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La letteratura e la cultura nel Medioevo: dalla antichità alla modernità - Prof. Guglielme, Appunti di Letteratura latina

La letteratura e la cultura del medioevo, dalla comprensione di opere letterarie in età antica fino all'avvicinarsi alla modernità. Della traduzione di testi sacri e profani, il ruolo dei santi e dei testi agiografici, la traduzione di opere greche e latine, il ruolo dell'intellettuale in società e la nascita di nuovi ordini monastici. Vengono anche presentate opere didattiche e manualistiche, la traduzione della bibbia e la diffusione di una rete scolastica.

Tipologia: Appunti

2018/2019

Caricato il 03/03/2019

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Scarica La letteratura e la cultura nel Medioevo: dalla antichità alla modernità - Prof. Guglielme e più Appunti in PDF di Letteratura latina solo su Docsity! Letteratura latina medioevale – un profilo storico Osservando i repertori che organizzano le attuali opere si nota che il medioevo contava 15000 autori più 12000 testi autonomi: perdere del tutto questa letteratura significa perdere la cultura che ha formato personaggi del calibro di Dante per capire gli autori volgari è necessario capire cosa ci fosse prima di essi. L’arco cronologico che ci interessa va dal VI al XIV secolo. Ci sono elementi di continuità con il XV secolo, che però vengono già trattate in altre materie. Quando ci si avvicina alla modernità si selezionano opere prettamente letterarie, mentre quando si parla di antichità si comprendono nella letteratura anche biografie, opere di carattere pedagogico (trattati di scienza, oppure politica) e i generi che sono letterari, ma che prima non esistevano, come l’agiografia. Si legge letteratura alta, bassa e testi di servizio la cultura non è fatta quindi solo di intellettuali. Per analizzare la letteratura latina medioevale è necessario indagare le sue origini, ossia le trasformazioni culturali dell’età tardo-antica, in cui nascono i temi che poi il medioevo sviluppa. Il fenomeno storicamente più rilevante che ha segnato il passaggio dal mondo antico a quello medioevale è la diffusione del cristianesimo, che cambia le cose anche dal punto di vista letterario. A partire dal I secolo d.C. si va diffondendo la religione cristiana che ha come sua caratteristica di essere aperta e rivolta a tutti, con una grande forza propulsiva. All’inizio convive con l’impero romano, poi nascono i primi scontri. I romani, essendo politeisti, quando conquistavano nuovi popoli ne acquisivano anche gli dei. Con il cristianesimo questo non funziona, perché si tratta di una religione monoteista che elimina il culto dell’imperatore e falsifica tutte le divinità romane. Questo comporta dei conflitti, che prendono forma di persecuzioni nei confronti dei cristiani. È Costantino ad accorgersi della rilevanza dell’appoggio dei cristiani da un punto di vista politico. E infatti è proprio con Costantino che viene firmato l’editto di Milano (nel 313) che garantisce la libertà di culto ai cristiani. Costantino nel suo ruolo di imperatore interviene su un problema dottrinale cristiano: una delle grandi scelte che le comunità cristiane sono chiamate a fare è identificare il ruolo di Cristo. Il cristianesimo ortodosso vede Dio come unicità che si manifesta in tre forme: il padre, il figlio e lo Spirito Santo contemporaneamente tre nature diverse che non si “scontrano”, ma coesistono. Il problema della trinità scatena però diverse diatribe tra i cristiani: alcuni sostengono che Gesù non fosse propriamente Dio, ma fosse stato adottato da esso (teoria fondata da Ario arianesimo). Così si risolve il problema logico di pensare che un uomo possa anche essere Dio. Costantino vuole intervenire nella questione e con il concilio di Nicea (raduno di vescovi presieduto dall’imperatore, nel 325) l’arianesimo viene decretato come eresia. L’imperatore non era ancora probabilmente battezzato, ma con il suo intervento mette in evidenza il problema della gerarchia del potere tra stato e chiesa. Verso la fine del IV secolo la situazione in cui si trovano i cristiani è rovesciata: cristiani perseguitati > cristiani autorizzati > cristianesimo unica religione autorizzata. Con l’imperatore Teodosio si attua un’egemonia del cristianesimo sulla cultura e sulla vita di tutti. Il medioevo è un’età di uniformità religiosa: non è concepito che qualcuno non sia cristiano (rito obbligato). Compaiono però testi che rimangono completamente laici. Questo superstrato cristiano giova alla letteratura perché porta a una democratizzazione della lettura: tutti possono accedervi il cristianesimo nasce come religione degli umili. Mentre la religione pagana non prevede testi scritti (il sapere si sviluppa nella casta sacerdotale) il cristianesimo e l’ebraismo si fondano sul testo sacro. La Bibbia è un libro che quindi tutti devono conoscere e devono saper leggere. Essa è costituita dall’Antico Testamento (libri già sacri agli ebrei; scritti soprattutto in ebraico, ma anche con tracce di aramaico e greco) e dal Nuovo Testamento, redatto in greco. Sorge la necessità di tradurre queste opere, poiché il greco era molto conosciuto dagli intellettuali, ma non dalle persone umili. La Bibbia viene tradotta piuttosto alla lettera, perché ogni parola era ispirata da Dio; eppure le opere greche venivano solitamente trasposte con grande libertà. Le prime traduzioni erano talmente letterali da creare un latino quasi incomprensibile, perché rispettava la costruzione del testo greco e ne imitava anche la sintassi. Questa forma non poteva essere tollerata dai latini: con l’ampliamento del pubblico decadono le regole sulla fruizione delle opere. Ci sono autori che scrivono in latino aulico e altri che scrivono legandosi alla costruzione greca. I cristiani stessi hanno dovuto lavorare su questo, fino a raggiungere una versione della Bibbia più coesa: si tratta della Vulgata di san Girolamo, commissionatagli direttamente da papa Damaso I. Nasce un primo dibattito legato alla traduzione: quando si traspongono testi in cui non agisce il timore reverenziale divino, come ci si deve porre? Ha più peso una riproduzione fedele dello stile o dei contenuti? A riguardo, ha grande importanza sant’Agostino di Ippona. Egli affronta questo problema sostenendo che lo stile medievale ha modificato il punto di vista rispetto alla stilistica classica (che prevedeva la tripartizione degli stili: alto, medio o umile a seconda dei contenuti). La letteratura della Bibbia rompeva questa corrispondenza: essa affronta qualsiasi tipo di contenuto attraverso ogni forma o stile possibile. Agostino propone quindi di costruire lo stile in base al pubblico che fruirà il testo, così da garantire un passaggio efficace dei contenuti (per il popolo incolto il sermo humilis) questo processo permette di portare avanti il punto di vista democratico del cristianesimo. Chi legge i classici si sente in colpa, perché è a contatto con una cultura pagana che sarebbe da evitare. Nonostante questo però, durante il medioevo non si smette mai di leggere i classici fondamentali per la sono infatti gli eremiti, che si isolano per dimostrare la propria capacità di sacrificio (queste figure nascono nel cristianesimo mediorientale per poi diffondersi in Occidente). Questi eremiti vengono a poco a poco raggiunti dai discepoli e si creano così i monasteri, comunità singole con regole proprie. Se all’inizio si tratta di un’esperienza di pochi, il fenomeno si afferma in seguito come un evento di massa ( si tratta di un universo chiuso e protetto che in situazioni di pericolo garantisce protezione, benessere e stabilità). È grazie agli enti ecclesiastici che si ha quindi il mantenimento e l’ampliamento della scolarizzazione, ma è diverso il modo di apprendere il latino e anche la stessa lingua cambia una volta che la scolarizzazione passa agli enti ecclesiastici si assiste a una contaminazione: i registri linguistici si mescolano e viene meno la distinzione netta tra scritto e parlato. Ricordiamo anche che il latino cristiano influisce su una nuova commistione linguistica, non solo per quanto riguarda l’utilizzo di parole greche ed ebraiche, ma anche per quanto riguarda la costruzione della frase. Uno dei generi letterari più importanti del Medioevo per la sua pervasività, nasce nei primi secoli cristiani e riguarda le vite dei santi. L’agiografia si sviluppa attraverso due filoni fondamentali: 1. Vitae patrum vite di persone che erano intorno a Gesù (familiari o discepoli). Questo filone ha radice nei testi sacri stessi e sopperisce alla mancanza di un quadro biografico in NT. Le vitae raccontano l’infanzia di Gesù o di Maria e ricostruiscono le biografie degli apostoli durante la predicazione del Vangelo. Se riguardano veri e propri personaggi della Bibbia vengono definiti “apocrifi”, in contrasto coi testi “canonici” non proibiti, ma neanche ufficialmente riconosciuti come testi sacri ispirati; 2. Acta martiri letteratura che riguarda più specificamente quei cristiani che sono stati perseguitati dall’impero (soprattutto sotto Diocleziano, inizio IV secolo). La narrazione inizia in media res con la cattura del martire e lo stile è molto sobrio e asciutto forma del verbale giudiziario del processo al martire. La funzione di questi testi è memoriale. Più martiri sono ricordati e più la Chiesa può essere fiera delle sue radici. Θυεστο φιλονε εϖολϖε νελλα πασσιο ναρραζιονε πι αχχαττιϖαντε ε ροµανζατα, αττραϖερσο λα θυαλε σι ραχχοντα πι αππροφονδιταµεντε λα ϖιτα δελ µαρτιρε ε σοπραττυττο ιλ µοµεντο δελ προχεσσο (il funzionario imperiale è l’incarnazione del male; le torture vengono descritte dettagliatamente per filo e per segno; il martire in punto di morte lancia un messaggio simile a un’omelia). Dal VI all’VIII secolo si consolidano i regni romano-barbarici. Il momento simbolico che segna