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Il ruolo della donna nella letteratura nordica secondo Brandes, Appunti di Letteratura

Storia della cultura nordicaFemminismo e letteraturaStoria delle ideeStoria della letteratura nordica

Georg Brandes, scrittore danese del XIX secolo, affermò che i paesi nordici erano arretrati rispetto al resto del mondo in termini di cultura e letteratura. In questo documento, viene analizzato il ruolo della donna nella società e nella letteratura nordica secondo Brandes. La donna era vista come il baluardo della casa, un filtro che proteggeva la famiglia e la casa dai conflitti sociali e dalla vita esterna. Tuttavia, Ibsen e Strindberg sconvolsero questa visione borghese della donna, portando alla luce la centralità della figura femminile e la necessità di superare i pregiudizi sociali. Il documento include anche una breve analisi di opere di Ibsen e Strindberg e del loro impatto sulla società e sulla letteratura.

Cosa imparerai

  • Come Ibsen e Strindberg hanno influenzato la visione della donna nella società e nella letteratura nordica?
  • Che opere di Ibsen e Strindberg vengono analizzate in questo documento?
  • Che argomento affrontava Georg Brandes nella sua serie di conferenze sulla letteratura nordica?
  • Come la visione della donna nella società e nella letteratura nordica ha evoluto nel corso del XIX secolo?
  • Come era vista la donna nella società e nella letteratura nordica secondo Georg Brandes?

Tipologia: Appunti

2020/2021

Caricato il 01/07/2022

Ruggero99
Ruggero99 🇮🇹

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Scarica Il ruolo della donna nella letteratura nordica secondo Brandes e più Appunti in PDF di Letteratura solo su Docsity! 1 LETTERATURE NORDICHE a.a. 2021/22 27/09/2021 Monografia del corso: La Memoria Culturale delle Donne nella Tradizione Scandinava Autori e testi: • H. Ibsen, Quando noi morti ci destiamo (Når vi døde vågner): l’ultimo testo drammaturgico che Ibsen scrisse (1899); questo testo mette in scena il legame tra un artista e la sua musa ispiratrice, la sua modella; i due avranno una relazione, la cui rappresentazione teatrale dà modo al lettore/spettatore di esplorare un rapporto di arte, amore, attrazione fisica e artistica ecc.; • A. Strindberg, il più importante scrittore svedese tra Ottocento e Novecento; mentre Ibsen si ferma al limite del XX secolo, con Strindberg entriamo nel pieno Novecento; l’autore aveva una personalità molto complessa, la sua biografia e la sua poetica sono parecchio articolate. Di lui leggeremo uno dei suoi testi teatrali più celebri e famosi, che è Signorina Julie (1982), il quale ha come nodo focale la relazione tra una contessina, Julie appunto, e un suo servo, nella notte di San Giovanni (che nel mondo nordico ha la caratteristica di essere la “festa dell’estate”, quindi la “festa della vita”, durante la quale anche i freni inibitori scendono); • H. Laxness, unico premio Nobel per la letteratura dell’Islanda, vissuto per gran parte del XX secolo; qui affronteremo un breve testo che potremmo definire “romanzo breve” (o “racconto lungo”) intitolato L’onore della casa (1996), incentrato sulla relazione tra due sorelle e i loro diversi caratteri e atteggiamenti nei confronti della società; • J. F. Jacobsen, Barbara (1941): si potrebbe quasi definire un romanzo storico, scritto a metà XX, e ambientato nelle Fær Øer (il nome significa “Isole delle pecore”; su queste isole si parla il faroese, parlata circa da 70.000 persone in tutto il mondo); il testo, nonostante le origini e la nazionalità di Jacobsen, fu scritto in danese, probabilmente in quanto aspirasse a una sua maggiore diffusione; il romanzo è ispirato a una storia vera di una ragazza poco più che vent’enne che vive su queste isole e il suo rapporto con la sessualità e la vita; • Il pranzo di Babette (1978), scritto da Karen Blixen (una scrittrice danese molto in voga negli anni Novanta del secolo scorso e autrice de La mia Africa, ambientato nel Kenya dove passò gran parte della sua esistenza); il racconto è ambientato nella Norvegia dell’Ottocento, e riguarda la vita di due sorelle appartenenti a una setta religiosa, la cui vita viene in un qualche modo sconquassata dall’arrivo di una cuoca proveniente dalla Francia, Babette. Isole Lofoten – nel Nord della Norvegia, quelle isole conosciute come “isole dei pescatori” Sami = quelli che comunemente chiamiamo “lapponi” (gli abitanti di un territorio delineato immaginariamente da una linea che tiene insieme Norvegia, Svezia e Finlandia del Nord) La Scandinavia spesso e volentieri appare ai nostri occhi come un luogo dove “il vento sussurra”, un posto dove la natura, il paesaggio e il silenzio regnano incontrastati, oltre che come un lontano territorio difficile e ostile da attraversare, di fiordi “vertiginosi”, montagne nude e/o innevate, laghi di cristallo che coronano villaggi da fiaba; tutte queste percezioni vanno a costituire quello che è il 2 Nord nel nostro immaginario comune, all’interno del quale le popolazioni che abitano il Nord risultano accoglienti e calorose nei confronti dello straniero (quando in realtà non è vero; ad esempio la Danimarca è ad oggi il paese al mondo con il più alto tasso di respingimenti di richiedenti asilo). Questi che abbiamo finora menzionato sono stereotipi, chiaramente, attraverso cui chi non conosce quei mondi per esperienza propria filtra le informazioni già note e costruisce nella sua testa un’immagine fasulla di paesi come la Norvegia, Svezia ecc. In questo scenario idilliaco, si hanno tanti miti e leggende che lo decorano, come ad esempio il mito di Capo Nord, dove si verifica il fenomeno del “sole di mezzanotte”, che è legato al raggiungimento del punto estremo, il punto localizzato al limitare del circolo polare artico, il luogo irraggiungibile per eccellenza. Tuttavia, questa è la nostra personalissima e contestabilissima idea di Nord, che anche da un punto di vista geografico non è detto che sia l’idea di Nord di altri. Chi è in grado di spiegare questo concetto è il poeta inglese di inizi XVIII secolo Alexander Pope. Nel suo Essay on Man (1733-1734), un saggio sull’uomo costruito per epistole, si possono leggere alcune righe che ci condensa un’idea del Nord a dir poco “instabile” e “dinamica”: Ask where’s the north?—at York ‘tis on the Tweed1; In Scotland at the Orcades; and there At Greenland, Zembla, or the Lord knows where. No creature owns it in the first degree, But thinks his neighbour farther gone than he; A. Pope, Essay on Man, epistole II e V Se per coloro che vivevano a York il Nord era sul Tweed, in Scozia era identificato con le isole Orcadi, un arcipelago a Nord della Scozia, mentre nelle Orcadi si considerava il Nord come la Groenlandia, Zembla (luogo del circolo polare artico più verso la Russia); ‹‹Nessuno lo può sapere per certo, ma chiunque ritiene che il suo vicino sia più a Nord di lui››, e questo sta a significare semplicemente che, da qualsiasi punto in cui lo si osservi, il Nord sarà sempre percepito come più lontano rispetto al punto di osservazione stesso. Ci si potrebbe chiedere, quindi: per un abitante della Norvegia dov’è il Nord? Ciò che rimane una certezza è che non è detto che il Nord rimanga un’entità immobile; anzi, si muove con la percezione che la gente ha di esso. Per esempio, Hans Christian Andersen, scrittore danese di fiabe, scrive la fiaba La regina della neve, una fiaba in cui ci sono due bambini, Kay e Gerda, in cui Kay viene rapito all’inizio del racconto dalla regina della neve, la quale lo porta con sé verso Nord. A quel punto Gerda inizia un viaggio (una sorta di viaggio di formazione) alla ricerca di Kay dove incontrerà un sacco di persone buone e cattive, andando verso il Nord. Tramite questa fiaba, Andersen racconta cos’è il Nord per lui e per il suo pubblico privilegiato, il pubblico danese. Per loro il Nord 1 Il Tweed è un fiume che divide la Northumbria da York. 5 Taller To-day […] Nights come bringing the snow, and the dead howl Under headlands in their windy dwelling Because the Adversary put too easy questions On lonely roads. But happy now, though no nearer each other, We see farms lighted all along the valley; Down at the mill-shed hammering stops And men go home. […] Nel componimento di Auden si accendono dei fari nella notte, che sono le fattorie, e gli uomini tornano a casa (quindi un rifugio). In questa lirica appare perciò la contrapposizione tra buio e luce: il buio è il luogo dell’inquietudine, del freddo, forse della malvagità, mentre la luce è il luogo del calore, dove si riunisce la comunità, il luogo della Hygge. A questo punto, possiamo cominciare a schematizzare, e facendolo vediamo che abbiamo due immagini contrapposte del Nord, inteso come: 1) Un luogo virtuoso, felice e austero, del benessere; 2) Un luogo maligno, oscuro, povero. Queste due letture del Nord le ritroviamo nel corso della storia della cultura europea già a partire dall’Età Classica. Legato alla prima immagine di positività c’è il mito degli Iperborei. Gli Iperborei sarebbero un popolo mitico di cui parla Ecateo di Mileto, un autore greco del VI a.C., che in una sua rappresentazione geografica del mondo colloca questa popolazione all’estremo Nord, tra il grande oceano del Nord e i Monti Rifei (o Ripei)2. Ecateo di Mileto ci dice che “al di là del vento di Borea3 che scende dai Monti Rifei è situato un luogo sereno e pacifico”, e i Monti sono quelli che separano il vento freddo da un mondo bellissimo, di luce, paradisiaco. Effettivamente, il mito degli Iperborei giunge sino a quasi i nostri giorni; ce ne parla infatti Mary Shelley nel suo Frankenstein, un romanzo che racconta di questa creatura messa al mondo che dà il titolo all’opera, ma anche della sua fuga: […] Cerco invano di persuadermi che il Polo è il regno del gelo e della desolazione. Sempre esso si presenta esso alla mia immaginazione come un luogo di bellezza, come un luogo di delizia; là neve e gelo sono al bando, non ci sono, e navigando su un mare calmo potremo forse giungere a una nuova terra che per meraviglia e bellezza superi ogni regione finora scoperta nel mondo abitato. […] Quindi da un lato abbiamo il mondo della luce, della virtuosità. L’idea del Nord invece come un mondo maligno e oscuro la ritroviamo nella letteratura greca, ovvero nell’Odissea di Omero, precisamente nell’XI libro vv. 12-16: Omero ci parla dei Cimmèri, che nell’antichità erano un popolo che vive in terre buie e oscure alla fine del mondo, il luogo della notte perenne, e il mondo dei Cimmèri viene anche inteso come uno dei luoghi in cui si entra nel regno dei morti: 2 I Rifei sono una catena di montagne leggendarie che gli antichi ritenevano cingesse da N l’Europa, talvolta facendone la sede di Borea. Alcuni antichi, come Strabone, ne negavano l’esistenza: altri le identificavano con le Alpi (Posidonio), le cercavano alla sorgente del Danubio (Pindaro, Eschilo) o nella Scizia (Aristotele). 3 Borea (in greco antico: Βορέας, Borèās) è un personaggio della mitologia greca, la personificazione del Vento del Nord. 6 […] Laggiù vi è il territorio e la città dei Cimmeri, avvolti da nebbia e da nuvole: mai il Sole splendente li guarda con i suoi raggi, né quando sale verso il cielo stellato, né quando dal cielo si volge verso la terra: su quella gente misera si stende eterna notte. […] Questa idea del Nord come luogo buio viene rinvigorita dalla tradizione biblica cristiana, la quale si fa forte di un versetto tratto dal profeta Geremia (cap. I, vv. 14), che ci dice che da “Aquilo (nome di un vento anch’esso) si sparge ogni male su tutti gli abitanti della terra”. Ovviamente, il Nord è il luogo maligno, perché se lì si spande il male il Nord non può essere che questo. Osserviamo adesso un’ultima testimonianza della percezione di un Nord malefico: A sinistra abbiamo qua la cosiddetta Mappa di Ebstorf, un esempio di mappa mundi medioevale datato 1234-40 circa. Nel Medioevo la terra era considerata essere una sfera (una concezione che già i greci avevano), divisa in due emisferi; l’emisfero boreale è diviso in fasce, ossia fascia frigida, temperata e torrida, e così, ma specularmente, anche l’emisfero australe. Le cartine medioevali non hanno il nord sopra, ma al suo posto l’est (quindi a sinistra si avrà il nord mentre a destra il sud). Questa sorta di muraglia nella parte destro-alta della cartina, secondo la tradizione medioevale, sarebbe stata eretta da Alessandro Magno per fermare le genti maligne dei Gog e Magog che vivono nel Nord. Vediamo così come l’idea del Nord buio, freddo e maligno percorra la letteratura occidentale da sempre. Questa separazione tra Nord brutto e cattivo e Nord che invece è figo un botto viene dalla grande contrapposizione astronomica della luce solare in questi luoghi; nei territori più estremi si passa da periodi di pieno buio a periodi di pieno sole, dando così vita a due concezioni pressoché inconciliabili e opposte l’una all’altra. 28/09/2021 Abbiamo introdotto precedentemente il discorso sulle terre del Nord, luoghi del Sublime, fatti di paesaggi incontaminati fatti di luce o di buio, e la ricezione occidentale di questi posti, propria di chi era estraneo al Nord. Chi conosceva questi luoghi, chi ci viveva, già dall’età medioevale, come li percepiva e descriveva? 7 Per capirlo, prendiamo in analisi una serie di testi tratti dall’opera un autore medioevale danese che scriveva in latino, conosciuto con il nome Saxone Grammatico (Saxo Grammaticus), il quale scrisse nel 12° secolo una storia dei re di Danimarca, le Gesta Danorum; Saxo Grammaticus scrisse i suoi lavori tra la fine del 12°/inizi 13° secolo, ed è l’autore che per la prima volta nei testi citò la figura di Amleto. Era convenzione per le opere storiografiche dell’Antichità, ma poi anche del Medioevo, che esse cominciassero sempre con un prologo che fosse un excursus di tipo geografico, un brano di testo dove si descrivono i luoghi in cui le vicende che vengono narrate in seguito sono ambientate. Le Gesta Danorum non sono differenti, e Saxo Grammaticus racconta al lettore nella sua opera il mondo nordico da un punto di vista geografico e paesaggistico: Nella descrizione soprastante dell’Islanda, Saxo Grammaticus ci racconta in maniera molto pragmatica, senza nessun accenno a superstizioni né altro, dei geysir, questi getti d’acqua bollente che vengono emessi con forza da sorgenti nel terreno verso l’alto; il suo lessico è quasi scientifico, non c’è niente di straordinario o fantastico. Lo stesso dicasi nelle sue descrizioni della Svezia e della Norvegia, ed è inoltre da sottolineare come Saxo si accorga che queste terre sono affini sia geograficamente che linguisticamente. Anche la rigidità del clima (attribuibile al Polo Nord, in realtà) non passa in 10 un veliero con le vele spiegate che si muove nella sicurezza di questo mare. Il Nord quindi per chi è in quest’area non è un luogo pericoloso e pieno di insidie come invece è immaginato nel mondo mediterraneo. Ancor di più, un’impressione di questo tipo la ritroviamo in un’altra mappa prodotta nel 1666, che è una carta di navigazione che pone nella parte alta l’Occidente, tutta concentrata neanche sul Mare del Nord, ma è addirittura quasi spostata sul Mare Artico, e anche qui non c’è nulla di strano o inquietante (addirittura qui abbiamo le Isole Svalbard, situate nel Polo Nord); anche questa è una carta prodotta sempre nel Nord, in cui è rappresentata la Lapponia, il Finnmark (regione settentrionale della Norvegia). Le lingue del Nord Le lingue nordiche sono tutte lingue germaniche e sono tutte lingue che hanno una radice comune medievale, ossia fino al 1300 ca. in Svezia, Danimarca, Norvegia, Islanda e Fær Øer si parlava la stessa lingua, che poi si andò a differenziare a livello nazionale nelle epoche successive. La lingua più parlata di questo gruppo è lo svedese (10 milioni circa di parlanti), in quanto la Svezia è la regione più popolosa, ed oltre che in Svezia è parlato anche sull’isola di Gotland e in alcune aree costiere della Finlandia, dove lo svedese è lingua ufficiale al pari del finlandese. Lo svedese è una lingua che ha la particolarità, così come il norvegese, di avere, oltre all’accento tonico4, anche un accento di tipo musicale (= nel momento in cui si parla questa lingua serve dare anche un’intonazione alla frase, dal momento che quest’ultimo in alcuni casi influisce sul significato della parola che viene detta). Da un punto di vista lessicale lo svedese ha subito degli influssi importanti dal tedesco, perché la Svezia meridionale era in passato in stretto contatto commerciale con le città anseatiche del nord della Germania . 4 In tutte le lingue germaniche l’accento tonico è risotonico, ossia cade sulla radice della parola. 11 Il danese è una lingua grammaticalmente semplice, ancor più quanto lo sia lo svedese, ma è una lingua assai complessa nella sua fonetica, tant’è vero che si dice spesso che esistano tante lingue danesi quanti sono i suoi parlanti. Il norvegese propriamente come lingua è un costrutto, non esiste in realtà. Quella che viene definita come “lingua norvegese” è in realtà una variante: il bokmål (“lingua del libro”), quella che era utilizzata dall’amministrazione e dalla burocrazia, quella che si scriveva. Con l’arrivo dell’età moderna, la Norvegia entrò a far parte del Regno di Danimarca, e perciò la lingua che venne utilizzata dall’amministrazione pubblica nei secoli in cui la Norvegia era dominata dalla Danimarca fu la lingua danese. Tuttavia, a contatto con la popolazione locale, il danese subì delle influenze di genere fonetico, di pronuncia, creando appunto la variante bokmål norvegese (questo fatto è alla radice della somiglianza estrema tra norvegese e danese dal punto di vista scritto, mentre la pronuncia differisce sostanzialmente). Il bokmål diventò così la lingua più diffusa sul territorio geografico norvegese fino a dopo il Congresso di Vienna del 1815 quando la Norvegia venne tolta alla Danimarca e venne aggregata al Regno di Svezia; la Norvegia riceverà sempre maggior autonomia con gli anni, mantenendo la sua lingua a sfavore dello svedese. Sulla spinta romantica ottocentesca, quindi con la riscoperta voluta delle origini delle nazioni, andò a concretizzarsi in Norvegia una corrente soprattutto di linguisti che intendono riscoprire quella che è la vera lingua dei norvegesi, e per raggiungere questo scopo ricercarono una variante dialettale che è quella che si parla nella regione più interna e più isolata della Norvegia, l’area del Telemark. Venne quindi registrato questo dialetto, ne venne strutturata una grammatica e questa diventò così una lingua a tutti gli effetti: nynorsk (“nuovo norvegese”). Quando il nynorsk entrò a far parte del ventaglio linguistico della Norvegia, si accese un lunghissimo dibattito su quale dovesse essere la lingua nazionale, soprattutto dopo l’indipendenza dalla Svezia nel 1905. Questo dibattito si risolse negli anni Sessanta del secolo scorso, con la decisione salomonica che entrambe le varianti, bokmål e nynorsk, sarebbero state lingue ufficiali della Norvegia. Non si parla però in questo caso di un bilinguismo perfetto come potrebbe essere quello dell’Alto Adige in Italia; è solo nelle regioni in cui tradizionalmente si è sempre parlato il nynorsk che questo viene insegnato a scuola, mentre nelle altre non è così a causa della scarsa diffusione della parlata nynorsk sul territorio. In Islanda si parla l’islandese, parlato da più o meno 350.000 persone, comprese coloro che vivono all’estero. La maggior parte della popolazione vive nelle capitale Reykjavík5 (“baia del fumo”), città della grandezza più o meno di 200.000 abitanti. L’islandese è una lingua che si è per come dire “fossilizzata” in quello che era il suo stadio di evoluzione linguistica nel 14° secolo; ma con una particolarità: mentre tutte le altre lingue germaniche, chi più chi meno, si sono semplificate grandemente soprattutto sul piano morfologico (es. l’inglese non ha più le declinazioni), l’islandese è rimasta una lingua fortemente sintetica → come il latino, per poter esprimere i vari complementi usa poco le preposizioni ma sfrutta il sistema delle declinazioni e mantiene le uscite verbali. Mentre per quanto riguarda svedese, danese e i due norvegesi c’è una mutua intelligibilità tra le lingue e i parlanti, l’islandese è ostacolato fortemente dalla sua stessa arcaicità. Il faroese, lingua delle Fær Øer, dispone di circa 70.000 parlanti in tutto il mondo, ed è una lingua molto vicina all’islandese (perciò in questo caso, tra le due lingue, c’è mutua intelligibilità). Islandese e faroese differiscono dalle altre tre lingue nordiche per l’alfabeto, in quanto sono le uniche due che hanno mantenuto le lettere ð e þ dagli stadi più antichi di evoluzione delle lingue 5 In islandese l’accento non sta a indicare l’accento tonico bensì la lunghezza vocalica. 