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Letteratura spagnola II, Sbobinature di Letteratura Spagnola

Appunti delle lezioni di letteratura spagnola II

Tipologia: Sbobinature

2021/2022

Caricato il 16/02/2022

asaplucrezia
asaplucrezia 🇮🇹

4.5

(14)

19 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Letteratura spagnola II e più Sbobinature in PDF di Letteratura Spagnola solo su Docsity! Letteratura spagnola 04/10/21 In Spagna con Siglo de Oro o Siglos de Oro, si intendono i secoli tra ‘500-600, quello che nella letteratura italiana associamo al Rinascimento e Barocco. Si chiama Siglo de Oro perché nel canone letterario spagnolo sono i secoli che letterariamente e artisticamente di maggiore splendore reso metaforicamente appunto tramite l’utilizzo dell’oro. Il Lazarillo de Tormes esce simultaneamente in 4 edizioni dello stesso anno, 1554. Quando parliamo delle origini è un po’ più difficile dare una data: la prima “jarcha” (poesia in lingua mozarabica) è datata 1042, ma da questa prima testimonianza scritta non si può affermare con certezza che prima di questa data non ci siano state altre forme di letteratura. Per quanto riguarda le origini dobbiamo usare il termine periodo di latenza: con “latenza” si indicano tutte quelle realtà che ci sono ma non sono materialmente percepibili. Per la letteratura delle origini il termine periodo di latenza è stata coniata da un personaggio importantissimo, lo studioso Menendez Pidal, che coniò quest’espressione per dire che, ad esempio nel caso della lirica mozarabica, questa lirica ebbe origine in secoli molto remoti, però circolò solo nell’oralità. È una lirica di tipo orale e tradizionale, quasi folklorica, che visse trasmettendosi nell’oralità, non circolò attraverso testimoni scritti, finché ad un certo punto, probabilmente perché molto apprezzata dai poeti colti, venne trascritta. Quando noi diciamo che la prima Jarcha è del 1042 intendiamo che la prima volta che fu scritta e arrivò a noi fu nel 1042, ma è molto probabile che questa canzoncina già esistesse nella tradizione orale, e datarla nel secolo decimo o addirittura nono. In ambito europeo si dice che la letteratura spagnola mantiene un primato: ossia la letteratura europea nasce in Spagna. Per gli italianisti, La Celestina e Il Lazarillo diventano grandi classici della letteratura spagnola. Il Lazarillo, che appartiene al genere della Picaresca, sarà il modello europeo del romanzo idealista, autori come Charles Dickens si ispireranno ad opere spagnole, specialmente al Lazarillo. Con la Picaresca la letteratura spagnola diventa un modello per tante letterature europee (italiana, francese…) 06/10/2021 Prima che fossero rinvenute e tornassero alla luce, queste strofette conosciute come jarchas, non vi era nessuna traccia di una lirica romanza, si pensava che le letterature romanze iniziassero con la poesia trobadorica (Francia, dodicesimo secolo). Tuttavia c’era il sospetto che prima della francese fosse esistito qualcos’altro perché la poesia trobadorica nasce già in modo maturo e raffinato, dunque gli studiosi ritengono che difficilmente potesse essere il principio. In area iberica, le prime liriche che precedevano il ritrovamento delle jarchas attestavano alla metà del quindicesimo secolo. La prima pubblicazione di liriche era il Cancionero de Juan Alfonso de Baena (1445). Non possiamo tradurre la parola con canzoniere perché in italiano è una raccolta di liriche con taglio fortemente biografico, mentre in spagnolo è un’antologia di liriche collettive, di autori vari e non di un singolo. Fino al 1948, si riteneva che la lirica castigliana iniziasse verso la metà del quindicesimo secolo. Anche in area iberica, il sospetto che prima del 1400 fosse esistita una lirica non tramandataci da testimoni scritti trovava le sue radici nel fatto che in alcune opere (come in quelle di Gonzalo de Berceo) ci fossero citate liriche di taglio fortemente folklorico che vennero recuperate da questi autori, collocate nelle loro composizioni e che testimoniano una pre-esistenza di qualche altra manifestazione lirica smarrita. Marcelino Menéndez Pelayo è uno studioso che sosteneva che la lirica si fosse sviluppata dopo l’epica perché ha bisogno di pace e con condizioni di vita più consone (vita di corte, prestigiosa e raffinata), mentre l’epica (epoca eroica) è un canto guerriero. C’era però la percezione che ci fosse qualcosa prima, che ha portato alla formulazione di tre ipotesi sull’origine della lirica, due delle quali si sono dimostrate abbastanza attendibili (si basavano però solo su congetture) 1. Secondo la teoria romantica (esponenti Goethe, Grimm) riteneva che le manifestazioni liriche fossero nate spontaneamente tra il popolo, portato a creare una propria lirica, che circola nelle diverse comunità in modo aleatorio ed orale. 2. Si contrappone a questa teoria la teoria mediolatina, secondo la quale sostiene un’origine colta e non più popolare. Si continuò a produrre, anche con le lingue romanze, una poesia in lingua latina anche nel medioevo. 3. La teoria araba sosteneva che sia l’epica sia la lirica in Spagna avessero avuto origini in Al-Andalus (nome che gli arabi avevano dato al territorio che verrà poi chiamato Andalucia) e quindi epica e lirica dovevano la loro origine al popolo conquistatore arabo (Julián Ribera, Emilio García Gómez e Ramón Menéndez Pidal). Le moaxaja (moassascia = 6 versi in lingua araba) sono componimenti lirici che possono essere sia in lingua ebraica che araba, ma la lingua che nascondono è romanza. Questi testi erano nascosti all’interno di altre composizioni, e per poter essere comprese necessitavano di esperti. Ad oggi abbiamo un’ottantina di jarchas, alcune in lingua araba altre in lingua romanza. La lingua romanza “nascosta” dietro questi caratteri è la lingua mozarabica, una lingua romanza farcita di lessico arabo e di una certa fonetica arabizzante, perché era la lingua romanza parlata dai cristiani dopo l’invasione araba. Questi mozarabes, vivendo a contatto con i conquistatori, parlavano una lingua romanza con forti tracce sintattiche e fonetiche provenienti dall’arabo. Lengua mozarabe, “mozarabica” o roman-andalusí o romance-andalusí. Arabo Spagnolo Italiano خرجة Jarcha/kharǧa uscita/finale = versi che chiudono le moaxaja Jarchas/kharǧat Moaxaja/Muwaššaha cintura doppia o collana con un doppio filo di perle موشح e lustrini Il significato del doppio giro sta a significare l’alternarsi dello schema rimico: AABBB AACCC AADDD In Spagna convissero 3 civiltà: ebrei, arabi e cristiani. Vissero in un clima di convivenza pacifica, che permise il nascere di una letteratura. La letteratura romanza scritta in caratteri arabi o ebraici viene detta letteratura aljamiada (ossia straniera). Queste caratteristiche (estrema concisione del canto, immediatezza, semplicità delle strofette, scarso retoricismo) avranno nella letteratura spagnola molto successo: questo filone tradizionale continuerà a risvegliarsi nel corso dei secoli. Lo ritroveremo nei poeti barocchi del 1600, che scriveranno sul modello folklorico popolare, scriveranno molte canzoncine d’amore, fino ad arrivare ai poeti del 27, come Alberti e Lorca, che recupereranno questo filone folklorico costituendo in pieno 1900 un filone chiamato neo tradicional, in cui recuperano questa tradizione e la riscrivono. Questo filone ebbe di molta fortuna in Spagna. Un’altra differenza fra muwasshasha e jarcha è la lingua: una in arabo classico e una in dialetto romanzo ma con caratteri arabi. Questi testi, seppur così diversi, vivono insieme: l’ultima strofa della Muwassasha contiene sempre dei versi di transizione, ossia due versi in cui il poeta elabora il passaggio dal testo in lingua araba a quello in lingua romanza. Esempio: come il poeta lamenta l’amore per la sua amata cosi la fanciulletta lamenta la lontananza del suo amore, oppure; il poeta lamenta la perdita di un suo amico e la fanciulletta lamenta la perdita del suo amato. La congiunzione tra i 2 testi è sempre tramite il sentimento. Quando parliamo di mozarabe parliamo della lingua dei Mozarabes, ossia i cristiani non convertiti che vivevano in Al Andaluz: la società di Al Andaluz era multilingue, e il contatto fra le 3 civiltà (cristiani, arabi ed ebrei) fa sì che la lingua si contamini. Quindi se il Mozarabe in principio fu la lingua dei cristiani non convertiti all’islam, a volte era anche la lingua degli arabi che vivendo in Al Andaluz imparano, ascoltano e apprendono termini della lingua Mozarabe. La lingua mozarabica è un dialetto paleo-romanzo (il più antico probabilmente) che condivide alcune caratteristiche anche con il castigliano medievale, ma con aspetti più conservativi rispetto al latino. Caratteristiche della lingua mozarabica A livello fonologico: 1) Conservazione dei gruppi iniziali consonantici latini CL-, FL-, PL- 2) Mancata lenizione delle consonanti sorde intervocaliche: T→ D; P → B; C → G: ossia non si sonorizzano. In spagnolo le consonanti T, C, B si trasformano in sonore (caput diventa cabo, acuam diventa agua): questo è successo nell’evoluzione della lingua castigliana, perché nella lingua araba le consonanti rimangono sorde 3) Un'altra caratteristica è la mancata palatalizzazione del gruppo latino –CT-; noctem → nohte e non noche A parte queste caratteristiche, il Mozarabe dimostra la sua vicinanza alla lingua araba soprattutto dal punto di vista lessicale per la presenza di alcuni lessemi arabi inglobati. Quando noi leggiamo questi testi abbiamo a che fare con traslitterazioni, quindi la percentuale di errore è enorme, anche perché le lingue semitiche si scrivono senza le vocali, con soltanto una sequenza di consonanti: ecco quindi che di una stessa jarcha abbiamo diverse versioni, creando diverse difficoltà. Nella società arabico-andalusa dei secoli VIII, IX e XI, i costumi erano molto evoluti: dalle muwassasha capiamo che queste fanciulle giovanissime abbiano un’intraprendenza e libertà nei costumi che sorprende per l’epoca. Lunas Nuevas (Traduzione Di Emilio Garcìa Gomez) Emilio Garcìa Gomez rinviene un grande numero di jarchas scritte in arabo, lui non solo traslittera il testo, ma cerca di ridargli la stessa struttura metrica: cerca di costruire quell’alternanza dello schema aa-bbb-aa-ccc-aa-ddd-aa-eee I traduttori di poesia, ancora prima dei traduttori di prosa, devono mantenere il ritmo e una struttura rimica che dia a noi, che non conosciamo l’arabo, una dimensione di questo testo che altrimenti non potremmo cogliere. Lunas nuevas salen entre cielos de seda: a cabeza (arabo matla) guían a los hombres, aun cuando