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Letteratura spagnola II, Appunti di Letteratura Spagnola

Domande e risposte frequenti di letteratura spagnola II con Elisabetta Sarmati, con integrazioni di tutti i libri in programma.

Tipologia: Appunti

2020/2021

Caricato il 01/10/2023

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Scarica Letteratura spagnola II e più Appunti in PDF di Letteratura Spagnola solo su Docsity! 1. Il romanzo picaresco nel Lazarillo de Tormes. La scrittura picaresca nasce con delle caratteristiche che dimostrano una totale rottura con i temi e gli schemi narrativi precedenti. I protagonisti non sono più coloro che appartengono a una classe sociale alta, ma sono figli del popolo. Le loro imprese non sono più cavalleresche, ma sono avventure che li vedono confrontarsi con le difficoltà quotidiane. Il termine ‘picaresco’ deriva da picaro (umile, miserabile), un povero orfano oppure figlio di genitori ma senza onore (honra) - come nel caso di Lazarillo - che per sopravvivere finisce a fare il ladruncolo -> il picaro deve cercare di crearsi la propria fortuna anche compiendo azioni poco rispettabili, come rubare. Nel romanzo picaresco ricorrono i seguenti temi: - L’essere un reietto, emarginato sociale che non ha nulla e farebbe qualsiasi cosa pur di sopravvivere -> la fame e la povertà come moto principale degli eventi - L’essere servo di più padroni -> nel caso di Lazarillo lo aiutano a uscir fuori dalla sua condizione di povertà (ascesa sociale -> medrar = prosperare) sia per i loro insegnamenti morali che per le mansioni che gli concedono -> il padrone cieco gli dà insegnamenti di vita; l’arciprete, facendogli vendere vino lo fa arricchire. - L’essere errante, mai fermo nello stesso posto - Critica al mondo ecclesiastico e soprattutto al clero, corrotto e ipocrita -> il caso del Lazarillo (ménage a trois Lazarillo-moglie-arciprete) e la descrizione del 2° padrone, prete avaro - Racconto in prima persona Opera da cui prese maggior ispirazione: Asinus aureus/Metamorfosi di Apuleio -> stessi temi Opere che si ispirarono di più al Lazarillo: Oliver Twist e David Copperfield di Dickens 2. Edizioni del Lazarillo e data di composizione. 4 edizioni simultanee, 1554: “La vida de Lazarillo de Tormes y de sus fortunas y adversidades” - Alcalà de Henares – aggiunta di alcuni passi con i quali avventure di Lazzaro risultavano ampliate - Anversa (Amberes in spa) - Burgos – aggiunta di illustrazioni ragazzo e padrone dai capp. III-VII - Medina (la più simile alla princeps (primo manoscritto apparso e tramandato)), MA non lo è perché pubblicata qualche giorno dopo le altre: – si conserva in un'unica copia rinvenuta solo nel 1992 poiché la libreria fu sepolta –, e aveva 4 illustrazioni nei capp. III-V-VI-VII 1555 – ad Anversa esce nuova edizione “Segunda parte del Lazarillo de Tormes” • 1559 - Ci fu un silenzio stampa di circa un ventennio, perché il Lazarillo era stato messo nell’indice dei libri proibiti dall’Inquisizione. 1573 – Juan Lopez de Velasco pubblica un’edizione espurgata del Lazarillo accorpata all’opera “Propalladia” di Naharro 1599 – grande successo editoriale 3. Perché il Lazzarillo viene definito un romanzo realista? Ci sono diverse ragioni che ce lo fanno pensare: - Il focus sulla rappresentazione della vita quotidiana di un povero servo antieroe che deve sopravvivere in un contesto difficile, la vita quindi non viene idealizzata, è umile - attraverso le esperienze di vita del malcapitato, l’autore vuole fare una critica alla società del tempo (vizi e difetti di nobiltà e clero) - il fatto che sia scritto in prima persona, fin dalla sua nascita, dà una prospettiva del tutto realistica e immersiva e fa immedesimare il lettore - lo stile utilizzato è semplice ed essenziale, il linguaggio è colloquiale e senza fronzoli 4. Autore nel Lazzarillo de Tormes. Sebbene l’autore rimanga anonimo per cause che possono riguardare la paura della censura da parte dell’Inquisizione per gli argomenti controversi trattati, si è pensato a 3 possibili autori: - Diego Hurtado de Mendoza - Sebastián de Horozco - Juan de Valdés. 5. Prologo del Lazzarillo. Con il prologo inizia il racconto in prima persona del protagonista, e possiamo notare che l’intera opera è strutturata come un’epistola autobiografica -> forma epistolare a modello di quella di Platone e Petrarca. Il prologo funge da lettera in cui il protagonista decide di raccontare la storia della sua vita fin dagli inizi, confessando tutti i suoi peccati commessi, rivolgendosi ad un’entità che lui chiama ‘Vuestra Merced’, il che ci porta a pensare che sia probabilmente una figura vicina all’arciprete di San Salvatore. Il motivo che lo porta a raccontare tutto è proprio il famoso e scandaloso “caso”. 6. I modelli del Lazzarillo de Tormes. Il modello principale a cui si rifà principalmente il Lazarillo è l’Asinus Aureus di Apuleio, essendo un racconto in prima persona e avendo il motivo del ragazzo in viaggio, servo di più padroni. Altri modelli si possono considerare i due racconti autobiografici di Cingar e Falqueto. 7. Racconta il I Tratado del Lazzarillo di Tormes. (Con tratado si intende capitolo) Ogni capitolo corrisponde ad un nuovo padrone. Nel primo capitolo, si introduce il 1° padrone: è un cieco. È un mendicante imbroglione, ma gli dà tante lezioni di vita. Lo porta a Toledo e gli fa sbattere la testa contro la statua di un toro, cosa che si ripercuoterà contro di lui in seguito. Lazaro beve dalla sua brocca con la cannuccia per imbrogliarlo, e inoltre crea un foro sotto cosicché la possa bere anche stando sdraiato sotto alle sue gambe: il cieco lo scopre e gliela rompe in testa. Stessa cosa con l'uva e la salsiccia. Lazaro se ne approfitta perché il cieco gli dà poco, ed è anche violento e burbero. Lazaro gli continua a fare tanti dispetti finché durante un giorno di pioggia, gli fa sbattere la testa contro una colonna e così si rivendica per tutta la violenza subìta. Lazaro scappa. - > struttura circolare poiché all’inizio il padrone gli aveva fatto sbattere la testa. 8. Racconta il II Tratado del Lazzarillo. Rojas sceglie il dialogo vivo (la prosa) che è implicitamente azione drammatica: teatro. È teatro a livello potenziale: uno schema di commedia travolto da una geniale inadempienza di norme. Il primo scompenso sta nel rapporto tra l’unità di tempo complessiva e la pluralità dei tempi in cui è divisa l’azione. Non c’è modulo teatrale fisso ma sono i fatti e i pensieri dei personaggi a fissare la durata delle scene. Quindi l’opera è come se seguisse la psicologia dei personaggi. Inizialmente viene pensata come commedia, ma le molteplici morti grottescamente assurde l’hanno catalogata come tragicommedia. È dunque teatro, ma scritto in progressione, senza preoccuparsi della messa in scena. Il genere inizia a diffondersi con l’Amphitruo di Plauto che assieme a Terenzio è un grande modello per Rojas per il sistema narrativo e per i personaggi. Amphitruo: Giove, preso d'amore per Alcmena, ha assunto le sembianze del marito di lei, Anfitrione, mentre costui combatte contro i nemici della patria. Gli dà manforte Mercurio, travestito da Sosia; egli si prende gioco, al loro ritorno, del servo e del padrone. Anfitrione fa una scenata alla moglie, e i due rivali si danno l'un l'altro dell'adultero. Blefarone preso come arbitro, non può decidere quale dei due sia Anfitrione. Poi si scopre tutto; Alcmena dà alla luce due gemelli. Alla luce di ciò è opportuno introdurre il concetto di Ruota di Virgilio, così chiamata perché Virgilio coltivò i tre stili che sintetizza i livelli che utilizza nelle sue opere: Bucoliche (umile), Georgiche (medio), Eneide (grave). Al tempo vi era una distinzione tra stile grave o sublime, stile umile o basso e stile mediocre o medio. La tragedia coincideva con il grave, la commedia con l’umile. Non c’è tragedia se i protagonisti non sono di una certa elevazione sociale, bisognava trovarsi in un contesto aulico. Plauto mescola personaggi alti a personaggi bassi (come i servi); stile a volte alto e a volte basso. 15. Temi e Personaggi della Celestina La vicenda ruota attorno a 3 temi: 1. L’appagamento dell’amore 2. La sete di denaro/fortuna 3. La morte È il racconto dei primi due temi verso il trionfo del terzo; il resto è tutto un groviglio, strategia di pensieri. L’equilibrio che ne deriva è insieme elementare e complesso, regolato da meccanismi che è facile individuare al di là della struttura dialogica. Uno di questi meccanismi è quello degli spostamenti. L’opera è tutta costruita su un preciso schema itinerante; il dinamismo dei personaggi, seguendo la linea tortuosa dei 3 temi, acquista un’importanza che trascende quella dei normali movimenti di scena. Vi sono 2 ritmi principali: 1. Uno intermedio, preparatorio, che esprime indizi e avvertimenti di ciò che sta per accadere (soste e dibattiti nelle case di Calisto e Celestina, monologhi, conversazioni lungo la strada) 2. Uno centrale, che è il punto di arrivo dell’altro (visite e convegni in casa di Melibea) La struttura formale della Celestina è quindi data dall’alternanza fra pochi nuclei drammatici in cui si celebra l’evento-base (cioè l’adescamento, la soddisfazione dei sensi), e un itinerario di “viaggi in città” che ne costituisce la preparazione accurata, il lento sottofondo. Ma questo avvicendarsi di ritmi ha le sue costanti: • C’è una triangolazione precisa secondo una linea che va da Calisto a Melibea passando per Celestina, con varie ambascerie, e tutto nel senso di viaggi di andata e di ritorno, in due fasi successive • C’è un fitto gioco di interni ed esterni: da una parte l’attesa (giardino, muro finestra); dall’altro il dialogo pieno, la battaglia incerta o vittoriosa (soggiorno, ingresso, alcova) -> stasi all’aperto e azione al chiuso. Si può ricondurre alla questione pubblico-privato. • C’è un gioco, meno evidente, di alti e di bassi: un moto verticale che va dalla strada, dal pianterreno, a stanze o piani superiori cui si accede salendo le scale, saltando muraglie -> si vince la resistenza superando ostacoli e si gode dell’amore. Il fatto che i personaggi siano tutti in movimento da un punto all’altro, che siano sempre per partire e far ritorno, è una rappresentazione scenica di una ruota della fortuna medievale, in cui la simbolica rassegna dei casi e dei personaggi ha ceduto il posto a una concentrazione di eventi in una città e in un tempo oggettivi, un labirinto divenuto reale e urbano. Come si conclude il giro della ruota, finisce anche la vita dei personaggi principali, che sembrano quasi tutti morire “dall’alto”, per cause di forza maggiore. La triangolazione dei viaggi è il simbolo della tensione di Calisto verso Melibea nel senso di un cammino deviato. Incapace di arrivare all’oggetto del desiderio con la forza del proprio linguaggio, cioè con un cammino rettilineo, il cavaliere allunga il percorso ricorrendo al denaro e all’inganno e coinvolgendo nelle deviazioni i servi, Celestina e Melibea. Vi è una corsa dei due appetiti umani, lussuria e denaro, che si incrociano e si alleano tendendo a ciascuna delle 3 case/moradas. • Per Celestina il vero obbiettivo è la casa del cavaliere-amante, dove nasce la passione che può degradarsi ad affare; la casa di Melibea, invece, è solo lo strumento, il teatro dell’opera di mezzania. • I servi aspirano alla casa di Celestina che ospita le loro giovani amanti, e che custodisce il denaro di cui vogliono appropriarsi; a questo fine diviene strumentale la casa di Calisto di cui conoscono i segreti • Per Calisto, la casa di Celestina è in funzione di quella di Melibea. Il circolo delle combinazioni si chiude nella stanza da letto di Melibea. Solo Melibea è visitata e non visitatrice, è un punto fermo. Tutto si conclude con la morte: le due corse si arrestano, gli eroi precipitano dal culmine dei poteri sfiorati. Tutte le dinamiche acquistano il significato di un gigantesco assurdo davanti a questa finale immobilità. Il movimento è nella Celestina il simbolo della vanità della ricerca, dell’inutilità del desiderio. Personaggi: Calisto: È un nobile viziato, egocentrico ed immaturo. Non è mosso dal vero amore per Melibea, bensì dall’ottenere il suo oggetto dei desideri. Si rivolge a Celestina per ottenere i suoi favori amorosi e diventa il protagonista maschile della storia. Melibea: È una giovane nobildonna e oggetto dell'amore di Calisto. Ha subìto un’educazione oppressiva da parte del padre, Pleberio. All'inizio respinge le sue avances, ma improvvisamente si innamora di lui per l’incantesimo fatto da Celestina. Celestina: È una mezzana che si occupa di fare da intermediaria nei giochi amorosi. Celestina svolge un ruolo fondamentale nella storia, manipolando gli altri personaggi per i propri interessi. Punta solo al proprio interesse ed è persuasiva. Sempronio: Uno dei due servi di Calisto. Sempronio è un cinico, disprezza i ricchi ma non riesce mai a ribellarsi a loro, essendo di indole passiva. Si approfitta di Calisto, è falso e bugiardo. Incarna debolezza di spirito e di carattere. Parmeno: È un altro servo di Calisto che disapprova le azioni del padrone e cerca di mettergli dei paletti. È leale al suo padrone, a differenza di Sempronio. Anche lui ha trascorso l’infanzia nel bordello di Celestina, ma la rinnega e tenta un’ascesa sociale presso la corte. Sosia e Tristan: entrambi amici di Calisto, sono puri e genuini, senza secondi fini. Sosia si infatua di Areusa. Areusa: È una giovane prostituta, figlioccia di Celestina. Grazie alla sua professione, si può considerare