la caduta dell’impero romano (d’occidente) è la deposizione di Romolo Augustolo nel 476. Da quel momento i vari popoli germanici si spartiscono il territorio in base a una differenziazione etnica. Questo comporta una frattura con il mondo antico e da molti è considerato l’atto di nascita dell’età medievale. La spaccatura non è data solo dalla violenza con cui l’invasione si attua, ma per la distanza culturale tra il nuovo popolo insediatosi e quello precedente. Ad esempio, i Barbari non conoscevano la scrittura e la loro cultura si trasmetteva oralmente per loro non fu quindi importante la scolarizzazione (favorivano la guerra e la caccia). Un’altra differenza profonda riguarda la religione: i popoli germanici adoravano gli Asi (Odino, Thor, Loki), ma anche dopo la loro conversione al cristianesimo rimane una distinzione con il popolo latino perché la maggior parte di loro appoggia la corrente ariana. Ma tra i due popoli troviamo anche elementi di contiguità: poiché i Germani non erano abituati ad amministrare grandi territori, assorbono quello romano sostituendo il personale (in parte) i loro uomini di governo sono spesso colti romani sfruttati per la loro competenza. Questo si verifica soprattutto in Italia, che non è un regno romano-barbarico compatto fino al IX secolo rimane divisa. Dopo una prima serie di scorrerie il territorio viene occupato dagli Ostrogoti (Goti dell’est), appartenenti alla stessa famiglia dei Visigoti (Goti dell’ovest). Gli Ostrogoti erano guidati da Teodorico, che si era recato in Italia in accordo con i Bizantini che volevano ricostruire un legame con l’occidente. I Bizantini speravano infatti di controllare Teodorico, che invece si dimostra indipendente. Il condottiero era un uomo acculturato, che riconosce il valore dei grandi intellettuali romani garanzia di una continuità culturale in Italia. Teodorico si circondò di persone colte anche romane e tra queste spicca la figura di Severino Boezio. Uomo così colto che padroneggiava sia greco che latino, era stato eletto primo ministro dal re ostrogoto e aveva escogitato un grande piano di unificazione culturale. Boezio era particolarmente interessato alla filosofia e voleva tradurre in latino tutte le opere di Aristotele e Platone da questo progetto possiamo intuire quanto l’élite intellettuale romana fosse consapevole della perdita della conoscenza della lingua greca. Un altro aspetto del progetto culturale era la sistemazione e la raccolta di trattati che offrissero una formazione di base per l’uomo colto. Già in età tardoantica è attestata la costituzione delle arti liberali, che si suddividono in trivium (grammatica, retorica, dialettica) e quadrivium (aritmetica, geometria, musica, astronomia). Il retore latino Marziano Capella aveva dedicato un prosimetro a queste arti. Il suo trattato De nuptiis Philologiae et Mercurii racconta appunto della filologia (allegoria della cultura) che sposa Mercurio. Affinché la filologia si possa sposare con il dio, ella deve ascendere al cielo e assimilare le arti liberali. L’opera, nonostante la sua pesantezza, era molto diffusa. Viene organizzata una congiura contro Teodorico e il re tra i colpevoli indica Boezio, che viene imprigionato e poi giustiziato. In prigione l’intellettuale traduce alcune parti delle opere di Aristotele e scrive il “De consolatione philosophiae”, ossia una grande riflessione sui temi della vita umana. La filosofia viene personificata in una donna che si reca da Boezio e con lui intrattiene una lunga conversazione. Boezio ha voluto costruire un’opera che potesse rivolgersi sia ai cristiani che agli appassionati di filosofia classica, senza citare esplicitamente Dio, ma mettendo a confronto questi due mondi così differenti per superare il disagio che si provava nei confronti dei classici. A sostituire Boezio come primo ministro è un altro grande intellettuale italiano: Cassiodoro, di formazione latina e grande oratore. Nella sua amministrazione sotto il potere ostrogoto raccoglie le lettere delle sue corrispondenze per farne un manuale di scrittura epistolare; ma le sue intenzioni autoriali miravano anche a unire i mondi germanico e latino: egli scrive infatti la Historia Gothorum come atto di conciliazione e di legittimazione del popolo invasore (questa opera non ci è pervenuta interamente). Quando i bizantini riconquistano l’Italia Cassiodoro viene imprigionato a Bisanzio. Quando viene rimesso in libertà torna in Italia e fonda un monastero in un territorio che era occupato da un allevamento di pesci, da cui prende il nome il monastero stesso (si chiama infatti “Vivarium”) e che si configura come un’arca di Noè della cultura latina. Si tratta di un tentativo simile a quello di Boezio, ma più concreto e più riuscito. Cassiodoro raccoglie molti libri e si impegna a salvare la cultura antica affinché possa incrementare quella cristiana. Costruisce così la sua opera, che intitola “Istitutiones divinarum et saecularium litterarum”, composta da due libri. Nel primo sono indicate le letture che un cristiano deve fare per capire la Bibbia e la teologia; il secondo fa riferimento alle arti liberali che sono necessarie al sapere religioso. Se si confrontano i testi che sopravvivono nel medioevo e le letture indicate da Cassiodoro si scopre che la maggior parte delle opere da lui citate si sono salvate. Il Vivarium in sé non è sopravvissuto alla morte di Cassiodoro, per cui la biblioteca si è dispersa, ma il progetto è sopravvissuto. Il monaco alla fine della sua vita scrive anche un libro sull’ortografia latina indicando ai copisti quali regole seguire. Con la morte di Cassiodoro si giunge alla fine del VI secolo che vede l’invasione dei Longobardi in Italia (nel 568). Il territorio italiano era debole a causa delle pestilenze e delle guerre con i bizantini. Al nord si instaurano i Longobardi, mentre le coste meridionali, le isole, la zona di Roma e Ravenna erano ancora (formalmente) bizantine. I Longobardi non avevano avuto precedenti contatti con il mondo latino per cui il loro impatto è più distruttivo si ha un forte regresso culturale. Dopo la guerra greco-gotica la situazione culturale e istituzionale in Italia diviene critica. La posizione di Roma durante la dominazione longobarda è piuttosto particolare. Infatti, già dai tempi di Diocleziano, non ricopriva più un ruolo politico centrale (le capitali erano divenute Milano e Treviri, in Germania). Sul fronte religioso aveva però guadagnato un nuovo tipo di centralità. Nei Egli è attivo nella seconda metà del VI secolo e opera appunto a Tours, vescovato devoto a San Martino, patrono di Francia. La sua opera agiografica è un insieme di racconti di miracoli, intitolata “Miraculorum libri VIII” e composta appunto da otto libri. Un’altra opera importante è l’Historia Francorum (è la prima volta che un franco scrive la storia del suo popolo). Il cristianesimo porta con sé una rivoluzione anche storiografica: nella storia classica dominava un atteggiamento pessimistico, per il quale il passato era glorioso e il presente non avrebbe mai retto il confronto. Oltre al pessimismo dominava una visione ciclica. Il punto di vista dei cristiani è completamente diverso, in quanto la storia ha uno sviluppo lineare, con un inizio e una fine entro cui si delinea un percorso guidato da Dio e che si muove verso il bene. Da questo punto di vista si depotenzia il singolo individuo che con le sue scelte determinava la storia. L’orizzonte del cristianesimo copre l’intera umanità. Il punto di vista universalistico non è completamente apprezzato. Lo spezzarsi dei territori in piccole tribù porta all’esaurimento della prospettiva universale. Anche Gregorio di Tours parte dalla creazione dell’uomo con una visione universalistica, ma presto si concentra solo su quello che accade a Tours. Nel modo in cui vengono raccontati i fatti mostra la sfiducia nel fatto che tutto sia guidato da Dio. Le isole britanniche sono invece territori particolari. L’Irlanda non era mai stata colonizzata dai Romani, mentre in Inghilterra erano presenti strutture istituzionali non fisse ( costruzione del vallo di Adriano per arginare le invasioni). Nel centro della Gran Bretagna erano presenti i Celti, mentre a Nord c’erano popolazioni più aggressive che non valeva la pena combattere, per questo si costruisce il vallo. Con i Romani arriva la cultura latina che si mescola al celtico, dando origine a un culto misto. Su questa base si instaurano le invasioni barbariche degli Iuti e altre tribù che si vanno a stanziare in Britannia mentre i Romani si ritirano si formano un insieme di regni anglosassoni. Nel 596 viene mandato da Roma un gruppo di monaci (guidati da Agostino di Canterbury) che hanno il compito di cristianizzare i barbari arginando i Britanni che praticavano un culto corrotto. Quando arriva il cristianesimo torna anche il latino una nuova latinizzazione. Nei territori dove si parla latino da sempre è difficile tenere separata lingua latina parlata e scritta, ma in questi territori il parlato era un mix di varietà e dialetti mentre lo scritto era scevro di contaminazioni. Lo stesso vale per gli Irlandesi che però vengono raggiunti da monaci britannici. Il fatto che la loro lingua sia il celtico rende la latinizzazione un apprendimento scolarizzato basato sulla grammatica. Nel giro di un secolo la chiesa britannica diventa romana. Un autore importante è Beda che grazie ai pellegrinaggi dei suoi connazionali (da Roma importavano libri) riesce a leggere molti classici. La produzione di Beda si concentra nei primi decenni dell’VIII secolo e rappresenta il massimo compimento della latinizzazione britannica. Vive fin da bambino in monastero e coltiva con diligenza lo studio, la scrittura e l’insegnamento. La sua produzione è molto varia, toccando quasi tutti i campi possibili della scrittura: scrive manuali di diverse discipline e vanta anche una buona