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Letteratura Spagnola II Sarmati, Dispense di Letteratura Spagnola

Il documento include: - appunti di tutte le lezioni - riassunto del manuale storico - riassunto delle dispense incluse nel programma - riassunto delle opere in programma Voto: 30L

Tipologia: Dispense

2021/2022

In vendita dal 29/06/2024

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fabio-lamboglia 🇮🇹

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Scarica Letteratura Spagnola II Sarmati e più Dispense in PDF di Letteratura Spagnola solo su Docsity! LETTERATURA SPAGNOLA LA SPAGNA PREROMANZA La storia della penisola iberica risale a più di 15mila anni fa, come dimostra il ritrovamento nel 1868 della Cueva de Altamira che testimonia la presenza di una società umana nel Paleolitico superiore e che per questo divenne patrimonio dell’Unesco nel 1958. Situata nella regione di Cantabria, in Santillana del Mar, questa grotta presenta affreschi policromi rappresentanti cacciatori. Questo ritrovamento è stato del tutto fortuito ma a quale popolo appartenessero non possiamo dirlo con esattezza. Ciò non si può dire della Dama de elche, statua funebre ritrovata nei pressi di Alicante, che testimonia la sua appartenenza alla comunità celtiberica. I Celti iniziarono la loro espansione a partire dal III millennio a.C, arrivando a stanziarsi nel cuore della Meseta- che oggi riconosciamo nei territori di Aragona e Arioja- unendosi poi ad una popolazione autoctona sulle coste del Mediterraneo e diede vita alla cultura celtiberica. La lingua celtica va a costituire quello che noi definiamo sostrato, ossia quelle lingue che esistevano nel territorio spagnolo prima della dominazione romana e che hanno influenzato il latino. Con superstrato, invece, facciamo riferimento a quelle lingue che ebbero un’influenza maggiore e che si diffusero a partire dall’invasione romana nella penisola iberica. Espulsi i Cartaginesi dalla costa mediterranea occupata della Hispania nel corso della seconda guerra punica (206 a.C.), Roma fondò la nuova provincia e iniziò una lenta occupazione della penisola, che si prolungò per buona parte del II secolo a.C. Dopo quasi sette secoli di ininterrotta dominazione romana, l'Hispania assorbì totalmente la cultura latina, ne adottò la lingua, i costumi e le leggi, acquisendo un'importanza fondamentale all'interno dell'Impero romano, tanto da dare i natali ad alcuni imperatori: Traiano, Adriano, e Teodosio I. Inoltre nacquero lì anche alcuni importanti scrittori, fra cui Seneca e Marziale. La dissoluzione del sistema imperiale romano provocata dalla pressione delle popolazioni centro-europee raggiunse, già nel V secolo, l'estremo occidente d'Europa. Per primi arrivarono dalla Gallia, nel 409, assieme ai Suebi ed agli Alani, i Vandali, partiti dai paesi baltici sotto la spinta degli Unni. Queste popolazioni furono poi sconfitte dai Visigoti (V secolo), altro popolo del nord che arrivava in Spagna già romanizzato e come esercito federato di Roma. L'invasione dei visigoti non fu una vera e propria invasione: essi scacciarono i popoli che avevano occupato la provincia e si insediarono come alleati di Roma. I visigoti disposero la loro capitale a Toledo- prima capitale spagnola- e il loro regno durò fino al VIII secolo. Un grande esponente della civiltà visigota in Spagna fu Sant’Isidoro di Siviglia (560- 636), che scrisse “Le Etimologie”: opera etimologica che ricostruisce l’origine delle parole e la prima enciclopedia mondiale. L’attività intellettuale della Spagna dell’epoca si organizza attorno l’aula regia della capitale di Toledo ed è qui che la cultura romana impone il suo prestigio, che viene successivamente travolto dall’invasione islamica nel 711. È l’inizio di un ciclo storico di fondamentale importanza per la Spagna, che durerà per circa 700 anni e che si chiuderà nel 1492 con la caduta del regno di Granada, ultimo resto del potere mussulmano, e in definitiva nel 1609 con l’espulsione dei “moriscos” durante la Reconquista cristiana. Si svilupparono una serie di teorie che si canalizzano verso tre grandi filoni: • teoria romantica (veniva enfatizzata la presenza di una poesia popolare anche anonima) • teoria medio-latina (di origine amorosa o liturgica) • teoria araba (sostenuta proprio da Julian Ribera che affermava che la poesia spagnola avesse trovato la sua culla in al-Andalus, territorio conquistato dagli ebrei). Le diverse supposizioni sulla pre-esistenza di una lirica trovano la loro testimonianza nella scoperta in lingua araba o ebraica di piccole strofe in lingua paleo-romanzo o proto-romanzo e l’arabista Emilio Garcia Gomez si accorse che questi caratteri erano appartenenti ad una lingua romanza (mozarabe). Era la lingua parlata dagli ispano-cristiani di al-Andalus. ETIMOLOGIA DI AL-ANDALUS, SEFARAD, SPAGNA • Al-Andalus: per arabi era al-Andalus (da cui deriva anche il nome della regione dell'Andalusia), termine che deriva da un ipotetico "Vandalusia" ('la terra dei Vandali') oppure dal gotico Landahlauts (feudo, proprietà terriera); • Sefarad: per ebrei, deriva dalla Bibbia ebraica, mitica città del vicino Oriente. Gli ebrei spagnoli battezzarono Sefarad, la Spagna di qui gli ebrei spagnoli sono detti sefarditi. • Hispania; per gli spagnoli, era un termine già presente in Tito Livio e Cicerone. Isidoro di Siviglia suppone che derivasse da un leggendario re iberico, Hispalo, figlio di Ercole. Altre possibili origini etimologiche: 1. Terra dei conigli 2. Terra dei metalli ETHNOS SPAGNOLO: ANIMA DI UN POPOLO L’attuale ethnos spagnolo non può apparirci se non come il risultato di molteplici fusioni e di un lungo processo di unificazione che parte da una situazione di grande frammentazione e di complessa distribuzione etnica. Queste ricostruzioni hanno una più generale motivazione nell’abitudine spagnola verso il carattere d’appartenenza nazionale: la continuità o meno dai latini ai visigoti ai regni cristiani che resistono agli arabi diviene un aspetto di quella presa di coscienza dell’oggi che travaglia l’intellettuale spagnolo. Ramon non dubita che esistano caratteri nazionali spagnolo, filologo ,Pidal Menéndez nesso con le attitudini che che essi siano durevoli; riconosce in loro un intimo dominanti e nella collettività e nelle circostanze storiche, fattori variabili. Per Pidal in Spagna, prevalgono e etnica base una costruito hanno romana colonizzazione la e celtiberico il sostrato Successivamente il superstrato germanico ha grande importanza in quantoale. tradizion , seppur arabomodifica sangue e nobiltà gota. L’altro superstrato che introduce è quello perché mportanza i grande di volta numericamente debole come quello germanico, è a sua quella occidentale. Il risultato a superiore inizialmente cultura una penisola nella importa è che malgrado le invasioni di popoli stranieri nella penisola iberica oggi perdurano alcuni tratti peculiari. Américo Castro elabora un affascinante visione della storia del suo paese: egli nega con fermezza l’esistenza di costanti biologico-psichiche e sottolinea l’importanza di vivere dentro una specifica realtà dinamica, definita come morada de la vida, ossia il modo in cui gli uomini atteggiano la loro vita all’interno di essa e prendono coscienza della propria esistenza. Alberto Varvaro parlò di una “koinè letteraria” (comunità) e questo perché in galego- portoghese scrissero tanto i poeti galiziani e portoghesi quanto i poeti castellani. La lingua galego-portoghese fu adottata come lingua della lirica anche dai poeti castellani fino al XIV secolo. Quando la lirica trobadorica si diffonde in Spagna, essa ne riprende i modi con delle varianti socioculturale: se la lirica provenzale aveva avuto in Francia ebbe diversi centri di diffusione, in Spagna avviene un unipolarismo culturale, dunque si creano due grandi centri di irradiazione, ossia le corti del re mecenate Alfonso X el Sabio (1252) e Dom, re di Portogallo. Nel XIII secolo, troviamo un’epoca denominata come il primo Rinascimento poiché nasce la prima diversità culturale, i primi centri di studi e la Riconquista raggiunge una fase di stasi. Il sovrano Alfonso, più che per le sue doti militari, divenne famoso per le sue passioni culturali e la sua “Scuola di traduttori di Toledo”, divenendo il promotore di tale lirica gallego- portoghese. Scrisse in galego-portoghese le sue Cantigas de Santa Maria che sono in un numero quasi di 400, a sfondo religioso devoto, rivolte all’elogio e all’esaltazione della Vergine. Come arriva la lirica provenzale in Catalogna? La Provenza è divisa dalla Catalogna dai Pirenei ma sono regioni in contatto, tanto che esiste una Catalogna spagnola ed una Catalogna francese. Inoltre, c’è una linea di collegamento culturale in tutta Europa, ai tempi del Medioevo, costituita dal Camino de Santiago de Compostela (VIII-XI secolo). Il Camino De Santiago è un pellegrinaggio a scopo penitenziale, in epoca antica, era molto noto ed era molto praticato ed aveva come mete dei luoghi dove i fedeli potevano raggiungere. Si diffonde il mito di “Santiago mata moros” - così venne poi chiamato, diventò il culto di un santo della riconquista. Quando i visigoti cristiani si riorganizzano nel Nord della Spagna e riconquistano il territorio, lo scontro avviene su base ideologico-religiosa e lui fu il santo elevato a santo della Riconquista spagnola. Santiago in italiano è San Giacomo ed è considerato uno degli apostoli di Cristo, evangelizzatore della Spagna. Santiago va in Oriente e sembra che sia uno dei primi martiri cristiani in Oriente e muore decapitato, come spesso succedeva agli apostoli divenuti poi santi. Il suo corpo fu raccolto dai suoi fedeli, trasportato su una nave guidata da un angelo e ritornò sulle coste della Galizia dove le sue spoglie furono sepolte. Questo è il mito che poi continua nell’ottavo secolo con un eremita, Pelaio, che viveva nelle montagne galiziane e che una notte vide un fascio di stelle, le seguì e si imbatte in un’arca marmorea dei resti di Santiago. Da questa storia si evince anche l’etimologia della parola “Compostela” che andrebbe ad indicare proprio il “campus” dove le stelle hanno condotto l’eremita. Che cosa spinse i trovatori provenzali ad andare in Spagna? La ricerca di un nuovo pubblico. La poesia trobadorica nasce in un clima di pace, ma poi emigra verso il resto dell’Europa, e quindi della Spagna, proprio quando le crociate creano un clima di tensione e costringono i poeti a rifugiarsi in altri territori. Questa fuga è nota come Diaspora occitanica. La produzione iberica dei trovadori galego-portoghesi si articolò in tre generi: 1. Le cantigas de amor, legate alla lirica trobadorico-cortese ma ugualmente caratterizzate da elementi innovativi come l’assenza dell’incipit primaverile, della descrizione dell’amata e della joi che compensa le pene amorose. Il poeta canta la pena di un amore anelato ma irraggiungibile (coita d’amor), destinato all’infelicità e all’insoddisfazione nonché alla morte in cui il poeta deve serbare il segreto della sua identità (sanha). È una trasposizione del sistema di vassallaggio feudale in ambito amoroso, in cui la dama (senhor) è superiore all’uomo, sia socialmente che moralmente, sottoponendo l’uomo a sfide per provare il suo valore, rientrando nella figura della femme fatale (come Ginevra o Isotta); 2. Le cantigas de escarnho e maldizer, ossia canti di scherno che con linguaggio volutamente popolaresco e scurrile uniscono alla satira politica quella personale. Talvolta, esse rivelano le tensioni esistenti tra i trovatori, che appartengono ad una classe più alta e i giullari, appartenenti ad una classe più bassa- come nel caso di Pero Garcia Burgales; 3. Le cantigas de amigo, anch’esse riguardo i canti di una fanciulla innamorata. Essa è composta da liriche colte di stile popolareggiante, che imitano i tipici tratti folklorici. È il complemento della cantiga de amor. 4. Troviamo anche dei sottogeneri che riguardano i luoghi privilegiati del contesto amoroso, ossia le Barcarolas o Marinhas, proprio perché il paesaggio privilegiato è quello marino. Troviamo anche le cantigas das romerias- o del pellegrinaggio- che insistono sui luoghi del cammino de Santiago, in cui si incontrano durante questo percorso. Infine, troviamo le alboradas che testimoniano l’incontro amoroso al fare dell’alba. Le cantigas sono costruite su una struttura parallelistica o incrociata, che riduce il lessico all’essenziale e che punta ad un’altissima sonorità. I secondi versi delle prime due strofe diventano poi i primi delle strofe tre e quattro e così via, secondo il meccanismo del leixa- pren. A livello tematico, anche qui la fanciulla lamenta la lontananza dell’amico e la difficoltà di coronare questo incontro amoroso, ma anche la gioia dell’incontro e di un amore ricambiato, con una sensualità pervasa. È presente il paesaggio- principalmente quello marino-e a volte la descrizione della donna, anche se in termini molto essenziali. Da un punto di vista etimologico, le Cantigas (in provenzale Canciolo) fanno riferimento a dei componimenti legati alla musica e al canto. Esse hanno come modello la lirica provenzale, ma un ramo delle Cantigas ha un’origine autoctona- ossia quelle de amigo- trasmesse da codici scritti, ossia i Canzonieri. Un Canzoniere è un’antologia, una raccolta di poesie con canzoni di tipo collettaneo- cioè di autori diversi- o individuali. I Canzonieri collettanei più importanti della lirica gallego-portoghese sono: • Ajuda: rinvenuto nella biblioteca del palazzo reale di Ajuda (cittadina nei pressi di Lisbona). Risale al XIII secolo e raccoglie tutti e tre i generi delle cantigas gallego- portoghesi. • Canzoniere della Vaticana: indica il luogo dove il Canzoniere è stato rinvenuto da Ferdinando Wolf, a metà dell’800. Esso raccoglie Cantigas gallego portoghesi. Esso è una copia di un canzoniere più antico, arrivata nella biblioteca vaticana a Roma. • Canzoniere colocci brancuti: presenta un doppio nome, che indica il nome dell’allestitore e poi chi lo ha messo insieme. Angelo Colocci è colui che lo mette insieme copiandolo da un testo precedente, diventa di proprietà del conte Brancuti, alla sua morte passa di mano in mano, l’italia nel 1912 lo vende al Portogallo. I Canzonieri individuali, invece, sono: • La pergamena Vindel: Pedro Vindel era un bibliotecario che ritrova un codice di Cicerone (il De Offici), togliendo la copertina si accorge che essa è una pergamena dove sono riportate le 7 cantigas di un importante poeta gallego portoghese, Martin Godax. I codici più primitivi dei canzonieri individuali erano dei rotoli nella quale i trovatori appuntavano i loro repertori. E’ stato possibile verificare che l’ordine delle cantigas è lo stesso di quello degli altri canzonieri, sono ordinate nello stesso modo: indizio che fa comprendere come la pergamena sia testimonianza di un repertorio. • Pergamena Sharrer: il nome deriva dal suo rinvenitore Leo Sharrer, professore di un’università americana. Questa