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Lezione sulla lezione, Sbobinature di Sociologia

Sbobinatura completa del breve saggio di Pierre Bourdieu (tutto il testo riportato integralmente)

Tipologia: Sbobinature

2019/2020

In vendita dal 08/10/2020

Atanor_93
Atanor_93 🇮🇹

4.6

(83)

92 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Lezione sulla lezione e più Sbobinature in PDF di Sociologia solo su Docsity! LEZIONE SULLA LEZIONE Collège de France, 23 aprile 1982 Si dovrebbe poter pronunziare una lezione, anche se si tratta di una lezione inaugurale, senza chiedersi con che diritto lo si fa: l’istituzione è fatta apposta per eludere tale domanda e, con essa, l’angoscia che si associa all’elemento di arbitrarietà insito nell’atto di cominciare. Rito di aggregazione e investitura, la lezione inaugurale, inceptio, realizza a livello simbolico l’atto di delega, al termine del quale il neoprofessore è autorizzato a parlare con autorità, e che istituisce la sua parola in discorso legittimo, pronunciato da chi ha il diritto di pronunciarlo. L’efficacia essenzialmente magica del rituale si basa sullo scambio, silenzioso e invisibile, che si effettua tra il neoeletto, che offre pubblicamente la sua parola, e il consesso dei sapienti, che attestano con la loro presenza in carne e ossa che questa parola, per il fatto di essere in tal modo accolta dai professori più eminenti, diviene universalmente recepibile, cioè, in senso pregnante, magistrale. Ma è meglio evitare di spingersi troppo in là nel gioco della lezione inaugurale sulla lezione inaugurale: la sociologia, scienza dell’istituzione e del rapporto, felice o infelice, con l’istituzione, implica e produce una distanza insormontabile, e a volte insostenibile, e non solo per l’istituzione; essa sradica dalla condizione di innocenza che consente di ottemperare felicemente alle attese dell’istituzione. Parabola o paradigma, la lezione sulla lezione, discorso che riflette se stesso nell’atto del discorso, avrebbe almeno il pregio di richiamare alla mente una delle proprietà più fondamentali della sociologia quale io la intendo: tutte le proposizioni che questa scienza enuncia si possono e devono applicare al soggetto che produce la scienza. Infatti, quando non è in grado di introdurre tale distanza oggettivante, e quindi critica, il sociologo dà ragione a coloro che vedono in lui una sorta di inquisitore terrorista, disponibile a tutte le azioni di polizia simbolica. Non si accede alla sociologia senza lacerare le aderenze e le adesioni tramite le quali si dipende in genere da gruppi, senza abiurare alle credenze che sono costitutive dell’appartenenza e rinnegare ogni legame d’affiliazione o di filiazione. Così, il sociologo che proviene da ciò che si chiama il popolo, e che è pervenuto a quella che si chiama l’élite, non può avere accesso alla particolare lucidità che si associa a ogni genere di spiazzamento sociale, se non a condizione di denunciare sia la rappresentazione populista del popolo, che inganna soltanto chi ne è autore, sia la rappresentazione elitaria delle élites, fatta apposta per ingannare al tempo stesso quelli che fanno parte di tali élites, come quelli che ne sono esclusi. Considerare l’inserimento sociale del dotto come un ostacolo insormontabile alla costruzione di una sociologia scientifica significa dimenticare che il sociologo trova, contro i determinismi sociali, le proprie armi all’interno stesso della scienza che li porta alla luce, cioè alla sua coscienza. La sociologia della sociologia, che consente di mobilitare contro la scienza incorporando a se stessa il complesso di esperienze della scienza già ratificata, è uno strumento indispensabile del metodo sociologico: si fa della scienza — e soprattutto della sociologia — sia andando contro la sua formazione sia con la sua formazione. E soltanto la storia può sbarazzarci della storia. Così, la storia sociale della scienza sociale, a patto di concepirsi anche come una scienza dell’inconscio, secondo la grande tradizione dell’epistemologia storica illustrata da Georges Canguilhem e Michel Foucault, è uno dei mezzi più poderosi per strapparsi alla storia, cioè all’autorità di un passato incorporato che si perpetua nel presente o di un presente che, come quello delle mode intellettuali, è già passato nel momento stesso in cui fa la sua comparsa. Se la sociologia del sistema d’insegnamento e del mondo intellettuale mi sembra di capitale importanza, è perché essa contribuisce anche alla conoscenza del soggetto conoscente introducendo, in modo più diretto rispetto a tutte le analisi riflessive, alle categorie di pensiero impensate, che delimitano il pensabile e predeterminano il pensato: basti qui evocare