12 germaniche, che sono essenzialmente l’equivalente del suono riprodotto da ‘th’ inglese, rispettivamente sonoro e sordo. Il concetto di “estate” e la centralità della luce Il colore bianco che è associato al gusto “nordico” per la mobilia è quel colore che denota la luce e l’estate, estate che per i paesi nordici è un periodo dell’anno brevissimo che si apre a giugno e termina a fine luglio (abbiamo romanzi dove sta scritto che agosto è già autunno). Questo significa che per i nordici la vita all’aperto, la vita comunitaria, si racchiude in un lasso di tempo molto ristretto; la socialità intima, già lo abbiamo visto, si ha nella casa, con quella Hygge che abbiamo precedentemente menzionato, mentre la socialità aperta è racchiusa nell’estate, al cui centro c’è la notte di San Giovanni (notte del 24 giugno) = è la festa campestre che le genti nordiche passano fuori all’aperto, accendendo falò e passando tutta la nottata all’aperto (il sole non cala, c’è luce tutto il giorno). Si configura così l’equazione “brevità dell’estate = intensità dell’esperienza”, ed è quindi come se dicessimo che anche la felicità e il benessere si racchiudono in un tempo strettissimo. Il frutto dell’estate è la fragola nei paesi nordici, perché a differenza dell’Italia dove si mangiano in tarda primavera nel Nord vengono mature a luglio. L’estate è il momento anche della libertà sessuale (molto spesso le feste di San Giovanni finiscono in grandi baldorie e attrazioni sessuali, rapporti carnali), proprio per la predisposizione dell’animo. Di contro, il periodo invernale è quello in cui vi è la ricerca del poco di luce che è possibile avere; la candela, per esempio, è un elemento imprescindibile nelle case nordiche. Una delle feste più sentite in Svezia, ad esempio, è la festa di Santa Lucia (Luce, lux ecc.); vengono messe in scena delle rappresentazioni in cui ci si pone queste corone sul capo con delle candele accese. Quindi la luce è l’elemento centrale della vita in questi paesi, la luce che deve vincere il buio della notte, e da qui nasce anche la riflessione sulla brevità dell’estate. La rappresentazione della donna nella letteratura nordica Georg Brandes Il danese Georg Brandes (1842-1927) balzò all’onore della vita culturale della Danimarca, e da lì in poi anche quella della Svezia e della Norvegia, nel 1871, quando tenne un ciclo di conferenze presso l’università di Copenaghen, aperte anche al pubblico, sulla letteratura nordica, durante le quali affermò che i paesi nordici erano arretrati culturalmente di circa quarant’anni rispetto al resto del mondo (che per lui erano Germania, Francia, Inghilterra ecc.); mentre questi paesi erano già entrati nel Naturalismo e affrontavano nella letteratura i conflitti sociali, i paesi nordici erano ancora completamente invischiati in un tardo Romanticismo, in cui idealizzava la vita nella campagna, la vita familiare, e un mondo che non era più quello contemporaneo. Per questo, Brandes invitò gli scrittori nordici a intraprendere una sorta di rottura rispetto alla tradizione che poi nella critica venne riconosciuta come la Breccia nordica. Brandes disse che lo scrittore si doveva preoccupare di trattare della vita quotidiana, e che quindi doveva parlare della situazione femminile, della vita di coppia, del matrimonio, del proletariato e sociale, della pervasività della religione (ancora oggi i cittadini scandinavi pagano una tassa per il mantenimento del clero, che in Italia è volontaria mentre in Scandinavia no), insomma trattare i grandi temi del Naturalismo. L’idea di Georg Brandes fu 15 Per il mondo femminile, invece, non è concepita l’opportunità di conoscere il piacere sessuale prima del matrimonio. Da qui, la necessità dell’esperienza maschile in campo sessuale. Per la donna poi non vale lo stesso discorso anagrafico che vale per gli uomini, e si sposa molto prima rispetto all’uomo (già ventenne genericamente, anche prima a volte). Quindi, nella famiglia borghese c’è un divario generazionale abbastanza importante; sono i ruoli che sono diversi: l’uomo deve mantenere la famiglia, mentre la donna deve procreare e gestire la casa. Questo quadro di Gustav Wentzel a sx rappresenta ancora una volta una scena borghese di una donna che lavora l’uncinetto: mansioni della donna, la donna borghese non può lavorare (questo è stato uno dei problemi legati alla messa in scena del matrimonio in Casa di Bambola); Wentzel, La colazione (1885; a dx): tenda dischiusa, un po’ aperta, che fa vedere il mondo di fuori, ma tra il mondo di fuori e quello di dentro c’è un intermediario duplice => da un lato la donna, dall’altro lato altri due due uomini che stanno leggendo (uno di loro legge il giornale = mondo di fuori); quindi, la lettura come strumento della conoscenza, è affidato agli uomini. Ciò significa che quello che si deve sapere di politica, economia, società, passa attraverso il filtro maschile. In più, la figura femminile della bambina in primo piano, con il suo gesto è come se volesse chiudere il cerchio delle persone sedute come a dare un senso di unità. Questo vuol dire che lei, seppur fanciulla, è già destinata al suo ruolo sociale, ovvero quello di tenere unita la famiglia. Questo atteggiamento di inglobazione e di unione familiare dura addirittura fino agli inizi del Novecento. Ad esempio, lo scultore norvegese del secolo scorso Gustav Vigeland, a cui è dedicato un intero parco a Oslo pieno di sue sculture, crea le sue opere rappresentando delle figure dell’ambito familiare che si ritrovano sempre abbracciate = in Vigeland prevale ancora l’idea di unità familiare. Donna = pilastro della famiglia; Uomo = porta l’esterno all’interno, ed è mediatore tra il fuori e il dentro; 16 Allo stesso tempo, la figura femminile è indispensabile per l’uomo. Lo scapolo deriso di Ferdinand Fagerlin è utile per comprendere questo concetto, perchè ci fa vedere una situazione seppur in contesto popolano condivisa anche dalle classi sociali superiori: l’uomo nel quadro è intento a cucire un tessuto, dei pantaloni, e le due ragazze che entrano si mettono a ridere di lui. Questo quadro ci fa vedere questo quadro una condizione che non è gradita alla società del tempo: ognuno nella società ha il ruolo e i compiti che è stato deciso per lui e lei. Il matrimonio, che lo scapolo del quadro non ha stretto, è qualcosa che manca, e non si deve pensare il matrimonio che sia un legame primariamente affettivo, ma è in prima battuta una soluzione economica e una vetrina nei confronti della società. Edvard Munch, Pubertà (1893): nel quadro è rappresentata la difesa della verginità femminile, un quadro perturbante, che non dà serenità, in quanto ci mostra una ragazzina all’inizio della sua pubertà (ha il seno appena accennato, di una ragazzina che è appena uscita dall’infanzia e si sta affacciando verso l’età adulta, atteggiamento pudico con cui copre i genitali). Ma cos’è inquietante di questo quadro? La luce ci fornisce la risposta: la luce del quadro arriva da davanti, è diretta, e ciò vuol dire che quella dietro la ragazza non è la sua ombra => è un qualcosa di inquietante che sta succedendo in questa stanza => una presenza; un uomo? Un seduttore? Non lo sappiamo, ed è questo il gioco di Munch, ossia lasciare lo spettatore nel dubbio rispetto a ciò che potrebbe succedere. Quello che se ne ricava è un’inquietudine messa in gioco da una possibile sessualità precoce della ragazza che va fermata. Se non c’è l’uomo, un protettore, la donna è in pericolo, perché secondo la mentalità del tempo essa non è in grado di gestire sé stessa, ha bisogno della figura maschile; la donna non può avere un conto bancario, non può firmare cambiali, occorre sempre una figura maschile . 17 Il quadro che mostriamo, dipinto dal danese Vilhelm Hammershøy, è paradigmatico degli ambiti che sceglie di rappresentare: ambienti di interni di case borghesi in cui le donne sono pressoché sempre rappresentate di spalle, quasi a volerci dire dell’insicurezza in cui si trova la donna in una condizione di non protezione, la quale potrebbe essere aggredita da un momento all’altro. Altro quadro di Hammershøy in cui la donna è rappresentata alla finestra; questo significa che la donna può solo adocchiare la vita del mondo esterno senza potervi partecipare. La tenda è elemento importante, essendo un framezzo che divide il dentro dal fuori. Inoltre, è importante sottolineare che, nei quadri del pittore danese con questi soggetti, le finestre sono sempre chiuse. Hammershøy, però, ci è anche utile se vogliamo osservare l’altro lato della medaglia. In questo quadro si ha una persona in un giardino, fuori da una porta-finestra aperta = è un uomo, che sembra quasi far da guardia all’ingresso della casa. 20 Norske Theater di Bergen si mettessero in scena solo testi teatrali norvegesi. Ibsen cominciò perciò a scrivere testi, ma il suo primo vero successo fu Festa a Solhaug del 1856, messo in scena poi anche nella capitale. Due anni dopo, nel ’58, si sposò con Suzannah Thoresen, e dalla loro relazione nacque il figlio Sigurd, il quale fu importante nella vita politica norvegese in quanto promotore dell’indipendenza norvegese e parte del nuovo Regno di Norvegia. Grazie al successo del ’56, nel 1857 Ibsen volle poi in seguito rescindere il contratto con il teatro di Bergen, diventando direttore del Norske Theater di Kristiania. È proprio in quell’anno che Ibsen iniziò a essere rappresentato al di fuori della Norvegia, dapprima chiaramente nei paesi scandinavi. Che tipo di opere mette in scena Ibsen? Soprattutto dei drammi e delle tragedie storiche, prendendo spunto da episodi della storia e delle leggende norvegesi costruendoci dei testi teatrali, proprio su quella scia romantica nazionalista; la critica successiva e attuale considera queste opere dei testi molto noiosi e poco rappresentate, proprio perché rappresentano questo spirito di recupero nazionalistico e tardo romantico, però nelle figure di queste opere vi sono degli spunti che si ritrovano nel periodo successivo, ossia figure femminili che inneggiano alla libertà o figure femminili che non vogliono essere sottoposte alla figura maschile. Nel 1862 il Norske Theater di Kristiania fallisce, ed Ibsen che è il direttore è chiamato in causa a coprire i debiti, e perciò anche le sue cose vanno all’asta per pagare i debiti. Proprio per questa caduta e per questa disgrazia di questi tempi difficili, nel 1864 decide di lasciare la Norvegia e di trasferirsi in Italia; una scelta un po’ governata anche dalla moglie, giacché la vita costa(va) meno. Nel 1864 inizia perciò una sorta di auto-esilio che durerà ben 27 anni con sporadiche visite in madre patria, anni durante i quali arriverà anche in Germania per l’università del figlio. I tre luoghi che Ibsen predilige sono tutti fra centro e sud Italia: Capri, il Sorrento e Roma. Un brano di una lettera di Ibsen: ‹‹ […] Sugli alti monti le nuvole pendevano come vaste cortine finché ci trovammo di colpo a Miramare [che per lui è una sorta di visione del Mediterraneo], dove una bellezza meridionale, un bagliore singolarmente lucente e brillante come bianco marmo mi apparve d’un tratto ed impresse un suo segno sulla mia letteratura futura. La sensazione di essere fuggito dalla tenebra alla luce, dalle nebbie lungo una galleria verso il sole. […] ›› Quando arriva in Italia, il parlamento norvegese gli dà una sorta di sostegno economico, ma dagli anni Settanta le sue opere iniziano ad essere tradotte anche in tedesco, aka più fama. Ma qual è il sentimento di Ibsen nei confronti della sua madrepatria? Scopriamolo leggendo un altro spezzone di una sua lettera del ’74 dove racconta di un suo viaggio di visita in Norvegia: ‹‹ […] Sentii una stretta sul petto, insieme d’angoscia e di nausea, sensazione che durò per tutto il mio soggiorno. Non ero più me stesso fra quegli occhi norvegesi gelidi e senza comprensione, alle finestre e per strada. […] ›› Si sente soffocare in Norvegia. Ibsen dice che i fiordi stessi della Norvegia gli danno un’idea dell’acqua immota, ferma e chiusa, come se fosse un luogo dove non succede nulla. Per questo, nonostante diventerà un drammaturgo di successo, comunque per trent’anni (tra il ’64 e il ‘94) fu in auto-esilio. Quindi, tutti i grandi drammi borghesi di Ibsen (Casa di bambola, Spettri, Hedda Gabler, il suo Brand ecc.) sono stati composti e scritti in Italia. Negli anni Settanta, Ibsen è in contatto con la comunità scandinava di Roma, ma vive culturalmente isolato. Frequenta la Biblioteca scandinava di Roma, che era una sorta di luogo di ritrovo, e nel centro scandinavo prenderà una posizione molto netta e forte a favore di una donna che aveva fatto 21 domanda per diventare bibliotecaria del circolo, cosa considerata inaudita dai maschi del circolo. Ibsen ne prese le difese e sostenne la sua candidatura. Non possiamo però definire Ibsen uno scrittore femminista; non è l’emancipazione femminile in quanto tale che sta al centro dell’opera ibseniana, e questo lo capiamo benissimo dall’opera che lui scrive tra il ‘78 e il ‘79 che è Casa di bambola, suo successo mondiale. Pensiamo che Casa di bambola viene rappresentato in Italia per la prima volta solo nel 1891, perché Eleonora Duse pretende di recitare la parte della protagonista Nora. Da dove trae ispirazione Ibsen per i suoi drammi? Ci facciamo questa domanda in quanto, nonostante Ibsen abbia vissuto in Italia per gran parte del suo periodo di produzione letteraria, tutti i suoi drammi sono di ispirazione norvegese, e lui scrive sempre in norvegese; non c’è nessun interesse per ciò che succede al di fuori della Norvegia, l’autore è assolutamente impermeabile rispetto ad ogni altra cosa che non riguardi la sua madrepatria. Ibsen stesso dichiarerà che aveva solamente due letture: la Bibbia e i quotidiani norvegesi; ovviamente non è vero, però è palese il significato di questo => la Bibbia perché secondo lui contiene già tutti i drammi umani esistenziali, tutte le tipologie di carattere che possono essere messe in scena, e i quotidiani perché offrono spunto per le notizie di cronaca. È proprio da una di queste notizie che Ibsen prende spunto: Ibsen viene a sapere che una donna di nome Laura Kieler sposata a un professore universitario danese malato di tubercolosi è informata dai medici che l’unica maniera per far guarire il consorte è far un viaggio nel Meridione, nel sud Europa; per potersi permettere questo viaggio, la Kieler contrae segretamente un debito per un prestito (Ricordiamo che le donne non potevano contrarre nessun tipo di debito e compiere alcun tipo di affare). La Kieler era una scrittrice che Ibsen aveva anche conosciuto, che lui peraltro chiamava “allodoletta” e con cui aveva una corrispondenza, e intendeva pagare questo debito con gli introiti della sua scrittura. A seguito di questo viaggio al Sud, il marito della Kieler guarisce; tuttavia, lei non riesce a pagare il debito, e quindi falsifica una cambiale, firmando con il nome del marito (perché una donna chiaramente non poteva). Il marito scopre tutto, e ovviamente lui la caccia e le sottrae i figli. Questo è lo spunto che Ibsen prende per comporre Casa di bambola. Casa di bambola (1879) Il personaggio principale è Nora e la vicenda è più o meno analoga a quella di Laura Kieler. Anche in questo caso c’è un viaggio al Sud per guarire il marito, e anche qui Nora firma una cambiale con il nome del padre (anche se c’era un problema di date, dal momento che il padre era morto prima di quando sarebbe stata firmata la cambiale). Nora tiene nascosta la cosa al marito, e a questo punto cerca di pagare il debito lavorando in casa e facendo la scrivana di indirizzi. Nora riesce poi a pagare il debito; tuttavia, il debito era stato contratto con un uomo che lavorava nella banca di cui il marito è diventato direttore, e l’uomo la ricatta, in quanto il marito lo ha licenziato. Inizia perciò questo climax ascendente che culminerà nella scoperta da parte del marito di quello che Nora aveva fatto. L’atteggiamento del marito, Thorvald, è esattamente identico a quello del marito della Kieler: non è grato nei confronti della moglie perché lo ha salvato, invece la accusa pesantissimamente di aver portato discredito sulla casa, sulla famiglia, su sé stesso. Però, a un certo punto, cambiano le carte in tavola: il ricattatore è convinto da un’amica di Nora con cui lui poi si unirà a lasciar perdere la questione e iniziare una nuova vita; il ricattatore, quindi, spedisce una seconda lettera a casa di Nora e Thorvald in cui mette dentro la cambiale e dove dice di dimenticare tutto, liberando Nora da questo incubo. Thorvald è quindi al settimo cielo, ma non perché Nora è salva, quanto perché lo sia l’onore della famiglia. Nora, perciò, prende una decisione: abbandonare il marito e andarsene in cerca della sua vera identità, della strada attraverso la quale educare finalmente sé stessa; 22 comprende la necessità di amarsi, di adempiere ai compiti e ai doveri vero sé stessa, al di là dei miserabili lacci della società, ed esce dalla porta sbattendola, con un tonfo che è anche il tonfo assordante della necessità di auto-determinazione, della affermazione della dignità di essere umano, nonché di ribellione volta a vincere la condizione di subalternità, si chiude anche l’opera. 