pergamena foderava un testo notarile, esso conteneva le cantigas del re portoghese Dom Dinis. Mentre la pergamena Vindel era conservata bene, questa invece era molto deteriorata. In confronto alle jarchas, le cantigas presentano un poesia non popolare e soprattutto non anonima bensì di autore. Condividevano, invece, la tematica della fanciulla che si lamenta per assenza del suo innamorato. Quella delle cantigas era una poesia popolareggiante, quindi i poeti imitano la poetica delle jarchas, in cui domina l’emozione piuttosto che la narrazione. Per capire cosa si intende analizziamo in 2 termini: Ø Popolare: della poesia mozarabica non sappiamo chi fossero gli autori delle composizioni, ma questo non vuol dire che non ci fossero. Questi componimenti venivano inventati da qualcuno ma poi divenivano patrimonio nelle mani del popolo in maniera orale; Ø Popolareggiante: qui parliamo della poesia d’autore, ossia quei componimenti in cui sappiamo i nomi degli autori trobadori che li composero, in quanto si firmavano alla fine delle opere, dunque i Canzonieri. MARTIN CODAX Martin Codax è uno dei più unici autori di cantigas de amigo ad usare solo la forma strofica arcaica AAB, ossia un distico rimato seguito da un ritornello, impiegando inoltre un sistema di rime arcaico tramite cui i-o e a-o vengono utilizzati in strofe alternate. Si presuppone venisse da Vigo, per via del toponimo ricorrente nelle sue cantigas. Nelle sue composizione troviamo un panismo e una concezione dionisiaca delle vita piuttosto ricorrente, che si unisce alla celebrazione di tutte le innamorate ed affascinate che si fanno il bagno, con tutti i connotati di erotismo quasi divino che esso comporta. La sua è denominata anche come cantiga del refran, con quattro strofe con due versi con ritornello e per la tecnica del leixa- pren. Le sue date, tuttavia, restano sconosciute e non vi è inoltre nessuna informazione biografica documentale in merito al poeta. LOS VILLANCICOS Il villancico è costituito da una strofetta che rappresenta la manifestazione più semplice della lirica tradizionale castigliana. Le prime testimonianze scritte le abbiamo in epoca molto tarda, intorno al XV e il XVI secolo, momento in cui i poeti di corte recuperarono queste canzoncine e le inserissero nei Cancioneros- raccolta di opere di più poeti diversi. Alle soglie del Rinascimento, in Spagna nasce una moda di corte, intorno all’apprezzamento di questi brevi strofe di origine popolare. Il termine deriva da villano, dunque un abitante della campagna, e infatti sono canti contadini, che riguardano momenti di riposo dal duro lavoro dei campi o feste della comunità paesana legate al ciclo liturgico. Ma sono anche canti di nozze e canzoni che accompagnano l’attività lavorativa durante la semina, la mietitura o il raccolto. Un tema che domina è quell’amore, cantato in maniera elementare ed ammettono come testimoni del caso d’amore cantato dalla fanciulla: la madre, le sorelle o lo stesso amante. Questi canti popolari cominciarono ad essere molto apprezzati e graditi dai poeti di corte. Furono questi stessi poeti che cominciarono a trascrivere questi testi e a conservarli, poi, all’interno di quelle famose antologie denominate “Cancioneros”. LA TRADIZIONE EPICA E “EL CANTAR DEL MIO CID” Alcuni storici della letteratura pensano di poter rimontare più indietro, fino ad affermare un’origine gota dell’epopea spagnola, proprio come afferma Ramon Menendez Pidal. Egli riteneva che i Visigoti avessero conservato l’epopea dei loro avi e che a questa si fosse sovrapposta, al momento della Reconquista cristiana, quella dei nuovi eroi. Gota è difatti la leggenda sulla perdita della Spagna per la conquista musulmana: a causa della violenza che l’ultimo re goto Rodorico usò sulla figlia di Olian, il Conde Julian del Romancero, egli per vendicarsi chiamò i mori in Spagna. Nella realtà storica fu un re berbero cristiano che offrì Ceuta a Musa ibn Musair, governatore dell’Africa musulmana e facilitò la loro entrata nella penisola. Conseguentemente, la Reconquista cristiana si basa sul concetto della “herencia gota” e cioè sulla riconquista di un territorio che era stato della monarchia visigota. Sempre secondo Pidal, i canti eroici germanici dovettero servire come spinta ideale per muovere le popolazioni cristiane in un’impresa dalle proporzioni non trascurabili: l’epopea spagnola nacque sulla base dei canti goti per poi evolvere autonomamente. Ma non c’è dubbio, al prestigio della poesia epica sia dovuto l’affermarsi assai rapido del tipo linguistico castigliano e pare che il merito vada a quei giullari che crearono e diffusero una poesia epica nei secoli più antichi. Ma una tradizione epica nasce quando si passa da un proposito informativo d’intrattenimento ad un compito formativo che riscatta la responsabilità e l’autonomia del narratore pur imponendogli più che mai un’aderenza alla situazione storica-etica reale- contrariamente all’epica francese. Questa maturazione si traduce in un sensibile mutamento delle consuetudini formali rispetto alle precedenti composizioni fantastiche, in versi o in prosa, pur mantenendo la forma orale. Il testo più antico che ci sia è il “Cantar de los siete Infantes de Lara”, di cui rimane un eco solo nella Estoria de Espana di Alfonso X. La leggenda dell’invasione della Spagna da parte di Carlomagno e della morte di Rolando a Roncisvalle testimonia il contatto tra la tradizione epica castigliana e il poema francese. La narrazione epica si definisce per uno stile alto e sublime, narrando in maniera oggettiva e realistica le azioni di eroe compiute in nome della collettività e dei suoi valori fondativi, come l’onore verso il proprio sovrano e il coraggio ridotto a qualità essenziale. Non mette in discussione tali valori ma li innalza perché hanno un forte valore identitario, quindi ha anche un forte valore assertivo. L’opera inizia sempre con una situazione di crisi generale o personale dell’ordine stabilito e all’eroe toccherà ripristinare l’armonia perduta. L’epica spagnola presenta un forte manicheismo, in cui la resa dei conti vedrà sempre prevalere la bontà dell’eroe e annientare la malvagità del cattivo. Sono stati condotti molti studi riguardo l’origine dell’epica in Spagna, con la compresenza di tre tesi. All’origine della tesi gota- sostenuta da Menendez Pidal- dell’epopea spagnola secondo la quale sono presenti motivi in comune con la cultura dei popoli germanici, si sono aggiunte quella di derivazione francese (Gaston de Paris) - che investe sia l’aspetto formale che relativo alla spiccata tendenza realista dell’epica spagnola- ed araba, poiché troviamo nomi di persone e luoghi tra cui il nome stesso del Cid, che in arabo significa signore. (Julian Ribera). Per quanto riguarda la trasmissione, abbiamo la figura del juglar (giullare, pardo, aedo, menestrello, interprete). Per memorizzare questi testi molto lunghi il processo non era un semplice processo mnemonico. Questi giullari avevano un repertorio di temi o racconti e conoscevano un repertorio di formule. Queste formule (stile formulario o formulistico) erano ricorrenti. Ogni giullare poteva arrivare a dominare un numero di poemi, fino a una trentina (i più esperti addirittura 300). Ogni comunità ha la sua età eroica. In Francia, “La chanson de Roland” è considerata tra le opere più significative della letteratura medievale francese e narra la battaglia e la sconfitta di Roncisvalle, dei paladini francesi durante l’epoca di Carlo Magno. Il Cantar del Mio Cid è il poema nazionale della Castiglia. Sulla sua datazione prevalgono due orientamenti. Da una parte, Menendez Pidal tende ad identificare la scrittura quanto più vicino ai fatti narrati ossia il 1140, mentre Colin Smith propone di accettare la data presente nell’explicit e quindi il 1207. Esso fu composto nella provincia di Burgos e narra le imprese di Rodrigo (Ruy) Diaz de Vivar , noto anche come il Campeador e fu un condottiero realmente esistito. Egli nasce nel 1040 da una famiglia di infanzones, la categoria più bassa della nobiltà, che grazie ai suoi meriti riusciva a distinguersi e progredire nella scalata sociale. La materia eroica subisce trasformazioni che alterano il fatto storico, possiamo avere momenti distinti: fatto storico, nascita della leggenda attraverso i canti del fatto storico e l’elaborazione della leggenda come cantar de festa. Proprio perché destinati all’oralità i testi che ci sono giunti sono frutto di un fortuito incidente o per il fatto che sono state storie più gradite al pubblico e quindi più raccontate, ma la maggior parte sono andati perduti. Del Cid riconosciamo almeno tre poemi (o cantares): 1. Il cantar de Sancho II, ricostruito dalla sua prosificazione presente nella cronica najarese; 2. Il cantar del mio Cid, la storia intorno ai suoi 40 anni, ossia il periodo della maturità; 3. Las Mocedades de Rodrigo, poema tardivo del XIV secolo (1360), che narra le origini e la giovinezza dell’eroe. Il Cid cresce alla corte di Sancho II, che è uno dei figli del re Ferdinando I che era riuscito a estendere il suo regno che comprendeva, dal 1035 al 1065, Galizia, Leone e Castiglia, e che alla sua morte divise tra i suoi 3 figli: a Garcia la Galizia, ad Alfonso Vi il Leone, a Sancho II la Castiglia. La storia narra che Sancho fu un re prepotente e avido che mosse guerra ai fratelli e uccise Garcia annettendo la Galizia e poi tenta di fare lo stesso con Alfonso e anche la sorella Urraka annettendo la sua città, Zamora, (come racconta il testo nella fotocopia don Sancho cerca Zamora) e il Cid, suo vassallo, lo appoggia, suo cavaliere quasi fraterno. A Zamora, la leggenda narra che Sancho muore vittima di un’imboscata e il Cid è costretto a passare nelle fila del nuovo re di Castiglia e Leon che sarà Alfonso VI. Questo viene raccontato nel primo ciclo. Come facciamo a sapere che questo Cantar è esistito? Lo sappiamo per un meccanismo che è esistito soltanto in Castiglia, cioè che nelle cronache castigliane gli studiosi, in particolare Ramón Menéndez Pidal, nel leggere le cronache, si accorgono che la prosa assume un andamento ritmico, scoprono che in quel determinato punto lo storico, invece di rielaborare dei fatti, sta utilizzando un Cantar di cui riporta interi versi. I Cantar venivano usati come fonti storiche, anche dai cronisti; questo fenomeno ha permesso di ricostruire a posteriori alcuni versi di tanti poemi eroici. Abbiamo tre cantari: 1. Il primo (vv.1-1084) narra come il Cid sia cacciato in esilio dal re Alfonso VI e si guadagna il pane guerreggiando contro i mori della Bassa Aragona che lo porteranno a scontrarsi col conte di Barcellona, Raimondo Berengario. Al re di Siviglia viene mossa guerra dal re di Granada, sostenuto da un nobile della corte “García Ordóñez” (uno dei ricoshombres). 2. Il Cid difende il re di Siviglia e torna in patria ma il nobile- che faceva parte di “los malos mestureros”, i calunniatori- dirà al re di Siviglia che il Cid si è trattenuto una parte delle tasse, quindi viene accusato di malversazione, di furto e che solo una parte è andata al re, il re crede alla nobiltà e lo manda in esilio; 3. Il secondo (vv.1085-2277) narra come il Cid si conquisti un vasto dominio nel Levante e prenda ai mussulmani Valencia, riavendo con sé la moglie Jimena e le figlie per concessione del Re, che le ha promesse in spose con gli infanti della potente famiglia dei Vani-Goméz; 4. Nel terzo (2278-3733) gli infanti si dimostrano codardi in battaglia e nei pericoli che affrontano. Ma quando sul Duero gli infanti rimangono soli con le fanciulle, le battono e le lasciano morenti: questo porta il Cid a chiedere giustizia e la ottiene solennemente alla corte di Toledo, poiché gli infanti vengono disonorati mentre le figlie vengono promesse in spose ai re di Navarra ed Aragona. Si caratterizza però per alcuni tratti peculiari, come una marcata tendenza realistica per via dell’adesione ai fatti storici che per questo ha fatto parlare di una “cronaca rimata”. Inoltre, è assente quel tono elevato che qualifica lo stile dell’epoca, a favore di una narrazione più prosaica tanto nei fatti come nel linguaggio. Un terzo elemento differenziale sta nella descrizione di qualità più umane che soprannaturali di Ruy Diaz. Risulta evidente che il poema mostri un interesse limitato per le imprese militari del Cid, concentrandosi maggiormente su aspetti più privati ma non per questo meno storicamente autentici: difatti, vediamo personaggi di modestissimo rilievo, trascurati dai cronisti, ma ben noti al poeta e la loro esistenza ci viene garantita dall’esame di documenti d’archivio e a ricostruzioni storiche come quella di Menendez Pidal. La tecnica narrativa vi appare ad uno stadio troppo avanzato per poter pensare che il Cid si imponga come capostipite di un genere. Incerta è anche la figura dell’autore: Pidal elaborò la tesi del doppio autore, quindi di un’opera composta inizialmente intorno al 1100 e successivamente nel momento in cui l’opera venne conclusa, forse per celebrare le nozze tra Bianca di Navarra e il figlio di Alfonso VII. Inoltre, propone l’esistenza di una seconda romanzesca rielaborazione, ossia il poema di Medinaceli. Non conoscendo la preistoria del poema fino al testo del 1140 circa, si pensa ad una saga composta in cui il momento di coagulazione poetica non sia più antico della data proposta, con possibili rimaneggiamenti e dunque considerato come un variegato di estrema precisione e di anacronismo leggendario. Il tema centrale non è tanto il trionfo dell’eroe nazionale o del campione della cristianità ma quello del piccolo nobile che deve affidarsi alle proprie sole forze, ferito negli affetti più cari e poi vendicato dalla condanna degli offensori. Il suo destino si compie su un quadro sociale ben chiaro: egli è un nobile di basso rango ma uguale e contraria alla disparità del sangue c’è quella del valore e della ricchezza. C’è quindi l’immagine tradizionale di un uomo che si mette in gioco, tenace nella difesa nella sua individualità e che celebra il rischio della loro esistenza ed il disprezzo per coloro che rimangono legati al passato. È questa la via attraverso la quale il Cid diviene una figura archetipa della coscienza e della poesia castigliana, venendo celebrato anche dal teatro barocco. La lingua del Cid è senza dubbio arcaica come testimonia la forma metrica, costituita da lasse assonanzate (serie o tiradas in spagnolo). Esse variano, poiché la più breve conta 3 versi mentre la più lunga 185 e la sua lunghezza dipende dal tema trattato. Per quello che riguarda la misura dei versi si va dalle 10 alle 20 sillabe (generalmente 16) con emistichi dalle combinazioni differenti. Altra caratteristica dello stile è l’uso dell’amplificatio verborum nel raddoppiamento sinonimico che amplificano l’emozione poiché ne intensificano il significato (ex. a ondra e a bendicion; con lumbres e con candelas). Perchè l’interprete avesse facilità a riprodurre versi senza lettura, almeno nella sua prima