l’universo di presupposti, di censure e lacune che ogni educazione giunta a compimento fa accettare e ignorare, tracciando il cerchio magico della sufficienza sprovveduta entro il quale le scuole d’élite relegano i loro eletti. La critica epistemologica non può prescindere da una critica sociale. E per misurare ciò che ci separa dalla sociologia classica è sufficiente osservare come l’autore delle «forme primitive di classificazione» non abbia mai concepito la storia sociale del sistema d’insegnamento da lui proposto nell'Evoluzione pedagogica in Francia come la sociologia genetica delle categorie della intellezione professorale per la quale, pure, forniva tutti gli strumenti. Forse, era perché lo stesso Durkheim, che esortava ad affidare la gestione della cosa pubblica ai dotti, si trovava in difficoltà nel prendere, rispetto alla sua posizione sociale di maitre à penser del sociale, le distanze necessarie a pensarla in quanto tale. Allo stesso modo, soltanto una storia sociale del movimento operaio e dei rapporti da questo intrattenuti con i 1 propri teorici dall’interno e dall’esterno potrebbe certo consentire di capire perché coloro che fanno professione di fede marxista non hanno mai veramente sottoposto il pensiero di Marx, e soprattutto gli usi sociali che ne vengono fatti, alla prova della sociologia della conoscenza, di cui Marx fu l’iniziatore: eppure, senza sperare che la critica storica e sociologica possa mai scoraggiare del tutto l’uso teologico o terroristico dei testi canonici, sarebbe almeno lecito attendersi da essa che induca i più lucidi e risoluti a liberarsi dal sonno dogmatico per mettere in pratica, cioè alla prova, all’interno di una pratica scientifica, teorie e concetti ai quali la magia dell’esegesi eternamente riattivata garantisce la fallace eternità dei mausolei. Benché debba evidentemente qualcosa alle trasformazioni dell’istituzione scolastica che autorizzava la magistrale certitudo sui del passato, questa interrogazione critica non va intesa come una concessione all’umore antiistituzionale in voga al giorno d’oggi. Essa si impone in effetti come l’unico modo di sfuggire a quel sistematico principio d’errore rappresentato dalla tentazione della visione sovrana. Quando il sociologo si arroga il diritto, che gli viene a volte riconosciuto, di dire i limiti tra le classi, le regioni, le nazioni, di decidere, con l’autorità che è propria della scienza, se esistono o meno delle classi sociali, e, se sì, quanto esistono, se la tale o tal’altra classe sociale — proletariato, ceto contadino o piccola borghesia —, la tale o tal’altra unità geografica — Bretagna, Corsica o Occitania —, sia una realtà o una finzione, egli assume o usurpa le funzioni del rex arcaico, investito, secondo Benveniste, del potere di regere fines e di regere sacra, di «dire» le frontiere, i limiti, cioè il sacro. Il latino, cui ricorro in questa sede anche in omaggio a Pierre Courcelle, possiede un’altra parola, meno prestigiosa e più vicina alle realtà odierne, quella di censor, per designare il detentore statutario di questo potere di costituzione che è proprio del dire autorizzato, in grado di fare esistere nelle coscienze e nelle cose le divisioni del mondo sociale: il censor, responsabile dell’operazione tecnica — census, censimento — che consiste nel classificare i cittadini a seconda dei loro beni, è il soggetto di un giudizio che è più vicino a quello del giudice che non a quello del dotto; esso consiste in effetti — cito Georges Dumézil — nel «situare (un uomo, un atto o un’opinione, eccetera) nella sua giusta posizione gerarchica, con tutte le conseguenze pratiche di tale situazione, e questo tramite una giusta stima pubblica». Per farla finita con l’ambizione, propria delle mitologie, di fondare secondo ragione le divisioni arbitrarie dell’ordine sociale, e innanzitutto la divisione del lavoro, e di dare così una soluzione logica o cosmologica al problema della classificazione degli uomini, la sociologia deve assumere a proprio oggetto, invece di caderne vittima, la lotta per il monopolio della rappresentazione legittima del mondo sociale, quella lotta delle classificazioni che costituisce una dimensione di qualsiasi tipo di lotta tra le classi, classi d’età, classi sessuali o classi sociali. In questo la classificazione antropologica si distingue dalle tassonomie zoologiche o botaniche: gli oggetti che essa mette — o rimette — al loro posto sono dei soggetti classificanti. Basti pensare a cosa accadrebbe se, come nelle favole, i cani, le volpi e i lupi avessero voce in capitolo riguardo alla classificazione dei canidi e ai limiti di variazione accettabili tra i membri riconosciuti della specie, e se la gerarchia delle caratteristiche