla vita privata criticata solitamente come gusto deplorevole per il pettegolezzo volle essere per lo più interpretata come volontà di demistificare gli imperatori, fornendone un ritratto completo di vizi e virtù, vita privata e pubblica. Nel complesso, le biografie di Svetonio sono un valido esempio di un tipo di storiografia minore che trae informazioni da fonti più varie. Al loro interno è ben inquadrato il destinatario → ceto equestre di funzionari e burocrati cui lo stesso autore apparteneva, che apprezzavano dunque il senso di concretezza, il gusto del particolare curioso, l’esposizione piana e ordinata in rubriche. Il linguaggio è sobrio e asciutto, aperto a modi colloquiali ma sempre decoroso, e viene a costituire una scrittura agile e spedita che compensa i limiti più vistosi dell’opera → per primo, la superficialità dell’analisi storica e psicologica. APULEIO Vita e opere Ignoto il praenomen, alcuni codici tramandano Lucius (in realtà nome del protagonista-narratore delle Metamorfosi). Africano di Madaura (odierna Algeria), nacque intorno al 125, di estrazione agiata. Studi a Cartagine, poi Atene; stette poi qualche tempo a Roma, compì diversi viaggi in Oriente. Di nuovo in Africa, incontra l’amico Ponziano e si sposa con sua madre, Pudentilla. I suoi parenti lo accuseranno di averla convinta con la magia, e lui si difese con un’orazione poi rielaborata nella Apologia che pronunciò da solo (venne assolto). Terminò la propria vita a Cartagine come celebre ed apprezzato oratore. Non abbiamo sue notizie oltre il 170. Ci sono pervenuti i Metamophoseon libri, romanzo in undici libri, sin dall’antichità noto anche con il titolo Asinus aureus; l’Apologia (nei codici De Magia), che costituisce, insieme ai Florida, ventitré brani oratori, la nostra principale fonte biografica; trattati filosofici → De Platone et eius dogmate, De deo Socratis, De mundo. A lui tradizionalmente attribuite due opere filosofiche su cui ci sono però forti dubbi: Perì ermeneias, trattatello di logica aristotelica, e un dialogo Asclepius. Opere perdute per intero, o di cui ci restano solo frammenti → romanzo Hermagoras; traduzioni di Platone Fidone e Repubblica; traduzione del neopitagorico Nicomaco da Gerasa, Arte aritmetica; dei ludicra; testi enciclopedici De prouerbiis, De medicinalibus, De re rustica, De arboribus, De pescibus, De musica. Plausibile attribuire ad Apuleio un breve frammento di una traduzione di Anechomenos, commedia menandrea. 1. UNA FIGURA COMPLESSA DI ORATORE, SCIENZIATO, FILOSOFO Definito dai concittadini di Madaura il filosofo platonico, attributo di cui di certo si compiaceva. Più che altro questo doveva essere l’orizzonte culturale entro cui si situavano i suoi studi multiformi. Rappresenta inoltre la temperie che prende il nome di “seconda sofistica” → moltiplicarsi di esibizioni di retori famosi, incremento dell’interesse per l’occulto, i fenomeni naturali. Potremmo per lo più vederlo come brillante conferenziere itinerante, virtuoso tanto nel padroneggiare il latino quanto il greco. assimilabile al carattere di Lucio, viene neutralizzata dalla sua infantile simplicitas, che la protegge da connotazioni negative. Nel complesso, perciò, la favola non poteva avere un significato semplicisticamente positivo → considerare anche le finalità e il valore a livello letterario. Essa è però importantissima in quanto costituisce una mise en abyme del romanzo, un suo modello in scala ridotta e al contempo chiave di lettura = racconto di iniziazione ai riti misterici / mistagogico. Rivedendo le Metamorfosi alla luce della favola, è aperta la via alla seconda linea tematica (quella della religione), che si completerà con l’introduzione della dea Iside al capitolo XI e