produzione in versi. La sua opera più importante è una storiografia: Historia ecclesiastica gentis Anglorum. È dichiarato dal titolo che a Beda interessa la storia del suo popolo solo dall’arrivo in Inghilterra e con l’inizio della loro evangelizzazione. Beda chiede ai corrispondenti informazioni sulle loro tribù e per i secoli più vicini ha raccolto testimonianze orali. Per questa sua opera la critica medievale lo ha ribattezzato “Beda il venerabile”. Beda lavora molto sulle fonti, ma lascia anche una grande parte al soprannaturale perché gli interessa evidenziare il disegno provvidenziale di Dio su quanto accaduto. Gli irlandesi sono personaggi considerati anomali nel medioevo: sono stati cristianizzati e latinizzati tardi soprattutto da monaci, e anche per questo motivo acquistano più importanza le strutture monacali che quelle ecclesiastiche (inoltre riflettevano l’organizzazione in clan delle tribù irlandesi). Nell’apprendimento del latino gli irlandesi introducono un apprezzamento particolare per i preziosismi si costruisce una lingua artificiale. Questo si può dedurre dagli stessi testi che scrivono nei quali inseriscono parole ricercate (latinismi, grecismi, ebraismi). La letteratura irlandese di questo periodo diventa quindi quasi incomprensibile. I testi occidentali sono spesso intitolati nel modo più difficile possibile. Un testo invece molto semplice è la “Navigatio sancti Brendani”, databile all’VIII secolo. Nella cultura autoctona esistevano dei generi che parlavano di viaggi compiuti per mare che avevano come meta l’aldilà. In queste storie si raccontava di eroi che, attraverso una visione soprannaturale, venivano informati di un luogo ameno di eterna giovinezza, e che partivano alla ricerca della terra promessa. Alcune volte i racconti si concentravano sul viaggio, altre sulla meta. Gli irlandesi vedono nel pellegrinaggio un abbandono a Dio, e solitamente agli autori interessa più il viaggio che l’arrivo. Si incontrano animali particolari e comunità monastiche in condizioni di santità soprannaturali. I protagonista sono mossi dalla virtù della curiosità che spinge a visitare il mondo l’autore comunica che la cosa importante era conoscere il mondo. Grazie ai frequentissimi pellegrinaggi c’è una grande esportazione del patrimonio culturale delle isole britanniche nell’Europa continentale. Molto spesso i pellegrinaggi avevano l’obiettivo di evangelizzare e riconsolidare strutture monastiche laddove cominciavano a essere più fragili. Tra i monaci più attivi, ricordiamo san Colombaro. Egli vive nel Nord dell’Irlanda, parte in pellegrinaggio attraverso Francia, Germania, Svizzera e Italia, dove si ferma a Bobbio e San Gallo. Lungo il percorso alcuni monaci si fermano più a lungo (o anche permanentemente) nelle varie tappe, così come vengono depositate nelle varie biblioteche monastiche molte opere originarie dell’Irlanda si forma una rete religiosa e culturale. Bonifacio, vescovo di Magonza, partendo dall’Inghilterra evangelizza i popoli dei Paesi Bassi e della Germania, fonda una rete di monasteri e diventa stretto collaboratore del Papato ( azione di questi missionari era occasione di toccare territori che Roma non aveva la forza di raggiungere) e dei Franchi ( si sovrappone all’azione politica dei Pipinidi che porterà a Carlo Magno imperatore). Il regno dei Franchi, che era paradossalmente il più sgangherato dal punto di vista culturale e politico, diventa il centro propulsore di una nuova unità: viene infatti riunificata almeno in parte l’Europa occidentale e si crea una letteratura uniforme. Mentre i re erano impegnati a combattere e a dividersi il territorio, chi governava realmente era il maior domus (“maggiordomo di palazzo”=primi ministri). Essi appartenevano a una dinastia; il primo a essere rilevante è Carlo Martello (vincitore della battaglia di Poitiers nel 732, con la quale viene fermata l’avanzata degli arabi). A Carlo Martello succede il figlio, Pipino il Breve, padre di Carlo Magno. Nel 751 Pipino il Breve depone il re merovingico Childerico III e si fa nominare re, facendosi acclamare sovrano dai maggiorenti del regno (nobiltà franca) e facendosi incoronare da Bonifacio modo di santificare il regno. Il rapporto con la Chiesa lo aveva costruito negli anni precedenti: il regno si sta rafforzando facendo perno sulle strutture ecclesiastiche, che fanno da supplenti alle strutture pubbliche. Questa alleanza con Roma offre una connotazione ideologica particolare, legittimando il regno. Nel 768 Carlo Magno succede al padre e il suo impero durerà a lungo (muore infatti nell’814). La sua politica militare dimostra una spiccata attenzione verso gli interessi della Chiesa: viene consolidato il fronte contro l’avanzata araba, mosse di guerra espansionistica verso la Germania (Sassoni e altre popolazioni vengono progressivamente conquistati ed evangelizzati), intervento sul fronte italiano contro i Longobardi. Nel corso dell’VIII secolo i Longobardi erano infatti diventati un nemico della Chiesa per ragioni territoriali, ma nel 774 Carlo vince i regni del nord Italia (rimane indipendente il ducato del Sud). Un’altra innovazione introdotta da Carlo è la fondazione di una città capitale (precedentemente non necessaria, perché il re si spostava con la corte). Aquisgrana viene quindi costruita da zero (era un luogo termale), mutuata sui modelli archeologi di Roma, Ravenna e Bisanzio. Altro aspetto simbolico è la creazione di una corte di uomini dotti, che vengono importati da altri paesi. Il modello di impero che si voleva riproporre era quello romano già diventato cristiano (Costantino e Teodosio). L’imperatore fonda il suo ruolo sulla legittimazione che gli dà la Chiesa, rendendolo un vicario di Cristo sulla terra con il compito di difendere la Chiesa e occuparsi di problemi teologici descrizione del re Liutprando (sotto il cui regno si ebbe il periodo di massimo splendore). Si può pensare che sia un’opera interrotta perché manca il prologo (che viene sempre scritto per ultimo, nonostante si trovi all’inizio). Dobbiamo anche tenere in conto che se avesse scritto fino alla fine dell’VIII secolo, avrebbe dovuto raccontare del massacro tra Franchi e Longobardi, ma non gli conveniva raccontarlo proprio perché il suo intento era di riappacificare i popoli. Un altro autore longobardo importante per l’impero carolingio è Paolino di Aquileia (Aquileia era stata una delle città italiane più importanti ed era sede di un patriarcato). Egli scrive numerose opere teologiche e viene mandato ad Aquileia per fare il vescovo manovra politica molto frequente nei territori di confine: si firmava un vescovado mandando una persona capace di garantire il governo politico. Un fenomeno rilevante nel passaggio dall’antichità al medioevo è che i parlanti avevano perso la sensibilità sulle quantità vocaliche (su cui si basava la versificazione e il sistema metrico in latino). Persa tale capacità di distinzione diventa difficile fare poesia, ma nasce ovviamente un modo parallelo: nuovo criterio basato sulla posizione degli accenti. La metrica si basa sulla successione di toniche e atone in determinate posizioni. Per funzionare i metri devono avere tutti lo stesso numero di sillabe, che diventa fisso. Paolino di Aquileia utilizza questa metrica alternativa, basata sull’alternanza toniche-atone e chiamata “ritmico-accentuativa” (i metri che verranno poi sperimentati nelle lingue romanze nascono proprio da quest’evoluzione). Il rapporto con i classici durante la riforma carolingia è prettamente formale (i classici non si studiano per il loro valore, ma unicamente per il recupero del corretto uso della lingua). Cerchiamo quindi di intuire quale fosse l’atteggiamento in base agli esiti pratici: troviamo autori che conoscono a fondo i classici e li usano come modello. Le biblioteche più importanti dell’impero carolingio (come Fulda) davano infatti accesso alla lettura dei classici (era più probabile addirittura che fossero più i laici che i cristiani a interessarsene). Tra l’altro le biblioteche laiche e/o di corte sono andate per la maggior parte perdute; possiamo intuire che questi ambienti laici possedessero dei libri e li usassero, però è difficile tracciarli nella storia. Un’altra forma in cui vediamo agire l’influsso dei classici è quella dell’epica: in età carolingia riprende la produzione epica, ovviamente su un modello virgiliano. Un caso di ripresa virgiliana in testo epico di natura celebrativa è “Carlus Magnus et Leo Papa”, scritto alla fine dell’VIII secolo, che racconta l’incontro del 799 tra Carlo Magno e Papa Leone III. L’episodio in sé è storico e riguarda l’attività politico- ecclesiastica di Carlo; il tono è esclusivamente celebrativo. Questo genere di epica ci fa intuire che c’era volontà di tornare al modello classico. Non mancano neppure sperimentazioni: “Waltharius” (latinizzazione del nome del protagonista Walt) è infatti il tentativo di fondere il modello virgiliano, quello classico e una traccia dei contenuti provenienti da una saga germanica; sconosciuto l’autore. Viene ripresa una saga che ritroviamo in altri testi germanici contemporanei e che avrà una sua vitalità per tutto il basso medioevo. Il tempo di ambientazione non è definito e presenta un’atmosfera un po’ mitologica, trasportata però ai tempi di Attila (considerato figura positiva dai Germani, a differenza dei Latini). Attila si trova a conquistare i tre regni in cui è divisa questa mitologica Francia, portandosi via tre ostaggi: i figli dei tre sovrani (e Walter è uno di questi figlio del re di Aquitania; gli altri due sono la figlia del re di Borgogna e Hagen, lo stesso che ucciderà Sigfrido a tradimento nella saga dei Nibelunghi). I tre prigionieri crescono insieme e una volta grandi decidono di scappare, ma depauperando prima il tesoro di Attila. Arrivati nei pressi della Francia il re dei Franchi Gunther, cresciuto