06/10/2021 Nora fino all’ultimo ha creduto che Thorvald sarebbe stato quello che la avrebbe accolta in ogni caso, mentre invece la ha ostracizzata in quanto donna disonorevole in primo luogo, e poi ha pensato solamente alla sua onorabilità. Nora capisce che non era un matrimonio come doveva esserlo, e decide perciò di andarsene, non sapendo neanche cosa fare nell’indomani, ma sottolineiamo quanto radicale sia la scelta di Nora. Questa scelta non è tanto una scelta di emancipazione femminile, non è principalmente una rivendicazione della donna nella società in quanto donna (non è ciò che preme di più ad Ibsen), ma è invece quello che veramente è al centro dei testi ibseniani soprattutto nei personaggi femminili: la ricerca di libertà, ossia poter essere ciò che si vuole essere e di poter scegliere. La libertà potrebbe anche essere quella di stare dentro a un matrimonio in cui si accudisce ai figli e nient’altro; la questione è una questione di scelta che dev’essere personale, autonoma, ed è quello che mette in campo Ibsen in Casa di bambola. Appunti di lavoro di Ibsen del ‘78, mentre sta congegnando il testo teatrale: ‹‹ […] Una donna non può essere sé stessa nella società attuale, che è unicamente una società maschile con leggi scritte dall’uomo e con giudici sentenze che giudicano la donna da un punto di vista maschile. Lei ha commesso il falso, e questo è il suo vanto: lo ha fatto per amore di suo marito, per salvargli la vita, ma quest’uomo è radicato con tutta la sua onestà di uomo nel terreno della legge, e vede la cosa con occhi da uomo. Lotta di anime, pressata e confusa dal rispetto dell’autorità, perde la fede nel suo diritto morale e nella capacità di educare i figli. Una madre nella società attuale è simile a certi insetti che si estenuano e muoiono quando hanno compiuto il loro dovere per la riproduzione della specie […] Deve sopportare tutto da sola; la catastrofe si avvicina, inesorabile, ineluttabile. Disperazione, lotta e rovina. E poi c’è la libertà, che è invece il grande salto che Nora compie. […] ›› La simpatia del drammaturgo nei confronti dei personaggi che crea: non è tanto la questione di creare dei personaggi simpatici o antipatici. Ibsen, perlomeno nella seconda parte della sua produzione teatrale (quella dei drammi borghesi), mette in scena quello che si potrebbe definire un teatro di tipo naturalistico. L’ambientazione è sempre borghese, ed è vista come attraverso una macchina cinematografica. Ibsen non prende posizione nei confronti di un personaggio o dell’altro, ma fotografa e registra semplicemente gli eventi, e questo lo sappiamo anche dalla tipologia della recitazione che viene messa in atto, cioè quella proprio del teatro borghese, che si contrappone a quella che è propria del teatro classico. Un esempio di teatro classico è il teatro di Shakespeare, in cui gli attori recitano in piedi e sono pensati per recitare in piedi, perciò devono “declamare”; nella declamazione c’è anche spesso una presa di posizione, ci sono lunghi monologhi attraverso i quali si scava nell’interiorità del personaggio in cui anche il drammaturgo ci dà un’idea del malvagio o del buono (es. Riccardo III in Shakespeare). Il teatro di Ibsen è invece un teatro anticlassico, ossia un teatro che si recita da seduti sui divani o sulle sedie, e quindi un teatro di “continuo dialogo”; non ci sono spazi per i monologhi; anche nel punto centrale (che sarebbe il finale) di Casa di bambola, il discorso di Nora è continuamente interrotto da Thorvald, perché sarebbe innaturale un 25 di prigione dorata per Maja, da cui è difficile scappare. Rubek ci dice che Maja si è elevata di condizione sociale grazie al matrimonio (e questo forse spiega anche la differenza di età). Nelle battute tra Rubek e Maja sul cambiamento in lei che lui presume, Rubek dice che anche i norvegesi sono cambiati e non in meglio = in questo c’è un po’ Ibsen, andando all’estero e poi tornando in madrepatria. Ciò che ha colpito di più Maja del viaggio è stato il silenzio, il silenzio delle stazioni dove arrivavano, e il silenzio è paragonabile alla morte, e non avvicinabile alla vita come invece suggerirebbe il nome che la donna porta. Subito dopo, Rubek dice alla moglie vuol aspettare fino all’indomani, per poter fare una visita in battello sulla costa fino al mar glaciale => c’è una spinta estrema, nella ricerca del Sublime. Lei però immediatamente risponde che così non farà quello che voleva (rivedere il paese, conoscere come vive la gente), e lo accusa di essere diventato scontroso, strano, non ha più voglia di lavorare e di scolpire. Dopo aver completato il suo capolavoro, dal titolo “Il giorno della Resurrezione”, Maja ci informa che Rubek non ha più fatto molto (Rubek si sente incompreso dal pubblico), dicendo che scolpisce dei busti ogni tanto quando ne ha voglia. I busti, in quanto raffigurazioni di persone ben precise, sono lavori su committenza che vengono ordinati da ricchi allo scultore di successo. Rubek, però, ci dice che non si tratta di semplici busti da 26 ammirare per la loro rassomiglianza con il volto a cui si ispirano, ma tira fuori l’ambito dell’animalesco, dicendo che in realtà quei busti sono “rispettabili e oneste teste di cavalle, musi di asine, crani di stupide capre […] anche flaccide mammelle di vacca qualche volta” (notare come abbia citato solo animali di sesso femminile); nelle donne di cui scolpisce il busto, Rubek vede solo la bestialità. “Sì, cara Maja, proprio tutte quelle donne bestie che l’uomo ha rovinato ad immagine sua e che a loro volta hanno rovinato gli uomini”: il male che un uomo può fare a una donna è circuirla sessualmente, farne una amante, abusarne, mentre una donna per rovinare un uomo può essere semplicemente una femme fatale, che sarebbe quella donna che nelle opere ottocentesche circuisce l’uomo per il proprio piacere e soprattutto per farsi mantenere; nella femme fatale c’è sempre qualcosa di marcio, di impuro (per esempio, può avere un fiore sul petto sopra il vestito che inizia ad appassire, o magari ha la pelle grigiastra ecc.), che rappresenta la corruzione interiore; la femme fatale è colei che porta alla disperazione l’uomo perché lo prosciuga per poi gettarlo alle ortiche quando non le serve più, passando a un altro uomo. Nella descrizione che Rubek fa, quindi, ci sono tutte quelle facce “malate” della società, il marcio di essa. Rubek subito dopo parla di una sua infelicità interiore subito dopo, e ci dice che esternamente si può avere tutto, ma in questi busti dice di rappresentare il malessere di vivere interiore; l’esteriore che sarebbe perfetto è invece caratterizzato da un’interiorità devastata e bestiale. Maja ricorda che lui le avrebbe fatto una promessa nel giorno in cui si misero d’accordo per il matrimonio, dopo essersi messi d’accordo sempre di viaggiare insieme all’estero, facendo fare a lei una vita da signora. Rubek ricorda che per Maja il matrimonio era un passo gravoso, difficile (abbiamo già visto di come sia “scappata” dalla casa per andare in viaggio nei fiordi norvegesi), dimostrando di essere quindi non pienamente convinta dell’istituzione matrimoniale più che dell’uomo. Maja tira quindi fuori la promessa del “mi dovevi fa’ sali’ sun altissimo monte” per mostrarle tutte le meraviglie della terra = sublimazione dello spirito; Rubek non ricorda inizialmente, e dopo aver sentito lei che gli rammenta la promessa lui si chiede se quindi egli avesse fatto ANCHE A LEI questa promessa (mhh something’s sketchy) => è anche un gioco drammaturgico, proprio per richiamare l’attenzione dello spettatore sulla scena. Lui dice: Dicendo questa cosa a Maja è come se Rubek la considerasse una bambina, incapace di intendere e di volere. Ma non è tutto qua; ciò che Rubek dice in seguito è ancora più sconvolgente per Maja: L’elevazione che Rubek aveva promesso a Maja non era solo sociale, ma anche spirituale, e sebbene la prima che è stata promessa si è realizzata la seconda invece no, anzi, l’uomo considera Maja un’incapace di potersi elevare spiritualmente. 27 Due figure femminili, vestite in modo completamente diverso: una è una forestiera, che dà l’idea di esotico, vestita con un abito color crema estivo, e con lei c’è una diaconessa (una sorta di suore laiche; è una religiosa insomma) vestita di scuro. La prima donna, con il viso pallido, lineamenti irrigiditi come il marmo, gli occhi sembra non abbiano pupille => questa figura femminile sembra una statua, è al pari di una statua. L’altra donna, invece, contrasta il bianco della prima con i suoi occhi bruni, e soprattutto ha degli occhi che hanno vita (a differenza della prima), che però hanno vita perché controllano cosa fa la “donna bianca” (= la figura di questa seconda donna è un po’ strana). Una “unica modella” = Ibsen ci fa intuire che siamo di fronte quasiad una musa ispiratrice, quello che Maja non è per lui. Il discorso viene lasciato in sospeso, e a questo punto Ibsen introduce l’ultimo personaggio tra i quattro principali, Ulfheim: è un po’ un selvaggio, il cacciatore (capelli arruffato, parla più alle bestie che agli uomini); quanto è animalesco si vede subito, in quanto dà ordine al suo servo di preparare ossa fresche e con pochissima carne attorno, dicendogli che devono essere crude e grondanti di sangue. Ancora dopo, in un dialogo, Maja gli chiede se è davvero un cacciatore di orsi, e Ulfheim risponde che la sua caccia preferita è sì quella degli orsi, ma quello che è importante è che le prede abbiano carni fresche, succose e piene di sangue; però, Ulfheim, nella lista di animali che caccia, ci mette ANCHE LE DONNE in mezzo alla selvaggina, che diventano degli esseri da spolpare. Sulla scena, quindi, abbiamo due uomini che sono completamente diversi: Rubek, quello che prometteva di mostrare a Maja le meraviglie, le ascensioni, il bello della vita, mentre Ulfheim è un uomo di una concretezza e felinità assoluta; forse è più bestia Ulfheim delle bestie che va a cacciare. 30 testo ci viene rivelato che fu Irene ad abbandonare Rubek "non lasciando nessuna traccia di sé", rendendo così impossibile per lui ritrovarla. Irene non vuol dare spiegazioni ora che è "morta", e Rubek le chiede se amasse un altro uomo (= certezza che ci fosse una relazione amorosa tra i due); Irene risponde che ha amato un solo uomo nella sua vita, un uomo che a un certo punto non ha più avuto bisogno di lei (= Rubek), motivo del suo abbandono. Rubek vuol cambiare argomento e chiede a Irene dov'è stata in tutto questo tempo, e lei risponde che "è stata nelle tenebre" dopo che "la creatura è entrata nell'aureola della gloria", dicendo poi che è stata a far mostra del suo corpo nei "teatri di varietà" = un abbassamento incredibile; al tempo, nei teatri di varietà, oltre alle più numerose tipologie di performance che vi venivano eseguite, c'erano anche i cosiddetti "quadri viventi" (i tableau vivant) , ossia persone in carne e ossa che posavano rappresentando col proprio corpo un determinato quadro; il genere di quadri che venivano rappresentati non erano certo le conversazioni sacre, ma quell'arte con soggetti "peccaminosi" (la Maya desnuda ad es.), che erano un modo per gli astanti di soddisfare i propri appetiti tramite la mostra delle parti del corpo da parte degli attori/attrici, soprattutto femminili. Irene qui ci fa intuire che si sia messa (semi)nuda ma non per scopo artistico, quindi per un obiettivo ben diverso rispetto a quello che aveva fare la stessa cosa con Rubek. "Sono riuscita a far impazzire molti uomini" -> Irene ha quindi coperto anche il ruolo di femme fatale, portando gli uomini con cui andava sull'orlo della follia (e anche oltre); Irene dice a Rubek che fare impazzire gli uomini la faceva divertire moltissimo, tanto che il primo marito sudamericano che aveva si era addirittura suicidato, mentre il suo secondo marito russo l'ha addirittura ucciso con un pugnale, e ha abortito di molti i figli che ha mai concepito, mentre gli altri li ha uccisi subito dopo la nascita. Rubek: Credo di essere l'unico uomo che possa comprendere il senso delle tue parole. Irene: È possibile! Rubek: (appoggiandosi con entrambe le mani al tavolo e scrutando profondamente negli occhi Irene) Vi sono in te delle corde spezzate, Irene! Irene: Questo succede ogni volta che muore una giovane donna nelle cui vene circola un sangue caldo. Queste metafore di caldo, giovinezza = vita e freddezza = morte > Irene non è più quella giovane dal "sangue caldo", ed è per questo che ci sta dicendo che è morta. Tutte le sue affermazioni denotano una donna che ha voluto autopunirsi e punire gli uomini che ha avuto con le azioni compiute. "Pareti imbottite" = la pazzia che affligge Irene, che è stata internata in un manicomio, è una pazzia isterica, e ce lo racconta tramite la metafora della morte sopraggiunta da molti anni, a cui è seguito un miglioramento, un recupero, che lei racconta come un "ritorno dal mondo dei morti". Rubek: Credi che tutto ciò sia accaduto per colpa mia? Irene: Sì. Rubek: Anche quello... che tu chiami la tua morte? Irene: Sì, è colpa tua se io ho dovuto morire. (con tono indifferente) Perché resti in piedi, Arnold? Rubek: Posso sedermi? Irene: Siedi pure! Non gelerai... non aver paura! Il mio corpo, credo, non s'è ancora trasformato in una statua di ghiaccio. Rubek: (si avvicina con una sedia al tavolo e si siede) Eccomi qui, Irene. Ora siamo seduti uno vicino all'altra, come allora. Irene: Ma fra noi due c'è sempre una certa distanza che ci separa, proprio come allora. 31 Considerazione su un confronto tra Når vi døde vågner e The Shape of Things (film di N. LaBute, 2003): Nel primo caso, è l'uomo ad essere l'artista e a svuotare la donna, rimodellandola e distruggendola, ma non in poca misura inconsciamente, mentre Irene mostra di avere un'idea molto chiara di quali siano state le cause della sua "morte"; nel secondo caso, è la donna l'artista, che invece è conscia di qualsiasi cosa stia facendo all'uomo vittima della sua arte; in entrambi i casi, però, non si può dire che non sia l'arte il fine ultimo del rapporto tra due esseri. Esistono due belle differenze però: in Når vi døde vågner, la donna è solo la modella e, soprattutto, la musa, e non l'opera d'arte totale in questione, come invece accade in The Shape of Things, che non ha una vera e propria "musa" tra i personaggi. Resta comunque interessante quale sia la modalità d'azione dell'artista in entrambi dramma e film: Rubek non osa toccare con un fiore Irene, per paura di interrompere l'interconnessione che gli permette di creare, mentre Evelyn non ha freni inibitori con Adam, e si spinge molto oltre all'interno del loro rapporto. Inoltre, in entrambi film e dramma, tutte e due le figure femminili tendono all'atto sessuale/amoroso nei confronti del partner uomo, artista o "blocco di marmo che sia", che diventa in entrambi i casi uno strumento o una via che potenzialmente può causare dolore alla controparte maschile. Non ci è ancora stato detto il motivo della rottura tra i due, ma ora, nonostante sembri sia stato un rapporto felice, c'è l'insinuazione di una diversità che era presente nella loro relazione, una alterità che permase fino al momento del nuovo incontro. La parola "distanza" viene rimarcata in questo punto del dialogo. Poco più avanti, viene fuori che Irene era la modella di Rubek. Alla più recente "esibizione" per i tableau vivant che costituisce un abbassamento per Irene, si contrappone il meno recente impiego del suo corpo nudo come modella di Arnold Rubek. Viene poi fuori il motivo dell'abbandono di Irene nei confronti di Rubek, con Irene che dice poi che lui l'ha offesa. Come? Non sfiorandola mai con un dito, mai toccandola, come lei avrebbe voluto. Dalle parole che usa, Irene si era spesa totalmente per Rubek; probabilmente, lei non cercava soltanto un rapporto professionale di modella, ma forse qualcosa di più. Rubek comunque le risponde che il desiderio nei confronti della donna era ed è presente, e Irene dice che, anche se lui l'avesse toccata, probabilmente lei lo avrebbe ucciso con quel pugnale che nascondeva sempre con lei; tuttavia, lei non riesce a comprendere come mai Rubek non lo abbia mai fatto. 32 Cominciamo a mettere insieme tutti i pezzi del puzzle: si tratta di una relazione non consumata tra i due, perché per Rubek è più importante la sua relazione con l'opera d'arte che sta creando piuttosto che quella con Irene. Rubek persegue la creazione capolavoro, e perciò per lui Irene è una sorta di musa ispiratrice, ma Irene non cerca (solo) questo, e vuole anche una relazione umana e appagante che Rubek non le dà. Il soggetto della "giovane donna che si desta dal sonno della morte" è speculare a Irene e alla sua situazione del momento, dicendo ella di essere la giovane donna che è morta, e la risorta doveva essere la donna più pura e ideale della terra; appunto, la musa, intoccabile e irraggiungibile. La musa è fatta anche di sacralità, ed è questa la ragione per cui Rubek non ha mai sfiorato Irene: proprio perché essendo la sua "sacra musa", oggetto di ispirazione artistica idolatrato da Rubek, l'artista aveva paura che entrando in contatto fisico con Irene tutti i suoi pensieri sarebbero stati profanati => sublimazione della figura femminile di Irene che diventa l'essere intoccabile, quasi sacro, che se fosse stato corrotto con le passioni umani, a detta di Rubek, non gli avrebbe più permesso di raggiungere il risultato artistico che lui si era prefissato. Rubek utilizza nei confronti di Irene anche un lessico praticamente mariano ("creatura benedetta", "immacolata" ecc.). Rubek, oltre a rimarcare allo spettatore/lettore che dopo la creazione con Irene come modella non è più riuscito a produrre niente di valore, commenta poi anche il suo rapporto con la moglie Maja, dicendo che lei gli "toglie il respiro": mentre Irene è colei che porta verso l'alto e l'innalzamento, Maja è una donna che lo fa soffocare, ed è quindi una "anti-musa", esattamente ciò che Irene non era. Mani giunte > posizione orante, ma è anche molto spesso la posizione che assume la figura sacra; Irene nella sua sacralità sta invitando Rubek ad andare in alto (innalzamento). L'azione di Irene, quella di essere una musa, ha svuotato Irene stessa, e quindi si sente morta, ed è questo il motivo della sua dipartita da Arnold: il momento in cui capisce che non può più resistere ad un uomo che la vede solo come musa e non come donna, esaurendo la sua funzione nei confronti di Arnold Rubek. Nel momento in cui il legame tra musa e artista si rompe, Rubek è adagiato sugli allori senza più produrre nulla, e quindi non è tanto l'artista che vuole dare l'opera d'arte perché deve venire fuori da sé, e con questa opera vuole appagare e rendere felice gli altri (una delle funzioni dell'artista; e lo vedremo ne Il pranzo di Babette di Karen Blixen); Rubek persegue il successo, ma questo successo arriva solo perché è infervorato da questa donna che lo ispira alla creazione artistica. Il centro di questo dramma sono le relazioni degli esseri umani tra di loro e con il mondo, in cui si insinua anche il rapporto con la creazione artistica. 35 sono in prigione” → Vediamo la dimensione della vita borghese a cui Maja a un certo punto si era piegata, da cui alla fine la donna riesce a liberarsi; in queste battute si ritrova il tema centrale dell’opera ibseniana, ossia, la libertà da tutte quelle sovrastrutture sociali e non che incatenano l’individuo in una spirale di sofferenza che lo tengono lontano dalla vera esistenza. I due ex-coniugi vanno così ognuno per la propria strada, che è quella che si palesa proprio alla fine dell’atto quando di nuovo interviene un dialogo tra Rubek e Irene, con la loro salita sui monti come argomento: Irene: Sì, verrò di certo! Rubek: Verrai, Irene? Irene: Sì. Passare una notte d’estate sui monti… e con te, con te! Rubek: (i suoi occhi si incontrano con quelli di Irene) Oh, Irene… questa doveva essere la nostra vita, e noi due ce la siamo lasciati sfuggire dalle mani… Irene: Noi ci accorgiamo dell’irreparabile soltanto quando noi morti ci destiamo. (= quando noi che abbiamo fatto delle scelte, noi morti ci ridestiamo, e quindi c’è una sorta di rimpianto per quella vita che invece avremmo potuto vivere insieme) E di cosa ci accorgiamo… di non avere mai vissuto. III ATTO: Questo atto, molto più breve dei due precedenti, è una sorta di chiusura delle due storie, quella di Maja e Ulfheim e quella di Rubek e Irene, delle due nuove coppie che si sono formate. A questo punto siamo sempre in un terreno di montagna: Notiamo il movimento: la coppia sta scendendo dall’alto verso il basso; qui c’è un dialogo che inizia in cui ancora una volta viene fuori questo tratto “animalesco” di Ulfheim (riscontrato anche nel lessico utilizzato). 