che piega la prima linea tematica (quella dell’avventura) verso un senso iniziatico. Nel contesto in cui è collocata, dunque, non si comprende subito la sua funzione, ed essa appare isolata. La favola unisce caratteri della cultura favolistica popolare, della mitologia, elementi alessandrini e milesi e altri specificatamente latini → la levità e superiorità con cui viene cantata ha fatto pensare ai modi di Ovidio. Le Metamorfosi si configurano come una mescolanza sperimentale di generi diversi che trova corrispondenza nello sperimentalismo linguistico. I numerosi motivi letterari toccati nell’opera si intrecciano però in un disegno denso di significato. Qualità più originale di Apuleio è proprio la costante compenetrazione tra l’elemento mistico-religioso e il tessuto originario della favola milesia, due livelli tenuti insieme dalle riflessioni dell’asino che percorrono tutta l’opera (escluso libro XI, in cui prevale il misticismo). L’esito finale da un lato identifica il narratore Lucio, chiamandolo Madaurensis, con l’autore Apuleio; dall’altro suggerisce la chiave di lettura necessaria per interpretare il romanzo come storia di una salvazione religiosa. Infatti, gli interventi ironici dell’autore si infittiscono negli ultimi libri, provocando effetti di rottura ironica, e quasi avvertendo il lettore dell’imminente inversione di rotta che avrà luogo a breve nella storia. 3. LINGUA E STILE La lingua di Apuleio si configura come singolare impasto di molteplici tratti diversi: la sua epoca conosce il gusto per l’arcaico, per la parola obsoleta, che in lui è esplicitato come generale ricerca di letterarietà. La preziosità verbale viene variamente combinata insieme a registri diversi nel tessuto linguistico. La lingua letteraria in Apuleio richiama costantemente l’attenzione del lettore sulla forma espressiva, prima che sul messaggio. Le parole si fanno evocative, dotate di un alone di molteplici significati che si richiamano con echi, quasi che l’opera, più che una struttura architettonica, fosse una sinfonia. Apuleio sembra avere a disposizione una sorta di lessico specializzato, organizzato attorno ad alcune situazioni-tipo e tratto dai modelli classici (Ennio, Virgilio, ecc.). Come se conoscesse dei formulari di iuncturae consolidate per esprimere pateticamente situazioni ricorrenti. Ne consegue un’impressione di stilizzazione. Linguaggio tradizionale attualizzato grazie a frequenti neologismi. Se il lessico ha una qualità altamente retorica, la struttura del periodo possiede un andamento particolarissimo, teso a sfaccettare ai limiti del possibile ciascun concetto, con accumulazione di sinonimi, ricercate uniformità ritmiche. 4. LA FORTUNA Dovuta al romanzo, diffusosi grazie al ritrovamento del codice Laurentianus 68, 2 dell’XI secolo. GIROLAMO Vita Sofronio Eusebio Girolamo nacque a Stridòne, in Dalmazia, nel 347, e giunse a Roma nel 354. Studiò nelle migliori scuole, viaggiò molto in Oriente, dove apprese il greco e fu ordinato sacerdote. Nel 382, di ritorno a Roma, è scelto come segretario dal papa Dàmaso. Conosce un grande successo, è guida spirituale di molte nobili dame; dopo la morte del papa (384), tuttavia, la sua popolarità cala sensibilmente ed è criticato per gli eccessi del suo ascetismo. Si trasferisce definitivamente in Oriente, dove fonda conventi maschili e femminili. Muore a Betlemme, nel 419 o 420. Opere L’opera principale è la traduzione in latino della Bibbia, la cosiddetta Vulgata. Ricco epistolario, tre vite di monaci eremiti, Apològia aduersus libros Rufini in tre libri, Contra Iohannem Hierosolymitanum episcopum, Aduersus Iouinianum, Aduersus Vigilantium, Dialogus aduersus Pelagianos in tre libr, traduzioni dal greco di autori