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Lezioni di Letteratura Spagnola II, Appunti di Letteratura Spagnola

Sbobine di tutte le lezioni del corso di Letteratura spagnola II con la professoressa Sarmati dell’anno 2020/2021

Tipologia: Appunti

2020/2021

In vendita dal 03/03/2022

elisa116
elisa116 🇮🇹

4.5

(25)

18 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Lezioni di Letteratura Spagnola II e più Appunti in PDF di Letteratura Spagnola solo su Docsity! Letteratura Spagnola Contestualizzazione: Il programma affrontato abbraccia circa cinque secoli di letteratura, partendo dalle origini, fino ad arrivare al 1554, nel cosiddetto Siglo de Oro, anno in cui escono le 4 edizioni simultanee del Lazarillo de Tormes. Il Siglo de Oro indica sia il ‘500 che il ’600, considerate le epoche della letteratura spagnola canonicamente più importanti, insieme al ‘900, definito Siglo de Plata. Nonostante questo però, quando si è autorizzati a parlerà di letteratura spagnola? Si inizia a parlare di letteratura spagnola in quanto espressione nazionale a partire dalla monarchia dei Re Cattolici, Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona. Nella loro unione personale in matrimonio nel 1469 e poi in unione politica nel 1474, a partire da questa data, possiamo iniziare a parlare di letteratura spagnola e di Spagna (a partire da questo periodo infatti, la lingua castigliana si affermerà su tutti i dialetti della penisola, unificando anche la letteratura —> prima ad esempio si avevano anche opere in mozarabico, dialetto protoromanzo tipico delle Jarchas Mozarabicas) Per quando riguarda la letteratura medievale, antecedente a questo periodo, secondo Ramón Menéndez Pídal sarebbe più opportuno parlare di letteratura castigliana Il termine Ispania invece è più antico dei Re Cattolici attribuito ad un’unità peninsulare avuta dal terzo secolo a.C al quinto secolo d.C, quando la Spagna fu una provincia romana, tant’è che tutta la cultura, la lingua e l’arte spagnola è molto legata alla dimensione romana. L’origine del termine è incerto. Una prima interpretazione sembrerebbe derivare dai fenici, per cui Ispania significa “terra dei conigli”. Alcuni storici romani parlavano di questo territorio come una terra piena di “cunicoli” che in latino significa “conigli”. Una seconda possibilità etimologica porta alla traduzione del termine come “terra ricca di metalli” per gli abbondanti giacimenti minerali e metalliferi sulle coste dell’Andalusia, sfruttate molto a livello economico e commerciale. Quando poi la Spagna verrà invasa dagli Arabi, il territorio si frantumerà in tanti piccoli stati cristiani che si organizzeranno poi per riconquistare il territorio spagnolo. Di questi piccoli stati, la Castiglia rappresenterà la zona fortificata di frontiera, avamposto conto Al-Andalus, circondata da castelli, caratteristica da cui riprende il nome. Da piccolo stato, la Castiglia diventerà il cuore della Reconquista e poi il cuore della lingua e della cultura, tant’è che l’eroe del poema epico nazionale spagnolo, il Cantar de mio CID, è castigliano. 14.10 Excursus storico: Iniziamo oggi con un breve excursus di carattere storico, linguistico ed artistico sulla storia di Spagna a partire dalla sua preistoria fino all’invasione araba, nell’ottavo secolo dopo Cristo. Questo breve viaggio sarà utile anche per la contestualizzazione linguistica della nascita del volgare castigliano, poiché presentare le popolazioni che hanno vissuto in Spagna sia prima che dopo la dominazione romana significa analizzare gli elementi di sostrato e superstrato presenti nella lingua. Preistoria: Che la penisola iberica sia stata abitata sin dalla preistoria più remota lo dimostra la presenza di pitture rupestri che possiamo far risalire all’ultima tappa del paleolitico superiore (15.000-12.000 a.C). Questo ciclo di arte rupestre si conserva nella regione di Altamira, in provincia di Santillana del Mar in Cantabria. La grotta che accoglie queste pitture nota con il nome di La cueva de Altamira è stata dichiarata, per la sua peculiarità, patrimonio dell’umanità Unesco nel 1985 e addirittura, per la qualità delle sue decorazioni, è stata anche denominata “La cappella sistina del quaternario” Gli affreschi polimetri presenti sulle pareti della grotta raffigurano animali: bisonti, cervi, cavalli. Inizialmente