eje no tengan. a 1. Sólo con los rubios se deleitan mis ojos: b mudanza (arabo: ghusn) ramos son de plata que echan hojas de oro. b ¡Si besar pubiera de estas perlas el chorro! b ¿Y porque mi amigo a besarme se niega , a vuelta (arabo: qufl o bayt) si es su boca dulce y la sed me atormenta? a 2. Es, entre jazmines, su carrillo amapola. c mudanza Rayas de jaloque y de algalia le adornan. c Si tambiên añado cornalina, no importa. c No obra bien si espanta su galán la gacela, a vuelta cuando de censores las hablillas acepta. a 3. ¿Con mi amigo Ahmad, hay, decid, quien compita? d mudanza Único en belleza, de gacela es cual cría. d Hiere su mirada todo aquel a quien mira. d ¡Cuántos corazones bien traspasa con flechas, a vuelta que empenacha su ojo con pestañas espesas! a 4. Mientras del amigo yo encontrábame al lado e mudanza y le ponderaba mi dolencia y maltrato, e ya que él es médico que pudiera curarlos, e vio el espía que, sin que nos diéramos cuenta, a vuelta vínose a nosotras, y le entró la vergüenza. a 5. Cuánta hermosa moza, que de amor desatina, f mudanza ve sus labios rojos, que besar bien querría, f y su lindo cuello, y a su madre los pinta: f Traslitterazione: ¡Mamma, ay habibe! So l-ymmella saqrella, a última vuelta (arabo jarcha) El –qwello albo e bokella hamarella. a Traduzione: ¡Madre, qué amigo! Bajo la guedejuela rubita, el cuello albo y la boquita coloradida. Spesso le muwassasha iniziano con un preludio, e quando la muwassasha non presenta preludio (in spagnolo si indica con il termine “cabeza” perché appunto si trova all’inizio del componimento) si chiamano calve. Il preludio dà il tono all’intero componimento: in qualche maniera ne dovrebbe anticipare i temi successivi o quantomeno sinteticamente aiutare l’ascoltatore o il lettore ad entrare nell’argomento. Questo preludio crea delle circostanze cronologiche: non è del tutto chiaro il significato di questi 2 versi del preludio, ci sta dando una circostanza astronomica, quella del plenilunio: la luna, in posizione tra la terra e il sole, viene oscurata, ma è nella sua fase crescente, passando da luna nera e oscurata a luna illuminata. Si tratta di una luna che sorge nei cieli di seta (la seta indica la morbidezza e lucentezza del cielo) e la luna nelle popolazioni antiche fungeva da fonte di orientamento. Estribillo = vuelta (vuelta significa ritornare/ritornello quindi sta a significare una cosa che torna) È la jarcha stessa che fornisce le rime alla muwassasha, la quale si presenta come una grande amplificazione della jarcha; la muwassasha nasce a partire dalla jarcha. 5. ;Dios mio, la doncella temerosa / ha tenido miedo de la separación! Es niña de trece (años) / que ha hecho fluir las lágrimas de sus ojos. / Dice, en estado de estupor, / a su madre con pasión: Per descrivere la bellezza dell’amato, l’io lirico ricorre ai colori dei minerali (bianco, giallo, rosso, argento…), e ad elementi floreali. Anche nella lirica occidentale è presente la dimensione faunistica; ci risulta familiare anche la presenza del censore (che possiamo chiamare sentinella/guardia), a volte benevolo, a volte ostile. Molto spesso questa “spia” è l’ostacolo dell’amore. Sul piano sociale rappresenta la morale, il collettivo, in questo caso specifico il censore viene vissuto con timore dall’io lirico perché spaventa la sua gazzella. L’io lirico desidera incontrare il suo amato durante la notte, al buio poiché il loro è un amore irregolare, clandestino. Questo è un aspetto fondamentale dell’amore cortese, perché nel matrimonio non c’è amore, il vero amore è quello adulterino. Per quanto riguarda gli elementi esotici e divergenti, c’è un filone omo-erotico (o omofila) e sconosciuto da noi perché ciò inizia con Federico Garcia Lorca e con la sua raccolta di sonetti d’amore che sono Los Sonetos Del Amor Oscuro, che già nel titolo sottolinea il carattere di proibizione e irregolarità. Questo potrebbe essere un filone omofilo, oppure un filone di poesia femminile, proprio perché nel 1990 è stata pubblicata quest’antologia di poesia femminile ispanoarabe di Maria Jesus in cui vengono raccolti una serie di testi scritti da donne. Un'altra grande novità è la celebrazione della bellezza maschile, tema assolutamente ignoto nella nostra lirica, se non in pochi testi moderni, e accanto alla bellezza maschile l’esaltazione di un amore sensuale. La donna non è mai protagonista, se non oggetto della lirica, è un fantasma silente dell’innamorato. Nelle jarchas, invece, la voce femminile della fanciulla, non solo comunica il proprio amore per l’amato agli altri (universo familiare, in genere mamma o sorelle), ma si dimostra molto attiva e disinibita rivelando i propri gusti e le proprie propensioni. Traduzione mowassasha (pagina 16): chi mi darà la gazzella schiava che i leoni cacciano via dei canneti, è mia debitrice quando io attendevo da lei la restituzione di ciò che mi deve. Ho messo il mio destino per quello che la riguarda tra la speranza e il desiderio. Non ho manifestato la mia disperazione quando lei prolungò la sua ingiustizia, ma mi sono detto “cuore mio proteggila da ogni cattivo pensiero e tu anima mia rilassati”. Oh, colei che ritarda il suo arrivo, fai quello che è nel tuo potere, perché certamente io con la tua decisione sarò contento. Oh colui che si allontana ingiustamente da chi non può essere paziente. Non c’è male in cui io non soffro d’amore se non vai via da me. Il mio ultimo sospiro di vita è in te, dopo di che colui che dorme, con occhi tranquilli, colui che lancia la freccia. Si è comportato così male il mio cuore (metonimia) con te che non smetto di soffrire, con te il mio cuore si lamenta della sua passione, ma non serve a nulla questo lamento. Sii buono, nelle tue mani ci sono la mia vita e la mia morte. Oh mio veleno, oh mia cura. Nella tua bocca c’è la cura di ogni mia malattia ma a causa tua mi sono ammalato fino allo sfinimento: porta a termine ciò che hai deciso. Chi mi darà la languidezza dei suoi occhi, chi passa ondeggiando i suoi fianchi, e se anche io provassi a descriverla sarei incapace. Lo sguardo del triste passeggia per la sua guancia come se fossero dei giardini ma la sua pancia è protetta dal raccoglier i fiori da alcune sciabole fini e penetranti. Dio mio, la fanciulla ha paura della lontananza. Ha 13 anni e dice a sua mamma; mamma l’amico se n’è andato e non ritorna, che farò se la sofferenza non mi lascia? Abbiamo un continuo spostamento che ci rende difficile la comprensione del testo; la prima riflessione che si può fare sono le differenze tra la donna della mowassasha e la fanciulla della jarcha. Questa volta lui si lamenta dell’assenza di lei, e quest’ultima gli è debitrice ma non gli restituisce quanto dovrebbe. Il preludio comprende i primi 4 versi, questa volta è scritta con una barra a fine verso (sequenziale). Questa sua abnegazione deriva dal fatto che la dama viene posta ad un livello superiore, viene venerata come una dea. Nella seconda strofa ci sono diverse perifrasi che stanno a significare “amore” (in corsivo); c’è poi la metafora della malattia d’amore, cupido che ha scoccato una freccia nel cuore dell’innamorato. Nella terza strofa, l’amore è un sentimento dove ci sono tutti gli opposti; l’io si affida a lei e lascia che faccia il suo dovere, per porre fine al suo dolore. Lei è malattia ma allo stesso tempo cura. Nella quarta strofa, il poeta tenta una descrizione minima della bellezza di lei, ma anche qui, come nella mowasassha precedente, questa descrizione si limita al volto; questa è talmente grande che non è impossibile descriverla, impossibile rendere questa bellezza (esaltazione della donna come essere superiore, quasi divino, l’amore si avvale di iperboli sacro-profane). Descrive di lei gli occhi, i fianchi che ondeggiano quando passa e le guance paragonate a dei giardini da cui i fiori non si possono cogliere che sono difese ca sciabole penetranti e cioè ritroviamo le ciglia dell’innamorato che in un certo senso tutelano la purezza e la castità dell’amata. Nella quinta strofa cambia tutto; prima assistiamo a un canto maschile nei confronti della donna. In questa strofa di transizione ci aiuta a cogliere il nesso tra il sentimento espresso dalla mowassasha e il sentimento della jarcha; qui ritroviamo un narratore esterno che mette a confronto le due situazioni e ci fa capire la connessione tra queste due situazioni. Il nesso è proprio la distanza i due innamorati; nel primo caso ritroviamo una distanza psicologica, mentre nella jarcha ritroviamo questo amico che è andato via fisicamente e viene dichiarata anche l’età della fanciulla. L’autore è Al-Jabbaz Al-Mursi del XII secolo, il cui nome significa “il panettiere di Murcia”, del quale non si sa quasi nulla ma sappiamo che era figlio di commercianti che viveva a Murcia. L’autore della jarcha è Giuseppe Lo Scriba. Questa jarcha noi la consociamo come la prima databile e infatti è quella del 1042 e dunque la prima che è stata datata. Qui ci troviamo nella lirica mozarabica (romanza) per cui alla fine della traslitterazione fatta da Emilio Garcia Gomez, ciò è quello che troviamo alla fine e cioè la jarcha fatta da una sequenza di consonanti solo dato che è scritto in caratteri arabi e l’arabo come tutte le lingue semitiche non usa le vocali. La jarcha è una quartina in cui non ci sono particolari rime. Non è mai narrativa, non racconta, non descrive, mentre elementi narrativi si possono trovare nella moassasha come il censore e uno spostamento. La jarcha è solo una semplice accento lirico di una gioia o di una pena e poi inizia e finisce senza che il lettore sappia che coda è successo e nemmeno come terminerà, perché non sappiamo perché è andato via o perché sa che non torna più e non sappiamo cosa le dice poi la mamma. È un caso lirico sospeso quindi che inizia in medias-res e termina ex-abrupto (all’improvviso). Le jarchas sono quasi le prime opere aperte ma qui non è importante il prima e il dopo ma solo cogliere il sentimento, di esser abbandonati che è comune a tutti gli innamorati dell’epoca. Dal punto di vista linguistico ritroviamo vari lessemi come habibi, o gar che vuol dire dire o anche ya mamma. Tipico anche delle mozarabe è il lesade che vuol die lasciare ed è più vicino all’italiano che allo spagnolo dato che il mozarabe deriva comunque dal latino. Tutto viene costruito con esclamazioni e interrogazioni che apostrofa la madre che più che un destinatario entrato in causa rimane solo un testimone che non è coinvolto direttamente ma ascolta in silenzio. 