anche lui, vuole impadronirsi di questo tesoro. Segue quindi una battaglia tra Walter e Hagen (franco), a cui si aggiunge anche lo stesso Gunther alla fine dello scontro. Tutti e tre ne escono feriti, ma alla fine si riappacificano come se nulla fosse successo. Probabilmente tutto questo è una specie di grande metafora politica: chi ha avuto l’idea di recuperare questa saga potrebbe aver voluto lanciare un messaggio in uno dei momenti più tragici della storia dell’impero. Carlo Magno muore infatti nel 814 lasciando il regno a suo figlio Ludovico il Pio, che morirà nel 840 lasciando una situazione ereditaria molto confusa. I suoi figli infatti (Lotario, Carlo il Calvo e Lodovico il Germanico) si contendono il regno sanguinosamente. È possibile dunque che questo testo voglia essere un apologo di questo momento fratricida di avidità i tre personaggi della storia che si scontrano sarebbero dunque i tre figli di Ludovico il Pio, dove Walter rappresenterebbe Carlo il Calvo. Attraverso Waltharius si tenta di dare dignità letteraria anche alle tradizioni germaniche (trasmesse oralmente fino a quel momento). È in questo periodo che viene composto anche il Carme di Hildebrandt. Dall’Impero carolingio veniva esclusa l’Italia centro-meridionale. In questo periodo quest’area diventa periferica perché l’asse politico-culturale si sposta a nord, trovando il suo fulcro nel nuovo impero. Questo per l’Italia e per Roma è un problema, perché nonostante avesse perso il suo ruolo politico, Roma aveva mantenuto la centralità ecclesiastica, che viene ora minacciata dall’impero (per quanto gli imperatori venissero incoronati dal papa erano loro a gestire la politica ecclesiastica e si sostituivano a Roma nell’emendare concetti teologici). C’è stato un tentativo da parte di Anastasio di ricentralizzare Roma come centro del potere ecclesiastico. Anastasio è il segretario papale e svolge il suo compito con grande personalità (è talmente attivo nella politica ecclesiastica che viene eletto antipapa). Cerca di riportare al centro Roma facendo leva sulla compresenza dell’impero orientale e occidentale, che necessitavano di un mediatore autorevole, e sfruttando anche il bilinguismo dei romani. Anastasio traduce da sé gli atti dei concili e corregge gli errori di traduzione dell’ambiente carolingio. In particolare interviene nella traduzione in latino del “Corpus Dionisiacum”: esso è un insieme di cinque trattati teologici, preceduti ognuno da un’epistola che serve all’autore per fingere di essere qualcun altro, presentandosi l’autore racconta infatti di essere un personaggio degli atti degli apostoli (Dionigi ateniese, che venne convertito da Paolo di Tarso) e questo dà allo scritto un alto livello di autorevolezza. Questo corpus è particolarmente decisivo perché dà una rilettura neoplatonica della teologia cristiana. Ci sono diverse teorie su chi fosse il vero autore: un docente di UniCatt sostiene che l’autore fosse un filosofo neoplatonico che nel 529 (sotto Giustiniano) vide chiudere la scuola di Atene. Il corpus sarebbe arrivato in Occidente perché l’imperatore bizantino decide di regalarne una copia alla corte carolingia. Una prima traduzione è a opera dell’abate di Saint-Denis (=San Dionigio; regalo pensato apposta per questo luogo nel quale sono seppelliti gli imperatori dono anche alla dinastia imperiale). Alla corte carolingia arriva un irlandese coltissimo, che conosceva molto bene il greco: Giovanni Scoto Eriùgena (Scoto aggettivo; “che viene dall’Irlanda”). Le sue traduzioni circolano in tutta Europa arrivando fino ad Anastasio, che annota una serie di errori e le rispedisce alla corte carolingia. Questo smacco è il segno della sua politica ecclesiastica. Anastasio si occupa di raccogliere e ordinare tutte le biografie dei papi nel Liber Pontificalis e successivamente affida a un suo collaboratore la biografia approfondita di Gregorio Magno. Questo tentativo non porta grandi successi, anzi, Roma cade in un periodo di decadenza. Dopo la frammentazione politica e culturale portata dai regni romano-barbarici, è l’ambiente carolingio a ricostruire un clima di unità politica, amministrativa e culturale che si riflette anche sul piano religioso (attraverso una nuova traduzione della Bibbia, l’organizzazione degli usi liturgici, l’unificazione dei monasteri sotto la regola benedettina) e sul piano culturale (con la diffusione di una rete scolastica che riportasse a uno studio serio del latino e la lettura base dei testi classici). Anche dal punto di vista della produzione si crea un’unità, grazie alla presenza di intellettuali che spingono per una manualistica delle arti liberali, dell’esegesi biblica e della poesia. Nasce quindi il problema opposto, ovvero quello di una insistente omologazione a un modello conosciuto. La letteratura di questo periodo insiste soprattutto sul recupero e il riuso, in particolare offrendo soluzioni “in sintesi” che semplificassero lo studio: si tratta di una letteratura che è il riassunto di fonti e la novità va cercata nel modo di riorganizzare i contenuti. Quando un’esegeta come Alcuino decide di scrivere un commento sintetico, egli sceglie una fonte specifica e il modo in cui la utilizza dimostra un interesse strettamente personale render noto chi merita di essere ricordato per il suo valore e chi invece per la propria malvagità. La situazione politica dell’Italia del X secolo è estremamente confusa. Non governa un’entità superiore, ma i singoli feudatari (signori locali), i quali decidono e legittimano i futuri imperatori (capitava che gruppi diversi di feudatari nominassero due signori diversi). Nell’Antapodosis Liutprando dà anche un’immagine molto puntuale della Roma del tempo come sede del potere e del papato: una città in mano a poche famiglie dominanti e a prostitute (seducono gli uomini “giusti”, di cui si servono per la scalata al potere) e la cui situazione è totalmente incompatibile con i valori cristiani di cui dovrebbe essere massima rappresentante. Del X secolo ricordiamo pochi autori incisivi, tra questi citiamo anche Raterio di Verona. Egli amava sperimentare nella scrittura letteraria, utilizzando sia citazioni molto dotte che sperimentando una forma di autobiografismo ancora più accentuata rispetto a Liutprando: scrive infatti testi in cui propone anche un esame di sé, del proprio operato e delle sue conseguenze. Raterio tenta con tutte le sue forze di operare una riforma della Chiesa che andasse contro le degenerazioni (in primis l’utilizzo di cariche come premio economico e la crisi della moralità del clero). Raterio cerca di combattere tutto questo almeno localmente (la Chiesa se ne occuperà in larga scala solo un secolo dopo), per questo viene allontanato da più sedi. Dopo il X secolo comincia il periodo chiamato “basso medioevo” e le cose cambiano anche dal punto di vista letterario, per questo è opportuno trattare la materia in modo più trasversale. La scansione geografica non ha più senso (perché il lascito dell’impero carolingio ha portato a una riunificazione culturale e perché spesso gli autori sono itineranti), così come quella cronologica. Da qui in poi la scansione sarà per generi, filoni letterari e argomenti. Questo anche perché diventa difficile trovare per il basso medioevo una chiave di descrizione universale. La fioritura letteraria dell’XI secolo rende più difficile operare una scelta tra gli autori attivi. Questo anche perché lo studio sistematico del medioevo latino è piuttosto recente, anche a causa del giudizio negativo datogli dal Rinascimento e dall’Illuminismo: è solo con il Romanticismo che questo periodo culturale viene riscoperto (anche se maggior risalto viene dato al patrimonio in volgare) Per quanto riguarda il contesto storico, quattro sono i fenomeni da ritenersi uno sfondo fondamentale all’operato degli autori che tratteremo: 1. Rinascita del mondo cittadino che porta alla rinascita di scuole e università. La dimensione rurale era stata protagonista dell’alto medioevo, ora invece si formano le prime entità cittadine, ricche abbastanza da portare alla fioritura di nuove attività (commerciali e manifatturiere). Questo porta anche al fenomeno istituzionale dei comuni (in Italia) e del regno a dimensione nazionale (nel resto d’Europa). Inoltre stimola un bisogno nuovo: quello di una classe laica colta (nuove professioni economiche e amministrative che richiedono una formazione specifica). Ciò richiede un rilancio della scuola anche a livello elevato: è proprio nel basso medioevo che nascono le scuole di specializzazione e le università. All’inizio i centri dell’insegnamento sono ancora luoghi religiosi, sebbene gli insegnamenti fossero aperti anche ai laici: per studiare era sufficiente avere gli ordini minori (solo al vertice della gerarchia c’erano veri e propri sacerdoti). Questi insegnamenti d’alto livello sono legati a figure illustri di maestri, che attirano nella propria scuola molti studenti: questa la causa del fenomeno dei “chierici vaganti”, studenti che si spostavano da una città all’altra per essere allievi dei maestri più prestigiosi. Il mondo scolastico è dunque caratterizzato, almeno all’inizio, da una certa fluidità e la classe colta si infoltisce, uscendo dagli ambienti strettamente legati alla Chiesa. L’aumento di persone con degli studi alle spalle porta ad istituzionalizzare questa nuova realtà: nascono dunque le vere e proprie università (universitas indica la totalità di persone datesi uno statuto comune), che sorgono come associazioni di maestri o di studenti che stabiliscono un percorso di studi, i tipi di esami o come ottenere il diploma finale. Le varie università si specializzano, diventano più famose per una certa materia di studio: Parigi in teologia, Padova e Salerno in medicina, Bologna in diritto. Alla base di qualsiasi tipo di insegnamento troviamo le arti liberali (parte propedeutica alla formazione di una persona), che potevano però essere studiate anche a un livello superiore: la disciplina di specializzazione più rilevante tra le arti liberali era la dialettica (questo dipende anche molto dal fatto che vengono recuperati i testi filosofici classici). Nonostante gli allievi siano per la maggior parte laici, sempre più spesso i docenti sono religiosi: questo era un buon modo per la Chiesa di tenere sotto controllo un ambiente dal quale potessero uscire idee e contenuti “pericolosi”. Tuttavia, le università di per sé non sono istituzioni religiose, tanto che vengono finanziate in gran parte da autorità laiche. 