un’arrampicatrice sociale, poiché è riuscita ad ottenere un amante fisso e a farsi mantenere da Parmeno. È indipendente e libera. Elicia: prostituta di Sempronio e figlioccia di Celestina. Spera di elevarsi socialmente con lui, ma alla fine rimane sempre frustrata dal trattamento superficiale che le riserva. Ha un carattere sprezzante ed impulsivo. Quando muore la sua protettrice, si sente finita e cerca vendetta. Centurio: protettore delle prostitute. Lussurioso e bugiardo, le sfrutta per ottenere ciò che vuole. In realtà è tutta facciata, poiché è un codardo. Lucrezia: È la serva di Melibea e cerca di proteggerla dall'influenza negativa di Celestina. Vive una vita di esclusione e reclusione, in quanto è povera, non attraente e sempre chiusa in casa, a differenza di tutti gli altri. Nonostante provi invidia verso la bella vita della sua padrona, le due hanno un bel rapporto e sono una la confidente dell’altra: grazie a Lucrezia, Calisto e Melibea possono incontrarsi ogni notte. Pleberio e Alisa: genitori di Melibea. Lui si presenta come un uomo molto anziano e sempre occupato che si sente perso alla morte della figlia. La moglie viene totalmente oscurata da lui. È una donna molto ingenua, e permette a Celestina di entrare a casa sua. 16. La Lingua Mozarabe, Caratteristiche Lingua parlata dai cristiani in territorio arabo: si tratta di una lingua protoromanza con alcuni termini arabi. Presenta alcune caratteristiche simili all’antico castigliano. Livello fonologico: • Conservazione dei gruppi iniziali consonantici latini CL-, FL-, PL • Mancata lenizione delle consonanti sorde intervocaliche: T→ D; P →B; C→G • Amore come coincidenza degli opposti Strofa 4: Poeta prova (è quasi impossibile riuscirci poiché è una bellezza sublime e ineffabile) a descrivere la bellezza della sua amata (occhi, fianchi, guance) con metafore -> accostamento ad elementi naturali -> guance come giardini dai quali non si possono cogliere fiori poiché protetti da sciabole -> le ciglia, elemento ricorrente nelle muwasshaha. • Descrizione bellezza donna amata Strofa 5: Tutti i versi fungono da introduzione per la jarcha, dove c’è la figura della fanciulla tredicenne che soffre d’amore per l’amato/amigo che se ne va e non torna. Inizia la transizione da io lirico maschile a femminile: la fanciulla si rivolge disperata alla madre che però non risponde, poiché nelle jarchas non è importante la sfera narrativa, bensì quella lirica -> giovane cuore che batte e attende. 21. Analisi di una Jarcha dalla 2 alla 10 Caratteristiche delle jarchas: • iniziano sempre in medias res (nel bel mezzo degli eventi) • finiscono in ex abrupto (si interrompono bruscamente) • queste peculiarità riflettono il tema dell’incertezza psico-emotiva nella fanciulla -> carattere epigrammatico (tragico) I versi sono molto brevi, e possono essere catalogati in 2 modi: versi di arte menor (inferiori ad 8 sillabe), e versi di arte mayor (superiori a 8 sillabe). I-VI lessico romanzo IX-X lessico arabo II -> quartina irregolare. • Confidente: madre -> figura retorica in quanto il destinatario è ideale e serve solo per enfatizzare il dolore/amore. Questa jarcha fa parte della categoria delle alboradas -> incontro o separazione all’alba. • Amore clandestino -> i due amanti si incontrano di nascosto • Nomina l’amante • Metafora volto dell’amato con il volto del sole (faz de aurora), come se il giovane portasse l’alba, quindi la luce e la felicità III -> ripetizione sintagma “tant’amare” • Confidente: habibi, amato, amico “enfermaron los ojos…” torna il tema dell’amore-dolore -> prova sofferenza d’amore come prova dolore per malattia. Amante sia portatore che salvatore del male. IV -> scritta da poeta ebreo famoso, Juedà – a – Levi. Troviamo un termine nuovo e mai utilizzato prima: GARIR -> dire • Confidenti: sorelline. Gli fa domanda retorica, poiché non attende risposta -> in cuor suo sa già che se l’amato non tornerà (morto), lei si suiciderà per ricongiungersi a lui. V -> tema malattia d’amore. • Confidente: Yah Rabb -> Oh Dio -> interlocutore superiore, Allah “cuore va via da me” -> metafora per amato che va via “malato” -> si riferisce al cuore che soffre per la lontananza VI -> distico • Confidente: madre L’habibi è alla porta e lei è spaventata, incerta ma anche desiderosa di farlo entrare. VII-X tema erotico pregnante, donna più attiva VII -> distico. Poeta ebreo. Fanciulla non vuole più vedere l’amato e lo allontana poiché ci fa intendere che si è comportato male (como si fueras un extrano) e non lo farà più stare sul suo petto. VIII -> fanciulla invita amato (Ibrahim) a dormire con lei; se non venisse, lei è disposta ad andare da lui -> donna attiva, libertà di costume IX -> fanciulla invita senza mezzi termini e senza pudore l’amato ad andare a letto con lei (ti amerò solo se unirai la mia cavigliera ai miei orecchini) X -> fanciulla si rivolge a Dio. Caccia un amante troppo frettoloso e si altera -> rifiuto per chi non merita 22. Lirica Gallego-portoghese Secondo Pidal, jarchas, cantigas de amigo e villancicos hanno una radice comune; tutte sono Frauenlieder, ovvero canzoni poste in bocca ad una donna. Nella Spagna medievale esistevano 4 nuclei lirici: • Arabico-andaluso: lirica mozarabica (jarcha e muwasshaha) • Gallego-portoghese: (cantigas de amigo, amor e maldizer) proviene da lirica trobadorica (occitana) -> la trasmissione di questa lirica dal sud della Francia al nord della Spagna è avvenuta grazie al pellegrinaggio per il cammino di Santiago -> rinominato “Santo della Reconquista” per favorire l’unione dei regni Cristiani per fini religiosi (crociate) quando in realtà il motivo principale era l’attribuzione e il monopolio di lingua, cultura e potere su più territori possibili. I trobatori occitani dalle corti francesi si spostarono in quelle di Galizia, poiché nel 1208 avvenne l’eresia catara e il Papa Innocenzo III scatenò una crociata contro essa. Nacque a Galizia il genere delle Cantigas de amigo: i trobatori più famosi furono Martin Codax e Pero Meogo. Il gallego-portoghese fu la lingua della lirica per eccellenza fino al XIV sec., 1345 (data di morte del Conte di Barcelo de Portugal, ultimo cultore di questo genere di poesia). In Spagna fu Alfonso X el sabio a divulgare questa lirica e inventò anche il genere delle Cantigas de Santa Maria. • Castigliano • Catalano: discende dalla lirica provenzale 23. Il Corpus della Lirica Gallego-Portoghese: le Cantigas Nella lirica gallego-portoghese abbiamo 1600 testi, suddivisi in 3 generi: • Cantigas de amigo: canti di fanciulla innamorata, simili alle jarchas (500 testi) -> produzione autoctona, non presente nella lirica occitana. Sono complemento e contrappunto della cantiga de amor: c’è la voce di lei, non di lui. Le caratteristiche fisiche sono rese sempre con pudore. È una fanciulla innamorata che si dispiace e lamenta perché lui non c’è. A differenza delle jarchas, ci sono anche cantigas che celebrano ed esaltano un amore gioioso. DIFFERENZE CON JARCHAS: - simbologia amorosa e metafore. – amore anche gioioso. – presentano loci amoeni, quindi si possono considerare: CANTIGAS -> dimensione narrativa. JARCHAS -> dimensione lirica. – interlocutore risponde. ANALOGIE CON JARCHAS: - La storia resta appesa in entrambe. – io lirico è fanciulla innamorata che soffre. GENERI DI CANTIGAS: • Barcarolas -> tema marino • Cantigas das romerias -> amanti si incontrano in luogo sacro di pellegrinaggio, tema amoroso NO religioso • Alboradas -> incontro/separazione amanti all’alba Cantigas de amigo sono canzoni scritte e d’autore (nome del trovatore è conosciuto) • Cantigas de amor: Il poeta canta la pena di un amore anelato ma irraggiungibile (coita d’amor), un amore destinato all’infelicità e a volte alla morte (reale o agognata) poiché non ricambiato. La donna è ostile (femme fatale ineffabile). Vi è una concezione dell’amore come servizio feudale (amore cortese) in una logica erotico-amatoria. Costituiscono la maggior parte del corpus delle cantigas (1700-2000 testi) -> dama viene chiamata al maschile (Senhor) perché considerata e venerata come essere superiore; descrizione si limitava al viso per motivi di decoro; cupezza appesantita dall’assenza del locus amoenus primaverile, presente invece nella lirica occitana. • Cantigas de escarnho o maldizer: canti di scherno, che con un linguaggio volutamente popolaresco e scurrile uniscono alla satira politica quella personale. (400-420 testi) -> La maggior parte di queste cantigas hanno come oggetto la donna, come un contraltare della cantiga de amor. La donna è infedele, brutta e dotata di un eccessivo appetito sessuale = canzoni piuttosto misogine. Talvolta attraverso la critica alla donna si colpisce il marito, si denigra la donna per denigrare il marito. Altre volte quelli che sono oggetto di satira sono anche personaggi altolocati, di corte. • Cantigas de Santa Maria: poesie dedicate alla Madonna. Alfonso X el sabio fu il primo nobile a poetare in lingua gallego-portoghese. A lui si deve la creazione di questo quarto genere, e fu l’unico a scriverne poesie. Con le jarchas ci troviamo in un periodo di latenza (Pidal), un tempo nel quale queste composizioni esistevano ma non erano testimoniate da fonti scritte. Con le cantigas invece siamo tra il XIII-XIV secolo, liriche di autore scritte. Infine, abbiamo i villancicos, un genere le cui prime attestazioni scritte risalgono al XV secolo. Vennero rinvenuti attraverso dei canzonieri. La moda di raccogliere in Cancioneros questi testi iniziò nel XV secolo e perdurò nel XVI e XVII secolo (fino a quel momento la trasmissione era avvenuta solo per via orale). • Cancionero musical de Palacio (o di Barbieri, uno degli allestitori) fine XV-inizio XVI secolo, età dei re cattolici. Con annotazioni musicali dei testi antologizzati • Cancionero del British Museum, 1500 c.a. • Cancionero llamado flor (nome che compare spesso nei nomi dei cancioneri: Florilegio = Canzoniere) de enamorados, Barcellona 1562 • Cancionero sevillano della Hispanic Society, 1568 Sono molto importanti perché nelle corti (soprattutto dei re Cattolici) si inizia ad apprezzare la poesia lirica di carattere tradizionale. • Il villancico di base è costituito da una strofetta di 2/3/4 versi (cabeza/letra/texto/estribillo) che rappresenta la manifestazione più semplice della lirica tradizionale castigliana • Forte densità concettuale accompagnata da sintesi linguistica • Vivir en variantes: termine coniato da Pidal per indicare la presenza di distinte versioni del medesimo testo, dovute alla trasmissione orale e alle conseguenti variazioni lessicali Temi: canti di villanos (villano = abitante della villa, cioè della campagna), che riguardano i momenti di riposo dal duro lavoro dei campi, le feste religiose o al patrono del luogo; ma sono anche canti di nozze e canzoni che accompagnano l’attività lavorativa durante la semina, la mietitura, il raccolto. I villancicos de amigo hanno sempre io lirico femminile (ragazza che si lamenta di un destino infelice o di un’attesa d’amore), come le jarchas e le cantigas de amigo. Sottogeneri: • Canti della malmaritata • Le canzoni di maggio (mayas) • Canti di quelle che non vogliono farsi suore • Feste (es. San Giovanni) che celebrano l’estate • La morenica (morofilia, la bella donna mora, araba) • Canti della serrana (della montanara, adattamento e parodia della pastorella francese in ambito spagnolo) Tipi di villancico: •Villancico di 2 versi, generalmente nella forma del pareado (xx) •Villancico di 3 versi, spesso con lo schema rimico (xyy) •Villancico con una quartina di versi brevi, con lo schema della redondilla (xyyx) Il villancico strofico aggiunge all’estribillo iniziale alcune strofe che lo amplificano e lo commentano dette pies. x Entra mayo y sale abril: estribillo (parte iniziale fissa) x ¡cuán garridico me le vi venir! A Entra mayo coronado mudanza (rima abba, versi di amplificazione) b de rosas y de claveles, b dando alfombra y doseles, a en que duerma Amor, al prado; a de trébol viene adornado, verso de enlace (allaccio che lega quartina alla vuelta) x de retama y toronjil. vuelta (verso che ripete rima villancico) 27. Analisi Villancicos da I a VII I -> Llaman a la puerta Fanciulla aspetta trepidante l’amore; sente bussare alla porta e quei colpi le risuonano nel cuore come battiti. II -> En Avila, mis ojos Villancico strofico Particolare per il suo carattere misterioso, è stato riscritto da Lorca. -> ellissi narrativa Lamento di una fanciulla che dice di aver visto il suo amico essere ucciso ad Avila. Gli occhi rappresentano l’amore stesso della donna, che è ad Avila. III -> Aquel pastorcico Fanciulla teme che l’amato (pastorello) non venga perché magari interessato ad un’altra o perché c’è qualcosa che lo addolora -> tema attesa Vi sono varie versioni; • Entretiene al posto di duele • Manzanar (fiume Madrid) al posto di pastorcico Villancico cantato da Melibea nel XIX atto della Celestina -> tema gelosia IV -> Aquel si viene o no viene Redondilla (ABBA) Amore come dilemma, tra il desiderio di vedersi e il timore di separarsi. V -> Maya Variante di Maya di Tirso de Molina -> nella sua versione però si trovano termini di fiori più ricercati come quadrifoglio, ginestra e citronella. Si festeggia l’amore gioioso del mese di maggio e della primavera, con natura che rifiorisce con i suoi fiori e i suoi colori. Linguaggio appartiene ad amor cortese (servir) VI – VII 2 villancicos simili ma diversi -> condividono stesso estribillo iniziale ed entrambi sono strofici Nel 1°, 1 strofa – genere alboradas Fanciulla si rivolge alla madre Sonno ad occhi aperti e un carico di sensualità lungo una notte lunga ed insonne. Nel 2°, 3 strofe 1)Figura degli occhi circondati dai soldati del cuore -> ciglia come sciabole (jarcha) -> assedio d’amore 2)Occhi stanchi di sostenere questo assedio d’amore, si lasciano andare al sonno ma l’innamorato rimane sveglio a causa degli incubi 3)Insonnia d’amore che conduce il poeta alla follia Tema ricorrente in entrambe -> insonnia d’amore 28. Nascita e Origine Dell’Epica Spagnola Considerata, prima di scoprire le jarchas, il genere di inizio della letteratura spagnola. Caratteristiche: - Carattere affabulatorio (del narrare) - Carattere informativo (giullari narravano a scopo informativo) perdute ne abbiamo testimonianza nelle Cronache: grazie a questo possiamo congetturare cosa fosse contenuto nel primo folio che non ci è pervenuto (prosificazione dei cantares). Fu probabilmente il Monastero di San Pedro de Cardena (Burgos) a incaricare la stesura del Cantar a partire da un esemplare preesistente. Si dice che qui ci siano i resti del Cid e della moglie. Avrà un ruolo anche nella vicenda narrativa del Cid. 31. Data composizione, edizioni, argomenti cantares e teorie Explicit Cantar de Mio Cid All’interno dello stesso poema del Cid troviamo delle note editoriali, delle indicazioni sul presunto autore e sull’anno di composizione. • Primo explicit: vv. 371-3733 Explicit (“finisce”) = rubrica, è la parte finale del componimento. “Quién escribió este libro dél Dios Paraíso. Per Abbat le escribió en el mes de mayo. En era de mill CC XLV” Da questi pochi versi si lascia intendere che l’autore sia un certo PER ABBAT e che il poema fu composto nel 1245. MA non è così facile. 