36 Questo gioco di lasciarsi/prendere (è la stessa Maja che ha voluto andare con Ulfheim) è quasi il gioco tra cacciatore e preda, in cui Maja diventa una preda che però non è ignara, è consapevole di questo uomo. Questo dialogo ha un punto di apice, centrale, quando, poco dopo, Maja dice ad Ulfheim che “assomiglia a un fauno […] i fauni sono una specie di diavoli dei boschi” → il fauno è un essere che era molto in voga nell’epoca del Simbolismo (basti ricordare il poema Il pomeriggio di un fauno di Mallarmé); il fauno è un essere antropomorfo con caratteristiche animalesche, che rappresenta la natura nel suo elemento più selvaggio. È proprio questo che noi ritroviamo nel testo ibseniano: Ulfheim viene immaginato come un fauno, quindi con questo aspetto ferino, selvaggio che viene rappresentato qui con le parole di Maja. Maja poi è invitata a raccontare la sua vita da Ulfheim: Maja è una fanciulla semplice di classe sociale popolare che si fa incantare da Rubek, che le promette grandi cose (come abbiamo anche visto nel primo atto), finendo ella per ritrovarsi in una prigione dorata, quest’ultima una sorta di leit motiv nell’opera ibseniana che ricorda Casa di bambola (il dialogo finale tra Nora e Torvald; la “casa di bambola” è la rappresentazione della situazione femminile alle dipendenze dell’uomo, il manovratore della “casetta”, colui che gioca con gli oggetti e le figure) = è una casa dove non c’è condivisione di obiettivi e scambio emotivo tra i due che la compongono. Dopo il racconto della vita di Maja, Ulfheim le 37 fa quindi una proposta: mettere insieme (letteralmente) la sua esistenza e quella di lei. Notiamo come lui lo fa: non sta invitando Maja a grandi cose, le sta proponendo invece di “cucire” quello che in due hanno e vedere se insieme funzionano. La loro non è un’unione che si pone obiettivi alti ed elevatissimi, piuttosto un’unione che vuole perseguire una visione molto realistica dell’esistenza, cioè un’unione che potrà funzionare come anche non potrà funzionare, stando a vedere quel che succederà. I due, a questo punto, nelle battute successive decidono di provare questa esperienza di coppia, e anche qui abbiamo un’indicazione di direzione: Anche queste battute vanno interpretate in maniera allegorica: la nebbia che cela, nasconde la vetta delle montagne è il rischio di andare in luoghi dell’esistenza che possono essere irraggiungibili e dove ci si può smarrire; quindi, è molto più sicuro andare verso il basso. Se non ci si dirige verso quelle alte cime che agognavano Rubek e Irene, si va invece nella vita della città, la vita degli uomini. Queste battute nascondono il futuro di questa coppia, la quale si mescolerà al resto dell’umanità, perlomeno provandoci: nonostante “il viottolo in basso” sembri molto pericoloso (la vita di coppia ha sempre dei pericoli, delle tensioni, può sempre presentarsi un problema), “la nebbia, che cala giù dai monti”, e quindi l’alto e il sublime, lo è ancora di più => non siamo fatti per quello, lo smarrimento è molto probabile. Mentre Maja e Ulfheim stanno dialogando in questa maniera, si muovono invece verso l’alto Irene e Rubek; due movimenti che si incrociano, e le due coppie finiscono per incontrarsi. Maja e Rubek si confrontano per l’ultima volta. Rubek: “Questa signora (Irene) ed io abbiamo deciso d’andare da oggi in poi sempre sullo stesso sentiero” → ancora la metafora del sentiero; solo che la nuova coppia va verso il basso per il viottolo, mentre Irene e Rubek vanno verso l’alto. Ulfheim mette questi ultimi due in guardia: Rubek ha riconquistato la fiducia nelle sue capacità artistiche e nell’esistenza altra/sublime che gli ha dato di nuovo Irene dopo averla incontrata. Ulfheim che gli addita la nube come “lenzuolo funebre” → là c’è la morte; Irene e Rubek però restano dove sono, mentre Ulfheim e Maja scendono. Irene: “A prenderci! No! No!” → la pazzia di Irene che sta tornando (gli uomini che l’avevano ingabbiata). Si scopre poi che la diaconessa nera con cui Irene era apparsa nel primo atto è una sorta di infermiera. Rubek la rincuora, e poi continua il dialogo; nelle ultime due pagine Rubek dice a Irene che il loro amore non è morto, rispetto a quando Irene diceva invece di essere morta. 40 • Irene: è la donna-musa, è la donna che, proprio per questo motivo, permette all’artista di concepire l’opera d’arte, di creare; ma Irene non vuole essere soltanto musa, vuole anche essere donna: ambisce alla sessualità, vuole uscire dalla gabbia di simbolo per essere invece una donna reale. Da questo possiamo osservare che, per entrambe Irene e Maja, Rubek costruisce delle gabbie: una gabbia borghese per la moglie Maja, una gabbia spirituale invece per Irene. Rubek toglie la vita a Irene, la riduce dapprima a simbolo della purezza intoccabile nell’opera di Rubek, e infine la figura di Irene retrocede nella composizione statuaria (viene svuotata anche di questo senso) e diventa solo la rappresentazione dello spirito dell’artista che non riesce a contrastare il mondo; viene svuotata anche della sua funzione iniziale. Irene si dichiara morta perché le è stata negata da Rubek la vita vera, ed è proprio per questo che, dopo aver abbandonato Rubek, riscende una china di abbassamento che dallo stato della purezza la porta all’essere una “donna oggetto”, una donna mortale che provoca anche la morte. • Rubek: può essere interpretato come un artista che si trova di fronte alla rimozione di un evento traumatico; è l’artista che ha rimosso qualcosa che gli è capitato di traumatico, ossia l’abbandono di Irene. Infatti, quello che lui racconta di ciò che ha fatto della statua, soprattutto nel secondo atto, è una sorta di richiamare con la mente cosciente ciò che fino a quel momento non aveva voluto riconoscere (all’inizio, Rubek non dice a Irene cosa aveva fatto della statua); deve ammettere che ha perso la fiducia nella purezza dell’esistenza. Per questo, la morte congiunta di Rubek e Irene significa allo stesso tempo due cose: da un lato, è il potere di un passato a cui non si può sfuggire (quello che continua a dirgli Irene con “noi siamo morti”), e allo stesso tempo è una sorta di catarsi, di liberazione dal passato, dalla frattura del passato. Il nome del personaggio di Rubek, inoltre, non è del tutto privo di riferimenti: Ibsen diceva di leggere solamente la Bibbia e i quotidiani, e da questi ultimi diceva di trarre ispirazione per le proprie storie, e anche qui per questo dramma non è diverso: Når vi døde vågner è del 1899, e probabilmente nel nome ‘Arnold Rubek’, “A.R.”, si nasconde (almeno nell’immaginario ibseniano) Auguste Rodin, lo scultore dell’incompiuta Porta dell’inferno (1880-1917; img a sx). Auguste Rodin era il più importante scultore francese di quegli anni, il più acclamato, il “grande scultore”. Rodin, al tempo, viveva con Camille Claudel, anch’essa una artista, che in una qualche maniera venne ostracizzata da Rodin (ella doveva contro suo proprio volere restare nell’ombra di Rodin, e questo la fece uscire di testa bao), tant’è che a un certo punto la Claudel, in preda a crisi isteriche, se ne va e lascia Rodin. Non è improbabile che Ibsen trasse ispirazione da questa coppia e dalla loro vicenda per disegnare le figure del suo ultimo dramma. In più, c’è un altro aspetto importante da considerare: Ibsen conosceva una tela di Edvard Munch, pittore norvegese, intitolata Donna in tre stadi (1893-5; img a pag seguente); quando Munch lesse il dramma di Ibsen, vi volle riconoscere le tre donne del suo quadro, e disse 41 che la figura scura femminile che sta fra i tronchi è la rappresentazione della diaconessa vestita di nero, che rappresenta l’ombra e la morte; la figura nuda di donna centrale, che ama la vita (lo si vede dalla femminilità esposta), è Maja, mentre la fanciulla luminosa che guarda verso il mare, colei che va verso l’infinito, colei che anela, è Irene; infine, c’è un uomo in disparte all’estrema destra, in sofferenza e incomprensione, che ovviamente potrebbe essere incanalato nella figura di Rubek. Non si sa davvero se Ibsen abbia immaginato il suo dramma sulla base di questo quadro, ma sicuramente lo conosceva: Munch era un pittore famoso e celebrato, e Ibsen, nonostante vivesse ai margini della vita norvegese, non ne era completamente escluso e conosceva i movimenti e i fermenti culturali che caratterizzavano l’attualità. Når vi døde vågner è un testo un po’ particolare, ha molto del Simbolismo, componente che la allontana dalle opere precedenti di Ibsen, in una chiave invece molto più naturalista e legate al dramma borghese come genere. Quello che comunque si palesa nei drammi ibseniani, perlomeno quelli della seconda parte, è un dato interessante su due piani: uno è quello della centralità della figura femminile, focus della riflessione drammatica di Ibsen (gli uomini sembrano quasi delle comparse di fronte alle donne); il secondo aspetto rilevante è che Ibsen è il cantore del mondo borghese, colui che lo esamina e lo giudica in maniera negativa: in Ibsen non c’è mai l’entità del popolo, è sempre assente il ceto inferiore se non preso e portato dentro un ambiente borghese (Maja stessa ne è la prova). L’opera del drammaturgo dal punto di vista della rappresentazione popolare si colloca in un Ottocento in cui, sì, c’è il Naturalismo, ma non un Naturalismo come si era sviluppato, ad es. in Francia o in Germania, in cui vi era proprio la denuncia sociale nei confronti della vita dei ceti popolari. In Ibsen manca questa componente, è pienamente un borghese, nonostante abbia anche lui avuto un vita complicata e difficile, soprattutto agli inizi (povertà, uscita dalla Norvegia ecc.). Un’ultima cosa da ricordare sui drammi di Ibsen è che le sue opere sono “profondamente norvegesi”; nonostante abbia scritto i suoi drammi più importanti e più rappresentati durante il suo auto-esilio, comunque è sempre la Norvegia il mondo che egli esibisce, a segnale di un legame ombelicale con la madrepatria che non si interruppe mai nel corso della sua vita intera. August Strindberg (1849-1912) La personalità di Strindberg non si può certamente ridurre alla misoginia per cui è conosciuto, ma è molto più complessa e caratterizzata da un'evoluzione poetica e letteraria molto più "incardinabile" rispetto a quella di Ibsen. Strindberg ebbe una produzione immensa ed estremamente varia realizzata nel corso della sua vita, che percorre la seconda metà dell'Ottocento fino a quasi le soglie dello scoppio del primo conflitto mondiale. August Strindberg nacque a Stoccolma, da padre commerciante borghese e dalla madre (che per lui ebbe una sorta di devozione) serva del padre, differenza sociale importante nella coppia. È anche per questa origine popolare nella madre che 42 Strindberg ebbe sempre un occhio di riguardo per il popolo e la vita popolare, tanto che ai funerali dell'autore nel 1912 fu il popolo a parteciparvi (dalle foto della cerimonia si possono vedere bandiere rosse dei movimenti operai socialisti), perché Strindberg venne percepito dalla classe sociale come una sorta di proprio paladino, anche se non lui non fosse un leader socialista. In tanti suoi scritti l'autore denunciò le condizioni sociali in cui si trovava la gente del suo tempo. Strindberg fece di Stoccolma il suo punto di partenza e d'arrivo; aveva anche un rifugio, una sorta di capanno su un'isola di Stoccolma in cui lui si recava per distaccarsi da tutti. L'autore si iscrisse all'università di Uppsala, ma si ritirò prima di completare gli studi. Già dalla giovinezza si poteva intravedere la sua vocazione al mondo del teatro e della recitazione, avendo cercato da giovani già di diventare attore. Non riuscì però, anche se il teatro fu sempre centrale nella sua esistenza artistica; infatti, è maggiormente conosciuto come drammaturgo, per i suoi testi teatrali, più che per opere di altro genere. Non riuscendo a far fortuna come attore, Strindberg prese in mano allora il giornalismo, lavorando anche come assistente alla Biblioteca Reale di Stoccolma. Fu anche traduttore, dall'inglese, e conosceva bene a che il francese, nonostante la sua lingua veicolare fu principalmente lo svedese. Nei suoi primi anni, Strindberg prese delle posizioni vicine a quelle di Søren Kierkegaard, filosofo danese, e a quelle di Georges Brandes; di questi due, assunse particolarmente le posizioni anti-clericali, caratterizzando così il suo pensiero critico contro la Chiesa ufficiale svedese, che giudicava opprimente nei confronti degli individui. Di questo lui parlò in un suo primo testo teatrale del 1872, Il maestro Olof, in cui mette in scena la tentata conversione al protestantesimo luterano da parte del pastore Olof; lo stesso Olof, però, si trova in una situazione di grande dubbio interiore, e vacilla tra spinte idealistiche e spinte scettiche in una sua crisi interiore. L'opera teatrale non fu un successo, e Strindberg ne ebbe un forte risentimento. Nel 1879 (anno di uscita di Casa di bambola) Strindberg scrisse un testo in prosa dal titolo Röda rummet (La stanza rossa): la "stanza rossa" dell'opera è l'ambiente di un grande caffè di Stoccolma in cui l'autore ambienta la vita di un gruppo di amici che conducono un'esistenza bohemienne, dibattendo delle "cose" di una vita che li deluderà profondamente, salvo uno dei protagonisti, Arvid Falk (personificazione stessa di Strindberg), che rimane disilluso dalla società borghese che non riesce a trovare lo spirito per rinnovarsi e cambiare. Falk si "appiattirà" all'esistenza borghese, tanto che diventerà un piccolo maestro di scuola ed entrerà a far parte di questa società così ferma sui propri principi stagnanti e nocivi. 18/10/2021 Più che per ogni altro scrittore/scrittrice protagonisti del corso, per Strindberg è difficile stabilire un confine fra ciò che è biografia e ciò che è arte; si potrebbe dire che la sua biografia rispecchia le opere che scrive e viceversa. Il maestro Olof non fu per Strindberg una grande fortuna, testo che per altro rimaneggerà più volte. Il più vero successo arriva con Röda rummet, un’opera che Strindberg vuole incanalare all’interno della corrente del Naturalismo. Per, quest’opera di particolare ha che a differenza del Naturalismo, vi sono altri aspetti che si allontanano da quella che è una delle caratteristiche essenziali del Naturalismo. Mentre il Naturalismo vuole essere una analisi asettica della realtà dei fatti e lo scrittore è solo trasmettitore di essa senza giudicare né dare pareri (un modus operandi di scrittura che si sposa spesso con una chiave di lettura di denuncia sociale; un grande esempio è Zola per la letteratura francese, molto interessato alla classe operaia e alla denuncia delle loro condizioni di vita), Strindberg in Röda rummet, pare volersi incanalare in questa prospettiva, ma viene fuori qualcosa di diverso: la sua non è tanto una discussione moraleggiante come ci si potrebbe aspettare 45 per questa ragione che Strindberg scrive Sposarsi: vede riflesso nel fallimento del matrimonio (la moglie è un’attrice, e ha una vita molto spesso esterna nonostante i due abbiano avuto tre figli; lui rifiuta di lei l’avvicinamento alle idee del femminismo svedese degli anni ‘80). Strindberg mette in piazza il suo matrimonio in un libro, chiamato Autodifesa di un folle (1887/8), opera in cui lo scrittore disegna la moglie come un vero e proprio mostro, di cui ricordiamo un brano che fa pisciare da quanto fa ridere in cui racconta il post-parto della moglie di una bambina gracilina, affidata a una balia: in questo brano leggiamo di come la moglie di Strindberg dica “basta a nuovi bambini”; leggiamo della libertà sessuale, decisa dalla coppia; leggiamo della storia di un disastro coniugale, un matrimonio dove, oltre all’entrata all’interno della casa di un cane, entra anche l’amica della moglie, che la distrae dal ruolo che Strindberg pensa debba avere anche con idee femministe. Non è un discorso di sottomissione della donna, ma di parità e, soprattutto, di simbiosi. Quest’opera mette in scena l’idea di una donna mostro, un’opera pervasa anche da un nichilismo se vogliamo, ed è proprio questo senso di nichilismo e di “lotta fra i sessi” che nell’anno successivo Strindberg scrive La signorina Julie. La signorina Julie (1888) La signorina Julie è un testo teatrale da un atto unico in due parti, separate da una sorta di balletto che ha lo scopo principale di permettere agli attori di riposarsi un attimo. Un altro aspetto interessante di questo tipo di teatro strindberghiano è il numero dei personaggi: già il teatro ibseniano non abbonda di personaggi, ma quello di Strindberg ha un numero molto molto ristretto. Nella Signorina Julie sono tre: la contessina svedese Julie, per l’appunto, la cuoca Kristin e Jean, il servo del padre di Julie (i nomi francesi vogliono segnalarci il distacco sociale dal popolo; la lingua francese denota uno status sociale elevato). Tutta l’opera è ambientata nella cucina della casa della contessina Julie, e l’opera è impostata con l’unità teatrale di tipo aristotelico (= la scena si svolge nella contemporaneità, nello stesso luogo e nello stesso tempo); è importante ricordare che la vicenda ha luogo nella notte di San Giovanni e il mattino successivo. L’impostazione della scena è così voluta da Strindberg: la messinscena deve avere un’impostazione un po’ obliqua, non deve essere tutto di fronte, di modo che anche le luci che colpiscono gli attori devono provenire da un po’ lato, perché la luce frontale crea un appiattimento nei confronti della faccia dell’attore che perde così espressività = molto di quello che avviene nella scena non deve passare solo attraverso parole dell’attore/ice ma anche dall’espressione del volto di questi, messa in risalto dalla luce sulla scena. Strindberg poi rifiuta la presenza tipica del teatro ottocentesco di scenografie dipinte: non ci può essere, ad esempio un fondale con un mobile o un fondale quadro disegnato, ma tutti gli oggetti di scena devono esserci davvero, e questo fa parte della sua scelta di teatro naturalistico. La signorina Julie vuole essere una “tragedia naturalistica” come l’autore stesso dell’opera la chiama (tragedia perché qualcuno muore). Inoltre, Strindberg chiede che ci sia il buio più completo nella sala al contrario delle usuali luci soffuse del teatro di fine Ottocento, e non vuole neanche che le sue rappresentazioni vengano fatte in teatri che hanno la “barcaccia” (= una fila di palchi che sta già sul palcoscenico, adiacente), perché chi sta guardando lo spettacolo si distrae perché mentre guarda la scena vede anche le persone vedute in barcaccia che fanno cose, e quindi distraggono lo spettatore; questa è anche la ragione per cui Strindberg preferisce l’atto unico = non avere nessuna distrazione durante la rappresentazione. Nel momento in cui gli spettatori si devono alzare per l’intervallo, lui si preoccupa e si fa le seghe mentali sul fatto che staccano il cervello in quel lasso di tempo, e lui non vuole assolutamente. 