2. Riforma della Chiesa. Il disagio dato dalla deriva morale dei membri dell’istituzione ecclesiastica era in realtà sentito da tempo e c’erano stati già dei primi deboli tentativi di riforma. All’inizio del X secolo viene fondato il monastero di Cluny, sede madre di un movimento monastico che si diffonde in modo massiccio con lo scopo di ritornare a vivere la regola benedettina in un modo più consono allo spirito delle origini. Cluny stessa però non sfugge alla logica di trasformazione delle entità ecclesiastiche in entità di potere gli obiettivi riformatori sono dunque in una certa misura traditi. Una nuova ondata di tentativi riformatori risale poi agli ultimi decenni dell’XI secolo: nascono nuovi ordini monastici, che si ripropongono come nuovi interpreti della regola benedettina delle origini. Tra questi sono particolarmente rilevanti gli Ordini certosini e cistercensi. Tra i protagonisti assoluti della riforma dell’XI secolo si trovano poi i membri del clero secolare: vescovi e papi (figure forti che cercano di arrestare la degenerazione della Chiesa in corso). Si è soliti riconoscere questo periodo particolare sotto l’etichetta di “riforma gregoriana” in riferimento al suo maggiore autore: Gregorio VII. Gli obiettivi principali erano due: estirpare i cattivi costumi privati degli ecclesiastici (è infatti in quest’epoca che viene ufficialmente vietato loro il matrimonio) e porre un freno alla simonia (pratica di compravendita delle cariche ecclesiastiche prende nome da Simon Mago, personaggio che voleva comprare da San Pietro la capacità di compiere miracoli). Inizialmente questo movimento aveva anche l’appoggio dell’Impero: l’imperatore voleva infatti porre un freno a certe tendenze di gestione anarchica dei feudi ecclesiastici. Tuttavia, presto la Chiesa e l’Impero iniziano a non essere più d’accordo sugli obiettivi della riforma. Con la lotta per le investiture si contendono infatti il diritto di investire i vescovi delle loro cariche. Tutto ciò si chiude con il concordato di Worms (1122), che stabilisce che la Chiesa si occuperà delle investiture, ma che l’imperatore avrà voce in capitolo nella ratificazione (diritto di veto in Germania). Già nel 1075 la Chiesa aveva poi ottenuto un altro diritto: se infatti Ottone aveva potuto deporre il papa (privilegium Othonis), il papa Gregorio VII stabilisce il diritto di veto del papa sulla nomina dell’imperatore. Tutto questo processo di riforma e di scontro per l’assegnazione delle cariche ha una ripercussione molto forte sulla letteratura esigenza di introspezione. Non è più sufficiente attenersi alle regole per poter dire di essere buoni cristiani perché la verità della buona vita religiosa dipende dalla genuinità del proprio rapporto con Dio (concetti non scontati all’epoca). Nasce dunque una letteratura monastica legata a questa esigenza, che apre però la strada dell’introspezione da qualunque punto di vista (indagine sulla psicologia dei personaggi, utilizzo più frequente dell’io narrante). Si diffondono inoltre trattati di natura politica (al fine di sostenere la Chiesa o l’Impero) e opere satiriche contro gli avversari. Fa parte di questo tentativo di restaurazione dei costumi l’opera di Guiberto di Nogent, che si occupa di un particolare aspetto della degenerazione: il culto delle reliquie. Nel corso del tempo le reliquie erano infatti diventate parte di un modo più magico e superstizioso di intendere la fede (si credeva che andare in pellegrinaggio nei luoghi in cui fossero conservate delle reliquie avesse calamitatum mearum”, resa in italiano come “Storia delle mie disgrazie”. Abelardo conosce Eloisa intorno al 1117 e presto il rapporto maestro-allieva si trasforma in una relazione amorosa. Rimasta incinta, Abelardo la rapisce e la porta con sé in Bretagna, nel suo paese natale: qui nacque nel 1118 il figlio Astrolabio strumento scientifico per calcolare la posizione delle stella e la navigazione. Abelardo dichiara di essere disposto a sposare Eloisa, a condizione che il matrimonio rimanga segreto in quanto chierico. Eloisa era contraria al matrimonio, come documentano le lettere della donna. Ci sono moltissime citazioni dai classici, come Seneca e Gerolamo. Abelardo anche di fronte alle insistenze di Eloisa, impone di procedere con il matrimonio ed questa sarà una cosa che lei gli rinfaccerà sempre. I due amanti si sposano a Parigi, ma nonostante il segreto la notizia viene divulgata. Questa è la svolta decisiva perché per lui è l’inizio di una vergogna infinita. Per evitare scandali, Abelardo invia Eloisa nel monastero di Argenteuil, dove era stata educata. I parenti, pensando che Abelardo avesse costretto Eloisa a farsi monaca per liberarsi di lei, decidono di vendicarsi: una notte, mentre Abelardo dorme nella sua casa, tre uomini lo aggrediscono e lo castrano. All’inizio era uno dei più grandi maestri di Francia e ora arriva a questo stato che avverte come una vergogna. La sua reazione è di nascondersi, per questo entra in monastero e si fa monaco gli sembra il modo migliore di trovare un nascondiglio rispetto al mondo. Una volta presi i voti seguirò la sua “vocazione” molto seriamente: rispetterà la regola, facendosi a sua volta riformatore. Sotto insistenza di Abelardo, si fa monaca anche Eloisa (nelle lettere confesserà che in questa richiesta ha giocato la gelosia, egli temeva infatti che Eloisa si potesse innamorare e concedersi ad altri). Eloisa ha molto a cuore la loro relazione (è quasi devota al marito) e acconsente immediatamente a farsi monaca. Un tratto caratteristico della sua psicologia è la sua totale dedizione al marito e la totale coincidenza con la volontà di lui. Avendo preso gli ordini Abelardo non avrebbe più una condizione sociale compatibile con l’insegnamento, ma ottiene comunque di poter tornare a insegnare (in questo agisce anche il fatto che i suoi confratelli hanno spinto per non averlo intorno). Rimettersi sulla scena pubblica, però, lo riporta anche al centro delle polemiche e lo rende un bersaglio sul piano intellettuale. Si accende l’opposizione di una serie di potenti personaggi monastici che sono ostili al suo modo di insegnare e vogliono fermarlo. In questa manovra contro di lui, il ruolo più influente lo ricopre Bernardo di Chiaravalle, un moralizzatore cistercense. Egli è un intellettuale di grande fama, che si trova ad essere l’uomo più potente della Chiesa perché un suo allievo era diventato papa con il titolo di Eugenio III. Dedica molte sue energie a rovinare la vita ad Abelardo e a farlo condannare ancora nel 1140 per eresia e a scomunicarlo dalla Chiesa: questo sarà per lui il colpo di grazia, che segnerà la sua fine. Nel frattempo ha già scritto l’Historia (1132-1133) che non riporta infatti questo evento. Quando l’opera si diffonde lei risponde con una lettera al marito dicendogli che anche lei vuole dare il suo punto di vista sulla vicenda. Ha così inizio uno scambio epistolare che conta in tutto otto lettere non sono private, ma sono tutte lettere concepite come opere letterarie, che devono parlare all’interlocutore, ma anche al pubblico. Costruiscono così la loro immagine pubblica mentre discutono della loro storia privata. Eloisa scrive per protestare, perché anche la sua è una condizione infelice. Sembra che lei non abbia bisogno di aiuto, perché mentre esercita il suo ruolo di monaca è lodata da tutti, ma questa è solo l’apparenza. Abelardo dovrebbe saperlo e aiutarla, e sarebbe tenuto a farlo perché i due sono sposati. Eloisa non accoglie, anzi respinge, il punto di vista con cui lui presenta la vicenda. La sua chiave di lettura è provvidenziale, perché Dio impedisce ai due amanti di peccare ancora, e in questo modo secondo Abelardo salva le loro anime, costringendoli a passare una vita monastica riconosce in questa disgrazia un’opera di grazia divina, mentre lei no. Il dialogo dell’epistolario si interrompe in modo terribile: lei decide che si sono detti tutto, per lui invece non cambia niente, così devono cambiare discorso. Le ultime lettere parlano infatti del monachesimo femminile, Eloisa accetta di spostare il discorso sulla religione, rendendo chiaro che psicologicamente non ha cambiato idea. Abelardo esce distrutto dalla condanna del 1140. Oltre al fatto che non è tanto in salute, non vede altra speranza di difendersi se non andare ad appellarsi al papa. Non arriverà mai a Roma, si ferma in una delle sedi monastiche più importanti, Cluny, dove in quel momento l’abate è Pietro il Venerabile. L’abate è un uomo di grande pietà, lo accoglie, ha capito che è finito come uomo e per questo lo convince a restare lì. Riesce ad avere anche una riconciliazione con Bernardo. Quando Abelardo è in punto di morte scrive ad Eloisa, le racconta che è morto in pace e manda il suo corpo nel monastero di lei, dimostrando di avere molta sensibilità riguardo il loro matrimonio, che è la stessa sensibilità che è diffusa intorno a loro. I contemporanei non hanno visto la loro storia come una condanna, ma li hanno circondato di affetto. Alla morte di Eloisa le sue monache avrebbero riaperto la tomba di lui per seppellirli insieme (e leggenda narra che lo scheletro di lui avrebbe riaperto le braccia per accoglierla). Questa storia come biografia e come opera letteraria, è