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lezione 6 lett.inglese, Sbobinature di Letteratura Inglese

lezione 6 lett.inglese carotenuto

Tipologia: Sbobinature

2021/2022

Caricato il 28/02/2023

giuseppe-cuomo-5
giuseppe-cuomo-5 🇮🇹

3

(1)

33 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica lezione 6 lett.inglese e più Sbobinature in PDF di Letteratura Inglese solo su Docsity! SBOBINA LETTERATURA INGLESE III 21/10/2022 Ci ritroviamo in un paese cosmopolita, multiculturale ma non sempre siamo disposti ad accettarlo e allo stesso tempo non tutti hanno la possibilità di avere una voce in una struttura temporale che possa diventare portavoce di una forma di esistenza e non tutti possono denunciare politicamente e socialmente una condizione in cui si ritrovano a vivere. Questi artisti invece, a partire dalla loro esperienza personale, la loro memoria, i loro ricordi di infanzia, si fanno portavoce di una collettività che probabilmente senza di loro resterebbe ancora sul margine, subalterna, dimenticata. Quindi in questo momento storico è necessario fare spazio, soprattutto in luoghi come questo, alle voci del multiculturalismo in cui viviamo ma con il quale spesso non vogliamo fare i conti (forse ce lo hanno insegnato un po' anche i nostri genitori i quali non sono molto aperti a questa multiculturalità. I nostri nonni probabilmente non sono disposti ad accettare ma anche le rappresentazioni mediatiche con cui facciamo i conti tutti i giorni, le propagande di estrema destra). GAYATRY SPIVAK, la scrittrice di cui vi parlava la professoressa, nella “ragione postcoloniale” parla proprio del canone letterario come il canone che ha una funzione prettamente politica per garantire l’autorità. Noi siamo abituati a determinate rappresentazioni, a determinate strutture che sono funzionali a mantenere l’identità nazionale che non vogliamo appunto rovinare, non vogliono rovinare. Ho immaginato quindi questa lezione come uno spazio di accoglienza della bellezza delle estetiche a cui non siamo abituati, l’impegno politico di artisti e attiviste. L’arte è una forma di scrittura, una coreografia è scrittura e la scrittura è concettuale ma anche figurativa allo stesso tempo perché la parola prende spesso materialità e ha rapporto con la materialità, con le esperienze che viviamo nella vita quotidiana. Le artiste scelte sono diverse tra di loro, hanno storie diverse, provengono da paesi diversi, hanno voci e modi di esprimersi diversi, materialità diverse. Però ci sono delle tematiche che ritornano e che vorrei che diventassero un po' delle linee guida per le prossime lezioni per quello che la prof vi farà vedere, per quello che vedremo insieme: la scrittura e la ricerca dell’identità, la sovrapposizione tra corpo, scrittura e immagine, l’ospitalità, l’importanza dei sensi, la tessitura e l’intreccio sia come pratica che come momento di tessitura di relazione umana ma anche come pratica del materiale (della tela, del filo, dell’intreccio), la lingua materna, cosmopolitismo, multiculturalismo (sono delle tematiche che incontreremo durante tutto il corso). Il saggio che vedete di Chimamanda Ngozi Adichie , Adichie è una scrittrice nigeriana: “raccontare un’unica storia crea stereotipi e il problema degli stereotipi non è tanto che sono falsi ma che sono incompleti. Trasformano una storia in un’unica storia”. E’ quello che diceva la professoressa qualche lezione fa e quindi la storia come storia canonica, le singole storie. Con questo saggio la scrittrice denuncia la fallacia delle storie uniche, l’importanza di una rappresentazione trovata contro la rappresentazione canonica per sconfiggere appunto le narrazioni semplificate e non veritiere, non complete. Questo saggio è basato poi su una storia personale in quanto lei è cresciuta in Nigeria in un villaggio e tutti i romanzi che lei leggeva avevano come protagonisti/e dei personaggi bianchi, europei