la comunità scientifica ne aveva messo in discussione la veridicità poiché si riteneva impossibile che l’uomo preistorico potesse esprimere una sensibilità artistica così svolta per spirito di osservazione naturalistica e anche per perizia tecnica. La grotta fu scoperta accidentalmente intorno al 1868 e rispetto alla geografia attuale si addentrava per 10km nell’entroterra. Si suppone quindi che si trattasse di un insediamento di cacciatori o di un rifugio. Una delle ragioni che ha permesso ai dipinti di arrivare fino a noi in uno stato di conservazione ottimale si deve a un crollo di alcune pareti che sigilla l’entrata originaria della grotta per secoli, mantenendo all’interno di essa una temperatura costante di 11-12 gradi e un altrettanto costante tasso di umidità. Queste pitture furono realizzate con: carbone vegetale (per il nero), ossido di ferro (per il rosso ed il giallo). Dato lo stile estremamente omogeneo dei disegni si è supposto addirittura che fossero di un unico autore, soprattutto i dipinti della grotta principale, chiamata Sala de los Policromos. In essa vi si trovano 16 bisonti in varie posizioni con un effetto naturalistico e dinamico delle figure, probabilmente dovuto anche alla scelta di adattare il disegno alle protuberanze della grotta così da conferire volume movimento alla rappresentazione. La civiltà tartesica: La Bibbia e alcune fonti classiche citano il nome di Tarsis e dei Tartesi Per riferirsi ad una città e ad un popolo che viveva nella valle del Guadalquivir. L’archeologia ha effettivamente confermato l’esistenza di una cultura pre-iberica sul delta del Guadalquivir, distrutta poi dai cartaginesi. La storiografia antica definiva i tartessiani una popolazione molto ricca, soprattutto a causa dell’attività metallurgica e del commercio di oro, argento e ferro (rimando all’etimologia del termine Ispania). Questa civiltà possedeva una lingua propria, scoperta attraverso il rinvenimento di alcune tavolette, che non risulta imparentata né con il basco, né con l’Iberico, né con il Lusitano, che rappresentano le altre tre famiglie linguistiche dell’Iberia precedenti all’arrivo dei celti. Recentemente si è sostenuta l’ipotesi che il Tartessico sia comunque una lingua di origine celtica. I celti, gli iberi e i celtiberi: Certamente i gruppi linguistici che esercitarono una maggiore influenza sul volgare castigliano come sostrato furono i gruppi linguistici dei celti, una popolazione originaria dell’Europa del Nord che si insediò nelle regioni relative alla Galizia sino alla Meseta e alla valle del Lepro. Verso il X e XI secolo però, i gruppi cristiani del nord avevano cominciato ad organizzarsi e, sotto il vessillo della religione, avevano intrapreso delle guerre vissute come crociate, cominciando a ripopolare e a riconquistare porzioni di territorio. Nel fare ciò, si ebbe una costituzione molto mobile di regni. Si cominciò con regno delle Asturie, controllato dal famoso Re Telaio e si creò poi la Contea di Castiglia, controllata dal conte di Castiglia Fernán González, il regno di Navarra, la contea di Aragona e la contea di Barcellona. Nell’XI secolo dunque vediamo una Spagna spaccata a metà: -a nord abbiamo gli staterelli cristiani; -al sud il Califfato di Cordoba, resosi indipendente dal califfato di Damasco, che rappresentava il territorio degli arabi in Spagna, i quali svilupparono una propria cultura indipendente da quella araba orientale; All’altezza del XII invece, vedremo il Califfato di Cordoba dividersi in tanti piccoli staterelli (a causa di ambizioni della classe nobiliare) costituendo il Regno di Taifas. Questi stati erano associati ed indipendenti, ognuno di loro aveva una propria cultura e, questa divisione, li rese molto più deboli a livello militare. Sarà proprio questa debolezza che permetterà ai cristiani di riconquistare i territori spagnoli. Dal 1235 al 1492 poi, quando si parlerà di Al-Andalus si intenderà la fascia di terra intorno a Granada, guidata dalla dinastia dei Nasridi. Essa sarà una piccolissima porzione di terra e potrà rimanere come Al-Andalus poiché pagherà pesantissimi contributi alla Spagna cristiana. Il 1492 fu per la Spagna cristiana un anno importantissimo, non solo perché espanse i propri domini oltremare ma anche perché furono cacciati gli ebrei dal territorio nella prima diaspora e