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LEZIONI DI ECONOMIA AZIENDALE, Canziani, Sintesi del corso di Economia

Riassunto completamente sostitutivo, paragrafo per paragrafo del libro "Lezioni di economia aziendale" di A. Canziani

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

In vendita dal 05/03/2021

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Scarica LEZIONI DI ECONOMIA AZIENDALE, Canziani e più Sintesi del corso in PDF di Economia solo su Docsity! lOMoARcPSD|3321158 1 LEZIONI DI ECONOMIA AZIENDALE RIASSUNTO CAPITOLO 1: L’ATTIVITA ECONOMICA DALL’ANTICHITA ALLA CINA CONTEMPORANEA, ECONOMIA DI MERCATO, MONETA, SVILUPPO E DECLINO DELLE NAZIONI 1. L’attività economica quale attività sempiterna. Realisti e marxisti nella ricostruzione della storia antica. Gli insegnamenti di Rostovzev C’è distinzione tra Storia e Storiografia; la storia si articola in tre momenti, eretti uno sull’altro: a. La cronologia, necessaria per stabilire l’esatta successione degli avvenimenti. b. La biografia. c. La storiografia, ovvero la storia conforme alla sua idea. È un’interpretazione che attraversa epoche e nazioni per individuarne le leggi. È necessario rifiutare implicitamente l’interpretazione materialistico-dialettica della Storia proposta da Marx e Engels. Essi sostenevano che nelle società primitive vigeva un comunismo originario, dove tutti mettevano tutto in comune. Poi, con la divisione del lavoro, nascevano organizzazioni sociali, quindi la gerarchia e lo sfruttamento. Più si articolavano le attività produttive e più complessa diventava la l’organizzazione sociale, per arrivare poi alla nascita dello Stato (inteso come organizzazione politico-militare). La storia, in particolare nei profili economici, si è svolta diversamente! L’attività economica è antica. Partendo dall’economia antica, questa potrebbe essere articolata secondo quattro principali stilizzazioni connotate: a. Dalla rudimentalità b. Dallo statalismo c. Dall’afarismo d. Dell’espansione marittima  La civiltà etrusca Sviluppata la coltura dei cereali, della vite e dell’allevamento, nel V secolo a.C. le attività economiche erano soprattutto di tipo artigianale e di laboratori. Inoltre, gli Etruschi avevano ferventi contatti con la vicina Roma (prima dei conflitti) e contatti lungo l’asse Ovest-Est (presenza di via etrusca). Anche il grado di civiltà dimostra una discreta accumulazione di ricchezza e di cultura già avvenute.  La civiltà romana Tra i IX e VI secoli a.C., l’economia romana è dedita all’agricoltura e alla pastorizia. Con la fecondazione reciproca tra Etruschi e Romani dopo le guerre che li videro contrapposti, predominava ancora la pastorizia nell’agro romano, oltre ad attività agricole e allevamento. Iniziavano già a svilupparsi le prime attività artigianali e commerciali. Dal V al I secolo a.C., i patrizi conducevano direttamente le proprie grandi proprietà fondiarie: ciò indirizzò a un’agricoltura e bovinicoltura estensive, e successivamente alle coltivazioni; questi prodotti venivano poi collocati nei mercati settoriali, ma anche nei mercati generali. Successivamente, con la tarda Repubblica, essendo proibite alle classi nobiliari attività di tipo economico, vennero in campo gli equites. Con la prima età imperiale, si svilupparono commerci interni e commerci esteri. Si arrivò poi al secolo d’oro dell’Impero, il II secolo d.C., con lo sviluppo delle grandi Opere Pubbliche e del loro efetto moltiplicatore che comportavano sull’intera economia, cioè dello sviluppo di tutti i settori coinvolti nelle stesse opere pubbliche. Si afermò così la grande stagione dell’edilizia di Stato con finalità funzionali, di ritrovo, ricreative e celebrative. Contemporaneamente, la spesa pubblica aumentava anche in altri settori, aumentando così anche i campi d’azione per gli appaltatori. L’insieme di queste attività economiche, diede origine ad una struttura statale complessa. I quattro ceti più importanti erano: patrizi, equites, liberti e plebei. Un rilevante apporto a questi sviluppi venne dato dal sistema monetario. La monetazione standard iniziò nel 335 a.C. con l’aes grave; il sistema stesso: a. Era costituito da monete d’oro, argento, bronzo e rame-ottone. b. Fu governato con grande attenzione, mantenendo sorvegliata la circolazione totale rispetto ai volumi di scambio dell’intera economia. c. Mantenendo un sistema di cambi fissi. Si arriva poi ai decenni della decadenza, verso il 116 d.C., imputabile a fattori economici ed extra- economici. Tra i fattori economici è importante rammentare: a. Il lento mutare delle tecniche di coltivazione. b. La decadenza dell’agricoltura dopo il II secolo d.C., dovuta allo spopolamento dei campi e alle possibili vessazioni ad opera di proprietari di latifondi. c. Obbligatorietà delle corporazioni. d. Oziosità delle classi urbane (si resero necessarie le leges sumptuariae). e. Difficoltà di sviluppare produzioni su ampia scala. f. Predominanza dell’esercito. g. Strapotere degli appaltatori, soprattutto di imposte. h. Insicurezza sulle strade e nei trasporti. i. Corruzione dilagante negli uffici pubblici. j. Inflazione di prezzi e rarefazione delle monete preziose. Nonostante ciò, al muovere del V secolo d.C., quattro fattori avviarono la civilizzazione che sarebbe poi rifiorita nei secoli successivi. Questi fattori sono: a. Il ricordo dell’Impero b. La Chiesa Cristiana c. I barbari d. L’esigenza di ordine. Questa legge sostiene che a partire dall’antichità, quando i governanti difettavano l’oro, il pubblico iniziò ad accorgersi di ciò e, per questo motivo, tesaurizzava (teneva da conto) le monete più preziose. Le monete meno preziose venivano utilizzate, fino a ritornare talvolta al baratto. L’afermazione sostenuta dalla Legge di Gresham valeva nell’antichità; da quando la moneta è cartacea, infatti, la legge vige in modo inverso. Il valore della moneta, oggi, è dato dalla prosperità dello Stato da cui è emessa, dunque dalla fiducia che riscuote. Per questo motivo, quando l’economia di uno Stato peggiora, anche la sua moneta perde valore: essa è meno accettata, occorrono maggiori quantità e il pubblico cerca di liberarsene. Occorre quindi, da quanto domina la moneta cartacea, controvertire la legge di Gresham sostenendo l’afermazione “la moneta buona scaccia la moneta cattiva”. Proprio per questo motivo, la buona amministrazione dello Stato è rilevante anche da un punto di vista monetario: a. Per evitare che le monete preziose venissero tesaurizzate. b. Per evitare che la moneta del proprio Stato perda valore rispetto alle altre. 3. Le “rivoluzioni industriali” dal 1730 a oggi 3.1. I fattori causali delle “rivoluzioni” industriali in Luzzatto e altri Alcuni autori hanno criticato la terminologia nota per indicare il processo che prese per la prima volta avvio in Inghilterra, nel 1770-1780 circa: la rivoluzione industriale. Eppure, ripensando alla situazione antecedente alla rivoluzione industriale, non si possono non notare i cambiamenti, anche drastici, che ha apportato all’occupazione, ai salari, ai consumi, ai risparmi (in generale, all’intera vita economica e sociale). È necessario tenere in considerazione i cinque fattori fondamentali di ogni rivoluzione industriale e nel contempo a quali carenze degli stessi siano da attribuirsi rivoluzioni industriali tardive o parziali, o addirittura mancate: a. Quadro statuale organico. b. Disponibilità di capitali e di manodopera. c. Invenzioni, innovazioni e progresso tecnico. d. Economia di mercato. e. Domanda di mercato di beni realizzati in grande quantità e nuovi. Analizziamo nel dettaglio i singoli fattori: Quadro statuale organico - una nazione frammentata, disunita, divisa in sé stessa, non può procedere sulla strada della rivoluzione industriale. Il caso tipo è rappresentato dalla Rivoluzione Industriale Inglese, precedente di tutte le altre. L’Inghilterra era costituzionalizzata dal 1215-1297 (Magna Charta Libertatum) e si unificò poi come Gran Bretagna nel 1801; aveva un monarca, una burocrazia di governo, un esercito, una diplomazia e un sistema giuridico sul diritto consuetudinario. Inoltre aveva accumulato ingenti capitali con i commerci oltremare, oltre all’accumulo di altre ricchezze succedendo a Portogallo e Spagna (sia come potenza coloniale, ma anche nel monopolio del commercio di schiavi). A livello interno, i miglioramenti agricoli e i processi di recinzione delle proprietà agricole (un tempo pubbliche) avevano spinto molte persone all’inurbamento. Infine, molteplici e rilevanti innovazioni tecniche avevano preso corpo. In conseguenza a questi aspetti, i settori tessile, estrattivo e siderurgico avevano preso un rapidissimo e innovativo sviluppo. Successivamente alla Rivoluzione Industriale Inglese, vi fu la Rivoluzione Industriale Belga e Francese. La Rivoluzione Industriale Tedesca fu ritardata ulteriormente perché la Germania fu unificata solo nel 1867-1871 con Otto Von Bismarck (precedentemente, i principati si limitarono alla sottoscrizione dell’accordo commerciale Zollverein, nel 1834). La Rivoluzione Industriale Italiana fu ancora più tarda: si manifestò solo dopo l’unificazione ad opera del Piemonte sabaudo nel 1860-1871 (questa portò alla rovina dell’economia meridionale). A riguardo di queste ultime tre rivoluzioni, autori inglesi le definiscono “late industrial revolutions”: in realtà è chiaro che si tratta di rivoluzioni industriali successive a causa di altri fattori costitutivi. Disponibilità di capitali e di manodopera – i fattori capitale e lavoro sono fondamentali per avviare qualsiasi processo di trasformazione e decollo economico. Le produzioni in serie richiedono capitali maggiori rispetto a produzioni artigianali; richiedono anche disponibilità di abbondante manodopera. Per questi motivi è necessario aver accumulato in antecedenza ingenti capitali (o in alternativa ricorrere a capitali di banche, dello Stato e esteri). Nel contempo, è necessario assicurare alle produzioni risorse di manodopera sempre adeguate sia dal punto di vista quantitativo sia qualitativo. Progresso tecnico – si origina a partire dalle attività del settore industriale tese ad aumentare volumi produttivi. Inoltre, questo processo richiede tre componenti fondamentali (e in successione tra loro: invenzione → innovazione → industrializzazione. Esso richiede la scoperta del nuovo (invenzione), seguita dalla realizzazione di un modello e di un primo esemplare (prototipo) per vagliarne gli aspetti fondamentali (innovazione) e, infine, la produzione in serie (industrializzazione). Caratteristica importante è la mancanza di certezza del susseguirsi di queste componenti fondamentali. Per l’invenzione è necessario un “inventore pazzo” (genio); per l’innovazione serve la trasformazione del progetto in modello e poi in prototipo; poi, per l’industrializzazione occorre l’iniziativa imprenditoriale e capitali per arrivare alla produzione in serie una volta accertata la fattibilità fisico-tecnica e la convenzione economica. Economia di mercato – è necessaria la libertà di mercato al fine della realizzazione della rivoluzione industriale. È generalmente definita come “libertà di produrre e scambiare senza essere soggetti ad azioni di forza o a coercizioni da parte di terzi e senza l’intervento dello Stato”. Con economia di mercato invece si intendeva, nel Medioevo, le fiere, poi economia di commercio, le libertà di importare/esportare/produrre e vendere liberamente; è una libertà che impiegò centinaia di anni a difondersi e afermarsi più largamente. Inizialmente, la libertà di commercio fu bilaterale (parziale), poi multilaterale (ma sempre preferenziale), quindi sempre più difusa soprattutto dopo la II Guerra Mondiale, con la CEE (Comunità Economica Europea) e il GATT (General Agreement on Tarifs and Trade). Questa, tuttavia, è solo una libertà di commerciare tra Stati, riducendo o abolendo i dazi doganali. Economia di mercato, in realtà, ha un significato molto più ampio. La libertà è tutelata da una serie di condizioni strutturali; queste sono garantite dal sistema di leggi chiamato ordinamento. È necessario quindi che:  Non siano privative Non debbono esistere monopoli legali riservati allo Stato ed eventualmente da questo dati in concessione a privati. Esse erano difuse particolarmente nell’Italia medioevale e talora ancora sussistono; in generale la loro esistenza ofre privilegi, dunque induce a discriminazioni. L’unica eccezione può essere fatta per settori speciali di interesse per la difesa nazionale. Un tempo si riteneva che dovessero venire riservati allo Stato i cosiddetti servizi di pubblica utilità.  L’ordinamento tuteli efficacemente l’economia di mercato L’economia di mercato si fonda sulla libertà di produrre, scambiare e possedere: è quindi rilevante che tali libertà vengano garantite e protette in modo formale e analitico dall’ordinamento. L’ordinamento è appunto un sistema organico di leggi; deve provvedere, afermare e tutelare in via dinamica: - Iniziativa privata, cioè la libertà di investire, produrre e commerciare liberamente sotto l’egida delle norme, senza divieto in alcun campo se non quelli proibiti proprio dell’interesse pubblico. - Proprietà privata, cioè la libertà di acquistare, possedere e trasmettere per eredità liberamente. - Funzionamento dei mercati, proteggendo concorrenti e consumatori da abusi di mercato e della credulità popolare. Infine, anche se si tratta solo di condizioni indirette, risulta rivelante che lo Stato sia organico e funzionante anche e soprattutto nelle pre-condizioni dell’economia di mercato, pre-condizioni generali che riguardano l’intero svolgersi delle funzioni politico-amministrative nell’interesse di tutti i cittadini, di tutti i consorziati, di tutti gli appartenenti alla comunità nazionale. Importano cioè le determinazioni strutturali e le condizioni funzionali: - Dell’ordine pubblico. - Delle attività pubbliche. - Dell’apparato burocratico. - Del sistema tributario. Domanda di mercato – (di beni realizzati in grande quantità e di beni nuovi). Se la nazione ha già avuto processi di sviluppo, l’avvio della rivoluzione potrà trovare un primo sbocco nella domanda interna. Se lo Stato che assiema tali fattori ha accumulato capitali nel tempo e se le nuove e larghe assunzioni consentono di difondere nel sistema grandi volumi di stipendi e salari, si generano nella nazione larghe disponibilità di risorse che danno appunto vita a domanda di mercato, la nuova domanda di beni. Ciò consente allo Stato di puntare sulla a. Società tradizionale. b. Preliminari del decollo. c. Decollo vero e proprio. d. Maturità. e. Benessere di massa. Nel caso di A.G. si era visto che le nazioni, nel proprio modello di decollo, potevano sbarcare direttamente su stadi ulteriori, senza la necessità di ripercorrere tutta la trafila dello sviluppo. Il modello di W.W.R. si può rappresentare come di tipo descrittivo-generalizzante, con delle approssimazioni e, proprio per questo motivo trascura quanto è avvenuto attorno al bacino del Mediterraneo e in alcuni Stati Africani negli ultimi decenni. 3.3. Il progresso nella rivoluzione informatica contemporanea Rispetto alle grandi ere di produzioni manifatturiera, i decenni successivi hanno fatto riscontrare un profondo mutamento proprio nei modi di svolgere l’attività industriale. Quelle grandi epoche erano caratterizzate: a. Dalle produzioni di massa. b. Concentrate in poche e grandi metropoli industriali. c. Nel soddisfacimento di domanda di beni industriali relativamente indiferenziata. Ciò aveva dato vita al fenomeno del gigantismo industriale con diversi problemi tra cui quello sociale e urbanistico, oltre a quello organizzativo-gestionale (difficoltà nel controllare strutture produttive di dimensioni sempre maggiori). A quei problemi se ne aggiunsero altri, in particolare in Europa tra il 1968-1980, tra cui: a. pansindacalismo (movimenti libertari fino al terrorismo politico). b. Le crisi energetiche del 1973 e del 1980. c. L’incremento dei costi di due tra i fattori produttivi (lavoro ed energia). Dal punto di vista produttivo si passò nei decenni: a. A strutture produttive distribuite. b. Al trasferimento internazionale delle produzioni (transplanting) verso Stati dove minore risultasse il costo del lavoro o l’imposizione urbana. c. Secondo il principio manifatturiero della lean production (processi produttivi snelli) e del just in time (esattezza perfetta dei tempi acquisti-produzione-vendite con la quasi assenza di scorte) → era fatale il tramonto della catena di montaggio e il passaggio ai modi produttivi più snelli. Occorre quindi comprendere i fattori causali del mutamento; gli inizi prioritari vanno ricondotti alla corsa allo spazio durante la Guerra Fredda e alla destinazione dei satelliti artificiali a usi metereologici, delle comunicazioni, militari. La Prima crisi del petrolio (1973) indusse poi anche la Rivoluzione Tecnologica, via via sempre più rapida. Si è sviluppata così una vera Rivoluzione Informatico-digitale; ciò ha significato almeno tre conseguenze: a. Sviluppo di tecnologie ad alta intensità di capitale, specialmente in campo informatico e telematico. b. Nuovo rapporto capitale-lavoro con maggiore contributo del primo, spese in Ricerca e Sviluppo, rinnovo frequente delle strutture produttive. c. Generale difusione dell’informatica e della telematica in tutte le applicazioni produttive e della vita quotidiana, rivoluzionando settori ad elevata intensità tecnologica (High Research and Development Industries) tra cui quelli: aero-spaziale, chimico, elettronico, informatico, militare, nucleare e telematico. Si è poi intervenuto anche nella modernizzazione forzata di tutti i settori, in quanto essi incorporino componenti altamente tecnologiche e utilizzino impianti sempre più automatizzati. Con la Rivoluzione Informatica si è afermata la Rivoluzione Digitale di cui tutti siamo utenti, la quale ha dato origine alla generale re-ingegnerizzazione dei processi su base elettronico- informatica, ove gli stessi sono stati riprogettati non più sulla base di operazioni ripetitive o elettromeccaniche, ma grazie a microprocessori secondo l’ordinamento seguente: micro-processori → linguaggio di programmazione informatico → automazione impiantistica generalizzata Dal punto di vista delle imprese, la ICT (Information and Communication Technology) ha influenzato tutti i settori, ma in particolare quelli elettronico, telematico (relativo alla trasmissione delle informazioni e quindi riguardante telecomunicazioni e media) e informatico (nei suoi principi generali e nelle sue applicazioni). Dal punto di vista economico-sociale, la ICT ha dato vita alla globalizzazione, cioè alla mutazione dei flussi informativi e commerciali mondiali. Oggi infatti siamo in grado di connetterci in tempo reale con l’universo mondo. Ma siamo in grado soprattutto di accedere in tempo reale ad altrettante informazioni di tipo economiche generali, finanziarie e monetarie e di settore. Ciò ha ampliato a dismisura le capacità informative e quindi la possibilità di efettuare decisioni di impresa appoggiandole su informazioni non solo qualitative ma anche quantitative. Ha inoltre migliorato il fondamento in formativo-oggettivo delle loro scelte di gestione, ha inoltre aumentato la concorrenza da parte di imprese nazionali ed estere, oltre ad aver abbreviato tutti i tempi di azione-reazione. NB → L’insieme ha dunque oferto maggiori chances alle imprese in grado di coglierle, ma nel contempo ha accresciuto il livello di sfide cui ciascuna di essa viene oggi sottoposta, dunque ha generalmente incrementato la complessità gestionale. Occorre infine aggiungere che il citato ampliamento a dismisura ha riguardato anche la re-ingegnerizzazione elettronico-informatica dei processi di scambio, dal momento che ognuno può vendere nel mercato sia beni-merce sia beni immateriali, ma anche e soprattutto sui mercati delle materie prime e delle componenti, finanziari e dei cambi esteri. 4. I processi di crescita economica degli Stati 4.1. La transizione agricoltura – industria – servizi secondo Colin Clark Nei processi di sviluppo descritti, risulta palese la transizione delle attività agricole e pastorali all’artigianato e ai commerci. Con l’epoca moderna le attività si estendono divenendo gradualmente proto-industriali, i commerci si espandono, si iniziano i nuovi processi di inurbamento, infine le rotte marittime, da costiere o mediterranee diventano transatlantiche. Tali transizioni coinvolgono l’una o l’altra nazione a seconda della localizzazione e del grado di civiltà raggiunto. Ma di mano in mano che il progresso economico si espande, la transizione sulla quale Colin Clark attrasse la nostra attenzione sin dagli anni ’40, cioè lo spostamento del baricentro, internamente allo Stato e alla sua economia: dall’agricoltura → all’industria → ai servizi Per le esigenze della produzione industriale e a causa dei processi di inurbamento, la porzione di addetti impegnati nei settori primari transita al settore detto secondario. Ciò avviene in qualsiasi Stato, con tempi di transizione connessi alle caratteristiche delle rivoluzioni stesse. La riduzione degli addetti del settore primario è comunque una costante per qualsiasi nazione progredita. Con l’ulteriore sviluppo dell’economa crescono poi le esigenze di beni non solo materiali ma anche immateriali: ciò consente/impone l’ulteriore, parziale traslazione dal settore secondario al settore terziario. La citata transizione di C.C. è dunque destinata a confermarsi (oltre che a riprodursi) nello sviluppo di ogni nazione. Originariamente, tale transizione era largamente dovuta anche alla maggiore efficienza dei capitali e del lavoro impiegati nel settore secondario rispetto al primario: si immagini la situazione media di fine ‘800-inizio ‘900, con le produzioni di serie già avviate. Negli Stati Uniti d’America viceversa, soprattutto nelle grandi pianure del Mid-West si perseguiva già all’epoca una agricoltura intensiva; lì pure si verificò la “transizione di C.C.”, peraltro nell’ambito di un sistema ove il progresso del settore secondario era anche stimolo per il progresso del settore primario. Tale modernizzazione si è poi manifestata pure in Europa negli ultimi decenni, con la modificazione sostanziale delle modalità di gestione delle imprese agricole grazie ad ingenti investimenti anche elettronici ed informatici: a. Meccanizzazione e automatizzazione delle coltivazioni. b. Selezione dei cultivar. c. Meccanizzazione e automazione delle operazioni di raccolta. d. Selezione delle razze. In tal modo anche i rendimenti dei capitali investiti nel settore primario si sono pareggiati rispetto al secondario grazie alle maggiori efficacie raggiunte. 