1) “Escribir” in epoca medievale non voleva dire “comporre” (che si diceva fazer) ma COPIARE. Per Abbat è quindi il COPISTA! Di lui non sappiamo nulla, forse è un giullare chierico. 2) Per la data non ci dice “nell’anno 1245” MA “nell’ERA del 1245”. L’era ispanica o era dei Cesari parte dall’anno 38 a.C in cui Augusto pacificò la provincia romana. Bisogna contare quindi 1245 anni dopo il 38 -> anno di copiatura 1207. Il copista del XIV secolo si basa quindi sull’esemplare del 1207. Ma anche questa ipotesi è contestata da alcuni studiosi perché notano tra CC XLV delle abrasioni che vengono suffragate dal fatto che i numeri romani non si scrivono mai con spazio. Ipotizzano che ci sia un’altra C e quindi CCCXLV (si notava anche una raschiatura nello spazio in questione), a questo punto la copia dovrebbe essere del 1307 e la copia di Sanchez è di poco successiva. Ipotesi più quotata oggi. • Secondo explicit o colophon (di mano diversa, calligrafia diversa) “E el romanz es leído, datnos del vino; si nos tenedes dineros, echad allá unos penos, que bien nos los darán sobr’ellos”. Ci dà ulteriori informazioni sulla sua origine. È di un altro giullare che utilizza questo codice nelle sue recitazioni. Vi si segnalano le consuetudini dei giullari di chiedere una ricompensa (vino o panni da scambiare per il vino). Quando fu composto? • Ipotesi meno accreditata e inattendibile: si pensa che il poema del Cid fosse stato redatto mentre il Cid era in vita. Siccome ci presenta un eroe maturo (40 anni) senza infanzia e giovinezza, la data dovrebbe essere il 1083. • Pidal: si basa sullo studio dell’arcaicità linguistica del Cantar: la sua forma metrica è infatti molto irregolare (anche se la lingua potrebbe essere stata arcaicizzata dallo scrittore). Tende a spostare la scrittura del manoscritto quanto più possibile vicino ai fatti narrati e quindi a indicare come data possibile il 1140 (morte del Cid 1099). Tale ipotesi è supportata anche dal fatto che il poema latino sulla conquista di Amería (1147-57) fa riferimento al Cid. Inoltre, l’allusione al matrimonio tra Bianca di Navarra, pronipote del Cid, e Sancho, figlio di Alfonso VII, confermerebbe l’ipotesi di Pidal. • Smith: ritenendo i tratti arcaici della lingua del Cid un fenomeno di convenzione stilistica e non un segno di antichità, propone di accettare la data presente nell’explicit, ossia il 1207. Successivamente Pidal elaborò la tesi del doppio autore basandosi su tratti linguistici: 1) Il primo operante intorno al 1100 responsabile dei primi 500 versi; proveniente dalla Castiglia (Burgos) 2) Il secondo che completò l’opera, forse per celebrare le nozze di Bianca. Proveniva forse da Aragona viste alcune inflessioni aragonesi. v.22 dios…buen senor v. 2022 las hierbas del campo a dientes las tomó. Dal punto di vista ideologico, Smith crede che la parte iniziale sia di un autore (dove si difendono i diritti della piccola nobiltà di fronte al potere monarchico e dei ricos hombres) = personalità più democratica. Sposa la posizione castigliana (Sancho) rispetto a quella leonese (Alfonso). Il mutamento dell’ideologia è chiaro nel fatto che negli altri 2 cantari il Cid si dimostra più arrendevole e sottomesso nei confronti del re. Fino al v. 2022 quando il Cid si ritrova davanti al re lo raggiunge e dimostra una sottomissione così iconomicamente asservita. Alcuni studiosi come Colin Smith attribuiscono la paternità dell’opera a un autore colto, con conoscenze giuridiche del diritto vigente della fine del XII secolo ed inizi del XIII secolo. Per la conoscenza della microtoponimia della provincia di Burgos, Medinaceli si riterrebbe di quelle parti. Altri studiosi come Pidal e Catalan basandosi su studi linguistici (forme arcaiche) difendono la necessità di una versione anteriore, non conservata, scritta nella metà del XII secolo. Storia editoriale in sintesi: - Testo originario (composto, di cui Pidal dà ipotesi di composizione nel 1140) -> Copie (manoscritte) di datazione incerta –> Copia stampata di Sanchez. Rispetto alle costanti epiche, il Cid presenta una serie di peculiarità: • Marcata tendenza oggettiva e realistica con una forte aderenza ai fatti storici, si parla anche di “biografia eroica” o di una “cronaca rimata”. Il Cid è un personaggio più umano e quindi realistico. Manca il meraviglioso e il soprannaturale che invece troviamo in altri poemi. • È assente quel tono elevato che qualifica lo stile dell’epopea a favore di una narrazione più prosastica con notazioni persino umoristiche. • Rodrigo ha delle qualità più umane che sovrannaturali: amore maritale, attaccamento alle figlie, vita domestica tenera e partecipata. Mangia, dorme e muore nel suo letto, non sul campo di battaglia. Vi è infatti un forte intesse sulla dimensione privata più che sulle sue imprese militari. Infatti, alla prima lettura il poema appare assai carente di afflato epico: la selezione dei tempi biografici e la rinuncia all’esaltazione nazionalistica a vantaggio di aspetti più intimi concorda con l’intima predisposizione del poeta e la sua visione della vita. Il tema centrale non è il trionfo dell’eroe nazionale o del campione della cristianità ma quello del piccolo nobile che, scacciato dalla sua terra, deve affidarsi alle proprie sole forze. Non è un caso che sia eliminato dalle vicende l’unico figlio maschio del Cid, Diego. La qualità che maggiormente caratterizza il Cid è la mesura (esplicitata già nei versi 7-8 della prima lassa): ha un carattere equilibrato, temperato, che arriva anche ad accettare con rassegnazione la sorte che gli è toccata. La mesura guida sempre le sue azioni, anche con i nemici arabi che spesso ne riconoscono la supremazia e ne accettano il predominio. • Numerosi dettagli che riguardano la descrizione del bottino, dell’alimentazione dei cavalli, del numero dei nemici; particolari che Pidal giustificò con la maggiore vicinanza della narrazione agli eventi storici di quanto non avviene nell’epica francese. La distanza temporale tra narrazione e accadimenti narrati determina il maggiore o minore grado di realismo (Cid più vicino, anche se poco sappiamo della sua preistoria fino al testo del 1140 circa, a noi pervenuto; Roland 3 secoli dopo) Diversamente che per altri eroi epici, del Cid si sa molto. L’Historia Roderici è sicuramente una fonte attendibile, meno lo sono le cronache arabe che ovviamente screditano l’eroe della Riconquista cristiana. Il Cid nasce intorno al 1040 da una famiglia di infanzones, la categoria più bassa della nobiltà. Alla morte di Ferdinando I, re di Castiglia e Leon che divise il regno tra i suoi figli, il Cid fu nominato generale capo dell’esercito di Sancho IV re di Castiglia che mosse guerra contro i fratelli Alfonso (Leon), Garcia (Galizia) e Urraca (Zamora). Episodio inventato fu la confessione estorta dal Cid al futuro Alfonso VI con la quale ammetteva di aver causato la morte del fratello Sancho. Quando Alfonso divenne re di Castiglia, il Cid rimase un infanzón e non ebbe mai posto a corte dove dominava la potente famiglia dei Beni-Gomez. La leggenda si fece probabilmente eco di questa rivalità se si narra che nel 1079 il Cid fu inviato a riscuotere le parias, un tributo che il re moro di Siviglia (e in generale tutti i regni delle taifas) doveva pagare annualmente al re di Castiglia per godere della sua protezione. Attaccato dai mori di Granada, il Cid li vinse nella battaglia di Cabra e tenne prigionieri per 3 giorni il conte Garcia Ordonez che poi lo accuserà di malversazione. Nessun merito fu riconosciuto all’eroe neppure quando, entrato nel regno moro di Toledo (in tregua con Alfonso) fece 7000 prigionieri e accumulò un grande bottino: i consiglieri invidiosi (malos mestuares), lo misero in cattiva luce presso il re che gli impose l’esilio. Il Cid parte accompagnato dalla sua famiglia e dai suoi vassalli. Tutto questo antefatto NON è presente nel Cantare (forse era presente nei primi versi andati però perduti). È stato ricostruito da Pidal attraverso un passo della Historia de los veinte Reyes (1366), cronaca dove il cantare è prosificato entrando a far parte della storia di Alfonso VI; il cronista forse ha utilizzato quel folio iniziale a noi mancante. Il poema inizia quindi con l’ESILIO DEL CID (storicamente, il cid viene esiliato 2 volte, nel cantare i due esili vengono “accorpati”). Qui inizia il poema che procede per lo più su dati storici più qualche disgressione narrativa. Storici sono: - l’esilio nel 1081 - numerosi personaggi (donna Jimena Diaz, le figlie Elvira e Sol –nella realtà Cristina e Maria-, il deuteragonista del Cid Alvar Fánez: -rapporto tra i due rispecchia quello tra zio e nipote, speculare a quello francese tra Carlo Magno e Rolando) - la descrizione delle frontiere del regno del tempo I particolari biografici omessi (come il secondo esilio del Cid nel 1089 perché non era giunto in tempo a soccorso del re sotto Aledo) ricostruiti da Pidal, rispondono a una selezione narrativa. Altri episodi sono pura invenzione (due ebrei che ricevono 2 casse di sabbia e le credono piene d’oro, episodio del leone che spaventa gli infanti di Carrión). La presenza di episodi non storici non riduce I LASSA: “De los sus ojos tan fuerte mientre llorando” inizio poema in medias res, poiché si è perso un pezzo, la parte iniziale. Immagine dell’eroe che piange nella cultura castigliana è simbolo di virilità. Il Cid è appena uscito la Bivar e guarda le sue proprietà e i suoi beni piangendo mentre li abbandona. “Vio puertas abiertas y ucios sin canados (chiusure)” con ‘sin’ si indica che Rodrigo viene privato di ogni cosa. Descrizione di cosa vede il Cid quando se ne va. Si assiste alla perdita di tutto. “Suspirò mio Cid” -> Cid viene dall’arabo “Sahiddi”. Di fronte a tanto sconforto, il Cid sospira preoccupato. ‘Mio’ indica devozione da parte del giullare che sta presentando la storia. Ci viene descritto come parla il Cid -> bene e misurato. La misura è una virtù cardinale del Cid, che si accompagna a: prudenza-giustizia- forza-temperanza. Non è violento, è sempre composto e cercherà di ottenere giustizia. “Grato a ti, Senor Padre. ¡Esto me han vuelto mis enemigos malos!” 1- Forma di ringraziamento religioso 2- Condanna i suoi nemici Cid accetta il suo destino e se la prende con i nemici. Questa prima lassa da un lato scagiona il Re, dall’altra testimonia un conflitto tra bassa e alta nobiltà: quest’ultima non voleva che i piccoli nobili rafforzassero il loro potere. >>> Cid da infazon (piccolo nobile) a signore di Valencia. II LASSA: “Albricia, Alvar Fanez, ¡ca echados somos de tierra! Mas a grand ondra tornaremos a Castiella” Inizia con un incoraggiamento -> Albricia, significa evviva/coraggio Figura della cornacchia (corneja) -> a destra di buon auspicio; a sinistra di cattiva sorte. Il cid sente entrambi: • Buon auspicio -> destino a lieto fine -> non morirà • Cattiva sorte -> qualcosa di brutto accadrà a Burgos Alvar Fanez -> luogo tenente del Cid, ha la funzione di suo aiutante nel poema -> deuteragonista III LASSA: “Mio Cid Roy Diaz” -> Roy Diaz è l’abbreviazione di Rodrigo. “burgueses e burguesas…plorando de los ojos” si riferisce a tutti i borghesi, oppure proprio agli abitanti di Burgos. I cittadini vivono una sensazione di dolore e di ingiustizia per il Cid -> sentimento di collettività -> uniti per il singolo “Si oviesse buen senor” -> se avesse un buon signore (che lo protegga), oppure: se avesse, buon signore, dei beni (poiché confiscati) I cittadini di Burgos pronunciano questa frase durante tutto il poema -> aspetto democratico, ma anche antidemocratico del poema -> poiché alta nobiltà non ha bisogno di dimostrare il proprio valore. Presenza frasi fisiche per enfatizzare la scena -> “plorando de los ojos…de las sus bocan dizian” IV LASSA: Descrizione della rabbia del re Alfonso, e le prescrizioni decise per coloro che avrebbero scelto di aiutare il Cid. Una serie di pene secondo l’indignatio regis (ira del re) -> in caso di aiuto, avrebbero perso occhi, beni, corpo e anima. Il Cid non è ancora a conoscenza di niente. Arrivato a Burgos si avvicina ad una porta chiusa di una delle case, ma i cittadini hanno ovviamente paura di aprirla, cosicché il Cid sferra un calcio alla porta come gesto di rabbia, pensando gli stessero mancando di rispetto. Lo scopre poiché una bambina di 9 anni si rivolge a lui chiamandolo “Campeador” (invincibile) e gli annuncia che nella notte è arrivato il messaggio del re, e che loro non possono accoglierlo. Dopo ciò il Cid capisce -> tolleranza e temperanza. Si dirige presso la cattedrale di Santa Maria di Burgos per pregare, e poi lascia la città e pianta l’accampamento sul fiume Dueros. Cid fuori città e senza nulla -> da qui comincia suo riscatto. 