18/10/21 (Pagina 18-19 dell’antologia) I Ya mammã, me-w l-habibe bais' e no más tornarade. Gär ké faréyo, ya mammã: ino un bezyello lesarade? II Ya matre miá r-rajima, A rayyo dè manyana, ben Abu-l-Hajyaÿ, la faze dé matraña, III Tant' amäre, tant' amäre, habib, tant' amäre, enfermiron welyos nidios e dölen tan mâlè. IV Garid bos, ay yermanëllas, kóm kontener-hé mew málè. Sin al-habib non bibireyo: ¿ab ob l' iréy demandare? V Báy-Se méw qorazón de mib. ¡Ya Rabb, Si Se mê tornarad! ¡Tan mäl me dólèd li-/-habib! Enfermo yed: ¿kuand Sanarád? VI ¿Que faray, mamma? Meu'l-habib est' ad yana. Ottosillabo = verso prediletto nella poesia spagnola, così come l’endecasillabo è verso italiano per eccellenza. Prima strofa: “Oh mamma, il mio amico, se ne è andato e non torna. Che farò madre? Non mi lascerà un bacetto?” Seconda strofa: “Oh mammina dolce, alle prime luci del mattino arriva (viene) Abu-l- Hay, con il volto d'aurora”. Strofa terometrica (irregolare), primo/secondo/quarto verso settenari, terzo verso senario, con rime nei versi pari. I versi si presentano in maniera irregolare proprio perchè la jarcha è strettamente collegata alla poesia popolare e folklorica (uso orale) perchè la misura versale nasce dalla spontaneità. ovviamente c’è stato un autore in origine, ma è prettamente una poesia popolare, tramandata dall’oralità del popolo, mentre “popolareggiante” significa d’autore, sappiamo chi sono gli autori trobadori; popolareggiante significa inoltre “imitare le caratteristiche della poesia popolare”, come l’essere testi brevi ed essenziali, che calcano molto sull’efficacia lirica sull’espressione del sentimento, con linguaggio semplice. I canzonieri che ci sono giunti si dividono in 2 categorie: canzonieri collettani o canzonieri individuali (di un solo autore). I canzonieri della lirica galego-portoghese sono tre, ed i nomi sono dati o da chi l’ha trovati oppure dalla città in cui sono stati trovati: Canzoniere de Ajuda, il cui nome è quello di una cittadina vicino Lisbona (Ajuda), è il canzoniere più antico dei tre, in cui sono presenti solo Cantigas de Amor; Canzoniere della Vaticana, fu scoperto proprio nella biblioteca Vaticana; Canzoniere Colocci-Brancuti, fu rinvenuto nel 1978 nella biblioteca del Conte Brancuti, ma apparteneva in origine all’umanista del 1500 Angelo Colocci. Successe che questo canzoniere si trovò nelle mani di un filologo che decise che alla sua morte doveva rimanere in Italia, ma le cose non andarono così, infatti il governo portoghese riuscì ad ottenerlo ed attualmente si trova nella biblioteca nazionale di Lisbona. I canzonieri individuali sono sostanzialmente due: il primo si chiama Pergamena Vindel, ritrovato casualmente nel 1914 dal libraio Pedro Vindel su una pergamena che fungeva da copertina al De Officiis di Cicerone. Contiene le sette Cantigas de Amigo di Martìn Codax. Il secondo è la Pergamena Sharrer, rinvenuta a Lisbona nel 1990 in pessime condizioni dallo studioso Leo Sharrer, con sette Cantigas de Amor composte dal re portoghese Don Dinis. 25/10/2021 Le Cantigas si articolano in tre generi, di cui uno è autoctono (ne abbiamo testimonianza soltanto in area iberica) mentre gli altri due generi, le Cantigas de amor e le Cantigas de escarnho (o maldizer/maldicer) erano già presenti in area provenzale. Discendono direttamente dai modelli trobadorici. Le Cantigas de amor hanno il modello della poesia d’amore di taglio cortese, e quindi prevede una struttura feudale applicata al sentimento amoroso. La dama, alla quale ci si appella come senhor, è oggetto della devozione dell’innamorato, che in spagnolo si chiama galán. La dama è superiore e l’innamorato, che confessa le sue pene (o coita) nella lirica, deve stare attento a non compromettere il ruolo della dama. Questo amore si sviluppa denunciando un dolore, un’impossibilità, di raggiungere il destinatario amoroso. Caratteristica fondamentale del poeta è saper amare con misura. Il tema principale è quello della coita. Questo soffrire viene reso dalla parola “coita” che è un termine chiave e il tema portante di questa manifestazione lirica di una sofferenza. Le Cantigas de escarnho o maldizer provengono da un genere mediavale, derivate dal sirventés provenzale. Sono cantigas che mettono alla berlina rappresentanti del mondo poetico o politico del tempo. La sostanziale differenza in principio tra le Cantigas de escarnho e le maldizer, è che nelle Cantigas de escarnho l’avversario non è rivelato, mentre in quelle di maldizer sì. È un repertorio abbastanza consistente, circa 430 testi di questo genere. 1) Satira letteraria; 2) Satira politica e morale; 3) Satira personale. Le Cantigas de amigo fanno da contrappunta alle Cantigas de amor. Il contrappunto sta nel fatto che sono scritte a razón de ella, è lei che parla. Il contrappunto avviene nel cambiare l’io enunciatore da maschile a femminile e l’oggetto del desiderio che non è più la dama ma l’amico. I due interlocutori si scambiano di ruolo. Nelle Cantigas de amigo è sempre presente un contesto, a differenza delle jarchas, di carattere bucolico (non urbane). Il fatto che siano ancorate a un contesto determina un maggiore sviluppo della linea narrativa. L’innamorata si rivolge a un interlocutore che può essere l’amico, la madre o le sorelle, o un elemento della natura stessa. Si dividono in alcuni sottogeneri: Barcarolas (o Marinah), Cantigas de das Romerias (svolte durante il pellegrinaggio), Alboradas (la separazione degli amanti durante l’alba). Il corpus delle cantigas supera i 500 testi, e il numero dei trovatori che li compongono sono intorno ai 58. Potremmo anche definirla una scuola poetica. La produzione delle Cantigas è posteriore a quella delle jarchas, la datazione di questo corpus è collocabile tra la metà del XIII secolo e la metà del XIV secolo. L’ultima Cantigas sembrerebbe essere del 1353. Martin Codax, trovatore del XIII secolo, è uno dei più noti. Di Martin Codax abbiamo un canzoniere individuale. L’ordine delle 7 Cantigas presente nella Pergamena Vindel è lo stesso ordine presente nel Canzoniere della Vaticana. La Pergamena Vindel è uno dei Canzonieri che presenta anche l’annotazione musicale. Pagina 32 dell’antologia: Struttura di sei strofe a rima baciata (rime consonanti e rime assonanti). Le parole in rima spesso ritornano. Strofe tutte fornite di estribillo (ritornello). Strofe organizzate a coppie, ci sono tre coppie di due strofe. Questa omogeneità delle strofe viene data da una struttura retorica conosciuta come parallelismo. Il parallelismo sintattico è quella figura retorica dove una stessa frase (o stesso verso) si ripete nel verso successivo in maniera quasi identica (nella struttura). I Nelle prime due strofe la fanciulla ci dichiara un sentimento di solitudine. Le strofe tre e quattro ripetono il concetto espresso dalle strofe uno e due, ma con una sfumatura: la presenza di un parallelismo con inversione. C’è sempre la solitudine, ma entra narrativamente il tema del guardiano. La figura del guardiano deriva dalla figura provenzale e rappresenta l’ostacolo del sentimento. Dal tema della solitudine si aggiunge quello di un invito: non ci sono le guardie. Nelle strofe cinque e sei si ripete il tema dell’assenza. Non ci sono guardie ma occhi che piangono. All’invito annunciato nelle strofe precedenti subentra narrativamente il sentimento della delusione. Oltre al parallelismo, c’è il “lascia e prendi”, ovvero la ripetizione del secondo verso della prima strofa nel primo versa della terza strofa e il secondo verso della seconda strofa diventa il primo della quarta. Questo determina questa sensazione di un modulo che si ripete continuamente. Il “lascia e prendi” è presente in moltissime cantigas. II Stessa struttura. Ritornello, quattro strofe costituite da quattro distici, questa volta a rime perfetta (consonantica). Cantiga molto enigmatica, il contenuto non è immediato. “Tutte voi che l’amate venite con me al mare di Vico”. Identica la traduzione della seconda strofa, ma chiama l’amico “amato”. Celebrazione, carica di forte erotismo, con le fanciulle che si fanno il bagno insieme all’amico/amante. Come si fosse una sorta di celebrazione dell’amore insieme al panico, un amore collettivo, con lo sfondo di questa natura così galiziana del mare. Nelle canzoni di Pero Meogo è ricorrente la figura del cervo. Siamo in un contesto bucolico, della vita dei campi. Anche di Pero Meogo non sappiamo molto, probabilmente fu un trovatore successivo a Codax e contemporaneo del re trovatore Don Dinis del Portogallo (Dionigi Alfonso del Portogallo). Lavorò presso la sua corte. Questa è una differenza tra i trovatori galego-portoghesi (di corte) e provenzali (itineranti). III Lo scenario è naturale. “Tra le erbe verdeggianti io le cerve vidi andare, amico mio”. Testo molto simbolico dove si descrive l’attesa di un incontro tra la fanciulla e l’amico. L’attesa e la preparazione di un incontro. I capelli sciolti o anche raccolti (lunghi) stanno come simbolo della verginità. Anche qui ritornano otto strofe organizzate in coppie. Dice sempre la stessa cosa usando però delle varianti (prima femminile poi maschile). Nella seconda parte è presente il leixaprén “lascia e prendi”: il secondo verso della quinta strofa diventa il primo della settima e il secondo verso della sesta diventa il primo dell’ottava strofa. I testi di Pero Meogo sono più complessi di Martin Codax. Polictoto è quando una stessa parola è presente versi successivi con funzione sintattica diversa. IV Struttura diversa e per la prima volta l’interlocutore risponde. Torna il cervo, come fosse un timbro delle sue composizioni. È ferito d’amore e se non lo soccorre morirà nel mare. La madre le dice di stare attenta. Nella seconda strofa lo ripete. È una delle poche cantigas a struttura dialogica (due interlocutori). La struttura è più varia: non c’è il distico a rima baciata, sono cinque quartine a rima alterna. La strofa tre è indipendente. In questa cantiga l’elemento narrativo è più articolato (abbiamo il passato della mamma per mettere in guardia l’inesperienza della figlia). 