prese in considerazione per determinare i ranghi nella gerarchia dei generi e delle specie fosse tale da determinare le possibilità di accesso al pasto o ai premi di bellezza. In breve, con grande disperazione del filosofo-re che, caricandoli di un’essenza, pretende di ingiungere loro di essere e fare ciò che incombe su di loro per definizione, i classificati, i malclassificati, possono rifiutare il principio di classificazione che assegna loro il posto peggiore. Di fatto, come dimostra la storia, è quasi sempre sulla scorta di coloro che aspirano al monopolio del potere di giudicare e classificare, mentre sono essi stessi malclassificati, almeno da certi punti di vista, all’interno della classificazione dominante, che i dominati hanno l’opportunità di liberarsi dal dominio della classificazione legittima e di trasformare la loro visione del mondo affrancandosi da quei limiti incorporati che sono le categorie sociali della percezione del mondo sociale. Così, scoprirsi irrimediabilmente impegnati nella lotta per la costruzione e l’imposizione della tassonomia legittima non è qualcosa di diverso dal darsi per oggetto, passando a un livello esponenziale, la scienza di tale lotta, cioè la conoscenza del funzionamento e delle funzioni delle istituzioni che vi si trovano coinvolte — come il sistema scolastico o i grandi organismi ufficiali di censimento e di statistica sociale. Pensare in quanto tale lo spazio della lotta delle classificazioni — e la posizione del sociologo in tale spazio o in rapporto a esso — non porta affatto a dissolvere la scienza nel relativismo. Indubbiamente il sociologo non è più l’arbitro imparziale o lo spettatore divino, l’unico individuo che sia in grado di dire dove sta la verità — o, per dirla in parole povere, l’unico che abbia ragione —, il che torna a identificare l’obiettività con una distribuzione ostentatamente imparziale dei torti e delle ragioni. Egli è, invece, colui che si sforza di dire la verità a 2 scienza, concorrendo in tal modo al progresso della verità scientifica. È una logica che vale anche per la sociologia: basterebbe potere praticamente esigere da tutti i partecipanti e pretendenti il dominio delle acquisizioni — già immense — della disciplina per fare in modo che scompaiano dall’universo certe pratiche che squalificano la professione. Ma chi, nel mondo sociale, ha interesse all’esistenza di una scienza autonoma del mondo sociale? In ogni caso, non i più sprovveduti a livello scientifico: strutturalmente propensi a cercare nell’alleanza con le potenze esterne, qualunque esse siano, un sostegno o una rivincita contro le pressioni e i controlli nati dalla concorrenza interna, essi possono sempre trovare nella denuncia politica un facile sostituto della critica scientifica. E neppure può interessare ai detentori di un potere temporale o spirituale, che non possono fare a meno di vedere in una scienza sociale realmente autonoma la concorrenza più temibile. Forse, soprattutto quando, rinunciando all’ambizione di legiferare, pratica attraverso la quale avviene l’eteronomia, essa rivendica un’autorità negativa, critica, cioè critica di se stessa e, di conseguenza, di tutti gli abusi della scienza e di tutti gli abusi di potere che vengono commessi in nome della scienza. Ecco perché l’esistenza della sociologia come disciplina scientifica è sottoposta a costante minaccia. La vulnerabilità strutturale che risulta dalla possibilità di barare con gli imperativi scientifici tramite il gioco della politicizzazione fa sì che essa abbia da temere dai poteri che si aspettano troppo da essa quasi quanto da quelli che vogliono la sua scomparsa. Le domande sociali sono sempre corredate di pressioni, ingiunzioni o seduzioni e il più grande servizio che si possa recare alla sociologia è forse quello di non chiederle niente. Paul Veyne notava che «i grandi specialisti del mondo classico si riconoscono da lontano per certe pagine che non scrivono». Che dire dei sociologi che vengono invitati di continuo a valicare i limiti della loro scienza? Non è così facile rinunciare alle gratificazioni immediate del profetismo quotidiano — visto che il silenzio, destinato per definizione a passare inosservato, lascia libero il campo alla roboante inanità della falsa scienza. E' così che alcuni, per non ripudiare le ambizioni della filosofia sociale e le seduzioni del saggismo, il quale, ovunque presente, possiede una risposta a tutto, possono passare tutta una vita a situarsi in territori ove, allo stato attuale, la scienza parte in anticipo sconfitta. Mentre altri, al contrario, rinvengono in questi eccessi una scusa per giustificare la rinuncia spesso implicita nelle irreprensibili prudenze della minuzia idiografica. La