33. Il Mester De Clerecia e la Cuaderna Via Nuovo genere letterario nato tra XIII e XIV sec. operato dai chierici -> clericus – letterato, uomo di lettere la cui formazione avveniva presso scuole cattedrali, scuole monastiche. Un esempio di gran letterato di questo genere è Pedro Lopez de Ayala. I centri educativi acquisirono il titolo di “Studium generale” -> come prime università – la prima fu quella di Valencia, e da lì uscirono i primi CLERIGOS SEGLARES. Differenze tra mester de clerecia e juglaria: • AUTORE -> clerici istruiti e colti; giullari illetterati di corte. • Autore delle proprie opere; interpreta opere altrui • OPERA -> struttura impeccabile poiché trasmessa in modo scritto; frammentaria e irregolare poiché trasmessa oralmente • SCOPO -> divulgare in lingua romanza (latino) tutto il patrimonio letterario; intrattenimento sociale e accompagnamento della vita quotidiana • TEMA -> vari: religioso, vita dei santi, classici e narrazione storica; poemi epici, canti amorosi • METRICA -> cuaderna vìa: strofa di 4 versi alessandrini (14 sillabe) monorimi; versi irregolari Nel “Libro de Alexandre” appare per la prima volta la definizione di MESTER DE CLERECIA -> opera anonima che sembra essere la prima di questo genere. • Scritta in cuaderna vìa • Trama: vita di Alessandro Magno • Base sia epica che morale Si ipotizzò fosse Berceo l’autore, poiché c’è un codice del libro che lo mette come suo autore. 34. Gonzalo de Berceo e Milagros de nuestra Señora (La Boda y la Virgen) Di Gonzalo de Berceo la biografia è sconosciuta, salvo qualche dato lasciato dall’autore nelle sue opere - > 4° quartina di “Vida de San Millan de la Cogolla”: • Scrive opere con tecnica autonominatio -> si rivolge a sé stesso in prima o terza persona • Con “De Berceo” ci indica la sua provenienza • “en sant Millan de suso fue de ninez criado” ci indica il luogo dove ha studiato e dove si è formato OPERE: Berceo scriveva opere agiografiche -> vita dei santi 3 vite dei santi: • Vida de santo Domingo de Silos • Vida de San Millan de la Cogolla • Milagros de nuestra Señora Le opere non sono di sua invenzione, prendeva spunto da fonti classiche e latine -> traduce in DIALETTO VOLGARE i grandi classici, in modo tale da farli comprendere a tutti Captatio benevolentia -> si dichiara ignorante per avvicinarsi al lettore. Pur essendo colto, usa formule tipiche della juglaria. Per i “Milagros de nuestra senora”, Berceo si ispira ad un manoscritto latino -> “I miracoli di Santa Maria Vergine” / Miracula Beatae Mariae Virginis -> dei 49 miracoli ne seleziona 25, ma di uno non vi è fonte diretta. Novità: • Approfondisce la psicologia dei personaggi • Volgarizza opere latine • Raccolta di opere dedicate alla Madonna -> divulgare messaggio cristiano • Culto mariano -> si sviluppò durante il medioevo nella religiosità iberica. Grande influenza dall’amor cortese -> centralità della donna ha influenzato il culto della vergine Maria -> Maria viene vista come “nuova Eva”, mediatrice tra uomo e la sua salvezza -> colei che salva il genere umano. Struttura miracoli: 1. Appello al pubblico 2. Circostanze di luogo 3. Presentazione protagonista Anche se non pare, l’autore dice che vuole seguire un percorso sacro, proprio perché marcato dalla sfortuna della morte quando sopraggiunge l’amore. Exemplum al contrario come nella Celestina -> non fare quello che si racconta sennò si avrà la stessa sorte del protagonista (morto) Ha 2 prologhi: In prosa: Arciprete dice che tratterà del Buen amor, amore sacro e non profano, ma poi dice che invece è stato mosso da un appetito erotico facendo la corte a 14 donne In versi: vuole spiegare al lettore come leggere il libro -> tramite disputa tra greci e romani il lettore dovrà ricavare vero senso morale. >>> storia si presenta come istruttiva, ma ha temi controversi; è punitiva su chi si lascia andare al piacere e poi ne esce sconfitto. Fonti libro: → Vita Nuova di Dante Alighieri = anche questa è una vicenda autobiografica di una storia d'amore; → narrazioni ispano-ebree = hanno un tema amoroso e autobiografico; → didatticismo medievale degli exempla; → il Panphilus = commedia latina dove c’è figura mezzana • Cantigas serranas -> donne rozze di classe bassa che abitano la Sierra, le montagne -> parodia del genere francese delle pastorelle, donne bellissime ed aggraziate. C’è un’inversione rispetto alla poesia trobadorica dove l’innamorato corteggiava l’amata -> qui le ‘pastorelle’ obbligano l’uomo a sottostare ai loro piaceri. 36. Glosse Emilianensi e Silensi Le Glosse sono la più antica testimonianza della lingua castigliana: si tratta di annotazioni in dialetto navarro-aragonese poste a margine di testi latini dai monaci benedettini del convento di San Millan de la Cogolla e di Santo Domingo. Risalgono al X secolo. 37. Alfonso X El Sabio Alfonso ''il saggio'' era figlio di Fernando III che aveva conquistato l'Andalusia annettendo Cordoba e Siviglia al regno di Castiglia; egli, re poco produttivo in ambito politico, lasciò un complesso di opere molto importante per la letteratura spagnola. Nella composizione delle sue opere il re Alfonso X si circondava di poeti, traduttori, ricercatori di fonti e musici; egli tendeva a mettere insieme gli argomenti, programmare il lavoro e una volta scritto da altri, procedeva con la rielaborazione dell'opera al fine di correggerne gli eventuali errori. Le opere in questione, si sviluppano anche dalla tradizione araba ed ebraica, soprattutto grazie al lavoro dei traduttori toledani e, inoltre, l'uso del castigliano avvicinava le opere di Alfonso X a quelle della scuola di Toledo. L'unica differenza è che la scuola di Toledo è più interessata all'ambito filosofico e scientifico, mentre nelle opere alfonsine è presente maggiore praticità. >>> POESIE SCRITTE IN GALLEGO, OPERE IN PROSA IN CASTIGLIANO Le opere sono: → Cantigas de Santa Maria = oltre 400 poesie dedicate alla Vergine Maria, genere inventato e portato avanti solo da lui; scritte in gallego-portoghese, ossia la lingua lirica utilizzata nella penisola iberica; → Fuero Real = un'opera interamente giuridica; → Trattati astronomici e astrologici che gli valsero l'antipatia del clero; → Las Siete Partidas = un trattato giuridico di circa 2500 leggi raccolte in sette parti (7 come le lettere del suo nome); le partidas possono somigliare quasi ad un codice moderno e hanno soprattutto un valore letterario; l'opera tratta di diritto canonico, legislazione delle università, Codice penale, matrimonio, famiglia, procedure giudiziarie, rapporti sociali, commercio, eredità. Il lavoro fu iniziato già da Ferdinando III e poi venne ripreso da Alfonso X in un secondo momento. Nel 1265 era stata definita la pubblicazione definitiva dell'opera però ogni partida fu modificata nel corso del tempo; le partidas vennero poi pubblicate nel 1348 sotto re Alfonso X dopo una serie di emendamenti; la composizione è solo in parte legislativa, infatti tratta anche tematiche diverse, quali riflessioni morali e filosofiche; → Estoria de España = prima opera storica iniziata nel 1270 e la sua base è il De Rebus Hispania arricchita da fonti provenienti da autori come Svetonio e Lucano; studi posteriori hanno poi approfondito che solo la prima parte dell'opera era stata redatta da Alfonso X, mentre la seconda parte era stata compilata sia da Alfonso X che da Sancho IV. 38. Juan Manuel e Il Conde Lucanor Durante il regno di Alfonso X, la Castiglia stava vivendo un periodo di stasi dal punto di vista della politica estera e le crisi interne di questa regione aumentano sempre di più nel corso del 1300. Juan Manuel era il figlio del fratello di Alfonso X e apparteneva dunque, alla famiglia reale; alla morte del cugino Sancho IV, si alternano periodi di fedeltà a quelli di rivolta nei confronti del successore Fernando IV e, alla morte di quest'ultimo, Juan Manuel diventa co-reggente durante il regno di Alfonso XI. Sembra singolare il fatto che si formi in questo ambiente uno degli scrittori più noti del Medioevo castigliano, in realtà nella letteratura spagnola vi è questa tradizione di nobili che coltivano i propri interessi letterari producendo anche ottimi risultati, come re Alfonso X. L’opera maggiore di Don Juan Manuel: - Libro de los Exemplos del Conde Lucanor e de Patronio = questa è un'opera del 1335 ed è divisa in cinque parti: la prima è una raccolta di 50 nuclei narrativi dove prevale il pretesto dialogico. Ogni volta il conte Lucanor sottopone al suo consigliere Patronio un proprio problema concreto e quest'ultimo, di conseguenza, gli suggerisce il comportamento più adatto alla situazione mediante un racconto avente una morale. Lo schema di ogni nucleo narrativo è: titolo di Juan Manuel – problematica espressa dal Conte Lucanor – esempio di Patronio – il Conte mette in pratica l'esempio narrato dal suo consigliere – risoluzione del problema – morale dell'esempio scritta dall'autore – l'autore sottolinea ulteriormente il valore della morale. Le fonti degli esempi sono varie, possono essere orientali, europee, aneddoti storici o storie provenienti dalla cultura latina; inoltre, gli esempi possono essere classificati secondo due formule: imitando ed evitando; gli esempi che seguono la formula imitando, propongono un racconto che presenta una morale che va applicata nello stesso modo alla problematica reale e gli esempi che, invece, seguono la formula evitando, propongono dei comportamenti negativi da evitare e le conseguenze di tali atteggiamenti, qualora non fossero evitati. Abbiamo detto che il libro è composto da cinque parti, la prima comprende questi 50 esempi, la seconda, terza e quarta parte presentano dei dialoghi che procedono tramite proverbi che aumentano man mano di difficoltà e, infine, la quinta e ultima parte tratta di questioni ultraterrene e il tema della salvezza. È importante dire inoltre che l'opera è composta in modo che la prima parte possa essere letta da qualsiasi uomo alfabetizzato, la seconda, terza e quarta parte necessitano di un minimo di cultura e l'ultima parte può essere compresa solo dagli studiosi; questo innalzamento tematico corrisponde anche ad un innalzamento linguistico. 39. Il Rimado de Palacio e Pero Lopez de Ayala Nato nel 1332 da una famiglia nobile ma modesta, imparentata con le emergenti famiglie nobiliari; conosceva il latino e il francese e crebbe alla corte di Pedro I el Cruel. Ayala diventa un influente consigliere del re che, alleato con la Francia, spesso lo invia come ambasciatore; in seguito a una forte sconfitta castigliana in Portogallo, viene incarcerato per 15 mesi, durante i quali inizierà a scrivere: - il Rimado de Palacio ---> più di 8000 versi; è un insieme di componimenti scritti nel corso della sua vita e l'opera sarà completata solo negli anni precedenti alla sua morte; il testo può essere diviso in tre parti: la confessione dei propri peccati in chiave autobiografica e la corruzione del mondo. Il poema è narrato in prima persona e sono presenti delle eco autobiografiche, come il richiamo alla prigionia portoghese, ma l'Io del poeta si allarga fino ad avere un significato più universale; infatti, la storia percorre situazioni lontane dall'autore, intrighi nobiliari, corruzioni e lotte di potere, che vengono assunte come situazioni molto personali, favorendo un'indagine psicologica e morale. 40. Marchese di Santillana Durante la seconda parte del regno di Juan II, spicca Alvaro de Luna che tentò di accentrare il potere a corte a scapito della nobiltà. 