27/10/2021 I villancicos sono un nucleo lirico più tardivo riguardo ai testimoni conservati scritti. Si può pensare che questa lirica nacque in un’epoca coeva (nello stesso tempo). C’è un’enorme somiglianza di tipo tematico e formale di queste strofette con le jarchas. Le jarchas però ci sono giunte in lingua mozarabe e in caratteri arabi e i villancicos ci sono giunti in lingua castigliana. La somiglianza formale di queste strofette brevi nella formula del villancico di base i due testi appaiono molto simili nella struttura formale, nei contenuti (canzoncine poste in bocca di donna) e nella poetica che impiegano. Poetica che nasce nell’oralità, breve ma con una densità concettuale. Le prime testimonianze scritte le abbiamo in epoca molto tarda, ci giungono tra il XV e il XVI secolo (metà ‘400 e metà ‘500). Se la civiltà araba andalusa aveva dimostrato fin dai primi secoli una grande sensibilità per questa lirica di taglio popolare, e quindi la recuperano e la collocano all’interno delle loro composizioni, in Castiglia perché nasca questa sensibilità (cioè che dei poeti colti recuperino questo patrimonio popolare) si dovrò aspettare molto di più. Si dovrà aspettare il XV secolo perché queste canzoncine fossero recuperate da poeti di corte e trascritte in questi Cancioneros. Alle soglie del Rinascimento, in Spagna nasce una moda di corte, intorno all’apprezzamento di queste brevi strofe di origine popolare, che però i poeti di corte trascrivono all’interno di una serie di antologie chiamate Cancioneros, che non va confuso col Canzionere italiano, poiché non sono opere di un singolo autore, ma sono l’insieme di varie opere (es. Cancionero de Baena, allestito/curato da Juan Alfonso de Baena, 1445-1454). 03/11/2021 Passiamo dalla lirica all’epica. Fino al secolo scorso, la letteratura spagnola si cominciava così. Noi oggi usiamo l’espressione letteratura spagnola; in realtà, per tutta la letteratura precedente l’unificazione spagnola con i re cattolici, col matrimonio tra Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona (1476), saremo piuttosto autorizzati ad utilizzare l’espressione letteratura castigliana. Le due cose non coincidono. A partire dall’unificazione possiamo parlare di letteratura spagnola. Questo vale in particolare per l’epica. A prescindere dall’epica castigliana, l’epica è un genere che ci è molto noto, l’abbiamo imparata a conoscere a partire dall’epica antica (Iliade, Odissea) ed altre epiche nazionali (l’epica francese con la Chanson de Roland). L’epica quando nasce, a differenza della lirica, nasce con propositi informativi. L’epica svolge la funzione di un notiziario, non è un canto introspettivo e individuale. Deve raccontare alla comunità delle storie che appartengono alla sua storia, tramandano la storia di una comunità. Ha tre categorie di pubblico: il pubblico popolino, feudale dei nobili e della Chiesa. Pubblico diversificato che diventa il destinatario di quelle storie. Queste storie hanno come tema la nascita di una comunità o nazione. Il Cantar de Mío Cid si fa interprete della storia e dei valori di una comunità. Questa storia e questi valori vengono celebrati in un esponente, nel suo eroe. L’eroe diventa colui che esalta i valori di una comunità e li incarna nel suo più alto grado. La poesia epica si chiama, infatti, anche poesia eroica. Si chiama anche “epopea”, che ha la stessa origine etimologica di “epica”. La parola epos sta per popolo. La poesia epica è la poesia dei valori di una comunità incarnati in un eroe. Le caratteristiche dell’epica, rispetto alla lirica, sono:  Carattere narrativo, che presenta una dimensione oggettiva e realistica. Nel raccontare la storia dei propri antenati intenderebbe farlo con fedeltà. Questi aspetti di oggettività e realismo sono interpretati diversamente. Questo realismo viene un po’ forzato dalla dimensione eroica;  Assertività (carattere a-problematico), l’epica non racconta come una comunità va conquistando certi valori e caratteristiche nazionali; non è un processo di acquisizione. Li racconta come già acquisiti e incontestabili. L’eroe li incarna senza metterli in discussione;  Manicheismo;  Juglar, giullare, pardo, aedo, menestrello, interprete. L’epica e la lirica hanno un carattere in comune: la trasmissione. Epica e lirica nella letteratura spagnola fanno parte del mester de juglaría, del quale fanno parte tutti quei generi che si diffondevano nell’oralità, attraverso i giullari, prima di avere testimoni scritti. Si preferisce, infatti, l’espressione “cantar” a “poema”, perché con il termine “cantar” uniamo il concetto sia di poema sia di testo affidato all’oralità. Non abbiamo testimonianze di questa tradizione orale. Per memorizzare questi testi molto lunghi il processo non era un semplice processo mnemonico. Questi giullari avevano un repertorio di temi/racconti e conoscevano un repertorio di formule. Queste formule (stile formulario o formulistico) erano ricorrenti. Il giullare in parte narra a memoria e in parte, quando gli serve una rima mancante, utilizza delle formule ricorrenti per riempire una rima che sennò sarebbe vuota. Ogni giullare poteva arrivare a dominare un numero di poemi, fino a una trentina (i più esperti addirittura 300); avevano un loro repertorio, che recitavano insieme a un interprete meno esperto che, quando poi arrivava a un certo grado di abilità, procedeva in autonomia. La trasmissione avveniva, forse, in questo modo. Concetto di età eroica: quando parliamo di età eroica del poema epico francese parliamo della Chanson de Roland, che ci racconta la storia di Carlo Magno e la battaglia di Roncisvalle, 15 agosto del 778. I fatti avvengono nell’VIII secolo ma arrivano in forma scritta nell’undicesimo secolo. L’età eroica per la Francia coincide con l’ottavo secolo. In Spagna possiamo contare su un solo cantar de gesta quasi completo, ed è il Cantar de Mío Cid. Il “Mio Cid” (Rodrigo Díaz de Vivar) vive dal 1040 al 1099. L’età eroica della Castiglia è del XI secolo ma ci viene narrato nel XII secolo (1140), a distanza di meno un secolo (e non tre secoli come per la Francia). C’è una sostanziale differenza: l’epica spagnola ha caratteristiche più realistiche della Chanson de Roland. Nel Cantar de Mío Cid abbiamo un realismo spiccatissimo, con Rodrigo Díaz de Vivar che è un eroe uomo (mangia, dorme, ha dei legami, ecc.). Studiare il processo attraverso il quale passa la storia, da quando esiste il fatto storico a quando questo fatto storico viene trasposto al cantar de gesta, è fondamentale. La materia eroica subisce una serie di trasformazioni che alterano il fatto storico (è diverso narrare un fatto accaduto 300 anni fa rispetto a narrarne uno avvenuto 50 anni fa). Si possono individuare tre momenti distinti: 1) Fatto storico; 2) Elaborazione della leggenda epica; 3) Sua elaborazione come Cantare de gesta. La redazione scritta del cantar de gesta è un fortunato incidente. Prima che tale incidente si producesse, il cantar esisteva come testo orale. Come fu un fortunato incidente l’arrivo delle jarchas, che potevano essere perdute per sempre. Il veicolo scritto consente una preservazione della storia e della narrativa. Da alcuni testimoni possiamo immaginare che in Spagna esistettero una serie di nuclei epici; uno di questi è quello legato alla figura del Cid, primo eroe castigliano. Lo chiamiamo “ciclo” perché in origine dovettero esistere altri Cantares, di cui uno che narrava l’antefatto: Cantar de Sancho II. 1) Ciclo dedicato al Cid: - Cantar de Sancho II (ricostruito a partire della sua «prosificazione» nella Cronica najarense, fine sec. XIII); - Cantar de Mío Cid; - Las mocedades de Rodrigo, tardo e anonimo, 1360 ca. Se ne conservano 1164 versi, l’unico codice che trasmette l’opera è un manoscritto del 1400 conservato nella Biblioteca Nazionale di Parigi. Narra le origini e la giovinezza dell’eroe (mocedades = fanciullezza). 2) Ciclo dedicato ai conti di Castiglia: - Poema de Fernán Gonzáles (910-970), ritenuto primo conte indipendente di Castiglia, poema del mester de clerecía del XV sec. 3) Ciclo francese: - Roncesvalles: frammento di 100 versi di forse 5.500 versi iniziali; - Cantar del Bernardo del Carpio. Quando si formano nel nord della Spagna le prime comunità cristiane che si organizzano per respingere gli arabi, ad un certo punto una serie di territori nel nord della Spagna vengono a coincidere sotto il regno di un Re che si chiamava Ferdinando I il Santo, che aveva nelle sue mani la Galizia, la Castiglia, l’Aragona e altri piccoli possedimenti. Alla sua morte, Ferdinando divide il suo regno tra i figli: a García va la Galizia, a Sancho II la Castiglia e ad Alfonso VI va Leone e Aragona. Il Cid è un cavaliere di Sancho II. Tra Sancho II e i suoi fratelli iniziano delle guerre di sopraffazione. Il Cantar de Sancho II racconta questa storia. Come facciamo a sapere che questo Cantar è esistito? Lo sappiamo per un meccanismo che è esistito soltanto in Castiglia, cioè che nelle cronache castigliane gli studiosi, in particolare Ramón Menéndez Pidal, nel leggere le cronache, si accorgono che la prosa assume un andamento ritmico, scoprono che in quel determinato punto lo storico, invece di rielaborare dei fatti, sta utilizzando un Cantar di cui riporta interi versi. I Cantar venivano usati come fonti storiche, anche dai cronisti; questo fenomeno ha permesso di ricostruire a posteriori alcuni versi di tanti poemi eroici. Funzionano come testimonianze. Sappiamo che esistettero vari cicli epici per il fatto che nelle cronache spagnole è possibile evidenziare frammenti epici utilizzati dai redattori delle cronache come fonti. Esistette un ciclo del Cid, un ciclo dedicato ai conti di Castiglia, ed esistette anche un ciclo francese che ci racconta la battaglia di Roncisvalle ma dal punto di vista degli spagnoli, in particolare esiste un poema chiamato Roncesvalles. Come è stato per la lirica, anche per l’epica si discute su come sia nata. Le tesi sono tre: - Tesi francese: con lo studioso Gaston de Paris. Su che cosa fonda la sua tesi? L’epica francese racconta dei fatti molto antichi, dell’VIII sec., con la Chanson de Roland che è un po’ antecedente al Cantar de Mío Cid, e per questo si pensava fosse per forza nata in Francia; - Tesi gota: a Gaston de Paris risponde Menéndez Pidal, che dice che le caratteristiche di queste due epiche sono così diverse che non è possibile. L’epica spagnola è più realistica; ha un carattere irregolare, mentre l’epica francese ha una misura metrica versale inappuntabile. Se l’epica spagnola fosse derivata dalla francese sarebbero arrivate in una veste metrica molto più regolare. Questa stessa irregolarità è caratteristica, ci dice che l’epica spagnola è molto antica. Sostiene quindi la tesi gota. In Spagna arrivò un popolo barbaro, i Visigoti, e Menéndez Pidal dice che vengono in Spagna con le loro tradizioni culturali, con la loro epica nordica e dalla loro epica avrà origine quella castigliana. Riesce a dimostrare questo notando delle singolari coincidenze tematiche tra l’epica gotica e l’epica spagnola: 1) Duello tra campioni per dirimere un oltraggio; 2) Consultazione del re con i suoi vassalli prima di prendere