46 Il Teatro intimista della fine di vita di Strindberg: Strindberg non vuole neanche dare l’intervallo, perché non vuole che il pubblico ragioni tra di loro sulla loro esperienza dello spettacolo, ma ognuno deve fruire del suo spettacolo singolarmente, perché altrimenti si è influenzati dal parere degli altri = attenzione particolare anche alla realizzazione, al contesto e alla ricezione dell’opera teatrale. Di tutte queste cose Strindberg ci parla nella prefazione alla Signorina Julie. La prefazione è un testo importante perché ci dà un po’ di chiavi di lettura sul testo. Strindberg, più di una volta, fa precedere le sue opere da prefazioni, quasi che debba giustificare le scelte che compie, come se dovesse in un qualche modo spiegare al suo lettore perché un’opera X è scritta in quel modo. Ciò denota una sorta di insicurezza in lui, proprio perché sembra voglia giustificare il suo operato, e questa sua mossa è motivata dal ragionamento che “se io spiego il mio lavoro viene allora capito, e di conseguenza non vengo attaccato” (anche in ragione dei numerosi attacchi che aveva subito in passato). Già nelle prime pagine della prefazione, Strindberg spiega al lettore cosa il “teatro” è per lui: ‹‹[…] Il teatro è perciò sempre stato una scuola elementare per i giovani, i semicolti e le donne, cioè coloro che conservano la facoltà inferiore d’ingannarsi e di farsi ingannare, essendo ricettivi agli stimoli anzi alla suggestione dell’autore. […]›› Cosa significa? Strindberg vuol dire che il teatro è un gioco tra l’autore e il pubblico, ossia: noi sappiamo che, assistendo per esempio alla Signorina Julie, non stiamo guardando una vicenda vera, e quindi il pubblico è lì per farsi “ingannare”, farsi portare dentro una storia che per quel periodo in cui la vedrà considererà vera; ci caliamo dentro la storia, e nonostante siamo perfettamente coscienti della realtà dei fatti, c’è comunque questo “autoinganno consapevole”. Questo “inganno” è il modo che ha l’autore del testo teatrale per comunicarci qualcosa, e quindi questo inganno veicola il messaggio. ‹‹[…] il tema dell’ascesa o della decadenza sociale, di chi sta sopra e di chi sta sotto, chi è migliore e chi è peggiore, dell’uomo o della donna, è, è stato e continuerà ad essere di sempre vivo interesse. Quando trassi questo tema dalla vita, nei termini in cui ne sentii parlare anni fa, ricevendone una forte impressione, lo trovai adatto per la tragedia; […]›› Nelle righe precedenti, Strindberg attacca il teatro ottocentesco precedente, e quindi dice che si deve presentare una vicenda di storie che possono interessare il pubblico, e ci fa un breve elenco: tema della ascesa e discesa sociale e chi è migliore tra uomo e donna. In altre parole, Strindberg ci dice che uno degli argomenti interessanti del teatro a lui contemporaneo deve essere la lotta sociale e il rapporto tra classi sociali, mentre dall’altro lato il secondo argomento è la lotta tra i due sessi e le conflittualità nel loro rapporto. Poi, un po’ come faceva Ibsen, ci dice che era venuto a sapere di una storia vera simile a quella che poi ha scritto per la sua opera, scegliendo di metterla in scena. A pagina 144, Strindberg di dice che sceglie un caso insolito ma istruttivo => il teatro deve essere pedagogico nei confronti del pubblico, deve insegnargli qualcosa. Poi, Strindberg comincia a raccontarci i ruoli dei personaggi ecc. ecc. Pag. 152: Strindberg ci dice che quando facciamo un dialogo non è che facciamo i sermoni, ma molto spesso il nostro dire e parlare si interrompe, perché l’interlocutore ferma e dice qualcosa, magari su una questione parallela: quindi, anche il dialogo che si vede in scena con La signorina 47 Julie non è esattamente un libro stampato dove c’è chi parla e ascolta, ma “il mio dire è costantemente traslato, spostato”, sembra disconnesso. Questa è una modernità della messinscena teatrale che Strindberg porta, anche rispetto a, ad es., l’Adelchi di Manzoni o anche il teatro shakespeariano. ‹‹[…] Quanto alla tecnica della composizione, ho sperimentato l’abolizione della divisione in atti. E questo perché m’è sembrato di capire che le nostre declinanti facoltà d’illuderci possano venir turbate dagli intervalli fra un atto e l’altro, durante i quali lo spettatore ha il tempo di riflettere e dunque di sottrarsi alla forza suggestiva dell’autore-ipnotizzatore. […] La mia intenzione sarebbe di riuscire ad ottenere, in futuro, un pubblico così ben preparato da poter assistere a uno spettacolo ininterrotto di una serata intera. […]›› Strindberg ci dice che il pubblico non è ancora pronto per questo tipo di “illusione ipnotizzata” che lui sta mettendo in scena, e quindi è anche per questo che la durata della sua “tragedia naturalistica” è piuttosto ridotta. Ricordiamoci che, tendenzialmente, i testi teatrali dell’Ottocento sono composti da quattro atti (se non addirittura cinque), e quindi richiedono uno sforzo d’attenzione notevole da parte del pubblico, che lui vuole evitare. Pag. 156: il discorso sulla scenografia; dice anche che la scena non dev’essere riempita di ogni cosa, e questo è anche un attacco al teatro ibseniano, caratterizzato da una precisione e da un dettaglio molto ben curato; Strindberg invece pensa che deve essere anche lo spettatore che deve compiere lo sforzo di riuscire a completare quello che manca sulla scena. Pag. 159: ‹‹[…] In un dramma psicologico moderno, dove i più sottili moti dell’animo andrebbero riflessi più nel viso che nei gesti o col clamore, la cosa migliore sarebbe forse di sperimentare su una piccola scena, illuminata bene dai lati, con attori non truccati o col minimo trucco possibile. […]›› Anche questa è una questione anti-classica; il teatro classico era quello in cui era molto importante la gestualità, e l’attore era sempre carico di … (?). Strindberg invece suggerisce di utilizzare una forma teatrale in cui l’attore è libero da tutto, essendo così più veritiero (Naturalismo), ma allo stesso tempo con l’assenza della declamazione, e l’aiuto ci viene dalla luce. Trama de La signorina Julie: È una trama molto semplice: siamo nella notte di San Giovanni, ovvero la notte in cui si festeggia il fulgore dell’estate; è la festa che fa passare la notte in bianco, si danza, si balla. È il momento in cui scendono i freni inibitori: c’è quest’atmosfera di libertà sessuale quasi. il padre della signorina Julie è partito, è fuori casa e Julie scende a parlare con la servitù. Kristin è una sorta di fidanzata di Jean, tutti credono che stiano insieme. Jean è il servo del conte, che è rappresentato dalla presenza dei suoi stivali (che Strindberg vuole siano in scena): stivali che Jean dovrebbe preparare per l’arrivo del conte. Julie entra in cucina e comincia a istigare Jean, anche da un punto di vista sessuale (lo provoca). A quel punto, Jean prende le redini del gioco: il ruolo si ribalta, è lui che manipola lei. Kristin, che all’inizio è presente, si addormenta ed esce di scena. Quindi il testo diventa una pièce a due. 50 tali, e non comportano delle implicazioni ulteriori; il valzer, invece, è un ballo che riguarda solo due persone, le quali, per ballare debbono stringersi, implicando un contatto fisico importante e duraturo. Il valzer è un ballo che sicuramente muove delle corde sessuali più importanti; era un ballo di società, che però porta con sé certamente questo aspetto passionale. Jean, rimane sconcertato dal comportamento di quella che è la contessina Julie: non è una popolana, ma è di rango sociale più alto, e lei già sta partecipando a una festa insieme alla servitù (che non è usuale per la notte di San Giovanni), e oltre a questo si mette a prendersi Jean nella danza del valzer. Kristin poi rivela che la signorina Julie era fidanzata, ma è avvenuta una rottura. È un fatto sconcertante questo, soprattutto per le categorie sociali che reggevano i rapporti dell’epoca; non è che i fidanzamenti si rompessero così facilmente. ‹‹JEAN . Già, chissà com’è andata? Era un vero signore, anche se non era ricco. Mah, fanno tante di quelle storie. (Si siede al tavolo) Non è curioso che una signorina così, insomma, hm, preferisca starsene a casa colla gente, eh, invece d’andar con suo padre in visita dai parenti? KRISTIN. Sarà perché si vergogna, dopo quella scenata col fidanzato. JEAN . Probabile! Ma era un signore, quello, in tutti i modi. Tu lo sai, Kristin, com’è andata? Io c’ero, anche se ho fatto finta di niente. KRISTIN. Ma no, sul serio? JEAN . Se ti dico di sì! — Una sera se ne stavano davanti alle scuderie e lei lo addestrava, come dice lei — e lo sai come? Lo faceva saltare sul suo frustino, come si fa coi cani. Quello ha fatto un paio di salti e s’è preso due colpi; ma al terzo le ha tolto di mano il frustino e l’ha fatto a pezzi; e poi via.›› Già questo è significativo: la donna con il frustino che dà dei colpi per far saltare l’uomo → Strindberg ci dà gà segnali importanti sulla donna che vuol dominare l’uomo. Quindi ci sta dicendo che la signorina Julie tratta il suo fidanzato come se fosse una sorta di animale da far saltare per gioco, come inferiore a lei. Inoltre, Jean ci dà indicazioni non tanto su una differenza di rango tra Julie e il suo ex-fidanzato, quanto su una differenza di ricchezza: quindi, potrebbe essere un nobile, aristocratico ma senza un grande patrimonio. Comunque sia, la contessina Julie vuole dominare; ma l’uomo si ribella, ripristinando quello che è il suo ruolo => è più o meno la stessa situazione che si trova nei Predatori. In altre parole, Strindberg ci dice che questo ex si avvede di com’è Julie, capisce che non potrà mai avere una relazione con una donna del genere, e quindi il fidanzamento si scioglie (la rottura del fustino è simbolo della rottura del fidanzamento). ‹‹KRISTIN. Ah è così che l’era andata! Oh, cosa mi dice! JEAN . Sì, proprio così! — Be’, cos’hai fatto di buono oggi, per me, Kristin? KRISTIN. (servendolo dalla padella). Oh, solo un po’ di rognone, l’ho tagliato dall’arrosto di vitello! JEAN. (annusandolo). Eccellente! È una delle mie grandi délices! (Tocca il piatto) Ma potevi scaldarmi il piatto! […]›› Già il fatto che Jean utilizzi un termine francese denota che vuole un po’ smarcarsi dalla sua condizione servile; non parla dialetto svedese. Kristin rimarca questo atteggiamento di Jean, dicendo che si comporta “più smorfioso del conte” => Jean si dà delle arie, come se fosse il padrone. Poi, però, Kristin gli dà della birra, che sarebbe la bevanda del popolo, e Jean rifiuta 51 dicendo che ha di meglio per la notte di San Giovanni, tirando fuori da un cassetto una bottiglia di vino rosso di Borgogna: anche questa è una cosa per noi italiani un po’ criptica, ma semplicemente significa che è una bottiglia che proviene dall’estero. “Dammi un calice” => Jean se la mena troppo. ‹‹KRISTIN. (torna al fornello e mette su un pentolino). Poveretta quella che lo sposa! Un sofistico uguale!›› → Kristin usa una parola sbagliata: non si dice sofistico, ma sofisticato => qua il traduttore ha voluto segnalarci che, mentre Jean parla utilizzando parole francesi e quindi smarcandosi dalla sua classe sociale per il suo lessico, Kristin non riesce neanche a dominare la sua lingua, denotandosi proprio come la popolana. Viene poi fuori che c’è una storia tra i due, ma da come Jean parla è come se si tenesse un po’ a distanza dall’ammissione di questo legame con Kristin. (riferito al vino) “L’abbiamo comprato a Dijon”: con questo abbiamo, Jean intende che lo hanno comprato lui e il conte, perché Jean è il servo personale del conte; ma con questo abbiamo si vanta di essere quasi alla pari del conte. ‹‹JEAN. […] Ma cos’è che stai cucinando, che puzza maledettamente! KRISTIN. Oh, una schifezza che la signorina Julie ha ordinato per la Diana.›› ↓ Questa “Diana” è una cagna, e il nome è anche rivelatore, e fa riferimento a Diana dea della caccia, e quindi potrebbe essere il cane bracco che serve per andare a caccia. Jean si lamenta del fatto che Kristin abbia detto schifezza, chiedendole di essere meno volgare; vedremo più avanti nel dramma che Jean non sarà da meno, nonostante ora stia utilizzando tutti questi francesismi: lo vediamo subito dopo quando Jean usa la parola cagnaccia (denota un abbassamento lessicale immediato). ‹‹JEAN . Potresti esprimerti un po’ meno volgarmente, Kristin! E com’è che ti tocca stare ai fornelli per quella cagnaccia, la sera della festa? Cos’è, malata? KRISTIN. Altro che malata! Se n’è scappata via col boxer del custode, e ora sono pasticci — si sa che la signorina, queste cose non ne vuol sapere.›› Anche questo è un segnale importante nella mentalità strindberghiana: una donna che prova ribrezzo per la maternità (in questo caso della cagna) non è una vera donna, ma ha dei problemi. ‹‹JEAN. Certe volte la signorina sembra così superba, e certe volte così poco, proprio come la povera contessa. In cucina e nelle stalle ci stava benone, guai però ad attaccarle soltanto un cavallo alla carrozza; andava in giro con i polsini sudici, però con la corona da conte sui bottoni. […] Cose come queste non le faremmo noi; […] Ma è splendida! Superba! Ah! Che spalle – e – eccetera!›› > è come se ci fosse un continuo spostamento tra un livello alto e basso, se noi consideriamo la superbia come l’alterigia della classe dirigente, della nobiltà. Da un lato Jean attacca il comportamento di Julie come comportamento superbo, che desta scandalo, ma allo stesso tempo mette in risalto la bellezza fisica della contessina. Fino a pag. 167 sembra che i due abbiano tenuto lontana la situazione di Julie; il nostro Jean è stato accalappiato da Julie per fare un valzer, ma poi se n’è staccato, ed è tornato nell’alveo della sua relazione con Kristin. Quando entra in scena Julie, però, si vede che l’uomo si porrà in maniera diversa durante il dialogo che ha luogo fra i due. Nel dialogo che inizia tra la contessina e Jean, lei molto chiaramente lo stuzzica; lui cerca invece di restare ancorato alla sua relazione con Kristin. Julie però lo tenta, lo istiga, e questo si vede anche 52 dal lessico utilizzato => parlano in francese tra loro due, e così Julie sta cercando di accalappiarlo andando a toccare quelle che sono le debolezze di Jean; Julie gli chiede dove Jean abbia imparato il francese, e lui risponde che ha fatto il Sommelier a Lucerna, in Svizzera. Quando iniziano a raccontare le loro esperienze di vita, viene fuori che Jean effettivamente ha perlomeno vissuto, si è affacciato alla vita da tempo, mentre la contessina solamente da poco. Succede poi che Kristin si addormenta, e quindi Julie ha campo libero nei confronti di Jean. Julie che chiede a Jean di stappare una bottiglia → volontà da parte di lei di abbassarsi al livello del popolo; non ha chiesto il vino, ma addirittura dice di preferire la birra. Da quel momento in poi, si vedono bene i gesti di superiorità da parte della contessina nei confronti di Jean, quasi come se volesse sottometterlo. Julie cerca in tutti i modi di solleticare e provocare l’uomo, il quale è caduto nella prima trappola tesa da lei (baciarle la scarpa, il piede) avendo allungato la mano => è una sorta di discesa nel baratro, perché Jean sa che non potrebbe comportarsi in quel modo. Da pag. 174: Kristin, che si era addormentata, si sveglia e se ne va; la scena, quindi, ora è solamente di Jean e Julie. ‹‹[…] SIGNORINA. Lei è un aristocratico, a quanto pare! JEAN. Certo che lo sono. signorina. Io m’abbasso... JEAN. Non s’abbassi, signorina, dia retta a me! Nessuno crederà che s’abbassi spontaneamente; diranno che è caduta!›› Qua vediamo ancora più accentuato l’abbassamento che Julie sta conducendo (bere birra, ballare con i contadini ecc.), e Jean le dice che se si comporta così qualcuno penserà che è stata indotta, manipolata a comportarsi così, mentre invece è vero il contrario; sono scelte proprie di Julie. Lei lo ammette, e ci vengono al proposito raccontati due sogni, uno di lei e uno di lui: ‹‹[…] SIGNORINA. Forse! Ma anche lei lo è! — E poi, tutto è strano, del resto! La vita, le persone, tutto quanto, è una gran chiazza melmosa che se ne va, via, galleggia alla deriva, e poi affonda, affonda! Mi viene in mente un sogno, che ogni tanto ritorna. Sto appollaiata in cima a una colonna e non vedo il modo di scender giù; se guardo in basso la testa mi gira, bisogna che scenda ma non ne ho il coraggio; non riesco a tenermi e vorrei tanto cadere; però non cado. Così non ho pace finché non ce la farò a scendere, non c’è riposo se non scendo giù, giù, sul terreno! E se ci arrivassi vorrei entrarci dentro, tutta quanta... Ha mai sentito niente di simile? JEAN. No! Di solito io invece sogno di starmene sdraiato sotto un grande albero in un bosco nero. Vorrei salire su, su fino in cima, per guardarmi attorno nella campagna piena di luce, dove splende il sole, saccheggiare il nido che sta lassù, con le uova d’oro. E m’arrampico e m’arrampico, ma il tronco è così largo, così liscio, e c’è una tale distanza fino al primo ramo. Ma so che se ce la facessi a raggiungerlo, monterei poi in cima, come su una scala. Per ora non l’ho ancora raggiunto ma lo raggiungerò — non fosse che in sogno! SIGNORINA. E io me ne sto qui con lei a parlare di sogni. Venga ora! Un po’ d’aria! Solo fino al parco! Gli offre il braccio, vanno.›› È significativo che i due sogni raccontati siano “ripetitivi”. La colonna di cui parla Julie è l’aristocrazia; dice che vorrebbe mischiarsi al popolo, denotando un movimento dall’alto verso 55 p. 195🡪 la madre è esattamente la donna che Strindberg rifiuta: era avversa al matrimonio, oltre che educata secondo gli ideali femministi. Non c’è un matrimonio, sono amanti i suoi genitori. “Io venni al mondo contro il desiderio di mia madre”🡪 anche questa è un’ulteriore accusa che Strindberg muove alle donne che non vogliono procreare. Da questo non può che derivare un frutto, Julie, corrotto. 🡺 Punto cruciale: Julie viene educata come un maschio. Quello che salta fuori di Julie è la figura di una disadattata🡪 non è né femminista (perché non avrebbe mai preso una posizione di questo tipo con Jean) né una donna a tutti gli effetti (perché ha dei comportamenti maschili, come il comandare, fumare, bere la birra). “Mio padre si ribellò, così tutto venne sistemato”🡪 tutto torna normale. P. 199🡪 Jean ricorda di aver letto l’albero genealogico della famiglia del conte. “Lo sa chi era il fondatore della sua famiglia? Un mugnaio, che chiuse un occhio quando sua moglie andò a letto col re.”🡪 anche la sua famiglia proviene da uno strato sociale basso e ha fatto fortuna perché la moglie del mugnaio è stata pagata dal re per andare a letto con lui e da lì è cominciata la loro ascesa sociale. Ancora Julie, successivamente, chiede aiuto: “M’aiuti, m’aiuti; mi dica solo cosa devo fare”. Jean vuole andare via prima che torni il conte, perché davanti a lui si sente un servo. Julie, a inizio pag. 202, dice: “Mi dia un comando! Mi metta in moto, perché non ce la faccio più a pensare, ad agire”. E Jean le ordina di andare in camera, di vestirsi e di prendere il denaro per il viaggio. Jean è una sorta di ladro, che chiede a Julie di rubare il denaro del conte per avere dei soldi per poter iniziare questa ascesa sociale a cui egli aspira. A questo punto, Julie esce di scena ed entra Kristin. C’è un dialogo in cui Kristin invita Jean ad andare alla messa della festa di S. Giovanni, ma Jean rifiuta perché lei ha l’atteggiamento tipico popolano di andare a messa per lavarsi la coscienza. Accusa Kristin di non avere la volontà di cambiare nulla della propria esistenza. Ritorna la signorina Julie: è vestita da viaggio, e porta con sé una gabbietta con un uccellino dentro. L’uccellino denota l’aspetto infantile di Julie, in questo caso è la contessina che se lo porta. Jean però non vuole portarlo perché se portassero dei bagagli, tutti si accorgerebbero che stanno andando via. L’uccellino viene decapitato🡪 è la decapitazione della contessina, è simbolo del cambiamento della vita che viene provocato da ciò che fa Jean. Kristin si lamenta, tra l’altro, di questo spargimento di sangue. Ma è l’atto simbolico della decapitazione ad essere interessante🡪 così vengono uccisi i nobili. “La signorina Julie”, per Strindberg, vuole essere una tragedia naturalistica. Ma qui è fortissima la simbologia, quindi non è un teatro naturalistico ad essere messo in scena. Kristin torna in scena, ma le cose si mettono male. Si comincia a percepire che il conte sta arrivando. C’è anche un dialogo tra Kristin e Julie, dove si cerca di instaurare una relazione di solidarietà femminile che però non scatta. Si cerca anche di costruire un triangolo, invitando Kristin ad andare con loro. Ma Kristin rifiuta, e allo stesso tempo impedisce agli altri due di andarsene. Julie a questo punto, non essendo più possibile la fuga, chiede cosa fare mentre Jean sta arrotando il coltello. 