43. Il Romancero e la struttura dei Romances. Romance = ballata -> poema caratteristico della tradizione orale -> “composizione narrativa in versi”. Diventa popolare e per la prima volta messo per iscritto nel XV sec, quando si ha un grande repertorio di romances raccolti in antologie, chiamate Romanceros -> narrano storie epiche più brevi rispetto ai poemi epici. Al principio i romances si interpretavano recitando e/o cantando. Struttura: serie di ottosillabi assonanzati nei versi pari. -> circolavano in foglietti volanti con ottosillabi tutti attaccati per risparmiare spazio. In una specie di zibaldone del 1421, Jaume de Olesa, un giovane maiorchino, mise per iscritto (incompleta) una versione del romance della Dame e del Pastore, una sorta di pastorella alla rovescia. In un canzoniere conservato a Londra si trascrivono di Juan Rodríguez del Patron (1430-40), tre romances, probabilmente raccolti dalla tradizione orale. Nel 1444 Mena accenna a una versione della morte di Fernando IV riprendendo tematiche romanzesche e poco dopo anche Santillana parla di “romances e cantares”. Alla corte di Napoli, Carvajal compone, a imitazione dei tradizionali, uno dei quali del 1454. Dopo questi primi affioramenti, sotto il regno di Enrique IV (1454-1474) comincia la moda del genere in Castiglia e durerà fino a metà del Seicento. Poi i romances scompaiono tra i colti pur essendo ripetuti dal popolo e dopo che il romanticismo ne ebbe restaurato il gusto al livello sociale e culturale più alto, essi sono andati riaffiorando ad opera di raccoglitori, tra cui Pidal. Abbiamo varie tipologie di romances: → romances storici o fronterizos = relativi alle guerre durante la Reconquista e molti erano di origine giullaresca e con intento sia celebrativo dei capi cristiani, sia informativo per il popolo; → romances epico-nazionali = che trattano le gesta storiche degli eroi; → romances novelescos = si distaccano dalla storia e si basano sull'invenzione; → romances nuevos = creati da poeti del 1400 o del 1500 e vertevano su temi classici e religiosi 44. Il Romanzo Sentimentale Romanzo sentimentale per eccellenza: la Cárcel de amor (Diego de San Pedro) - filo conduttore che unisce tanti nuclei retorici - protagonista è sempre cavaliere, ma c'è un destino funesto (morte) - spazio e tempo sono reali - visione allegorica: personificazione gioia, amore, soddisfazione - novità: retorica epistolare (ricercata molto dai lettori) La materia che costituisce il romanzo sentimentale è la materia amorosa; gli esemplari più tipici del genere sono compresi in un arco di tempo che va dall'inizio del regno di Isabella e Fernando ai primi anni del 1500. Fra il 1470 e il 1490, Diego de San Pedro compone le opere: - Carcel de Amor - Tratados de Amores de Arnalte e Lucenda. La tradizione in cui si iscrivono è varia: letteratura cavalleresca, fantastica, poesia allegorica, poesia francese, autobiografia sentimentale. Le tematiche includono amori funesti e la morte degli amanti, abbiamo una morale con l'inserimento dell'Io narrativo, le storie possono essere differenti a seconda delle azioni dei personaggi, per esempio ci può essere un padre che non accetta il matrimonio, poi ci sono l'adulterio e l'amore non corrisposto. C'è la novità delle epistole amorose, ossia i personaggi mandano lettere che fanno da cornice alla storia, senza parlare, e questa tecnica verrà molto acclamata dai lettori. Altro tema è l'onore, e dove c'è onore c'è la morte, e i personaggi muoiono in modi molto atroci ma sono morti che diventano cerimonie pubbliche, tanto che vengono analizzate più le loro morti piuttosto che la conquista dell'amata. Si riprendono le caratteristiche dell'amore cortese e le si trasporta nelle opere in prosa; tipico è lo schema d'intreccio: un cavaliere ama una damigella, che ne accetta le lettere, ma non vuole o non può ricambiare il suo amore per ragioni d'onore, il cavaliere lotta contro i suoi rivali in amore, si chiude in isolamento e si toglie la vita. Gli scrittori pensano ad un pubblico preciso ed il successo è da ricercare nella loro abilità di simboleggiare passioni violente e languide morti nelle figure dei personaggi. Gli elementi comuni ai romanzi sentimentali sono: - lo scenario immaginario dei libri di cavalleria - i legami con un tempo e uno spazio reali - le epistole amorose 45. Il Romanzo Cavalleresco Romanzo cavalleresco per eccellenza: Amadis de Gaula (Garci Rodriguez de Montalvo) - basato sull'avventura cavalleresca - spazio e tempo è fiabesco, non reale - personaggi fiabeschi (giganti, draghi) - motivo principale di tutto è l'amore che spinge cavaliere ad affrontare sfide e pericoli Nei libri di cavalleria la materia sentimentale è un carattere dominante, è il motore della vita del cavaliere e draghi e giganti, non sono altro che ostacoli nel cammino che conduce alla dama. Nel 1508, Garcia Rodriguez de Montalvo, pubblica i noti Cuatro Libros del Virtuoso Caballero Amadis de Gaula che però riprende e ripulisce da un'opera di epoca precedente, tra la fine del XIII secolo o agli inizi del XIV secolo. Il poema è diviso in 4 libri e i primi 3 sono la correzione di un testo primitivo del periodo dei Trastamara. Nel complesso, Amadis de Gaula si presenta come un'opera di lunghezza regolare e compatta e ariosa; c'è inoltre un dubbio sulla nazionalità del poema poiché nel secondo capitolo del libro II, è presente la villanella, ossia dei versi simili a quelli di una poesia di Joao de Lobeira, trovatore portoghese del XIII secolo ma, nonostante ciò, nulla può essere affermato con sicurezza. Questa è la trama dell'opera: La storia comincia narrando l'amore travagliato tra la principessa Elisena d'Inghilterra e il re Periòn di Gaula, dal quale nasce Amadis. Affinché nessuno venga a sapere di questa nascita segreta, Amadis viene abbandonato su una barca in Inghilterra, ma viene recuperato e cresciuto da un cavaliere. È perseguitato dallo stregone Arcalaus, ma è protetto dalla maga Urganda, detta la desconocida; il fanciullo cresce e il padre adottivo apprende da Urganda che sarebbe diventato un cavaliere forte e generoso. Amadis decide di andare in cerca delle sue vere origini, e ciò lo porterà ad intraprendere avventure fantastiche, sotto la protezione di Urganda: attraversa l'arco incantato dell'Isola Firme e affronta Endriago, un terribile mostro, che riuscirà ad uccidere. Oriana, l'ereditiera del trono di Gran Bretagna di cui l'eroe si è innamorato, si ingelosisce della principessa rivale e gli manda una lettera in cui lo accusa di infedeltà. Amadis, preso dalla disperazione, cambia il suo nome e si ritira in solitudine; non appena il padre di Oriana, lo invoca in aiuto, egli riprende le sue imprese in tutta Europa. Oriana rimane incinta di Esplandián, e i due si sposano. Le caratteristiche più importanti del poema: → Importante è il meccanismo dell'impedimento: quasi tutte le azioni di Amadis sono ostacolate o impedite da qualcosa e, il superamento di ciò comporta la celebrazione delle virtù dell'eroe; → All'impedimento, si affianca la verità apparente: il mondo di Amadis è un mondo di realtà illusorie e situazioni precarie, seminato di false parvenze; → Nell'opera è presente l'autore onnisciente ed è l'interlocutore diretto del pubblico, egli infatti interviene nel dare giudizi o nell'aprire dei discorsi; da questo nascerà poi il lirismo narrativo, perciò nel mezzo di cronache di eventi meticolose ed oggettive, si aprono degli spazi di contemplazione e di riflessione dell'autore o dei personaggi. → Nell'Amadis de Gaula vi sono due poli: il bene ed il male, che portano a vedere la natura come dolcezza e come minaccia; il bene viene rappresentato con la figura della torre e del giardino, (che riprendono l'architettura araba), dove tutto è grazia e incanto; il male è rappresentato dalla figura del drago (preso dalla tradizione medievale gotica), dove ogni parola è minacciosa e orribile. Questi due poli ideali però, condividono entrambi i valori della tradizione favolistica. → L'erotismo conferisce le sembianze del romanzo delle tentazioni proibite; infatti, il romanzo è percorso da una sensualità quasi trattenuta; affiora anche il tema dell'altra donna ma Amadis si sposerà con Oriana lasciando da parte le armi e dedicandosi alla corte e alla caccia. Nasce così, con questo romanzo, il modello ''perfetto'' di cavaliere umanistico nel 1500. Negli anni Cinquanta del secolo XVI i lettori si appassionavano alle storie di cavalieri e amanti, le quali, con monopolio quasi assoluto, alimentavano le pagine dei vari sottogeneri romanzeschi dell’epoca (tormentose vicende d’amore, avventure cavalleresche, legami d’amore negli innumerevoli romanzi del genere cavalleresco, amore raramente corrisposto, o le infinite peripezie dall’amore casto fino all’eroismo). Sebbene le varie tipologie menzionate producessero una vasta gamma di forme narrative, l’insieme dei sottogeneri romanzeschi in auge alla metà del secolo faceva capo a quello che Thomas Pavel definì “idealismo narrativo”: “l’arte di immaginare mondi di invenzione basati su ideali più che sul reale comportamento umano”. È facile immaginare quanto grande dovette essere la sorpresa/confusione di un lettore quando ebbe tra le mani, nel 1554, una delle quattro edizioni di “La vida de Lazarillo de Tormes y de sus fortunas y adversidades”, la cui narrazione non aveva nulla di inverosimile, ma si apriva alla più umile realtà quotidiana: quello del racconto in prima persona della vita di un banditore di Toledo, uno dei mestieri considerati tra i più infamanti, anche se in grado di assicurare buoni guadagni. A lato delle imprese cavalleresche e delle tristi e ingarbugliate storie amorose, appare la narrazione di un reietto della società di nome Lazzaro, nato povero e disgraziato, che racconta alcuni eventi della sua esistenza (piccoli fatti senza importanza), dalla nascita vergognosa, figlio di un mugnaio ladro e di una lavandaia che, rimasta vedova, si fa mantenere da uno stalliere moro, sino al trionfo nella prosperità e nel benessere materiale, raggiunti grazie al conseguimento dell’impiego pubblico e all’inconfessabile accondiscendenza nei confronti della tresca che la moglie mantiene con l’arciprete della parrocchia di San Salvatore. Insomma, per il lettore dell’epoca, “una narrazione come il Lazarillo era una novità senza precedenti”, e dal momento che gli si presentava nel più assoluto anonimato, era inevitabile che il lettore stesse al gioco, per “prendere l’opera alla lettera e a intenderla come se fosse stata scritta de un Lazzaro di Tormes in carne e ossa” (-Rico). • Trama, motivo del viaggio e struttura “a schidionata” Dopo il racconto delle sue origini, sino al conseguimento della “cima della mia buona fortuna”, la maggior parte del racconto autobiografico procede secondo il doppio motivo del viaggio, dalla natìa Salamanca alla città di Toledo, e del “ragazzo servo di più padroni”: dal cieco, quando il protagonista non ha più di 12- 13 anni, fino all’ottavo e ultimo padrone, un bargello presso il quale Lazzaro resiste “molto poco”; nel mezzo, passa per l’avaro prete di Maqueda e per il pretensioso scudiero, che incontra per caso in una strada di Toledo, per trovare sistemazione con il poco ortodosso frate dell’ordine della Mercede, con il disonesto e scaltro spacciatore di bolle papali, con un enigmatico pittore di tamburelli e, infine, presso il cappellano della cattedrale di Toledo, che lo avvia al mestiere di banditore e venditore d’acqua/vino. Tra i procedimenti di composizione dell’intreccio, il racconto adotta quello definito “di infilzamento”, o “a schidionata”, un sistema di composizione che procede per giustapposizione di un’avventura dietro l’altra, il che potrebbe far pensare che il Lazarillo sia caratterizzato da una struttura aperta (che può continuare all’infinito), ma che in realtà non è niente di più lontano dalla vera natura dell’opera. Un’analoga tecnica di composizione si ritrova nell’”Asinus aureus” di Apuleio, in cui si ritrovano anche il filo conduttore del viaggio e il motivo del “ragazzo servo di più padroni”. Altre analogie sono: racconto in prima persona, disposizione itinerante, rappresentazione della vita quotidiana, tonalità realistica, personaggi emarginati socialmente. Non mancano anche singoli punti di contatto e concordanze letterali con la traduzione spagnola dell’”Asinus” ad opera dell’umanista Diego Lopez de Cortegana. Tuttavia, per quanti ingredienti comuni sia dato rinvenire, non possono sottrarre o sminuire quel carattere di assoluta novità e singolarità, che l’opera presenta nel panorama della narrativa spagnola ed europea dell’epoca e che ne fanno uno dei primi esempi di romanzo moderno. • Origine e causa della narrazione Lazzaro annuncia l’origine e il proposito della narrazione, dicendo: “E poiché Vossignoria scrive che le si scriva e racconti il caso per esteso, mi è parso giusto prenderlo non dal mezzo, ma dal principio, perché si abbia intera notizia della mia persona”. Qui troviamo una serie di indicazioni, tra cui: - La nascita (figlio di un mugnaio ladro e una lavandaia, concubina di un moro) doveva lasciare esterrefatto il lettore dell’epoca - Sull’autobiografia, sul parlare di sé, pesava un vero e proprio divieto, e persino l’imperatore Carlo, nel redigere le sue memorie nel 1552, sentì il bisogno di giustificarsi. Ma cosa mai poteva indurre un miserabile come Lazzaro a redigere la sua propria autobiografia? L’interdizione risale fin dai tempi di Dante, il quale nel Convivio, avvertiva che “parlare alcuno di sé medesimo pare non licito”, e che “non si concede per li retorici alcuno di sé medesimo sanza necessaria cagione parlare”. E di “cagioni” Dante ne adduceva due: “l’una è quando sanza ragionare di sé grande infamia o pericolo non si può cessare”, come accadde a Severino Boezio che si difese dalle infamanti accuse mosse contro di lui nella “Consolatio philosophiae”; “l’altra è quando, per ragionare di sé, grandissima utilitade ne segue altrui per via di dottrina”, come il caso di Agostino, che nella “Confessioni” offrì il “carattere della sua vita” con carattere di esemplarità. Ma da quale accusa doveva proteggersi Lazzaro, o in che modo il racconto della sua vita poteva avere carattere di esemplarità? A questo punto della narrazione il lettore non sa chi sia “Vossignoria”, né sospetta a cosa sia interessato. Bisognerà attendere la fine della storia, quando Lazzaro racconta che si è sistemato nella città di Toledo, grazie anche ai benefici materiali che, attraverso la moglie, riceve dall’arciprete della parrocchia, di San Salvatore. A proposito delle dicerie sul “menage à trois”, inoltre, il lettore scoprirà che, una volta che Lazzaro ha deciso di non badare ai pettegolezzi e di chiudere per sempre la faccenda