e con gli occhi azzurri, personaggi in cui lei non poteva rivedersi (giocavano con la neve..un canone letterario che lei escludeva). Dato che aveva solo libri, testi in cui i personaggi erano rappresentati da un uomo bianco e una donna bianca, pensava che nei libri tutti i personaggi dovessero essere così, dovessero essere stranieri e quindi parlare di persone e cose in cui lei non poteva identificarsi. Se volessimo traslare questo racconto nella situazione che viviamo oggi, crea degli effetti collaterali perché il fatto di avere un’unica storia fa anche sì che la politica possa creare un unico nemico contro cui scagliarci. Lei racconta che ad un certo punto ha cominciato a leggere scrittori e scrittrici africani e si è resa conto che c’erano altre forme di letteratura in cui poteva rappresentarsi. Si è poi trasferita in America dove ha cominciato a studiare, è stata coinvolta in vari episodi di razzismo e vivendo l’America si è resa conto che anche lei era stata sottoposta a queste rappresentazioni uniche dei suoi migranti messicani e quando è andata in Messico si rende conto che in realtà la storia è tutt’altra: questi stereotipi, questi messicani erano persone che non volevano lavorare (quando poi vai a visitare un paese ti rendi conto che la storia è un’altra, che le storie legate alle minoranze non sono storie definitive). Ci sono due frasi molto belle che lei dice: 1) “La conseguenza della storia unica è questa: spoglia le persone nella propria dignità, ci rende difficile riconoscere l’umanità che è uguale alla nostra, mette enfasi sulle nostre diversità piuttosto che sulle nostre somiglianze.” 2) “Quando respingiamo la storia unica, quando ci rendiamo conto che non c’è mai una storia unica riguardo a nessun posto, riconquistiamo una sorta di paradiso.” Quindi lei lancia quest’invito ad andare oltre le narrazioni stereotipate a cui siamo sottoposti tutti i giorni. Resta comunque una domanda che è: come possiamo fare per andare oltre queste storie? Penso che le pratiche artistiche, tenerci in contatto con artiste e scrittrice di seconda generazione, leggere, informarci, seguirla anche sui social può aiutarci a scavare dietro, a togliere questa prima patina di nazionalismo e razzismo. Ho deciso di parlarvi di BINTA DIAW che è un’artista italo-senegalese, è italiana e lavora a Milano. La prima volte che ho visto le opere di quest’artista stavo scrivendo la tesi magistrale ed era prima del covid, ero a Milano perché dovevo partire per il Kenya per il servizio civile e sono stata lì 6 mesi. Ho deciso di trattare lei perché è senegalese e sono stata insieme a lei a gennaio a partecipare a una scuola dottorale molto bella. Ho visitato l’isola di Gorée che è stata per tantissimi anni il luogo in cui venivano radunate le persone schiavizzate prima di essere portate in America. L’isola è bellissima, c’è questo contrasto tra la bellezza dell’isola e la crudeltà della storia che nasconde. Les Maison des Eclaves: qua venivano radunati tutti gli schiavi e le schiave (abbiamo fatto un tour terrificante), su c’erano gli spazi dei colonizzatori da cui poi sceglievano le donne con cui fare le loro cose orribili, c’erano stupri, continue torture e venivano radunati in queste salette ai lati. Sotto le scale ci sono dei buchi in cui venivano fatti prigionieri gli studenti e in fondo c’è questa porta chiamata LA PORTA DEL NON RITORNO: venivano legati tra di loro ai lati proprio come se fossero degli oggetti e poi venivano caricati. Molti si suicidavano prima di essere trasportati perché la disumanità in cui venivano tenuti era così forte che non si poteva resistere. Solo entrando ti rendi conto che non si può nemmeno visitare un posto così. quell’immagine perché anche se non è legata al contesto italiano, è un simbolo forte per tutte le diaspore africane. Non penso che quest’immagine appartenga a un posto preciso, è un’immagine che appartiene alla comunità