4.2. perplessi dal “progresso”, ovvero Kultur e Zivilisation Il passaggio dai settori primari al secondario, e poi al terziario, comporta vantaggi indiscutibili per l’intera economia, ma implica soprattutto un generale sistema di mutamenti: a. Per le classi lavoratrici. b. Per l’intera società. c. Per la società in generale. dall’Europa per l’Africa carichi di stofe; lì venivano scambiate contro schiavi da deportare per ritornare con carichi di materie prime. Successione anglo-olandese e l’Impero Britannico – l’antitesi tra Spagna e Inghilterra si fondava sul fatto che l’Inghilterra aveva trovato la Spagna già saldamente insediata nei domini oltremare; inoltre sul contrasto tra la Spagna cattolica e l’Inghilterra protestante. Elisabetta I ordinò così ai pirati John Hawkins e Francis Drake di attaccare le navi spagnole e portoghesi colme di tesori del Nuovo Mondo e, successivamente, di depredare le colonie di altre nazioni. Si inizia quindi nel XVIII secolo l’espansione inglese nei territori ancora “liberi”, in particolare in Nord America. Ferveva nel frattempo la ricerca di espansione nelle Indie, con le due Compagnie delle Indie Orientali (inglese e olandese) in conflitto tra loro per il commercio delle spezie; si arrivò così alle Guerre Anglo-Olandesi, finché si arrivò ad una spartizione: le spezie agli Olandesi, i tessili indiani all’Inghilterra. L’Inghilterra diviene Gran Bretagna poco dopo, nel 1707, si inserisce nella guerra di successione di Spagna e con il trattato di Utrecht guadagna Gibilterra, la porta del Mediterraneo, oltre a Minorca e Terranova. Impaurita dalla Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti, inizia ad accelerare la propria espansione in altri stati: Nuova Zelanda, Australia, Asia-Pacifico e Canada. L’unica potenza a fronteggiarla rimane la Francia; dopo la sconfitta di Napoleone però, la Gran Bretagna guadagna Malta, Tobago, le Mauritius e il Ceylon. Nel frattempo continua a ingrassarsi con la tratta degli schiavi. Infine, per compensare la grande importazione di the dalla Cina, cerca dal 1730 di invaderla con l’oppio indiano, fino ad arrivare alle due Guerre dell’Oppio. Grazie alle proprie capacità militari, diplomatiche, di governo, di commercio e anche piratesche, nel 1830 Londra è la più grande città al mondo. Al riguardo, David S. Landes con il lavoro “Prometeo Liberato”, ricorda: a. Il rilievo dell’iniziativa privata. b. L’antica fascinazione inglese per il commercio e le ricchezze. c. Il sistema di fabbrica e la trasformazione dell’Inghilterra nella prima (e all’epoca unica) officina del mondo. Stati Uniti d’America – si iniziò con il completamento progressivo dell’Unione e con l’acquisizione di ulteriori territori che li portarono fino al Pacifico con l’adesione di circa 30 Stati. Nel frattempo l’industrializzazione si era iniziata sulla East Coast, fondandosi largamente sul settore ferroviario data l’estensione del territorio e l’esigenza dei collegamenti East-Ovest i quali resero la rete una delle più estese al mondo. La scoperta dell’oro in California raforzò la corsa all’Ovest. Così, anche per via dell’immigrazione, la popolazione passò da circa 10 milioni a 30 milioni di persone tra il 1820- 1860. La contrapposizione tra gli Stati del Sud, forti della produzione di cotone e tabacco, dunque favorevoli al mercato libero, e gli Stati del Nord, più favorevoli a un regime protezionistico daziario per difendersi contro le produzioni inglesi, e soprattutto la questione razziale, diedero origine alla Guerra di Secessione. Successivamente alla stessa, una serie di fattori interagenti consentirono di realizzare e sfruttare il mercato interno maggiore del mondo. Gli sviluppi attraversarono qualche crisi, ma come trend durarono progressivi fino e attraverso la I Guerra Mondiale, per continuare con l’iper espansione degli anni ’20 (Roaring Twenties) e la conseguente crisi del 1929. Da questa gli USA cominciarono a uscire tramite un enorme programma di lavori pubblici e partecipando anche alla II Guerra Mondiale facendosi pagare le forniture dagli alleati, rendendo così il dollaro statunitense il perno del sistema monetario mondiale. Questa è, tuttavia, una visione eurocentrica che trascura gli sviluppi asiatici, a riguardo delle quali si accennerà solamente ai tre seguenti aspetti: a. Predominio della Cina Imperiale. b. Ascesa del Giappone Imperiale. c. Espansione mondiale della Cina delle “Quattro Modernizzazioni”. Predominio della Cina Imperiale – dopo la successione della dinastia Ching alla Ming, l’Impero Fiorito nel Mezzo conosce un ammirevole processo di crescita, sviluppo, pace, con progressi assoluti in ogni campo, fino alle Belle Arti, specialmente sotto il regno dell’Imperatore Kang Xi e di suo nipote Chiang Long. I periodi successivi non riusciranno a mantenere tale sviluppo, che porranno alla Cina quale “sistema chiuso” sfide difficilmente gestibili. Queste si iniziano con le due guerre dell’oppio, quando la Gran Bretagna vuole aprire forzosamente la Cina al commercio dell’oppio che essa faceva produrre in India. La Cina soccombe, è costretta a firmare i Trattati di Nanchino e Tsien Tsin, ad aprire altri porti all’oppio, a cedere Hong Kong all’Inghilterra. Si inizia così la penetrazione occidentale della Cina, che si avvia pertanto a un grave periodo di decadenza. Questa acuita dai contrasti con il Giappone il quale mirava alla Corea, Imperio tributario della Cina. Dopo anni di frizioni, la I Guerra sino-giapponese si conclude con la sconfitta della Cina che è così costretta a cedere al Giappone la Manciuria, Taiwan e le Isole Pescadores. Il tutto contribuirà poi alla Rivolta dei Boxers e al crollo dell’Impero Cinese. Ascesa del Giappone Imperiale – il Giappone era uno Stato chiuso finché, una spedizione militare statunitense comandata dal commodoro Perry, lo costrinse ad aprirsi ai commerci esteri anche con altri continenti. Si inizia così con la Dinastia Meji la rapida modernizzazione dell’Impero Giapponese. Per comprendere occorre riflettere alla situazione del Giappone quasi di fronte alla Cina, vastissima invece in senso assoluto e ancor più relativo, meno densamente popolata, ancora arretrata industrialmente. Nell’estremo disordine socio-politico cinese, con il Giappone che era già sbarcato in Cina e governava parte della Manciuria, si inizia così la II Guerra sino-giapponese, che porta il Giappone a espandersi militarmente in Cina. Il principale governante cinese dell’epoca, il generale Chian Kai Shek, si trova così ad afrontare sia l’invasione nipponica sia la rivolta contadina e comunista organizzata dal giovane rivoluzionario Mao Ze Dong. All’ulteriore espansione giapponese in Cina faranno poi seguito il ritiro e l’abbandono ma, nel contempo, la vittoria della rivoluzione di Mao che darà vita alla Repubblica Popolare Cinese (la Cina comunista) nel 1949. Le prospettive per il Giappone parevano pessime, ma la politica statunitense di sostegno agli Stati sconfitti, anche in funzione anti-comunista, ne consenti dopo qualche esitazione una re-industrializzazione così rapida e intensa da fare del Giappone una tra le prime potenze economiche mondiali. Espansione mondiale della Cina – il grande mutamento di è verificato per altro con Deng Xiao Ping, il quale lancia la logica delle Quattro Modernizzazioni al fine di far uscire la Cina dalle inefficienti pastoie marxiste che già avevano condannato al declino l’URSS. Le Quattro Modernizzazioni, già suggerite da altri leader cinesi, riguardavano: a. Agricoltura. b. Scienza. c. Tecnologia. d. Industria e difesa nazionale. Obiettivo delle Quattro modernizzazioni era di fare della Cina “una delle maggiori potenze economiche del XXI secolo”. Ma ciò che maggiormente rileva è annotare che, non solo sono stati raggiunti gli obiettivi prefissati quaranta anni fa, ma soprattutto si è ottenuta la crescita in Cina di circa 300 milioni di borghesi abbienti, i quali sono in grado di dare ulteriore alimento al moltiplicatore dello sviluppo economico cinese. Il passaggio così tardivo a un’economia di mercato fortemente esportativa, pur sotto la guida del partito, spiega in parte quel ritardo. Vi sono peraltro alcuni fattori strutturali che vanno conosciuti, sia perché caratteristici dell’Impero Cinese, sia perché essi possono in parte talora presentarsi in altri contesti. La Cina imperiale era caratterizzata tra l’altro: a. Da una profonda cultura burocratica confuciana. b. Da uno spirito maggiormente commerciale al Sud (Canton). c. Da un sistema gerarchico che procedeva con il sistema degli esami imperiali. d. Esami per i quali ci si preparava per anni. e. Si origina così una cultura efficiente ma cauta nelle innovazioni. f. Cultura che, proprio dal punto di vista economico-commerciale, aveva ricevuto pessimi esempi dalle attività degli Inglesi. La Cina in transizione non aveva potuto svilupparsi economicamente più di tanto, tra il declino della Dinastia Ching, rivoluzioni e disastri interni, occupazione giapponese e la Lunga marcia di Mao Ze Dong. Anche lo stabilirsi del comunismo in Cina non era risultato molto favorevole agli sviluppi industriali, esso fondandosi soprattutto sul settore primario, fino alla Campagna dei Cento Fiori del Presidente Mao Ze Dong nel 1956. 5.2. Ascesa e declino delle nazioni. Le costanti geo-politiche Le dinamiche internazionali possono venire aggregate nel modo seguente: a. Economia mediterranea a dominio veneziano e delle repubbliche marinare. b. Economia Nord Europea franco-tedesca. c. Età delle navigazioni oceaniche e delle scoperte, a dominio ispanico-lusitano. d. Predominio della Cina Imperiale. e. Sostituzione di potenze marittime e predominio dell’Inghilterra. f. Spartizione colonialista del continente africano. g. Predominio degli USA. h. Ascesa del Giappone Imperiale. A tal fine, occorre peraltro riflettere sulla situazione che caratterizzava la loro epoca: prorompenti sviluppi industriali, formazione di grandi imprese, etc. Occorrere inoltre riflettere sulle condizioni del lavoro operaio; la durata della giornata lavorativa era tendenzialmente di 16 ore al giorno per 6 giorni. Inoltre bisogna riflettere alla mancata tutela dell’operaio in malattia, incidentato o giunto alla conclusione della propria vita di lavoro, finché non venne in campo la legislazione sociale bismarckiana. Questo primo embrione di Stato sociale, che lo stesso principe di Bismarck definì cristianesimo pratico avrebbe via via riguardato l’assistenza sanitaria, le forme previdenziali contro l’invalidità e la vecchiaia, cioè lato sensu le prime forme pensionistiche. Ma occorre soprattutto riflettere allo sguardo con il quale i pensatori suddetti guardavano agli sviluppi dell’epoca, invece di comprendere i veri processi di generazione di ricchezza cui quegli sviluppi davano vita e osservare gli efetti della stessa sul sistema. Essi in sostanza stentavano a comprendere che la generazione di nuova ricchezza derivava non tanto dallo “sfruttamento operaio”, bensì dalla ricerca dell’efficienza, dall’innovazione, dai processi di ammodernamento tecnico-produttivo e gestionale nonché di sviluppo di nuovi prodotti e mercati. Il “capitalismo” si svolge oggi consentendo produzioni di ricchezza semi-infinite. Si svolge comunque con alternanze, difetti, ingiustizie, crisi e talora ruberie. Occorre allora parlare di economia di mercato, cioè della libertà di produrre, innovare, commerciare, scambiare in spazi sempre più ampi e per sempre maggiori quantità-qualità di beni, così: a. Producendo nuova ricchezza. b. Essa deriva dal maggior valore che il bene economico realizzato (materiale o immateriale) possiede e fonde in sé rispetto alla mera sommatoria dei fattori produttivi che vi si incorporano. c. Distribuire tale ricchezza in forma di salari, stipendi, interessi, dividendi, imposte, così trasfondendola nell’intero sistema economico in modo diretto e poi indiretto. Poste tali premesse, le definizioni correnti di “capitalismo” possono venire ridotte alle seguenti quattro, le quali si ridurranno poi a due; il capitalismo è: a. Riconoscimento giuridico della proprietà privata del capitale. b. Possibilità di negoziare. c. Concorso ampio e predominante del fattore produttivo capitale nell’economia moderna. d. Accumulazione continua di capitali e utili. A ben vedere, le prime due definizioni risultano coincidenti: se posso chiedere a un soggetto di compartecipare alla mia impresa come socio o come finanziatore, ciò significa che è garantita la possibilità per i singoli di risparmiare e di detenere capitali. Quando poi si parla di “concorso ampio del fattore produttivo capitale”, è illusorio immaginare che ciò abbia cominciato ad accadere con le rivoluzioni industriali: è solo un modo spregiativo del socialismo tedesco dell’ ‘800 per suggerire lo slittamento semantico: capitalismo → gran capitale → capitalisti → monopolisti-sfruttatori-speculatori Il concorso ampio del capitale quale fattore produttivo si era iniziato già nell’antichità con il riferimento alla dotazione di capitali dell’epoca. Rimangono dunque sostanzialmente due definizioni di “capitalismo”: a. Proprietà privata del capitale, possibilità di negoziare sui mercati anche gli altri fattori, il lavoro e i servizi. b. Accumulazione continua di capitali da parte di capitalisti sfruttatori e monopolisti. La prima definizione (a) ci consente quindi di definire capitalistici tutti i sistemi economici non appena essi raggiungono un grado medio di sviluppo. Occorrerà allora parlare di capitalismo antico, capitalismo medievale, capitalismo moderno e capitalismo contemporaneo. Il capitalismo è dunque sempre esistito da quando l’attività economica ha potuto organizzarsi in imprese, scambi, mercati, investimenti, importazioni ed esportazioni. In questo senso si potrebbe parlare di “capitalismo perenne”. L’animo umano obbedisce da millenni alle medesime pulsazioni; chi vede solo queste pulsazioni guarderà al capitalismo. Per questo l’attività economica è in realtà una forma di “rito selvaggio” dove tutto è travestito di “capitalismo”, nel quale solo l’avidità sfrenata spinge gli esseri umani. Per lui tutto diventa così: capitalismo → saccheggio → guerra senza rendersi conto che le guerre derivano dagli egoismi, dalla volontà di potenza, dalle prepotenze e dalle ideologie prima che dall’economia di mercato. 6.3. Lo “spirito del capitalismo” di Max Weber. Troeltsch sul calvinismo e Sombart sul giudaismo Max Weber scrisse l’opera “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo”. Questa risulta tuttavia fondamentale nella storia del pensiero, nella spiegazione della dinamica economica e inoltre nell’interpretazione dell’oggi. M.W. ricorda in primo luogo che, dal punto di vista storiografico, vi è sempre un concorso di fattori economici ed extra economici, e che le spiegazioni unilaterali tendono sempre all’incompletezza quando non alla falsità. Egli inoltre bolla come “spiegazione ingenua” il “capitalismo” derivante esclusivamente dall’avidità di guadagno e dallo sfruttamento economico che tutti possono avere ma che è soltanto capitalismo avventuriero. Egli annota quanto segue: a. Dopo il Medioevo si è afermata una nuova mentalità economica. b. Questa ha reso possibile il “capitalismo” quale fenomeno storico. c. Questo può allora venire caratterizzato dalla ricerca razionale del guadagno, intesa proprio come auto-disciplina dell’avidità smodata di guadagno. L’origine di tale interpretazione può venire ripresa in poche battute nel seguente modo: a. La Riforma Protestante ebbe anche difusione in tutto il Nord Europa, all’epoca in prorompenti sviluppi economici. b. Questa riforma introdusse il concetto di predestinazione. c. Vale soprattutto il concetto di “salvezza per sola Grazia”. d. Questo significa: - Cancellare il rilievo delle opere ai fini della salvezza. - Questo può a sua volta risultare comodo o preoccupante a seconda del carattere. - In ogni caso, lascia dubbiosi sul proprio destino oltre la morte. Ma poiché l’individuo ben aspira a conoscere quale sia il proprio destino eterno, così, con una traslazione dal piano metafisico al piano terreno (anzi terrestre, o addirittura economico- pratico), il mutamento della kultur (civiltà) tese a trasformare il successo mondano in indizi, segnali, anticipazioni e conferme del proprio destino ultraterreno, quasi a prefigurare una doppia connessione del tipo: successo e ricchezza → Paradiso; insuccesso e povertà → Inferno. Il tutto si converte in: a. Dedizione auto-disciplinata alla propria attività professionale e professione. b. Concezione austera della vita e della sua condotta orientata al dovere. c. Una vera e propria ascesi già in questo mondo. In sostanza, il lavoro del singolo come dedizione a un compito cui si è chiamati, dunque nel contempo vocazione, dalla cui operosità scaturisce il successo economico, ottenendo così la conferma di risultare graditi a Dio, di essere un Eletto. Esempio chiaro di come tali concezioni si fossero difuse all’epoca sono tutti gli esempi di operatori economici ben coscienti delle proprie responsabilità, insieme all’auto-realizzazione, a dar vita e gestire imprese in modo integro, corretto, producente, in modo tale che le stesse: a. Possano tornare di utilità per i mercati. b. Possano risultare indispensabili. c. Possano continuare nel tempo. Con il trascorrere dei decenni e dei secoli, e con l’affievolirsi o lo spegnersi della Fede nel cuore degli individui e delle masse, quelle pulsazioni, tendenze e convincimenti inconsci rimasero ma secolarizzati, cioè trasferiti sul piano meramente terreno e terrestre, appunto “del secolo”, dell’epoca. Ciò significò, e significa anche oggi, in particolare negli USA e altrove: a. “Lavoro per il lavoro”. b. La ricerca sconsiderata per il guadagno. Sui temi qui in trattazione, non possiamo sapere fino a qual punto M.W. fosse neutrale nelle proprie descrizioni, e soprattutto nell’opporsi al materialismo marxiano e al successivo pensiero dei marxisti, ben difusosi alla sua epoca. Appare peraltro chiaro che la sua impostazione consenti di rinforzare strutturalmente e con argomentazioni rilevanti, le critiche a Marx e ai marxisti, giacché la sua teoresi, tra l’altro: a. Sottintende il sistema di imprese collegate in economie di mercato. b. Vede il lavoro come missione. c. Non menziona il tema dello sfruttamento. d. Funzionalizza l’uso del denaro e della ricchezza ai fini sociali. e. Capovolge la teoria del materialismo storico. Il contributo di M.W. trattato fino ad ora, diede origine ad una quantità di sviluppi, critiche e osservazioni contributive o collaterali. Tra queste è importante citare: Risulta chiaro però che si tratta di mancanza di senso della realtà, e soprattutto di illusioni ignoranti, perché da sempre la storia del mondo ha significato soferenze, paci, guerre, rivoluzioni, sfruttamenti, schiavitù e carestie. Il tema è rilevante perché coinvolge l’intera nostra interpretazione della società moderna, l’atteggiamento di chiunque, nei confronti dell’economia di mercato e delle sue caratteristiche. Ma la cosa interessante è che i critici si riferiscono all’economia moderna e alle connotazioni di essa con capitalismo. Come accennato, l’economia di mercato si è dimostrata l’unico sistema in grado di produrre ricchezza, ma anche di riversarla nel sistema, distribuendola in modo difuso e crescente a tutti i partecipanti nella forma di redditi categorici: allo Stato dei tributi, al capitale gli interessi o i dividendi, al lavoro i salari, gli stipendi, gli emolumenti professionali. È l’economia di mercato che ha consentito alla popolazione mondiale di crescere, e non solo di sfamarli tutti, ma di permettere loro costumi, scolarità, sanità, divertimenti, viaggi e informazioni con accesso a sempre maggiori volumi di beni, durata sempre minore della settimana lavorativa e durata sempre maggiore della vita terrena. Tuttavia esistono ostinati oppositori dell’economia di mercato, i quali dopo averla denominata “capitalismo” in senso marxista, si propongono di abolirla in favore di altri sistemi, sostanzialmente tutti marxisti, i quali, errati in dottrina, o sono defunti dopo il crollo dell’URSS, o hanno dimostrato la loro inefficacia a livello pratico. Poste tali premesse, gli autori che sostengono questa visione hanno in comune i seguenti aspetti: a. Le loro idee e proposte vengono riprese e ripetute dai giornalisti. b. Alcuni dei loro suggerimenti vengono trasfusi e mescolati in azione di governo. Tra i vari che negli ultimi secoli si sono dedicati a quell’esercizio di governo, ce ne sono tre prescelti tra i più tipici, dei quali è interessante notare che pontificavano i temi economici pur essendo privi di nozioni di economia, e inoltre vivevano accomodati in quella modernità che proponevano in parallelo di devastare. Petr A. Kropotkin – di famiglia principesca russa. Fonda l’anarco-comunismo, cioè un “comunismo senza governo”. Egli muove dai seguenti principi: a. L’anarchismo ha basi scientifiche. b. Come in natura non esistono leggi pre-determinate, così la società umana, retta sull’armonia, sbocca fatalmente nell’anarchia. La società va però temperata dall’eguaglianza e dal mutuo soccorso. Occorre a tal fine abolire lo Stato, integrare città e campagne, costringere ogni individuo a congiungere valore intellettuale e lavoro manuale. c. Grazie ai punti precedenti, si giunge all’abolizione dei bisogni e del salario e organizzando la società secondo il principio “da ognuno secondo le sue forze, ad ognuno secondo i suoi bisogni”. Michal Kalecki – ingegnere polacco. Sostenne che lo Stato ha il compito di ottenere e mantenere la piena occupazione. A tal fine può procedere: a. Favorendo gli investimenti privati. b. Redistribuendo tramite le imposte il reddito dei capitalisti ai lavoratori. c. Investimenti pubblici. d. Sussidi per i consumi di massa. e. Gli uni e gli altri a carico del bilancio di Stato, anche causando ripetuti deficit del bilancio pubblico. Il disavanzo del bilancio di Stato, tuttavia, non deve preoccupare se teso all’obiettivo citato, giacché si può provvedere alle risorse mancanti stampando carta moneta, arrivando così all’indebitamento pubblico. Inoltre, siccome risulta Risparmio = deficit + investimenti privati, anche in assenza di investimenti delle imprese, più aumenta il deficit, più aumenta il risparmio. Karl Polanyi – giornalista, massone, socialista, sostenne nella “Grande Trasformazione” che l’economia di mercato è un’anomalia della storia e che essa non può venire inclusa e radicata nella società. Gli scambi necessari alla vita associata possono infatti venire efettuati secondo tre modalita: a. Per dono reciproco. b. Per redistribuzione. c. Tramite l’economia di mercato, in cui “tutto è mercato”. Quest’ultima si sostituisce alla sostanza naturale dell’economia fino a conformare a sé l’idea di società. Ne deriva, secondo K.P. quanto segue: “Un mercato autoregolato implica una grande utopia. Una tale istituzione non può esistere per un qualsivoglia periodo senza annullare la sostanza naturale e collettiva della società stessa: essa distrugge l’uomo fisicamente e trasfomar il suo ambiente in un deserto”. 