una decisione importante; 3) Usanze gote: il Cid che va in esilio con i suoi vassalli che ne condividono la sorte; 4) Il Cid che si umilia davanti al suo mordendo l’erba del campo: a Toledo III cantare; - Tesi araba: onomastica, uso di dare al signore la V parte del bottino. A cavalcarla è Julián Ribera, come Gaston de Paris, diceva che gli arabi sono arrivati in Spagna e hanno portato l’astronomia, la matematica, la lirica, ecc. Potenzialmente avevano portato anche l’epica. Probabilmente sono vere tutte e tre le tesi. La tesi gota è quella preminente, ma non vi è dubbio che a un certo punto anche l’epica francese fu assimilata in Spagna, com’è anche vero che nello stesso Cantar de Mío Cid sono presenti alcuni aspetti che ci fanno capire come anche la cultura araba fosse presente. Lo stesso nome “Cid” in arabo vuol dire “signore”. La cultura araba entra nel Cantar de Mío Cid attraverso il nome dell’eroe e il motivo di dare parte del bottino al proprio re (motivo che appartiene alla lirica araba). Nella storia delle genesi non c’è soltanto questo aspetto, ma c’è proprio un aspetto più materiale, che in Spagna possiamo semplificare così: nasce prima l’epica o prima i romances? I romances non sono i “romanzi”, sono dei canti epico-lirici brevi. Da una parte abbiamo i poemi epici e dall’altra abbiamo dei romances, cioè delle ballate epicoliriche. I poemi epici sono molto lunghi (il Cantar de Mío Cid dura 3733 versi) i romances sono brevi. Si chiamano epico-lirici perché raccontano storie epiche in una dimensione più lirica. Siccome la struttura metrica dei romances è simile, allora gli studiosi si chiedono: potrebbe essere che il Cantar de Mío lo aveva mandato in Al-Andaluz a riscuotere le parias (tasse che i regni pagavano ai re cristiani per non essere attaccati, come un patto di non belligeranza), mentre il Cid va a riscuotere queste tasse, il regno di Siviglia e Cordoba vengono attaccati dal regno di Granata. Il Cid si trattiene per difendere il re delle Taifas, e quando torna viene diffusa la voce che il Cid abbia rubato al re una parte dei tributi che avrebbe dovuto versare (reato di “malversazione”). Non sappiamo se la storia sia stata veramente questa, ma questa è la storia che ci viene raccontata. III.1.1. El destierro del Cid (pagina 66) Pronuncia non del castigliano attuale. Non c’era stata quell’evoluzione fonetica dell’interdentale. “Dai suoi occhi così fortemente piangendo girava la testa e li stava a guardare”. Abbiamo questo esordio, non ci dice chi sia, c’è anche un effetto di suspense. Questo effetto è dovuto al caso, poiché mancano i versi iniziali. Notiamo che quel “estávalos catando” suppone qualcosa, rimane sospeso. Porta a confermare il fatto che mancano dei versi. Stava guardando i suoi beni. Retoricamente, non possiamo non risaltare quell’uso del “sin”. Il Cid è un esule e viene caratterizzato artisticamente come colui che è stato privato di tutto, è un uomo “senza”. Ancora non ci dice chi è, ci dice solo cosa ha perso. Dire di “vedere le porte aperte” o “usci non chiusi” è dire la stessa cosa. Noteremo spesso questa ripetizione dello stesso concetto con parole diverse nel primo emistichio e nel secondo emistichio. Questo fa parte di quello stile formulare a cui abbiamo fatto riferimento: i giullari dominavano il testo perché lo sapevano a memoria, ma usavano anche un repertorio di formule per completare il verso quando ne avevano bisogno. Vede le porte dei suoi palazzi aperte, non sono più sue. Vede dei trespoli vuoti, non ci sono più le pelli, i manti, i falchi e altri uccelli che accompagnano nella vita la piccola nobiltà. Di fronte a tanto sconcerto, l’eroe sospirò, di pena, sospira perché ha molte preoccupazioni. Parla in modo misurato. C’è questa gradazione dal sospiro al parlare, dall’abbattersi al reagire. Notiamo quell’epiteto “mio Cid”, è il signore di chi parla. C’è questo atteggiamento di simpatia verso questo personaggio. Notiamo una costruzione retorica molto chiara, una costruzione parallelistica. La prima qualità che si risalta di questo personaggio è la misura, e la misura sarà la qualità che più rappresenterà questo eroe della riconquista. Si dice che questa misura sia la somma delle quattro virtù cardinali: prudenza, giustizia, fortezza e temperanza. Il personaggio del poema non è violento, è sempre capace di mantenere la compostezza, e questo risalta proprio verso la fine, perché il Cid di fronte a un oltraggio violento non reagisce vendicandosi ma andrà dal suo re e chiederà giustizia. Verso sette Questi versi sono stati oggetto di interpretazioni divergenti. Essendo il Cid un eroe cristiano, questa frase potrebbe voler dire che accetta il suo destino, da buon cristiano si sottomette. Forse perché riconosce in questo destino un segno. Altri lo leggono sotto una significazione sprezzante, con la figura dell’ironia. Questi “enemigos malos”, i nemici, compaiono nell’opera e qui probabilmente trovano spiegazione proprio in chi lo ha calugnato presso il re, in quell’antenato che abbiamo raccontato. Rivolgersi ai nemici vuol dire liberare il re da un eventuale atto di accusa. Questa contrapposizione tra i nemici e il Cid riflette una contrapposizione fra l’alta e la bassa nobiltà. Il Cid appartiene al gradino più basso, alla piccola nobiltà, mentre García Ordóñez (colui che lo ha calugnato) appartiene all’alta nobiltà, che vedono di malocchio la piccola nobiltà che grazie alle guerre di riconquista si sta facendo strada. Dall’altra parte c’è chi dice che questa figura dei nemici ha un significato strategico, perché il Cid non può pronunciare parole di accusa nei confronti del suo re che lo ha mandato in esilio, perché non può ribellarsi all’autorità reale verso la quale si dimostrerà sempre rispettoso, al punto che ogni volta che farà delle conquiste manderà al re beni e ricchezze, ne chiederà il perdono e alla fine lo otterrà. Rivolgersi ai nemici vuol dire liberare il re da un eventuale atto di accusa. Dal verso I al verso IX è una lassa, una strofa epica, in spagnolo si chiama tirada. Il Cid non si divide in strofe, si divide in lasse. Una lassa è una strofa che ha un numero di versi variabili, non hanno lo stesso numero di versi le varie lasse. La lassa più breve ha tre versi e la più lunga ne ha 186. A cambio rima cambia lassa. Le rime sono assonanti. I versi di una stessa lassa mantengono la stessa assonanza. A livello di contenuti si dice anche che il cambiamento di assonanza o rima assonante corrisponde anche al cambiamento di tema, in ogni lassa dovremmo sforzarci di individuare anche un tema. Quando è esaurito il tema si passa a un’altra lassa e cambia assonanza. In questa prima lassa ci viene descritta la condizione psicologica del Cid che esce da Bivar. 10/11/21 Questa divisione in tre cantares e queste titolazioni non sono presenti nel manoscritto ma sono date a posteriori dagli editori. Il verso epico è un verso lungo, siamo ben lontani dai versi brevi o di arte menor che abbiamo visto presenti nelle jarchas e nei villancicos. Nell’epica abbiamo soltanto versi di arte mayor (superiori alle otto sillabe). Ci troviamo in un sistema fortemente irregolare, tipica del mester de juglaría. Nonostante l’irregolarità possiamo dire che l’epica si basa su un sistema versale di 16 sillabe con però fortissime oscillazioni: a volte il verso più breve presenta 10 sillabe; il verso più lungo ne presenta 20. Il fatto che il verso sia lungo comporta un ulteriore aspetto: mentre per recitare un verso breve si può recitare con una sola emissione di voce, quando invece recitiamo un verso lungo facciamo una pausa interna che spezza questo verso a metà. Questa recitazione ha un corrispettivo nella metrica del testo, poiché ogni verso presenta all’interno una cesura (spezzatura) che lo spezza in due emistichi. Questa pausa nella recitazione divide il verso in due emistichi di 8 sillabe. Il verso epico ha una base di 16 sillabe che sono divise in 8+8. II Passano da una dimensione più descrittiva a una descrizione in cui entra in campo l’azione. Nella seconda lassa fa per entrare a Burgos. Verso 15 è in corsivo perché è una ricostruzione di Pidal, ma ci sono altre versioni dove questo verso non c’è. Prevalgono i suoi fricativi. Probabilmente era la fonetica del tempo, ed è stato possibile ricostruirla attraverso la lettura delle rime che impongono questo tipo di lettura. “Ora (lì) pensano di spronare [i loro cavalli], e sciolgono le redini”. Come abbiamo notato nel verso 4, dove dice la stessa cosa; varie volte il poeta ricorre a queste bimembrazioni, dove dice due volte nel primo emistichio e nel secondo la stessa cosa. Fa lo stesso procedimento sia nel verso 4 sia nel verso 10. Si sta dirigendo verso Burgos e qui il giullare ci presenta una circostanza: il verso della cornacchia a destra e sinistra sembrano corrispondere a una lettura del futuro, un’anticipazione di quanto gli succederà. Sentire la cornacchia a destra annunciava un evento positivo; sentirla a sinistra corrispondeva a un presagio negativo. Il Cid sente entrambe e una probabilmente si riferisce alla sua perdita e al suo esilio e a ciò che accade dopo, umiliato anche su lato personale, e l’altro al suo riscatto personale, che dopo l’umiliazione c’è un’ascesa sul lato politico e personale. C’è la stessa ambiguità che abbiamo constatato nel verso 8 della prima lassa, quando il Cid di fronte all’esilio diceva “ti sono grato Signore”. Ci sono due interpretazioni: è un eroe che accetta il destino da buon cristiano oppure è un’espressione basata sull’ironia. Il Cid scrolla le spalle e scuote la testa di fronte a questo gracidare della cornacchia ed esclama “evviva” che viene tradotto come “coraggio”. Alvar Fáñez è presente in tutto il poema come il tenente del Cid. Nella realtà storica fu nipote del Cid e lo ha dovuto accompagnare in esilio. III Entra a Burgos. La prima lassa era di 9 versi, la seconda di 6 e la terza è di circa una ventina di versi. Scopriremo che il re Alfonso VI si rivela molto severo e gli combina una pena durissima. “Ruy” è quello che viene chiamato un ipocorismo, cioè l’abbreviazione del nome con diverse finalità. Lo stesso Pidal, notando che nella seconda parte dell’opera i rapporti tra l’eroe e il suo re si vanno a ricomporre, arriverà a ipotizzare la presenza di due giullari. Il Cid viene accompagnato da sessanta cavalieri, definiti “sessaenta pendones” cioè “sessanta pennoni”, è una metonimia. Gli abitanti di Burgos si affacciano a guardar incuriositi. C’è di nuovo la ripetizione del pianto dagli occhi, una figura che corrisponde alla tautologia, cioè dire due volte la stessa