col definitivo silenzio, “Vossignoria” era interessato a saperne di più sulle voci che circolavano e sull’illecita relazione che la moglie di Lazzaro intratteneva con l’arciprete e sull’indecente accondiscendenza con cui il marito tradito accettava la situazione. Lazzaro è mosso dal proposito di doversi difendere da una calunnia, diretta ad offendere la propria dignità e reputazione. Lazzaro non soddisfa in maniera diretta e immediata alla curiosità di Vossignoria, alla cui richiesta risponde scegliendo di raccontare la sua vita, e di farlo partendo dalla nascita, disponendo i fatti in ordine cronologico (respingendo quindi la struttura in medias res). Il risultato è quindi un racconto autobiografico finalizzato alla spiegazione del “caso”: ciò vuol dire che la narrazione non può procedere per giustapposizione ininterrotta di vicende, come potrebbe far pensare il fatto che la trama dell’opera si fonda sulla tecnica dell’”infilzamento”. Nel “Lazarillo” le vicende che il narratore racconta della sua vita passata servono a dar conto del “caso”, ma è il “caso” che dà l’avvio al racconto della propria vita. In altri termini, se per un verso la spiegazione del “caso” giustifica il racconto autobiografico, dall’altro il racconto stesso serve a spiegare il “caso”. La storia autobiografica di Lazzaro risulta inscritto tra un punto iniziale e uno finale, coincidenti con il “caso”, e presenta una struttura rigorosamente chiusa. La struttura chiusa vuol dire che gli avvenimenti raccontati non hanno autonomia, ma considerati tutti insieme, servono a dar conto di quell’individuo che è Lazzaro. Lazzaro narratore seleziona e racconta alcuni episodi della sua vita passata perché solo attraverso la conoscenza di tali episodi è possibile comprendere la persona che è diventata: a partire dalle accuse di furto al padre quando il ragazzo aveva solo 8 anni, sino al momento in cui entra in contatto con l’arciprete di San Salvatore. Una delle conseguenze più importanti di questa impostazione è che tutto ciò che il lettore viene a sapere risulta raccontato dal punto di vista di Lazzaro, il che significa che anche il destinatario (“Vossignoria”) vede la realtà attraverso Lazzaro, al quale tocca la doppia prerogativa: di rappresentare cosa raccontare della sua vita e di determinare come raccontarlo. Si può affermare che il racconto di Lazzaro è a focalizzazione interna per quel che riguarda la prima delle due categorie, ed è omodiegetico per la seconda. Non c’è forse definizione migliore di quella usata da Panofsky per definire la scoperta rinascimentale della costruzione prospettica: “un’obiettivazione della soggettività”, dove la formazione di una persona come soggetto individuale si concretizza nel racconto di una vita, condotto con la massima fedeltà alla realtà obiettiva. • Primo esempio di romanzo moderno Essendo il racconto finalizzato a dar conto della formazione di una personalità individuale, sebbene il narratore utilizzi un procedimento “a infilzamento”, la narrazione non solo presenta una struttura chiusa, ma presenta anche un carattere fortemente unitario. Anzi, una delle più sorprendenti novità del Lazarillo consiste proprio nell’uso di una tecnica narrativa, impiegata dall’anonimo per realizzare lo scopo opposto: la creazione di uno dei primi esempi di romanzo moderno, che risulta alieno dalla possibilità di ricevere continuazioni cicliche e che propone uno sviluppo narrativo dotato della massima coerenza e unità. Lo studio di F.Courteny Tar mise in risalto due importanti aspetti della trama romanzesca dell’opera: - l’uso di molti parallelismi narrativi, che costituiscono una fitta rete di corrispondenze; - la constatazione che le esperienze vissute dal protagonista sono organicamente al servizio della rappresentazione del processo di crescita e maturazione psicologica di Lazzaro. L’analisi di Dario Puccini, invece, individua tre blocchi, “scoperta, conquista e assestamento, paralleli anzi coincidenti con infanzia, adolescenza e giovinezza”. Secondo l’ispanista Làzaro Carreter il romanzo superava antiche e collaudate formule narrative con iniziative che introducevano due fondamentali e innovative soluzioni: da un lato, “le peripezie, lungi dall’ordinarsi in una sequela sconnessa, si articolano fra di loro e non svaniscono dal ricordo dei personaggi, ma sono menzionate e condizionano perfino il loro comportamento successivo”; dall’altro, “i materiali sono sottoposti a un’intenzione. L’autore non li raccoglie e dispone in sequela semplicemente, ma li seleziona per sottoporli a determinati propositi”. La difesa e illustrazione del carattere coerente e unitario dell’opera contribuiscono a fare giustizia di un altro pregiudizio: che si tratta di una raccolta di aneddoti, la cui origine è nella tradizione folklorica. Anche lo studioso Augustin Redondo, pur affermando che l’anonimo autore ha fatto ricorso, in varie occasioni, a materiale desunto dalla cultura popolare, riconosce che “utilizza costantemente la materia folklorica, ma la de Torquemada. La frase con la quale si chiude il racconto, per esempio, rivela la natura del “buon porto” (“in questo tempo ero nel pieno della prosperità e in cima alla mia buona fortuna”) e quando Lazzaro si era rivolto all’arciprete per informarlo delle dicerie che circolavano, il prelato lo aveva rabbonito (“Lazzaro, chi bada a dicerie di malelingue, non prospererà mai” = “nunca medrarà”). Questo può essere il termine che riassume al meglio il tema del romanzo: il medro, in forma verbale medrar, ossia il desiderio di migliorare la propria condizione sociale e salire nella gerarchia sociale. Lazzaro decide di continuare a beneficiare dei suoi favori materiali, a cambio di quelli prestati dalla moglie. Alla fine, potrà affermare “Vossignoria” dello stato di grazia in cui si trova nel momento della redazione dell’epistola. C’è, tuttavia, un punto in cui Lazzaro torna sull’argomento: avviene quando, mentre narra le traversie vissute accanto al cieco, lo interrompe e rivolgendosi a “Vossignoria”, riconosce: “mi fa piacere raccontare a Vossignoria queste bambinate per dimostrare quanta virtù ci sia nel sapersi gli uomini elevare, essendo di bassa condizione, e nel lasciarsi cadere, essendo nati in alto, quanto vizio”. È lecito concludere che in questi passi è racchiuso il nucleo tematico dell’opera, il medro, ossia il processo di realizzazione di una singolare ascesa sociale, testimoniata dal racconto della vita, e il rapporto conflittuale tra merito e nascita, coincidente con quello tra virtù e fortuna. Il caso esemplare di Lazzaro consiste nel presentare sé stesso come un campione di “homo novus” e la sua vicenda come un autentico modello di ascesa sociale, opponendosi alla fortuna che lo ha condannato a una nascita infame, e riuscendo a conquistare la “honra”, nel doppio significato di onore e di gloria. Bisogna quindi definire e scovare queste virtù di cui Lazzaro si dota nel corso della sua crescita/ formazione e che gli consentono di salire nella scala sociale. • L’infanzia e il primo padrone di Lazzaro Subito dopo aver dichiarato la sua identità e la sua nascita, Lazzaro racconta dei genitori, e soprattutto del mestiere e della morte del padre. Sin dall’inizio del racconto sorprende il modo di esprimersi di Lazzaro, adulto e narratore, ricco di espressioni ambigue nel lessico e nella morfologia, relazioni sintattiche e vari rimandi biblici (“descuidada naturalidad” = disinvolta naturalezza). Applicato alla figura del padre, lo stile sornione offre un’immagine genitoriale che ammette una duplice interpretazione: il ladro confesso, qual è egli in realtà, è presentato, al tempo stesso, come l’infelice perseguitato per la sua virtù e nel cristiano apparentemente ravveduto, morto a Gerba. Nel nostro romanzo, lo stile non rivela unicamente il “modo d’essere dell’individuo” che Lazzaro è diventato, dal momento che nello stile con cui racconta il suo passato è racchiusa un’intera visione del mondo e della realtà. Lo stile con cui il figlio presenta a “Vossignoria” la figura paterna anticipa quel disordine assiologico a cui l’intero racconto di Lazzaro darà forma, operando uno sconvolgimento dell’idea stessa di ciò che è vizio e virtù, infamia e lode. Quindi, dopo aver ascoltato le parole di Lazzaro, cos’è la virtù e quali sono i valori che rendono un uomo virtuoso? Dopo la morte del padre, il piccolo Lazzaro ha conosciuto la vergogna della madre e della convivenza con il moro Zaide, a proposito del quale dice che “al principio delle sue visite, non lo potevo soffrire e mi faceva paura”. Vergogna, fastidio e timore non resistettero a lunga, a fronte dei numerosi e sostanziosi vantaggi materiali di cui il bambino iniziò a godere. Sennonché, alla perdita del benessere raggiunto nell’onta materna, fu lo stesso Lazzaro a contribuire, rivelando alle autorità per puerile ingenuità alcune malefatte che il suo unico benefattore eseguiva in favore della famiglia. Al tempo in cui il cieco capitò nella città di Salamanca e prese alloggio nella locanda dove lavorava la madre, il ragazzo era già venuto a contatto con alcuni aspetti della dura realtà. All’epoca della sua infanzia salamanchiana, Lazzaro ha già fatto esperienza di alcuni vincoli ai quali si vede sottoposta l’esistenza di chi ha avuto la sorte di nascere da un mugnaio ladro e una lavandaia: che, per sopravvivere, bisogna imparare a mettere da parte e a vincere certi sentimenti, e che l’ingenuità, se accompagnata da paura, può avere ripercussioni nocive. Lazzaro rivela come un relativo benessere materiale fosse stato raggiunto dalla sua famiglia al costo del disonore, in modo analogo a quanto avveniva grazie ai furti paterni. Il racconto dell’esperienza vissuta da Lazzaro al servizio del cieco comprende 7 episodi, di cui il primo e l’ultimo risultano perfettamente speculari e fanno da cornice alle cinque “burle diaboliche” che occupano la parte centrale. Nelle prime due, l’intraprendenza della giovane e affamata guida nel procurarsi cibo a denaro ha la meglio sull’avarizia del cieco, mentre nella terza (la brocca di vino) il lettore vede contrapporsi ad armi pari le diverse abilità dei due personaggi: all’iniziale vantaggio del ragazzo che gode del vino nel boccale col trucco della cannuccia fa riscontro la rabbiosa vendetta del vecchio, il quale, accortosi dell’inganno, lo colpisce ferocemente con lo stesso strumento del piacere, il “dolce e amaro boccale”. L’episodio marca un punto di svolta nel rapporto tra i due, con il cieco che non rinuncia a esercitare la propria crudeltà sul giovane servo, il quale lo ricambia con un sentimento di crescente odio. Seguono poi altre due burle, la prima delle quali (una) è la singolare competizione di due astuzie che gareggiano nel truffare l’altro, mentre le seconda (il navone e la salsiccia) culmina con la restituzione forzata del corpo del delitto da parte dello stomaco del ragazzo, messo sottosopra dall’indagatore naso del cieco. Il carattere comico di questi episodi è evidente e lo dichiara lo stesso narratore, quando osserva: “ma per non essere prolisso, tralascio di narrare molte cose, tanto divertenti quanto degne di nota”. C’è di più. Al di là dei singoli episodi narrati, è la stessa coppia formata dal “ciego” e dal “destron” che risale a un’antica tradizione letteraria e folklorica di carattere comico; deriva dal teatro di origine medievale, dove la coppia in questione costruiva un motivo comico che si realizzava attraverso un serie di azioni e scene comiche. Tuttavia, non c’è nulla di paragonabile, per organicità di composizione e coerenza di significato, al complesso narrativo a cui dà luogo il racconto del cieco e del ragazzo nel primo capitolo. “Essendo cieco, m’illuminò e guidò nel cammino della vita”: si vuol dire che le singole scenette comiche diventano un organismo compatto, dove presiede il tema del traviamento nella formazione del giovane protagonista, alla quale contribuisce il vecchio cieco con i suoi insegnamenti. Ma che genere di istruzione il piccolo Lazzaro riceve dal cieco? “io e argento non te ne posso dare, ma consigli per vivere posso fornirtene molti”. Una sfida che i due protagonisti combattono ad armi pari, esibendo le proprie abilità, per il cieco l’avarizia, e il ragazzo motivato dal bisogno e dall’istinto di sopravvivenza. I cinque episodi delle “burle diaboliche” mettono in scena la lotta tra “perspicacia e destrezza” di un ragazzo ancora inesperto della vita, e “sapere e accortezza” del suo primo padrone, un uomo maturo che “ne sapeva una più del diavolo”. Ma il ragazzo e il suo padrone, che stanno per l’infanzia e la maturità, inesperienza e conoscenza della vita, si contrappongono sin dall’inizio per altri elementi essenziali. Nel primo episodio, quello celebre della zuccata contro l’animale di pietra a forma di toro che si trova sul ponte di Salamanca, il ragazzo cade vittima della crudele burla del cieco per “simpleza” (ingenuità) e “necedad” (stupidità), “como nino durmido”. Quando il cieco gli ordina di accostare l’orecchio all’animale per sentire il rumore che emette, Lazzaro dice: “ingenuamente, io l’accostai, credendo così fosse”. “Creyendo ser asì” è la formula nella quale si riassume il senso più profondo della ridicola beffa di cui è vittima e in cui si manifesta l’insegnamento di vita del cieco: denuncia l’ingenuità di chi, non avendo ancora perso quell’innocenza infantile, accoglie senza malizia la parola dell’altro, e credendogli, ripone in lui la fiducia. Alla condizione di bisogno e all’istinto di sopravvivenza dell’infanzia, tipici del