6.6. Il cosiddetto “capitalismo di Stato” dell’URSS, nell’Italia fascista e nella Cina comunista È necessario parlare anche dell’avvio delle “rivoluzioni industriali” in assenza (o quasi) di economia di mercato e di proprietà privata. La letteratura parla in tal caso di “capitalismo di Stato”, quasi a significare: a. L’identità tra rivoluzione industriale e capitalismo. b. Una “rivoluzione industriale” in cui il capitale sia stato conferito soprattutto/ esclusivamente dallo Stato. c. Anche in assenza, o nella debole presenza, di proprietà privata e di economia di mercato, dunque della libertà di possedere e scambiare. L’epitome di quanto sopra fu costituito dagli sviluppi industriali dell’URSS staliniana. Quel tipo particolare di decollo non riuscì mai ad estendersi alla popolazione che rimase in condizioni economiche modeste, soprattutto a paragone delle nazioni economicamente decollate. Nonostante ciò, quel tipo di decollo risultò di grande rilievo per i pensatori marxisti, i quali videro in quelli sviluppi l’embrione di una società senza classi e l’rinversarsi di processi di “rivoluzione industriale”, di take of in assenza di mercato e di imprenditori. Le speranze dei marxisti sono fuori tempo e ciò si può dimostrare con il caso della Repubblica Popolare di Cina: essa, solamente grazie alle Quattro Modernizzazioni e all’inserirsi nel sistema di scambi dell’economia-mondo, è riuscita a dare vita a un vero e proprio processo di decollo che la rese la seconda economia del mondo. Anche l’economia interna cinese si sta gradatamente liberalizzando, ma ciò avviene sotto la guida attenta del Partito e del Governo. In questo caso, il fattor-capitale necessario alla “rivoluzione industriale” ha avuto una duplice origine: a. Capitali di Stato. b. Auto-finanziamento delle imprese. c. Capitali esteri. Nei primi anni, qualche autore accennava anche in questo caso al capitalismo di Stato, concetto ormai fuori tempo; se si volesse utilizzare una formula, si potrebbe parlare di economia guidata. L’esempio più interessante è dato dall’Italia; anche qui infatti, date la modestia delle condizioni originarie, l’unificazione tardiva, i complessi problemi successivi all’Unità, la carenza di accumulazione e l’eccesso di manodopera senza occupazione, “costrinse” quasi l’intervento delle banche, in particolare di banche miste (banche finanziatrici e socie delle imprese finanziate). Il processo prese avvio verso la fine del XIX secolo fino ad arrivare al grande impulso con le produzioni belliche del 1915-1918 grazie all’intervento dello Stato. Con il ritorno alla pace, con la caduta della domanda pubblica di armi, con la gigantesca inflazione e nei torbidi del biennio rosso (1919-1921), molte imprese entrarono in crisi arrivando a criticizzare anche le grandi banche miste. Queste sono infatti immobilizzate e anche depauperate. La situazione si trascinò tra alti e bassi fino agli anni ’20 tra provvedimenti governativi, lotta tra banche e una pseudo-ripresa internazionale. Quando anche l’iper-espansione statunitense sboccò nella crisi del 1929, anche le residue banche miste rimaste in vita crollarono, e con esse l’intero sistema di imprese che controllavano. Fu dunque necessario per il governo di Mussolini trovare una forma di salvataggio nuova per l’epoca: a. Le tre banche principali vennero nazionalizzate e dichiarate Banche di Interesse Nazionale. b. I loro compendi industriali vennero riunite in una società finanziaria, una capogruppo (holding) nella quale vennero tutte concentrate e suddivise per settori di attività: l’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale). NB → Tramite quella soluzione, forzosamente ma brillantemente attuata, avvenne tuttavia che all’epoca, nel 1932, l’Italia risultasse il secondo Stato al mondo per controllo pubblico dell’economia dopo l’Unione Sovietica. All’epoca sembrava non plausibile, anzi un abominio: a. Che uno Stato come quello italiano, incardinato nelle economie libere e di mercato difuse in tutto il mondo, intendesse seguire l’Unione Sovietica nel controllo pubblico dell’economia. b. Che il tutto riuscisse a coesistere con la proprietà privata, i mercati e gli imprenditori. c. Sembrava anche difficile conciliare l’iniziativa privata con quella pubblica. e. Democrazia, il dominio del popolo, anche nella forma “dominio della maggioranza”; e forse proprio per questo, Guizot riprendendo le teorie dell’antica Grecia riteneva che la democrazia fosse una cosa troppo seria per lasciarla agli irresponsabili. Obiettivo di fondo della politica dovrebbe risultare lo sviluppo della nazione in tutti i suoi aspetti, dunque dell’incivilimento di uno Stato. Questo poteva realizzarsi sotto grandi sovrani illuminati che hanno segnato intere epoche storiche, ovvero sotto regimi repubblicani i quali, godendo di vasto e motivato consenso, lo orientino appunto verso l’incivilimento dell’intera nazione e di tutti i ceti. Ciò peraltro avviene più difficilmente oggi, sotto governanti ai quali usualmente difettano la durata e i poteri. Le monarchie, inoltre, hanno il privilegio della continuità. Le strutture politiche sono composte come segue: a. Capo dello Stato. b. Potere legislativo. c. Potere esecutivo nel quale comprendiamo anche il potere tributario. d. Potere giudiziario. Dal punto di vista efettivo e strutturale, la politica (attività collettiva svolta originariamente nella polis) ed estrinsecatesi nell’attività di governo, può dare vita sinteticamente: a. A regimi assolutistici. b. A regimi parlamentari di democrazia plebiscitaria. c. A regimi parlamentari di tipo partitico (monarchici o repubblicani). Con la Rivoluzione Francese e quella del 1848, tutte le monarchie sono state parlamentarizzate, ovviamente rimanendo sospesi nei decenni: a. I poteri del sovrano rispetto al parlamento e viceversa. b. La natura, la struttura, la composizione del parlamento. Infine, soprattutto dopo la I e la II G.M., il crollo delle monarchie danubiane, con i movimenti anti-colonialisti, si sono difusi ovunque nel mondo i regimi repubblicani. Anche in questi comunque rimane tra gli altri il problema dei poteri del Capo di Stato, figura talora solo rappresentativa, talaltra invece anche esecutiva. Quale sia poi la dinamica parlamentare, occorre in via previa vagliare se si tratti di strutture monocamerali o bicamerali, ove solitamente la seconda Camera è intesa quale tutela della democrazia. Anche in quest’ultimo caso, peraltro, molto dipende dai poteri assegnati all’una e all’altra. Infine, è necessario trattare del tema della separazione dei poteri; non è un problema solo sulla divisione giuridico-istituzionale tra gli stessi, ma: a. La qualità di ciascuno di essi. b. L’interazione funzionale tra gli uni e gli altri. Le democrazie si possono infatti distinguere in sistemi parlamentari funzionanti e sistemi parlamentari disfunzionali. Sul punto occorre ricordare che l’uno e l’altro tipo possono risultare tipici e semi-costanti di un singolo Stato, ma anche che un medesimo Stato può transitare da un tipo all’altro. In particolare poi, nelle partitocrazie degradate, tendono a crescere di numero e di dimensione gli organi di governo, esecuzione e controllo, non tanto con finalità di maggiore efficienza ma bensì per dare sfogo alle pretese e agli appetiti dei partiti e dei politicanti che li costituiscono. Questo fatto è vero sin dalla fine del 1700, se già Thomas Jeferson, il terzo Presidente degli USA, diceva: “Credo che abbiamo più meccanismi di governo del necessario, troppi parassiti che vivono sul lavoro delle persone operose”; e risulta confermato sin dagli inizi della Repubblica Italiana del 1946, se Piero Calamandrei diceva: “Chiamare i deputati e i senatori ‘rappresentanti del popolo’ non significa più ciò che questa frase si voleva dire in altri tempi”. Sul punto ci ammaestrava già quarant’anni fa Giovanni De Maria: “è in questi ambienti che si formano e riformano le correnti politiche dominanti e poi le nuove leggi, la scelta del primo ministro e degli altri reggitori politici, inclusi molti funzionari pubblici e semipubblici”. Etica – tutti, almeno indirettamente, conoscono il tema o ne intuiscono i precetti per via del senso di bene e di male che è un innatismo. L’etica è talvolta distinta in giudizi di valore e obbligazioni che ne conseguono in tema di comportamenti. Confucio è ricordato come esponente dell’etica cinese espressa in forme di massime, le quali esprimono la morale dell’Impero Fiorito nel Mezzo; tra questi ricordiamo i seguenti: “Abbi sincerità e fedeltà come primi principi”; “in una nazione ben governata la povertà è qualcosa di cui vergognarsi; in una nazione malgovernata la ricchezza è qualcosa di cui vergognarsi”. C’è poi Aristotele per l’influsso che il suo pensiero ebbe sui pensatori di tutti i secoli seguenti. Aristotele parla di etica nei dieci libri introduttivi alla “Politica”. Etica è dunque una disciplina filosofica, teorica e pratica per orientare l’agire dell’uomo, in primo luogo nella sua vita privata, indirizzandola alla Felicità. Per fare questo occorre: a. Distinguere la felicità dai piaceri. b. Fare ricorso alle virtù. c. Perfezionare i comportamenti per orientarli al bene. d. Il raggiungimento del bene consiste nel trovare appunto la felicità. Questo orientamento al bene nella vita privata sarà poi condizione di comportamenti specchiati anche nella vita aggregata, nella vita sociale. Per quanto riguarda l’etica romana classica è necessario fare riferimento a Eneo Domizio Ulpiano; il suo pensiero influenzò poi gradatamente il Codice Giustinianeo. Egli sintetizzò l’etica nela terna di precetti che si ammaestrano da allora: a. Honeste vivere (vivere onestamente). b. Nominem lidere (non recare danno). c. Suum cuique tribuhere (compatire). Per l’etica cristiana invece si può far riferimento a San Tommaso d’Aquino, il quale si ritiene abbia dato sul tema il contributo massimo al pensiero occidentale dopo Aristotele, e prima di Kant. Egli definisce il riconoscere della ragione quale sistema di ordine. La filosofia morale riguarda “l’ordinamento del volere al producibile” non a nostro gusto, bensì secondo una recta ratio factibilium (comprensione ben fondata si ciò che è giusto fare), la quale scelga adeguatamente gli scopi del nostro agire, vi orienti i mezzi. La felicità infatti non può consistere nei beni creati, ma nell’unico Fine ultimo delle creature, cioè Dio, Bene perfetto. È dunque l’etica che deve orientare le abitudini e i comportamenti dell’uomo. Immanuel Kant tratta il tema dell’etica soprattutto in “Fondamenti di metafisica della morale” e in “Critica della Ragion Pratica”. Egli fonda l’etica sull’uomo, sulla sua dignità di essere personale e razionale, autonomo, autoregolato, nel quale è dunque la ragione che detta liberamente i comportamenti. La ragione deve orientare la volontà a rispettare le leggi morali e conformarvisi perché esse sono leggi necessarie. Si tratta infatti di norme che dipendono dal nostro appartenere alla comunità degli esseri razionali, e soprattutto che risultano infinitamente superiori alle nostre inclinazioni e desideri soggettivi. Esistono per tutti noi degli obblighi, denominabili imperativi categorici, i quali vanno obbediti a prescindere delle conseguenze personali anche negative che ce ne possano derivare. Gli imperativi morali possono essere sintetizzati così: a. Trattare l’umanità sempre quale fine e mai come mezzo. b. Agire in modo tale che il principio che regola le nostre azioni lo si possa desiderare quale regola universale. Benedetto Croce, storico e filosofo laico, riconobbe in un suo famoso scritto che, anche se non credenti, non possiamo non dirci cristiani. L’etica deve guidare i comportamenti anche da un punto di vista terrestre e mondano, insomma meramente razionale. 8. L’economia di mercato tra vantaggi e svantaggi 8.1. I vantaggi dell’economia di mercato I vantaggi dell’economia di mercato sono noti sin dal tempo di Adam Smith, se non prima. Mercato libero significa libera concorrenza tra imprese, le quali tendono al proprio continuo sviluppo con l’obiettivo di collocare i propri prodotti sempre rinnovati, o nuovi, estendendosi così nei mercati e accrescendo le proprie dimensioni. Questa tendenza collettiva delle imprese leader a migliorarsi ed espandersi, le spinge anche a concorrere vivacemente tra loro, con risultati di miglioramento e aggiornamento, distribuzione migliore e più capillare, riduzione dei prezzi. Il primo punto è noto a tutti, essendo noi consumatori efettivi o potenziali. Dall’economia di mercato derivano quindi vantaggi collettivi per le imprese, i consumatori, i settori industriali e lo Stato. Il funzionamento buono/ottimo dei settori economici non può che riflettersi sulle condizioni di svolgimento dell’economia in generale: maggiore occupazione, migliori redditi, maggiori produzioni di ricchezza che si riversano nel sistema in forma di più larghe distribuzioni di redditi categorici. Ciò avviene in ipotesi ottime: svolgimenti regolari e ordinati e assenza di turbamenti esogeni di tipo funzionale, soprattutto di turbamenti esogeni strutturali (le forze shock che possono colpire uno o più sistemi economici: guerre, conflitti locali, migrazioni di popoli, rivoluzioni, terremoti, carestie, siccità, innovazioni radicali, grandi ofensive commerciali, sanzioni internazionali). A parte tali dinamiche, il sistema si sviluppa e cresce regolarmente. Al riguardo basti pensare ai progressi moderni e contemporanei tra l’altro in tema di: a. Durata media della vita. b. Ridotta durata della settimana/giornata lavorativa. c. Livelli medi quali-quantitativi dei consumi singoli e collettivi. d. Aumentato accesso all’istruzione. b. Tale corpus venne denominato economia, che etimologicamente significa “leggi per il governo della casa”, da intendersi nel senso di leggi per guidare l’amministrazione delle risorse, siano esse risorse della Famiglia, dell’Impresa e dello Stato. c. Parlare di “leggi di governo, di amministrazione delle risorse” significa aver percepito quel corpus non solo come un insieme compiuto di variabili, ma come sistema organico, a riguardo del quale si potessero dunque rinvenire o formulare leggi di comportamento, oltre a individuare vari gradi di ottimalità nel raggiungere gli obiettivi e di imporre le relative “regole ottime”. “Governo della casa”, cioè amministrazione ottima delle risorse era poi da riferirsi via via: a. In primo luogo alla Famiglia. b. Quindi alle Imprese dell’epoca, tipiche di sistemi economici dalla natura eminentemente agricola e primaria e successivamente artigianale, mercantile e marittima, eppure già allora impiegate nei costi, ricavi, utili o perdite da guidarsi secondo “leggi di amministrazione”. c. Infine allo Stato; era ben chiaro che anche esso necessitasse di leggi per guidare l’amministrazione delle risorse: raccoglieva infatti imposte e provvedeva poi alla spesa pubblica. Da allora, dunque, l’economia costituì quindi un corpus, cioè un insieme unitario più o meno vasto. Tale insieme rappresentò in sostanza un oggetto sistematico: a. Che si trattasse di indirizzare l’attività pratica tramite le tecniche. b. Che si volesse assurgere al livello scientifico per dare vita a scienze economiche sia di tipo “puro”, sia orientato al fare. Passiamo allora a vedere come tali discipline (tecniche, scienze ed economiche) studiassero sin dall’inizio l’attività economica. Per molti secoli l’economia empirica fu studiata dalle sole tecniche, trattazioni che volevano istruire e condurre gli operatori economici dal punto di vista pratico, tramite soprattutto: a. La contabilità, scienza dei conti, cioè la Ragioneria. b. Le tecniche di amministrazione, cioè le tecniche mercantile, bancaria e successivamente proto-industriale. A riguardo si hanno delle trattazioni: alcune più specifiche e minute, altre incomplete; alcune soltanto orientate alla soluzione di problemi pratici, altre che assurgevano ad afermazioni di grande validità spazio-temporale, così avvicinandosi alle scienze economiche. Le principali del periodo compreso tra il 400 a.C. e il 1804, ebbero un contenuto di verità rilevante, anzi noi ancora oggi utilizziamo alcuni dei concetti proposti: Senofonte – nel 380 a.C. scisse un trattato di scienza dell’amministrazione, in cui si parla dell’attività imprenditoriale, dello svolgimento delle attività produttive, della qualità della produzione ottenuta anche attraverso l’organizzazione del lavoro. Aristotele – nel 350 a.C. tratta di orientamento al risultato economico e di suddivisione del rischio. Columella – nel “De re rustica” giunge persino a proporre quale debba essere la redditività tipo di un investimento. Dopo il collasso dell’Impero Romano e la frammentazione localistica, i saggi di tecnica riprendono intorno al 1200 d.C.: Abu l’Fadi Gafar – sceicco siriano; nel 1174 descrive le origini della moneta, tratta la merceologia dei beni, motiva la formazione dei prezzi nell’incontro della domanda e dell’oferta e suggerisce infine come calcolare il valore dei beni. Leonardo Fibonacci – nel 1202 circa pubblicò il “Liber Abaci”; egli importò dalle Indie il sistema decimale e lo svolge con esempi. L’importanza dei “numeri indiani” risultò subito assoluta, soprattutto nel campo del commercio ai fini del calcolo. La teologia stessa ritorna, negli anni di nascente attività commerciale, a occuparsi di economia, in particolare di etica economica: San Tommaso d’Aquino – vendere solo “al prezzo moralmente giusto”. San Bernardino da Siena – l’attività commerciale è il risultato congiunto di prestazioni di lavoro e di assunzione del rischio. Sant’Antonio Vescovo di Firenze – diede il suggerimento al mercante di non preoccuparsi se i suoi prodotti siano acquisti per necessità o per “insano desiderio di lussi”, ma di lavorare onestamente e di vendere al giusto prezzo. Vi è poi una serie di rilevanti opere italiane di tecnica successive alla fine del ‘200; in esse si descrivono le vie di trasporto e marittime, le piazze commerciali con le usanze tipiche, le tecniche di trasporto, le tarife doganali, etc. Luca Pacioli – scrisse “Summa de Arithmetica etc.”; in questa opera espose il metodo della “contabilità in partita doppia”, metodo ancora oggi usato in tutto il mondo, anzi così importante che anche altre nazioni ne rivendicano la paternità. Ulteriori rilevanti opere di tecnica si hanno poi con Lorenzo Meder, a Norimberga, e Giovanni Domenico Peri, a Genova. Chiudiamo infine con le trattazioni del ‘600-‘700, con le quali sia il sistema dei commerci, delle attività e delle piazze commerciali è organicamente definito, sia viene completata l’istruzione relativa alla gestione delle imprese agricole, delle imprese commerciali (con Jacques Savary), con i suoi seguaci tedeschi Paul Jacob Marperger, Karl Gunter Ludovici e Johann Karl May, infine Johann Heirich Stilling e Johann Michael Leuchs, con i quali si giunge sostanzialmente alla Rivoluzione Francese e all’Impero Napoleonico. Così, verso la metà e la fine dell’ ‘800, si trovano formate le tecniche contabili e amministrativo-gestionali, soprattutto in Italia e Germania. Tralasciando impotante autori stranieri, ci limitiamo ai seguenti per i traguardi speculativi raggiunti: a. Per l’Italia, Giuseppe Cerboni e Fabio Besta. b. Per la Germania, Eugen Schmalennach. Questi tre autori sono fondamentali perché colgono aspetti fondamentali dell’economia empirica, propongono soluzioni parziali ancora valide e utilizzate e, infine, costituiscono l’humus su cui Gino Zappa, allievo di G.C. e successore di F.B., fonderà per l’Italia l’Economia aziendale. Essi fanno evolvere la Ragioneria come tale, perfezionandola per adattarla ai compiti sempre più vasti e complessi che la contabilità e i bilanci dovevano assumere nel complicarsi della vita economica-sociale. Ma essi sono importanti anche per l’evoluzione di pensiero a cui danno vita con le proprie opere: a. G.C. fondando la Ragioneria sul patrimonio e su un metodo giuridico-contabile proprio. b. F.B. riformando la Ragioneria fondandola sulla sola sistematica contabile delle “partita doppia”, rendendola attenta al patrimonio e alle sue variazioni. c. E.S. riservando la Ragioneria alle sole imprese, fondandola non più sul patrimonio ma sul reddito. G.C. sviluppa un nuovo e interessante sistema integrale di Ragioneria patrimoniale denominato logismografia. G.C. è importante soprattutto per la proposta che la Ragioneria divenga scienza amministrativa di tutti gli operatori economici. F.B. è il suo grande oppositore: egli fonda la Ragioneria italiana ponendo soprattutto attenzione al patrimonio e alla sua dinamica. Egli rimane però scettico sull’ampiamento della stessa: la ragioneria come scienza dei conti può essere applicata in modo diferenziato, ma rimane poi sempre disciplina eminentemente contabile, seppur poi con risvolti organizzativi e gestionali. E.S. scrive prima e dopo gli sconvolgimenti della I G.M.; egli rappresenta l’approccio empirico e realistico all’azienda, anzi così realistico da restringere lo studio alle sole imprese private. Con la sua “Dottrina dell’economia privata” interpreta la realtà come un insieme di interessi individualistici che si confrontano tra loro nei mercati. Questa dottrina ha quindi il dovere di essere applicata, oltre a essere normativa; il suo compito principale è: a. Utilizzare i processi contabili per misurare la produzione/distruzione di valore economico. b. Nel definire comportamenti aziendali ottimali e individuarne le regole. A questo riguardo, in particolare, egli nota come il valore di un patrimonio tenda a variare profondamente in funzione dei redditi futuri. Così egli avverti che non conta un patrimonio come tale, ma che: c. Di un patrimonio conta la capacità di reddito prospettica. d. Allora esso vale in tanto in quanto è in grado di produrre reddito in futuro, e va appunto valutato soprattutto anticipando quella capacità. 