cosa. Questo “piangere dagli occhi” e “dire dalla bocca” sono stati interpretati da Colin Smith frasi fisiche: quelle frasi che, in forma tautologica, rappresentano il gesto del giullare che accompagna questa interpretazione. Il verso 22 è un verso abbastanza chiave, sottolinea un sentimento; ma anche qui le interpretazioni non sono univoche. Con “signore” si intende il “re”, in questo caso la posizione è di una forte critica nei confronti del comportamento del re. Affianco a questa interpretazione, ce n’è un’altra: quel “buen” non riferito al signore ma traduce “bienes” quindi beni, proprietà, lascia la città spogliato di tutto. IV Quella che sembra una descrizione della rabbia del re Alfonso, qui si sta riferimento a un istituto giuridico medievale. Questo portò Colin Smith a pensare che il giullare fosse colto, e che anzi fosse addirittura un giurista. Al Cid viene data la pena più alta, viene cacciato dalle sue terre senza niente, e questo sottolinea la crudeltà di questa sentenza. Arriva una lettera ufficiale del re e in questa lettera c’è scritto “che nessuno desse accoglienza il mio Cid”, nessuno poteva accoglierlo. “Se qualcuno lo avesse fatto, avrebbe perso tutti i suoi averi, il corpo e l’anima”, questo trova riscontro nella giurisdizione nell’ira del re. Il “perdere gli occhi del volto” trova riscontro nella pratica medievale della cecità, così come “perdere il corpo e l’anima” voleva dire non poter essere sepolti con la pratica cristiana. Nei versi successivi troviamo queste stesse indicazioni ripetute per una seconda volta. Questa volta si cambia il punto di vista. La volontà del re, che gli abitanti di Burgos sono venuti a sapere attraverso un mandato reale arrivato nel cuore della notte, ne verrà a conoscenza anche il Cid a partire dal verso 31. È importante come ne viene a conoscenza il Cid, chi sarà che glielo dirà, perché avrà un effetto artistico. Il Cid entra in città, si avvicina alla porta di una delle sue case e la trova chiusa e ha un gesto di rabbia, dando un calcio alla porta per aprirla. Una bambina di 9 anni si rivolge a lui chiamandolo Campeador. Ripete che di notte è giunto il messaggio con gli ordini del re, cioè che non possono accoglierlo. Da questo momento in poi il Cid è un esule. Lo vediamo accamparsi fuori città come un fuggiasco, ha toccato il fondo. 15/11/2021 Mester de clerecìa: formula che si usa per indicare una serie di opere a cavallo tra i secoli XIII e XIV che presentano strutturalmente e tematicamente caratteristiche comuni. Nel “Libro de Alexandre” viene usato per la prima volta il termine “mester de clerecìa” che si contrappone a “mester de juglarìa”. En el qual suele el pueblo fablar a su vecino Ca no só tan letrado por fer otro latino Bien veldrá como creo un vaso de bon vino (Santo Domingo de Silos, c. 2) “Voglio scrivere un’opera in lingua romanza Come il popolo usa parlare normalmente Perché non sono così colto da scriverlo in latino Credo che varrà un buon vaso di vino” Román paladino: un volgare semplice, accessibile, chiaro. Paladino dal latino palam (apertamente, pubblicamente). Afferma di non essere così colto da scrivere in latino, chiede di avere del vino (come compenso) e si chiama ‘maestro’ quindi vorrebbe dire che ha compiuto studi superiori. Affettazione di ignoranza probabilmente secondo il topos della captatio benevolentiae, cioè quella diminutio che serve ad avvicinare il pubblico. ‘Maestro’ potrebbe anche dire il maestro di confessione, quindi potrebbe fare riferimento al fatto che esercitasse anche la confessione. 17/11/2021 La produzione di Berceo è tutta devota: scrive Vida de Santos (Santo Domingo de Silos, San Millàn de la Cogolla e Santa Oria, monja benedectina què viviò reclusa a San Millàn) e Milagros de Muestra Senora. I Miracoli non è un genere che Berceo inventa, anzi, si ispira chiaramente a un manoscritto latino, I miracoli di Santa Maria Vergine. Berceo lavora con questo codice latino che contiene 49 miracoli. L’opera di Berceo ne contiene 25. Opera rispetto al codice latino una selezione di 24 miracoli su 49, perché del 25esimo non è stato possibile trovare la fonte diretta. Pur essendo molto omogeneo, qualche critico propende per definirlo “originale”, poiché è uno dei pochi miracoli ambientati in Spagna. Berceo opera un volgarizzamento (si intendono le traduzioni in volgare castigliano delle opere in latino). Si appropria del testo ma poi trasforma questi miracoli in due direzioni: innanzitutto amplificando il testo latino che è molto più essenziale e trasformando il miracolo latino in un vero e proprio racconto. Approfondisce la psicologia dei personaggi per creare una narrazione a tutto tondo. Nel fare questo opera in un modo filologico, cioè più volte dichiara la sua fonte. Rapporto tra il testo di Berceo e la fonte latina El nombre de la madre deçir no lo sabría. Commo non fué escripto non lo deniveria… (S. Dom. 8) [Il nome della madre non saprei dire. Siccome non è scritto non posso indovinarlo] Non departe la villa muy bien el pergamino. Ca era mala letra, en cerrado latino (S. Dom. 609) [Non si intende il paese della pergamena Perché la calligrafia è pessima oscuro il latino] De quál guisa salió deçir non lo sabría. Ca fallesio el libro en que lo aprendía; Perdióse un quaderno, mas non por culpa mia, Escribir a ventura sería gran folia (S. Dom. 751) [In che modo finì Non saprei dirlo, Perché venne meno Il libro che consultavo Si è perso un quaderno Non per colpa mia Scrivere a caso Sarebbe una follia] Laddove non trova un’informazione non la inventa ma dice che non c’è nel testo di partenza. Non si intende il nome del paese perché la calligrafia è pessima e oscuro è il latino. I miracoli: genere antico, era presente anche nell’oriente cristiano, che passa in occidente già nella letteratura latina. I miracoli erano una raccolta di miracoli attribuiti alla madonna o a un santo che facevano parte di collezioni generali che viaggiavano per l’Europa e che avevano come scopo la diffusione del messaggio cristiano. Il culto mariano nasce nel mondo medievale ed è molto caratteristico della religiosità iberica. Sulle origini e la nascita del culto fino al XII secolo la devozione mariana era stata molto marginale nella cultura religiosa, era stata marginale anche nel Vecchio Testamento dove Maria appare come la madre di Cristo ma non assolve a un particolare protagonismo. La figura di Maria diventa centrale nel culto dei mozarabes (cristiani che vivono in Al Andalus). Il motivo per cui la figura di Maria acquista una maggiore importanza è difficile da decifrare; nella liturgia mozarabe Maria assurge a una «Nuova Eva». Maria assurge a un modello di figura femminile che prende le distanze dal Vecchio Testamento e diventa una figura mediatrice tra l’uomo e la sua salvezza. Il culto mariano prevede che il peccatore si salvi per fede. Questo culto mariano viene impiegato da Berceo perché la figura di Maria permette un accesso alla religione di tipo affettivo, proprio perché Maria è madre. Oltre alla liturgia mozarabe, anche nella liturgia visigotica appare la figura della Vergine come colei che salva il genere umano (Humani generis reparatrix). Se fino a quel momento erano il Dio e il Cristo le due figure alle quali venivano dedicate le maggiori riflessioni, col diffondersi del culto mariano Maria assurge a un maggior protagonismo. Berceo farà riferimento a Maria come a un fiume ricco d’acqua con la quale il fedele si può dissetare. L’altro elemento, che comportò questo recupero teologico della figura di Maria, probabilmente fu un elemento di carattere estraneo al mondo religioso. Fu l’importanza che acquisì la figura femminile all’interno della lirica dell’amore cortese. La centralità della donna nella teoria dell’amore cortese potrebbe aver influenzato l’affermarsi del culto della Vergine. Maria corredentrice perché salva insieme al Cristo i fedeli e Maria mediatrice. A questi 25 miracoli viene anteposta un’introduzione, dove Berceo espone i contenuti più teologici del testo, mentre il resto dei miracoli si articolano come degli exempla (gli exemplum sono gli antenati dei racconti). Dagli exemplum si può sempre ricavare una morale. I 25 racconti che seguono sono concepiti nella formula dell’exemplum, mentre l’introduzione ha un quadro allegorico-dottrinale. L’introduzione si compone di 46 strofe divise in due sezioni: dalla 1 a alla 15 presentano l’allegoria, e le strofe successive traducono l’allegoria sul piano concettuale. Berceo, come Dante, presenta un’allegoria nella quale lui è un pellegrino che, al contrario di Dante, invece di arrivare dalla selva oscura all’Inferno arriva nel giardino edenico. Entrambi usano un motivo molto frequente ella cultura medievale, quello del homo viator (uomo pellegrino). IV.1.1. Los milagros de Nuestra Señora. Introducción Berceo entra come personaggio all’interno dell’introduzione. Lui pellegrino si imbatte in un prato, e questo suo presentarsi come pellegrino è perché probabilmente leggeva questi pellegrini che si muovevano lungo il cammino di Santiago. Questo prato è verde, pieno di fiori che sono molto profumati e ci sono delle fonti d’acqua (strofa 3 verso 3). Queste fonti d’acqua d’estate danno acqua molto fresca e d’inverno calda. Strofa 4: grande abbondanza di alberi da frutta e la frutta di questi alberi è tutta frutta che non presenta marciume ed è di stagione. Nella strofa 5 dice che tutto lo rinfrescava: la verdura, il profumo dei fiori, l’ombra degli alberi ecc. tanto che l’uomo potrebbe vivere lì. Elenca elementi che contribuiscono alla costruzione del locus amoenus (può essere utilizzato anche per precedere un momento felice). Questo stesso racconto possiamo leggerlo a livello allegorico, dove tutto significa qualche altra cosa. Berceo vuole che si capiscano subito le metafore e non che ci sia uno sforzo intellettuale. Strofa 16: la metafora della corteccia e del midollo era usato molto nella lirica medievale. Strofa 17: in questa strofa ci spiega in che senso dobbiamo interpretare cosa intende con pellegrino, cioè che tutti gli uomini sono pellegrini su questa terra. Strofa 19: ci spiega qual è il prato, in cui trova rifugio il pellegrino spossato. Il prato che soccorre il pellegrino è metafora della Vergine. Perché il prato? Questo prato fu sempre verde per onestà, il prato è metafora della verginità. Poi c’è l’acqua che scorre, ci sono quattro fonti (quattro vangeli) anche nella genesi si parla dei quattro fiumi del Paradiso. Strofa 23: l’ombra degli alberi sono le preghiere che Maria fa per i peccatori per salvarli. Strofa 25: vuole salire su uno