scienza sociale non può costituire se stessa se non rifiutando la domanda sociale di strumenti di legittimazione o di manipolazione. Il sociologo — può accadergli di deplorarlo — non ha mandato, non ha missione, a parte quelli che egli si assegna da sé in virtù della logica della sua ricerca. Coloro che, tramite un’usurpazione sostanziale, si sentono in diritto o in dovere di parlare per il popolo, cioè sì in suo favore, ma anche al posto suo, foss’anchè, come mi è capitato di fare, per denunziare il razzismo, il miserabilismo o il populismo di coloro che parlano del popolo, costoro parlano ancora per se stessi; o, comunque, parlano ancora di se stessi, nella misura in cui tentano, in questo modo, nel migliore dei casi — penso per esempio a Michelet —, di sopire la sofferenza connessa alla frattura sociale divenendo essi stessi popolo nella propria immaginazione. Ma qui devo aprire una parentesi: quando, come ho appena fatto, il sociologo insegna a riferire gli atti o i discorsi più «puri», quelli del dotto, dell’artista o del militante, alle condizioni sociali del loro prodursi e agli interessi specifici di coloro che li producono, lungi dall’incoraggiare il partito preso di riduzione e demolizione, di cui si inebriano l’acredine e l’amarezza, egli intende semplicemente predisporre i mezzi per spogliare della sua impeccabilità oggettiva e soggettiva il rigorismo, anzi il terrorismo del risentimento; a partire da quello che nasce dalla metamorfosi di un desiderio di riscossa sociale in rivendicazione di un egualitarismo compensatorio. Attraverso il sociologo, agente storico situato storicamente, soggetto sociale socialmente determinato, la storia, vale a dire la società entro la quale essa si protrae, si volge per un attimo su di sé, riflette se stessa; e, tramite lui, tutti gli agenti sociali possono giungere un po’ meglio a sapere ciò che sono, e cosa fanno. Ma questa è proprio l’ultima delle incombenze che tutti quelli che hanno a che fare con il misconoscimento, la denegazione, il rifiuto di sapere, e che sono pronti a riconoscere, in assoluta buona fede, come scientifiche tutte le forme di discorso che non parlano del mondo sociale, o che ne parlano in modo tale da non parlarne effettivamente, hanno voglia di affidare al sociologo. Questa domanda negativa non ha bisogno, se non eccezionalmente, di dichiararsi in censure esplicite: in effetti, dato che la scienza rigorosa implica delle rotture decisive con quanto è evidente, basta lasciare fare alle routìnes del pensiero comune o alle inclinazioni del buon senso borghese per ottenere le considerazioni infalsificabili del saggismo planetario o i semi-saperi della scienza ufficiale. Buona parte di ciò che il sociologo cerca di scoprire non è nascosto nello stesso senso di ciò che le scienze della natura mirano a scoprire. Molte delle 5 realtà o delle relazioni che egli mette allo scoperto non sono invisibili o, se sono tali, lo sono semplicemente nel senso che «le abbiamo sotto gli occhi», secondo il paradigma della lettera rubata caro a Lacan: penso per esempio alla relazione statistica che mette in rapporto le pratiche o le predilezioni culturali con l’educazione che si è ricevuta. Il lavoro necessario per portare alla luce la verità e per farla riconoscere, una volta che è stata prodotta, si scontra con meccanismi collettivi di difesa che tendono a garantire una vera e propria denegazione, in senso freudiano. Se il rifiuto di riconoscere una realtà traumatizzante è proporzionale all’entità degli interessi che vengono difesi, è comprensibile l’estrema violenza con cui si esprimono, tra i detentori di capitale culturale, le reazioni di resistenza innescate dalle analisi che svelano le condizioni di produzione e di riproduzione denegate dalla cultura: a gente educata a pensare se stessa in base alle categorie dell’unico e dell’innato, l’unica scoperta che tali analisi fanno fare è quella del comune e dell’acquisito. In questo caso, la conoscenza di sé è davvero, come voleva Kant, «una discesa agli Inferi». Simili alle anime che, secondo il mito di Er, devono bere l’acqua del fiume Amele, foriera d’oblio, prima di tornare sulla terra per vivervi le vite che esse stesse si sono scelte, gli uomini di cultura devono i loro più raffinati godimenti culturali solo all’amnesia della genesi che consente loro di vivere la propria cultura come un dono di natura. In questa logica, di cui la psicoanalisi è perfettamente consapevole, essi non arretreranno dinanzi alla contraddizione per poter difendere il fondamentale errore che è la loro ragione d’essere, e salvare l’integrità di una identità fondata sulla conciliazione dei contrari: ricorrendo a una forma di paralogismo del paiolo, quale viene descritta