2. Dall’economia empirica alle scienze economiche (segue): il sorgere e dominare dell’Economia politica 2.1. Introduzione La realtà economica suscitò tuttavia nei secoli anche l’attenzione di un’altra categoria di studiosi, i quali intesero esaminare quel tipo di realtà non con occhio pratico, quanto piuttosto processo nel lavoro e nelle merci, radicando gli innegabili progressi economici nel concetto filosofico di plus valore. Inoltre, incentrava l’azione produttiva nelle “merci”, vedendo l’intera dinamica economica come un “gioco a somma zero”, cioè un sistema dove se qualcuno ha maggiori utili, deve averli sottratti necessariamente a qualcun altro. Egli non riusciva a vedere che il sano movimento economico si traduce in una crescita continua di produzioni, scambi, valori, redditi e generazione di ricchezza per tutti, della quale occorre semmai orientare i criteri di distribuzione. In questo modo, egli trascurava: a. Le classi sociali sono chiamate, in realtà, ceti; inoltre, non sono due, ma bensì molti e intrecciati tra loro, oltre a essere mobili al proprio interno. b. I fenomeni di “sfruttamento” dipendono dalla domanda-oferta, e questa da causa storiche, giuridiche e soprattutto demografico-culturali. c. Il sistema si regge in realtà sulle produzioni in serie scambiate nel libero mercato invece che sull’autoconsumo. d. Si regge soprattutto sull’individuazione dei prodotti sempre nuovi e migliori, e inoltre sull’incessante progresso tecnico: si regge cioè sui continui incrementi di produttività, sulla continua innovazione di prodotti e di processo e sull’investimento di capitali sempre nuovi e ulteriori; inoltre, si regge sulle innovazioni strategiche continuamente attuate dalle imprese, dunque sull’originalità imprenditoriale e sula ricerca. e. L’operare delle imprese consente la creazione di nuova ricchezza e il difondersi di essa nel sistema sotto forma di salari, stipendi, interessi, tributi e utili, dunque con il miglioramento delle condizioni di vita di tutti i ceti sociali. f. La singola impresa può incontrare una crisi a causa di investimenti sbagliati, ma può uscirne tramite scelte strategiche migliori; se, viceversa, non riesce a uscirne e scompare, lascia spazio ad altre imprese, queste evidentemente più efficienti. g. Il sistema economico moderno incontra inevitabilmente momenti di crisi, ma dalle quali, egli ultimi 200 anni, è sempre uscito, riuscendo a realizzare continuamente il generale miglioramento delle condizioni di vita per una popolazione mondiale cresciuta fino a molti miliardi di persone. h. Talora entrano in crisi interi settori, ma perché sono rimpiazzati molto più ampiamente da altri e più moderni dal punto di vista tecnologico, dunque con vantaggio per tutti. 2.3. Inoltre, circolano altrettanto le élites: i ricchi ci sono sempre, ma sono sempre diversi nel tempo, dalla aristocrazia francese che finisce sotto la ghigliottina dopo il 1789, fino ai generali di Napoleone cancellati dalla Restaurazione. Errori delle scuole neoclassiche Intorno al 1870, si afaccia e si difonde una maggiore estimazione per le scienze naturali. Quel fervore si trasla poi anche sul piano scientifico: alla filosofia e al predominare delle “scuole storiche”, si affianca prima e si sostituisce poi lo scientismo, cioè il ritenere fondate soprattutto: a. Le scienze naturali e il loro metodo. b. Il valore conoscitivamente esaustivo della ragion matematica. Quella tendenza diviene a tratti dominante e anche oggi pervade largamente l’Economia politica. L’insieme dei due punti precedenti, diede poi vita a un’importante tendenza di tale disciplina: il matematismo, cioè la scelta di esprimere le relazioni tra gli operatori economici tramite lo strumento matematico, depurandola dalle complessità del reale. Si tratta di un approccio tanto rigoroso, quanto elegante, il quale però richiede iper-semplificazioni sovente occultate dall’utilizzazione di strumentazioni altamente complesse. Avvenne così che lo scientismo si applicasse anche alle scienze sociali, in particolare all’Economia. Il primo propositore fu William S. Jevons con l’opera “A General Mathematical Theory of Political Economy”; qui sostiene che l’Economia trattando di quantità deve divenire una scienza matematica. La tendenza si accrebbe (non per combinazione) quando nelle scienze economiche fecero ingresso oltre a W.S.J., giornalisti, giuristi, ex studenti di ingegneria, periti chimici, ingegneri, fino ad arrivare a John Bates Clark e Knut Wicksell, i quali cercarono di applicare all’economia le sole discipline che avessero studiato, riducendo così una scienza sociale a scienza naturale, in particolare matematica. L’obiettivo va ricondotto a tre importanti fattori: a. Il dominio della Scuola storica, interessante, documentatissima e descrittiva. b. Epoca delle scoperte della chimica e della fisica, il grande progresso tecnico; ciò portava a sopravvalutare le scienze della natura. c. Quest’ultimo fatto rinforzava poi un’opinione antica: le uniche scienze “vere” sono le scienze della natura e “più vere di tutte” le matematiche. Gli studiosi citati si posero l’obiettivo di interpretare l’economia esprimendola in leggi di tipo meccanico e di forma algebrica. Volendo raggiungere quell’obiettivo, essi dovevano riuscire a esprimere la complessità del mondo con una o più equazioni, cioè ridurre quella stessa complessità del mondo con una o più equazioni, cioè ridurre quella stessa complessità al logo astratto delle matematiche. Datane l’impossibilità, essi decisero allora di procedere secondo principi della: a. Semplificazione. b. Generalizzazione. Vennero utilizzate principalmente equazioni di 1° e 2° grado in una sola variabile, del tipo y= f(x) dove y è funzione di x, cioè varia al variare di x secondo le proprietà della funzione. Così, tramite legami funzionali potevano venire espresse tutte le variabili economiche del mondo, dapprima prese una per volta, poi all’occorrenza incrociate per determinare le “posizioni di equilibrio”. Risulta quindi sufficiente: a. Esprimere una y= f(x) le quantità di un bene domandate dagli acquirenti, oppure oferte dai produttori. b. Incrociare la curva di oferte con la curva di domanda per ottenere la quantità perfetta nella quale domanda e oferta si combineranno, dunque anche il prezzo di equilibrio. NB → I modelli sembravano risultare ineccepibili, seppure altamente astratti. In realtà essi erano falsi già quale astrazione perché postulavano: a. Condizioni algoritmiche in realtà violate. b. Premesse logiche false, inquinate di cattivo psicologismo. c. Premesse analitiche anti-realistiche, tra cui le seguenti: - Che tutto si svolgesse nel vuoto giuridico, in assenza di Stato, leggi, regolamenti e mercati concreti. - Che tutto si svolgesse in un unico istante e in assenza di coordinate spaziali. - Che tutte le altre variabili del sistema assumessero quantità fisse e non esistesse mutamento. - Che i prodotti della stessa specie fossero eguali. - Che non vi fosse concorrenza tra imprese. - Che ogni operatore conoscesse a perfezione tutte le informazioni. Quegli studiosi diedero vita a un’Economia politica che definirono pura, cioè fondata su intersezioni algebriche depurate di tutti gli impicci della realtà. Essa venne anche denominata economia marginalista perché, se un certo legame tra due variabili veniva rappresentato con un’equazione di 2° grado se ne poteva calcolare le variazioni marginali, in particolare gli estremanti, cioè i massimi e i minimi. Gli esiti di quell’approccio erano ineccepibili date le premesse, peccato che la lor logica di fondo fosse profondamente errata. Oltre a quanto detto, infatti, erano proprio le pretese dello scientismo e del matematismo a risultare errate. La realtà sociale comporta per natura propria variazioni continue ed assidue dell’esogeneità, il concorso dell’azione sempre diversa e imprevedibile dell’uomo e delle aggregazioni in cui esso si esprime. “È principio fondamentale della Statica economica che il mercato risolva le equazioni dell’equilibrio. Questo principio deriva dalla considerazione di una società ideale. (…) Una parte degli scrittori moderni di Economia ha riconosciuto la necessità di una sistemazione razionale delle mutevoli esperienze economiche, dividendosi solo per quanto concerne la valutazione dell’utilità della ricerca statica, volendo alcuni considerarla addirittura nulla…”. In altre parole, le scienze sociali possiedono una natura radicalmente diferente dalle naturali, e pertanto rifiutano l’incasellamento forzoso nei sistemi equazionali, oltretutto di 1° e 2° grado. Le loro regolarità sono rintracciabili non tramite funzioni e sistemi equazionali anche sofisticati, ma semmai tramite la statistica sia economica, sia descrittiva. Il medesimo Pareto, resosi conto dell’eleganza piuttosto infondata delle proprie teoresi: a. Prima le sviluppa chiarendo però che si tratta di “una branca speciale dell’economia, che io denominerò economia matematica”. b. Successivamente, abiura al proprio passato economista per trasformarsi in sociologo. 2.4. I contributi di Joseph A. Schumpeter Dobbiamo viceversa a J.A.S., economista austriaco, alcune proposte teoriche fondamentali non solo per l’Economia politica, ma anche per l’Economia aziendale. Gli siamo debitori oggi delle seguenti categorie: a. Imprenditore-innovatore. b. Distruzione creatrice. c. Tendenze socialiste. Sulla medesima strada si stavano poi avviando la Germania e l’Italia con rivoluzioni industriali successive ad altre nazioni, anche a causa dell’unità nazionale solo posteriormente raggiunta. In quel centinaio di anni, dunque, le tecniche (in particolare quelle ragionieristiche e gestionali) avevano registrato grandi e significativi sviluppi. Molti pensatori erano quindi molto soddisfatti e provvedevano a studiarle e migliorarle continuamente. Tuttavia, altri rari pensatori aziendali ritenevano che mancasse ancora qualcosa. Si studiava, pubblicava e applicava in tema di Ragioneria, ma tuttavia ancora mancavano trattazioni che prendessero a proprio oggetto l’impresa come tale, l’impresa come unità organica. → Ci si sarebbe potuti rivolgere a tal fine all’Economia politica? In realtà, l’Economia politica era all’epoca soprattutto divisa tra i due gradi campi: a. Dell’economia marxista, derivante dal pensiero marxiano. b. Dall’economia pura, matematica, originalista. Ora, sia l’uno sia l’altro approccio irritavano i pensatori di derivazione tecnico-aziendale. Essi infatti si rendevano conto che, al di sopra delle tecniche amministrative, c’era qualcosa in più: ci dovevano essere l’unità sistematica dell’Impresa quale attore economico, ma anche l’unità organica degli altri due operatori economici, i quali con l’Impresa costituivano il sistema economico (lo Stato e le Famiglie). Ma gli stessi studiosi che conoscevano la realtà del mondo non potevano credere, con i marxisti, che esistessero solo capitalisti-proprietari e operai sfruttati, che le imprese fossero associazioni a delinquere e infine che il sistema dell’economia di mercato fosse destinato a crollare. Non potevano nemmeno credere che si potesse fondare una teoria economica su premesse come le seguenti: a. Le istituzioni non esistono. b. Le imprese di ogni settore producono beni identici. c. La concorrenza è perfetta. d. Gli agenti del sistema sono onniscenti. e. Gli agenti stessi operano istantaneamente per massimizzare la propria “utilità”. f. Le altre variabili sono costanti. I pensatori di origine tecnico-aziendale definirono quindi le une e le altre teorie non tanto astratte, ma bensì irrealistiche, e decisero di operare diversamente. Decisero cioè di dar vita a una nuova branca delle Scienze economiche fondata sugli operatori-base del sistema: fu denominata così Economia aziendale. Questa era in larga misura di derivazione tecnica, ma si erigeva nondimeno su tutti gli studiosi antecedenti di Economia politica, i quali avessero avuto appunto un approccio realistico, cioè rispettoso della realtà: dagli Antichi fino agli Italiani del Rinascimento, ad A.S. e J.A.S. e tutti gli altri. Sintetizziamo che l’Economia aziendale nacque: a. Per derivazione dalla Ragioneria e dalle tecniche. b. Quale scisma rispetto all’Economia politica dell’ ‘800. I due fondatori dell’Economia aziendale sono Heinrich Nicklish (Germania) e Gino Zappa (Italia). Heinrich Nicklish – giunge a dare forma compiuta alla sua teoria con il trattato che si intitola “Dottrina economica dell’azienda” che si accompagna e integra con il lavoro “Organizzazione”. H.N. iniziò nel 1912 proponendo la diferenziazione dell’economia globale di una nazione e lo studio dell’economia delle singole aziende. Lo studio dell’economia globale studia le relazioni tra famiglie, imprese ed enti pubblici intese come totalità; lo studio dell’economia delle singole nazioni studia invece la vita economica delle famiglie (la domanda), ma soprattutto delle imprese intese quali sistemi organici orientati dall’interesse individuale in seno a economie collettive, quali combinazioni interattive di capitale e di lavoro tradotte in forme economico-giuridiche e infine la cui economicità deve essere misurata nel tempo dei sistemi contabili. Egli propose poi più ampiamente una teoria organica dell’Economia aziendale che comprendesse e analizzasse in modo sistematico tutti gli operatori economici e venisse a riguardare le Famiglie, le Imprese e lo Stato nei loro processi e nelle loro interrelazioni. La sua teoria, inoltre, non è solamente analitico-descrittiva, ma anche normativa perché essa, conoscendo l’economia delle aziende è in grado di stabilire in quale modo queste debbano venire condotte al fine di raggiungere il proprio scopo economico. In particolare, momenti strutturali risultano i seguenti: a. Rilievo della Ragioneria. b. Concorso delle persone. c. Processi concorrenziali tra le imprese. d. Estensibilità delle teoresi aziendali a tutte le categorie di imprese. In particolare, H.N. dice: “Le imprese sono costituite da persone, ciascuna con motivazioni proprie. (…) Le persone esercitano la propria libertà. (…) Essi insieme determinano i risultati e gli eventuali processi correttivi. (…) L’insieme costituisce la ‘comunità aziendale’. Questa va guidata e coordinata dall’imprenditore”. Inoltre, importante e pioneristico è lo schema di circolazione dei valori, il quale inquadra le connessioni tra aziende familiari e aziende di produzione dal punto di vista di prestazioni e compensi reciproci, forze economiche che le une e le altre immettono nel sistema e risultati economici che vengono distribuiti e che le une e le altre continuamente rigenerano. → vedi schema pag. 150 Tale schema dice che: a. Le prime aziende in cui si è formata l’attività economica sono le familiari, per questo dette originarie. b. Contemporaneamente (quasi) nacquero le aziende di produzione, per questo dette derivate. c. Agli acquisti delle famiglie corrispondono le vendite delle imprese, alla spesa di quelle i proventi di queste. d. Nel contempo le famiglie ofrono lavoro alle imprese e eventualmente vi investono: le imprese coordinano i capitali e il lavoro tramite la gestione e svolgono così la propria opera economica di produrre non solo beni economici materiali e immateriali, ma propriamente ricchezza. e. Tale nuova ricchezza, le imprese la re-distribuiscono poi nel sistema sotto forma di salari, stipendi, interessi e utili. Gino Zappa – il suo primo e fondamentale lavoro è “Il Reddito d’impresa” in cui sostiene e propone l’Economia aziendale si focalizzi sul reddito quale grandezza fondamentale dei sistemi economici. È questa l’innovazione dovuta a Schmalenbach, innovazione che tuttavia G.Z. perfeziona e porta a compimento. Essi sostengono che non può esserci capitale se in precedenza non ci sia stato reddito, secondo il flusso seguente: attività economica → redditi → risparmi → capitale → attività economiche →vedi schema pag. 152 In secondo luogo essi aggiungono che, nelle attività economiche, il capitale non ha un valore in sé, ma vale in funzione dei redditi che esso può originare. G.Z. propone inoltre che una nuova disciplina, l’Economia aziendale, venga a trattare organicamente e compiutamente le aziende, cominciando dalle imprese. Per inquadrare e risolvere i problemi aziendali tale disciplina dovrà risultare dalla sintesi organica della Ragioneria, della Gestione e dell’Organizzazione. Tale sintesi organica si sarebbe peraltro applicata anche alle Famiglie e allo Stato. Alle Famiglie più semplicemente, per quanto pure queste debbano organizzare proventi e spese, e darsi una struttura interna di funzionamento al fine di poter provvedere ai propri fini e obiettivi. L’applicazione di quella sintesi organica allo Stato sarebbe risultata di maggiore complessità, ma identicamente proficua. La teoresi di G.Z. si perfezionò e migliorò poi negli anni; alcuni capisaldi di quella teoresi sono: a. L’azienda è una coordinazione economica in atto che negozia costi per conseguire ricavi ottenuti vendendo sui mercati beni economici che soddisfino i bisogni degli acquirenti. Questo vale per tutte le imprese. Similmente avviene per la Famiglia come per lo Stato. b. Le attività di Famiglie, Imprese e Stato nel loro svolgersi in quanto aziende, possono venire analizzate e descritte tramite le due seguenti categorie: - Combinazioni produttive. - Coordinazioni lucrative. Le aziende si svolgono per operazioni; tali operazioni risultano simili a tutte le altre della stessa specie dei giorni, mesi e anni precedenti e seguenti: ecco i processi; l’insieme di tutti i processi nello spazio-tempo viene infine racchiuso nelle combinazioni produttive, cioè i modi con i quali esse trasformano: redditi in costi; fattori produttivi in beni economici destinati alla vendita; proventi in prestazioni. Nel fare questo, la Famiglia, l’Impresa e lo Stato intrecciano ogni giorno costi di varie categorie con i proventi o i ricavi che riescono a ottenere, cercando di ottimizzare i costi e migliorare i ricavi. Le modalità, i livelli, i tempi, le condizioni e le quantità di tale intreccio determinano le coordinazioni lucrative, cioè le modalità con cui l’azienda ottiene equilibrio o disequilibrio economico nel tempo, cioè utili o perdite, avanzo o disavanzo. ulteriore. Le imprese in equilibrio, che raggiungano cioè l’economicità, trasformano e distribuiscono risorse attraverso molteplici canali. Una volta infatti trasformati i costi in ricavi, esse non solo possono indirizzare gli utili a sé o ai soci. Nello svolgersi del processo, esse hanno anche riversato e distribuito nel sistema: a. Prezzi-costo a favore dei fornitori. b. Salari, stipendi e compensi professionali. c. Interessi e provvigioni alle banche. d. Premi alle imprese assicurative. e. Tributi allo Stato, Regione e Comune relativi agli utili realizzati. Il sistema delle imprese è dunque un primo “nucleo omogeneo” al quale l’Economia aziendale può indirizzare le proprie indagini, per individuare