di questi alberi e raccontare i miracoli della Vergine. L’autore dichiara i suoi intenti. IV1.2. La boda y la Virgen Maria si spoglia di tutti gli attributi divini. Qualche critico dice che ci appare come una vendicatrice, più vicina alle divinità pagane di quelle religiose. Qui Maria si comporta come una donna gelosa e vendicativa. È un miracolo che ci aiuta a capire come la figura della Vergine viene declinata, nell’àmbito dei miracoli di Berceo, in una chiave tutta terrena. Il linguaggio che utilizza è molto diretto e semplice, con espressioni colloquiali. Dice che nella città di Pisa vive un sacerdote che ama molto la Vergine e gli rende servizio (recupera un termine della lirica cortese ‘servizio d’amore’) con i piedi e con e mani. Fedele molto innamorato di Maria, ritorna l’aspetto sentimentale e affettivo della religione. Il culto della Vergine non era così diffuso, ma per lui sì, e la Gloriosa ne era molto felice. Rapporto così stretto fra il fedele e la Madonna. Dopo questa introduzione, i miracoli hanno un po’ la stessa struttura: hanno tutti un lieto fine, ma questo si giustappone a una problematizzazione del racconto quando ci viene descritto perché cade in uno stato di peccato. Viene accusato dalla Vergine di infedeltà. Il chierico aveva genitori molto ricchi. Quando muoiono i parenti del chierico lo convincono di avere dei figli per trasmettere l’eredità. Il chierico mutò il suo proposito. Si lascia convincere. Si sente attratto dai beni materiali, dall’avere una sposa, ecc. Mentre si sta per sposare gli viene in mente Maria e capisce di aver sbagliato e quindi entra in una Chiesa lungo il cammino per pregarla e ravvedersi. La Madonna gli compare, alla strofa 340, e si mostra gelosa: si esprime in un linguaggio quasi scurrile. È una Vergine insolita nel suo linguaggio. La parola ‘amico’ risveglia la lirica trobadorica, ‘amico’ in senso di ‘innamorato’. Strofa 342: “se mi vuoi devi rinunciare a sposarti”. Gli annuncia una vendetta: se si sposa dovrà portare sulle spalle la legna. Questo è il punto più alto della costruzione climatica che si scioglie nelle ultime strofe. È un testo di una grande ambiguità perché l’opera si struttura in una serie di paratesti, di preliminari che anticipano le avventure amorose, e in uno di questi preliminari (Prologo in Prosa) l’arciprete ci dice che tratterà del “buen amor”, definendolo la recta voluntas. Lui ci parlerà dell’amore sacro e non profano, quindi il Libro del Buen Amor. Dopo averci accennato questo, procediamo nella lettura dell’opera dove troviamo l’Arciprete che, mosso da un appetito erotico, fa la corte a 14 donne. Il punto è che è molto sfortunato, poiché lui ci prova ma loro si negano. Gli compare Don Amore, che gli dice “stai sbagliando tutto. Se vuoi che vadano a buon fine devi usare una mezzana”. Questo costituisce l’antecedente più vicino alla Celestina. Questa figura della mezzana che aiuta gli amanti ad incontrarsi trova nella letteratura spagnola il suo antecedente più diretto nel Libro del Buen Amor. Grazie all’aiuto della mezzana, l’Arciprete porterà a buon fine due corteggiamenti: Endrina e donna Garoza. È un’opera di puro intrattenimento o di pura trasgressione. Sotto questo aspetto alcuni critici hanno voluto interpretarla come un’opera che nasce in un ambiente universitario, di per se stessa irriverente giocata sul doppio filo di un’opera che si presenta come istruttiva e che invece al suo interno insiste su temi assolutamente irriverenti. In realtà, la storia dell’Arciprete, questo aspetto più moraleggiante, più etico, non è del tutto assente. Sì ci racconta l’esuberanza erotica di questo parroco di un paesino castigliano, ma è anche vero che quasi tutte le avventure non vanno a buon fine, ed è vero anche che nei due casi dove riesce a conquistare la donna, in entrambi i casi la donna muore. È anche punitiva su chi si lascia andare al piacere e ne uscirà sconfitto. Un precedente della commedia latina è il Pamphilus de amore, del XII secolo, ebbe grande fortuna in Europa, soprattutto in Spagna, dove si narra una storia simile a quella di Juan Ruiz e in particolare a quella nella Celestina. Ci soffermiamo su quest’opera perché sembra uno dei modelli più diretti per la figura della mezzana e per questo tipo di intrecci sentimentali ed erotici. I critici hanno voluto vedere come chiave di lettura dell’intera opera uno dei tanti testi collocati preliminarmente nel Libro del Buen Amor: fra questi testi c’è n’è uno che lì per lì sembra non avere legame con la storia successiva, ma che poi fa capire che è un modo col quale l’Arciprete ci introduce in quella che è stata definita la poetica dell’ambiguità. L’opera ha tanti livelli quanti sono i suoi lettori. Uno di questi testi precedono il racconto delle avventure dell’Arciprete. In questo testo ci si racconta, basandosi su un’opera del XII secolo di un giurista, come avvenne il passaggio delle leggi fra i greci e i romani. Questa era un apologo molto noto che insisteva sul fatto che i romani, meno civilizzati dei greci, vanno dai greci a chiedergli le loro leggi. Ma i greci non ritengono di potergliele dare se non verificano che i romani ne siano all’altezza. Propongono ai romani una sorta di esame: uno di loro svolgerà con un romano un dialogo; se alla fine di questo dialogo il loro rappresentate reputerà che i romani sono all’altezza di ricevere le loro leggi, verranno a loro consegnate. Nessuno dei due parla la lingua dell’altro, e per fare questo dialogo lo faranno attraverso la lingua dei segni, gesticolando. (Lettura delle pagine 116-117, dalla strofa 47) Pur fraintendendosi, l’interlocuzione va a buon fine. Nella strofa 64 dice: “non c’è mala parola, se tal non è sentita”. Strategia variamente utilizzata anche successivamente nella letteratura, lascia l’interpretazione aperta secondo il punto di vista, l’intenzione del lettore, ecc. Tutto questo è molto moderno, ci ricorda l’opera di Eco Lector in fabula. Le Cantigas de Serrana nel Libro del Buen Amor sono 4, costituiscono il cuore delle avventure amorose dell’Arciprete. Le Cantigas de Serrana vengono concepite come una parodia di un altro genere molto in uso nella lirica trobadorica che sono le pastorelle: dei componimenti costruiti nell’ambito della teoria cortese dell’amore, nelle quali spesso un cavaliere, che si muove in un ambiente bucolico, vede una pastorella bellissima e se ne invaghisce. Le pastorelle cantano l’amore del cavaliere, che appartiene alla classe alta, mentre lei appartiene alla classe bassa. Alcune volte il cavaliere soffre del rifiuto della pastorella, altre volte ha la meglio. Le serranas sono le donne che abitano la Sierra, quindi le montagne. Diciamo che sono parodie perché queste donne non hanno nulla della leggiadria e della femminilità delle pastorelle, e c’è un’inversione nella richiesta d’amore: non è il cavaliere (o in questo caso l’Arciprete) che le richiede ma sono le serrane che lo obbligano a sottostare ai loro piaceri. 24/11/21 Con la Celestina si apre una grande fase della letteratura spagnola: è il primo grande classico della letteratura spagnola ma anche europea. Facciamo un grande salto temporale: dalla meta del 1300 con il Libro Del Buen Amor, arriviamo alla fine del 400 e gli inizi del 500. Tuttavia, in realtà proprio il Libro Del Buen Amor costituisce un modello per la Celestina: non solo per la figura della mezzana, ma anche per quell’ambiguità di fondo che il Libro Del Buen Amor propone nella sua introduzione, ossia se fare una lettura a scopo didascalico oppure solo a scopo di intrattenimento. Excurus storico: la prima edizione de La Celestina risale al 1499, in Spagna ci sono i Re Cattolici. Isabella di Castiglia era sorella del re Enrico IV, che passa alla storia come l’impotente. Al regno di Enrico IV avrebbe dovuto succedere sua figlia (considerata illegittima), ma non fu così, e lo successe la sorella. Probabilmente la successione che non fu incruenta fu anche una successione che determinava una scelta geo-politica: Isabella era andata in sposa a Fernando d’Aragona, quindi il destino della Spagna sarebbe stato mediterraneo (Castiglia a fine ‘400 voleva dire tutta la Spagna tranne la corona d’Aragona). Col regno di Aragona si intendeva la Catalogna (Aragona) e i possedimenti italiani. Dall’unione di queste due corone ci troviamo di fatto con una nazione unitaria. Il titolo di re cattolici viene dato da Papa Alessandro VI a indicare una politica territoriale che si avvale anche dell’ideologia religiosa. Anche con la finalità di unificare i regni, i diversi staterelli cominciano a farsi guerra tra di loro e la nobiltà comincia a essere intollerante. 1492: anno della riunificazione territoriale. Riammissione del regno di Granada, cacciata degli ebrei dalla Spagna e l’espansione territoriale. Grazie al finanziamento dei re cattolici si compie al grande impresa americana (epoca della colonizzazione spagnola dell’America centrale e del sud). Colonizzazione intesa come una crociata volta alla diffusione della religione cattolica nel Nuovo Mondo. Il regno dei re cattolici va dal 1479 al 1516, la Celestina si colloca alla fine di questo regno e per certi versi è stata interpretata come un’opera che ne testimonia le contraddizioni. Opera molto complessa sotto tutti i punti di vista che solleva molti più interrogativi che certezze. La questione della paternità, ossia chi fu l’autore, è una questione ancora aperta. La stessa storia editoriale dell’opera è molto complessa (nel corso degli anni si andò tramutando). Questione aperta è anche quella relativa al genere editoriale: ci si presenta come drammatica (teatrale) ma è comunque presente una grande ambiguità. Complesso è anche il significato dell’opera, la contraddizione tra le intenzioni dello stesso autore e della stessa opera. Non vi è dubbio che tutta questa complessità è la causa dell’enorme forza di un testo che rimane un testo chiave della letteratura europea. La prima edizione della Comedia de Calisto y Melibea ci si presenta senza il primo fascicolo, quindi venendo a mancare l’opera appare anonima e priva di paratesti (preliminari di cui l’opera sarà corredata successivamente). L’edizione del 1449 inizia con un’illustrazione di una dama (Melibea) e un cavaliere (Calisto) che appaiono in un giardino, e un falco: questo rappresenta la prima scena con la quale l’opera si apre, ossia Calisto che si innamora di Melibea a prima vista e le dichiara subito il suo amore. In realtà l’opera non doveva iniziare cosi, perché abbiamo altre due redazioni della commedia oltre a quella del 1449: una di Toledo del 1500, l’altra