fase di trasmissione, si aiutava con lo stile formulare, ossia una sequenza di frasi invariabili che ricorrono all’interno delle quali troviamo degli epiteti, ossia delle locuzioni o perifrasi usate per qualificare positivamente o negativamente un personaggio: el Cid aveva l’epiteto di campeador, ossia il prode. Letteralmente, si fa riferimento ad un dottor laureato sui campi di battaglia, uno dei migliori se non il migliore. Altro epiteto astrologico è “el que en buen hora naciò” che lo colloca in un paradigma esistenziale dagli esiti fausti così come colui che, sotto una buona stella cinse la sua spada, dunque fu un armato cavaliere. Poiché parliamo di poemi epici, gli le avventure del personaggio avranno sempre un esito positivo e consolatorio. Questi epiteti saranno ricorrenti all’interno del poema sino a rafforzare l’etopea del Cid, dunque la descrizione delle qualità morali del personaggio. Solo intorno a questi primi 60 versi conosciamo un eroe battuto ed umiliato, il Cid capisce sin da subito che per farcela deve procacciarsi dei beni materiali che consentano di mantenere la sua mensnada e ricominciare la sua riconquista. Un’altra delle sue caratteristiche è l’astuzia. EPISODIO DI RACHEL E VIDAS: I DUE EBREI Un’altra caratteristica del Cid è la sua astuzia che viene riassunta in questo episodio, in cui propone ai suoi vassalli di giocare un tiro a due usurai ebrei. Andrà da due usurai con due casse riempite di sabbia, dicendo che dentro vi è il bottino che lui non ha restituito al re. Gli ebrei, pensando al buon affare, gli daranno in cambio ben 600 marchi. È dunque un eroe anche scaltro- proprio come Ulisse. Questo episodio ha dato adito a mille interpretazioni rispetto alla figura dell’ebreo, stereotipicamente interpretata, ingenuo ed avido di denaro, arrivando a parlare di antisemitismo. IL CONTE DI BARCELLONA RAMON BERENGUER II (FINE DEL PRIMO CANTARE) L’altro episodio del primo cantar riguarda la guerra che si scatena tra il Cid e il conte di Barcellona: il Cid, provvisto di queste ricchezze, comincia a guerreggiare, rende suoi tributari i regni Mori di Teruera e di Saragoza; sconfigge i mori che si assoggettano, grazie al suo valore e prodezza come combattente. Si descrive un momento importante perché non solo sconfigge il re, facendolo prigioniero, ma gli sottraen anche la spada Coliada. SECONDO CANTARE (LASSE LXXXVII) Nel secondo cantar, sono trascorsi circa 9 mesi. Particolarmente efficace la descrizione perché, dopo tante battaglie, nel momento in cui questi territori vengono descritti ad un pubblico castigliano, l’autore lo fa attraverso degli occhi di donna Jimena, ossia la moglie del Cid attraverso i suoi “ojos bellidos” che vedono la terra non come un bottino ma un benessere riconquistato. MESTER DE CLERECIA L’apertura alla civiltà letteraria europea si consolida verso la metà del secolo nelle opere del cosiddetto “mester de clerecia” del secolo XIII. Queste opere si presentano tutte nella veste formale del tetrastrofo monorimo o cuaderno via, ossia della quartina monorimata di alessandrini, versi di quattordici sillabe con forte cesura dopo la settima e con accento isosillabico sulla sesta. Vige l’obbligatorietà della dialefe e l’assenza dell’encabalgamiento. Gli autori che ne fanno parte mostrano la consapevolezza (per questo si definisce anche “coscientemente assunta”) del proprio prestigio letterario, della propria eccellenza rispetto alle manifestazioni letterarie coeve in volgare. Le prima manifestazioni accertate compaiono nelle prime due cople del Libro de Alexandre- che diventa dunque un modello stilistico e contenutistico. Complesso è il contenuto del termine “clerecia” che rimanda evidentemente alla figura del chierico, uomo di fede ma soprattutto di studi e che unisce l’aspetto religioso a quello intellettuale. Questi autori rilevano dunque una preparazione clericale, raramente essenziale, alla produzione giullaresca e sono ben più consapevoli della responsabilità letteraria del loro lavoro anche se evitano i vanti iperbolici. Non si pongono come oppositori colti della tradizione giullaresca e non presuppongono il passaggio ad un pubblico diverso ma un sicuro affermarsi di una più responsabile coscienza letteraria, tenendo conto anche della possibilità di una lettura individuale o al più di una cerchia ristretta. Si tratta dunque di un gruppo di autori colti che producono opere erudite, derivate spesso da fonti latine, affinché esse venissero lette individualmente: producevano una versione unica poiché non erano ammesse varianti. Il compito che tutti gli uomini hanno è mettere la propria scienza al servizio degli altri ed è quindi associato un forte obbligo morale che li porta a mettere a disposizione del prossimo le proprie conoscenze. L’essere un “mester sin pecado” non va inteso solo nel senso di testi esclusivamente a carattere devoto giacché i temi variano dalla materia antica, al romanzo bizantino alla materia epica castigliana: si riferisce piuttosto alla forte tensione didattica, educativa e moralizzante nonché alla volontà di narrare storie esemplari che anima tali autori. Questa formazione condivisa dai chierici avviene anche grazie al salto culturale che avviene al momento della Reconquista che culminerà nella battaglia di Las Navas (1212) e alla progressiva decadenza dell’egemonia araba anche grazie alla conquista di Cordoba (1236) e Siviglia (1238). Con la morte di Alfonso IX e l’ascesa di suo figlio Fernando III si ebbe l’unione definitiva dei due regni di Castiglia-Leon e la definitiva egemonia castigliana sulla penisola iberica. Rimaneva solo da conquistare il regno di Granada che capitolerà sotto i re Cattolici nel 1492. In questo periodo, si fondano le prime università, come quella degli Studi Generali di Palencia (1214), di Salamanca o Valladolid e si moltiplicano i centri di studio e di formazione per rispondere alle esigenze di una maggiore acculturazione dei sacerdoti. Tutto questo si determinò nel contesto dello sviluppo urbano e socio-economico, definito Rinascimento del XIII secolo. Vi è una quartina all’interno del Libro de Alexandre- opera basata sul personaggio di Alessandro Magno, la cui ambizione sarà la causa della sua disfatta- che ci giunge in forma anonima nonostante molti l’attribuiscano a Berceo. È composta da due quartine meta-poetiche poiché spiegano l’intenzione della propria scrittura creativa. Figura dell’antichità e re di Macedonia, la parabola esistenziale di Alessandro Magno diede vita a molte opere anche a mo’ di ammonimento e dunque usata come monito. Il Libro di Alexandre appartiene ad un autore anonimo. La cuaderna via- la quartina impiegata- viene dal termine quadrivium. In ambito medievale le materie di studio si dividevano in arti del trivium. Le arti che si insegnavano prima garantivano una formazione di base che prevedeva la grammatica, la logica e la retorica. Dopo si accedeva all’istruzione superiore che è quella che avviene negli studi generali che viene definita quadrivium che prevedevano l’aritmetica, la geometria, la musica e l’astronomia. Le ultime due materie del processo istruttivo erano la filosofia e la teologia. Tutte e sette queste arti andavano sotto il nome di ‘arti liberali’. Potremmo supporre che l’autore del Libro di Alexandre utilizzi il termine cuaderna via per dire che coloro che lo impiegano sono uomini o scrittori che hanno avuto accesso all’istruzione superiore, che hanno frequentato gli studi generali. Nel primo emistichio, l’autore dice che lui usa un mester bello, c’è una sorta di orgoglio nel dominare le regole di questo mestiere. Juglaría e clerecía sono posti in rima, in una collocazione in cui questi due termini vengono associati e contrapposti. È un mestiere senza peccato perché appartiene alla clerecía, si basa su temi di carattere religioso, morale, temi impiegati in una direzione didascalica-pedagogica. Alcuni studiosi hanno voluto leggerla anche in chiave più formale: si basa su una applicazione rigorosa di alcune regole metrico- formali non provoca difetti formali. Nel mester de clerecía la perfezione formale è un obiettivo. Gli autori del mester de clerecía usano la cuaderna via contando le sillabe, non possono essercene di più o di meno di quelle che stabilisce la metrica. GONZALO DE BERCEO Nacque a Berceo nella Rioja, regione dell’Alto Ebro e fu educato nel monastero di San Millan de la Cogolla, in cui troviamo la prima testimonianza scritta della lingua castellana. In questo monastero vengono ritrovate le cosiddette “Glosas emilianenses”, ossia dei passaggi a carattere liturgico in latini con delle traduzioni in castigliano. Le sue opere sono tutte a carattere devoto, dunque religiose, se si esclude il Libro di Alexandre che alcuni gli attribuiscono seppur con enormi margini di dubbio. Nel caso di Berceo ci troviamo di fronte a una rivendicazione di paternità. È lui stesso a firmare le sue opere attraverso il meccanismo dell’autonominatio, quindi mettere il proprio nome all’interno dell’opera. L’intera sua opera è improntata al proselitismo, nel senso che si propone di divulgare presso i fedeli storie e vicende a carattere devoto. Si tratta di una fede intesa in maniera più genuina e più vicina alla gente più semplice: se ne interpretano i bisogni e se ne adotta il linguaggio- il roman paladin, ossia un volgare semplice- sobrio ma ricco di quei toni affettivi atti a fare immediatamente presa sull’uditorio. Ama introdurre le sue composizioni con l’affettazione di modestia probabilmente secondo il topos el captatio benevolentiae per avvicinare il pubblico ai fedeli, schernendosi della propria cultura, soprattutto nell’epica d’esordio. La sua produzione è assai ampia e scrive Tres vidas de santos (locali): • Vida de Santo Domingo, un santo a cui è dedicato un famoso monastero nei pressi di Burgos; • San Millán de la Cogolla, il santo alla cui devozione Berceo si ispirò maggiormente; • Vida de Santa Oria, una suora benedettina che visse a San Millán. • Milagros de Nuestra Señora, considerati il suo capolavoro. I Milagros si basano su un codice latino che appartiene ad un genere molto in voga nella letteratura religiosa ossia quello della miracolistica relativa al culto mariano- dunque al culto della Vergine. Berceo seleziona venticinque (5 numero della Madonna) dei quarantanove miracoli della fonte latina e denuncia senza remore la propria funzione di mediatore e non di autore del testo. In realtà, ne abbiamo solo ventiquattro perché il penultimo- “La Iglesia Robada”- si ipotizza sia di trasmissione orale o sia stata scritta di suo pugno. Si potrebbe dire che questi miracoli siano alla base della novellistica medievale, segnando dunque un passaggio dalla narrazione epica ad uno più aneddotico. L'arciprete è un grande donnaiolo molto sfortunato, tanto da rivolgersi al Dio Amore, il quale gli dice che l’arciprete è sfortunato perché non conosce tutte le regole necessarie per raggiungere un buon fine- mostrandogli le artes amendi- e poi perché non è mai ricorso all’aiuto di una mezzana: qui collegamento tra Libro del buen amor e la Celestina. Lui viene accusato dai chierici di Talavera, in un momento si fa aiutare dalla mezzana “Urraca” o “la trotta conventi”. Con questi nomi la critica manifesta certe abitudini mondane della vita ecclesiastica. La prima avventura è a lieto fine ma i traffici amorosi non sono tuttavia conclusi poiché il matrimonio costituisce solo una breve pausa giacché, dopo poco tempo egli vede morire la giovane sposa e si ritrova di nuovo gettato nella mischia della vita. Dopo quattro avventure con serranas- ossia rudi montanare- la serie di fallimenti amorosi inizia nuovamente- ad eccezione dell’incontro con Garoza, la quale morirà anche lei- sempre accompagnata da digressioni, descrizioni allegoriche e una costante presenza della morte. È un testo di una grande ambiguità perché l’opera si struttura in una serie di paratesti, di preliminari che anticipano le avventure amorose, e in uno di questi preliminari l’arciprete ci dice che tratterà del “buen amor”, definendolo la recta voluntas. Ma si presenta un messaggio piuttosto ambiguo e oscillante, tanto da definire questo stile come “poetica dell’ambiguità”. Dopo aver descritto “el buen amor” come quello Dio e invitato gli uomini a diffidare dal “malo amor” mondano, il Dio Amore afferma che è intenzione di questo libro mostrare il male perché gli uomini e donne di buen entendimiento sappiano evitarlo e salvarsi, nonostante affermi che incontreranno alcune maniere per perseguirlo qualora volessero sperimentarlo. È dunque un testo soggetto a diverse interpretazioni, mostrando la possibilità del testo di essere interpretato in più modi. È un’opera giocata su due livelli: 1. il livello del testo giocoso che ha fatto pensare che sia scaturito da un ambiente goliardico, quello studentesco; 2. il livello di riscrittura di codici e dei testi sacri riguardanti la religione. La letteratura religiosa era molto presente nell’opera. La struttura dell'opera rispecchia il “relato en sarta”, un procedimento che prevede l'unione di storie di diverso genere legate tra di loro da un filo logico. Secondo molti studiosi, Ruíz compone l'opera unendo le sue poesie d'amore in un'unica composizione. Sono 14 avventure amorose, che vengono narrate in cuaderna vía. Questa struttura è una struttura portante, che dà unità al testo. C’è una serie di altri testi, dalle fonti più varie, che toccano anche i temi più vari. Il libro del buen amor è un centone, ovvero quel tipo di opere che sono un’unione di materiali e fonti: dalla Bibbia, al Libro de Alexandre, da Ovidio e dal filone “pseudo-ovidiano”, alla commedia latina del XII secolo del Pamphilus de amore. I modelli che vengono rievocati per capire questa struttura multiforme (amori, digressioni erudite, battaglie) sono orientali. Il primo modello è quello del “magamat”, genere letterario orientale. Vengono descritte come una sorta di riunioni in cui si alternano narrazioni di vario tipo con spunto anche realistico, ma anche variazioni di tipo fittizio e anche fantastico. 