56 P. 215🡪 una via d’uscita è morire. E Julie dice “Voglio farlo, ma non posso! – neppure mio padre ci riuscì, quando avrebbe dovuto, quella volta”. Suona il campanello: il conte sta arrivando. Julie è una donna che non sa prendere decisioni, si trova in un vicolo cieco, quindi, chiede a Jean cosa fare. Jean ritorna ad essere il servo. Nella rappresentazione viene messo in scena un balletto tra i due, ma poi Julie prenderà il suo rasoio e andrà ad uccidersi. Il ballo nel testo teatrale non c’è, finisce con Jean che sussurra a Julie nell’orecchio cosa deve fare. È un finale piuttosto tragico, per questo si parla di tragedia più che di dramma. È uno dei testi teatrali più importanti della produzione nordica ‘800esca. Per essere credibile, il personaggio di Jean essendo un servo non può che mostrare quella che è la condizione servile. Il finale stesso in cui lui si rimette la livrea e obbedisce dimostra che anche lui non riesce ad uscire da questa gabbia. La scelta di mettere in campo un servo nel rapporto con la contessina è stata una scelta autoriale🡪 vuole mostrare l’ascesa sociale e l’abbassamento sociale, che non sarebbe stato così palese se ci fossero stati due personaggi dello stesso rango sociale. Ciò si vede quando Kristin e Jean battibeccano tra di loro, e si vede che sono dello stesso rango sebbene lui voglia ascendere socialmente, mentre lei si è adattata alla situazione. Jean non può essere un personaggio completamente positivo, anche se fa agire Jean secondo le modalità che un uomo dovrebbe mantenere con la donna (almeno nella seconda parte). Può essere un finale aperto? Può essere che Julie, uscendo di scena, non compia l’atto di uccidersi? Secondo il prof, c’è una battuta importante in cui dicono che quello che è successo tra loro due potrebbe ricapitare. È importante, perché se è vero che può essere messo tutto a tacere, e non può perché Kristin sa tutto, allora i due potrebbero essere ancora meno fortunati e quindi tutto potrebbe essere svelato: a questo punto la moralità di Julie crollerebbe. Anche la climax che si crea nella tragedia e che porta Julie sempre più avanti nel chiedere a Jean di ricevere un ordine fa capire che non ci può essere un finale aperto🡪 Julie non può che morire. 25/10/2021 La signorina Julie rappresenta un punto nella vita dell’autore. Subito dopo, negli anni 80, sono anni molto produttivi, inoltre pregato dal suo editore di scrivere un’opera un pochino più accomodante, piuttosto che testi che avevano destato grande scandalo nell’ambiente svedese. Ed è per questo che produce un romanzo chiamato La gente di Hems. In “La gente di Hems” Strindberg, prende in esame le vicende di una fattoria in cui arriva un estraneo come fattore, il quale vuole fare fortuna ma manda in rovina la fattoria. Considerata una delle opere più equilibrate Strindberg, dove anche la descrizione della natura ha un posto molto importante, opera che ci spiega anche per la conoscenza diretta che Strindberg aveva di questi luoghi, riesce a rendere bene la vita di questa piccola comunità. Influenzato dalle teorie di Nietzsche. All’inizio degli anni ‘90 dell’800 Strindberg abbandona di nuovo la Svezia, viaggio che lo porterà ad uno stato nevrotico assoluto, cambia continuamente luoghi di residenza, cambia molti alberghi. Sono anni bestiali che racconta in un’opera del 1897, “Inferno”, sorta di confessione che parte dal fallimento del secondo matrimonio, in cui racconta gli anni dedicati agli studi alchemici, quelli 57 vicino alle posizioni della teosofia (corrente di pensiero tra la religione e la filosofia che trova buon terreno verso la fine dell’800 e inizio 900, in cui si ritiene che l’umanità sia arrivata ed essa stessa sia parte di uno spirito superiore, concezione dell’universo come una sorta di tutt’uno), soprattutto anni caratterizzati da allucinazioni e manie di persecuzione, in cui la psiche dell’autore è piuttosto compromessa. In questo periodo Strindberg riflette sul suo ruolo nel mondo, che si colora di una lettura in chiave religiosa, si ritiene un peccatore, un colpevole, sapendo che Dio lo sta mettendo alla prova per renderlo un essere migliore, perché attraverso la sofferenza e il dolore egli possa guidare anche altre persone verso la speranza. Concepisce le sue mancanze come una prova di Dio affinché possa sublimarsi e guidare sulla via della speranza altri. Aspetto del “mettere alla prova” il peccatore è il pensiero comune a molte sette dei paesi scandinavi dell’800, visione chiude, senza speranza di redenzione. A questo punto la sua produzione vira verso quello che si potrebbe definire come una ulteriore specializzazione del suo teatro che da “naturalistico”, seppur con le particolarità viste in “Signorina Julie” e “Predatori”, diventa ancora più diverso, con ancora meno attori e che lui definisce “teatro intimo”. Rinuncia definitivamente ad una produzione drammaturgica di ampie dimensioni, racchiude tutto in un unico atto. La riflessione fatta nella prefazione alla “Signorina Julie” continua, ovvero Strindberg ritiene che il pubblico debba concentrarsi il più possibile su ciò che sta vedendo e ascoltando, pertanto il teatro stesso deve essere di piccole dimensione, con poche persone, con pochi posti, in modo che la percezione di partecipare allo spettacolo sia totale, come se lo stesso spettatore entrasse a far parte del dramma che viene messo in atto sul palco. Per ottenere questo effetto continua l’idea della rinuncia agli intervalli, alle luci che distraggono. Questo teatro si fa simbolico: a Strindberg non interessa più la rappresentazione della realtà dei fatti, come nel teatro naturalistico, ma nel teatro intimo ogni testo non ha più l’intento di fotografare la realtà, ma quello di spiegare le relazioni interpersonali, la vita intima e non più una denuncia sociale come nel teatro naturalistico. Diventa un dramma psicologico ( come il teatro pirandelliano), con al centro la rappresentazione della psiche umana. Con questo si conclude la sua vita e la sua produzione letteraria nel 1912. Gli ultimi anni Strindberg li dedica alla partecipazione alle lotte delle classi sociali più basse, le classe operaie e proletariato, che in questo periodo sente particolarmente vicino a sé, per questo al suo funerale (muore nel 12) queste classi vi partecipano. Autore molto complesso, parte da una percezione naturalistica della propria produzione artistica, per attraversare le 2 crisi, quella parigina durante la quale scrive “Autodifesa di un folle” e la seconda, quella in giro per l’Europa in cui scrive “Inferno”, opera dai toni estremamente cupi, per concludere, infine, con l’ultima fase della sua vita, caratterizzata da un atteggiamento cristiano e popolare, non sposando più i temi naturalistici, la scrittura diventa un mezzo per indagare i rapporti tra uomini e tra uomo e propria psiche. Con Strindberg si conclude l’800 nordico e entriamo nel 900. HALLDÓR LAXNESS (1902-1998) {l’accento non è tonica, in islandese indica solo la lunghezza vocalica} E’ l’uomo che veramente rappresenta il 900, nasce nel 1902 e muore nel 1998, percorre quindi tutto il 900. L’unico premio Nobel della letteratura islandese (1955) e vediamo anche quali sono le motivazioni. Fotografia, casa a Mosfellsbær, a est di Reykjavik molto frequentata,c’è anche un’automobile fuori, che dimostra che Laxness non sia un uomo che fotografa l’Islanda solo nella sua ruralità, elemento sicuramente importante, ma che questa non è l’unica chiave di lettura delle sue opere. Parla dell’Islanda, tutta la sua produzione è ambientata in Islanda ma non è un respiro claustrofobico, non è un’esaltazione della “islandesità”. 60 strano e Gunnarsson sfrutta questa visione. Non racconta della povertà dei contadini o non avrebbe venduto neanche un libro. Negli anni ‘30 del ‘900 vive in Danimarca ma si fa coinvolgere dall’ideologa nazista. Pensa che si debba fondare una specie di lega nordica che tenga uniti tutti i paesi nordici sotto un unico ombrello, quello della tradizione, visione un po’ oscurantista. Quando torna in Islanda cerca di rifondare quella sorta di idillio da cui si era staccato nella sua infanzia, fa costruire una grande fattoria nella campagna islandese, in cui cerca di ricostruire la condizione idillica che aveva raccontato nei suoi romanci, senza tuttavia riuscirci. Dal suo ritorno in Islanda non produce più opere originali ma soltanto traduzioni delle sue precedenti produzioni in lingua danese. Il contatto col mondo nazista lo ha fatto diventare un personaggio molto scomodo nella cultura islandese, dove si cerca di non citare questo aspetto della sua vita. In Islanda è difficile trovare le sue opere in libreria. In Danimarca ancora di più. Se Gunnarsson è l’ultimo grande autore dell’idillio pastorale islandese, Laxness rompe con questa tradizione, nonostante siano più o meno contemporanei. Ritorno a Laxness. L’Islanda è un paese in cui manca per molto tempo la classe borghese, in cui non ci sono grandi centri abitati, in cui la superstizione è ancora estremamente presente. La letteratura si divide tra romanticismo pastorale e una nostalgia per l’età dell’oro, che rappresenta l’idea di indipendenza della nazione. E’ questo il paese in cui Laxness cresce, quando diventa adulto e soprattutto scrittore diventa un simbolo del rinnovamento. E’ un autore di rottura con la tradizione letteraria dell’Islanda. Diventa uno scrittore a tutto tondo, predilige la prosa, scrive romanzi, racconti ma è anche uno scrittore che interviene con articoli su giornali e riviste, su cui fa interventi non di taglio letterario ma di denuncia sociale e di educazione sociale soprattutto. Per esempio scrive articoli sulla necessità della corrente elettrica in Islanda (siamo nel XX secolo), articoli in cui denuncia l’uso di un abbigliamento tradizionale legato al passato quando siamo ormai nel 1900, articoli in cui spiega le regole di igiene fondamentali, come il lavarsi i denti. Descrive un paese che necessità una modernizzazione, di essere più legato al mondo europeo del XX secolo. E’ uno scrittore che cerca una sprovincializzazione dell’isola, di rottura dai secoli di dominio e oppressione danese. Egli è il primo scrittore in lingua islandese che ripropone testi prosastici dopo il 14 secolo. La scelta di produrre letteratura in prosa viene dalla necessità di avere dei testi che possano essere letti senza difficoltà dalla popolazione, testo in versi più complessi della prosa come potete immaginare. Le ambientazioni sono islandesi, anche se il messaggio che cerca di veicolare non è soltanto legato all’Islanda ma le sue tematiche possono essere traslate su un livello universale. Altri scrittori importanti islandesi sono:  Thor Viljalmsson, deceduto recentemente, trovato morto in una sauna, si misurava in continuazione col passato dell’Islanda e la sua natura in un romanzo “Il muschio grigio arde”, in cui racconta il viaggio verso l’interno dell’isola di un giudice che deve andare a giudicare un caso duplice, 2 reati, incesto, infanticidio. E’ un viaggio anche all’interno della memoria dell’Islanda, nel rapporto col macigno che è la natura islandese, romanzo di grande modernità. Racconta il rapporto con la natura islandese, uno dei temi ancora di interesse degli scrittori islandesi.  Oddný Eir Ævarsdóttir, scrittrice, in “Terreni” riflette sul rapporto con la tradizione della sua famiglia, mette in scena la nonna, che le racconta la vita dell’Islanda, ma anche col territorio islandese, dei cambiamenti climatici, scioglimento ghiacciai, sfruttamento per l’energia geotermica del calore del sottosuolo islandese, che porta ad una trasformazione del territorio. 61 Il rapporto col territorio, per questa letteratura è estremamente fondamentale. Da questa letteratura si distacca Jón Kalman Stefánsson, scrive della vita di una piccola comunità di pescatori del nord in “Trilogia del ragazzo”, in cui tema fondamentale è la comunicazione sincera e profonda fra esseri umani. 26/10/2021 Onore della casa È un testo pubblicato da Laxness nel 1933, quinid nel periodo della sua produzione caratterizzata dal periodo di maggiore denuncia sociale; Laxness è appena tornato dall’Unione sovietica e ha visto il modello socialista, e sulla base di questo modelllo critica la condizione sociale di vita del proprio paese. Per questo motivo, egli nel ’33 propone questo romanzo breve strutturato in 7 capitoli, in cui mette in scena una storia ambientata nell’Islanda della fine 19° secolo. Questa collocazione temporale è anche una srota di provocazione, nel senso che egli in questo modo vuol riportare una situazione esistenziale del passato, ma allo stesso tempo il contemporaneo coglieva che le cose in Islanda non erano cambiate di molto. Il romanzo breve tratta in pratica della storia di due sorelle di una famiglia mediamente importante all’interno di una piccola comunità islandese (= non siamo nella capitale); sono le figlie del pastore; proprio epr questo hanno una posizione socilae importante in questa piccola comunità. Le due sorelle sono Rannveig e Thurithur, sono molto diverse tra di loro nel loro atteggiamento nei confronti dell’esistenza, ma entrambe sono sottoposte allo stesso tipo di educazione e quindi allo stesso tipo di formazione, che prevedeva un soggiorno in Danimarca, nella capitale. Ogni brava signorina di buon livello doveva fare questo viaggio (siamo ancora nel periodo di dipendenza dell’Islanda dalla Danimarca); era un po’ un rito di passaggio nel mondo deli adulti, dopo il quale però dovevano tornare in islanda per diventare spose e madri di famiglia. Rannveig e Thurithur e il loro differrente atteggiamento nei confronti dell’esistenza e di fronte al soggiorno in Danimarca = Questo dà adito a Laxness di fotografare quali sono gli attegiam morali degli islandesi di fronte a determinate scelte Capitolo 1 Titolo: Un giorno di fine estate – significativo; in questo romanzo le stagioni sono in stretta connessione con gli eventi che capitano; la stagione non solo è legata all’accadere delle cose, l’aspetto più materiale e concreto dell’attribuzione della stagione a un avvenimento, ma vi è anche una lettura di tipo allegorico; la stagione spiega anche lo stato dìanimo dei personaggi o spiega anche cosa sta accadendo metaforicamente. “l’estate è al massimo del suo splendore” – serenità, bellezza e gioia appartengono all’estate, mentre l’autunno si mette in contrapposizione all’estate; l’autunno non fa parte dello splendore, e l’autunno non è quella condizione spirituale che è narrata nelle righe seguenti; “le belle storie” appartengono all’estate. “gli scogli che si levano sullo specchio luccicante dell’acqua come castelli splendenti in un miraggio” – il mare è in bonaccia, e la chiave di lettura simbolica è che è rappresentata la tranquillità dell’esistenza, un momento di pace e di serenità Quel “si era allora finalmente decisa” però solleva una questione: Rannveig non è che impazzisse all’idea di lasciare l’islanda per la danimarca; salutando tutti, è anche come se stesse prendendo 62 commiato, simbolicamente, dalla serenità che fino a quel momento Rannveig ha vissuto. Questa prima descrizione di Rannveig segue immediatamente con quella di Thurithur: c’è una differenza: mentre Rannveig, sorella più giovane, mai si vorrebbe staccre dal suo mondo, Thurithur era smaniosa di intraprendere questa esperienza, stando via addirittura 2 anni; la formazione è stata la stessa (scuola di arti femminili); placidità di Rannveig contrapposta alla irrequietezza di Thurithur; Il carattere di Thurithur è impetuoso; è una giovane donna che desta un po’ preoccupazioen al padre per questa sua impetuosità nel momento in cui la deve mandare a Copenhagen, ma la madre dice che questo carattere la aiuterà a reagire e ad agire di fronte ai pericoli della vita, tant’è vero che ha ragione. Pag. 17 – c’è sarcasmo e ironia con cui Laxness spesso descrive i personaggi; “dispensava la fede cristiana ai suoi baccalà terrestri con lo stesso impegno con cui elargiva le sue cure ai baccalà di mare ecc. ecc.”; forse più che curare le anime, il prevosto cura gli affari, si butta nell’industria ittica, e quindi vuol dire che la sua predicazione non sfiora i fedeli, Jon non è un bravo sacerdote;nella chiesa protestante, soprattutto in quella luterana dell’Islanda, un ruolo centrale lo ha la predica del pastore, e i fedeli rimangono indifferenti come dei “baccalà” di fronte alle parole del prevosto, che non ha degli interessi sinceri nel suo incarico. “La casa” in cui Thurithur andrà a vivere con il figlio del direttore dell’industria ittica diventa la casa piuù importante del paese; il titolo “onore della casa” si riferisce a questa casa, e lonore si riferisce al rispetto dell’onore di thurthur, che stringe un matrimonio di prestigio che porta lei e la sua famiglia in una condizione sociale stimata all’interno della piccola comunità in cui vivono. Di contro, il prevosto e la coniuge non nutrono preoccuazione per il carattere pacato di Rannveig; (manca un’ora) 26/10/2021 (Appunti di Rachele) Onore della casa pubblicato nel 1933, siamo nel periodo della sua produzione, caratterizzato dal periodo di maggiore denuncia sociale. E’ appena tornato dall’unione sovietica e sulla base di questo modello critica la condizione arretrata del proprio paese. Nel 33 propone questo romanzo breve strutturato in 7 capitoli in cui mette in scena una storia ambientata nell’Islanda della fine del 19esimo secolo. E’ una sorta di provocazione nel senso che in questa maniera egli vuole riportare una situazione del passato, ma allo stesso tempo il lettore islendese a lui contemporaneo coglieva che le cose non erano cambiate di molto. Il nostro romanzo tratta della storia di due sorelle, due sorelle, di una famiglia mediamente importante all’interno di una piccola comunità islandese, quindi non siamo nella capitale, sono le figlie del Curato e proprio per questo hanno una posizione sociale importante in questa piccola comunità. Le due sorelle sono Rannveig e Puribur (Thurith), molto diverse tra di loro, anche nel loro atteggiamento nei confronti dell’esistenza, però entrambe sottoposte allo stesso tipo di educazione, allo stesso tipo di formazione che prevedeva un soggiorno in Danimarca, nella capitale. In pratica ogni brava signorina di un certo livello in Islanda doveva trascorrere un periodo più o meno breve nella capitale, che era una po’ una sorta di debutto in società: il passaggio dell’età fanciullesca al mondo adulto per poi tornare di nuovo a vivere in Islanda dove sarebbero diventate spose e madri di famiglia. Questa è un po’ la spina dorsale di questa storia. Ovviamente si comportano di fronte a queste esperienze in maniera diversa. Questo da adito di