protagonista, corrispondono gli elementi specifici del cieco, cioè il possesso dei beni e l’avarizia (“non ho mai visto uomo più avaro e meschino”), ma anche di acume e intelligenza prima di tutto. Si segue uno schema specifico, in cui i tratti distintivi del Lazarillo (infanzia, ingenuità, stupidità, bisogno) sono in antitesi con quelli che contrassegnano il personaggio del cieco (maturità, sagacia, possesso, avarizia). Rispetto a questo schema, il racconto delle cinque burle costituisce il lento e progressivo apprendimento del piccolo Lazzaro, che lo porterà non solo a emanciparsi dal padrone, ma anche a far proprie le qualità che il testo spaccia per positive, come risulta nell’ultimo episodio. Questo presenta dei fortissimi legami con il primo che apre tutto, sebbene si verifichino in contesti diversi, ma si concludono con un analogo violento colpo in testa che servo e padrone danno, rispettivamente, contro l’animale in pietra sul ponte di Salamanca e contro il pilastro di uno dei porticati nel paese di Escalona. La morale è che la vita suole riservare il ruolo di vittima dell’inganno altrui a chi si rivela sprovvisto di avvedutezza, vuoi per ingenuità e stupidità infantili (Lazzaro), vuoi per il momentaneo ottenebramento dell’intendimento, di cui il cieco è ben dotato, ma che nelle particolari condizioni in cui si trova (pioggia, fretta di mettersi al riparo) non riesce a esercitare. È dunque la stessa fiducia nel prossimo che aveva condannato Lazzaro a rompersi la testa contro l’animale di pietra che ora trascina il cieco a sfracellarsi contro il pilastro di un portico di Escalona. Ma se, come il testo sembra suggerire, ci si espone alla derisione tutte le volte che, per puerile innocenza o per temporanea perdita di senno, si confida nel prossimo col risultato di subirne la cattiveria, è ragionevole supporre che ciò che il testo sembra celebrare sia, per contrasto, la totale diffidenza nell’altro. Gli eventi narrati insinuano che bisogna imparare a riconoscere nel proprio simile il nemico di cui diffidare, e che quindi si deve essere pronti a sopraffare. Nulla di più discordante con una legge morale e religiosa che regola i rapporti sul concetto di fede-fiducia, che fa capo a una lunga tradizione culturale, che può essere riassunta con una celebre formula plautina, “Lupus est homo homini”, e che giunge a tanti altri autori, tra cui Petrarca ed Erasmo (“sbagli se riponi la tua fiducia in coloro che ti stanno accanto: hanno aspetti di uomini ma cuori di belve”). • Il secondo padrone: il prete Chi meglio di un ministro del culto cattolico può incarnare quel dovere dell’uomo che coincide con la caritas? E in un prete, infatti, i suoi peccati fanno imbattere Lazzaro, che ha trovato rifugio a Maqueda dopo aver voltato le spalle al suo primo padrone. Il prete di Maqueda appare come la negazione della figura del ministro di Dio. È superfluo aggiungere che la satira anticlericale di tutti i tempi abbonda di religiosi gaudenti, votati più al piacere della carne che alla gioia dello spirito. Il chierico di Maqueda, venendo meno alla carità, finisce per macchiarsi delle colpe dell’avarizia, della cupidigia e dell’ipocrisia. Le pratiche religiose e liturgiche risultano pervertite al soddisfacimento di bisogni e desideri materiali, tant’è che il carattere sacro della preghiera e dell’offertorio risulta violato in nome della passione, che segna il predominio della carne sullo spirito. Un’analoga violazione del carattere sacro della preghiera la troviamo anche nel personaggio di Lazzaro, benchè in lui sia generata dal più impellente dei bisogni umani, la fame. Il tono comico della prima parte a mala pena riesce a dissimulare la condotta che finisce comunque per accumunare il prete e il suo servitore: manifestazioni religiose, atti liturgici e amministrazione dei sacramenti diventano meri strumenti che i due utilizzano per appagare i propri desideri d’ingordigia e cupidigia (il prete) e della fame (Lazzaro). Queste osservazioni, che denunciano un processo di degradazione del sacro, trovano conferma e spazio nella seconda parte, che coincide con l’episodio dell’arca. Rispetto al primo capitolo, questo presenza molte variazioni nell’impostazione narrativa: si fonda su un unico episodio, che non ha alcun riscontro nella tradizione, ma è di totale invenzione dell’anonimo autore. Nel contrasto tra il ragazzo e il prete, è quest’ultimo a fare le spese maggiori della comicità. Secondo una nota teoria, chi spende troppa energia fisica ed emotiva e troppo poca energia mentale risulta comico: qui il prete spende troppo sotto l’aspetto emotivo, per effetto di una condotta maniacale tesa a dello scudiero. Lo scudiero attraversa a passo svelto le strade dove si vendono cibo e altre cibarie, a cui l’hidalgo sembra totalmente disinteressato, finché entra in una chiesa, e dopo aver ascoltato la messa continua a girovagare. Arrivati a casa, il ragazzo concepisce il primo sospetto, “perché erano quasi le 2 e vedevo che non aveva più voglia di mangiare di un morto”. Questo sospetto viene subito confermato con l’episodio del primo banchetto condiviso, a spese del ragazzo, a cui seguiranno episodi simili, accompagnati dalle dissimulazioni di entrambi: da un lato, lo scudiero, con i suoi modi e ossessioni comportamentali, sembra voler ignorare il tema dell’alimentazione e, quando la questione emerge, non potendola cancellare, ricorre alla menzogna; dall’altro, il servo non è da meno nell’arte del dissimulare e, per quanto la fame lo tormenti, finge la virtù della continenza. È significativo il comportamento con cui l’hidalgo sopperisce allo stato di necessità, come la preoccupazione, o ossessione, per la pulizia: non è escluso che questo abbia un doppio significato, dal momento che, se per un verso è un’allusione della nobiltà per la “limpieza de sangre” (purezza razziale), per un altro è un tratto realmente cortigiano, che contrasta la sua concreta condizione economica. Non ha caso, i due capisaldi tematici del capitolo sono: il paradossale rovesciamento dei ruoli di servo e padrone e lo spietato smascheramento dell’ideologia nobiliare. Il processo si consuma definitivamente alla seconda giornata, quando i due banchettano di nuovo con il pane e la trippa che Lazzaro si è procurato grazie all’arte di chiedere l’elemosina, che ha appreso con sapienza dal cieco. Qui si presenta un elemento nuovo: la sincera e profonda compassione che Lazzaro prova per lo scudiero, che ha origine nel sentimento di comune sofferenza. Le distanze sociali si vedono superate: di fronte ai bisogni primari cade ogni distinzione di classe sociale e tutti gli uomini sono uguali di fronte alle esigenze fondamentali, come nel caso della fame e la necessità di soddisfarla, perché nel bisogno di alimentarsi è racchiuso il nucleo stesso della vita. In tal senso, la condizione degli “hidalgos” nella Spagna al tempo del “Lazarillo de Tormes” risulta tematizzata nella scena del romanzo e nel lungo colloquio tra i due alla fine del capitolo, subito dopo l’episodio del funerale: un giorno che i due erano riusciti a mangiare, Lazzaro può soddisfare le curiosità sulle origini del suo padrone, ascoltando le sue confessioni. Lo scudiero racconta di essere venuto a Toledo dopo aver lasciato la natìa Vecchia Castiglia, a causa della contesa avuta con un cavaliere suo vicino, che si rifiutò di salutare per primo, scappellandosi. La ricchezza vantata dallo scudiero è totalmente fittizia, affidati ad una sintassi di periodi ipotetici dell’irrealtà: il patrimonio da lui posseduto varrebbe tanto, se solo non fosse quello che effettivamente è; un terreno che avrebbe un grande valore, se non si trovasse nel luogo dov’è e se vi fossero costruite delle case che però non lo sono ecc…Si tratta di una disastrosa condizione economica, che lo scudiero del romanzo condivide con gli altri “hidalgos” del suo tempo (hidalgia), la categoria più bassa della nobiltà rurale, costituita da scudieri e cavalieri e che si distingueva dai ceti popolari per il fatto di godere del privilegio di essere esenti dal pagamento di tasse e contributi. La rovina economica degli “hidalgos” del tempo era cominciata durante il regno dei Re cattolici, quando furono privilegiate l’alta nobiltà e “los letrados” (per l’amministrazione dello Stato). D’altro canto, nelle campagne, cominciò l’ostilità dei villani contro gli scudieri per i loro privilegi fiscali. Successe allora che molti di loro vennero iscritti nel censo dei contribuenti, perdendo così la condizione nobiliare. L’hidalgo, decaduto ora a pechero aveva la prerogativa di dimostrare la propria “hidalgia”, ottenendo l’opportuna ejecutoria dopo aver sostenuto un processo. Ma tutto questo richiedeva tempo, e soprattutto denaro. È quanto si vede riflesso nella situazione dello scudiero del romanzo, il quale cominciava a non essere più riconosciuto come un hidalgo, come testimoniano un paio di episodi. Il primo si trova all’inizio, quando Lazzaro racconta: “mi disse che era della Vecchia Castiglia, e che aveva dovuto abbandonare la sua terra non per altro che per non doversi scappellare a un suo vicino”. Poco più avanti, lo scudiero racconta un episodio ancora più grave: quando un artigiano gli si rivolse dicendo “Dio mantenga Vossignoria in salute”. Lo scudiero spiega che agli uomini di poco conto ci si rivolgeva così, mentre a quelli che stanno in alto (come si sente lui) non si doveva dir meno di “bacio le mani a Vossignoria” ad esempio. Ciò che è in gioco, dunque, è la honra, l’onore. Tuttavia, l’affermazione con cui lo scudiero proclama l’equivalenza di honra e caudal (onore e patrimonio), fa emergere una diversa mentalità, nella quale la ricchezza materiale si prende la rivincita, specie se è in questione il soddisfacimento di un bisogno primario come il sostentamento (com’è il caso di Lazzaro). Due mentalità quindi: da un lato, quella dell’hidalgo, per il quale l’identificazione di onore e patrimonio comporta un’esistenza contrassegnata dalla privazione e dalla rinuncia, a vantaggio di un’obbedienza assoluta nei riguardi di quel valore ideologico e culturale che è l’onore; dall’altro lato, c’è la mentalità del picaro affamato, dotato di una fede incondizionata nella supremazia del caudal sulla honra. A questo proposito, risulta fondamentale il celebre episodio del funerale. La prima impressione che ebbe Lazzaro della casa dello scudiero è racchiusa in un paio di aggettivi, “oscuro” e “lugubre”, che danno alla casa una connotazione funerea, quasi cimiteriale. Prima l’ingresso oscuro e lugubre che mette paura, poi la desolazione assoluta, e la descrizione termina con una sorta di paragona che assimila la casa ad una “casa incantata”. Secondo un dizionario dell’epoca, con questo termine si indicava “quella casa chiusa e immersa in un silenzio assoluto”; ma “casa incantata” è anche quella dove è stato operato un incantesimo, che, in questo caso, non può essere che malefico. Nella casa dello scudiero, inoltre, ci sono solo due oggetti: il giaciglio e una brocca d’acqua, entrambi in condizioni penose (che si tratti degli unici oggetti è ripetuto per due volte). “Vedila come è lugubre, triste, oscura”: due tre aggettivi usati dallo scudiero per la casa (aggiungendo poi anche scalognata) sono gli stessi che Lazzaro aveva utilizzato quando aveva raccontato l’impressione avuto al momento di entrarvi per la prima volta (lugubre e oscura). Un giorno che lo scudiero si era procurato del denaro lo comunica a Lazzaro e gli dà la moneta, in modo che possa andare a comprare pane, vino e carne con cui banchettare, ma quando il servo si precipita al mercato si imbatte in un funerale e in un risibile equivoco: sentendo una donna dire “marito e signor mio, dove ti portano? Alla casa lugubre e oscura, alla casa triste e sventurata, dove non mangiano né bevono mai”, crede si tratti della casa dello scudiero e corre a barricarsi dentro casa. Questo è uno di quei casi che mostra come ciò che provoca il riso abbia qualcosa dire che sarebbe indecente esprimere in forma diretta, senza ricorrere alla facciata comica. In effetti, non è un errore pensare alla casa dello scudiero come ad una tomba, e ne deriva che la casa-tomba è l’emblema in cui si riassume e rappresenta la condizione di vita dell’hidalgo. La vita vera consiste nel soddisfacimento dei bisogni e desideri umani; rinunciarvi per tener dietro al codice dell’onore e alle sue assurde pretese vuol dire condannarsi a morte, che è esattamente quanto avviene allo scudiero: un uomo che ha rinunciato alla vita per l’onore, e che si è costruito da solo la propria tomba. Dopo aver detto al servo che ha avuto ragione a pensare ciò che ha pensato, lo scudiero gli dà l’ordine di comprare del cibo con la moneta: quindi l’ordine non è di serrare (casa), ma di aprire all’esterno e alla vita. Mangiare, “satisfacer el hambre”, ha la meglio sull’onore, “sustentar la honra”, e una tomba spalancata smette di essere una tomba per riacquistare la funzione di casa. Il minuzioso racconto dell’esperienza di Lazzaro al servizio dei primi 3 padroni sembra indicare una formazione che ha già raggiunto un elevato grado di completezza, e che si fonda sull’acquisizione di una serie di qualità che delineano un radicale sovvertimento di valori e in netto contrasto con i codici vigenti nella società spagnola del tempo. Se non fosse per la facciata comica, potrebbe turbare la suscettibilità dei lettori per l’eccesso di spregiudicatezza e l’impudente dispregio delle convenzioni. Si tratta di sostenere che l’altro è il nemico da cui diffidare e da