afroamericana. Quest’isola da cui sono partiti tanti schiavi dalla costa atlantica e rappresenta anche le diaspore in Europa.” https://www.giampaoloabbondio.com/wp-content/uploads/2021/11/Binta-Diaw-ISOAG-dossier.pd f Questa è la riproduzione in larga scala di una NAVE NEGRIERA del 18esimo secolo: è fatta di terra con dei semi di melone che sono stati piantati in ogni singola zolla. Ogni singola zolla rappresenta l’essere umano disteso. Quest’installazione è un memoriale ma anche uno spazio di ripensamento: ripensamento perché abbiamo il coro (la musica era una forma di comunicazione), la terra, abbiamo il dualismo VITA/MORTE poiché c’è la morte ma c’è anche la vita. Le piantine rappresentano quindi nuove forme di vita che stanno nascendo. Binta parla anche della tragedia della Zong in un’opera: rappresenta sempre una nave negriera e Zong è stata una tragedia enorme, è successa durante la tratta atlantica. Furono caricati più schiavi del previsto, la nave sbagliò rotta e per un fatto di assicurazioni tra coloro che si occupavano della gestione della tratta, deciso di buttare in mare tutte le donne e bambini che avevano a bordo poiché stavano finendo le scorte d’acqua. La morte naturale non sarebbe stata rimborsata dagli assicuratori e tantomeno sarebbe stato rimborsato l’arrivo di uno schiavo morto in America. Quindi decisero di buttarli a mare. C’è una scrittrice che ha scritto un libro bellissimo su questa vicenda. C’è un’altra opera di Binta che si chiama “Dïà s p o r a”: il titolo è stato scritto volutamente. Ritroviamo anche qua la terra, ritroviamo anche qua le piante che crescono e qui c’è l’elemento delle trecce e dell’intreccio, dei capelli. Il titolo riporta un po' alla disseminazione dei semi, dice che i popoli sono proprio come i semi e significa proprio DISSEMINATO. L’artista è andata là molto prima per lavorare con la comunità soprattutto per imparare le tecniche di intreccio dei capelli. Qui prende materialità la parola perché è come se la parola DIASPORA venisse realizzata dalla terra, le trecce. Lei si ispira alla pratica dell’intreccio. Le treccine sono state delle vere e proprie forme di resistenza, le donne africane nelle treccine nascondevano il RISO sia prima di essere imbarcate per l’America sia durante il lavoro in piantagione. https://www.bintadiaw.com/diaspora/ Le treccine sono state durante l’epoca della piantagione, delle vere forme di resistenza. Le donne afroamericane nelle treccine nascondevano il riso, sia prima che venissero imbarcate per l'America sia durante il lavoro in piantagioni. Nascondevano chicchi di riso sia come nutrimento che come pratica per portar con sé parte della loro terra nel nuovo continente per continuare a lavorare con le stesse piante. Molte di loro erano guaritrici, lavoravano con le essenze , le donne guaritrici esperte in medicina vegetale avevano un ruolo principale nelle piantagioni in quanto aiutavano le donne ad abortire, quando venivano utilizzate dai colonizzatori per produrre nuovi schiavi, per poi essere convertiti in merce di scambio. Ad un certo punto gli schiavi iniziarono a ribellarsi in quelli che sono chiamati marronage, comunità di schiavi che riuscivano a scappare trovavano rifugio nelle foreste dove formavano delle vere e proprie comunità nuove, tra di loro. Nelle treccine c’erano delle cartografie del territorio per trovare queste comunità, c'erano dei percorsi segreti. C’ erano percorsi che solo i dissidenti potevano leggere in quanto si trattava di sperimentare forme linguistiche nuove. C’è un saggio di Francois Berger che è una francese che parla di quest’opera in particolare e racconta di tutte le pratiche di resistenza messe in atto. Arriviamo ad un’altra opera di Binta Diaw che si chiama Paysages corporels , paesaggio corporale, pensiamo a cicatrici sia nella terra che nel corpo, richiama sempre la relazione tra corpo e natura, le ferite del corpo e della