14 avventure amorose: 1. La gentildonna 2. La fornaia Cruz 3. La donna onesta 4. Melón e endrina (trottaconventi) 5. Una giovanetta 6. La montanara Chata 7. La montanara Gadea de Riofrio 8. La montanara Menga Llorente 9. La montanara Alda 10. Una bella vedova 11. La donna di chiesa 12. Donna Garoza 13. La donna mora 14. La donna piccolina. Il secondo modello “El collar de la paloma” testo sull’amore, opera in prosa che indaga l’amore sotto tutti gli aspetti, cosa induce l’amore, perché ci si innamora, quali sono i sintomi di chi è innamorato, le conseguenze fino ad arrivare al tradimento e alla fine dell’amore. In quest'opera ritroviamo per la prima volta l'uso del dialogo vero e proprio, sebbene la forma dialogica fosse già presente nel conte Lucanor, ma in quel caso si trattava di dialoghi fissi e quindi non di trasposizione del parlato. LE ORIGINI DELLA PROSA In Spagna come nelle altre zone del mondo romanzo le prime attestazioni di prosa in lingua volgare sono documenti di archivio e statuti. La prosa letteraria nasce più tardi, nell’ambito di una intensa attività traduttoria, che nella penisola ha il suo precedente nella cosiddetta scuola dei traduttori toledani: è al loro lavoro che l’Europa deve, per non dire altro, il recupero della filosofia aristotelica nonché di una prima modellazione della struttura sintattica del castigliano. Si va formando così, in un ambiente che per la determinante presenza di arabi ed ebrei non subisce se non marginalmente il peso della tradizione latina, una coscienza linguistica nuova. Al circolo toledano potrebbero ricollegarsi anche quella Fazienda de Ultra Mar nonché la prima traduzione castigliana del Vecchio e del Nuovo testamento. Acquista ben presto un grande sviluppo la prosa di intento didattico. Anche in questo campo si comincia con un’opera in latino, ossia la Disciplina clericalis, che ebbe un grande successo. Narra le storie dell’ebreo convertito Pietro Alfonso, nato in Aragona nel 1062 e vissuto a lungo in Inghilterra, dove fu medico di Enrico I e fece conoscere varie opere astronomiche e matematiche. Per quanto la tematica di questa- ed altre opere simili di quest’epoca- siano per lo più eterogenee, l’interesse più vivo è senza dubbio per le regole di comportamento nella vita politica e morale, il che individua come destinatari i nobili: le fonti, inoltre, sembrano in genere orientali con attinte compilazioni arabe. Questa, come anche i Bocados de Oro e la Poridat de las poridades, si definiscono anche come “specula principis”. ALFONSO X “EL SABIO” Il regno di Alfonso X segna una svolta assai importante della storia castigliana. Figlio di Ferdinando III, il re che aveva conquistato l’Andalusia, Alfonso salì al trono nel 1252, a trentun anni. Da principe ereditario egli aveva combattuto contro i mussulmani ed a lui si deve la presa di Murcia. Sotto il suo regno, il primo tentativo di inserimento della Castiglia fra le potenze europee oscilla fra mire troppo ambiziose ed un impegno discontinuo e si chiude con un completo insuccesso. Ne consegue che le energie finora rivoltesi contro i mussulmani si consumano in violenti scontri interni, in un clima che si spezzerà definitivamente con i Re Cattolici. È un segno dei tempi nuovi che Alfonso X muoia (1284) mentre è un aperto dissidio col figlio Sancho, per quanto in suo favore abbia privato dei loro diritti i nipoti, figli del primogenito Fernando, premorto al padre. Egli ha dunque lasciato un’opera fra le più straordinarie del medioevo, un complesso di lavori di singolare versatilità ed ampiezza che costituisce una vera summa della cultura castigliana del secolo XIII: ne fanno parte una raccolta di oltre quattrocento poesie liriche in onore della Vergine scritte in galego- ossia le Cantigas de Santa Maria; un’opera giuridica (el Fuero Real), due vaste complicazioni storiche, la Estoria de España e la General e grand Estoria; una collezione di libri magici e una raccolta di quindici trattati astronomici cui vanno aggiunte le Tablas alfonsies. Il re si circondava di un gruppo di collaboratori, ma era comunque il programmatore e l’organizzatore del lavoro ed anche il revisore dei libri scritti sotto la sua direzione: egli se ne merita la paternità. Ciò che differenzia l’opera di Alfonso da quella dei traduttori toledani è il suo interesse puramente pratico e il suo disinteresse assoluto per Aristotele che proprio attraverso Toledo era penetrato nella cultura europea. Inoltre, se i traduttori toledani erano quasi tutti venuti dall’estero e lavoravano per un pubblico quasi esclusivamente non spagnolo, la produzione alfonsina ha un’influenza determinante sulla cultura castigliana ma pochissima eco fuori del mondo iberico: ciò conferma la singolarità ed eccezionalità dell’opera di Alfonso. PRIMI ESEMPI DI ROMANZO Distacchiamo due grosse opere che, iniziando la narrativa in prosa, avviano in qualche modo la grande tradizione del romanzo cavalleresco. La più antica pare la Gran Conquista de Ultramar, una vastissima compilazione di materiale di provenienza francese. Una funziona analoga, ed ancor più grande fortuna, hanno avuto le versioni di testi sulla guerra di Troia; più tardi Alfonso XI promuove un’altra traduzione dello stesso testo francese, ma interamente in prosa che fu terminata alla fine del 1350. Il Libro del Cavallero Zifar è il primo romanzo originale. JUAN MANUEL Nacque in Escalona nel 1282, nipote di Alfonso X, e crebbe a capo di un dominio vastissimo ed ereditò la carica di governatore del regno di Murcia. Durante la lotta dinastica per la successione di Alfonso X el Sabio si schierò al lato di Sancho IV e il monarca gli donò la sua protezione. Si sposò con la figlia di Mallorca, donna Isabella, che morì due anni dopo. La sua attività politica aumentò considerabilmente per via della sua ambizione. Cercò l’alleanza con Jaime II de Aragon. Nel 1303 chiese la mano di sua figlia Costanza e si sposò con lei nel 1311. Arrivò a dichiarare guerra a Alfonso XI perché il monarca non si sposò con sua figlia Costanza anche se dopo fece pace con il re, affiancandosi nella battaglia del Salado, e recuperò l’incarico. Infine, morì nel 1348. Nelle sue opere si mostrò sempre contrario alla guerra, con manifestazioni di orgoglio nobiliare, però spese la maggior parte della sua esistenza in conflitti bellici per “onore”. Tuttavia, mostra la sua preoccupazione per lo stato dell’anima anche se nella sua vita si lasciava guidare dalla lussuria e dall’ambizione terrena. Dunque, il senso della vita non appare più legato ad una precisa tavola di doveri e diritti ma l’individuo è invece abituato ad una coscienza più duttile e problematica di realtà assai complesse e precarie. Fu il primo autore che mostrò un impegno nella conservazione della sua opera, correggendola scrupolosamente temendo gli errori dei copisti e temendo la variabilità delle revisioni: le sue opere diventano dunque una forma definitiva ed intangibile in cui lo scrittore sa di aver chiuso la sigla della sua personalità. Non ricorre alla autorità dei classici per rafforzare le sue affermazioni poiché considera sufficiente i suoi propri scritti, vedendo la figura della scrittore come “individuo racional y autonomo”. Ma notiamo delle influenze orientali, rinunciando tuttavia alla fantasia traboccante e alla sensualità della letteratura araba, sostituendole con delle aeree di realismo, concisione e sobrietà. Mostra anche delle influenze occidentali, riuscendo sempre a giungere ad una rielaborazione assolutamente originale. Infatti, l’indagine percorre anche situazioni lontane dall’autore che favoriscono l’indagine psicologica e morale. L’io è dunque insieme personale e generico. Inoltre, la figurazione è vivissima e unisce uno schietto sapore del reale alla ferma durezza del giudizio, perseguendo fino al fondo delle coscienze il comportamento e le azioni degli uomini. Inoltre, dall’opera si evince anche il rapporto che l’autore ha con la religione: un rapporto intimo e travagliato con la divinità. Poi abbiamo “Cronicas”, ossia la descrizione degli eventi storici, da Pedro I a Enrique III. Possiamo dire che le Crónicas sono complementari al Rimado: il primo chiarisce la psicologia dei protagonisti delle cronache e il secondo fornisce un quadro storico al Rimado. Ma la meditazione delle Crónicas è assente perché sostituita dalla trattazione di fatti oggettivi. Il programma storiografico di quest’opera è molto generico, l’intento era di conservare memoria dei fatti affinché i posteri potessero essere educati a seguire il bene piuttosto che il male. Il racconto risulta essere privo di adulazione nei confronti di una determinata forza politica poiché, come ammette lo stesso Ayala, egli è cronista perché volle farlo senza ottenere alcun salario da ciò. La storia di Pedro il Crudele pare il capolavoro di Ayala proprio perché gli offre il destro di fondere nella sua pagina, stilisticamente così matura, la sicura padronanza del reale e il senso tragico ed esemplare della storia. IL QUATTROCENTO: L’ETÀ DI JUAN II E DI ENRIQUE IV Durante il Trecento la produzione letteraria castigliana era stata il risultato di una sintesi assai fruttuosa di materie e di spiriti occidentali ma ora le cose cambiano, anche se la cultura ebraica continua a permeare all’interno della cultura spagnola con intensità ed effetti rilevanti grazie all’operazione da parte dei “conversos”. Ora subisce anche gli elementi della tradizione umanistica italiana che tuttavia si limitavano ad uno studio contenutistico e non filologico. Ricordiamo Juan Fernando de Heredia, Enrico di Aragona- figura che volse lo sguardo alla cultura letteraria italiana introducendo i testi della Divina Commedia e dell’Eneide- Alfonso de Cartagena e Alfonso Martinez de Toledo. Il regno di Juan II di Castiglia (1406-1454) è un periodo cruciale per la storia politica ed anche culturale della Spagna. Quando Enrique III morì Juan aveva meno di due anni e il periodo di reggenza della regina madre e del futuro re Fernando I de Aragón fu un periodo di stabilità politica. Solo nel 1419 Juan fu dichiarato maggiorenne. Gli influssi provenienti dalla Catalogna, dalla Francia e dall’Italia favoriscono la nascita di una letteratura più complessa anche se pur sempre ancorata ai propri caratteri specifici. I poeti dei primi decenni del 400 sono gli esempi più tipici di questa situazione. Il loro numero è sempre più consistente e la loro provenienza è varia: corte, nobiltà, clero. Anche il pubblico si presenta diversamente, più composito e spesso dotato di una cultura magari approssimativa ma di origine scolastica. I temi di questa produzione sono in gran parte nuovi e diventano frequenti le poesie d’occasione, una cronaca poetica dei momenti cruciali della storia castigliana del tempo. Questi poeti di levatura assai modesta ambiscono ad elaborare una tematica greve e severa. Diventano di moda i “decires”, che ostentano tematiche impegnate perlopiù religiose, la morte il libero arbitrio, collocazione dell’Empireo. Spesso queste poesie rappresentavano dei dialoghi tra più autori in cui un’opera rappresentava una risposta ad un’altra. Gli autori vollero sostituire alla tematica erotico-amorosa dei temi che prevedevano un preciso impegno culturale, questo era un ideale medievale che presupponeva che il poeta fosse esperto di tutte le scienze, un auctor e un maestro. Nei decires vengono preferiti schemi metrici di arte mayor. La Spagna, dunque, assiste ad un’evoluzione letteraria sorprendente sotto i regni di Juan II ed Enrique IV grazie all’incontro con la letteratura italiana umanistica e in particolare guardando all’opera di Petrarca. IL MARCHESE DI SANTILLANA Nella seconda parte del regno di Juan II- epoca di lotte nobiliari e di tentativi di accentramento del potere da parte dal favorite reale, Alvaro De Luna- abbiamo la figura dominante di Inigo Lopez de Mendoza che si distinse anche per le sue imprese onorevoli a fianco del re: combatté vittoriosamente contro i mori, prendendo Huelma, e fu con Juan II nella decisiva battaglia di Olmedo (1445). Fu una figura importante per i suoi contemporanei perché difese la compatibilità delle armi e lettere, apparendo come l’incarnazione di tale ideale. Egli conosceva poco il latino, per nulla il greco, ma questo non limitò la sua opera perché a lui si devono le versioni dell’Illiade, dell’Eneide e delle Metarmofosi ovidiane. La produzione letteraria di Santillana, assai vasta e multiforme, è già rilevante in quanto mostra il confluire di tutte le tradizioni culturali più vive del tempo ed il tentativo di sintesi nel segno di una calcolata eleganza, definendo la poesia come “fusione fantastica di bellezza ed utilità intellettuale, nobilissima fra le scienze”. Tra le opere ricordiamo: • Infierno de los enamorados: l’opera ha un impianto che richiama l’inferno dantesco ma lo spunto viene anche dalla letteratura francese. Lo schema è sempre quello della visione, tramite il quale l’autore pone il suo interesse per il destino terreno dell’uomo, per le forze che lo determinano e lo limitano. • Sonetos fechos all’Italico modo: maggior interesse offrono questi sonetti nel tentativo di acclimatare in Castiglia la forma tipicamente italiana di Petrarca, sia dal punto di vista formale che tematico. Nonostante la difficoltà nel condensare il proprio pensiero in una forma come il sonetto che era a lui poco congeniale, riesce a produrre dei risultati gradevoli e a praticare un esercizio poetico per opere più adatte alle sue capacità. • Serranillas: sono molto diverse dai componimenti di Juan Ruiz, e sono immerse in un'atmosfera idillica e serena in cui si narra dell'incontro del poeta con delle fanciulle di cui è innamorato. In alcuni casi viene la sconfitta del pretendente, narrata con una leggera e delicata ironia, quando però riesce la conquista i fatti vengono narrati con elegantissima discrezione. • Comedieta de Ponza: prende spunto dalla sconfitta navale di Alfonso V di Aragona a Ponza contro i genovesi che costò la prigionia al re e ai suoi fratelli Juan ed Enrique. Le mogli dei prigionieri lamentano la triste sorte dei coniugi, appare loro la personificazione della Fortuna che si giustifica e predice i successi futuri degli Aragonesi. Il poema, composto in ottave di arte mayor, riprende il titolo dantesco che richiama lo sviluppo tematico che va da una situazione negativa per concludersi con un lieto fine. Santillana canta con partecipe commozione la battaglia, vista come un atto estremamente eroico e sfortunato. Si passa poi ad una meditazione sul destino umano che è condannato a subire perpetuamente l'influsso della fortuna e della morte. • Bías contra fortuna: la fonte principale di quest'opera è il De costantia sapientis di Seneca. È un dialogo in 180 ottave, quindi si tratta di strofe di arte menor, che Santillana diresse a mo' di consolazione al cugino, il conte Alba che fu imprigionato. Bías è uno dei sette saggi di Grecia, era una figura esemplare che univa insieme l'esperienza delle armi e della cultura. Quest'uomo è eticamente corretto e dunque superiore alla Fortuna, che in quest'opera è concepita come caso arbitrario e nemico. Nonostante ciò, la Fortuna non può nulla contro chi è dotato di una forte virtù e libero da terreni legami. All’uomo non resta che una aristocratica “fortaleza”, che è anche pazienza cristiana e fiducia in quel Dio che è ben al di sopra della Fortuna. Un tema così costante come quello della Fortuna può sembrare a prima vista puramente letterario o erudito, ma nel Quattrocento castigliano è invece schema interpretativo di realtà vissute a corte. JUAN DE MENA Stretto amico di Santillana, Mena nacque a Cordoba nel 1411 e condusse studi regolari fino ad essere introdotto alla corte di Juan II nel 1434 in cui ebbe le cariche di cronista e di segretario di lettere latine. Molti critici ravvisarono in lui la figura di intellettuale dimentico di ogni cura mondana dal “vulto palido, gastado del