da Freud, essi potranno in tal modo rimproverare all’oggettivazione scientifica la sua assurdità e insieme la sua evidenza, e quindi la sua banalità, la sua volgarità. Gli avversari della sociologia hanno il diritto di chiedersi se un’attività, che implica e produce la negazione di una denegazione collettiva, debba esistere; ma nulla li autorizza a contestarne il carattere scientifico. Di certo non esiste, in senso stretto, una domanda sociale di un sapere totale relativo al mondo sociale. E soltanto la relativa autonomia del campo di produzione scientifica e gli interessi specifici che vi scaturiscono possono autorizzare e favorire il sorgere di un’offerta di prodotti scientifici, vale a dire, il più delle volte, critici, che sono in anticipo rispetto a qualsiasi forma di domanda. A favore del partito della scienza, che è più che mai quello dell' Aufklärung della demistificazione, ci si potrebbe contentare di invocare un testo di Descartes particolarmente caro a Martial Guéroult: «Non approvo affatto che si tenti di ingannarsi rimpinguandosi di false immaginazioni. Per questo, considerando che conoscere la verità, perfino nel caso in cui essa risulti a nostro svantaggio, è una perfezione maggiore che non l’ignorarla, riconosco che è meglio essere meno allegri e avere più conoscenza». La sociologia smaschera laself- deception, la menzogna, rivolta a se stessi, che viene collettivamente alimentata e incoraggiata, e che, in ogni società, sta alla base dei valori più sacri e, di conseguenza, di tutta l’esistenza sociale. Essa insegna, con Marcel Mauss, che «la società paga sempre se stessa con la falsa moneta del proprio sogno». Ciò significa che tale scienza iconoclasta delle società senescenti può almeno contribuire a renderci un pochino signori e detentori della natura sociale, facendo progredire la conoscenza e la coscienza dei meccanismi che costituiscono il fondamento di ogni forma di feticismo: penso ovviamente a quello che Raymond Aron, cui si deve una così circostanziata esplicazione di tale insegnamento, chiama la «religione secolare», questo culto di Stato che è un culto dello Stato, con le sue feste civili, le sue cerimonie civiche e i suoi miti nazionali o nazionalisti, sempre predisposti a innescare o giustificare il disprezzo o la violenza razzista, e che non è patrimonio esclusivo degli Stati totalitari; ma penso anche al culto dell’arte e della scienza che, a livello di idoli di sostituzione, possono concorrere alla legittimazione di un ordine sociale in parte fondato sulla disuguale distribuzione del capitale culturale. In ogni caso, ci si può almeno attendere dalla scienza sociale che faccia arretrare la tentazione della magia, questahubris dell’ignoranza ignara di se stessa che, scacciata dal rapporto con il mondo naturale, sopravvive in rapporto con il mondo sociale. Nei confronti della buona volontà malamente illuminata o del volontarismo utopista, la rivincita del reale è impietosa; e il tragico destino delle iniziative politiche che si sono rifatte a una scienza sociale presuntuosa non cessa di rammentare che l’ambizione magica di trasformare il mondo sociale senza conoscerne le forze motrici si espone al rischio di sostituire la «violenza inerte» dei meccanismi distrutti dall’ignoranza pretenziosa con un’altra violenza, a volte più disumana, La sociologia è una scienza contraddistinta dalla peculiare difficoltà di divenire una scienza come le altre. E questo avviene per il fatto che, lungi dal contrapporsi, il rifiuto di sapere e l’illusione del sapere infuso coabitano perfettamente, tra i ricercatori come tra gli esperti. E soltanto un atteggiamento rigorosamente critico può dissolvere le certezze pratiche che si insinuano 6 all’interno del discorso scientifico attraverso i presupposti inscritti nella lingua o le precostruzioni inerenti allaroutine del discorso quotidiano relativo ai problemi sociali, attraverso la nebbia delle parole, insomma, che si insinua di continuo tra il ricercatore e il mondo sociale. In senso generale, la lingua esprime più facilmente le cose che non i rapporti, gli stati più dei processi. Dire, per esempio, a proposito di qualcuno, che ha del potere, oppure chiedersi chi, al giorno d’oggi, detiene realmente il potere, significa pensare il potere come una sostanza, una cosa che alcuni detengono, conservano, trasmettono; significa domandare alla scienza di determinare «chi governa» (come suona il titolo di un classico della scienza politica) o chi decide; significa, ammettendo che il potere, in quanto sostanza, sia situato da qualche parte, chiedersi se proviene dall’alto, come vorrebbe il senso comune, oppure, tramite un ribaltamento paradossale che è ben lungi dallo scalfire ladoxa, dal