le leggi spazio-temporali di comportamento, di equilibrio, di sviluppo delle imprese stesse, che vengono anche definite, per quanto sopra, aziende di produzione. Tutte le imprese ricordate, infatti, sono sistemi per la produzione- distribuzione di ricchezza, e dunque si caratterizzano per comportamenti dissimili nelle contingenze ma simili nelle categorie; soprattutto sono rette dalle medesime leggi di comportamento, sono connotate dalle medesime condizioni di equilibrio, si declinano nei medesimi processi di sviluppo. E poiché l’universo particolare che esse Imprese costituiscono è per definizione omogeneo, è questo il primo fondamentale campo di studio dell’Economia aziendale. Questa fu la scelta di Egidio Giannessi: l’Economia aziendale deve focalizzarsi su tutte le aziende di produzione, e solo su quelle. È questo perimetro, dunque, il campo husserliano dell’Economia aziendale secondo E.G. e i suoi allievi. Peraltro, per l’Economia aziendale è stato anche proposto un più ampio “campo husserliano”, a riguardo del quale occorre retrocedere per esporre ordinatamente il tema. Sia H.N. e G.Z., infatti, ben ricordavano una teoria della quale erano nel contempo allievi ed eredi. Infatti, quasi tutti gli autori ricomprendevano nel campo di indagine Famiglie, Imprese e Pubblica amministrazione. Pertanto, limitare il campo husserliano dell’Economia aziendale alle sole imprese poteva sembrare una reductio di temi nonché di possibilità speculative. Sembrava inoltre che alcune teorizzazioni valevoli per le Imprese, valessero pure per le aziende famigliari e pubbliche territoriali. Sembrava che queste due costituissero un sotto-sistema di aziende simili tra loro: erano tese ambedue a ottenere entrate (redditi per le famiglie, tributi per le territoriali) per provvedere a uscite con lo scopo di soddisfare direttamente i bisogni degli appartenenti all’azienda. Si addiviene così alla proposta di un più vasto campo unitario per l’Economia aziendale. Secondo tali autori il “capo scientifico omogeneo” doveva comprendere tutte le aziende operanti nel sistema: famigliari, di produzione e pubbliche territoriali. Tutte quante infatti sono tese a soddisfare bisogni. Peraltro, in questo secondo caso, l’estensione del campo sembrava quasi senza fine. Così, per le ragioni di omogeneità, questo più ampio perimetro husserliano dell’Economia aziendale venne suddiviso in due sottoinsiemi: a. Il sistema delle aziende di erogazione tese a erogare le proprie risorse per ottenere redditi, e poi trasforma questi in spesa. b. Il sistema delle aziende di produzione tese a produrre ricchezza, ad accrescere le proprie risorse trasformando i costi in sempre maggiori ricavi. Ambedue le distinzioni paiono perfettibili alla speculazione contemporanea. Tutte le aziende infatti posseggono alcune caratteristiche che le accomunano: a. Sono sistemi economici finalizzati. b. Tendono attraverso scelte all’equilibrio economico. c. L’equilibrio non è un obiettivo ma una condizione di esistenza. d. Sono tutte caratterizzate da costi e ricavi, uscite ed entrate, patrimonio, debiti e investimenti, variazioni finanziarie. Tutte sono quindi caratterizzate dalla similarità delle funzioni amministrative, nonché dai processi giuridici ed economico-tecnici in cui si svolgono quali operatori-tipo del sistema, operatori la cui valenza economica viene appunto generalizzata dall’Economia aziendale che ne fa il proprio oggetto di studio. A ben pensarci, quindi, tutte le aziende possono dirsi di produzione, dal momento che erogare ricchezza da parte delle famiglie e degli Stati non è un fatto neutrale. A seconda di come spendono, infatti, sia le famiglie, sia gli Stati, possono “produrre” ricchezza, o consumarla per sopravvivere, o distruggerla. In altre parole, tutte le aziende producono in qualche modo ricchezza. È comunque importante notare che nel loro insieme vi è un sotto-insieme: le aziende di produzione (queste infatti producono ricchezza direttamente). Le imprese infatti: a. Prescelgono fattori produttivi. b. Li combinano originariamente. c. Li fondono nell’ottenimento di beni economici. d. Scambiano tali beni nei mercati. e. Ottengono così non solo il reintegro dei costi impiegati, ma anche un valore ulteriore (quid pluris): l’utile. NB → Tale utile è il premio che il mercato (cioè gli acquirenti) riconosce all’impresa per aver oferto in vendita un bene economico che il singolo non può con le proprie forze ottenere e per essersi addossata ex ante il rischio di pensarlo, progettarlo, realizzarlo e collocarlo, nell’incertezza sulle scelte del mercato. 4. Lo studio dell’economia dinamica nei suoi soggei operanti: imprese, famiglie, amministrazioni pubbliche territoriali Per concludere si può afermare che: prima di tutto è chiaro che l’Economia aziendale si occupi di economia delle imprese. È questo il sistema organico di E.G. e altri: il “campo scientifico omogeneo” che studia le imprese di tutti i tipi, ma solo quelle. Altri autori che vi si ispirano sostengono che vi siano anche nella Famiglia e nello Stato elementi di aziendalità, ma che essa non rientri nel perimetro dell’Economia aziendale. Essi studiano dunque il sistema delle imprese: a. Nelle loro caratteristiche-tipo. b. Nelle loro funzioni e strutture caratteristiche. c. Nelle loro forme di equilibrio, di sviluppo e di crescita. Analizziamo nel dettaglio i punti precedenti: Caratteristiche-tipo – significa il profilo sistematico espressivo della natura specifica del singolo tipo di impresa: l’azienda agricola, l’azienda industriale, l’azienda bancaria, l’azienda assicuratrice, l’azienda della grande distribuzione, e così via. Funzioni – sono i profili tipici che ne derivano, i compiti che le connotano in modo peculiare, speciale, inconfondibile. Le strutture sono infine gli insiemi di operazioni, processi e combinazioni che ne derivano necessariamente. Forme di equilibrio, sviluppo e crescita – rappresentano rispettivamente: a. I modi di raggiungimento e mantenimento dell’economicità, cioè appunto dell’equilibrio. b. I modi di adeguamento continuo alla mutevole realtà dei mercati, della domanda, della tecnologia, dei prezzi-costo e dei prezzi-ricavo, della concorrenza: in questo senso lo sviluppo è indispensabile. c. I modi di aumento delle dimensioni, queste intese come “capacità produttiva” (la crescita dunque significa anche “variazione di capacità”). Le imprese, inoltre, vengono anche dette aziende di produzione (di produzione economica!). In quanto aziende di produzione economica, si dice anche che esse producono redditi e capitali. NB → In accezione ristretta, quindi, l’Economia aziendale è la scienza che studia l’economia (caratteristiche, funzioni, processi e comportamenti) delle aziende di produzione di qualsiasi tipo. Avviene peraltro che l’attività economica non venga svolta soltanto dalle aziende di produzione. Altrettanto rilevanti sono le funzioni svolte dalle Famiglie e dallo Stato. Tutte le aziende possono dunque venire definite coordinazioni economiche in atto. Alcuni autori si domandarono allora se anche le aziende famigliari e le aziende territoriali, viste dal punto di vista del loro comportamento economico, dovessero rientrare nell’Economia aziendale. Risposero afermativamente dando così vita ad un “campo scientifico omogeneo” più ampio, il sistema globale secondo il quale l’Economia aziendale concerne l’economia delle Imprese, ma anche delle Famiglie e dello Stato. In accezione larga, si può concludere che l’Economia aziendale studi le aziende intese in via generale quali “coordinazioni economiche in atto” tese a combinare risorse per soddisfare bisogni. Essa studia pertanto le Famiglie, le Imprese e lo Stato nelle loro caratteristiche tipo, nelle loro funzioni, nei loro processi caratteristici e infine nelle loro forme di equilibrio, di sviluppo e di crescita. NB → In questa seconda accezione, quindi, l’Economia aziendale è la scienza che studia l’economia (caratteristiche, funzioni, processi e comportamenti) delle aziende di qualsiasi tipo, dalla Famiglia allo Stato. Si impone, infine, una precisazione: a. In tutti gli Stati, sin dall’antichità, ci sono ripartizioni amministrative, talora con potestà tributaria. Tali ripartizioni assumono varie denominazioni; significa in sostanza studiare l’economia delle aziende territoriali. Dopo la II G.M., si sono largamente difusi il neo-positivismo e lo scientismo di marca anglosassone, secondo i quali: a. Importa la coerenza deduttiva. b. Le scienze devono fondarsi sull’esperimento. Per le scienze sociali si tratta di insensatezze per i seguenti motivi: a. La coerenza deduttiva deve valere omnibus, quindi è data per sottintesa. b. Trattandosi di scelte di applicazione, l’esattezza delle premesse risulta fondamentale. c. Infine, l’esperimento non è indispensabile o possibile in tutte le scienze naturali, e ciò a maggior ragione in quelle sociali. Altre scienze, invece, si sono comportate diversamente. Ad esempio, l’Economia politica si è lasciata afascinare dagli aspetti citati, con molteplici conseguenze, tra cui: a. La generale matematizzazione. b. Essa è espressa particolarmente con l’uso di “modelli”. I principali motivi per cui ciò è avvenuto sono: a. La complessità delle scienze sociali, fino ad arrivare ad una parziale indeterminazione. b. Desiderio di ridurre questa complessità tramite la iper-semplificazione delle stesse. c. Ciò avviene al fine di poter arrivare alla formulazione di “leggi esatte”, soprattutto per l’invidia della fisica. d. Ragionare spesso per mezzo di “modelli”. e. In particolare, di modelli matematici da trattare con il metodo deduttivo. f. Sulla base della fiducia assoluta nelle matematiche in quanto deduttivamente ferree. I modelli dell’Economia politica tendono, tra l’altro, a ridurre all’estremo il numero di variabili, a restringere il campo di variabilità, a ipotizzare connessioni causali di tipo meccanico e di norma lineari e a presumere dati i modi dell’azione umana. La matematizzazione e i modelli, quindi, diventano forme di osservazione e investigazione di una realtà però immaginaria, anzi falsamente costruita solo per poter applicare, di volta in volta, l’operatore algebrico prescelto ex ante. Si tratta, in sostanza, di un’ “economia- conclusione” che, come la filosofia di Cartesio: “teorizza solo all’interno di un sistema già tutto dispiegato, ed esprime la domanda soltanto perché crede di essere in possesso della risposta”. L’Economia aziendale, viceversa, conscia della complessità delle scienze sociali di cui fa parte, accetta di indagarle individuando metodi appositi, invece di amputarle solo per poterle rinchiudere in poche variabili da introdurre in un’equazione. Le radici sono, dal punto di vista economico, normalmente inutili e assurde. Nelle scienze sociali che non si siano lasciate possedere dall’invidia della fisica, occorre procedere diversamente: se la realtà è complessa, e se tale complessità va ridotta, ciò deve avvenire secondo i processi scientifici propri appunto delle scienze sociali e non di altre. Occorre procedere dunque a ridurre la complessità tramite: a. L’esame di “fatti scientifici”, cioè oggettivi. b. Il raggruppamento di essi in gruppi e serie omogenei. c. Identificazione di “tipi ideali” di fenomeni o oggettività scientifiche. Concludendo con l’individuazione di categorie o relazioni standard che identifichino le strutture latenti della realtà indagate. I due infecondi estremi dell’Economia politica secondo Benedetto Croce e i progressi dell’Economia aziendale Nello scisma dell’Economia aziendale si trattava di natura euristicamente speculativa rispetto agli a priori falsi di molta dell’Economia politica dalla quale ci si voleva distaccare. Così, l’Economia aziendale si connotava per l’avvertita coscienza del plesso deduzione-induzione, nonché per la conduzione severa, nel suo caso metodologicamente fondata, dell’induzione. Questo scisma liberava le discipline aziendali europee dalla frequente arretratezza speculativa anglosassone, prigioniera ancora dell’empirismo e dell’a-priorismo iper-convenzionale e di comodo, dunque destinata a ricadervi sempre. L’Economia aziendale in sostanza, liberatasi dallo scientismo, si avviava ad accettare la complessità del campo husserliano cui voleva dedicarsi, più ristretto o più ampio. La accettava e decideva di studiarla con il metodo induttivo-deduttivo recursivo che le consentiva ogni volta sia di definire categorie analitiche, sia di migliorarle sempre, ogni volta con l’autocoscienza di esse e delle loro costruzioni, fecondità e estensibilità. B.C. criticava l’Economia politica della sua epoca dicendo che essa giaceva perennemente tra i due estremi: dell’empirismo (massa di proposizioni disgregate) e di “uno schema generalissimo, che talvolta non serba il più piccolo vestigio di quel concetto di azione umana da cui aveva preso le mosse”. Egli concludeva suggerendo che “La sana scienza economica deve essere astratta ed empirica insieme, e connettere tra loro e unificare le proposizioni disgregate; ma non deve lasciar perdere nell’unità la distinzione, che le è necessaria quanto l’altra”. L’Economia aziendale si difuse e raggiunse nuovi traguardi. Con la fine degli anni ’40-’60 del XX secolo, si riafacciarono (o raforzarono) molteplici dinamiche speculative a lei indiferenti e spesso antagoniste: a. Inizio dopo il 1914-1944 del “secolo americano”, dunque importazione di discipline manageriali statunitensi. b. Ritorni dei sistemi contabili anglosassoni ancora fondati sulle rudimentali premesse del capitale-patrimonio invece che sul reddito. c. Più in generale, minore fiducia del pensiero sistematico da parte della cultura e delle persone. L’Economia aziendale si trovò quindi di nuovo contrapposta al vigoroso risorgere della vulgata, dalla quale era riuscita a distaccarsi ed emendarsi; questo risorgere vigoroso era dovuto al “secolo americano” dopo il 1941, alla Guerra Fredda, e altri eventi. 2. Assiomi dell’Economia politica neoclassica refutati dall’Economia aziendale È necessario analizzare i metodi scientifici dell’Economia politica che sono utilizzati per studiare gli oggetti e i fatti economici, nonché per proporre soluzioni “ottime”. Brevemente, la gran parte degli approcci rispettivamente fondati sono: a. Su metodi erroneamente unilaterali: - Di tipo algoritmico deduttivo e inoltre fondati su premesse anti-realistiche. - Di tipo falsamente empirico. b. Su metodi erroneamente sintetici: - Di tipo fondato su premesse anti-realistiche. - Di tipo empirico-statistico inferenzialmente falsi. Analizziamo nel dettaglio i metodi algoritmicamente deduttivi fondati su premesse anti- realistiche: l’approccio matematista è proposta a partire dal primo ‘800 da chimici, astronomi e ingegneri per trattare le scienze sociali con algoritmi relativamente elementari. Tralasciando le trattazioni, per le altre si sostiene qui che, prima di svolgere trattazioni moniste più o meno matematizzate, ma comunque denominandole “Economia”, una serie di autori dovrebbe interrogarsi sulle fondazioni del campo speculativo del quale hanno scelto di occuparsi. A riguardo del tema, infatti, è doveroso chiarire: a. La natura dei fatti economici. b. L’individuazione dei poteri economici. c. La formazione delle teoresi economiciste. A proposito di questi aspetti, alcuni autori ritenevano che: a. I fatti economici sono fatti inscindibilmente sociali. b. Per il motivo precedente, l’Economia è una scienza sociale. c. Inoltre, essa è partecipe non solo delle Scienze sociali, ma anche delle Scienze della Natura; sono impossibilitate a sperimentare, ma pronte a modellizzare. Questo implica il rifiuto del deduttivismo matematico, e non di meno la critica del descrittivismo matematico in senso keynesiano. Negli impianti Walras-Parietani tradizionali, infatti, l’economia sociale viene intesa a-temporale e rinserrata in limitati sistemi lineari. Il discorso economico che ne deriva perde la propria natura multiforme e i propri nessi prammatici: quella teoresi tratta infatti tutte le variabili indipendenti come una sola, e le impone gli andamenti intrinseci all’algoritmo prescelto, obbliganti nello stesso. L’anti-realismo degli esiti discende meccanicisticamente dalle pseudo-soluzioni rinchiuse all’interno del puro piano algoritmico loro proprio. Quel tipo di Economia politica si dissolve nella forma fantastica di un matematismo dalla parvenza economica, il quale risulta perennemente implausibile sia nelle premesse, ma anche nelle conclusioni. Dal punto di vista scientifico, pertanto, la scuola neoclassica è una scuola fintamente speculativa: per tutte le domande che si pone, le risposte sono dogmaticamente rinchiuse nelle soluzioni degli algoritmi che utilizza. Si tratta quindi di un “sapere concluso”. Arrivati a questo punto, nasce un nuovo problema: si sostiene, infatti, che nelle matematiche moderne sia rilevante la coerenza deduttiva, la potenza generalizzatrice e le relazioni; altrettanto avviene nelle economie. L’annotazione appena fatta sarebbe salvifica se reggesse all’obiezione che dice trattarsi..vedi pag. 182-183). Il problema delle scienze di applicazione I temi trattati sono di fondamentale rilievo nel campo dell’Economia aziendale per due motivi: a. Per fondare in modo consapevole teoresi euristiche (valide) e non delle fantasie. b. Alcune scienze sociali, orientano poi scelte pratiche e risulta fondamentale che il momento astratto sia ben fondato, affinché anche le scelte pratiche risultino producenti. culturale e sociale. Anche in questi casi non c’è uno scambio in senso propriamente economico, ma c’è soltanto costo. Infine, c’è un caso particolare rappresentato dal raggruppamento delle aziende senza fine di lucro (no profit), cioè quelle aziende istituite e rette per uno scambio di mercato sugellato anche dal semplice pareggio. In questi casi, lo “scambio di mercato” in senso proprio non esiste: le prestazioni sono gratuite, oppure a un prezzo convenzionale, o a prezzo politico. Il fatto che non vi sia scambio di mercato, fa sì che in esse non sempre si presti attenzione alla economicità, cioè all’attento equilibrio tra costi e ricavi. Infatti, anche se non vi è uno scambio di mercato vero e proprio, occorre evitare di fondarsi solamente sul proprio patrimonio o sui contributi pubblici, senza controllare i livelli di costo ai quali si producono i beni. Occorre pertanto, anche in queste aziende, dare vita: a. A una gestione efficiente dei costi. b. A una definizione dei prezzi-ricavo che possano risultare convenienti per il pubblico. Un tempo, lo spazio per le azioni non economiche era difuso nelle collettività (in particolare nell’antichità): vigeva una generale mutualità secondo la quale ci si aiutava scambievolmente. Erano in fondo “civiltà contadine”, civiltà nelle quali “tutto si produceva e tutto si consumava”: erano quindi molto importanti la frugalità, l’autoconsumo, lo scambio interno alla comunità e la mutualità. L’aiuto reciproco si misurava nello scambio gratuito e nella compensazione. Tuttavia, queste forme non sono del tutto scomparse: anche in questo secolo sono presenti processi di scambio “non di mercato”. Si sovviene in modo reciproco alle necessità contingenti sulla base della mutualità, commisurata ogni volta ai bisogni altrui. Le scienze economiche si occupano invece direttamente (e principalmente) delle azioni economiche, cioè quelle tradotte in scambi di mercato e misurate dal valore degli stessi. Per tali scienze nasce il problema di comprendere la natura e le cause di queste azioni, soprattutto al fine di poterle descrivere e interpretare in forma scientifica. 2. La natura delle scienze economiche 2.1. Errori dell’economia matematica: l’ “individuo razionale” di Walras-Pareto e le sue massimizzazioni Il tema delle scienze economiche riconduce a tornare all’economia marginalista o “pura” perché dall’influsso dello scientismo e del matematismo derivano molti dei problemi scientifici e pratici degli ultimi 150 anni, oltre a molti falsi convincimenti difusi, e, infine, il rifiuto del marginalismo da parte dell’Economia aziendale. Le “formule vuote” dell’equilibrio statico vennero trasformate in suggerimenti pratici per il comportamento economico della Famiglia, dell’Impresa e delle Stato. È utile “mettersi nei panni” di pensatori che conoscono soltanto le matematiche e che vogliano tramite esse afrontare i problemi complessi, indeterminati e apparentemente sfuggenti delle scienze sociali. Questi autori considerano ogni volta esclusivamente: a. Un individuo che compia un unico tipo di azione. b. Che compia una sola azione per volta, indipendente e separata. c. Che la compia sempre e solo adesso, in quell’istante preciso. d. In mercati perfetti, definiti come mercati dove tutti i beni sono uguali, le imprese non si fanno concorrenza e i prezzi sono uguali. Così descritta appare come una impostazione paradossale (e lo è!), ma occorre immaginare pensatori dell’ ‘800 che desideravano spremere la complessità del mondo in una semplice equazione. A quel punto era facile calcolare il minimo e il massimo e trovare la risposta ai propri problemi. Purtroppo, la realtà è molto diversa: su queste basi nacque l’Economia aziendale. Sappiamo infatti, a partire dall’antichità classica: a. Che l’individuo è contemporaneamente consumatore, investitore, e molto altro. b. Che tutte le sue azioni sono compiute nel continuo. c. Egli non decide da solo, ma in seno ad aziende, dalla famiglia all’impresa, fino alle territoriali. d. Non riuscirebbe a ottenere tutte le informazioni necessarie a decidere in modo ottimo. e. Che i beni sono infiniti e tutti diversi. f. Che i prezzi sono diferenziati anche per il medesimo bene. g. Che le imprese si fanno concorrenza da sempre. Infine, sempre a partire dall’antichità, sappiamo che tante volte decidiamo in certi modi, pur sapendo, a priori, che non sono ottimali (per compiacenza, compromesso, disattenzione, dispetto, egoismo e vanità). Ad esempio, ciò vale per l’individuo quando consuma per la gola, o per fare sfoggio di abbigliamento, o per il desiderio di un oggetto elettronico o di un’automobile sportiva. Ciò vale anche per le imprese quando scelgono un impianto sub ottimale per ragioni di costo o spazio. Infine, ciò vale anche per lo Stato e le sue partizioni amministrative quando efettua spese eccedenti per favorire l’occupazione (anche se si riflette poi sul bilancio). 