estudio”. Anche Mena fece le sue prove come lirico d’amore, i quali versi prendono le forme specifiche del ragionamento scolastico: i temi trattati restano quelli amorosi ed il livello stilistico è per lo più piano, tranne nei momenti di introspezione psicologica in cui si traduce in gioco verbale. In queste liriche è frequente il ricorso a motivi religiosi con valore del tutto profano per via del trasferimento in sede erotica di riferimenti sacri. Nei versi di Mena questa tendenza si lega all’emergere di un filone costante di pessimismo che esclude l’ipotesi della soddisfazione e vede nella morte l’unica alternativa. Ma l’esperienza lirica non può essere considerata la sede della formazione culturale di Mena poiché la prova della sua preparazione si ha dalle altre sue prose, che testimoniano la sua capacità di modellare lo stile secondo esigenze e livelli assai diversi sulla base di spunti antichi. Questo si dimostra nel commentario della “Coronación”, costruito sulla coordinazione di frasi brevi e sul rifacimento di alcuni racconti ovidiani in una piana narrazione di grande eleganza. Esso è un poemetto di 51 strofe decasillabiche composto per celebrare il successo di Santillana sui mori nella battaglia di Huelma (1438), rendendolo un “trattato de miseria y gloria” cioè della miseria dei cattivi e della gloria dei buoni, come spiega egli stesso nel preambolo, che porterà il poeta in cima al Parnaso dove assisterà alla coronazione del futuro marchese di Santillana, facendo risaltare la figura dell’amico. Inoltre, Mena tenta di fondere insieme la commedia e la satira, non abbandonando mai la tradizione medievale eppure tentando il recupero dell’antico. La riflessione riguardo la mutevolezza delle umane vicende induce il poeta ad un’invettiva contro la Fortuna, cui fa seguito il suo rapimento fuori del mondo terreno. Una bellissima fanciulla, Provvidenza, lo conduce dentro il palazzo di Fortuna. Il poeta osserva prima di tutto l’orba terrestre di cui ci dà una minuta descrizione, accorgendosi dell'esistenza delle tre grandi ruote del passato e del futuro (immobili) mentre quella del presente è in costante movimento. Ogni ruota contiene sette cerchi concentrici che corrispondono ai sette pianeti e che determinano negli uomini vizi e virtù. Sopraggiunge l'alba e il poeta chiede a Provvidenza quale sarà il destino del re Juan II, di qui il poeta prende lo spunto per parlare delle glorie della corona spagnola dalle origini all'età contemporanea. Viene fatta una profezia che presenta il re come colui che avrà una fama maggiore rispetto ai suoi predecessori. Il poeta conclude con l'esortazione al re affinché renda avere tali profezie. Considera in ultima analisi la Fortuna come usurpatrice di un ruolo che spetta alla Provvidenza e che recupera le connotazioni di cieca e tragica. Il tema morale viene da una prospettiva esclusivamente nobiliare perché la misura etica dell’uomo non è il suo destino immortale ma la consacrazione della fama cui può ambire solo il nobile: i valori che Mena celebra sono dunque la castità, l’amore virtuoso, l’equilibrio, la prudenza e la capacità di governare. Si colloca l’opera più alta di questi anni, la Celestina, che certo eredita molto dalla cultura medievale ma di vitalità tipicamente rinascimentale. Né si possono considerare medievali la tradizione del romanzo sentimentale e dei libri di cavalleria. Tra il Trecento e il Quattrocento gli intellettuali spagnoli mostrano una concezione della cavalleria sostanzialmente aliena dai valori cortesi e preferiscono il didatticismo al meraviglioso e al fantastico. Autori come Ayala ne riconoscono la vanità e perciò esigono la condanna del romanzo cavalleresco alla vita sotterranea dello stato latente. Solo quando il mutare dell’etica signorile e dei valori letterari scava un solco profondo tra la società cortigiana e l’originaria idea di cavalleria, il genere può rifiorire in versione ammodernate secondo le nuove esigenze. STORIOGRAFIA DEL REGNO DEI RE CATTOLICI Il settore culturale che sembra continuare più di altri l’indirizzo dell’epoca precedente è la prosa storica e didattica. Se nel periodo precedente, la corte reale era stata un punto di riferimento importante per gli scrittori ma in un rapporto assai vario di partecipazione, simpatia ed antagonismo, mentre ora è il centro reale e pressoché unico della vita culturale. E mentre viene meno il contributo della nobiltà, si delinea una crescente importanza degli ambienti accademici. Figura importante è Diego de Valera che fin dall’infanzia visse a corte e scrisse numerose opere storiche dedicate a signori come al re Alfonso V di Portogallo, al marchese di Villena e molti altri. Nella sua figura, si riflette più un’apertissima attività cortigiana che cerca di darsi una funzione specifica attraverso la selezione dei temi ed il loro svolgimento. Egli sembra la figura più completa di uomo di corte discretamente colto, abile cavaliere, scrittore efficace ma privo di incidenza politica e culturale. Questo perché il nuovo regno è sentito come una svolta nel vita castigliana, sicché non sorprende che lo scrittore si schieri dalla parte del potere centrale e non dell’oligarchia nobiliare: non è un caso che nel “Doctrinal de Principes”, rivolto a Fernardo re di Castiglia, Leon e Sicilia si faccia riferimento al sovrano come colui che avrà la sovranità su tutte le Spagne. Dal momento della coronazione di Isabel, tutta la produzione di Valera si indirizza alla coppia reale, riprendendo la sua problematica moralistico- cavalleresca: insomma, il letterato riesce a trasformarsi in consigliere politico, sia pure rinunciando a quel generico moralismo che del letterato era apparso il tratto più qualificante. Questa capacità è evidente anche in Fernardo del Pulgar, la cui carriera è in certo modo parallela a quella di Valera. La sua attività deve essere stata meno cavalleresca e più politica di quella di Valera ed il suo rapporto con i sovrani più immediato, in quanto l’arco della sua attività è limitato agli anni dei Re Cattolici. La sua fama è legata ai “Claros Varones de Castilla”: l’autore dichiara la sua volontà di consegnare alla memoria dei posteri le imprese dei suoi conterranei in cui le vicende dei nobili sono narrate con un fine didattico e morale grazie al carattere esemplare della storia come paradigma di comportamenti e soprattutto di virtù. In quest’opera, la vita dell’uomo appare condizionata dalla permanente dialettica fra le sue doti ed il libero uso che egli ne fa, da una parte, ed il condizionamento dei disegni provvidenziali. Su questi temi, Pulgar guida i lettori nel giudizio con l’inserimento di digressioni morali e col commento che trasferisce il caso singolo su una prospettiva più generale ed universale. È anche ideatore della migliore opera storiografica, ossia “La Cronica de los Reyes Catolicos”. LA LIRICA TRADIZIONALE Il canto lirico tradizionale torna ad attirare l’interesse di chi ama la poesia perché offre spunti e temi nuovi, resi più attraenti proprio dalla schiettezza e semplicità, da cui i letterati sono lontani e che perciò sentono come modalità difficile e preziosa. Il gusto del popolare segue di qualche decennio il consolidarsi in Castiglia della tradizione lirica cortese e si afferma decisamente soltanto sotto i Re Cattolici, quando ormai la casistica e l’elaborazione formale consuete cominciavano a stancare. Non si può fare a meno di pensare alla verosimiglianza fra la lirica tradizionale castigliana e quella galego-portoghese che portarono Menéndez Pidal alla considerazione dell’esistenza di un’antica tradizione lirica comune ed indigena alla penisola. Pare evidente, inoltre, che le prime liriche consegnate alla stampa del primo Cinquecento avevano una forte vitalità orale e facciamo riferimento essenzialmente a tre liriche, sottoforma di “villancicos”: Il lamento per la morte di Guillén Peraza, il “Tres morillas me enamoraron” e il “No puedo apartarme”. IL “ROMANCERO” Affiora il genere del “romancero”. I romances saranno famosi sotto il regno di Enrique IV che li canterà lui stesso fino alla meta del 600 per poi scomparire ma continuavano ad essere trasmessi oralmente. Nei secoli XIII e XIV, la parola romance indicava una “composizione narrativa in versi” sia didattica che epica ma nel Quattrocento il termine si specializza per un genere particolare. Il romancero è però verosimilmente più antico dei testi che ci sono pervenuti: resta da stabilire di quanto, e quali, siano le origini. I romantici, che vedevano nella poesia popolare l’espressione spontanea della collettività ritennero antichissima l’origine dei romances di cui l’epica sarebbe stata un posteriore sviluppo. Nel nostro secolo, il Menéndez Pidal ha chiarito con esso è popolare non per la sua origine che fa capo sempre ad un individuo ma per il suo vivere nella tradizione orale che incessantemente lo modifica. Distinzione importante è quella tra romances storici ed epici. I primi sono legati alla dato dell’avvenimento che cantano e dunque contemporanei ai fatti: possono avere una funzione propagandistica per diffondere un determinato pensiero e quindi rimangono nella memoria popolare per la tragicità delle vicende. Si fanno numerosi quando riprende la guerra contro Granada- definiti “fronterizos”- molti dei quali paiono essere di origine giullaresca. I romances epici, invece, si pensa che fossero parti di altri poemi recitati dal pubblico ed esposti dai giullari come il "Cantar de Rodrigo". Dunque, non si sa con certezza dove e quando nasce il romance, sappiamo che si diffondono in uno stato sociale basso e veniva conosciuto anche a corte ma che veniva considerato privo di validità letteraria. I romances sono presentati in maniera frammentata data la loro diffusione orale. La storia di un tema di romance è segnata dall’alterno succedersi, senza regola, di interventi radicali, che creano e poi spostano l’orientamento lirico del testo, degli interventi marginali della tradizione orale. Non è inoltre possibile chiudere in una formula unica la genesi prima di tutti i romance: la storia del romancero è anche la storia di un singolo testo nell’ambito di un gusto e di una tradizione comuni. L’identificazione del romance non si fonda quindi sulla sua origine ma insieme è tematica e stilistica. Spesso si ricorre a formule, parallelismi, ripetizioni, serie anaforiche e contrapposizioni. In queste forme semplici ed efficaci si celebrano momenti decisivi di destini individuali. Ad ogni modo, il poeta nei testi non interviene mai in prima persona e la narrazione è sempre concretissima poiché subordinata al discorso diretto. Dunque, il romance chiude in sé una coscienza della vita forse poco ragionata eppure ricca di singolare modernità per la sua individualità ed il suo drammatismo. LA NARRATIVA: STILIZZAZIONE E TRAMONTO DELLA CIVILTÀ CORTESE In questi anni la cultura europea riceve un nuovo impulso dalla diffusione della stampa. Di conseguenza, il senso della custodia e della trasmissione del sapere perde significato, mentre nasce una concezione diversa dell’attività intellettuale. La parola scritta muta profondamente il rapporto tra l’autore e il destinatario: alimenta la richiesta di opere da parte del pubblico e getta le basi dell’economia libraria moderna, fondando un concetto più complesso di letteratura come possibilità perché estende, sia a livello pedagogico che di intrattenimento, la sfera di influenza del prodotto letterario su cerchie sempre più numerose di lettori. Proprio grazie alla diffusione della stampa, si diffondono quelli che sono i primi modelli romanzeschi e due in particolare calcano le scene culturali: il romanzo sentimentale e i libri di cavalleria. Nel primo caso è la Cárcel de amor di Diego de San Pedro, che diverrà un modello di passione infelice e di disputa amatoria per dame e cavalieri della società cinquecentesca; nel secondo, l’Amadís de Gaula, che presenta un emblema di eroe inverosimile, capace di soddisfare qualsiasi esorbitante smania di avventura al livello della fantasia. Scritti alla fine del 400, verranno ristampati e tradotti in tutta Europa fino al Seicento, mentre resteranno nell’ombra i romances, i canzonieri e le opere didattiche isabelline. La loro fortuna sta proprio nei loro contenuti, che rilanciano codici e miti di una civiltà cortese che s’avvia al tramonto. Tuttavia, il rimpianto della “cortesia” è controbilanciato da una letteratura realistica perlopiù in forma drammatica che tende a sconsacrare usi e linguaggio cortese, proponendo degli eroi degradati dall’uguale popolarità. La creazione di questi personaggi fantastici e dei loro miserabili e vigorosi antagonisti è uno dei granfi temi della cultura dei Re Cattolici. IL ROMANZO SENTIMENTALE La narrativa sentimentale e cortese sembra interessare un lungo arco temporale: dalle origini bretoni e in parte italiane del tardo Trecento, fino agli epigoni pastorali del XVII secolo; tuttavia, il momento cruciale in Spagna riguarda pochi decenni. Gli esemplari più autentici vanno dall’inizio del regno dei Re Cattolici ai primi del Cinquecento. Osservando questi testi, si nota subito l’estrazione “cortese” di queste “novelas” e quella cortigiana in senso professionale e sociale degli autori. Diego de San Pedro, pur venendo da una famiglia di ebrei convertiti, mantiene sempre un posto ufficiale nella cerchia della grande nobiltà vicina ai monarchi e diviene poeta cortigiano alla moda, autore di canzonieri e prosatore: rappresenta lo scrittore professionista che dimostra nelle scelte pratiche e culturali, la maggiore stabilità che si va instaurando fra attività letteraria e corte. I loro romanzi raggiungono nell’arco di pochi anni unità e compattezza di genere letterario. La tradizione è varia e polimorfa poiché il mondo cortese è caratterizzato dall’unione col mondo fantasioso della letteratura arturiana, dall’allegorismo francese tardo-medievale e il gusto della peripezia amorosa che presenta una struttura composta. Nella prima serie di ostacoli, l’autore riesce a stento a rendere credibile la finzione che si sia un’alternativa di disfatta e l’immediatezza del recupero è disciplinata. Nell’altra serie di ostacoli, i conflitti e le conseguenti fatiche si incrociano e si susseguono per interi libri creando nel lettore meccanismi di attesa e identificazione. Questo lo lega al tema della verità apparente. Il mondo del cavaliere è un mondo di situazioni precarie anche nel senso dell’identità dei volti e degli oggetti: è un teatro popolato da fantasmi che dispongono di un’esistenza illusoria. L’eroe stesso si presenta come una certezza ambigua, come un perno misteriosamente unitario e cangiante. Nell’Amadis troviamo un narratore onnisciente che ha nel pubblico il suo diretto interlocutore. È l’autore che arbitra gli scontri incerti, che riassume il già narrato, che offre delucidazioni e rassicurazioni. Non sta dentro al racconto in qualità di finto personaggio come nel romanzo sentimentale, ma ha l’autorità mediatrice del