basso, dai dominati. Lungi dal contrapporsi, l’illusione cosista e l’illusione personalista vanno di pari passo. E non si finirebbe più di fare la cernita dei falsi problemi che nascono dall’opposizione tra l’individuo-persona, interiorità, singolarità, e la società-cosa, esteriorità: i dibattiti etico-politici tra coloro che attribuiscono un valore assoluto all’individuo, all’individuale, all’individualismo, e coloro che conferiscono il primato alla società, al sociale, al socialismo, hanno un rilievo secondario rispetto al dibattito teorico, che rinasce sempre di nuovo, tra un nominalismo che riduce le realtà sociali, gruppi o istituzioni che siano, ad artefatti teorici privi di realtà oggettiva, e un realismo sostanzialista che reifica delle astrazioni. Soltanto la pregnanza delle opposizioni del pensiero ordinario, forti di tutta la forza delle opposizioni tra gruppi che vi si esprimono, può spiegare la straordinaria difficoltà del lavoro necessario a superare queste alternative scientificamente mortali; e come questo lavoro vada costantemente ripreso da capo, contro le regressioni collettive verso modi di pensiero più comuni, in quanto socialmente fondati e incoraggiati. Trattare i fatti sociali come cose o come persone è più facile che trattarli come relazioni. Così quelle due decisive rotture con la filosofia spontanea della storia e con la visione comune del mondo sociale, rappresentate, con Fernand Braudel, dall’analisi dei fenomeni storici di «lunga durata» e, con Claude Lévi-Strauss, dall’applicazione del modo strutturale di pensare a degli oggetti refrattari come i sistemi di parentela o i sistemi simbolici, sono sfociate in discussioni scolastiche che coinvolgevano i rapporti tra l’individuo e la struttura. E, soprattutto, il dominio delle vecchie alternative ha condotto a respingere nell’evenenziale, nel contingente, al di fuori, insomma, di ciò su cui la scienza ha presa, tutto ciò di cui trattava la storia all’antica, invece di spronare al superamento dell’antitesi esistente tra la storia infrastrutturale e la storia evenenziale, tra la macro- e la microsociologia. Per non rischiare di abbandonare all’alea o al mistero tutto l’universo reale delle pratiche, bisogna in effetti cercare in una storia strutturale degli spazi sociali, ove si producono e si concretano le disposizioni che creano «i grandi uomini», campo del potere, campo dell’arte, campo intellettuale o scientifico, il mezzo atto a colmare l’abisso sussistente tra i lenti, insensibili movimenti dell’infrastruttura economica o demografica e l’agitarsi in superficie che viene di giorno in giorno registrato dalle cronache della storia politica, letteraria o artistica. Il principio dell’azione storica, quella dell’artista, del dotto o del governante come quella dell’operaio o del piccolo funzionario, non è un soggetto tale da potersi riferire alla società come a un oggetto costituito nell’esteriorità. Non risiede né nella coscienza né nelle cose, bensì nella relazione tra due stati del sociale, cioè tra la storia oggettivata nelle cose, sotto forma di istituzioni, e la storia incarnata nei corpi, sotto forma di quel sistema di disposizioni durevoli che io definiscohabitus. Il corpo è nel mondo sociale, ma il mondo sociale è nel corpo. E l’incorporazione del sociale realizzata dall’apprendimento è il fondamento della presenza nel mondo sociale presupposta dall’azione socialmente riuscita come dall’esperienza quotidiana di questo mondo come di qualcosa di ovvio. Soltanto una vera e propria analisi di un caso specifico, che richiederebbe peraltro un’esposizione assai lunga, potrebbe evidenziare la rottura decisiva con il modo consueto di vedere il mondo sociale, determinata dal fatto di sostituire alla relazione ingenua tra individuo e società la relazione costruita tra questi due modi di esistenza del sociale, habitus e campo, storia fatta corpo e storia fatta cosa. Per essere pienamente convincenti e organizzare in una cronaca logica la cronologia delle relazioni sussistenti tra Monet, Degas e Pissarro come tra Lenin, Trockij, Stalin e Bucharin, oppure, ancora, tra Sartre, Merleau-Ponty e Camus, bisognerebbe in effetti acquisire una conoscenza sufficiente di quelle due serie causali parzialmente indipendenti che sono, da un lato, le condizioni sociali di produzione dei protagonisti o, più precisamente, delle loro disposizioni durevoli, e, dall’altro, la logica specifica di ognuno dei campi di concorrenza nei quali essi impegnano queste disposizioni, campo artistico, campo politico o campo intellettuale, senza scordare, ovviamente, le costrizioni congiunturali o strutturali 7 molto più e ben altro che non le poste apparenti, i fini manifesti delazione: la caccia conta