di Siviglia del 1501. A partire da un’edizione di Roma del 1506 abbiamo una serie di edizioni della tragicommedia. Quella che oggi chiamiamo Celestina nelle sue prime tre edizioni si chiamava Comedia de Calisto y Meribea. A un certo punto cambia la titolazione e diventa Tragicomedia. Successe che col passare degli anni questo personaggio che è Celestina, la mezzana, fa da tramite fra i due innamorati e grazie a lei avverrà l’incontro tra i due personaggi. Questo personaggio così centrale, il motore della tragedia, oscurerà gli altri personaggi e l’opera inizierà a circolare col nome La Celestina. Se dovessimo stare alle edizioni moderne, vediamo che viene esibito sul frontespizio un autore, Fernando De Rojas. Mentre nella prima edizione del 1499 ci viene come un’opera anonima. Nelle edizioni antiche il nome di Fernando de Rojas, infatti, non compare mai. La paternità di Fernando de Rojas viene dedotta da una serie di escamotage. Se il nome di Fernando de Rojas non compare mai, come ha fatto la critica a dedurlo? L’opera ha dei testi preliminari e testi finali. Attraverso di loro scopriamo tante cose su La Celestina e sul suo autore. Alla quinta di queste ottave (scritte da Alonso de Proaza, scrittore umanista, che si presenta come “redattore” o “editore”) intitolata Declara un secreto que el autor encubrió al principio del libro dove dice di unire le prima lettere dei versi per avere il nome dell’autore, la sua terra e la sua nazione. Queste si chiamano ottave acrostiche, e per acrostico si intende il fatto di prendere le prime lettere dei versi per capire chi fosse l’autore. A livello di analisi stilo-metrica, posiamo dire che il primo atto appartiene ad un autore e i restanti 15 ad un altro? Gli elementi che ci spingono a crederlo sono: - se così fosse, il primo autore si è appropriato molto dello stile del secondo, - tra il primo e i restanti atti c’è una diversità delle fonti impiegate, - c’è una differenza legata alle dimensioni del testo: dove il primo prende quasi metà dell’opera mentre gli altri sono molto brevi. 29/11/2021 Nella prima edizione del 1499 non è presente nessun epilogo o preliminare, mentre nelle altre edizioni della Comedia di Toledo del 1500 e Siviglia del 1501 vengono aggiunti sia l’epilogo con le ottave di Alonso di Proaza, sia l’epistolo “El autor a un su amigo” con le ottave acrostiche di Fernando de Rojas. Il presunto autore ci svela di aver scritto la Celestina in 15 giorni, un atto al giorno, presumibilmente durante la semana santa. La paternità del primo atto può essere attribuita a Juan de Mena, autore in voga al tempo dopo aver scritto un’opera pari alla fama della Celestina, o a Rodrigo de Cota. El autor a su amigo è uno dei primi documenti scritti, una lettera che ci fornisce che "El autor" anonimo dice di essere uno studente di legge, di aver trovato un primo atto già fatto, dei papeles raccolti poi in un solo atto (questo spiegherebbe il verbo acabar, e non hacer/escribir) per continuare con i successivi 15 atti. È un’epistola-dedica che funge da prologo, fortemente retoricizzata, che sviluppa i luoghi comuni propri della topica dell’esordio. 1) Falsa modesia: lo scrittore si descrive come incapace o si presenta come il traduttore o rinvenitore dell’opera. Questo topico serve per ottenere la benevolenza dell'uditore. 2) Il secondo stereotipo che usa l’autore della Celestina è il principio del carmina non prius audita attentum parare, che nella Celestina diventa jamàs en nuestra castellana lengua visto ni oìdo (state attenti). 3) Passa ad un altro luogo comune: un autore fa il centro se intrattiene e al suo tempo istruisce (Orazio); tanto più lo faranno se l’opera presenta tratti irriverenti, come il ricorrere ad una mezzana. Ci avvisa che se ripetiamo gli stessi errori dei personaggi, faremo la loro fine, ci mette in guardia (come avverte anche il suo amico innamorato nell’epilogo). Avverte a quali sventure si può incorrere. Anche questo è un espediente narrativo. Nel caso di Rojas c'è un motivo in più per crederci, leggiamo la biografia. Ha ritenuto di doversi nascondere poiché era un converso, cautela nel rivelare la sia identità che sta nella sua origine. Inizia così a delinearsi un profilo tramite il testamento rinvenuto, dell'aprile del 1541, anno in cui è morto. Quando l'armonia esistente nella Spagna delle tre religioni entra in crisi, vengono considerati responsabili e nemici, causa delle carestie, gli ebrei. Una sorta di guerra civile sfociata con la cacciata degli ebrei dalla Spagna nel 1492. Conversi accusati di cripto giudaismo (professare di nascosto), ovvero di continuare ad osservare i riti ebraici tra le mura domestiche. Si dice che la cautela impiegata da Rojas sta proprio nella sua condizione di ebreo converso, autore di un'opera che porterebbe presentare tratti di eresia compromettenti la figura dell'autore (figura di Celestina che fa un conjuro a Plutone, dio degli inferi, ovvero satana, per far innamorare Melibea di Calisto = espressione di magia nera). Alcuni critici vedono la paternità dell'opera nella collaborazione di diversi studenti tramite "trabajos escolares" in un ambiente goliardico (forse universitario), un vero e proprio lavoro di gruppo. Modello da evitare, "reprobación del amor mondano": condanna dell'amore mondano e della voluttà reso anche con l'espressione loco amor. Il pessimismo di Rojas come autore converso a sua volta è stato oggetto di riflessioni della letteratura critica. La Celestina è un'opera che va crescendo nel tempo, pensiamo alla storia dell'evoluzione degli atti, prima c'è un solo atto, poi ne diventano 16, poi ci sono edizioni con preliminari, edizioni senza preliminari. Tragicomedia di Calisto e Melibea: è una variante relativa al genere, non più commedia ma tragicomedia. Presenta delle novità già nel numero degli atti, non ne ha 16 ma 21 (+5), che non vengono collocati alla fine a mo’ di sequel ma nel fulcro (atti interpolati/interquel), da metà del 14esimo vecchio a metà del 19esimo vecchio. Va ad allungare l'opera e la rende curiosa, le opere teatrali normalmente si componevano 3 o 5 atti, e qui già si presentava con 16 atti all'inizio. Oltre ad aggiungere questi 5 atti, interviene sul testo modificandone alcune parti. Nel 1526 troviamo pubblicata una Celestina in 22 atti, quest'atto in più è considerato spurio/fittizio, non di Rojas, "l'atto di Traso", nome ricavato da un personaggio presente in questa parte. Documento tra i preliminari che spiega perché il suo autore decide di cambiare titolo e di aggiungere 5 atti (pag. 79); prologo importante perché: 1. Testimonia il pessimismo dell'autore, il mondo come luogo di eterno conflitto; 2. Motivazione del cambiamento del titolo: 3. Caos.  Si preoccupa di definire una sorta di concetto pessimistico, l'universo come un campo di disputa articolata a partire dall'universo e dall'interpretazione dell'opera tra i giovani, i vecchi e i bambini.  Poetica dell'ambiguità. Tra le tante ipotesi del cambiamento del genere c'era proprio quella del perché finisse in tristezza "acaba en tristeza". Potremmo pensare che nelle intenzioni del primo autore quest'opera fosse una comedia, poi completata da lui, quegli stessi elementi sono stati coniugati nel finale catastrofico poc'anzi accennato. Piccolo indizio all'interno del romanzo. Di cosa si lamentavano i lettori? Si lamentavano che la storia d'amore durasse troppo poco, infatti nella comedia di 16 atti, i due amanti la prima notte che si incontrano, Calisto mette un piede in fallo cadendo giù e muore. I lettori lamentavano la repentina fine della storia d'amore del 14esimo atto. In questi 5 atti c'è un'estensione di circa un mese in più. Riflessione sull’uso del termine tragicomedia  Plauto aveva nominato il suo Anfitrione come "tragicomedia", poi così verranno chiamate anche alcune opere successive.  La definizione di tragicomedia prende spunto dalla Ruota di Virgilio/Rota.  Vergilii; strumento mnemotecnico che metteva in relazione i generi letterali con i loro contenuti, un'opera per essere tragica non doveva necessariamente finire male, ma doveva avere certi protagonisti.  Le tragedie dovevano avere come protagonisti personaggi non appartenenti al popolino o alla servitù, ma all'alta aristocrazia, nomi adequati al personaggio. Animali che dovevano essere cavalli, le armi dovevano essere le spade ecc...  Plauto la chiama tragicomedia, ossia mescolanza tra mondo divino e mondo umano. Quali sono i modelli della Celestina?  Commedie classiche  Commedie umanistiche Temi che condivide con queste Commedie:  Storia di un amore illecito  Presenza di intermediari  Mondo della prostituzione, Celestina proveniva da un bordello. Stile della Celestina:  Clausole brevi, con mutamenti di tono e luoghi comuni della saggezza popolare.  Tendenza all'astrazione che conferisce a tutti i personaggi uno stesso stile ricco di citazioni dotte e impianto retorico ambizioso. Tendenza speculativa ancora legata al medioevo.  Gli stessi personaggi che si sentono in lunghe digressioni sanno anche scambiarsi battute brevi. Lo stile dell'opera è quindi la sintesi tra una tendenza lenta, tendenzialmente astratta e l'altra rapida, simultanea con le azioni e concreta. 01/12/2021 L’atto, nelle opere drammatiche/teatrali, è un’unità di misura. L’opera teatrale non è fatta per essere letta, ma per essere vista. Qui abbiamo prima XVI, poi XXI e infine XXII. Questo ci porta a una sorta di smarrimento, quindi quali erano le intenzioni dell’autore? La critica ha tentato di trovare una definizione di genere letterario che ne cogliesse questa costruzione anomala dal punto di vista delle convenzioni letterarie. C’è chi l’ha definita un ‘romanzo dialogato’; chi l’ha definito un ‘romanzo drammatico’. Pelayo colloca La Celestina in una sua opera Origenes, fino ad arrivare a Stephen Gilman che dice di coniare un nuovo termine, poiché l’opera è un ‘dialogo puro’. Anche in questo caso abbiamo in una delle strofe della composizione finale di Alonso de Proaza (la quarta ottava, pagina 347). Ne deduciamo che La Celestina era letta a voce alta di tipo recitativo da un interprete. Ci aiuta a risolvere alcune contraddizioni che rileviamo all’interno del testo e che mettono in discussione una effettiva rappresentabilità. Vari sono stati i tentativi di portarla sulle scene senza grandi successi. C’è uno sfasamento tra le battute e i tempi teatrali. La coppia dei servi Sempronio e Pármeno serve per creare una polarità tra il servus fallax (quello infido, Sempronio) e il servus fidus (alleato fedele del padrone,
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