terra. Vuole indagare anche la relazione tra il corpo femminile e la natura. Si rifà al paesaggio della sua terra natale. C’è una filosofa indiana Vandana Shiva, la prima che ha parlato di ecofemminismo. Arriviamo sempre con Binta Diaw in Italia con il corpo come resistenza, la sua relazione con la natura. In Nero Sangue parla principalmente della condizione vitale dell’Italia dove ci sono pomodori, e fotografie aggiornate negli archivi e nelle riviste che venivano distribuite in cui c’erano tutte le foto dell’Eritrea, dell’Etiopia, della sofferenza che lei trasferisce sui sacchi che poi vengono squarciati andando via la memoria. Anche l’ Italia nell’epoca del colonialismo ha prodotto forme di segregazione e rappresentazione del soggetto nero, Vi erano addirittura riviste in cui venivano raffigurate persona africane dipinti quasi come dei bambini, infantilizzati o comunque descritti in grande povertà, per far spiccare l’uomo bianco. Gli africano di fatto venivano trattati come animali per far risaltare la superiorità degli italiani. Tra la fine dell’800 e inizio 900 in Europa vi erano zoo in cui venivano portati gli africani, alla mostra d’oltremare per esempio. Saartjie Baartman era una sudafricana che venne esposta per anni, chiamata la Venere ottentotta portata in giro per essere mostrata quasi come fosse un feticcio, ridicolizzata per la sua prorompenza. Veniva esposta e stigmatizzata. Quando morì il corpo fu smembrato ed esposto al museo dell’uomo a Parigi fino al 1974, solo Mandela riuscì a farla tornare in Sudafrica nel 2002 donandole una sepoltura dignitosa. Un’altra figura importante è l’attrice Muna Mussie. Da piccola raggiunge la mamma negli anni 80 durante la guerra di indipendenza dall’etiopia, perchè dopo il colonialismo italiano l’etiopia è stata occupata dall’esercito britannico, e poi è iniziata la guerra d'indipendenza durata per quasi 30 anni, cresce a bologna, cresce a bologna in un istituto religioso, poi abbandona gli studi per non essere più ingabbiata in un sistema in cui non si sentiva riconosciuta, inclusa, accettata. Decide di abbandonare questa struttura accademica e inizia a fare teatro, comincia la sua carriera da attrice al teatro clandestino di bologna, una compagnia molto bella. in quegli anni assiste a questi festival che sono congress festival dell’eritrea per la liberazione dell’europa. Assistendo a questi festival decide di introdurre uno spazio come artista che potesse più o meno avere lo stesso significato per la comunità eritrea di bologna. il titolo è bologna st 173 , un’insegna perché in eritrea ad asmara, capitale, c’è una strada dedicata alla fiera di bologna, perchè tramite questi festival, si autofinanziava la lotta armata per l’indipendenza del paese, quindi li si raccoglievano fondi. Quando il paese venne dichiarato indipendente si pensò di dedicare una strada a bologna che aveva inviato fondi quasi per vent'anni. E in quegli anni assiste a questi festival che sono Festival per la liberazione in Europa, assistendo a tutti questi festival decide come artista di riprodurre uno spazio che potesse avere lo stesso significato per la comunità eritrea in Bologna. il titolo è ‘’ Bologna street St.173’’ perché era la capitale italiana, c’è proprio una strada dedicata alla città di Bologna perché fra questi festival e questi congressi si autofinanziava la lotta armata quindi la difesa del paese. La musica, la danza consentiva di raccogliere fondi da mandare all’autoliberazione, quindi quando il paese si è dichiarato indipendente nel ’42 la città ha voluto dedicare una strada a Bologna per ricordare suo il ruolo fondamentale. Questi festival sono durati quasi 20 anni. Fa partire un video (ho lasciato il link per chi volesse vederlo) Nel video emergono alcuni punti che abbiamo trattato come questa creazione degli spazi temporali nell’arte; quindi, l’arte che diventa un po’ come una macchina del tempo intreccia