uno dei documenti più improntanti della letteratura medievale, tanto che ne è stata negata la verità. La critica ha contestato che Abelardo ed Eloisa potessero essergli autori dell’epistolario, perché era troppo bello e moderno pregiudizio anti-medievale (ma non c’è motivo di non credere all’autenticità letteraria). Di Abelardo incontriamo anche un’opera di natura filosofica. È un testo che appartiene agli ultimi anni della sua vita, che mostra come l’incontro con culture diverse sia arricchente, e non un ostacolo da respingere. L’opera è intitolata “Dialogo”, ma viene spesso citata come “Dialogo tra un filosofo, un giudeo e un cristiano”. Rientra in un antico genere, lo scontro dialogico, che era solitamente tra due personaggi (un giudeo e un cristiano spesso era quest’ultimo ad avere ragione perché gli autori erano cristiani). In Abelardo il vero protagonista è in realtà il filosofo, che è presentato come un pagano e gentile (=appartenente alle genti). Nonostante sia un filosofo arabo (si presume), è il personaggio che incarna la ragione umana quell’elemento comune a tutti gli uomini indipendentemente dalla loro religione. Non c’è uno scontro, ma la ragione che fa da mediatrice. Non è un atteggiamento consueto: Abelardo dimostra molta sensibilità, soprattutto per come parla dei giudei. Il brano racconta com’è la condizione tipica degli ebrei nella società medievale di quel tempo. Gli ebrei vivono isolati nei ghetti, come se fossero inglobati nella società ma contemporaneamente tenuti a distanza ( conseguenza dalla Diaspora, dalla caduta di Gerusalemme; l’atteggiamento teologico dei cristiani accusava gli ebrei di essere gli assassini di Cristo). Qui Abelardo tocca la questione sociale, perché gli ebrei non potevano svolgere le attività dei cristiani, si dedicavano all’usura perché agli altri era proibita. Così facendo si rendevano ancora più odiosi, impegnandosi comunque al funzionamento della società. L’autore mostra di avere empatia verso questo popolo eccezionale, di cui non si riusciva a capire il punto di vista (può aver contribuito il fatto che lo stesso Abelardo si sia sentito per tutta la vita un perseguitato). In quest’epoca sono cominciate le crociate, il clima culturale aveva comportato nuove violenze contro le comunità ebraiche. La prima crociata ha avuto come conseguenza anche una crociata interna, contro gli ebrei (promossa da Pietro l’eremita). Abbiamo detto che il maggior oppositore di Abelardo è Bernardo di Chiaravalle, una figura impressionante per la sua poliedricità. È stato un grande mistico, una delle persone che ha saputo meglio esprimere l’amore per Dio e l’introspezione del monaco nella sua vita religiosa, ma contemporaneamente è stato anche il più influente sostenitore delle crociate. Era un ecclesiastico molto potente e la sua attività è connessa in particolare alla seconda crociata (la prima non aveva portato alla riconquista di Gerusalemme, così ne viene bandita una seconda nel 1147, poco dopo la morte di Abelardo e Bernardo è parte attivo promotore). In particolare sostiene già da tempo la formazione e lo sviluppo di una realtà religiosa particolare e contraddittoria, che sono gli ordini monastici militari i loro appartenenti sono monaci, ma anche combattenti. È chiaro che il concetto non è pacifico, e infatti aveva bisogno di essere sostenuto teologicamente. Bernardo è legato alla fondazione dell’ordine militare più celebre: i Templari, fondato nel 1128. Egli firma infatti il trattato che legittima la loro esistenza e validità (De laude novae militiae ad Milites Templi). Questo nuovo ordine raccoglie un grande successo anche dal punto di vista economico, perché essendo legati alla crociate conquista e ottiene vari territori, ed è destinatario di varie donazioni. Sarà Filippo il bello, re di Francia a distruggerli, sfruttando una propaganda negativa che già esisteva. È stata la loro potenza economica il motivo della loro fine, perché il re di Francia li distrusse prendendo i loro guadagni. Attorno alle crociate fiorisce una nuova letteratura, che si muove appunto attorno al concetto che la crociata è giusta perché mossa da Dio. Un rappresentante di questa letteratura è Guiberto di Nogent, che scrive un testo storiografico sui fatti della prima crociata (Gesta Dei per Francos). La crociata è un’azione di Dio, i Franchi sono un suo strumento. Il fatto che si sviluppi questa letteratura ha un fine non propriamente religioso, ma sostiene soprattutto quelle casate che alle crociate hanno legato la loro fortuna. È il rinnovarsi di una letteratura che si può definire trattatistica. Il mondo universitario è il fulcro di una grande produzione di trattati. Il fatto stesso che ci fosse stato un ingresso massiccio di fonti nuove, costringe a ripensare al sapere. Non basta più recuperare i trattati sulle arti liberali dell’alto medioevo e accostargli le fonti nuove, bisogna mettere in rapporto tutte queste novità con quelli che già si sapeva. Viene riscoperta ad esempio la filosofia di Aristotele, che dà una nuova visione dello “sperimentare” il sapere nasce da una percezione della realtà. Si costruisce quindi un nuovo sistema di libri, che vantano diversità di argomento. A volte sono monografici, ossia toccano una sola disciplina e prendono spesso il nome di “Summa”, che è un termine che nasconde due significati: è l’assommare tutto il sapere, ma anche dare la testa e ognuno deve fare la sua parte altrimenti l’insieme non funziona, ma è particolarmente cruciale come si comporta il capo. Il re deve essere interprete della legge (che gli è superiore), e nel caso in cui usasse il suo potere come tornaconto personale si trasformerebbe in tiranno (in questo caso sarebbe perfino lecito reagire contro di lui). Giovanni legittima il regicidio, perché il corpo dello Stato ha diritto a difendersi contro il tiranno. Il ruolo dell’intellettuale è quello di creare un discorso di persuasione e di farsi sentire; per farlo usa due tipi di argomentazione: 1. dedica la prima parte a una descrizione piuttosto satirica del presente: racconta di come funziona la corte nell’ambiente da cui proviene e delle sue dinamiche malate che rischiano di portare il sovrano a degenerare; ne critica gli adulatori e i ciarlatani che lo portano a sviluppare la sua vanità e i suoi desideri; 2. nella seconda parte passa a un discorso filosofico, basato su fonti antiche (aneddoti della storia greca e romana e un filone biblico cristiano, che ricorre a episodi e modelli della Bibbia, provenienti dalla tradizione cristiana). Crea un discorso che sia un modello di comportamento per il sovrano, ma illustra anche le virtù che ogni essere umano deve seguire e i vizi che devono essere evitati. Ricorrendo alle fonti antiche incarna quell’atteggiamento per cui i classici vengono visti come possibile modello di etica e comportamento, e si possono sovrapporre al messaggio della Bibbia. La ricchezza di citazioni lo rende un autore importante anche come mediatore per la diffusione dei classici. Giovanni ha letto moltissime opere e ha avuto accesso a molti scrittori antichi trasfonderli nella sua opera diventa un modo per renderli accessibili al pubblico. Se si studiano gli autori del basso medioevo le loro citazioni sono riprese proprio da lui. Il suo latino elegante risente di queste letture; ha capacità di scrivere frasi che richiamano l’eleganza classica. Lo studioso “giusto” è colui che studia, legge e conosce per potere fare conoscere agli altri ciò che lui sa. È quello che Giovanni ha cercato di fare con il suo trattato e ribadisce che non può esistere una realizzazione di se stessi senza il confronto con gli altri. Questi concetti anticipano concetti fondamentali anche per Dante. È l’idea che ci possano essere due dimensioni della realizzazione della propria umanità: non solo quella religiosa, ma anche una felicità terrena, che è data dalla consapevolezza di aver fatto il meglio possibile per contribuire al bene di tutti. Giovanni con questa sua impostazione filosofica è il tipico uomo del XII secolo: non si preoccupa di costruire un sistema logicamente giusto, in cui gli elementi vengono spiegati. La suo opera consente di perdersi, ha l’andamento di un ragionamento che si potrebbe fare oralmente, dove si salta anche da un concetto all’altro. Dante che vive un secolo dopo, appartiene a un momento in cui un trattato si costruisce diversamente. Non si sa collocare una data precisa in cui il “De Monarchia” è stato composto: qualcuno sostiene appartenga ai primi anni del 1300, altri lo collegano all’ultimo periodo di vita dell’autore, collegandolo con la storia politica del contesto. È più prudente pensarlo come un testo di lunga gestazione: questa è l’opera principale della sua vita ed è verosimile che l’abbia sempre limata. Quando scrive i rapporti tra potere papale e quello dell’impero, la questione non è risolta. Nel tempo c’erano state diverse reazioni da parte del papato, perché i papi di quel periodo, tutti energici e determinati, tenevano a evidenziare il loro primato sull’Impero, come Innocenzo III e Bonifacio VIII ai tempi di Dante. Gli autori della trattatistica politica di XIII e XIV secolo affrontano la questione in un modo nuovo: si erano rese disponibili fonti nuove e si era diffusa e affermata la logica aristotelica, con i suoi strumenti argomentativi (il sillogismo). Una nuova fonte aristotelica era la “Politica”, la cui traduzione era avvenuta nella seconda metà del XIII secolo. Dante decide di affrontare il tema politico con gli strumenti della logica, conferendo così una grande autorità alle sue conclusioni non fondate su un confronto di modelli, ma su un ragionamento che fila. Dante si pone come nella Commedia, nel ruolo di un trattatista politico che è anche profeta. Dio rientra nel discorso perché la razionalità del reale, quella che l’intellettuale va chiarendo, è una razionalità che Dio