distacco con cui guarda l’opera: egli crea una finzione di oggettività su una materia volutamente fantastica. Si gettano così alcune premesse di quella che sarà la “commedia degli inganni” nel teatro barocco e nel futuro romanzo di cappa e spada, del moderno romanzo di avventure a puntate. La tecnica consiste nel disegnare un evento in ogni suo particolare senza svelarne subito il senso, di mettere in azione personaggi dalla falsa identità che compiono gesta misteriose, così da avere sempre una parte di verità nascosta. Alla fine, però, i grovigli saranno risolti e i personaggi riavranno il loro nome perduto. Nasce il cosiddetto lirismo narrativo dell’Amadis. Importante è la classica polarizzazione tra Bene- unito col Bello e che disegna un amore idealizzato- e Male, opposto della bellezza e disordine spaventosa del peccato. Da un lato quindi il lirismo dell’Amadis ha il valore di un ritorno all’irrazionale della favola e all’incontro primordiale con il mito; dall’altro mette in evidenza proprio i limiti di questa secolare attrazione. Si tratta di una favola tarda, incline alla stilizzazione, lascia trasparire i segni di una cultura ordinatrice, orientata verso un concetto più umanistico e platonico del bene e del male. In sintesi, si parte dalla favola e si arriva a codici moralisti di comportamento reali. L’Amadis finisce per essere il romanzo delle tentazioni proibite. Egli non è insensibile ai conflitti amorosi della materia bretone, ma li lascia allo stato latente, nascosti dietro l’artificio dell’edificazione morale o di un leggiadro intrattenimento. Il risultato è di un’ambiguità sconcertante: il romanzo è percorso da una sensualità trattenuta quasi più provocatoria perché nascosta. Possono favorire stati passionali e reazioni che abbassano di tono la ferrea logica del servizio d’amore. Ad esempio, il tema dell’altra donna (verso la quale Oriana è gelosa) diventa un espediente romanzesco che interferisce a lungo sull’unione dei due protagonisti: un ramo di litigi e di schermaglie amorose più vicino ad una moderna triangolazione borghese che a un conflitto di eroi e eroine da favola. Facendo ciò l’autore cerca di avvicinare gli eroi al loro pubblico creando delle rapide identificazioni, salvo a ricomporre più tardi l’autorità e le distanze del mito. Tutta la storia di Amadis è una storia di perfezione morale continuamente minacciata e ristabilita, di un istituto etico soggetto al turbamento di forze devianti e ricondotto all’armonia primitiva. Tutto ciò è il riflesso di una situazione culturale in movimento. Con l’Amadis, la cavalleria codifica i suoi simboli, esplicita la sua morale. Nel momento in cui cessa l’attualità sociale del servizio cortese, comincia la sua vita libresca come modello. Con queste prerogative il genere cavalleresco si afferma nel nuovo secolo con numerose edizioni e in più lingue, raggiungendo anche la Francia, Italia e l’Inghilterra. Per lunghi decenni, l’Amadis rimane un esemplare unico ed ineguagliato. La ragione prima di questa fortuna è in germe nello stesso Armadis, che si presenta nel miraggio del “romanzo senza fine” e dunque costantemente rinnovabile e riproducibile. Il caso più noto è quello del “Palmerin de Olivia (1511)” di una scrittrice sconosciuta. È una lunga fioritura che non si può spiegare solo con le attrattive di una felice formula romanzesca: sono gli anni del primato spagnolo in Europa, della grande crisi eterodossa e dei rapidi mutamenti del gusto delle arti e nei modi di vita. E’ evidente che il loro messaggio riesce a soddisfare esigenze più profonde di un semplice bisogno di godimento o di evasione. Non dimentichiamo che l’Amadis è segnato da una fitta possibilità di identificazione e associazione. C’è chi legge nei libri di cavalleria un’affascinante occasione di rischio, una sorta di vendetta dell’irrazionale sulla misura. Questo perché il romanzo cavalleresco incontra il favore dei lettori perché riaccende la speranza nella possibilità dell’impresa perfetta che il regno di Carlo V istituzionalizza, riducendo l’ambito delle singole conquiste. Il meccanismo dell’avventura incoraggia inoltre, a livello psicologico, gli aspetti anti- pragmatici. Nell’Amadis la difficoltà non nasce solo dal caso, ma contiene una morale e genera in sé un codice di comportamento. Amadis sa che è l’ostacolo a consacrarlo cavaliere e quindi cerca l’avventura. Comincia ad affermarsi l’idea che la dimostrazione del coraggio dà fama indipendentemente dall’importanza degli altri valori in gioco, lasciando spazio all’ideale della honra che interesserà non solo un élite ma, nella seconda metà del secolo, anche la piccola nobiltà, che si prepara a vestire i panni dello scudiero del Lazarillo e del gentiluomo della Mancha. LA CELESTINA (1499) Indiscusso capolavoro della letteratura spagnola e prima opera a travalicare i confini nazionali per imporsi come bestseller europeo, “La Celestina” è un’opera carica di profonde questioni problematiche che superano di gran lunga le certezze, a partire dall’autore. È un’opera teatrale ma non è allestibile poiché fatica a trovare adattamento. Celestina, picaresca e Don Quijote, in una linea che non ammette continuità, metteranno a nudo la mistificazione della narrativa idealista segnando la strada del romanzo moderno. Premessa storica La Celestina viene realizzata per la prima volta nel 1449, quando in Spagna ci sono i re cattolici, ossia il regno di Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona. Isabella era la sorella del re Enrico IV, che passa alla storia come l’impotente: a lui non sarebbe dovuta succedere la sorella, ma sua figlia, Juana La Beltraneja, chiamata così perché reputata figlia illegittima del regina con un altro uomo. Dall’unione della corona di Isabella e Ferdinando ci troviamo di fronte ad una nazione unitaria.
 La politica dei re cattolici sarà fortemente accentratrice, e il titolo dei re cattolici fu dato loro da Papa Alessandro VI a causa della loro politica che si avvaleva anche dell’ideologia religiosa: con la volontà di unificare i regni, i diversi piccoli stati cominciano a farsi guerra tra di loro e la nobiltà comincia a essere intollerante. I re cattolici concentreranno le energie nazionali con l’obiettivo di annettere al territorio nazionale l’unica porzione di territorio di cui era priva, Granada, annettendola nel 1492 e allo stesso tempo effettuando:
 la cacciata degli ebrei dal regno, l’espansione territoriale e il finanziamento per la scoperta dell’America da parte di Colombo, iniziando così l’epoca della colonizzazione dell’America spagnola e centrale.
 La colonizzazione venne intesa come una crociata (non aveva solo scopi economici) a scopo proselito, ossia di evangelizzazione della religione cattolica del Nuovo Mondo.
Il regno dei re cattolici va dal 1469 al 1516, anno in cui, morto Ferdinando d’Aragona gli succederà il figlio Carlo I di Spagna, Carlo V d’Europa. Sin dal titolo, è possibile arguire la complessità della storia editoriale di un’opera che negli anni è stata sottoposta a cambiamenti e rielaborazioni profonde, di cui la più virtuosa comporta il passaggio da una prima versione in 16 atti- la “Comedia de Calisto y Melibea””- ad una seconda in 21 atti, ossia la “Tragicomedia de Calisto y Melibea”. La prima edizione venne pubblicata a Burgos dallo stampatore Fadrique di Basilea nel 1499 e si presenta adespota e senza i testi preliminari e finali. L’opera si apre direttamente con l’argomento del primo atto, preceduto da una stampa che raffigura l’incontro tra Calisto e Melibea nel giardino della casa di suo padre, Pleberio. Abbiamo una seconda edizione di Toledo nell’anno successivo ed una terza edizione di Sevilla nel 1501, tutte con lo stesso titolo. Quest’ultime presentano rilevanti addizioni nei documenti iniziali e finali, ossia una lettera de “el autor a su amigo” e dodici ottave acrostiche- scritte da Alonso de Proaza, editore dell’opera- per un orientamento sulla paternità dell’opera. Leggendo in verticale le iniziali dei versi delle ottave si ricava il nome, la professione e il luogo di nascita nella seguente frase: “El bachiller Fernando de Rojas acabò la comedia de Calisto y Melibea y fue nascido en la puebla de Montalban” C’è tuttavia poca certezza sia sulla sua biografia sia su quanta parte dell’opera possiamo attribuire a tale figura, tanto che si presume fosse un’opera composta a più mani. Fino al XIX secolo, la figura dell’autore era stata messa fortemente in discussione ma poi circolarono documenti riguardo la sua esistenza e fu possibile ricostruirne un profilo biografico, anche grazie al contributo di studiosi come Stephen Gilman. De Rojas nacque intorno al 1476, all’interno di una famiglia di “cristianos nuevos”. Era un ebreo converso, giurista che svolse il ruolo di avvocato difensore del suocero, che si imbatté nel primo atto e concluse l’opera aggiungendovi quindici atti in quindici giorni- probabilmente durante la Settimana Santa. In una Spagna nella quale il crescente antisemitismo aveva portato alla conversione degli ebrei, all’espulsione dei non convertiti e all’istituzione nel 1478 del Tribunale dell’Inquisizione per combattere le eresie, alcuni dei Rojas compaiono negli atti dei processi inquisitoriali perché sospettati di cripto-giudaismo e quindi di aver aderito apparentemente al cattolicesimo ma di mantenere le pratiche ebraiche. Il giovane Fernando de Rojas risiedette a Salamanca tra il 1493 e il 1494, sposò Leonor Alvarez de Montalban nel 1512 e morì a Talavera de la Reina nel 1541. Abbiamo poi un’ulteriore redazione intitolata “Tragicomedia de Calisto y Melibea” che appare intorno al 1506 e contribuì ad arricchire la materia della discussione, accresciuta di ulteriori cinque atti. Qui l’autore di un secondo prologo, che si confessava essere lo stesso della carta iniziale dava conto al lettore dei motivi che lo avevano indotto a prolungare la storia e a cambiare il titolo: esso scaturiva dalla necessità di conciliare posizioni avverse del primo autore, che aveva voluto rimarcare nel titolo l’inizio lieto della storia dei due amanti, e di chi, invece aveva osservato che dato il finale luttuoso fosse più opportuno denominarla tragedia. Anche sul tema della stregoneria si era discusso: la magia, considerata fin dai primi del 400 come una superstizione, andò sempre più acquisendo un significato d’eresia, specialmente quella satanica, anche per via dell’Inquisizione spagnola. Al cuore del problema c’è il conjuro a Platon tramite il quale la megera evoca il dio degli Inferi per generare un philocaptio, una magia che serviva ad impossessarsi della volontà altrui, in questo caso quella di Melibea. Nel decimo atto, troviamo una Melibea innamorata ed appassionata che ci accompagnerà per il resto dell’opera che porterà Celestina a formare il primo incontro tra i due protagonisti. Da questo momento, non c’è più speranza per nessuno perché muoiono tutti. Quindi, legge soprannaturale e naturale si sovrappongono per caratterizzare il personaggio e il mondo dell’astuta megera ma destinati entrambi agli esiti finali che conosciamo: questo non tanto per il concorso delle pratiche magiche ma piuttosto per il “labirinto degli errori” di cui ogni personaggio è artefice e, allo stesso tempo, vittima. Dal momento in cui Calisto ottiene l’incantesimo di Celestina, tutti i personaggi sono mossi esclusivamente da un piacere carnale e dalla brama di denaro, dunque subiscono una doppia corruzione morale, sui quali calerà una morte improvvisa ed inesorabile. A proposito della morte, si è notata l’insistenza del tema della caduta: Calisto scivola dalle scale, i due servi tentano di gettarsi dalla finestra prima di essere catturati e Melibea si suicida gettandosi dalla terrazza. Una caduta che arriva come una punizione per aver osato e voluto troppo, simbolizzato dalle parole del primo corrotto, ossia Parmeno: “quien torpemente sube a lo alto mas ayna cae que subiò”. Questo ci riporta all’immagine medievale che rappresenta la vita dell’uomo governata dalla Dea Fortuna bendata che gira una ruota in maniera casuale, senza prestare attenzione alle preoccupazioni degli uomini. LA CELESTINA: RIASSUNTO El autor a su amigo: L’opera, come sappiamo, inizia con un’introduzione da parte dell’autore misterioso che spiega i motivi che lo spinsero a continuare l’opera in cui si imbatté e a celare la propria identità. Quest’opera celava in sé le armi necessarie per i giovani per resistere ai fuochi dannosi dell’amore, incontrollati: più forti delle armi forgiate a Milano, esse colpirono profondamente l’autore con la loro originalità linguistica che lo portarono a leggere il libro più volte ed eventualmente continuarlo. Esse servivano anche come dispense di concetti filosofici fondamentali nonché di atteggiamenti per mettersi in guardia dai loschi servi e dalle mezzane cospiratrici, trovando sempre “nuove sentenze” da declamare. Vedendo che non vi era firma dell’antico autore, sceglie di continuare sulla via dell’anonimato per via delle malelingue. Essendo lui uomo di legge e quest’opera ciò di più distante dalle sue arti, che tanto amava, questo avrebbe leso la sua autorità. Ci rivela inoltre che ha impiegato solo 15 giorni nel concludere quest’opera per poi terminare specificando il punto in cui iniziano i suoi versi. Prologo: Si tratta di un breve testo in cui l’autore riflette sulla natura umana. Tutte le cose viventi del mondo- e quindi anche gli esseri umani-vivono in un continuo stato di contesa, dunque di battaglia che genera discussione. Utilizza esempi diretti dai cambi climatici, delle stagioni e delle contese tra animali per rappresentare in maniera diretta la dinamica caotica e perenne del mondo. Questo spiega le guerra, l’invidia e la competizione e per questo ammette che non si sconvolgerà se l’opera causerà polemica tra i lettori: soltanto Dio potrà giudicarne la natura definitiva. Per finire, commenta riguardo la decisione di definirla una “tragicomedia” per via del suo inizio felice ma fine tragico. El autor escusandose de su yerro en esta obra que escribió contra si arguye y compara: L’autore inizia paragonandosi ad una formica troppo indulgente che, per via delle ali della perdizione, si è inoltrata in venti troppo pericolosi per poi venire mangiata. Così lui, essendosi imbarcato nella scrittura di questi versi è stato poi assalito dalle “calunnie” e riconosce nella sua non latenza il suo più grande errore. Ci introduce poi nel suo “limpio motivo” dunque lo scopo di quest’opera. Ritorna la tecnica dell’utile dulci, dunque dell’includere una tematica didattica moraleggiante attraverso una “pillola amara” che non renda il testo eccessivamente pesante. La storia tragicomica di questi amanti inviterà chiunque soffra delle pene d’amore a diffidare dai servi e dagli inganni delle mezzane e dedicarsi esclusivamente a Dio, rinnegando qualsiasi tentazione mondana. Il suo messaggio ha dunque l’intenzione di essere “un’armatura contro l’amore” per evitare che Cupido scagli il suo “tiro