sopraffare, contro ogni principio religioso e ideologico. • Gli ultimi quattro padroni di Lazzaro Cosa aggiungono alla formazione di Lazzaro le vicende che si frappongono tra la fuga dello scudiero e il matrimonio con la serva dell’arciprete di San Salvatore? A questi racconti sono dedicate per lo più poche righe di testo. A partire dal quarto capitolo, è innegabile che il ritmo narrativo sia più rapido, tanto da generare l’impressione in autorevoli interpreti dell’opera che l’autore sia incorsa in evidenti squilibri della struttura narrativa. Per esempio, Lazaro Carreter giudicò “la sproporzione e la nuova tecnica come debolezza costruttive”. A proposito dell’esperienza che Lazzaro compie presso due dei suoi futuri padroni, è stato spesso invocata dai vari interpreti la sfera erotica. È possibile che i servizi prestati al frate della Mercede, in casa del pittore e venditore di tamburelli alludano all’attività sessuale come ulteriore elemento della sua formazione. Il filo rosso che attraversa queste pagine contenenti le brevi notizie sugli ultimi padroni è costituito dal progressivo affrancamento del protagonista dai bisogni primari e dalle fameliche pene che aveva patito con i primi tre padroni. L’affrancamento poi si fa totale grazie all’attività che Lazzaro svolge come banditore e venditore di vino/acqua al servizio del cappellano della cattedrale di Toledo: un lavoro che gli consentiva non solo di soddisfare i bisogni primari, ma di accumulare tanto denaro da poter compiere un passo decisivo per l’emancipazione dalla servitù e per la vantata ascesa sociale (potrà acquistare capi d’abbigliamento che gli permetteranno di conquistare una certa rispettabilità sociale): gli consentirà di convertirsi in un rappresentante della giustizia, sebbene di infima categoria. Ma in che misura si adatta a un tal disegno il racconto presso lo spacciatore di bolle? Il racconto della sua esperienza presso il buldero, oltre a una fedele rappresentazione di quel fenomeno che, nella Spagna di Carlo V, fu costituito dalla vendita delle indulgenze legata all’emissione di bolle della Santa Crociata, è anche una magnifica narrazione che risale a un’autentica tradizione di genere novellistico e comico. È stato Lazaro Carreter a esprimere seri dubbi sull’organicità della narrazione nell’insieme del racconto: l’autore del romanzo, nell’episodio in questione, trasforma Lazzaro “da protagonista a semplice testimone” e questa sarebbe “una chiara prova della rinuncia a un tipo di struttura più complessa”. Effettivamente, il racconto dell’inganno organizzato dalla coppia formata dal predicatore e dal bargello vede Lazzaro operare da “semplice testimone”. Solo che tale accorgimento è un espediente che svolge una funzione essenziale nella formazione del protagonista, contribuendo alla coerenza di significato dell’intero complesso narrativo. Un altro elemento è la prospettiva dalla quale è raccontato l’episodio: Lazzaro adulto e narratore, pur essendo a conoscenza della truffa del suo padrone, decide di riferire la vicenda del falso miracolo dal punto di vista del giovane e ingenuo protagonista dell’episodio, quello cioè di testimone (“confesso il mio peccato, anch’io ne fui stupito e credetti che così fosse”), dichiarandosi vittima come tutti gli altri dell’inganno, ma no dei danni gli altri ne hanno ricevuto. L’espressione usata, “creì que asì era”, non può non ricordare quella già utilizzata all’inizio della storia, della doppia zuccata: di Lazarillo contro la statua di pietra (“creyendo ser asì”) e del cieco contro il pilastro di Escalona (“creyose de mì”). La compiacenza e l’intimo piacere che Lazzaro prova nello scoprire la frode fanno di lui un impostore al pari del padrone. Il ruolo di testimone consente di considerare davvero conclusa l’intera sua esperienza formativa, e d’iscriverla tra episodi, che testimoniano, tra le risate dei personaggi più smaliziati ed egoisti e quelle dei destinatari della narrazione, del trionfo di un’antimorale, che ha i suoi punti di forza nella totale sfiducia nei confronti dell’altro e nella sopraffazione del prossimo. Affrancatosi dall’obbligo del servizio presso nuovi padroni, grazie ai risparmi accumulati come banditore e venditore d’acqua, conquistata una certa rispettabilità sociale, apprese quelle perverse virtù che gli consentono di contrastare la fortuna avversa, a Lazzaro non resta che attendere l’occasione propizia che lo porterà “nel pieno della prosperità e in cima alla mia buona fortuna”. E l’occasione gli si presenterà nella duplice circostanza: la sistemazione con l’ottenimento dell’impiego reale di banditore, e nell’esercizio di questo ufficio, l’incontro con l’arciprete di San Salvatore. Lazzaro usa la parola chiave, il tema principale dell’opera, ovvero “medrar”, che significa fondamentalmente essersi lasciato alle spalle le privazioni del passato e aver raggiunto il benessere materiale. Capolavoro di stile ironico, le ultime pagine dell’epistola servono a Lazzaro per tornare sul “caso”; pretendere di giudicare la sua condotta nei termini di un comportamento corrotto, significa aver capito poco del racconto che Lazzaro ha fatto della sua vita, o meglio vuol dire ostinarsi ad assolvere o condannare il modo di condursi di ogni individuo sulla base dello stesso sistema dei valori elaborato dai ceti Il ragionamento appare contraddittorio, in quanto ci parla di due concetti opposti: in realtà risulta essere proprio un espediente letterario. Rojas cambiò di proposito perché voleva un’opera con una finalità specificatamente estetica e didattica. Nella Commedia, la “pillola indolcita/indorata” aveva la doppia funzione di dilettare e curare il malato d’amore. Al contrario, nella Tragicommedia, Rojas insiste sul fatto che l’opera sia un esempio negativo di ciò che non si deve fare. L’opera ebbe molto successo, e provocò egualmente sia entusiasmo che repulsione, poiché considerata crudelmente divertente e indecente. Juan de Valdés criticava Rojas, e scrisse: “me contenta el ingenio del autor que la comenzó, y no tanto el del que la acabó.” Troviamo due correnti di pensiero che dibattono sull’analisi del significato dell’opera: - La giudeo-pessimista (Gilman) -> si concentra sulla discendenza ebrea di Rojas e sulla sua educazione da converso. Sottolinea il fatto che deve essersi sentito rifiutato da una società ostile. Pensano sia stato nichilista, poiché hanno notato che trasforma ironicamente dei proverbi in modo tale da criticare la società del tempo. Il pianto di Pleberio può essere una trasposizione dell’interiorità tormentata del poeta. - La cristiano-didattica (Bataillon) -> si rifa alle dichiarazioni che Rojas fa nelle ultime strofe, e le traspone poi sui personaggi per giustificarsi. Attraverso Calisto, starebbe criticando l’amor cortese, e la sua condizione moralizzante viene espressa attraverso una serie di convenzioni di famosi topoi medievali. Prosa -> serve per curare i malati d’amore Verso -> il fine si otterrà grazie ad una stesura ben fatta -> il puro piacere dell’ascolto servirà a curare l’ascoltatore dal suo mal d’amore. Secondo Gilman e Severin, Rojas dalla prima alla seconda stesura dell’opera, sembra essersi impaurito -> le critiche lo avranno fatto ridimensionare, date le sue condizioni sociali poco favorevoli. Nota Severin che inizialmente la finalità dell’opera era quella di conseguire un ordine artistico ed estetico, e necessitava di conseguenza di un racconto che dilettasse e allo stesso tempo disilludesse gli innamorati che soffrivano. Appurato questo, decise di unire due concetti di carattere artistico: commedia e tragedia. • Genere e parodia Parlando del primo romanzo moderno, si pensa immediatamente al “Don Quijote”. Se però si pensa agli stessi criteri per cui esso si considera romanzo moderno, possiamo considerare “La Celestina”, scritto cento anni prima, un precursore del genere. Calisto è letteralmente la parodia dell’amante cortese: vuole perseguire la vita da cavaliere da favola sentimentale in un mondo di realismo dialogico, fatto di prostitute, servi, ladri e mezzane. Calisto, come Quijote, fallisce nel suo tentativo e muore. Sia Rojas che Cervantes smontano il mondo della finzione medievale, dimostrando che è impossibile vivere come un cavaliere errante o come un amante cortese, in un mondo realista. Mentre Don Quijote vive una vita immaginaria ambientata in tempi remoti, Calisto entra in scena pochi anni dopo il trionfo del suo modello, Leriano della Carcel de amor. Secondo Riley, il romance puro può rappresentare il genere fantastico al suo stato più genuino, mentre il romanzo moderno si può considerare come suo correlativo realista. Secondo Deyermond, Rojas scrive una parodia dialogata del romanzo sentimentale, e che allo stesso tempo sia tragica e comica. Bataillon aggiunse la nozione di opera teatrale moralizzante. Gilman introdusse il concetto di “dialogo vivo”. Dall’inizio della Celestina, salta subito all’occhio che il personaggio di Calisto sia il più marcato dalla matrice comica -> nella “Celestina commentata” viene definito un idiota (bobo). Secondo MacDonald, è vittima della pazzia amorosa -> effettivamente Calisto ci si comporta, ma poi i suoi scopi sono ben lontani dall’amore vero. Calisto è un personaggio comico, non tragico, indipendentemente dal fatto che la sua morte è la causa che spinge Melibea ad uccidersi. Secondo Severin, Calisto è proprio la parodia del protagonista del romanzo sentimentale spagnolo, – Carcel de amor (1492) – Leriano. -> a riprova di ciò, l’opera fu pubblicata 7 anni prima della prima edizione della Celestina, e Rojas sembra aver preso anche dei prestiti testuali dalla Carcel. Il modello da criticare del primo autore non era il romanzo sentimentale spagnolo, bensì la commedia italiana umanistica in latino. Presentato sin dall’inizio come un amante cortese inetto, Calisto dal primo incontro con Melibea fa cattivo uso del suo libro di testo “Andreas Capellanus”, provocando risposte infastidite e stizzite da parte di lei. -> nell’amor cortese, la donna amata si deve solo ammirare da lontano -> il suo essere così diretto e invadente afferma ancora di più il suo essere ridicolo. L’atto XIV è importante in quanto Rojas tenta di dare alla figura di Calisto una seconda opportunità per scappare dal suo destino meramente parodico -> grazie all’immaginazione sembra maturare ed evolversi in una persona seria ed interessante: ripensa alla sua prima notte di amore. Si rivolge direttamente all’immaginazione: “Pero tu, dulce imaginacion” Parallelismi tra Leriano e Calisto: - Entrambi si servono di un messaggero (Calisto usa la mezzana Celestina; Leriano usa l’autore stesso) - Entrambi fanno un appassionante dibattito sulle qualità della donna amata (Calisto lo fa col suo servo sleale Sempronio, che a fine discorso ride di lui; Leriano ne parla seriamente col suo amico Tefeo) - Entrambi muoiono d’amore (Calisto di morte accidentale e comica; Leriano di destino inevitabile) - Entrambi tormentati psicologicamente (Calisto dai suoi servitori; Leriano dall’autore per l’allegoria del carcere già dal titolo) Nell’atto IV, Celestina descrive Calisto a Melibea come un personaggio epico eroico, di sangue nobile e lo paragona ad Hercules: ovviamente la descrizione è esageratamente parodica, e la cosa che la rende più divertente è che Melibea non è al corrente del tono ironico. Lo sviluppo parodico di Calisto arriva al limite nel VI atto, quando sia Celestina che Parmeno e Sempronio sono annoiati dai suoi comportamenti assurdi ed eccessivi nei confronti di Melibea, ma allo stesso tempo divertiti dallo scherno che ne esce. L’amore di Parmeno e Areusa è una parodia dell’amore di Calisto e Melibea -> i servitori sono lo specchio realista e grottesco di fronte all’amore di Calisto e Melibea. La figura di Melibea non sembra essere parodica, ma il ritratto di una giovane che si innamora pazzamente, fino alla perdizione. Fino al primo atto, sembra resistere alle richieste continue di Calisto; più tardi però cade sotto l’incantesimo di Celestina e Calisto. -> dato che Melibea è l’unica innocente, che non ha doppi fini e rimane intrappolata in una situazione di cui non era consenziente, si può considerare l’unico vero personaggio tragico dell’opera. -> analogia con Isotta. Melibea, come Calisto, conforma il suo comportamento a quello di un modello letterario: tende a vedersi come un’eroina di un romanzo morisco, o come una bella malmaritata della lirica popolare. La morte (o meglio suicidio) di Melibea non è da romanzo sentimentale, bensì una morte realista e brutale, appartenente al mondo materiale. Pianto di Pleberio secondo: - Scuola giudeo-pessimista: condanna desolata dell’amore -> la vita lascia poche speranze di riforma o di redenzione per la specie umana - Scuola cristiano-didattica: punto di vista tradizionale e moralista Col dolore espresso dal pianto di Pleberio, la morte metaforica dell’amore è diventata morte reale e tangibile. -> amore = morte La Celestina, essendo un antiromanzo di cavalleria, spiana la strada al romanzo picaresco -> la sua struttura dialogica rivela un mondo di realismo interiore ed esteriore. • La critica attuale Pelayo fu il primo critico moderno di categoria che studiò i personaggi dell’opera. Secondo l’immaginazione popolare, il personaggio di Celestina ha fatto subordinare tutti gli altri -> il titolo definitivo infatti le dà importanza. Maetzu pensa che il suo personaggio sia demoniaco, edonistico e antieroico. Altre critiche: pedofilia, stregoneria
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