stesso ha messo nelle cose. Attraverso la dialettica e il sillogismo l’uomo può scoprire le verità e questo perché Dio ha creato il mondo secondo un progetto razionale. Colui che riesce a tirarle fuori diventa interprete dell’opera di Dio, un profeta. Dante organizza la Monarchia in tre libri, sviluppando tre grandi temi. Egli è sostenitore di un singolo governo e con “monarchia” intende l’Impero. La sua è una posizione di retroguardia perché ormai è chiaro che, per la sua situazione politica, l’Impero non può aspirare a nessun ruolo universale. Si sostiene che la monarchia universale, cioè un impero che abbia potere su tutti, è l’unica forma di governo concepibile. Tutti gli uomini sono un’unica collettività ed è giusto che siano governati da un’unica entità politica superiore condizione uniforme tra i sudditi che permette a ciascuno di sviluppare al meglio le proprio potenzialità. La Chiesa si occupa dell’aspetto spirituale e accanto deve esserci un Impero che si occupi di creare condizioni di pace e giustizia universale per cui gli uomini possano sviluppare le virtù. Il secondo libro sviluppa la discussione teorica riguardo a chi dovrebbe incarnare il potere monarchico. Il giusto detentore è l’imperatore tedesco in quanto prosecutore dell’Impero romano; la prospettiva è quella per cui il potere imperiale è creato da Dio, così come era disegno divino l’Impero romano. C’è una coincidenza storica fondamentale: la condanna a morte di Cristo e la sua crocifissone sono avvenute quando l’Impero era appena formato e sono avvenute per suo ordine. Chi ha emesso la condanna era un funzionario dell’impero e quindi Dio ha voluto fare in modo che esistesse una struttura politica universale, l’Impero romano, che desse un valore universale al sacrifico di Cristo è necessario che coloro che l’hanno messo a morte abbiano giurisdizione dell’umanità intera. Il terzo libro è dedicato al rapporto Impero-Chiesa. È il problema più spinoso, che vanta una controparte molto astuta e vivace (il papa e i suoi sostenitori affermano la supremazia del papa sull’imperatore esistono due poteri distinti, ma quello secolare è subordinato a quello spirituale). Dante in questo trattato si impegna a dimostrare il contrario: quello di cui si occupa l’Impero è un fine diverso rispetto a quello papale, ma entrambi sono guidati da Dio e agiscono in parallelo. Tra i tanti trattati in volgare, troviamo anche quelli a scopo divulgativo, che nella loro ingenuità e semplicità di linguaggio mostrano come fosse viva la richiesta di contenuti. Vediamo l’esempio di un bestiario (il cui archetipo è il “fisiologus” trattato che parla di animali): “Libellus de natura animalium”. Si indaga il comportamento degli animali al fine di ottenere degli insegnamenti utili per l’uomo. In esso si ritrova il senso antropocentrico di Isidoro di Siviglia, ovvero l’uomo nasce con l’intuizione che il mondo sia stato creato a suo beneficio e in quanto tale va usato e interpretato. La poesia ha una grande espansione nel XII secolo: si scrive con maggior consapevolezza rispetto ai secoli precedenti. La fonte principale è Ovidio, che viene riletto largamente: si tratta di una poesia rivolta a un pubblico dotto. In questo periodo si stava già sviluppando una poesia volgare, percepita come un ampliamento a un pubblico più basso; la poesia latina si innalza quindi su un piano dotto. All’interno del mondo della poesia si trovano diversi filoni: 1. il primo è quello della poesia epica, che aveva avuto uno sviluppo cristiano ed era stata ridotta a un intento esclusivamente didascalico; ✓ successivamente si sviluppa un’epica eroica che ha per soggetto eroi dell’antichità. La materia eroica condivide i temi con l’epica romanza. Uno dei testi da ricordare è quello di Gualtiero di Chatillon che scrive un poema su Alessandro Magno che diventa immediatamente un testo scolastico, accanto ai classici. Si tratta del primo esempio di materia classica trattata con intenti cristiani. Fino ad allora Alessandro era identificato come inarrestabile: eroe della dismisura e del superamento dei limiti. Gualtiero lo mostra avventuriero e affascinato dalla voglia di esplorare, ma contemporaneamente mette l’accento sull’ombra di superbia che deriva da questo atteggiamento; ✓ per quanto riguarda l’epica didascalica si ricordano le Metamorfosi, che sono una summa della mitologia classica, un’enciclopedia intuirono che il giardino dell’Eden si trovasse in estremo Oriente. Il contributo maggiore da parte della letteratura cristiana sono i Vangeli apocrifi: il più interessante è quello di Tommaso, che evangelizza l’India. In Oriente venne collocato anche un popolo violento e distruttivo, che si sarebbe abbattuto sui cristiani. Il profeta Ezechiele aveva scritto di Gog, re di Magog, distruttore di Israele: il libro dell’Apocalisse trasforma Gog e Magog in due popoli distinti e li carica di valore simbolico come pre-annunciazione dell’apocalisse. Questo motivo biblico e cristiano si incrocia con le testimonianze di Alessandro Magno, che racconta di aver costruito un enorme muro a nord per difendere la civiltà da questi popoli questo spazio onirico si traduce in una rappresentazione cartografica. Una delle leggende più fiorenti legate all’Oriente è quella del prete Gianni, potentissimo sovrano cristiano, che aveva il suo dominio in Oriente. Il suo nome in latino era “presbitero Giovanni”, avendo avuto però grande successo in Francia (Gian) si restituisce in italiano come Gianni. La letteratura basso-medievale produce diverse “Lettere del prete Gianni”, nelle quali viene descritto un regno meraviglioso e dai tratti utopici, simili ai loci amoeni dell’antichità. Quando si verifica la conoscenza diretta dell’Oriente le cose cambiano. L’Asia acquista un nuovo assetto con la formazione dell’Impero mongolo, che nel 1240 si abbatte sull’Europa. I mongoli hanno un aspetto così diverso dalle popolazioni europee che si crede possano essere i popoli apocalittici che avrebbero causato la fine del mondo. Alla morte del condottiero Gengis Khan i mongoli sono però costretti a fermarsi: la loro struttura sociale era molto verticistica ed era necessario trovare l’erede migliorie. Questo porta all’Asia un intero secolo di unificazione, le frontiere vengono aperte ed è possibile viaggiare agevolmente, principalmente con tre intenti: 1. commerciale (Marco Polo); 2. politico e/o diplomatico (stabilire contatti con i mongoli per sondare la loro posizione nel conflitto delle crociate); 3. religioso (evangelizzare queste nuove popolazioni). Una maggiore accessibilità al mondo orientale non demolisce però l’immaginario che persisteva nei secoli molti tornano dall’Asia dicendo che queste figure fantastiche esistono (sono in pochi a smentire). Un viaggiatore molto razionale e lucido è Guglielmo di Rubruk, fiammingo al servizio di Luigi IX, re di Francia, canonizzato santo in quanto promotore delle crociate. Luigi è interessato d allearsi con i mongoli e invia Guglielmo, frate francescano, in avanscoperta, il quale guarda a questo viaggio in modo missionario, come occasione di evangelizzazione. Il frate parte da Costantinopoli nel 1253 e si spinge fino a Karakorum, capitale dell’impero mongolo. Compie in totale 5600 chilometri un po’ a sorpresa: viene rimbalzato di sovrano in sovrano, finché non arriva alla corte del gran Khan, presso cui si ferma qualche mese. Tra andata e ritorno fa 12000 km di viaggio e al ritorno ha una brutta sorpresa: Luigi si è spostato altrove e lui deve restare ad Antiochia, per rispettare il volere dei suoi superiori religiosi. Mentre si trova bloccato in Turchia scrive quindi “Itinerarium”: una lunga lettera di resoconto indirizzata al re Luigi. L’opera viene scritta anche sulla base di un diario, che l’autore probabilmente ha tenuto durante il viaggio, perché è molto ricca di dettagli. Guglielmo affronta il popolo “alieno” con curiosità e divertimento. Il suo è un racconto oggettivo, che racconta pregi e difetti ed è in contrasto con le descrizioni di altri viaggiatori riguardo al popolo mongolo (visto appunto come popolo dell’apocalisse: uomini crudeli e assassini). Guglielmo ha la possibilità di constatare quanto vi era di sbagliato nei libri (concetto sconosciuto ai medievali): contesta la descrizione del mar Caspio (Isidoro di Siviglia), secondo la quale il mar Caspio sarebbe un golfo. La stessa libertà di pensiero la esercita nei confronti del prete Gianni, di cui distrugge il mito: capisce che quella figura è collegata ai re-sacerdoti nestoriani. Il contatto reso possibile dall’Impero mongolo non dura a lungo, quando i cinesi riprendono il potere non è più così facile viaggiare (rimane comunque meno lontana e meno mitizzata). Il XII secolo è stato secolo dell’esplosione della poesia, ma dal XIII si riscopre anche la prosa, anche dal punto di vista della codificazione retorica e delle tecniche di scrittura materia di approfondimento scolastico. Vengono riscoperti i trattati di retorica antica e sulla base di questo approfondimento si formulano nuovi manuali e nuove regole. Si approfondisce lo studio delle tecniche retoriche di costruzione di un testo scritto e si sviluppa l’idea che abbia particolare importanza la costruzione ritmica della fine dei periodi. Le basi di questa idea sono corrette, ma sono state deformate: la lettura dei classici diffonde la percezione che gli autori stessero attenti alle successioni di parole, sillabe e accenti alla fine dei periodi. La prospettiva è già fuorviata: è vero che nella retorica classica esiste una retorica delle clausole, ma è basata sulla percezione quantitativa (successioni di vocali lunghe e brevi), nel medioevo invece le regole vengono codificate in termini di numero di sillabe e posizione degli accenti. Questa tecnica, detta di “ritmo prosastico”, in latino si chiamava “cursus”. Ne vengono codificati diversi, ma la preminenza viene data a tre tipologie: 1. Cursus planus. È la forma prioritaria nonché quella più normale prevede che la clausola sia formata da una successione di sillaba tonica +due atone+una tonica+una atona (parola piana seguita da un trisillabo piano). Può esistere anche una forma alternativa, una clausola detta “eterotoma”, cioè diversa: ad esempio, penultima parola sdrucciola e ultima parola bisillabo piano; 2. Cursus tardus. Prevede una coppia di sillabe atone a intervallare le ultime due sillabe toniche e infine ancora due atone (parola piana seguita da un quadrisillabo sdrucciolo la clausola finale è sdrucciola). Clausola eterotoma: parola sdrucciola seguita da trisillabo sdrucciolo. 