nella stessa misura, se non di più, della cattura, e c’è un utile dell’azione che va oltre gli utili esplicitamente perseguiti, salario, prezzo, ricompensa, trofeo, titolo, funzione, e che consiste nel fatto di uscire dall’indifferenza, e di affermarsi come agente che agisce, che è coinvolto nel gioco, che è occupato, che è abitante del mondo abitato dalla gente, è proiettato verso degli scopi e investito, oggettivamente, e quindi soggettivamente, di una missione sociale. Le funzioni sociali sono finzioni sociali. E i riti di istituzione creano colui che istituiscono come re, cavaliere, prete o professore forgiando la sua immagine sociale, modellando la rappresentazione che egli può e deve dare in quanto persona morale, cioè in quanto plenipotenziario, mandatario o portavoce di un gruppo. Ma lo creano anche in un altro senso. Imponendogli un nome, un titolo, che lo definisce, lo istituisce, lo costituisce, essi gli impongono di divenire quello che è, cioè ciò che deve essere, gli ingiungono di riempire la sua funzione, di entrare nel gioco, nella finzione, di giocare il gioco, la funzione. Confucio non faceva che enunciare la verità insita in tutti i riti di istituzione quando invocava il principio della «giustificazione dei nomi», chiedendo cioè a ognuno di conformarsi alla sua funzione nella società, di vivere in conformità con la sua natura sociale: «Che il sovrano agisca da sovrano, il suddito da suddito, il padre da padre, e il figlio da figlio». Consegnandosi anima e corpo alla sua funzione e, tramite questa, al corpo costituito che gliel' assegna, universitas, collegium, societas, consortium, come dicevano i canonisti, il legittimo erede, il funzionario, il dignitario, contribuiscono a garantire l’eternità della funzione che gli preesiste e che gli sopravviverà — Dignitas non moritur — e del corpo mistico che egli incarna, e di cui partecipa, partecipando al tempo stesso alla propria eternità. Benché, per costituirsi, debba rifiutare tutte le forme del biologismo che tende sempre a naturalizzare le differenze sociali riducendole a invarianti antropologiche, la sociologia non può comprendere il gioco sociale in ciò che esso ha di più essenziale se non a patto di prendere in considerazione alcune delle caratteristiche universali dell’esistenza corporea, come il fatto di esistere allo stato di individuo biologico separato, o di essere accantonato in un dato luogo e in un dato momento, o ancora il fatto di essere e di sapersi destinato a morire, tutte proprietà più che scientificamente attestate che non entrano mai a fare parte dell’assiomatica propria dell’antropologia positivista. Votato alla morte, questa fine che non può essere presa per fine, l’uomo è un essere senza ragione di essere. E' la società, e soltanto lei, che dispensa, a diversi livelli, le giustificazioni e i motivi di esistere; è la società che, producendo gli affari o le posizioni cosiddette «importanti», produce gli atti e gli agenti che vengono giudicati «importanti», per se stessi e per gli altri, personaggi obiettivamente e soggettivamente garantiti circa il proprio valore e strappati in tal modo all’indifferenza e all’insignificanza. C’è, checché ne dica Marx, una filosofia della miseria che è più vicina alla desolazione degli imbarboniti e ridicoli vecchietti di Beckett che non all’ottimismo volontarista tradizionalmente associato al pensiero progressista. Miseria dell’uomo senza Dio, diceva Pascal. Miseria dell’uomo senza missione né consacrazione sociale. In effetti, senza arrivare a dire, con Durkheim, che la società è Dio, io direi: Dio, non è mai altro che la società. Ciò che ci si aspetta da Dio, non lo si ottiene mai se non dalla società, che è l’unica che ha il potere di consacrare, strappare alla fatticità, alla contingenza, all’assurdità; ma — ed è indubbiamente questa l’antinomia fondamentale — essa può farlo soltanto in modo differenziale, distintivo: ogni entità sacra ha il proprio complementare profano, ogni distinzione produce la propria volgarità, e la concorrenza per l’esistenza sociale conosciuta e riconosciuta, che strappa all’insignificanza, è una lotta mortale per la vita e la morte simbolica. «Citare, — dicono i Cabili — vuol dire resuscitare». Il giudizio degli altri è quello finale; e l’esclusione sociale è la forma concreta dell’inferno e della dannazione. Anche per il fatto di essere un Dio per l’uomo, l’uomo è per l’uomo un lupo. Soprattutto quando sono gli adepti di una filosofia escatologica della storia, i sociologi si sentono delegati a livello sociale, e delegati volti a dare senso, a rendere ragione, anzi a mettere ordine e determinare degli scopi. Per questo, essi non si trovano nella posizione ideale per comprendere la miseria