fotografare gli aspetti degli islandesi di fronte a determinate scelte. Partiamo dal capitolo primo e già il titolo è significativo: ci parla di un giorno di fine estate: vedremo che le stagioni sono in stretta connessione con gli eventi che capiteranno. La c’è sempre nel racconto la presenza femminile come motore dell’azione, non sono mai gli uomini; ce la dice lunga su come si svolgeva la vita sociale di questa società; sono le donne che mantengono il controllo sociale, sono loro che diffondono le notizie, sono loro che portano avanti la comunicazione; ben presto, però, si viene a sapere (pag. 51) che si diffonde anche un’altra notizia nel paese: donna che vanno a dire che Rannveig aspetta un bambino (le donne controllano anche la sessualità); = non c’era nessuno in paese che osasse fargli una colpa, grazie al fatto che si sapeva dell’esistenza del fidanzato. Laxness ci apre una finestra su un uso tradizionale dell’Islanda su cui lui è contrario: la purezza della donna; essere rimasti incinta al di fuori del matrimonio rende Rannveig priva di una reputazione per 2/3 anni, ma dopo questi anni occorrono altri 7 anni di comportamento irreprensibile affinché questa macchia sia definitivamente cancellata; questa cosa della purezza riacquisita dalla donna è una pratica del popolino, del popolo basso, non delle classi borghesi, dove questi problemi non sarebbero mai dovuti sussistere (non si ricordavano più accadimenti del genere dal 17 sec); non è la rarità di questa cosa, ma il fatto che si ricordi ancora un episodio del genere accaduto oltre 200 anni prima = ci dà l’idea di quanto fosse soffocante questo tipo di controllo sulla verginità femminile e di quanto venisse considerato una macchia questa cosa, soprattutto per la classe più elevata; si continua a raccontare questa storia di anno in anno (sta roba la vedremo anche nel romanzo Barbara, dato che la storia prende spunto da un fatto accaduto); la memoria collettiva fotografa e sedimenta nei propri racconti fatti che sono considerati memorabili, come questo del 17 sec.; a questo punto, la macchina della menzogna si mette in moto => preparativi delle nozze; Rannveig è triste e piange; Rannveig è immersa, a pag 59, nei preparativi del matrimonio; questo matrimonio viene fatto e preparato dalla sorella senza neanche consultare Rannveig; Rannveig è scontrosa, infelice, “aveva anche quasi smesso di rispondere”, “come se non sentisse né vedesse” => Rannveig controllata dalla comunità femminile; c’è però poi un dissidio (pag. 61): “Sei tu che non sei in te, Thurithur” => Rannveig in questo unico atto di ribellione fa notare la pazzia della sorella, queste sue scelte che mettono insieme una macchina per difendere l’onore della famiglia; finalmente arriva il gg in cui la nave che deve portare il dottore promesso sposo in Islanda deve arrivare (pag. 62) – ma il promesso sposo non arriva, si capisce che c’è qualcosa che non va; il prevosto è lì sconsolato, tiene la moglie tra le braccia che piangeva a singhiozzi, mentre venivano aiutate a salire sul molo … (ironia); viene detto che lo sposo è morto improvvisamente bla bla bla -> ecco qua, il castello di Thurithur messo in piedi, e Rannveig è madre d un figlio senza padre; cap. 4: Non c’era a questo punto, né in cielo, né in terra, cosa che poteva evitare a Rannveig di avere un bambino illegittimo; la nave giunse a maggio, inizio primavera e bella stagione : la bella stagione abbiamo visto è legata a Rannveig, quindi significa che la vita di Rannveig volta, cambia in una maniera positiva; gioia della maternità, quieta felicità della maternità; Rannveig aveva ripreso a sorridere, lei andava in giro per il paese con il figlio (la natura rispecchia l’animo di Rannveig: sole caldo in cielo ecc.); tutti erano felici, a parte thurithur, che non andava più a trovare Rannveig; c’è questo idillio di felicità che è macchiato però dalla macchia della sorella, perché thurithur non si dà pace per il bambino illegittimo. A sto punto, thurithur interviene, a fine dell’estate (ancora l’autunno e ovviamente l’autunno porta un messaggio opprimente all’interno della storia); a pag. 67 - thurithur si è inventata che la madre di bog… (il promesso sposo danese di Rannveig) voleva vedere il bambino, a Copenhagehn, e quindi quando Rannveig entra in casa si vede che tutti gli accessori per bambini sono spariti => il bambino è portato via; la cosa non fu 1 sorpresa per nessuno, tranne che per Rannveig; quest’ulitma non capisce il modo dir ragionare della sorella, lei è una donna che presta aiuto, spontanea; si inventano delle lettere a thurithur e alla madre delle due sorelle da parte della nonna del bambino, ma non a Rannveig (strano che non scrivano a lei, no?); quell’inverno, non godette Rannveig di buona salute. È una espiazione quella che thurithur impone a Rannveig (non può avere il figlio con sé); notiamo anche che nella descrizione della madre (bella diritta, con i capelli a posto) Rannveig le è opposta, sembra lei la vecchia per il suo aspetto; a questo punto Rannveig, con l’arrivo della primavera, si mette a lavorare, come se fosse il lavoro un arma del riscatto dalle sue colpe. Nell’estate, Rannveig lavora nei campi (qui c’è dietro quella che possiamo definire l’etica protestante del lavoro => il lavoro è il modo per poter ricevere la grazia da parte di Dio; la grazia, però, non è guadagnata, ma è la possibilità di ricevere la grazia da parte di Dio); Rannveig non ragiona in questa maniera: non è che lei fa questa scelta consapevolmente, ma è l’atteggiamento che è inculcato in questa comunità. A questo punto, Rannveig pian piano rientra nella comunità: mette su una scuola di tessitura, e soprattutto (pag. 72) la sorella dice che aveva riflettuto molto sul tema della carità e dice che dovevano impegnarsi socialmente con un circolo delle donne (= donne che gestiscono, ancora); il caso che Rannveig, lavorando e mettendo in piedi la scuola, permette a thurithur di restaurare l’onore della casa, mettendo a capo di questo circolo di donne la sorella Rannveig, che diventa presidente => la reputazione è pienamente ristabilita; di lì a pochi anni sarebbe diventata di nuovo vergine, e nessuna ombra avrebbe più oscurato l’onore della casa. Cap. 5 NATURA EXPELLAS FURCA – si trova in una epistola di Orazio = “che tu butti fuori il male con il forcone” Il tempo passa, Rannveig ha 36 anni, ha acquistato gran fama; presto 7 anni saranno trascorsi; ma comunque una ombra rimane sempre nel cuore della donna; diciamo che si è adattata, piegata alla cultura dominante; non ha deciso di ribellarsi; poteva andarsene, lottare per riavere il figlio, ma non ha fatto nulla, e si sta comportando come una devota e caritatevole brava cristiana, e questo la fa reinserire nella società; La vita terrena come espiazione: questa è un altro caposaldo del protestantismo più settario, cioè che il transito della vita terrena è un percorso di dolore e si deve mirare soltanto a ciò che ci sarà dopo (concetto che ritroviamo anche in Karen Blixen). L’immagine stessa della figura irraggiungibile – Rannveig è diventata una specie di santa; poi però circola una voce che è diventata un po’ grassottella; pag. 77 Che fosse stato lo spirito santo? (altra volta ironia); c’è una società pettegola; Ranveig è rimasta di nuovo incinta; nessun annuncio ufficiale viene dato, e per farla breve si incastra un’altra soluzione: Mentre con il 1° matrimonio ci si immagina un dottore, ora la soluzione diventa di rango sociale più basso; un giovane marinaio, che veniva dalle isole e non aveva famiglia; anche in questo caso, marinaio viene sistemato nella stanza di tessitura di Ranveig, in modo che lei fosse costretta a passare di lì => si diffonde la notizia su loro due. Costruzione della nuova casa di ranveig a lato di quella della sorella; però, poi succede qualcosa: al prevosto si presenta un’altra donna incinta, che dice di aspettare un bambino dal presunto nuovo promesso sposo a ranveig; il matrimonio si rompe ovviamente cap. 6 ranveig però non ebbe un figlio illegittimo; ranveig si sposò con un uomo; non era certamente la coppia ideale, ma ai limiti dell’accettabile; un bottegaio => ceto sociale si abbassa sempre di più; lui è quasi un emarginato nella società; la bambina porta il cognome (patronimico) di Figlia di Hans; Lui ascende socialmente – diventa contabile; Thurithur non è contenta però, e fa dividere le proprietà con assi di legno; era inutile negare che, nonostante avesse salvato tutto, era la soluzione estrema -> il prestigio della casa infatti è sceso; L’ONORE DELLA CASA DA UNA PARTE, E RANNVEIG DALL’ALTRA Thurithur parte e va Copenaghen, non ne piò più; fin quando non torna, la casa diventa un disastro (le figlie fanno casino e il marito è un incapace), e thurithur riporta l’ordine e torna a essere la padrona di tutto; (pag. 96 – estirpare => rimanda all’estirpare della citazione in latino al cap. 5); una unica donna lei non invitò a casa: Rannveig; aveva deciso che doveva essere punita ancora di più; Cap. 7 Passano gli anni, muoiono i genitori delle sorelle; le sorelle non si parlavano, e piansero ognuna per conto proprio, ma non sembrava che ci fosse riconciliazione da parte di Thurithur; Ranveig e il marito si sono arricchiti, quindi non è abbassamento economico quanto morale da parte della sorella Thurithur; Entra in scena la bimba; la bambina è una disadattata, ha problemi, e i bambini non vogliono giocare con lei, dicendo che è una frignona e una spione; i figli del direttore, i cugini, dettero regola che quando la bambina arrivava la dovevano bullizzare; infelicità anche della madre; i bambini vengono piegati alla morale e al giudizio degli adulti, imprescindibilmente; i bambini “cattivi” sono il megafono della voce di Thurithur, che diventa la voce di tutta la comunità. Laxness fa la mossa decisiva in questo racconto (pag. 103): quando la bambina in primavera compie 10 anni contrae una malattia (= ha un tumore alla testa); pag. 105 – muore la bambina, perché il medico ha tentato di estirpare il tumore dalla testa della bambina; Thurithur diventa come sua madre negli anni d’aspetto; sincerità e rispettabilità Thurithur entra finalmente in casa della sorella, si salutano finalmente Norne – figure mitologiche della tradizione nordica medievale; sono 3, che corrispondono grossomodo alle parche greche; nel folklore islandese diventano una sorta di fate 2 fra queste norne non si conoscono: queste due sorelle sono come le norne, filano i destini dell’esistenza, ma le loro strade sono divergenti (in base una a sincerità e una a rispettabilità) Malattia della bambina è simbolica – viene estirpato dalla testa della bambina il cancro, il male che divide le due sorelle, e una volta che il male è estirpato è possibile riallacciare i rapporti; Rannveig, è quella che subisce sempre, in una società in cui la rispettabilità è molto più importante della sincerità; Registro comico parodico che circola all’interno del racconto, ma anche molti accenti drammatici Opera scritta in anni 30 – fase di denuncia della arretratezza della cultura islandese di Laxness; l’Onore della casa è un atto di accusa che Laxness muove verso una cultura che non è ancora molto cambiata da quella che lui sta raccontando, soprattutto nei luoghi più isolati; è per questo che il racconto è ambientato nella cittadina di Reykjavík. È un’accusa verso la diversità di rango sociale (è nella sua fase comunista e socialista), e anche verso alla comunità femminile che uvole rimanere immobile in un mondo di pregiudizi senza riscatto per quelle donne che fanno scelte diverse rispetto a quelle comuni; Laxness muove una denuncia dicendo che la vita delle ragazze può essere diverse, in un paese in cui il problema delle ragazze-madri era allora molto diffuso guerra mondiale, e la letteratura nordica in Italia dovrà aspettare di avere fortuna addirittura gli anni Novanta. Barbara Il romanzo è difficile da incasellarlo come genere; da un lato è una sorta di romanzo storico, essendo ambientato nel 1700, e riprende le vicende di una donna dal nome di Bente Christine Broberg (1668-1752) di cui si narravano in forma orale racconti sulla sua vita e sulle sue vicende; queste vicende trovano poi una forma scritta alla fine dell’Ottocento; quindi, avremo un racconto dal titolo Beinta og Peder Arrheboe (raccoglie la tradizione orale di quel paese), scritto da Jakob Jakobsen e messo all’interno di una serie di volumi pubblicati tra il 1989 e il 1901 intitolati Racconti popolari e fiabe faroesi; nel 1927 abbiamo un altro racconto di Djurhuus intitolato Beinta; Jacobsen ha alle sue spalle una tradizione orale che ancora si narrava ai suoi tempi e due registrazioni, due raccolte (Beinta degli autori appena detti); Bente Christine Broberg: nei racconti, ci parlano di lei come una donna demoniaca, una sorta di femme fatales, che ha sposato tre pastori protestanti, facendone impazzire due e morire uno; una donna tremenda, insomma; questi racconti ci dicono anche che trattava malissimo la servitù; insomma, anche isterica veniva descritta (poi non sappiamo quanto ci sia di vero in tutto questo); quello che a noi qui interessa è il fatto che Jacobsen parta da questo materiale per costruire il suo romanzo; per questa tradizione può apparire come romanzo storico, ma non lo è: l’intenzione di Jacobsen non è documentare la vita nelle FO nel XVIII secolo, ma è invece mettere in scena Barbara volendo parlare e descrivere questo personaggio nel suo rapporto con l’arcipelago, la vita dell’arcipelago e quelle che sono le sue esigenze, prospettive, desideri; quindi, al centro c’è una storia personale, non la Storia con la S maiuscola. Poi ovvio che viene fotografata e narrata la situazione delle FO del 18° secolo, ma non è centrale al racconto, e si tratta di aspetti funzionali al procedimento della storia narrata; Indice -> riporta due volte il nome di due capitoli, uguale: Fortuna è il ome di una nave che collega la Danimarca alle FO => rappresenta una sorta di rottura nel fluire del racconto, c’è un prima e un dopo nella narrazione; c’è anche una seconda nave che arriva nel porto, una nave francese; quindi, le navi scandiscono le fasi del racconto; l’arrivo della nave è sempre portatore di novità, e di conseguenza tutta la popolazione della cittadina va al porto per vedere cosa arriva, come se arrivasse la vita esterna nelle FO; una vita nell’arcipelago molto chiusa, e la nave è l’apertura verso il resto del mondo; consideriamo che si tratta di luoghi con pochissime abitazioni concentrate, e quindi la presenza antropica sul territorio è molto molto scarsa; ci si conosce tutti, e le condizioni di vita sono asfittiche. La “Fortuna” Arriva la barca; qua già si parla di monopolio danese; è importante che non solo gli abitanti siano pochi venivano lì, ma anche i contatti con l’esterno sono difficili; le isole FO sono soprattutto delle alte scogliere a picco sul mare, non ci sono tanti approdi, e questi comunque non permettono di entrare nelle isole con felicità; qui in questo capitolo ci viene raccontata la presentazione di Barbara; si vede l’ingresso di Barbara nel monopolio, un negozio; ci viene detto che la condizione sociale di Barbara non è quella di popolana, ma è la figlia di un giudice (che è morto); Barbara porta il sole nel buio della comunità, è diversa dal resto della popolazione; la richiesta che fa (“vorrei dei nastri di seta”) = denota la sua voglia di essere diversi dagli altri; i nastri non è l’usuale oggetto che la donna delle FO indosserebbe => c’è una voglia di staccarsi dagli altri. Deve arrivare nel posto un nuovo prete; le vengono fatte delle battutacce a Barbara, perché lei era già vedova di due pastori; Barbara esce dal monopolio, e la gente inizia a parlarle: ci viene aperta una finestra sulla vita passata di Barbara => sembra una mangiatrice di preti, muoiono tutti; perché Barbara vuole accaparrarsi un prete? Perché i sacerdoti vengono dal di fuori; tutti quei sacerdoti vengono sulle FO provengono dalla Danimarca, e Barbara vuole la vita esterna; i tipi di sacerdoti che vengono sull’isola sono due: quelli che credono in quello che facevano (quelli che vuole Barbara) e quelli che no; Vediamo che a causa delle dicerie, più sono lontane, il racconto si sclerotizza nei suoi estremi: la persona diventa o buona o cattiva; Gabriel: è innamorato di Barbara, come quasi tutti gli uomini di Torshavn (la cittadina dov’è ambientato Barbara), vuole sposarsi con lei (lui è scapolo) ma non ce la farà; pratica il contrabbando; viene fuori che ha un piano; Si accumulano le info su Barbara, che è stata con più uomini, e questo crea scandalo, unito al fatto che con lei sono morti due preti; le sue esperienze con più uomini sono sessuali e non amorose => l’img che ci viene data di questa donna inizia ad apparirci un po’ dicotomica: una donna che sposa dei sacerdoti con una posizione quasi missionaria, ma viene dato uno spaccato invece molto differente da quello che ci si aspetterebbe, e lei appare quasi come una donna di facili costumi. Piano di Gabriel -> invitare Barbara e Suzanne (amica di Barbara) ad andare in segreto al monopolio, e spera di, mostrando nastri, giarrettiere, tutta roba al difuori del commercio del monopolio, che le donne si spogliano (dà l’idea di Gabriel come un guardone, che non riesce a avere l’atto sessuale e che quindi vuole almeno cogliere la nudità di queste donne); “scarpa di raso” in un posto freddo e fangoso come le FO; le due ragazze però sono più avvedute, e chiudono fuori Gabriel mentre loro si provano le cose addosso; Pag. 32 (pag. 8 sul pdf): arriva il reverendo Poul, sbarcato dalla Fortuna; questa tetragine, questo buio -> un buio paradigmatico che fa nella descrizione del posto Jacobsen => una oscurità contrapposta alla macchia di colore che risalta, si stacca da tutti gli altri abitanti di Thorshavn, Barbara; parole spese su Barbara: molto brutte, come se si volesse mettere in guardia Poul da questa donna-mantide; poi invece accade lo stesso che i due se la fanno; Pag. 17 del pdf: arriva una nave francese; nel frattempo, il pastore è sempre più interessato a Barbara, e si sta innamorando di questa unica macchia di luce in tutta l’isola; scendono i francesi dalla nave, militari e ufficiali, i quali organizzano una festa da ballo, perché hanno con loro anche l’orchestra; obv questa è una botta di vita impensabile per una comunità come quella di Thorshavn, una comunità che in base anche a precedenti si era preparata a scappare; capisce però che è un equipaggio amico; nella festa, però, i comportamenti delle persone sono diametralmente opposte nel senso dei sessi; le donne ballano con gli ufficiali francesi, mentre gli uomini si ubriacano con il vino portato dai francesi; Poul rimane deluso dal comportamento di Barbara, che si è accompagnata da un francese, e tutta la sera sta con lui; questi balli obv finiscono per diventare relazioni di tipo sessuale, tant’è vero che nel romanzo vien detto che “9 mesi dopo nacquero i figli dei francesi” (l’amica di Barbara, Suzanne, sì, mentre a Barbara però non nasce un figlio [non ho capito se scopa o no con il militare, ma boh]); Sembra che Barbara acconsenta ai costumi più considerati di Poul, ma invece fa tutt’altro. Tra Poul e Barbara, nonostante questo episodio dei francesi, la relazione si stringe, e i due alla fine si mettono insieme. Si vede a pag. 156 che Barbara è innamorata del suo pastore. I due fanno una passeggiata, e Poul era gioioso di essere riuscito a coniugare Barbara e Dio. Notiamo come l’atteggiamento di Barbara sia infantile (“peccatrice”, “saltella”); ricordiamo che lei ha 28 anni, è una donna già fatta che ha 2 matrimoni alle spalle, eppure il suo atteggiamento è leggiadro nei confronti della sua relazione con Poul, che le dice del peccato e del fatto che sono tutti peccatori, quindi ha un atteggiamento molto grave; questo il modo di Barbara di vivere la vita senza farsi troppe domande e senza farsi troppi pensieri, che invece Poul ovviamente si fa; 08/11/2021 Pag. 227: Cap. Corrente Poul e Barbara si sono sposati, dopo un corteggiamento. In questo capitolo, nella prima mattina dopo le nozze, abbiamo una pagina di grande modernità, e nel corso della lettura si vede un cambiamento di prospettiva da parte di Poul nei confronti della donna, che ci permette anche di scendere nei panni di Poul. Jacobsen, in queste pagine, chiede a noi stessi come lettori di questa Barbara. Sembra proprio la voglia di poter entrare finalmente nel letto con Poul; Barbara non è una donna che si è attardata nel coricarsi con il proprio marito. “Ma Barbara pensava mai a qualche cosa?” -> domanda importante per la riflessione; “Tutto quello che lei faceva sembrava quello che lei aveva buttato sulla sedia”; “Grazia innata […] natura impulsiva”; Poul si sentiva a proprio agio, non aveva bisogno di mantenere delle forme, si sente tranquillo con la moglie e la riconoscenza di lui si vede nell’intimità che c’è nella coppia. “[…] quando dormiva era così diverso!”; “Chi era Barbara?” Una serie di domande che il marito si sta ponendo: era la donna felice o è la donna sofferente? Forse tutto quello che conosceva di Barbara non era altro che un falso; conosce solamente l’aspetto esteriore o la sua vera intimità? Ora è la donna che dorme, che non può costruire una struttura a difesa della sua verità; non siamo in grado di controllare la nostra psiche quando dormiamo, siamo esattamente quella che siamo; Quando Barbara apre gli occhi non era più quella di prima: c’è un cambiamento dall’espressione e l’interiorità sofferente al suo essere felice. “Ma improvvisamente un senso di delusione si impossessò di lui. Era veramente tutto qui?” “E dire che per nove mesi era stato ossessionato, stregato da lei” “In quel momento, riprese quel senso di vuoto.” Barbara era bella, ma in quel momento Poul non sentiva niente per lei. “[…] rimpiangeva la tortura e le pene di quel tempo.” “Provava soltanto un senso penoso di compassione per Barbara e se ne faceva rimprovero” Chi è Barbara? Che donna è? Qual è l’atteggiamento di Poul? Il desiderio per Barbara è stato più importante dell’amore stesso da provare per Barbara. Una volta raggiunto questo possesso del corpo della donna, tutto svanisce, tutto si fa quasi di nulla. Sente questo “vuoto” e null’altro, “non provava alcuna emozione”; la figura di Barbara pare svuotarsi di interesse per Poul. D’altra parte c’è la delusione, come se questo matrimonio, costruito su delle basi che non sono poi così solide, non è una relazione basata sulle anime; viene mostrata la dicotomia di Barbara: la Barbara che da un lato si muove quasi come una bambina, con una gestualità quasi infantile, ma allora stesso tempo è disposta di un corpo voluttuoso, che sa di piacere (la ricerca di mettersi un neo vicino alla bocca), e allo stesso tempo ancora è una donna che pare sofferente. Nel momento in cui perde il controllo di sé, viene fuori la donna sofferente. A noi viene dato da pensare che la Barbara gioiosa e infantile che si mostra al mondo non sia forse la vera Barbara. O lo sono tutti e due? In una dicotomia esistenziale che fa convivere le due cose, le due identità di Barbara. Pag. 249: è arrivata di nuovo la nave, e da questa nave scende Andreas Heyde, parente del giudice che è venuto dalla Danimarca per scrivere un saggio sulle Fær Øer; quindi è l’uomo che viene da fuori; è un giovane a cui, quando arriva (come sempre accade), la gente delle si approssima; fra questi c’è anche Barbara. Poul, appena vede Andreas, sente scendere una terribile angoscia dentro la sua anima. Andreas diventerà l’antagonista di Poul, secondo le categorie narrative. “Ecco che l’inevitabile arriva. Andreas Heyde alzò gli occhi e vide Barbara. Il suo viso si fece improvvisamente serio.” Questo Andreas fa una risatina quando vede Barbara. fattoria, i due non avevano un legame stretto. Denys morirà nel 1931 in un incidente aereo, e questi erano gli anni in cui anche la fattoria fallisce definitivamente. A questo punto, Karen torna in Danimarca sempre nello stesso anno della morte di Denys. Il suo ritorno dal Kenya è una sorta di sconfitta per lei, ma è stato anche questo ritorno l’inizio della sua attività come scrittrice, perché non avendo più un reddito si chiede cosa sa fare, e capisce che sa di raccontare storie, storie che lei si inventava e raccontava a Denys quando lui tornava alla fattoria. 09/11/2021 Sappiamo grazie a Karen Blixen stessa, tramite interviste e altri contatti, che durante il suo periodo in Kenya raccontava a Denys Finch-Hatton dei racconti, e quando lui era via lei prendeva delle sorte di appunti, canovacci; non era una vera e propria scrittura a quel tempo. Karen prendeva questi appunti non in danese, bensì in inglese (lingua veicolare con Denys e anche in Kenya), un inglese chiaramente non di un parlante nativo. Questo si sentirà anche nel momento della scrittura, quando si va a leggere le sue opere nell’inglese “originale”. Karen inizia a scrivere pubblicando negli Stati Uniti, chiaramente sotto lo pseudonimo di Isak Dinesen, un’opera intitolata Sette storie gotiche (1° ed. 1934; la sua prima pubblicazione in danese anche riporta questo pseudonimo); sono più o meno gli anni di Barbara di Jacobsen; si può dire che questo volume già ci spiega già lo stile della Blixen: lei non scriverà mai dei romanzi, e la sua produzione è tutta fatta di racconti, ad eccezione di due lunghe opere autobiografiche (in ita. La mia Africa e un’ultima opera sul periodo in Kenya). Questi racconti sono difficilmente collocabili come genere letterario: è difficile incasellare l’autrice in un genere ben preciso, anche perché a causa della sua lunga permanenza in Africa la Blixen era un po’ fuori dalle vicende di fermenti culturali europee; il suo genere è un pochino ottocentesco, e se vogliamo seguire la trama dei suoi racconti potremmo forse definirli come sotto il genere fantastico. L’ambientazione dei suoi racconti è comunque l’Europa, raramente in Africa. Il suo “gothic” è più che altro qualcosa di irreale, più che “gothic” nel senso di fantastico inquietante o straniante. La caratteristica fondamentale della sua poetica è quella di anti-naturalista. Potremmo dire che dietro la sua visione di cosa raccontare e come raccontarlo potremmo collocare un’espressione del tipo “il lettore dev’essere portato a conoscere l’essenza oscura e meravigliosa delle cose”; quindi, il lettore deve entrare dietro la macchina degli eventi che sono e come sono narrati. Le Sette storie gotiche proprio per questo sono piene di riferimenti alla poesia danese di età romantica (c’è il gusto del gotico romantico che emerge) e sono ambientate nel contesto aristocratico di XVIII/XIX secolo. Questa collocazione temporale dei racconti le permette di evitare il riferimento alla contemporaneità, quindi allontanandosi dall’aspetto della naturalità del tempo. D’altro canto, in questi racconti l’elemento del fantastico in questi racconti è legato al tema dell’amore e dell’onirico, due linee narrative molto forti nella Blixen. Con questa raccolta di Sette storie gotiche, la Blixen ottiene fama mondiale. Karen Blixen prende i suoi appunti, fa la preparazione alla scrittura, un po’ come le vengono, un po’ in inglese e un po’ in danese, con il manoscritto finale in inglese; ma ci sono due editori diversi, uno britannico e uno statunitense. Le due edizioni non sono perfettamente identiche. Poi intervengono i traduttori, che portano al testo nelle altre lingue, e a noi qui interessa il danese. La Blixen per Sette storie gotiche non è contenta di nessun traduttore, e quindi decide di autotradursi dall’inglese al danese, e così nasce l’edizione danese. L’edizione danese delle opere di Karen Blixen rivelano una maggiore duttilità linguistica nella propria lingua chiaramente, e anche il racconto non è più una traduzione dal testo inglese, e il testo è anche cambiato, manipolato; quindi, più che di traduzione, parliamo di versione in danese. La maggior parte delle traduzioni in italiano sono tradotte dall’inglese (meno traduttori dal danese), così come Il pranzo di Babette facente parte di Capricci del destino. Nel ’37 scrive la sua autobiografia africana dal titolo in danese “La fattoria africana” (che poi diventa in italiano La mia Africa), che poi lei autotraduce in danese. Quest’opera, racconto della vita idillica nella fattoria, con una grandiosa descrizione della natura, ebbe poi nel ’60 una sorta di sequel intitolato Ombre sull’erba. La Blixen, ne La mia Africa, dimostra di aver grande rispetto della popolazione indigena, perché vede in loro la forza morale che in un lontano tempo aveva animato la nobiltà europea come lei la immaginava. L’opera termina con la tragedia della perdita della fattoria, vissuta però come una sorta di accettazione della condizione della sua vita (ricordiamo la sua percezione della vicenda della sifilide); infatti, la Blixen detestava le persone non in grado di accettare il loro destino, un pensiero che se vogliamo fa parte anche del suo retaggio familiare della madre, con la setta di quest’ultima. Nel ’42 esce il suo lavoro successivo, una serie di racconti: Racconti di inverno; sono tutti di ambientazione nordica, con la medesimo visione dell’esistenza; scritto durante la Seconda Guerra Mondiale. Dopo la guerra, scrive altri lavori minori; del ’57 è una altra raccolta, Ultimi racconti, ambientati stavolta nell’area mediterranea. Nel ’58 pubblica invece Capricci del destino, in cui l’elemento fantastico, per la prima volta, viene messo da parte, al contrario di tutte le raccolte precedenti. I racconti di Capricci del destino sono invece tutti incentrati sul rapporto tra vita e arte, e come il destino interferisca in questo rapporto. Karen Blixen muore nel ’62, donna di molto successo. Il pranzo di Babette Il racconto si colloca dopo i Racconti di inverno, e viene fuori da un contesto un po’ curioso: la Blixen dice a un amico che ha bisogno di far soldi in un dato momento, e l’amico le fa “fra, scrivi qualcosa che abbia a che fare col cibo perché gasa gli americani”. Lei così fa, e quindi nel ’50 pubblica in inglese per il mercato statunitense Babette’s feast, pubblicato sulla rivista Ladies’ Home Journal, una di quelle riviste femministe, che conteneva anche talvolta dei racconti. Babette’s feast è pensato per il pubblico femminile americano. L’argomento sembra abbastanza leggero, e tratta di una piccola comunità di una setta guidata da un pastore protestante (rispecchia molto questa setta quella di cui faceva parte la madre della Blixen) nella Norvegia dell’Ottocento (poco dopo gli anni ’70 dell’Ottocento). Il pastore ha due figlie, Filippa (= Filippo Melantone, amico di Lutero) e Martina (= Martin Lutero). Queste due, nella loro giovinezza, hanno entrambe due esperienze diverse; una, Filippa, sa cantare benissimo, e si ritrova a vivere per poco in questo villaggio un tenore francese un po’ in crisi sul suo destino. Sentendo costei cantare in chiesa rimane fulminato dalla bellezza della voce. Riesce quindi a estorcere al pastore di dar lezioni a questa ragazza, ma quando il padre sente cantare i due in un duetto del Don Giovanni si infervora e fa interrompere le lezioni di canto. La storia dell’altra sorella, Martina: Della comunità fa parte anche questa contessa che ospita per un certo periodo nel suo palazzo un giovane ufficiale svedese, suo nipote; ricordiamo che la Norvegia in questo periodo è soggetta alla Svezia, e questo ufficiale era stato mandato lì per ripigliarsi, perché era un debosciato a Stoccolma. Lui si incontra con Martina > nasce un’attrazione fisica; però, anche questo ufficiale partecipa alle riunioni della setta soltanto per poter frequentare la ragazza, ma in questo caso pure la relazione non sboccia. Queste due giovani fanciulle hanno così avuto un destino di un certo tipo, un destino avverso ai desideri delle proprie fanciulle; sono però due ragazze totalmente prostrate alla volontà paterna, non c’è mai ribellione. La trama si sposta molto avanti nel tempo: le due sorelle sono anziane, zitelle, e dopo la morte del padre sono diventate il riferimento della piccola comunità religiosa, che però diventa sempre più piccola, con sempre meno adepti, e tutti dell’età anziana di Filippa e Martina. È una comunità che tra l’altro si sta avvitando su sé stessa: sono montati dissapori, rancori, non è una comunità serena. A questo punto interviene il “capriccio del destino”: si presenta alle due signore, in una notte “buia e tempestosa”, una donna francese, che parla con loro in francese (le due sorelle sono state educate, lo sanno il francese; nell’Ottocento è lingua veicolare); dà una lettera a queste due, una lettera scritta dal tenore francese, il quale raccomanda questa signora alle due sorelle. Lui immagina che la vita delle donne sia stata molto felice, a differenza della sua, che ora è stato dimenticato nel tempo dopo i suoi grandi successi. Questa donna francese è Babette, un’amica del cantante, ed è fuggita da Parigi che, nel 1871 era stata in balia della Comune di Parigi (l’ultimo atto rivoluzionario della Francia, paese che dal 1789 aveva vissuto tre grandi momenti rivoluzionari; dopo la rivolta proletaria il potere era stato preso dal popolo, comunque poi represso); Babette era una communarde, e dopo aver visto fucilare il marito e i figli fugge in esilio, e grazie al tenore (nome: Achille Papin) riesce a trovare rifugio nella comunità di Filippa e Martina, presentandosi a fare la serva, che con pietà e compassione la accolgono in casa. L’arrivo di Babette è l’arrivo dell’ “esotico”. Con il suo arrivo, Babette si inserisce ben presto nella vita delle sorelle e della comunità. Babette fa risparmiare soldi alle due vecchiette, perché riesce a contrattare sul cibo, e poi, in questo antro in cui vive (che è la cucina, una sorta di luogo della strega) ha un grande libro nero che tiene in questa cucina. Per opera di compassione, le due signore offrono da mangiare ai poveri della comunità, e da quando arriva Babette questo cibo povero per poveri ha un sapore molto particolare. Babette diventa un po’ una sorta di strega, di sacerdotessa in questo antro in cui vive. Le due sorelle decidono a un certo punto di organizzare un piccolo festeggiamento in ricordo dei 100 anni dalla nascita del padre, e vogliono riunire la comunità per fare una piccola celebrazione dove si mangiano comunque cose molto semplici. Babette riceve una lettera dalla Francia, in cui Papin le manda il biglietto vincente della lotteria nazionale. Erano d’accordo che tutti gli anni le sarebbe stato comprato un biglietto della lotteria, e Babette vince 10.000 franchi (una cifra notevole per quel periodo). Quindi, le due signore pensano che Babette con questa cifra ragguardevole voglia tornare in Francia, ma Babette non si sbilancia, e dice che vorrebbe pensare lei alla commemorazione del pastore, preparando alla comunità una cena francese, con prodotti che lei si fa arrivare dalla Francia tramite nave. Quando arriva il carico, la piccola comunità rimane stupefatta, perché ci sono le cose più strane in assoluto: viene scaricata dalla nave una grossa tartaruga, gabbiette piene di quaglie, casse di vino, frutta (tutta roba che non hanno mai visto). Sono angustiati e preoccupatissimi per questa cena, a cui purtroppo han detto di sì, temendo che sia una cosa demoniaca. Di conseguenza, la comunità decide che non si parlerà mai di cibo durante la cena. Alla cena è invitata anche la vecchia svedese e il nipote, che ormai è diventato un generale, che durante la cena dà voce a tutti i cibi che vengono portati e tutti i vini che vengono serviti. I cibi sono sofisticatissimi, in una piccola comunità che non li conosce (brodo di tartaruga, ad es.). Alla fine di questo cenone, il generale fa un discorso. Le sue parole sono tratte dal Salmo 84 (Amore e verità si incontreranno, giustizia e pace si baceranno ecc.). Questo discorso del generale non vuole essere meramente religioso, che travalica la religione: lui ci sta dicendo che, nonostante le scelte che uno abbia fatto nella vita, se si recupera l’armonia, la pace interiore, tutto torna nel proprio ordine e si trasforma in felicità, al di là della scelta che si è fatta => discorso stesso che fa la Blixen, che travalica le scelte fatte durante la vita se si è in grado di accettare il proprio destino. La comunità, attraverso il cibo, questo benessere che è stato mangiarlo, seppur nessuno ne parli (riferim: la lingua dev’essere usata e pensata per lodare Dio, e non per il peccato, come la gola), nonostante i pregiudizi a monte di questa comunità, la comunità si è tranquillizzata, si rinsalva e torna a essere coesa. Questa è la grande opera di Babette. Babette è la persona che riesce a risvegliare l’anima attraverso questo pasto, e il generale, durante la cena, ricorda un episodio a Parigi in cui andò al Café Anglais, dove aveva cucinato Babette: la donna ha cucinato un pasto sontuoso che a Parigi si potevano permettere solo i ricchissimi. Un pranzo che a Parigi costava 10.000 franchi. Perché lo ha fatto? Orgoglio? Mettersi in mostra? Babette dice che non lo ha fatto per la comunità, ma dice che lo ha fatto per sé stessa, perché lei “è un’artista”. L’artista in questo contesto, ma anche più in generale, sente compiacimento, soddisfazione, realizzazione dell’artista stesso quando sa che l’opera d’arte è penetrata in chi ne sta fruendo: l’opera d’arte è tale se l’artista, producendo quest’opera, riesce a travalicare le barriere, le inibizioni, le protezioni, la personalità dell’uomo, del suo fruitore, cioè l’opera d’arte è tale se riesce a superare l’aspetto razionale dell’uomo. Per la Blixen l’opera d’arte è tale se riesce a penetrare dentro di noi superando la razionalità. L’opera d’arte non è qualcosa di concettuale, che posso comprendere solo se conosco, ma è tale se io vengo investito dall’opera d’arte qualunque sia il livello di conoscenza. Questo per Blixen è il grande compito dell’artista, che sia un cuoco o un pittore. Lo scopo del cibo come opera d’arte non è la cucina concettuale ma è un cibo che ti fa risvegliare qualcosa, ma è una esperienza amorosa, dove non sai se sei sazio o pieno essendo in balia di questa esperienza amorosa ed è qualcosa che travalica l’io. Babette fa questo e dimostra di essere in grado di farlo: lei sa che forse sarà l’ultima volta nella sua vita in cui potrà compiere questa cosa, ma lei rimane comunque un’artista e ciò la riempie di immensa ricchezza. Nella concezione di Karen Blixen, l’artista è anche un essere solitario perché l’artista se è tale tende a dare sempre il meglio di sé e solo in ciò, dando il meglio di sé, l’artista si appaga. Se l’esperienza artistica è solitaria però sa di non essere mai solo perché possiede la propria arte. Quindi il preconcetto che avevamo visto di quelli che non vogliono usare la lingua per esprimere l’opinione dei cibi non è più necessaria: veniva da Søren Kierkegaard il quale, in un’opera intitolata Stati del cammino della vita del 1845, sosteneva com’è povera la lingua confrontata con i suoni cit —> la lingua al servizio del desiderio.
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