dorados”. Argumento: Ci presenta una breve sinossi della storia dei due amanti e del loro triste fatale epilogo. Al principio di quest’opera, la Fortuna presentò un luogo opportuno dove Melibea venne vista per la prima volta dal giovane Calisto. Auto I-VI: Si apre il componimento con Calisto che si ritrova nel giardino di Melibea, innamorandosene a prima vista e complimentandone la bellezza quasi divina (En tus ojos veo la grandeza de Dios), ricevendo una reazione scomposta da Malibea che- prendendosi gioco della figura del galardon cortese- ordina di andarsene per non essere la testimone dell’amore illecito originatosi dal cuore di Calisto. Dopodiché, Calisto torna a casa e confida il suo amore a Sempronio, trattandolo male, ma quest’ultimo gli suggerisce di rivolgersi all’alcahueta Celestina, una vecchia strega con la fama di risolvere problemi di cuore. Nel momento in cui i due tornano a casa, Parmenio confida la sua diffidenza nel farsi aiutare dalla maga, fornendone una descrizione piuttosto demoniaca che tuttavia non persuade Calisto dall’accettare il suo aiuto. Poi, Celestina confida a Parmeno che era amica di sua madre e che lo allevò da bambino, per convincerlo a schierarsi dalla sua parte e approfittarsi dell’amo innamorato e trarne un’alta somma di denaro. Interessante è notare che nell’opera i personaggi si mostrano in chiave parodica e tutti esibiscono la loro umanità, i loro sentimenti e riflessioni, i loro disagi e desideri. Sempronio continua ad adulare Calisto per convincerlo riguardo la collaborazione con Celestina, parlando di fortuna come elemento di prosperità per l’onore individuale, mentre Parmeno si dimostra ancora dubbioso verso l’alachueta, vedendo nella sua presenza qualcosa tremendamente infernale che non farà altro che condurre a numerosi inconvenienti tragici, fornendoci uno dei tanti elementi prolettici dell’opera (pag.135-136). Tuttavia, il padrone sembra follemente innamorato di Melibea che ogni parola di Parmeno sembra avere nessun effetto in quanto diffidente da questo inganno d’amore, che dunque si rassegna. Nell’auto successivo, Sempronio si dirige a casa di Celestina per pianificare l’inganno. In questo momento, Celestina compie il congiuro a Platone, signore dell’Inferno, riferendosi come “la sua più conosciuta clientela”, per fare in modo che la sua magia l’accompagni nella sua missione. Nell’auto IV, Celestina si dirige a casa di Melibea per parlarle ed iniziare a mettere in moto il suo incantesimo, anche se sembra nutrire dei dubbi riguardo la frettolosità dell’organizzazione del piano (altro elemento prolettico, pag. 150). Arrivata a casa della donna, Celestina comincia a descriverla nella maniera più eterea possibile richiamando i classici canoni della bellezza femminile dell’amor cortese, presentata dunque come una ragazza dai tratti perfetti, angelici e portatori di virtù e di compassione. Nomina poi Calisto, spiegandole che è in realtà malato e che l’unica cosa che potrebbe appagare la sua malattia è la sua misericordiosa preghiera e, dopo un’iniziale reazione impetuosa, Melibea dona alla maga il suo cordone nella speranza che curi Calisto. Celestina viene poi invitata la sera successiva per consegnarle la preghiera: assistiamo, dunque, ad un’iniziale corruzione morale della donna, testimoniata anche dai commenti “a parte” ironici della serva Lucrecia (“La padrone è bella che andata”). Tornata da Calisto, gli racconta minuziosamente ogni dettaglio del suo incontro e quest’ultimo diventa oramai impaziente, mostrando un atteggiamento piuttosto folle ed euforico. Tutti i presenti lo invitano a calmarsi, a risparmiare i lamenti amorosi e ragionare con lucidità prima di incontrare l’amata, anche Sempronio sembra preoccuparsi per l’eccessivo dinamismo del padrone (pag. 189). Dopodiché, Celestina torna a casa per continuare il suo lavoro. Auto VII-XII: Celestina continua a parlare con Parmeno nel tentativo di convincerlo a seguire le orme di Sempronio, tentando di corromperlo con i ricordi della sua defunta madre. Allora Parmeno gli ricorda una promessa: aiutarlo con Aruesa, con la quale poi passerà la notte. La mattina successiva, sulla strada di casa, si incontra con Sempronio con il quale si riappacifica ed organizza una cena con le loro amanti. In tutto questo, Calisto comincia sempre di più a perdere la testa in quanto parla da solo prima di andare a messa. Intanto, Celestina viene chiamata da Lucrecia in quanto convocata da Melibea, che le confessa il suo amore passionale e profondo per il giovane Calisto come se “hubiera sirpientes comiendole el corazon”. Chiama dunque Celestina per raccontarle la sua condizione malata come se l’amore stesso fosse una “malattia” che ha degli effetti dannosi sul corpo. La maga, con la sua grande abilità retorica, afferma che l’unico modo per placare questa sofferenza è la consumazione del suo amore con Calisto. Quando torna a casa, Celestina riceve una catenina d’oro da Calisto dopo aver saputo che Melibea si è finalmente innamorata. Molto importante è l’auto XII perchè Calisto e Melibea hanno il loro primo dialogo amoroso, nonostante siano separati dalla porta della casa della donna. In una scena dalle reminiscenze shakespeariane, i due si confessano il proprio amore ricordando i canoni dell’amore cortese: tornano i principi dell’amore come forma di schiavitù e sofferenza, ma che allo stesso tempo eleva l’amato sia socialmente che moralmente. Il loro amore è talmente forte che niente potrebbe mai spezzarlo (pag. 263, 264). Si sveglia poi il padre della ragazza che costringe Calisto ad andarsene per non essere scoperto, ma si promettono di incontrarsi la sera successiva. A casa, i due servi decidono di andare a riscattare la parte che gli spetta da Celestina. Arrivati, l’alcahueta finge di essersi scordata di tale accordo, ammettendo che le promesse da lei fatte non erano altro che “mera formalità” e “frasi fatte”. Per questo, Sempronio la uccide e i due servi sono costretti a fuggire per evitare di essere catturati. Auto XIII-XVI: Calisto, insieme a Tristan e Sosia, viene a conoscenza della morte di Celestina e dell’inganno a lui fatto, preoccupandosi adesso della sua reputazione. Nell’auto successivo, i due amanti si incontrano nuovamente per confessarsi il loro amore ma Melibea si mostra preoccupata per la sua verginità, in quanto Calisto sembra essere sempre più desideroso di profanare la sua virtù. Attraverso una serie di metafore che rimandano all’amore come un mare infuocato e all’incontro amoroso come il porto in cui l’amato trova l’appagamento del suo desiderio, Melibea prega che la sua volontà venga rispettata in segno della profondità del proprio amore e per fare in modo che la sua anima non diventa peccatrice. L’incontro risulta essere molto breve, cosa di cui si rammarica Calisto mentre torna a casa seguito dai due servi. Nell’auto XVI, Melibea sente i suoi genitori conversare sopra la possibilità di farla sposare in un matrimonio combinato e questo la sconsola profondamente. Nel mentre, ha inizio il piano di vendetta delle due prostitute- Aruesa e Elicia- schiave di Celestina: amareggiate per la sua morte, identificano in Calisto e Melibea i veri responsabili della sua morte e decidono di vendicarsi, chiedendo a Centurio- uomo innamorato di Aruesa- di aiutarle. Auto XVII-XXI: Le due prostitute invitano dunque Centurio ad uccidere i due amanti, ma lui non compie completamente la promessa ma cerca un piano alternativo per non intervenire direttamente ed evitare di assumersi le responsabilità. Nell’auto XIX, i due amanti si incontrano nuovamente ma mentre parlano vengono sorpresi da un gran fracasso che spinge Calisto ad andarsene, pensando si tratti dei genitori di Melibea, per evitare di essere scoperti. La nuova parlata ha anche un significato innovatore sotto il profilo sociale poiché introduce il diritto di parola dell’uomo del volgo: il poeta le riconosce implicitamente una forza e una ricchezza di comunicazione da valorizzare accanto a quella della lingua colta. Con la lingua, il pastore si conquista l’ingresso nell’intimità delle corte dei signori, superando l’imbarazzo della diversa condizione sociale e si fa audace e rivela un mondo sconosciuto. È dunque un teatro di grande attualità. L’estilo pastoril è però un’arma a doppio taglio: apre le porte della cultura ufficiale a un ricco patrimonio folcloristico, accorcia le distanze tra città e campagna ma non può fare a meno di creare nello stesso tempo una serie di condizionamenti precisi. Il personaggio che mette piede a corte è un tipo sociale già emendato da alcuni eccessi, autorizzato allo sfoggio dell’ironia solo a patto di certe rinunce; sullo sfondo permane pertanto un saldo conformismo di classe: varcare quella soglia è già in sé una conquista che attenua inevitabilmente gli aspetti conflittuali dell’esperienza. Si profila un dualismo tra educazione di palazzo e cultura contadina; quest’ultima è sempre perdente o in uno stato di dipendenza. Questo si presenta anche nel dualismo del teatro enciniano che si manifesta nei personaggi del pastore e dello studente burlone, che avrà sempre la meglio. Nelle rappresentazioni sacre, Encina evita di introdurre i personaggi di Gesù e la Vergine: il suo è un teatro religioso caratterizzato dalla testimonianza e non dall’esperienza diretta. In essa la personalità del mediatore assume, in senso drammatico, un ruolo decisivo. Nelle egloghe natalizie, per esempio, i pastori interpretano e rappresentano un loro Gesù collocato in una dimensione pastorale più di quanto non si immergano essi nella solennità divina. 
 Nello stesso tempo, un realismo ricco di indizi di vita quotidiana avvolge la sacralità degli episodi evangelici. Prende così l’avvio un particolare stile drammatico che sarà congeniale a tutto il teatro spagnolo religioso o profano e che sembra fondarsi su due motivi: una sorta di livellamento linguistico tra le diverse categorie cui il poeta si ispira e un interesse che privilegia la vita del particolare come punto di osservazione del mondo. I pastori intrattengono con la divinità un rapporto simile a quello che hanno con i signori. Il livellamento dei linguaggi, la minuziosa realtà oggettuale dei poveri, la loro comicità, sono l’espressione esterna di un lieto fine che si rinnova sempre: la gioia segreta di quel contatto fugare con il gran signore, Dio. Sulla scia dell’Encina pastoril, si prospetta una forma di realismo dai toni concilianti: un realismo che stempera i conflitti e si coglie in questo teatro primitivo una vena più aspra, una lingua diversamente aggressiva. Ciò accade nell’opera di Lucas Fernández. L’Auto de la Pasión- realizzata negli ultimi anni del Quattrocento- rompe la cornice convenzionale delle Passioni di Encina per collocarsi in un registro di canto diverso. Davanti alla Passione tutto cambia. Uno stupore doloroso, una pietà aspra si addensano scacciandone ogni compromesso di stilizzazione. Il poeta è commosso: inventa un Cristo corporeo, lacerato, vitale alla vigila della sua morte, un Cristo fuori dalla scena che campeggia solo nel racconto di appassionati testimoni. Il poeta rinuncia a trasportarlo sulla scena non solo per rispetto, ma anche per abbandonarsi a una serie di particolari sconvolgenti che un attore non poteva rappresentare. Al realismo si affianca la generosità dello spettacolo. Le parole vennero infatti scritte per essere pronunciate in una chiesa e non a corte o a palazzo; il drammaturgo, pertanto, allestì attorno ad esse una rappresentazione con canti e musiche e l’apparizione di un “Ecce homo”. La partecipazione del pubblico era tale da apparire quasi come un “teatro nel teatro”. Il linguaggio elementale, alleato di sentimenti istintivi e rozze cariche emotive non si estingue in Spagna con le sacre rappresentazioni medievale: aprirà la via alla rappresentazione mistica. TORRES NAHARRO E LA “PROPALLADIA” Bartolomé de Torres Naharro vive a Roma e scrive molto presto poesie, qualche commedia e un Diálogo del Nacimiento in stile pastoril. La sua esistenza è specchio delle contraddizioni dell’ultimo periodo dei Re Cattolici, fra espansionismo e politica di corte. Il poeta comincia forse come chierico per poi entrare nella milizia spagnola per poi venire rapito dai pirati. Conclude la sua epopea nell’Italia delle corti rinascimentali e qui si orienta verso la stabilità cortigiana e i privilegi dell’ufficio sacerdotale, svolgendo un’ampia attività letteraria, al servizio di molti cardinali. Nel 1517- sotto il regno di Carlo V- è a Napoli dove fa stampare una raccolta che dedica al Marchese di Pescara e alla quale da un titolo di stampo umanistico: la Propalladia. In questa opera, sembra scorgersi le avvisaglie di un mito tipicamente spagnolo, ossia della biografia intellettuale che approda alla stabilità dall’avventura o dalla disgrazia, contemperando all’inquietudine da girovago con una tendenza ironica al conformismo sociale. Il fiore della sua produzione appartiene a un’età che precede l’avvento di Carlo V e si lega piuttosto per nessi culturali e circostanze esterne agli anni dei Re Cattolici. Tra le sue opere ricordiamo: Serafina e la Soldadesca (1508-1512); Trofea (1514); Jacinta, Tinellaria e Ymenea (1515-16); le commedie Calamita e Aquilana. E le novità principali sono essenzialmente due: un allargamento dell’ambito sociale che cade sotto lo sguardo del drammaturgo e un ulteriore atto di responsabilità che questi compie di fronte alla complessità delle sue tecniche. La cultura di Torres Naharro non è raffinata ma di stampo umanistico, derivata dalle sue letture di clérigo. Conosce più lingue (compreso il latino) e legge i classici cui unisce però anche una curiosità ironica verso il mondo attuale e reale. L’equilibrio tra poesia colta e teatro si inverte in lui rispetto a Encina: il teatro è una stabile attività professionale che abbraccia tutte le sue esperienze culturali e umane. Dopo il “Dialogo de Nacimiento”, auto religioso sulla scia dei modelli enciniani, comincia per Torres Naharro un sistematico adattamento di materie e di personaggio diversi, spesso presi dalla vita, alla forma della commedia. Non inventa nulla di nuovo sotto il profilo del genere, guarda a Plauto, a Terenzio, alla commedia umanistica italiana e anche a Orazio. La novità sta nel fatto di scrivere queste commedie in castigliano e nel tradizionale ottosillabo rimato. I personaggi, inoltre, sono più complicati e vari rispetto ai pastori nei loro sfondi rusticani. Egli ne è cosciente e l’esprime perfettamente nel Prohemio alla Propalladia dove enuncia una propria teoria drammatica, guardando chiaramente a Orazio, che esponeva ciò che per lui erano le regole a cui un poeta doveva attenersi per scrivere una “buona commedia”. La commedia non è altro che un ingegnoso artificio, composto d’avvenimenti degni d’interesse e a lieto fine, e recitato dai personaggi. E’ necessario che: 1. La commedia debba avere 5 atti; 2. Moderazione nel numero dei personaggi, tra sei e dodici, in modo che lo