cristiani. Particolarmente importanti il Chrònicon, traduzione e ampliamento dell’omonima opera del greco Eusebio, e il De uiris illustribus, 135 biografie di scrittori cristiani da S. Pietro a Girolamo stesso. Come uomo di Chiesa ebbe un carattere decisamente difficile. Se inizialmente, insieme a Rufino, condivideva e contribuiva alla diffusione in occidente del pensiero di Orìgene, nel 395 ebbe un brusco voltafaccia. Preoccupato da certi aspetti poco ortodossi del pensiero origeniano, si scaglia contro il vescovo di Gerusalemme, Giovanni. All’attacco risponde, in toni distesi e pacati, Rufino → Girolamo reagisce con il violento scritto del 402-403, che non riflette su temi religiosi, scegliendo la via dell’invettiva personale e dell’improperio. Ricorda, su questo piano, la violenza di Tertulliano. Aggressività forse meno giustificata, in quanto il Cristianesimo, oramai, non è più minacciato dalle persecuzioni. L’epistolario Tale carattere aspro emerge anche dall’epistolario → emerge il ritratto di un uomo brillante, dotato di ingegno e intelligenza, ma profondamente emotivo e poco incline ad accettare obiezioni o pareri discordanti dal proprio. Emerge una grande varietà di temi, insieme a una significativa modifica strutturale → l’epistola si trasforma fino ad avvicinarsi, talvolta, a diverse e specifiche forme letterarie: abbiamo dunque una lunga biografia, un trattatello sulle tecniche di traduzione, consolationes = scritti esortatori alla verginità, disquisizioni a carattere epesegetico su passi della Bibbia. Famose le lettere in cui è affrontato il rapporto fra Cristianesimo e tradizione classica → a seguito di un sogno, Girolamo avrebbe promesso una solenne abiura del classicismo, promessa tuttavia non del tutto mantenuta. La Vulgata Il capolavoro di Girolamo. Già circolavano traduzioni greche e latine, ma proprio per il loro numero era necessaria una revisione e un testo definitivo e canonico. Girolamo fu incaricato della traduzione del Nuovo Testamento e dei Salmi da papa Damaso, traduzione che effettuò sul testo greco dei Settanta, a sua volta traduzione di un originale ebraico. A Betlemme continuò la propria opera, rendendosi presto conto della necessità di tradurre direttamente dall’ebraico → perfezionò le proprie conoscenze e completò l’opera in quindici anni di lavoro (391-406). Prima di diffondersi, la Vulgata incontrò qualche resistenza, ti tipo sia pratico (produrre un numero sufficientemente alto di copie per la circolazione) sia teoretico ed ecclesiale. Il Chronicon La Cronaca di Eusebio giungeva fino al 325, ed era una breve sintesi di notizie preparatorie alle opere storiografiche dell’autore. Girolamo le aggiorna con informazioni più recenti, dal 325 al 378, e con notizie del mondo latino che Eusebio aveva omesso. Importante poiché si servì di fonti assai valide (come il De uiris illustribus di Svetonio), molte oggi perdute. De uiris illustribus Materiale in parte desunto dalla Historia ecclesiastica di Eusebio, con aggiunta di molte interessanti vite di scrittori latini cristiani. Valutazioni personali, che risentono di simpatie o antipatie → preferisce figure rigorose e ascetiche come Tertulliano, mentre maltratta gli esponenti della “secolarizzazione” della Chiesa, e, soprattutto, Ambrogio. AGOSTINO Vita Aurelio Agostino nacque a Tagaste (Africa settentrionale) nel 354, la madre Monica era fervente cristiana. Studiò a Madaura e a Cartagine, venne a Roma nel 384 dopo figlio illegittimo a 19 anni. Ottenne, nell’autunno dello stesso anno, la cattedra retorica a Milano, città in cui avvenne anche la sua definitiva conversione. Lasciato l’insegnamento, è ordinato prete nel 391 ad Ippona, dopo il ritorno in Africa. Di Ippona divenne poi vescovo attorno