degli uomini privi di qualità sociali, si tratti della rassegnazione tragica dei vecchietti abbandonati alla morte sociale degli ospedali e degli ospizi, della sottomissione silenziosa dei disoccupati o della violenza disperata di quegli adolescenti che cercano nell’azione ridotta all’infrazione un mezzo per accedere a una forma riconosciuta di esistenza sociale. E, certo perché hanno, come tutti, un bisogno troppo profondo dell’illusione della missione sociale per confessare a se stessi ciò che ne è il principio, essi fanno fatica a scoprire l’effettivo fondamento dell’esorbitante potere che viene esercitato da tutte le sanzioni sociali di ciò che fa sentire importanti, tutti i balocchi simbolici, le decorazioni, le croci, le medaglie, le palme o i nastri, ma anche tutti i 10 supporti sociali dell'illusio vitale, missioni, funzioni e vocazioni, mandati, ministeri e magisteri. La lucida visione della verità di tutte le missioni e di tutte le consacrazioni non condanna né alle dimissioni né alla diserzione. Si può sempre entrare nel gioco senza illusioni, tramite una risoluzione consapevole e deliberata. In effetti, le istituzioni ordinarie non chiedono tanto. Si pensi a ciò che Merleau-Ponty diceva a proposito di Socrate: «Egli offre delle ragioni di obbedienza alle leggi, ma è già troppo il fatto di avere delle ragioni di obbedienza (...). Ciò che ci si attende da lui, è proprio quello che lui non può dare: l’assenso alla cosa stessa e senza condizioni». Se coloro che scendono a patti con l’ordine stabilito, qualunque esso sia, non amano granché la sociologia, è perché essa introduce rispetto all’adesione primaria una libertà che fa in modo che la stessa conformità assuma un’aria eretica o ironica. Sarebbe stata senza dubbio questa la lezione di una lezione inaugurale di sociologia dedicata alla sociologia della lezione inaugurale. Un discorso che elegge se stesso a oggetto non attira l’attenzione tanto sul referente, che potrebbe essere rimpiazzato da un altro atto qualsiasi, quanto sull’operazione consistente nel riferirsi a ciò che si sta facendo e su ciò che la distingue dal fatto di fare semplicemente quello che si fa, di essere, come si dice, del tutto presi da ciò che si fa. Questo ritorno riflessivo, quando si compie, come qui, nella situazione stessa, ha qualcosa di insolito, o di insolente. Disperde il fascino, disincanta. Attira l’attenzione su ciò che il semplice fare cerca di dimenticare e di fare dimenticare. Fa lo spoglio degli effetti oratori o retorici che, come il fatto di leggere con il tono compreso dell’improvvisazione un testo scritto precedentemente, tendono a provare e a fare provare che l’oratore è totalmente presente a ciò che fa, che crede a ciò che dice e che aderisce pienamente alla missione di cui è investito. Introduce così una distanza che minaccia di annientare, sia nell’oratore, sia nel suo pubblico, la credenza che è la condizione ordinaria del buon funzionamento dell’istituzione. Ma questa libertà rispetto all’istituzione è senza dubbio l’unico omaggio degno di un’istituzione libera, da sempre attenta, come questa, a difendere la libertà rispetto alle istituzioni che è la condizione di ogni scienza, e innanzitutto di una scienza delle istituzioni. Essa è anche l’unica testimonianza di riconoscenza che sia degna di coloro che hanno tenuto ad accogliere in questa sede una scienza poco amata e poco sicura. Tra questi una menzione particolare va ad André Miquel. La paradossale impresa che consiste nel servirsi di una posizione autorevole per dire autorevolmente cosa significa dire con autorità, per fare sì una lezione, ma una lezione di libertà riguardo a tutte le lezioni, sarebbe semplicemente contraddittorio, anzi autodistruttivo, se la stessa ambizione di fare una scienza della credenza non implicasse il fatto di credere nella scienza. Nulla è meno cinico, meno machiavellico, in ogni caso, di quegli enunciati paradossali che enunciano o denunciano il principio stesso del potere che essi esercitano. Non c’è sociologo che correrebbe il rischio di distruggere il tenue velo di fede o di malafede che costituisce tutto il fascino di tutte le pietà istituzionali, se non credesse fermamente nella possibilità e nella necessità di universalizzare la libertà rispetto all’istituzione, quale viene fornita dalla sociologia; se non credesse alle virtù liberatrici di ciò che è senza dubbio il meno illegittimo dei poteri simbolici, quello della scienza, soprattutto quando essa assume le forme di una scienza dei poteri simbolici in grado di restituire ai soggetti sociali il dominio delle false trascendenze che il misconoscimento non cessa di creare e ricreare ancora. 11
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