spettacolo non risulti né troppo fiacco né eccessivamente confusionario; 3. Ci sia rispetto delle differenze di comportamento e di lingua a seconda dei ruoli e delle classi sociali, evitando ogni difformità (differenziazione degli stili di Aristotele); 4. Distinzione per contenuti fra le commedie “di fantasia” e commedie “a noticia”, ispirate a avvenimenti reali. I testi, tuttavia, smentiscono spesso questo Prohemio: la Tinellaria presenta un numero di personaggi esorbitante, la Jacinta unisce fantastico e reale, le lingue sono spesso mescolate tra loro e l’azione procede con irruenza. Nonostante questo il Prohemio va letto come la dimostrazione pratica del fallimento di un ordine all’insegna del classicismo: in questo disperato tentativo volto a far piacere gli umanisti del tempo, l’autore non fa che metterne in risalto la discontinuità, l’incertezza, i legami con una tradizione medievale e spagnola incisiva. Nel Prohemio, riscontriamo la distinzione enunciata tra commedie “a noticias” e “a fantasia”: da un lato l’andamento capriccioso e mobile di un teatro d’istinto, ripreso dalla vita, dall’altro i meccanismi prevedibili, i farsi arbìtri, di un teatro basato su trame romanzesche. Torres è dunque un precursore che maneggia con disinvoltura gli stili del suo tempo e si destreggia in brillanti operazioni di rimpasto, magari di ringiovanimento, di temi alla moda. L’Imenea contiene alcuni degli ingredienti che daranno vita alla commedia di “cappa e spada”, al dramma d’onore del teatro seicentesco e la presentazione amorose di coppie di servi anticipano il doppio livello della commedia barocca. Alla fine dell’epoca dei Re Cattolici, Imenea si presenta come opera che decanta il clima di tensione artificiale, il goticismo rigido di una delle mode letterarie più tenaci dell’epoca. Dà l’avvio ad un gioco d’amore dai toni urbani e potenzialmente borghesi per un pubblico ormai stanco della vecchia tradizione cortese e che risponde ad una condizione sociale nuova, raggiungendo anche nuove soluzioni narrative come il matrimonio tra i due protagonisti. Il discorso cambia se passiamo alle commedie a noticia. Qui il poeta racchiude in 5 atti delle situazioni e dei tipi umani che sfuggono ad ogni etichetta, che vanificano in un dialogo vivo ogni riferimento a schemi e a modelli letterari. Contano qui le parole e i gesti, il contrappunto delle battute e non i fatti che si riducono a un’esile traccia. Nella Soldadesca quel poco di azione presente viene costruita sul dialogo tra un frate, un capitano, soldati della milizia pontificia e popolani, i quali si presentano in scena ciascuno con una sua storia da raccontare, pronto a sfruttare occasioni per aggredire, deridere e rivalersi in un gioco di contrasti fulminei e complicità. Dunque, ciò che impera è la lingua, qui sotto forma di plurilinguismo dei personaggi presentati. Quel metaforico “quaderno di annotazioni” che Torres realizza mentre si trasferisce nelle corti umanistiche italiane è l’espediente grazie al quale egli è in grado di trascrivere una piccola sagra dei vizi, dei bisogni esasperati e dei tratti ridicoli di una folla dei personaggi conosciuti “en realidad de verdad”. Da qui nasce anche l’intermittente satira contro il clero, la cui violenza è incoraggiata dal clima di lassismo cinico e raffinato dello stesso potere ecclesiastico. Il poeta si limita a raccogliere “le voci” e diffonderle attraverso i suoi personaggi. E lo fa collocando la scena per lo più nelle retrovie del potere, non al vertice: per censurare la corruzione dell’alta curia, apre il sipario sulla cucina della casa cardinalizia dove in primo piano c’è questo teatro culinario che si alimenta dei resti dell’opulenza padronale. Tutte le critiche che lui velatamente fa risuonano in pubblici spettacoli alla presenza della corte pontificia e dello stesso papa: poi l’Indice censurerà la Propalladia e lui cadde in disgrazia. Siamo nel 1516 alla vigilia delle Tesi luterane e della diffusione del pensiero di Erasmo in Spagna e in Europa. La letteratura dell’età dei Re Cattolici si chiude con questo documento di crisi religiosa proposto nella forma di una commedia ibrida e sostanzialmente fallita: si riproduce dal vivo l’esperienza dei dialoganti e le si inventa a ridosso un intreccio sentimentale che è, a sua volta, una parte dell’allegoria morale. Torres mostra chiaramente, quindi, le sue incertezze letterarie con un mosaico di tentazioni diverse; propone così un modello di contraddizioni lasciando una chiara traccia nella letteratura spagnola degli anni successivi. Abbiamo un prologo che fa parte della narrazione e sette trattati: 1. Racconta la sua genealogia e entra a servizio di un cieco, in cui già si ha chiaro che l’apprendistato della giovane guida avverrà all’insegna della privazione e dell’inganno. L’episodio della testata che il cieco gli infligge contro il toro di pietra dal quale Lazaro ricava una lezione di vita dalla valenza educativa. Si introduce anche il tema della fame, scandito dalle astuzie messe in atto dal fanciullo per procurarsi il cibo che gli viene negato; 2. Racconta poi il suo servizio del prete avaro di Maqueda, in cui Lazaro precipita in una condizione di assoluta indigenza. Metterà a frutto l’astuzia affinata nell’apprendistato con il cieco poiché ruberà una seconda chiave per prendere il cibo negatogli dal prete. Verrà poi cacciato nel momento in cui verrà scambiato per un ladro; 3. Racconta il suo servizio di uno scudiero, “l’Italico pobre”, la cui funzione sociale si è esaurita e non ha più beni. È il più importante rapporto, molto speciale, poiché se con gli altri padroni si instaura una guerra con lo scudiero c’è un capovolgimento dei ruoli perché lo scudiero povero viene, nelle misure possibili, sfamato da Lazaro con i suoi ultimi pezzi di pane. Questa ostentazione di una prosperità posticcia allude alla condizione di una classe sociale che non ha altre occupazioni “se non quella di aguzzare l’ingegno per sopravvivere senza vedersi declassati”. La contrapposizione tra il tema della horna (inteso come reputazione sociale) e il sentimento dell’honor (inteso come entità interiore e morale) è in effetti centrale in questo trattato tutto costruito intorno alle dissimulazioni messe in atto per preservarle; 4. A partire dal quarto trattato, si determina una certa accelerazione del racconto che dura poche pagine, in cui Lazaro stesso si fa più spettatore. Nel quarto è a servizio del Frate della Mercede; 5. Nel quinto è a servizio di un Buldero, frate vendendo bolle papali; 6. Nel sesto è al servizio di un Pittore e di un Cappellano; 7. Nell’ultimo è a servizio di uno sbirro ed un arciprete, con quale si conclude il romanzo. Nell’ultimo trattato, Lazaro alla fine vende il proprio onore per giustificare il suo profitto e vivere di rendita, passando la sua vita a diffidare delle male lingue che commentano riguardo il rapporto con sua moglie e il rapporto con l’arciprete. PROLOGO E TRATTATI Prologo: introduce la sua persona in una pratica che ci ricorda la captatio benevelontiae dei giullari che si ritenevano umili e non fingevano di essere “più santi dei suoi simili”. Citando Plinio, El Lazarillo essenzialmente ritiene che la sua esperienza possa contenere un messaggio educativo per il fantomatico Vossisignoria a cui scrive in quanto “ogni libro, per quanto cattivo, contiene sempre qualcosa di buono”. Da questo racconto- che lui comincia “ab origine”- racconterà la sua destrezza col quale affrontò le condizioni sfavorevoli in cui visse in quanto povero per giungere finalmente a buon porto. Trattato 1: Il Lazarillo si presenta dalle origini, partendo dal momento in cui i suoi genitori- Tomé Gonzalez e Antona Pérez- si incontrarono, ricorrendo il momento in cui suo padre venne reclutato per una certa armata contro i mori che tuttavia gli tolse la vita e costrinse la famiglia a vivere in maniera deplorevole. Sua madre si incontrò poi con “uomo scuro di pelle”- Zaide- che inizialmente sta antipatico a Lazzaro per “la brutta faccia che aveva” ma che gli porta anche un piccolo fratellastro. Si scopre che lui poi rubava bestie e per questo, per evitare che vivesse in povertà, sua madre lo affida al primo amo, ossia il cieco. Ora dovrà cavarsela da solo, proprio come gli dice sua madre. Qui si verifica l’episodio che segna in definitiva Lazzaro, avviandolo verso l’adesione ad un comportamento di diffidenza e astuzia per “saperne una più del diavolo”: il cieco, difatti, gli fa sbattere la testa contro il toro di pietra all’uscita di Salamanca. Dunque, “si desta dall’ingenuità in cui dormiva come bambino” (pag.119) Il cieco, per quanto ammirevole, risulta essere l’uomo più avaro e meschino tanto “da non dare a sé stesso neppure la metà del necessario” e che dunque non si curava né di sé né del piccolo picaro. Inizia così una sorta di rapporto fatto di dispetti reciproci tra il cieco e Lazaro, che vedrà l’ultimo primeggiare. Difatti, mentre sono ad una locanda in Escalona, Lazaro mangia una salsiccia del padrone che se ne accorge odorandogli l’alito. Sempre nella stessa notte, per vendicarsi, approfittando del diluvio, Lazaro lo conduce davanti un pilastro in una piazza sul quale poggiavano gli aggetti di quelle case e- facendogli credere si tratti di un ruscello- lo fa saltare per arrivare dalla parte opposta: il cieco si schianta contro il palo. Lazaro ha dunque la sua vendetta e si dirige a Torrijos mentre il trattato si conclude con la battuta ironica del picaro: “Fiutaste la salsiccia e non il pilastro? Fiutate, fiutate!” Trattato 2: Ora Lazzaro si trova a Maqueda, in cui incontra un chierico che diventerà il suo nuovo padrone. Quest’ultimo viene descritto come un uomo che racchiude in sé tutta la miseria del mondo e che lasciava morire di fame il protagonista, impedendogli di fornire della quantità di pane che aveva nella sua cassa. Proprio quando Lazzaro pensa sia la sua fine, riesce a rimediare un’altra chiave per la cassa del padrone da un calderaio e da lí è in grado di sfamarsi, portando il chierico a credere si tratti di topi che si aggiravano per la casa. Anche quando il padrone sbarra la cassa, Lazzaro si ritrova a disfarla ogni notte proprio come una mediocre Penelope, operando secondo l’ingegno aguzzato dalla fame. Di certo, dormiva così bene che non lo turbava niente, neanche le condizioni del Re di Francia, alludendo alla prigionia di Francesco I in seguito alla sconfitta a Pavia da parte di Carlo V (1525). Tuttavia, una notte, andando caccia della biscia che credeva essere la responsabile dei furti, il chierico colpisce in testa Lazzaro e, vedendo la chiave uscire dalla sua bocca, realizza che in realtà era lui il ladro. Dopo essersi assicurato stesse bene, lo caccia fuori casa. Trattato 3: Finalmente arriva a Toledo dove incontra il suo terzo padrone, lo scudiero. Rimanendo abbagliato dalla sua apparenza benestante e raffinata, Lazzaro pensa di essere finalmente caduto in buone mani ma ben presto si rende conto di quanta poca certezza ci sia negli atteggiamenti di questo padrone. Difatti, la sua casa è tanto diroccata che sembra essere una dimora incantata e in più condivide la stessa necessità di sfamarsi di Lazzaro, tanto da condividere insieme il pane. In una preghiera a Dio, Lazzaro si domanda chi sospetterebbe mai del buon portamento dello scudiero vedendolo così sicuro di sé: come sappiamo, lo scudiero rappresenta in realtà un esponente di una classe sociale in declino e la cui unica preoccupazione è preservare il loro onore (pag.117). Un onore che preserva anche quando, con un filo di paglia, fa finta di stuzzicarsi i denti e si togliersi del cibo inesistente mentre si lamenta di casa sua. Per questo, sembra quasi che il rapporto si stia invertendo perché è Lazzaro, con il cibo che riesce a trovare, a prendersi cura di lui. Un giorno, gli racconta le sue origini, descrivendo la sua “valorosa persona” (pag.195). Egli viene dalla Vecchia Castiglia, scappando per evitare di entrare in dissidio con il suo vicino che, a detta sua, non gli mostrava il giusto apprezzamento dovuto ad un nobile come lui. Venne poi nella città di Toledo, pensando di trovare una sistemazione ma non fu così, lagnandosi di come vorrebbe essere al servizio di un signore che lo salvi dalla miseria. Alla fine, quando al padrone gli verrà chiesto il fitto di casa e del letto, abbandonerà definitivamente la città e così Lazzaro, in una conclusiva risoluzione del sovvertimento dei luoghi (pag.199). Trattato 4: Si mette ai servizi di un frate della Mercede ma come notiamo è molto breve. Si presenta come un personaggio “con una voglia pazza di andarsene in giro”, legato ai piaceri carnali della vita mondana che regala le prime scarpe di Lazaro che tuttavia se ne andrà dopo pochi giorni. Molti critici, come Ruffinnato, hanno vista in questa abbrevatio e reticenza finale la prima iniziazione di Lazzaro alla pratica erotica sessuale, o addirittura, omosessuale. Trattato 5: Ora Lazzaro vive con un venditore di indulgenze col quale resta circa quattro mesi. Chiaramente questo trattato rappresenta una critica alle pratiche della Chiesa di ricavare denaro dalle persone ingenue tramite la vendita delle bolle, dunque dei salvacondotta che redimessero dal peccato chi le acquistava. Qui viene messo in scena un inganno giocato dal commissario- come lo chiama Lazzaro- e un suo complice che, in Chiesa, lo accusa di essere un falsario. Il venditore, invocando la parola di Dio, chiederà di punire chi dei due sta mentendo e il complice inizia la sua recitazione. A fine capitolo, Lazzaro compie una riflessione riguardo la natura di questa pratica: “Quante gliene fanno alle persone ingenue”. Questo ci mostra il disprezzo che l’autore provava nei confronti della chiesa, tanto che fu proprio questo uno dei due trattati rimossi. Trattato 6: Prima passa al servizio di un pittore di tamburelli. Poi, dipingendo in chiesa, passa sotto il servizio di un cappellano e questo rappresenta per lui “il primo scalino per arrivare ad una buona vita” che però abbandona poiché non voleva più seguitare questo mestiere. Trattato 7: Inizia nel lavorare per un bargello come rappresentante di giustizia ma che abbandonò subito. Successivamente, trova un impegno reale come banditore di vino e venditore di aste pubbliche. Tanto era la fortuna che Lazzaro sperimentava in questo periodo che il signor Arciprete di San Salvatore gli fa avere in sposa una sua serve e da questo momento il picaro subirà un’ulteriore offesa da parte della chiesa perché la serva ha una relazione adultera col padrone. Quella del concubinato era un vizio molto diffuso che, per evitare che venisse scoperto, portava i chierici a donare in sposa le loro. Qui Lazzaro dovrà convivere le male voci dei paesani che commentano. Il romanzo si conclude con un confronto storico tra la lo stato di prosperità e felicità di Lazzaro e l’ingresso vittorioso dell’Imperatore Carlo V nella città di Toledo per liberarne le corti.
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