le esperienze personali ed emerge la propria infanzia. Si parla anche del concetto di casa, ma casa intesa come uno spazio di relazione, un momento temporaneo, effimero. Ritornare al ricamo, alle trecce e ai costumi tipici. Anche queste fotografie che mette sul muro sono un richiamo a (qui non ho capito 1:11:42). Un’altra sua opera molto bella è questa Curva cieca, in cui lei lavora proprio sulla relazione che ha con la lingua madre quindi con il tigrino, visto che era comunque arrivata a Bologna che era piccolissima però sua nonna le aveva regalato questo abecedario con l’alfabeto tigrino che è un alfabeto complicatissimo, forse come l’aramaico. Quindi lei si interroga sulla relazione che ha con la lingua madre. Quest’opera nasce in realtà da una sua osservazione di come il corpo venga sempre visto dagli altri ma noi non possiamo vedere noi stessi. Quindi lei stava performando sulla scena e ha notato che tutto quanto funzionava ma lei non poteva vedere se funzionava lei in scena, non poteva vedere il suo corpo dall’esterno. Quindi ha chiamato un altro ragazzo eritreo cieco e ha giocato su questa mancanza della vista, sulla mancanza della relazione con la lingua madre che lui però ha nonostante lui sia cresciuto in Italia parla benissimo il tigrino. Perciò si crea questa relazione sulla definizione dell’identità dall’esterno in quanto non è mai possibile vedere la propria immagine in relazione al fatto di essere ciechi quindi non vedere proprio nulla, l’importanza dell’educazione e l’importanza dell’educazione con la lingua madre che questo ragazzo tigrino è riuscito a sviluppare nonostante la sua cecità. E quindi c’è tutto questa performance su queste contraddizioni, che in realtà non lo sono vedendo tutto l’insieme, è semplicemente la pluralità che nasconde l’identità di ognuno di noi. Questo ragazzo si chiama Filmon Yemane di dodici anni, quindi fa venire in mente quest’esperienza di non vedere la propria immagine riflessa. Questo fatto di sensi in ambito artistico (come il tocco e la vista) è una cosa che avevamo o già visto in (non si capisce 1:14:46) dove non potevamo capire nulla di quello che l’artista stava dicendo. Lei mette in relazione le mancanze di due persone che non si conoscono ma che hanno in comune una lingua madre, lei non ha padronanza di tigrino, lui ha frequentato le scuole è ce l’ha. Lui non ha la vista, che è lo strumento per creare arte, quindi cosa fa? Ha chiesto a questo ragazzo di insegnarle delle parole in tigrino e lei le riproduce danzando sulla scena. Quindi mette la parola lingua madre in danza, che è quello che fanno anche in (1:15:42), dove Ofelia danza sulla voce di Ubabi e recita in una lingua che non possiamo comprendere; quindi, c’è la materialità della parola che si forma sulla scena. Muna Mussie definisce questa performance come un dispositivo meta didattico quindi si torna anche all’importanza dell’educazione non canonica, che usa la forma didascalica per imparare lo spazio intimo. È una reazione biografica fatta a riflessione filosofica e sul piano della rappresentazione dove un corpo ligio tanta di aderire a un’immagine costantemente sfuggente. Lei usa anche questa maschera in viso che potrebbe portarci a pensare che sia un riferimento a (1:16:44) oppure è una chiara denuncia a (1:16:53) In realtà questa maschera è una maschera di fronte, cioè le permette di guardare sia avanti sia dietro con un gioco di specchi, e anche qua ritroviamo il fatto di una performance che emerge da un momento di ospitalità, dalla condivisione del sapere. Ritroviamo la possibilità di parlare di linguaggio come sensazione e immagine, e abbiamo il ribaltamento del privilegio che di solito in Italia dove gli italiani possono capire tutto negli spettacoli e invece qui non possiamo appunto capire la lingua; quindi, ci ritroviamo a interrogarci sul senso di quest’opera.
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