2.2. I contributi di F. Machlup, W.J. Baumol, H. Simon: massimizzazioni vincolate e avvicinamento dell’Economia aziendale Al marginalismo e a quanto precede, si opponevano nelle scienze economiche varie teorie, in particolare gli storicisti, i marxisti e l’Economia aziendale. Peraltro, anche nella stessa Economia politica si iniziò un movimento di opposizione alle onniscienti massimizzazioni ricordate. Infatti, mentre tutti i copisti di Walras e Pareto continuavano a dire e scrivere che l’operatore individuale massimizza, alcuni importanti studiosi impostavano correttamente e cominciavano a risolvere il problema. Un contributo fondamentale è dovuto a Fritz Machlup, il genio austro-statunitense. Egli sostiene che: “Il marginalismo è chiaramente implicito nel cosiddetto principio economico: cercare di raggiungere con i mezzi dati il massimo dei risultati”. Prosegue poi ricordando che, quando si parla di analisi marginale, è necessario comprenderla bene perché: “In realtà desidera spiegare gli efetti che certi mutamenti di situazione possono avere sulle azioni dell’impresa”. Egli ricorda inoltre che, sempre nell’ambito dell’analisi marginale: a. I campi di esistenza delle funzioni sono assai ristretti. b. I costi marginali e i ricavi marginali sono funzione sia del passato sia delle aspettative. c. I medesimi valori marginali non vengono comunque utilizzati perché l’impresa nelle sue scelte ragiona su valori medi assolutamente soggettivi, e stabili “a fiuto”. d. Le “massimizzazioni” vanno intese nel senso di comprendervi anche scelte non massimizzanti dal punto di vista economico. e. Ulteriori limiti derivano poi dalla tecnologia, dall’appartenenza a un determinato settore, dalle varie tecniche contabili della Ragioneria. NB → Pur continuando a denominarla “analisi marginale”, è chiaro che l’innovativo inquadramento di F.M non ha nulla a che fare con gli idealismi walras-paretiani; esso, grazie al suo realismo e al rilievo assuntovi dalla Ragioneria, segna un avvicinamento dell’Economia politica all’Economia aziendale. William J. Baumol, a propria volta, giunse alle seguenti conclusioni: a. Le imprese decidono quasi sempre sulla base di “regole pratiche” le quali si rivelano però “momenti efficienti” di un processo decisionale ottimo e possono venire definite decisioni ottimamente perfette. b. In queste, i “calcoli di convenienza” sono basati su relazioni lineari individuate con coppie di punti volume di domanda – costo del prodotto. c. La grande impresa ha come obiettivo la massimizzazione del fatturato sia come criterio, sia per potersi avvantaggiare di ogni sensata opportunità. d. Nel fare questo è influenzato, ovviamente, dall’incremento dei costi fissi. e. L’impresa oligopolistica massimizza congiuntamente il tasso di crescita dello stesso, la propria crescita dimensionale assoluto o relativa e infine perché gli altri dirigenti riscuotono soventemente remunerazioni integrative collegate proprie all’espansione dell’impresa. f. Il tutto commisurando tali processi con il ricordato vincolo di “utili minimi”, cioè in realtà del livello di utili giudicati accettabili per poter autofinanziare la propria espansione, nonché ottenere complementarmente credito dal sistema finanziario. Dobbiamo domandarci in che modo e secondo quali principi, gli individui formano la propria visione del futuro, cioè le proprie “aspettative”. Al riguardo, l’Economia aziendale sostiene l’ipotesi di aspettative miste, non solo di razionalità limitata, ma anche talora emotive, causali, irrazionali per efetti di euforia o panico. Essa parla dunque di aspettative multiformi; gli individui valutano il presente in modo diverso gli uni dagli altri e talora anche risetto a loro stessi a seconda del momento, del tempo, di diversi accadimenti esogeni positivi o negativi, generali o particolari. Esistono anche casi patologici di comportamenti volutamente irrazionali. In questi casi non si può parlare di “ottimizzazione delle scelte”, di scelte “soddisfacenti” o “ottimamente perfette”, etc. Anzi, qualcuno parla di impossibilità di teorizzare comportamenti tanto irregolari, multiformi e sconsiderati. Tuttavia, anche quell’insieme può essere categorizzato: si tratta di scelte orientate all’egoismo appropriativo immediato, di tipo illecito. Si tratta infatti di appropriazione di beni altrui a dispetto o in dispregio della legge. Il fuorilegge non ha vincoli morali, di disinteressa dei vincoli giuridici e inoltre guarda solo all’appropriazione secondo la propria volontà delinquente e sfrenata. Anche queste sono azioni in un certo senso “economiche”; anche qui si muove la legge economica generale, l’avidità illecita, che però tende a difondersi nelle epoche e negli Stati sregolati. In campo aziendale, tutti fanno eco a F.B. e G.Z., i quali sostengono rispettivamente: “Importa che coloro i quali presiedono all’amministrazione siano atti all’alto ufficio. La scelta deve cadere sui migliori. Non si deve scegliere chi non ha le capacità”. “Non sempre la produzione d’impresa è rivolta all’appagamento dei bisogni del consumo. (…) Con abili politiche di prezzi e di dividendi essi possono favorire altre imprese nelle quali vantano vasti interessi, possono manovrare i corsi di date azioni per conseguire grandi lucri in ben ordinate speculazioni di Borsa aperte solo agli insiders che, per mezzo di compiacenti prestanome, sanno operare illecitamente”. 4. La distribuzione gaussiana delle variabili economiche e l’aggregazione sociale risolta in senso anti-keynesiano Se quanto precede fosse l’unica e integrale realtà del mondo, allora sembrerebbe impossibile o ardua qualsiasi teorizzazione. In realtà, se osserviamo il mondo con maggior attenzione, riusciamo a percepire del mondo stesso: a. La struttura latente, fondamentalmente una struttura di ricerca dell’ordine. b. La sua natura incoercibilmente sistematica. Così, potremmo percepire il mondo quale “unità di senso e di significato”. Si ritiene non abbia senso riformare la realtà in modo idealistico per poter teorizzare con semplicità altrettanto falsa. Al contrario, sono proprio la struttura latente di ordine e la natura sistematica del mondo che ci consentono teorie realisticamente fondate. La base per erigerle è data da una funzione di Carl Friedrich Gauss, applicata poi al mondo economico con l’estensione di Francesco Brambilla. Il mondo è molto più regolare di quanto non si immagini e, inoltre, l’apparente disordine è descrivibile secondo modelli. C.F.G. introdusse numerose funzioni, ma in campo economico la più rilevante è la funzione di distribuzione delle probabilità. Questa funzione fu originariamente ideata per individuare la probabilità di errore nelle misurazioni fisiche, ma poi generalizzata e trasformata in curva di densità; inizialmente, fu utilizzata per applicazioni economiche dallo stesso C.F.G. e infine fu estesa all’interpretazione di tutti i fenomeni del mondo economico secondo F.B. La funzione viene così espressa: Nel grafico sono rappresentati: a. Sull’asse delle ascisse, i valori della variabile in argomento. b. Sull’asse delle ordinate, la probabilità associata a ogni valore della variabile. Nella sua forma essa esprime che: a. La probabilità di errore è tanto maggiore quanto più prossima al valore massimo dell’esattezza. b. Quanto più ci si allontana dall’esattezza massima, diminuisce la probabilità di errori sia positivi sia negativi. Estesa al campo economico, essa diventa una legge che ci ofre la legge di distribuzione di quasi qualsiasi: struttura oggettiva e comportamento soggettivo. In essa infatti i valori si distribuiscono secondo la probabilità che hanno di sussistere o manifestarsi, il massimo si concentra nella media, la maggiore o minore dispersione dei valori attorno alla media rende la curva più larga e stretta. Il tutto, non solo consentendo di descrivere in modo semi esatto l’apparente dispersione di molti fenomeni naturali, ma anche confermando l’ampia regolarità dei medesimi. Si tratta infatti di strutture, come pure di scelte di comportamento. Traslata al campo economico, la distribuzione gaussiana ci dice che la maggior parte dei valori si addensa attorno al valore medio (dove la probabilità è massima), e quanto più ci si allontana dal valore medio, i valori diventano sempre meno probabili. Per questo, la distribuzione gaussiana è anche definita distribuzione normale dei fenomeni. Con adeguate indagini possiamo dar vita a teorie economiche veritative per la Famiglia, l’Impresa, lo Stato e le sue partizioni. L’utilizzazione della gaussiana ci permette di risolvere il problema dell’aggregazione nelle scienze economiche in modo diverso rispetto a Marx e Keynes. Il “problema dell’aggregazione” significa sostanzialmente come passare dalla singola famiglia, dalla singola impresa, dal singolo comune o provincia, all’insieme di tutte le aziende familiari, di tutte le imprese, di tutte le partizioni dello Stato e dello Stato stesso. Marx cercò di provvedere al problema riducendo la società a due sole classi inesistenti, le variabili economiche solo a due, anche esse inesistenti, etc. J.M. Keynes tramite grandi categorie attraversanti, ma discutibili, quali aspettative, domanda efettiva, efficienza marginale del capitale, moltiplicatore, fino ai grandi aggregati. Il problema è assai rilevanti. Il problema è assai rilevante dal momento che per dettare ricette, soprattutto di politica economica, occorre: a. Aver costruito l’immagine economica della società in modi aderenti al vero, come consentito dalle distribuzioni gaussiane. b. Dar vita a teorie poi applicabili le quali divengano cioè plastiche e generalizzabili. 5. L’azione economica delle aziende quale risultante di processi inter-soggeivi In molti testi di Economia politica si parla di scelte individuali; anzi, si parla di questo singolo come atomistico o scisso in sé stesso nell’insieme di irrealismi. L’Economia aziendale ragiona diversamente e ritiene obbligatorio considerare che: a. L’individuo è contemporaneamente lavoratore, consumatore e risparmiatore e, inoltre, compie le proprie scelte nel tempo continuo. b. Tale individuo non è isolato nel mondo; egli è in un rapporto di relazione economica, spaziale e organizzativa. c. Tali relazioni si svolgono nell’ambito di aziende. Ogni scambio, se lo si guarda in maniera isolata sembra compiuto in un istante specifico e dal singolo acquirente, ma guardare con questa opinione la realtà non è corretto; infatti, osservando in modo onnicomprensivo il singolo scambio, attuato da qualunque operatore, esso è incardinato: a. In tutta la serie di scambi precedenti, contemporanei e successivi che egli compie. b. Nell’economia aziendale cui egli appartiene, prima nell’azienda familiare di provenienza, poi l’azienda di produzione o pubblica territoriale per cui lavora, e infine le aziende territoriali delle quali è suddito, cittadino o residente. Le “ottimizzazioni vincolate” vanno riferite a vincoli e ottimizzazioni relative a tutte le interazioni sociali in cui egli è immerso. Risultano vincolate le azioni che l’individuo compie in quanto immerso in una realtà organizzativa d’impresa o di azienda territoriale: anche in questi casi le scelte che egli compie sono vincolate, cioè espressione di tutti i vincoli e le interazioni sociali e organizzative in cui gli individui sono immersi. Di mano in mano che si ascende nelle dimensioni e nella complessità dell’azienda, nella estensione e molteplicità delle relazioni sociali, altrettanto aumenta per il singolo l’insieme di vincoli e di interazioni cui è sottoposto. fatti della realtà che la scienza economica deve poter osservare e misurare al fine di indagare, inferire, provare, ripetere in diferenti contesti e comprovare. Grazie a tali caratteristiche, le indagini assumono una validità che spazia dall’antichità classica fino a oggi e al domani nei due emisferi, grazie all’aver costruito e confermato le proprie ipotesi proprio sui concreti fenomeni economici, valori e prezzi misurati in moneta. Il discorso potrebbe risultare ovvio, se non fosse per le seguenti dispute analitiche: a. Per decenni, molti studiosi di Economia politica si afannarono all’inseguimento di concettualizzazioni iper-convenzionali o irrealistiche. Al contrario, il prezzo di mercato è l’unica misura di valore; il singolo prezzo, quale incontro della domanda e dell’oferta per quel bene, in quel luogo e in quell’istante, è l’unica espressione del valore. Gli autori si erano inventati questa “utilità” solo per porla su un asse cartesiano, e la studiavano, immaginando in sostanza che vigesse il principio secondo cui “il consumatore massimizza la propria utilità”. Essi quindi ipotizzavano che i beni venissero consumati solo uno per volta, confrontavano il consumo di unità via via ulteriori del bene prescelto e con l’utilità che ne derivava cercavano infine di misurarla con gli andamenti i una curva quale fondamento delle scelte economiche. In realtà, questo procedere è logicamente assurdo per molti motivi tra cui: - Il consumatore ignora l’analitica micrometrica delle proprie preferenze. - I beni gli si presentano all’alternativa, tutti insieme nel continuum temporale. - Le quantità e i prezzi dei beni disponibili mutano in continuazione. - La sua “utilità” è condizionata da una quantità di vincoli che ne condizionano scelte. - Le quantità disponibili di molti beni non sono rappresentabili con variabili continue. - L’utilità di molti beni non è decrescente, ma talora crescente. b. Da decenni, molti studiosi di economia si afannano ancora per ricondurre l’economia al loro astratto, rinchiudendola in strutture algoritmiche di tipo equazionale. Essi ricorrono alle forme equazionali del tipo y= f(x); è chiaro pertanto che la complessità delle infinite variabili del mondo economico nella varietà degli spazi e nello scorrere del tempo viene ricondotta e ristretta ai poveri algoritmi che possono venire derivati e integrati. 2. La misurazione dei fenomeni economici La scienza economica, in quanto scienza sociale, è disciplina empirica: essa studia il comportamento economico dei singoli e delle loro aggregazioni fino agli Stati, e lo studia inoltre anche nelle organizzazioni per il cui tramite quel comportamento economico si declina: imprese e mercati. È l’Economia aziendale che svolge quelle indagini prescegliendo a proprio oggetto di studio le aziende di ogni ordine e grado; essa osserva fenomeno con l’obiettivo di inferire, individuare, elaborare “leggi di comportamento” al fine di indicare le regole di movimento delle variabili economiche. I fenomeni studiati dall’Economi aziendale sono appunto economici al fine dell’elaborazione delle teorie, tali fenomeni vanno esaminati non solo dal punto di vista concettuale, immaginando i rapporti tra loro intercorrenti, ma anche dal punto di vista empirico, misurandoli in sé e nelle loro connessioni. Le quantità in cui esse si esprimono, infatti, sono le variabili che concorrono a definirli. Si tratta di quantità definite in moneta, e questo anche nel caso in cui si tratti di misure fisiche, da intendersi unicamente quale premessa all’efettuazione della misurazione di tipo economico: volumi acquistati x prezzo unitario = costo totale di acquisto volumi venduti x prezzo unitario = fatturato si tratta delle uniche e prioritarie variabili proprie di indagini realistiche, tratte dalle variabili efettive riscontrabili nella realtà, infine connotative dei fenomeni oggetto di indagine nonché proprie degli stessi in quanto incardinate nei sistemi d’azienda. 3. Le Ragionerie quali tecnica di misurazione dei fenomeni economici I fenomeni economici trovano espressione nella propria veste monetaria. Ciò richiede una precisazione giuridica, e una economica. Precisazione giuridica – le quantità derivate derivano da contratti o da altri legami giuridici: in senso lato da obbligazioni, sovente sinallagmi. Precisazione economica – i contratti si manifestano sempre in scambi, dal regolamento immediato o diferito o periodico. I valori economici del sistema di formano all’atto dello scambio, quando cioè essi prendono manifestazione efettiva e materiale, e con ciò rendendosi anche misurabili. Proprio con lo scambio si registrano infatti: a. Variazioni di moneta. b. Sorgere di un credito o di un debito. Dal punto di vista giuridico può anche darsi che i valori economici del sistema siano già perfetti all’atto del contratto, ma la loro formazione economica efettiva si ha solamente all’atto dello scambio. La fattispecie è analizzata dal punto di vista economico, e quindi non giuridico. Importa quindi: a. Identificare il momento nel quale la variazione di moneta o di credito si manifesta. b. Misurare la variazione con tecniche adeguate. c. Tramite tale misura determinare analiticamente prezzi-costo e prezzi-ricavo. La migliore tecnica è la Ragioneria Generale, la quale sola: a. Identifica i fenomeni caratteristicamente aziendali. b. Li coglie nel cuore del sistema al momento del loro manifestarsi misurabile. c. Li misura utilizzando quale unità la moneta. d. Li connette in modo sistematico grazie alla tecnica della partita doppia. e. Li rappresenta in prospetti unitari che ne sintetizzano i risultati, e che servono quindi a fini di controllo, di analisi e di previsione. → A questo punto è necessario interrogarsi identificato il momento dello scambio, il singolo valore nel prezzo e misurato questo tramite la moneta, quale è la sistematica, l’insieme di valori che la Ragioneria misura? I fenomeni economici così identificati sono i più rappresentativi dell’Economia delle aziende: a. Valori-flusso (costi e ricavi). b. Valori-fondo (attività, passività e loro variazioni). I valori realistici della Ragioneria si diferenziano quindi rispetto ai valori astratti; essi si diferenziano anche rispetto agli importanti valori della Statistica aziendale. Questa, applicazione della statistica metodologica a problemi aziendali: a. Utilizza funzioni di frequenza. b. Al fine di risolvere singoli problemi gestionali di ottimizzazione. Sono importanti quindi i valori della Statistica aziendale, ma non sempre fondati su prezzi- costo: essi sono finalizzati alle ottimizzazioni. La Ragioneria tipicamente rileva: a. I redditi. b. I capitali. Il problema relativo alla “Ragioneria delle Famiglie” era rilevante soprattutto nell’ ‘800, con riferimento alle “aziende domestico-patrimoniali”, interi compendi proprietari relative a famiglie nobiliari o patrizie i quali comprendevano in un solo coacervo proprietà immobiliari urbane, cespiti fondiari, attività agricole ed eventualmente trasformative. Il problema, viceversa, diventa rilevante per: a. La ragioneria delle imprese. b. La ragioneria delle aziende pubbliche territoriali. Essa consente inoltre: a. Per le imprese, di vagliare equilibri e squilibri, di misurarne le “produzioni di ricchezza” in generale, e in particolare la produzione di redditi e la riproduzione di capitali. b. Per le aziende pubbliche territoriali, di vagliare gli equilibri e gli squilibri, di misurarne le “erogazioni di ricchezza” in generale, e in particolare le funzioni pubbliche di raccolta di risorse, di spesa corrente e in conto capitale, di gestione della moneta e del debito, di gestione dei beni pubblici. Ai fini ricordati, la Ragioneria registra cronologicamente tutte le operazioni di scambio erigendo in sistemi i valori rilevati. Periodicamente, poi, le registrazioni contabili vengono sintetizzate in prospetti rappresentativi che, nel loro insieme, vengono denominati bilancio. Quest’ultimo è composto da due prospetti: a. Il Rendiconto reddituale. b. Lo Stato patrimoniale. Analizziamo nel dettaglio i singoli prospetti: Rendiconto reddituale – è riferito a un periodo amministrativo, cioè a un intervallo temporale quale unità economica relativa. Esso accoglie valori-flusso, tutte le componenti negative o positive di reddito (costi e ricavi) e anche il risultato. I costi vengono sostenuti con l’obiettivo di trasformali in ricavi che siano sufficienti, in primo luogo, a reintegrare i costi stessi, dunque sia i costi aventi fecondità semplice (es.: materia prima), sia i costi aventi fecondità ripetuta (es.: impianti), e infine che producano utili compensando così economicamente i capitali conferiti. a. Il perfezionamento individuale. b. L’educazione. c. L’assistenza. d. La filantropia. Tali tipi di azione sono definite non economiche in molta Economia politica, e in parte anche in quella aziendale. In realtà, ci rendono avvertiti relativamente alla moltitudine e ampiezza di doveri e di ruoli della Famiglia, cellula complessa dei sistemi economico-sociali, con i quali essa intreccia una quantità di interrelazioni anche assai diferenziate. Si può concludere afermando che anche quelle in discorso sono operazioni economiche indirette perché: a. Si traducono in costi efettivi o in uscite. b. Si traducono in altri casi in risparmi di costi. c. Vengono efettuate con l’obiettivo sia di miglioramenti organici e funzionali, sia di migliori redditi futuri. 