3. Cursus velox (il più elegante). Le due sillabe accentate sono divise da quattro atone intermedie effetto di accelerazione. Parola sdrucciola seguita da quadrisillabo piano, oppure parola piana seguita da pentasillabo sdrucciolo. Una delle sillabe atone può essere costituita anche da un monosillabo (senza valore semantico e fonetico). Esistono anche altre forme, ognuna con il proprio nome, ma queste sono quelle nettamente preferite. Vengono scritti dei manuali, detti “Artes dictandi”, che spiegano appunto il modo di scrivere in prosa elegante. “Dictandi” perché si pensa che la composizione avvenga attraverso la dettatura a un segretario che scrive. Questa specializzazione di studio ha un senso pratico: chi è capace di scrivere in prosa ha ottime possibilità di ingaggio nella cancelleria, al servizio di sovrani e della curia. Tutte le entità politiche che hanno una vita diplomatica hanno necessità di professionisti del dictamen, ma questo atteggiamento dura poco. Quando gli umanisti iniziano a leggere i testi cercandone la musicalità, si accorgano che questa normalizzazione della prosa è un’esagerazione, una forzatura. Questo sistema di regole viene presto a cadere. Il cursus però ha dei vantaggi sul piano filologico. È utile ad esempio a fini attributivi: nella letteratura medievale non sempre è chiaro chi sia l’autore di un testo e i documenti medievali sono spesso instabili: si può sapere chi sia l’autore del testo originario, ma capita anche che il testo possa circolare in forme interpolate. La preferenza di un autore per un certo tipo di cursus è indicativa. Al di là delle tre clausole più diffuse, ogni autore ne utilizza anche altre, meno diffuse, per cui ha magari una particolare predilezione. In questo senso il cursus è uno strumento filologico: è un ottimo criterio di usus scribendi. Il parlato si va divaricando sempre più dalla lingua scritta. Il latino scritto, nei primi secoli del medioevo si allontana molto dagli standard del latino antico. Poi c’è una frattura, causata dalla riforma culturale carolingia, durante la quale si torna a un latino che corrisponde più o meno all’età patristica (non quello classico). Dopo la riforma carolingia la linea si abbassa leggermente verso il parlato, fenomeno che si accentua nel basso medioevo. Questo fenomeno riguarda però il lessico e non la morfologia e la sintassi. Una causa sono le traduzioni dal greco, che introducono non solo concetti, ma anche esempio il grande valore dei cittadini); quest’autore usa però dei parametri il più possibile oggettivi e numerici. Egli elenca infatti motivi e punti di forza della città dando delle cifre precise, facendo un catalogo dei beni, dando delle misure. C’è un motivo a riguardo ed è la sua appartenenza come terziario all’ordine religioso degli Umiliati. È un ordine di nuova formazione: sono legati alla religiosità cittadina e sperimentano nuovi modi di aggregazione, diversi dal monachesimo tradizionale. Questi religiosi conducevano una vita religiosa, ma potevano anche accogliere delle persone di stato intermedio (laici che si affiancavano alle attività dell’ordine cosiddetti “terziari”). Gli Umiliati erano stati incaricati dalla città di Milano di occuparsi del catasto, cioè di tenere conto di misurare tutto ciò che riguardava la vita pratica della città (censimento dei cittadini, delle case, dei mulini, delle botteghe), quindi eseguivano operazioni statistiche. L’effetto che crea l’autore è una descrizione della città molto credibile e autorevole. Descrive la città non facendo un percorso cronologico, ma tematico, raccontando cioè le motivazioni delle eccellenze di Milano da diversi punti di vista. Alcuni sono materiali, come la conformazione del territorio o gli edifici, altri sono relativi ai valori: quanto i milanesi siano credenti o l’importante storia ecclesiastica che Milano ha avuto. Inoltre fa notare che la sua Chiesa si sviluppa da un discepolo diretto di Paolo, e quindi è stata fondata cronologicamente prima di Roma. Suggerisce anche che il papato potrebbe essere spostato a Milano. Un elemento di grande rilevanza è la dignità del popolo milanese, che si sa difendere dalle invasioni discorso legittimato attraverso dati e racconti storici. Uno degli elementi più forti della riforma ecclesiastica che segna il basso medioevo è il riavvicinamento al Vangelo e al suo messaggio. Si predicava una vita che imitasse Cristo e il suo modo di vivere, accusando un clero che non incarnava più questi valori. Spesso questi tentativi di riforma hanno dato origine a comunità dottrinali, considerate però come eretiche e che non hanno mai ottenuto un posto nella storia della Chiesa, se non come nemici. Dal primo Duecento questi movimenti riformatori (abbastanza moderati) vengono riconosciuti dalla Chiesa. I principali sono l’ordine francescano (san Francesco d’Assisi) e quello domenicano (Domenico di Guzmán). Vengono chiamati ordini “mendicanti” perché un loro caposaldo era la povertà (respingono la proprietà privata e per vivere dipendono dall’elemosina di altri frati). Non sono monaci perché conducono una vita diversa: mentre i monaci vivevano in un ambiente chiuso, isolato dal resto del mondo e lontano dalle città, gli ordini mendicanti nascono al loro interno, in un clima pienamente cittadino. Il frate non deve risiedere nel suo monastero, ma muoversi in continuazione scopo di interagire con i popolo cristiani della città. I compiti principali sono infatti la predicazione e l’inquisizione (gestire tribunali ecclesiastici), ma si dedicano anche all’insegnamento nelle università. I domenicani si occupano soprattutto di teologia, mentre i francescani hanno più interesse per le scienze naturali. Ma non è una distinzione assoluta: anche il domenicano Tommaso d’Aquino osservava il metodo dell’osservazione spirituale della natura; tra i francescani troviamo invece Guglielmo di Ockham e Ruggero Bacone. Quello che interessa la loro produzione scritta è la predicazione. Avere il compito di interagire con un popolo a cui insegnare i rudimenti della fede e del comportamento ha delle conseguenze sulla produzione di testi e infatti francescani e domenicani adottano una serie di strumenti strategici per svolgere questo compito a largo raggio. Proprio perché si spostano molto, spesso devono predicare riguardo alle vite di santi che conoscono poco o nulla e devono essere pronti a comunicare a categorie sociali diversi. È necessario avere quindi un repertorio, così creano una sorta di “canovaccio”: raccolte di sermoni prefabbricati che possono adattarsi, con qualche aggiustamento, alle diverse situazioni, oppure raccolte di exempla (incentrato sulle vite dei santi agiografie). I santi incarnano il miglior modello possibile di comportamento cristiano ed episodi tratti dalla loro vita sono un modo efficace di parlare a un pubblico semplice. Come abbiamo detto, però, i predicatori necessitano di testi ritoccati, che siano anche brevi per essere raccolti in gran numero in un libretto solo, comodo anche per i continui viaggi. Quest’ultima evoluzione del genere agiografico prende il nome di “leggendari abbreviati” ( raccolte di leggende condensate). Gli autori di questo nuovo filone recuperavano le fonti precedenti, tagliandole e abbreviandolo con obiettivi specifici. Il più importante di questi testi è quello del domenicano Iacopo da Varazze, intitolato “Legenda aurea” (il migliore tra tutti), che si è infatti imposto come standard. Le fonti sono passiones, a cui l’autore interseca notizie che derivano dagli apocrifi. Una caratteristica dell’opera è che si inizia sempre con la spiegazione del nome del santo. Spesso nella letteratura monastica la descrizione del rapporto con Dio si esprime attraverso la rappresentazione di una visione divina. Parliamo quindi di un nuovo genere che si afferma, quello dell’esegesi mistica (fondata appunto su esperienze mistiche, nelle quali gli autori raccontano di aver avuto un incontro diretto con Dio). Il contatto con Dio non passa attraverso la normale vita della comunità ecclesiastica, ma è un’esperienza di passione che rende il mistico una figura differente. La percezione di avere avuto questo privilegio si traduce in un insegnamento pratico che si cerca di dare agli altri. L’autore può descrivere la sua esperienze per rendere onore a Dio, in altri casi acquista invece un ruolo profetico. Le autorità ecclesiastiche sono a disagio con i mistici (tra la gente comune acquistano invece grande prestigio sociale): si crede a ciò che raccontano, ma così facendo possono dire tutto ciò che vogliono e per la Chiesa può essere un problema. Un caso particolare è quello di Ildegarda di Bingen, una monaca tedesca a cui viene permesso di predicare in pubblico nelle chiese (monaca + donna con permesso di predicare in pubblico: questo ci fa capire il livello di deferenza che la Chiesa riserva a queste figure). In altri casi invece la Chiesa prendeva le distanze perché a volte queste esperienze sembravano indotte da stati di cattiva salute psichica: racconti di anoressia o altre turbe che però da parte degli autori vengono interpretate come esperienze divine, fatte anche in buona fede.
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