al 395-396. Combatté contro varie sette, specie manichei, donatisti e pelagiani, ma si occupò anche di problemi più concreti dei suoi fedeli. Morì nel 430 a Ippona, con la città assediata dai Vandali. Opere Secondo un calcolo di un suo amico, circa 1030 scritti (alcuni raggruppabili in opere). Coprono un arco di cinquant’anni, e sono suddivisibili in categorie: 1. opere autobiografiche; 2. opere filosofiche; 3. opere apologetiche; 4. opere dogmatiche; 5. opere polemiche; 6. opere morali; 7. opere esegetiche; 8. lettere; 9. sermoni; 10. opere poetiche. Opere autobiografiche Fra le opere autobiografiche figurano le celebri Confessiones, in tredici libri. Titolo ha significato di “lode, esaltazione di Dio”. Scritte fra 397 e 400, nei primi anni di vescovato. Libri I-IX → vicende da nascita a morte madre; Libro X → riflessioni filosofiche sostituiscono la narrazione autobiografica; Libri XI-XIII → sviluppo delle riflessioni filosofiche come commento al testo biblico della creazione; il libro XI è, in particolare, interamente dedicato al concetto di tempo. Retractationes → due libri del 426-427, Agostino corregge opere scritte in precedenza eccetto Sermoni e Lettere (non fece in tempo). Opere filosofiche Alcune perdute. Dialoghi di Cassiciàco (386-387), ovvero tre opere in forma dialogica → Contra Academicos (3 libri), De beata uita (1), De ordine (2). Riflessioni filosofiche di gruppo che si era ritirato con lui nella villa di Cassiciaco durante crisi spirituale a Milano pre-conversione. I Soliloquia, due libri con dialogo sulla conoscenza di Dio e dell’anima fra Agostino e la Ragione. De musica → sei libri, teoria per cui musica basata su precise regole matematiche e riflette l’armonia del creato. De magistro → dialogo con figlio su metodi e limiti dell’insegnamento scolastico. Opere apologetiche La più importante è il De ciuitate Dei, in ventidue libri, composti e pubblicati in più gruppi fra 413 e 427. Risponde alle accuse dei pagani secondo cui il cristianesimo sarebbe causa dello sfaldamento dell’Impero → teorizza esistenza di due città, la “città terrena”, del diavolo, destinata a perire, e la “città di Dio”, eterna. Esse non hanno veri e propri confini, possono anche esistere all’interno della coscienza dei singoli uomini. Opere dogmatiche De Trinitate, quindici libri che impegnarono Agostino dal 399 al 419, affrontano il problema della Trinità. Opere polemiche Contro dottrine dei manichei → De libero arbitrio (3 libri), Contra Faustum Manichaeum, in trentatré libri (397-400), rapporto fede-regione. Contro donatisti → De baptismo (7 libri, 400-401), Post conlationem contra Donatistas (412), difende validità dei sacramenti indipendentemente dalla condizione di grazia del sacerdote. Contro pelagiani → De spiritu et littera (412), De praedestinatione sanctorum (428-429). Opere morali Scritti contro la menzogna, su verginità, matrimonio, comportamento. De opere monachorum (400), De doctrina Christiana (397-426), in quattro libri. Tratta a proposito di come si devono tenere le prediche, più indicazioni sull’interpretazione dei testi biblici. Libro IV importante poiché analizza i rapporti fra retorica classica e retorica cristiana. Opere esegetiche Numerose quelle sui primi libri dell’Antico Testamento, in particolare sulla Genesi; sul Nuovo Testamento → De consensu evangelistarum (quattro libri, 400) e scritti su Giovanni. Lettere Oltre 200, di lunghezza ed estensione diverse; restano anche lettere di alcuni corrispondenti, come Girolamo o Paolino di Nola. Alla tradizione conosciuta, di recente se ne sono aggiunte 27 finora ignote, importanti perché risalgono alla riflessione degli ultimi anni di Agostino.
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