1.3. La natura sociale La Famiglia concorre a comporre la società di uno Stato nel suo sistema di storia, tradizioni, valori, ordinamenti, lingue, cultura e attività, nell’ambito di una o altra forma di Stato, di una o altra forma di governo. Il profilo economico delle Famiglie contribuisce poi nel suo insieme a caratterizzare l’economia di uno Stato. La Famiglia, per propria natura, comporta e manifesta una serie di legami inter-famigliari ed educativi. Le Famiglie sono orientate dall’ordinamento, cioè dal sistema di leggi di uno Stato; sono orientate a volte dal mero insieme di leggi, non solo improvvide, ma anche contrastanti tra loro nel breve volgere d’anni. Rilevano in particolare, nel rapporto ordinamento – famiglia: a. Le leggi sulla scolarità e l’educazione nazionale. b. La normativa pensionistica, previdenziale, sanitaria e assistenziale. c. Le leggi sul lavoro. d. Le leggi tributarie e di tutela del risparmio. Il sistema delle Famiglie si conforma pertanto incanalandosi nell’alveo delle leggi, di ciò che esse favoriscono, consentano o vietano. Nell’ambito dell’ordinamento e dei suoi efetti, le Famiglie danno vita ai “corpi sociali intermedi”, corpi nei quali esse possono esercitare ruoli sociali associati. 2. Evoluzione dei sistemi economici e delle aziende familiari L’accennamento al modello di Colin Clark è di rilevante interesse anche per gli efetti della dinamica da lui descritta sul sistema delle famiglie. Se infatti con lo sviluppo economico nascono e crescono il settore secondario e il terziario, muta allora l’occupazione prevalente delle famiglie (da contadini a operai, a impiegati a liberi professionisti). Tale dinamica comporta efetti fondamentali sulle famiglie e sulla loro attività, quindi sulla struttura e la dinamica dell’intero sistema economico. Le famiglie transitano: a. Processi di inurbamento. b. Attività addensate nel tempo. c. Redditi aleatori nel tempo e nelle dimensioni. d. Atteggiamenti e mentalità che evolvono esse pure nel tempo. e. Attività libero-manageriali e libro-professionali. Si sviluppano così possibilità autonome di incivilimento, come pure nei campi dei consumi artistici e di alta qualità: i consumi costruttivi. Le situazioni risultano molto complesse e multiformi non solo nelle diferenti nazioni e tra i vari ceti sociali, ma anche nell’ambito di una stessa nazione e di un medesimo ceto. Tra il 1880-1890, la situazione contadina italiana, ad esempio nella provincia di Cremona, si configurava così: “Nella vasta pianura si estendono i campi. (…) La terra, esausta e siccitosa, dava scarso frutto. I prati venivano falciati una volta sola. (…) Il rendimento dei cereali era bassissimo. (…) L’allevamento dei bachi da seta costituiva una delle maggiori, ma anche delle più aleatorie fonti di reddito. Perciò il tenore di vita della popolazione campagnola era miserrimo. Cibo dominante era la polenta. (…) Bevanda comune era l’acqua dei pozzi non sempre immune da germi patogeni. La pellagra, malattia della miseria, mieteva vittime. Il lavoro era la più parte affidato alla fatica dell’uomo e della donna – fatica estenuante che durava dall’alba al tramonto. (…) La buona gente contadina viveva isolata in uno stato di rassegnazione profonda”. Si difonde poi la “borghesizzazione delle masse”, cioè l’ampliarsi delle attività, dell’iniziativa e delle mentalità “borghesi”, quindi del ruolo economico e sociale della Borghesia. La nascita di questo ceto risale al baso Medioevo. Le libertà che ottennero inizialmente sono poi cresciute nelle Città Stato, nei comuni medievali e nei primi Stati unitari dando progressivamente vita al Terzo Stato (terzo rispetto al Clero e all’Aristocrazia militare e terriera). Lungo i decenni si viene a formare un ceto variegato che assurge poi al sociale e al politico rivendicando un ruolo proprio contro i privilegi ereditari o di status. Alle radici del temperamento borghese c’era desiderio di crescita e di miglioramento; questi obiettivi venivano realizzati grazie a indiscutibili doti di autonomia, creatività, laboriosità, applicazione di cultura pratica che si materializza in attività organizzate. Il risvolto sociale diventava fatalmente desiderio di indipendenza, sottoposizione solo alla legge e riconoscimento politico. La borghesia, però, non va magnificata: in alcuni periodi si fece assorbire dai propri progressi immaginando che la crescita dovesse proseguire ininterrottamente, oppure precipitò nell’iper consumismo o rinchiudendosi nell’egoismo. Per descrivere il borghese come tipo ideale, Werner Sombart ricorda che con l’avvento della borghesia sia i rapporti contrattuali si sostituiscono ai precedenti vincoli di signoria-gerarchia e di comunità. Egli ci ricorda poi che i fattori causali del passaggio al “capitalismo” sono sostanzialmente due: a. Il razionalismo economico, grazie alla gestione in conformità di un piano e alla tenuta razionale dei conti. b. L’utile. Egli conclude infine con la definizione di borghese: “Quale borghese non intendo l’abitante di una città o di un commerciante o di un artigiano, ma una creazione caratteristica che si distingue da qui gruppi e dalle loro palesi esteriorità di borghesi, un uomo di animo particolarmente creativo per il quale abbiamo una migliore designazione”. Con il progresso economico migliorano così lungo i secoli le condizioni, il vestiario, la scolarità, la difusione della cultura fino all’odierna propagazione mondiale di immagini, informazioni e consumi. Si tratta dei consumi costruttivi, i quali non solo migliorano le condizioni di vita del singolo, ma lo conducono verso un progressivo incivilimento personale. B.C. ammoniva che progresso economico è soltanto la sempiterna storia degli splendori, ma anche delle bassezze dell’umanità, soltanto in contesti materiali sempre più facilitati. Con il progresso si accentuano in parallelo anche comportamenti patologici fino a intere patologie sociali (es.: alcolismo). Questi sono consumi decostruttivi, i quali un tempo erano propri di cerchie di stretti abbienti, consumi che oggi possono espandersi a causa della difusione di più ampi redditi in cerchie sociali sempre più vaste, tese all’edonismo invece che alla costruttività personale e sociale. D’altra parte è noto come anche questo tipo di consumi risultino rilevanti dal punto di vista economico, della vita delle imprese, della struttura e della stabilità sociale. Anzi, sono molto rilevanti per nazioni le cui economie si basino largamente sulla coltivazione di piante stupefacenti e per tutte le strutture di trasformazione, distribuzione e commercio. 3. L’economia delle aziende familiari: redditi, tributi, consumi e risparmi-investimenti L’economia della Famiglia può essere rappresentata dall’identità delle variabili categoriche che la compongono: redditi, tributi, consumi e risparmi-investimenti. L’identità rappresenta pertanto qualunque azienda familiare. Essa vale in tutti i casi, a prescindere dal livello dei redditi, dall’eventuale evasione di imposte, dalle tipologie di consumi e di investimenti; essa, inoltre, rappresenta la natura antitetica di tributi, consumi e investimenti, confliggenti tra loro. Si può scrivere in prima battuta la formula: Re = T + C + I (Re= redditi; T= tributi; C= consumi; I= investimenti) La formula significa che il reddito della Famiglia, al lordo delle imposte, si suddivide e ripartisce tra tributi, consumi e investimenti. Analizziamo nel dettaglio i singoli membri della formula: Redditi – questo termine fa riferimento a due tipologie principali: redditi da lavoro e redditi di patrimonio. I redditi da lavoro possono derivare da valore dipendente e da lavoro autonomo; vi rientrano le pensioni, le indennità, i sussidi, le prestazioni assicurative periodiche del tipo rendita. Inoltre, vi rientrano anche i redditi “in natura”, dall’autoconsumo delle famiglie contadine, all’eventuali retribuzioni parzialmente in natura. I redditi da patrimonio derivano da investimenti che l’azienda familiare ha efettuato e pervenuti in via ereditaria. Si tratta solitamente di investimenti immobiliari, ma anche mobiliari. Tributi – questo termine fa riferimento alle imposte e alle tasse pagate alle aziende pubbliche aventi potestà impositiva. a. La distribuzione dei patrimoni tra le famiglie. b. La distribuzione dei redditi tra gli individui. c. Il “ciclo di vita del risparmio-investimento”. A seconda infatti che la ricchezza sia molta (o poca) concentrata nelle famiglie, il risparmio-investimento tenderà a risultare maggiore (o minore). La relativa concentrazione delle ricchezze induce l’aumento degli investimenti anche produttivi; la difusione-dispersione delle ricchezze induce all’incremento dei consumi correnti, alla diminuzione degli investimenti e alla frammentazione degli stessi. Similmente ciò avviene anche per i redditi. Questo tema è molto importante perché le ripartizioni derivano dalla struttura economica dello Stato, dalla maggiore (o minore) presenza di imprenditorialità originale e dall’ordinamento in generale, in particolare del tributario. Gli investimenti hanno una caratteristica identica ai consumi: se gli investimenti sono decisi singolarmente, peraltro nelle Famiglie occorre parlare non di singolo investimento, ma di processi di investimento. I processi di investimento, quindi, si co-determinano insieme ai processi di consumo, seguendoli o precedendoli, ma sempre accompagnandoli. Essi derivano in primo luogo da caratteristiche individuali della Famiglia: dal livello di reddito, dalla varia redditività e valore corrente degli investimenti già efettuati e dalle aspettative concernenti il futuro dello Stato, dell’economia, della situazione famigliare, sociale e lavorativa; infine, dalla propensione al risparmio. La tipologia degli investimenti prescelti dipende, infine, dall’atteggiamento verso il rischio e la speculazione da parte dei singoli e dell’azienda familiare nel suo insieme: si parla in questo caso di maggiore (o minore) propensione al rischio. I processi di investimento derivano peraltro anche da fattori economici esogeni e tecnico-finanziari. Tra i fattori economici esogeni rientrano: le prospettive economiche favorevoli (o sfavorevoli) comprese il tasso di inflazione presente e previsto, il regime tributario al quale sono assoggettati gli investimenti e le provvidenze sociali esistenti (o assenti). Le provvidenze sociali possono rendere più o meno opportuno o prudenziale il risparmio privato, ovvero renderlo “superfluo” ove ben funzionanti e molto estese. Rientrano invece tra i fattori tecnico-finanziari le caratteristiche intrinseche dell’investimento prescelto, il quale si connota con specificità sempre diverse relative alla redditività, al rischio e alla liquidità (cioè alla maggiore, o minore, facilità dell’investimento di essere negoziato sul mercato e rivenduto). Gli investimenti, inoltre, si possono distinguere tra a vista e fruttiferi; analizziamo nel dettaglio le singole tipologie: Investimenti a vista – sono gli investimenti in scorte di beni di consumo, in liquidità e in beni di consumo durevole. Essi svolgono una funzione di protezione generica. Investimenti fruttiferi – sono gli investimenti in valori a reddito garantito in quanto fisso o predefinito, valori a reddito aleatorio (cioè che può variare), beni fondiari e immobiliari da reddito. Inoltre possono essere inclusi tra gli investimenti fruttiferi i beni di lusso e artistici e, infine, anche l’acquisto della casa di abitazione (spesso facendo ricorso all’indebitamento. È compreso in questa categoria perché consente il risparmio del canone di locazione). Le categorie citate confermano l’insensatezza di parlare di risparmio separatamente dall’investimento; vale, infatti, sempre l’identità: (processi di) Risparmio = (processi di) Investimento A parte il caso della pura conservazione della moneta circolante, non c’è forma di risparmio che non sia, nel contempo, un investimento. È possibile ora presentare una categorizzazione complementare rispetto alla precedente, la quale suddivide il risparmio-investimento secondo un diferente criterio: a. In liquidità “a vista”. b. Mobiliare. c. Assicurativo. d. Fondiario e immobiliare. e. In beni di consumo durevole o artistici o da tesaurizzazione. Analizziamo nel dettaglio i singoli punti: Liquidità a vista – la detenzione privata di moneta come tale; attualmente la moneta divisionale viene principalmente detenuta per fini: a. Transazionali, cioè per regolare gli scambi standard normalmente previsti. b. Precauzionali, cioè per regolare gli scambi o uscite impreviste. c. Speculativi, quando può risultare conveniente detenere divise estere nella speranza che esse si rivalutino contro la moneta nazionale. Occorre inoltre tenere presente che l’economia contemporanea si svolge largamente tramite assegni, giroconti, carte bancomat, carte di credito, etc. e che quindi l’uso del puro contante è senz’altro minore rispetto a un tempo. Le scorte di moneta è soprattutto riconducibile a fattori psicologici. I fattori citati, infatti, consentono il deposito delle eccedenze monetarie: sono questi investimenti in liquidità a vista, cioè in forme di deposito da cui è facile prelevare. Il risparmiatore, quindi, deposita la parte giudicata residua o eccedente in conti “a vista”: ciò gli consente maggiore tranquillità che deriva dalle minori scorte monetarie presso di sé. Quanto precede non avviene nel caso delle attività illecite. Investimento mobiliare – significa investimento in beni opposti a quelli immobiliari: titoli di Stato, obbligazioni e azioni. I primi due sono definiti a reddito fisso: questa definizione è imperfetta perché molti titoli di Stato e le obbligazioni ofrono un rendimento garantito, ma variabile da un minimo fino a un massimo. Questi redditi sono definiti interessi. L’investimento azionario frutta un provento chiamato dividendo, cioè la parte di utile destinata a essere divisa tra i soci azionisti. Tali redditi sono variabili. È importante quindi fare la seguente distinzione: a. Titoli a reddito pre-definito e garantito (titoli di Stato e obbligazioni). b. Titoli a rendimento aleatorio (connesso al rischio d’impresa). La quotazione dei valori mobiliari fa registrare rialzi e ribassi nel tempo. Gli incrementi (e decrementi) di valore incidono sul valore nominale dell’investimento, ma non sul suo valore efettivo: essi rimangono appunto nominali (teorici) fino a quando vengono realizzati tramite la vendita. Con questa si realizzano “utili” o “perdite”, denominate rispettivamente plusvalenze o minusvalenze. Con tale realizzazione, l’investimento viene ricondotto al proprio valore efettivo. Investimento assicurativo – consiste in un risparmio-investimento periodico, detto premio, che viene versato alle compagnie di assicurazione sulla vita affinché in caso di morte dell’assicurato, vengano versati ai suoi eredi una rendita, ovvero un capitale; nel caso invece di sopravvivenza dell’assicurato oltre un momento predefinito, la rendita o il capitale vengono versati a lui stesso. È questa una forma di previdenza che riveste valenze molteplici psico- familiari, tecniche e sociali. Essa orienta un importo annuo al fine di proteggere la Famiglia dalle conseguenze economiche negative di eventi inaspettati o prematuri. Vi è poi la valenza tecnica, la quale consente alle compagnie di assicurazione, con la raccolta- premi, di esplicare la propria opera di tutela delle persone e delle famiglie. Infine, vi è una valenza sociale perché tutta la società viene protetta dalle conseguenze economiche negative di eventi prematuri. Investimento fondiario e immobiliare – può riguardare terreni, la casa di abitazione, le seconde case (in campagna o di vacanza) e immobili di vario genere “da reddito”. Il reddito di capitale che se ne trae è rappresentato da canoni locativi, mentre nel caso dell’utilizzazione diretta si parla di reddito figurativo (cioè non di un efettivo provento patrimoniale). Anche l’investimento immobiliare può poi dar vita a incrementi di valore. Si tratta anche qui di incrementi (o decrementi) nominali, i quali rimangono cioè teorici fino a quando non sono realizzati. Si ottengono così plusvalenze o minusvalenze patrimoniali di origine immobiliare o fondiaria. Investimento in beni di consumo durevole o artistici o tesaurizzazioni – può essere brevemente descritto così: a. I beni di consumo durevole sono l’arredamento, autoveicoli e beni elettronici. b. I beni artistici sono opere d’arte, antiquariato e gioielli. Si caratterizzano per il gusto e la gioia di contemplazione e di possesso. c. I beni da rivalutazione sono considerai i metalli preziosi in forma di lingotti o moneta, pietre preziose, collezioni numismatiche e filateliche. 4. Dal cosiddetto “ciclo di vita risparmio-investimenti” di Modigliani al “risparmio familiare” di Dell’Amore Il “ciclo di risparmio-investimenti” presenta un andamento quasi standard: a. Quasi nullo prima dell’ingresso nel mondo del lavoro. b. Limitato nei primi anni. c. Gradualmente maggiore con l’evoluzione. d. Interrotto o negativo in caso di malattia, incidente, decesso, crisi economica. b. Necessari o voluttuari. c. Funzionali o ostentativi. d. Costruttivi o decostruttivi. Di importante rilievo nella società contemporanea è la trasformazione continua di consumi secondari o voluttuari in consumi primari o necessari. Pandolfini, riguardo questi passaggi, sostiene: “Considero le spese che accagionano o necessarie o no. Chiamo necessarie quelle spese, senza le quali non si può debitamente provvedere alla famiglia. (…) Le spese non necessarie sono quelle che fatte piacciono, ma non fatte non nuociono”. Questa annotazione introduce al concetto di consumo ostentativo, consumo tipico di chi voglia fare pubblica mostra di ricchezza o che abbia capacità di spesa in “beni di apparenza”. 5.2. “Classe agiata”, lusso e sfarzo fino a Sombart e Veblen I consumi di elevata qualificazione sono chiamati consumi “di lusso”. Al fondo di questi consumi ci sono elementi economici e personali che valgono per molte persone di qualsiasi continente, dall’antichità classica fino a oggi: a. Il desiderio di migliorare la propria condizione. b. Il desiderio di transitare alla fruizione di beni più raffinati ed eleganti. c. L’ambizione di distinguersi. d. Rappresentazione augusta e formale della regalità e delle sue prerogative. La storiografia aferma queste dinamiche. Il giudizio a proposito di questi consumi è negativo da parte di alcuni autori, filosofi e padri della Chiesa (Confucio, Seneca, San Tommaso d’Aquino), e anche dai grandi predicatori del ‘700 francese. Occorre precisare che questi giudizi erano o ristretti al momento morale, o riguardavano delle utopie, o erano maturati nelle preferenze personali anche invidiose. NB → Occorre ricordare che le strutture economiche di riferimento erano economie chiuse, o città Stato, o sistemi primitivi dalla ridotta produttività dove poteva accadere che i consumi lussuosi delle classi dominanti fossero a spese di altre categorie di cittadini. Meglio fondata è la distinzione proposta da Aristotele, il quale aborra la meschineria, ma anche lo spreco volgare: egli definisce magnificenza lo “sfarzo legittimo”. È importante a riguardo di questo tema l’opinione di Bernard Mandeville, il quale dimostra come tutte le funzioni e i ceti siano gli uni correlati agli altri. B.M., inoltre, sottolinea le possibilità di lavoro che esso consente e l’avanzamento della civiltà anche tramite beni che, sul momento, possono apparire superflui. Tale distinzione oggettiva apre la via ad una realistica considerazione dei beni di lusso. Dal 1500-1600, dopo l’epoca delle scoperte geografiche, si andavano sviluppando le economie occidentali, nascevano e crescevano i ceti borghesi e si difondevano le ricchezze. Si arriva poi alla polemica del lusso del 1700-1800 francesi aperta (probabilmente) da Montesquieu. Tale polemica è anche oggi di notevole rilievo perché anche oggi è trattata con gli stessi termini con cui fu introdotta. Edmond Picard e Henry Baudrillart annotano che il “lusso” passa gradualmente dal benessere privato al vantaggio sociale proprio grazie ai vantaggi che esso introduce e produce nel sistema economico: a. Trasferisce ricchezze. b. Sviluppa arti, mestieri e tecniche. c. Suscita assunzione e formazione di maestranza altamente qualificata. d. Da vita nel tempo al patrimonio storico. In quelle epoche, quindi, erano proprio i consumi di lusso a fungere da volano per lo sviluppo della domanda efettiva perché traslavano nel sistema ricchezze che si sarebbero poi distribuite e difuse, convertendosi poi in domanda per tutti i tipi di beni. Inoltre, è importante evitare di proiettare su secoli precedenti le strutture economiche attuali: se Re e aristocratici avessero tenute chiuse le proprie ricchezze nei forzieri, ci sarebbe stato molto minore sviluppo economico. I fattori nodali e di rilievo in questa situazione sono: a. Il desiderio delle persone di vivere in migliori condizioni materiali e di “distinguersi”. b. La tendenza culturale e sociale a interpretare nel tempo i beni più qualificati secondo la trasformazione seguente: beni “di lusso” → comodità → necessità In altre parole, si è registrata un’espansione continua di bisogni e di mezzi. Con le rivoluzioni industriali e i processi di inurbamento: a. Si accresce il ruolo delle grandi città. b. Ciò soprattutto per i borghesi abbienti, i quali riescono a possedere la manifestazione della ricchezza. Tale fatto sarà teorizzato da Thorstein Veblen nella “Teoria della classe agiata”, opera scritta osservando i comportamenti dei ricchi statunitensi dell’età dorata. T.V. parla infatti, tra l’altro, di agiatezza vistosa e consumo vistoso, di spreco sfarzoso di beni per dimostrare l’agiatezza, di confronto finanziario antagonistico e di beni di pura ostentazione. La soluzione per quanto riguarda i beni di lusso giunge (inaspettatamente) dalla stilista, costumista e creatrice di moda Coco Chanel: “Il lusso non è il contrario della povertà: è il contrario della volgarità”. Si può infatti “fare del lusso” con beni economici anche semplici, i quali però esprimono gusto, stile, eleganza innata sia dell’oggetto sia di chi lo acquista o utilizza. Tale distinzione consente di riprendere tutti gli autori da Aristotele a Veblen e comprendere che: a. Nelle epoche antiche “lusso” poteva facilmente significare appropriazione a danno di altri o di nemici vinti. b. Nell’era moderna occorre allora distinguere tra “lusso” e sfarzo. In quest’ultimo senso rilevano allora i comunemente detti “beni di lusso” che sono in realtà beni sfarzosi posseduti oltre che per il gusto del bello, per dimostrazione di ricchezza, potenza e appartenenza ad un ceto elevato. Eppure, nelle epoche moderne anche i beni sfarzosi hanno rivestito un ruolo rilevante nei processi di sviluppo economico. Allora, nel giudizio del lusso e soprattutto dello sfarzo, dobbiamo restare su un terreno astrattamente tecnico. Uno studioso moderno che del lusso ha fatto non solo una funzione progressiva, ma che gli ha assegnato un ruolo fondamentale nello sviluppo del capitalismo è stato Werner Sombart, ricordando che i beni di lusso: a. Svilupparono originariamente il commercio all’ingrosso. b. Svilupparono le “industrie di lusso” che richiedevano vasti capitali. c. Svilupparono successivamente commerci e settori “di mezzo lusso”. Il tema si pone anche al giorno d’oggi e sembra riguardare le premesse e le conseguenze economiche dei beni che, con C.C., abbiamo iniziato a denominare sfarzosi. Il tema riguarda lo sviluppo dei sistemi, le scelte e le preferenze della società e, infine, l’alternativa per i governi se tassare accanitamente, o favorire invece, la produzione e i consumi di beni sfarzosi. Occorre infatti riconoscere alcuni profili di utilità che possiedono al fine del progresso economico (e anche sociale). Gli stessi beni infatti: a. Stimolano la creatività estetica, artistica e tecnica. b. Generano domanda efettiva e trasfondono nel sistema sia ricchezza sia importanti migliorie tecniche. c. Possono stimolare un sensato desiderio di imitazione nei limiti del possibile, dunque stimolo generale all’imitazione creativa, alla difusione del gusto e della creatività e, infine, alla trasfusione sia di tecniche sia di ulteriori ricchezze. Se, viceversa, la società è malsana, domina l’invidia sociale, istinto di rapina e arrivismo sociale, allora è chiaro che i beni sfarzosi riducono la loro utilità pratica dal punto di vista della creatività e del progresso, e si risolvono in ulteriori fattori di instabilità e di perversione sociale. Al riguardo, Sant’Antonino Vescovo di Firenze suggerisce di attenersi al solo giudizio tecnico. Gli efei dello “Spirito del Tempo”: risparmi o consumi? Il ruolo del denaro secondo Simmel Alle origini dell’odierno insistere sulla rilevanza del “consumo”, stanno alcuni fattori di diversa origine, tra cui: a. La rilevanza preminente, nel modello di J.M. Keynes della variabile “consumo”. b. La rilevanza della variabile “consumo” in alcune tra le principali economie del mondo. c. L’interesse delle masse di qualsiasi continente a incrementare i propri consumi. d. L’interesse dei partiti di sinistra ad acquisire favori tramite la promessa di assunzioni, donativi e incrementi dei salari (graditi ovviamente dai votanti). Fattore ulteriore è la mentalità generalmente comunistica difusa in tutti i ceti e le generazioni dai media, dalla pubblicità, dalle vendite rateali, dalla proliferazione e capillarizzazione distributiva, fino a livelli che già negli anni ’60 del XX secolo erano bollati quale consumerism (iper consumismo). I processi di consumo dipendono sostanzialmente: a. Dal grado di sviluppo economico. b. Dallo stadio evolutivo di una nazione. c. Dalla “cultura nazionale”. d. Dalla struttura demografica. A riguardo delle prime si può fare riferimento alla concezione organicista dello Stato hegeliano, il quale: a. È un organismo vivente. b. È un’entità suprema. c. Possiede una generale sovranità. Si tratta sostanzialmente di concezioni istituzionali e organiche, dove lo Stato è qualcosa di più di una semplice associazione o di una nazione: è un’unione storica, giuridica, culturale e sociale sovra-ordinata e auto-esistente rispetto alle parti che lo compongono. A partire dall’antichità, comunque, gli Stati ed i loro reggitori posero comportamenti politici; questi comportamenti incisero sempre sulla realtà sociale traducendosi poi, lungo il corso dei secoli, in aristocrazia o demagogia, armonia o crisi sociale, guerra o pace. Negli ultimi mille e più anni poi, da quando si è avviato il processo di formazione degli Stati nazionali, sempre nuovi e diversi sono i compiti assunti dallo Stato o ad esso assegnati, come pure il modo di esercitarli. Al riguardo ci si può interrogare a quale grado di incivilimento tendano gli Stati nazionali. L’incivilimento può essere misurato dalla qualità e dalla quantità della spesa relative: a. Alla Giustizia e all’ordine pubblico. b. Alla difesa del territorio e del paesaggio. c. Alle infrastrutture. d. All’assistenza sanitaria. e. All’educazione. f. Agli investimenti in Ricerca e Sviluppo. g. Alla tutela delle Belle Arti e del patrimonio artistico. Le azioni politiche attuate dai rappresentati dello Stato incidono quindi immediatamente sulla realtà sociale, e determinano i tipi, le quantità e i tempi: a. Delle spese pubbliche. b. Dei proventi pubblici. c. Del saldo finale del bilancio dello Stato. La spesa pubblica, esprime, l’azione dello Stato. Lo Stato infatti esercita azioni determinanti sulle forze economiche spontanee: a seconda dei casi, infatti, lo Stato promuove o canalizza, o al contrario distrugge la libera iniziativa delle persone e delle imprese. NB → Anche lo Stato è quindi, sotto questo punto di vista, un fattore di produzione, cioè un sistema in grado di agevolare (o di svantaggiare) le produzioni di ricchezza. L’attività della pubblica amministrazione (cioè dello Stato e delle sue partizioni in Comuni, Provincie e Regioni) si esplica per il tramite di aziende pubbliche territoriali, le quali declinano l’azione pubblica in funzioni via via più specifiche e più localizzate dal punto di vista territoriale. La ripartizione amministrativa dello Stato dipende dalle scelte politiche relative al numero di livelli di essa e dalla storia amministrativa e giuridica. Le sempre ulteriori ripartizioni amministrative derivano anche dal maggior volume di servizi richiesti a livello locale, e sono quindi in parte necessarie. Inoltre, almeno in teoria, quanto maggiore è il numero di livelli, e quindi il decentramento amministrativo, tanto migliore è l’azione amministrativa, di volta in volta specificamente relativa e vicina al suo oggetto. È chiaro però che aumentando i livelli, aumentano anche i costi relativi. La funzionalità della pubblica amministrazione dipende dall’efficienza con cui si tende all’obiettivo e lo si raggiunge. Occorre quindi valutare quelle scelte in termini di funzionalità della pubblica amministrazione. Anche la funzionalità può quindi venire espressa tramite la diade nota: a. Efficacia (tensione verso obiettivi opportuni). b. Efficienza (raggiungimento dell’efficacia). Ai fini della funzionalità della pubblica amministrazione contano allora la capacità e l’onestà degli amministratori pubblici, l’individuazione di obiettivi comuni producenti e fruttuosi e l’uso intelligente delle risorse collettive. Contano quindi: a. L’orientamento all’ottimo sociale delle funzioni statuali classiche. b. La progettazione e attuazione di infrastrutture efficaci. c. L’attivazione di servizi pubblici funzionali. d. L’attuazione di processi organizzativi efficienti. NB → Queste dinamiche devono avvenire senza eccedere nel carico tributario per i cittadini e nemmeno ricorrendo all’indebitamento pubblico. Lo Stato può trovarsi a possedere complessi più o meno vasti di imprese pubbliche, attive nei settori di base, ma anche nei settori più svariati: tipico è in Italia il caso del trasporto ferroviario, aereo, dei settori minerario-siderurgico, bancario e talora assicurativo. Riassumendo, quindi: a. Azienda pubblica è l’amministrazione pubblica di tipo territoriale. b. Impresa pubblica è l’impresa di proprietà del Comune, dello Stato o di altre aziende territoriali, la quale produce beni economici solitamente di uso collettivo. Questi temi saranno trattati con accenni storiografici per coglierne le varianti nello spazio- tempo; si tratterà di imposte soprattutto nei loro efetti sull’economia della nazione e sull’economia delle aziende familiari e di produzione. L’approccio cerca di porsi in linea con le teorie della ragioneria pubblica italiana, di rilievo per le seguenti caratteristiche: a. Natura realistica, che tratta cioè variabili aggregate efettive. b. Impostazione unitaria. c. Collegamento organico (delle aziende familiari, delle aziende di produzione e dell’intero sistema delle Amministrazioni pubbliche territoriali e non territoriali). d. Studio dell’azione politica nel suo declinarsi concreto quale politica economica e di bilancio delle aziende territoriali. 2. L’economia degli Stati moderni e contemporanei Si ha la contrapposizione di due forme classiche di Stato: lo Stato cameralista e lo Stato mercantilista. Stato cameralista – è amministrato e gestito in forma familista, dove amministrazione pubblica, servizi e conti pubblici sono per così dire estensione dei conti reali: lo Stato si da carico diretto dei bisogni collettivi e provvede a soddisfarli direttamente. Da questa forma di Stato ne deriva un modello esistente anche oggi (cameralista viene tradotto in paternalista o autoritario). Oggi “cameralista” viene talora inteso quale sinonimo di organicista, guidato e pianificato. Ciò significa uno Stato che intende, se non pilotare l’economia, almeno concertare le grandi idee si sviluppo della stessa con le controparti sociali; uno Stato che cerca di favorire i grandi settori strategici; uno Stato che non si disinteressa delle sorti delle grandi imprese nazionali; che tende a mantenere sotto il controllo nazionale i settori portanti dell’economia. In questo senso, cameralista confina con colberista (oggi, definire uno Stato come colberista significa dire che esso intende proibire o dissuadere agli stranieri il controllo di aree, di settori, di aziende portanti della propria economia). Stato mercantilista – per contrapposte premesse filosofico-culturali, decide di essere “Stato minimo”, dandosi cioè carico dei servizi pubblici minimi e rinviando al mercato il soddisfacimento dei bisogni collettivi. È il modello delle “economie di mercato”. Si tratta, al fondo, di una diversa concezione di libertà politica e così anche di economia: in questa impostazione lo Stato deve lasciare il più possibile libere le forze spontanee dell’economia, le quali concorreranno al miglioramento delle produzioni, al ribasso dei prezzi e al progresso sociale. Gli Stati mercantilisti tendevano a fondare l’equilibrio della propria economia su poche uscite e quindi su ridotte necessità di entrate; inoltre, se la loro economia si sviluppava per il libero sprigionarsi dell’iniziativa individuale, le percentuali di imposta si applicavano a redditi sempre maggiori, quindi con maggior gettito. Si tratta di concezioni ancora attuali in uno Stato o nell’altro. Il “pregio” degli stati cameralisti è che attuano approcci organici, tendenzialmente protettivi dei cittadini, i quali avviano le economie verso sentieri di sviluppo concertati, condivisi e di gradimento governativo. Vi è il rischio, però, della burocratizzazione, del centralismo, della accentuata pressione tributaria che le spese da dover finanziare sarebbero ingenti. I “pregi” degli stati liberisti, invece, consistono usualmente nella maggior efficienza, e inoltre snellezza, proprio perché lo Stato affida ai privati quante più funzioni possibili. Più fervida e difusa è, inoltre, l’iniziativa dei singoli. I due modelli qui convenzionalmente ricordati subirono poi una duplice e contrapposta evoluzione: verso il liberismo nel primo ‘800 e verso il socialismo nel secondo ‘800. La mentalità del ‘700 infatti, e poi la prima dell’ ‘800, ferreamente liberiste, difusero le concezioni secondo le quali: a. Lo Stato dovesse limitarsi alla prestazione alla prestazione dei servizi pubblici minimi. b. Al di là di take soglia i suoi interventi risultassero di norma improduttivi. Si riteneva appunto che lo Stato dovesse provvedere alla difesa, all’ordine pubblico e alla giustizia con la minima spesa. Inoltre, che fosse tenuto a provvedervi ottimamente sia per comprensibili motivi di ordine politico-storico e giuridico, sia perché dal punto di vista economico non esistevano i “mercati delle funzioni statali”. Per questo motivo ci comprende la originaria definizione di Von Wollf: le imposte sono i prezzi pubblici per i servizi statali indivisibili e identificabili. l’interpretazione di Luigi Einaudi, il quale proponeva due ordini di concettualizzazioni; il ragionamento ha come premesse: a. Alcune funzioni dell’ente pubblico vengono prestate senza riscossione di prezzi-ricavo. b. Alcune delle funzioni esercitate dall’ente pubblico riscuotono prezzi-ricavo ma tuttavia insufficienti all’integrale copertura dei costi anche perché si trattava sovente di prezzi “pubblici” o “politici”. Le imposte esistono ovviamente dall’antichità. I proventi pubblici prendono poi forma gradualmente organica in forma di diritti, dazi, anche se essi erano sovente intesi come meramente straordinari, comprendendovi talora il finanziamento delle guerre e alcuni tributi liturgici. La storia delle imposte è peraltro ravvisabile nella loro natura che da reale e indiretta (sui commerci e altro) tende nel tempo (grazie all’aumentata produzione di ricchezza, alla crescita demografica, alle esigenze crescenti delle popolazioni e alle idealità e ideologie social- progressista) a divenire diretta e riferita alla produzione di redditi (imposte dirette), sui redditi e patrimoni. I quattro principi di A.S. possono essere ridotti a due: a. I sudditi di ogni Stato dovrebbero contribuire al sostentamento del governo proporzionalmente al reddito personale ottenuto sotto la protezione dello Stato (rule of taxation). b. Sulla base dei seguenti presupposti tecnici: - L’imposta che ogni individuo è tenuto a pagare dovrebbe risultare certa e non arbitraria. - Il modo, la forma e l’ammontare del pagamento dovrebbero essere certi per il contribuente. - Ogni imposta dovrebbe venire prelevata nel momento e nel modo in cui sia probabilmente per il contribuente più opportuno pagarla. - Ogni imposta dovrebbe essere congegnata in modo tale da comportare efetti per quanto possibile positivi (invece che negativi). Secondo Ch. F. Bastable, le imposte dovrebbero risultare produttive, economiche (non costose), distribuite equamente, elastiche, certe e convenienti. Poiché l’equità e la saggia e produttiva amministrazione dello Stato sono anche tra gli obiettivi della tassazione, questa non deve perdere di vista la produttività delle imposte. Ciò posto, L.E. ricorda che: a. Le imposte vengono pagate per fare fronte alla parte indivisibile del costo della prestazione. b. Si tratta di spese necessarie a fronte di benefici collettivi: il carico tributario, così, assume caratteri di coattività. Sul punto occorre efettuare una serie di considerazioni interpretative: a. L’estensione delle funzioni addossate alle Amministrazioni Pubbliche nei decenni (estensione che modifica il perimetro dei servizi pubblici). b. I criteri per la fissazione della tipologia e del livello delle imposte. Analizziamo nel dettaglio le singole considerazioni: Estensione delle funzioni – le funzioni all’ente pubblico sono cresciute nel corso dei decenni, specialmente dagli Stati individualistico-liberali dell’ ‘800. Il perimetro dei servizi pubblici si è largamente ampliato: si è passati dai servizi indivisibili, ai servizi prestati in via generale e infine ai servizi consolidati. Questo non vale però per tutti gli Stati e tutte le epoche. Provvedere estensivamente e largamente ai bisogni collettivi significa provvedere con spesa ingente e, quindi, afrontare larghe uscite; pe poter sostenere uscite occorrono ampie entrate, oppure accettare bilanci in deficit e nel contempo provvedere al disavanzo stesso tramite maggiori imposte o mezzi straordinari. Fissazione della tipologia e del livello delle imposte – la scelta dei criteri per definire la tipologia delle imposte ed il livello delle stesse, prende il nome di “politica delle imposte”. Parlare di imposte significa rispondere ad alcuni quesiti di politica economica e di gestione economico-aziendale. 3.2. La tipologia delle imposte e i loro efei In generale, occorre dire che le imposte hanno teso a distribuirsi nei seguenti tipi: a. Generale sui consumi. b. Speciale sui consumi. c. Sulle proprietà. d. Sui redditi delle persone giuridiche. e. Sui redditi delle persone fisiche. f. Speciali a titolo di previdenza sociale. Analizziamo nel dettaglio alcuni di questi aspetti: Imposte sui consumi – a partire dall’antichità, è stata una delle imposte più facile a venire esatte, soprattutto dove essa colpisse beni di consumo primario o necessari. Nei decenni, l’imposta in parola tese di solito a convertirsi in un’“imposta generale sull’entrata” che colpiva ogni passaggio o compravendita dall’inizio della filiera produttiva al consumatore finale. L’imposta generale sull’entrata venne convertita in “imposta sul valore aggiunto”, la quale colpiva soltanto l’incremento netto di valore realizzato in ciascuno stadio della filiera produttiva; essa era più “equa”. Ci sono poi casi speciali dei beni di lusso e dei beni educativi: a. I beni di lusso rimandano alle leggi suntuarie che li colpivano particolarmente pagando imposte speciali (l’obiettivo di tali leggi era anche rafrenare l’ostentazione e diminuire l’invidia sociale). b. I beni educativi, al contrario, sono quelli di cui il consumo è socialmente giovevole per sé, in quanto tendono al miglioramento umano, sociale e morale degli individui e delle collettività: si tratta di investimenti in Belle Arti, di spese per educazione e cultura, attività sportive e iniziative filantropiche (si sostiene che tali spese andrebbero detassate proprio per la loro costruttività sociale). NB → imposta sui consumi - imposta generale sull’entrata - imposta sul valore aggiunto. Imposte sui redditi – il primo problema da risolvere è la definizione di reddito; tra queste: a. La definizione di reddito di Hicks: somma di variazioni di valori patrimoniali (1946). b. La definizione di reddito di Schanz-Haig-Simons: reddito globale. Secondo la definizione di H., il reddito è la somma delle loro variazioni di valore da un anno all’altro. Secondo S.H.S., invece, occorrerebbe aggiungere alle componenti del reddito anche tutte le variazioni positive di valore, anche non realizzate. Sgombrando il campo da quest’ultima definizione astratta, rimane la prima, sostenuta anche dalla Ragioneria Italiana fino a F.B.. In realtà, proprio la dottrina italiana l’ha superata e cassata quando G.Z. teorizzò che: a. Per le aziende di produzione, il reddito è l’insieme dei costi e dei ricavi relativi a un periodo e inoltre la loro diferenza. b. Per le aziende di erogazione, reddito è l’insieme delle variazioni positive relative a un periodo. Questa è una definizione presente nella stessa letteratura anglosassone. La teoria di G.Z. inoltre permette di comprendere che l’imposta sulle società, tassa il reddito annuo, cioè il saldo dei costi e dei ricavi relativi a un periodo. La stessa definizione risolve anche il dubbio a riguardo della “doppia tassazione del risparmio”; quest’ultimo problema può essere espresso attraverso la formula: S = Re – T (S= somma; Re= reddito; T= imposte) Il risparmio, una volta investito, è caratterizzato da una fecondità economica ripetuta: ad ogni ciclo produce nuovo reddito, e la tassazione è quindi perennemente ripetuta rispetto alla stessa somma, ma ripetuta relativamente ai redditi sempre nuovi che essa, investita, riesce a produrre. Efetti redistributivi delle imposte sui redditi – si passa da una fase di assenza di imposte sul reddito, ad una fase con imposte proporzionali e, infine, ad un’ultima fase con imposte progressive. I principi cui si poteva orientare la struttura impositiva erano i seguenti: a. Del sacrificio collettivo minimo. b. Del sacrificio assoluto eguale. c. Del sacrificio eguale in proporzione. d. Del sacrificio crescente. La seconda ipotesi sosteneva a propria volta che l’imposta proporzionale è in realtà già progressiva, poiché aumentando il reddito aumenta l’imposta versata, mentre la fruizione di servizi pubblici (indivisibili) è identica per tutti i cittadini. Con l’espandersi della spesa sociale e l’afermarsi di stati assistenziali non solo laburisti, vennero poi in campo progressività di vario tipo, giustificate dal “minore sacrificio marginale” per gli alti redditi e dal “maggiore beneficio marginale” per i redditi inferiori. Tale progressività si riconnetteva al Welfare State, ma intendeva inoltre obbedire al principio di redistribuire forzosamente ricchezza verso i ceti meno fortunati economicamente. Il principio attraeva l’interesse delle moltitudini.
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