i re Cattolici riuscirono a sconfiggere il sultano di Granada, portando finalmente ad un’unità cristiana del paese. La Spagna, durante la dominazione araba, si divise in diversi gruppi religiosi ed etnici, con una propria dimensione socio-culturale, difficile da definire. Il Corano impediva ai musulmani di assoggettare altri popoli ed è per questo che essi rispetteranno le leggi, gli usi, i costumi, le proprietà e la religione del popolo conquistato. È proprio in virtù di questo che i cristiani torneranno in Al-Andalus dopo essersi inizialmente rifugiati al nord. I cristiani tornati, non convertiti alla religione musulmana saranno chiamati “mozarabi” (significa mezzi-arabi), parlanti la lingua mozaraba. Nel rispetto totale degli usi e costumi però, i mozarabi, per rimanere tali, dovranno pagare una “tassa della conquista” chiamata dhimna, classificando coloro costretti a pagarla come “dhimni”. Questa tassa porterà alla conversione di molti cristiani alla conversione alla religione islamica. Questi cristiani convertiti saranno chiamati “Muladí/es”. Una cosa simile accadde nella Spagna cristiana. I musulmani che vivevano lì avevano le stesse opzioni dei cristiani presenti nel territorio arabo: non convertirsi e pagare una tassa oppure convertirsi al cristianesimo. Gli arabi convertiti al cristianesimo saranno i “moriscos” mentre coloro non convertiti saranno i “mudejar/es”. Questa condizione diede al territorio la denominazione di “Spagna delle tre religioni”, proprio per rappresentare il fatto che in essa vivevano queste tre religioni in modo pacifico (cristiani, musulmani ed ebrei). In essa si svilupparono anche le figure dei rinnegati che rappresentavano: -per la Spagna araba i musulmani convertiti; -per la Spagna cristiana i cristiani convertiti; Quando si parla di Jarchas si fa riferimento alla letteratura mozarabica, scritta in una lingua romanza, parlata dai cristiani che vivevano in Al-Andalus. La lingua mozaraba è un dialetto romanzo arcaico dai tratti diversi rispetto al castigliano odierno. Vediamo alcune caratteristiche: -Livello fonologico: 1)Conservazione dei gruppi iniziali consonantici latini CL-, FL-, PL- Es. In spagnolo pluvia diventa lluvia. Il mozarabe non effettua questa conversione. 2) Mancata sonorizzazione delle consonanti sorde intervocaliche: T→ D; P →B; C→G Es. In spagnolo toto diventa todo. Il mozarabe non prende sonorità. 3) Mancata palatalizzazione del gruppo latino –CT-; noctem →nohte e non noche L’apporto della lingua araba al mozarabe però non è solamente a livello fonetico ma anche lessicale. Secondo Josep María Sola-Solé, la lingua mozarabica è una mistione per il 40% di termini orientali e per il 60% di parole romanze. I termini orientali sono per la maggior parte sostantivi, ma anche verbi, seppure in misura minore, tra questi il verbo garrire (“dire”). In generale dunque, possiamo dire che il mozarabe è molto più vicina al latino che allo spagnolo. Abbiamo tutt’oggi testimonianze di questa lingua, conservata e studiabile poiché portata avanti dalle comunità. Il 1948 rappresenta una data fatidica nella discussione della letteratura spagnola e romanza delle origini. Il rinvenimento delle Jarchas rivoluzionò il concetto di origini all’interno del teatro spagnolo e all’interno della letteratura europea. Prima che questi testi fossero rinvenuti, al fatto che la letteratura spagnola avesse avuto una produzione antica di forma lirica ci si arrivava solo per congettura. Si ipotizzava infatti che, prima dell’epica, fossero circolate delle canzoncine di carattere popolare in forma orale poiché in alcuni autori successivi, come Gonzalo de Berceo, compaiono dei versi che sono evidentemente appartenenti ad altri autori, così come avviene nel Libro de Buen Amor di Juan Ruiz Arcipreste de Hita. La nascita della lirica in Spagna, prima della scoperta delle jarchas, si faceva risalire al XV secolo (molto più tardivamente) con queste antologie liriche conosciute con il nome di cancioneros. La loro scoperta avvenne grazie allo studio dei componimenti chiamati muwassaha (si legge “muvassascia”), componimenti in lingua araba ed ebraica, non appartenenti alla cultura spagnola. Nel leggerli infatti, Samuel Sterne prima ed Emilio García Gomez dopo, ritrovarono collegate alla fine della muwassaha alcune canzoncine che si confondevano nella grafia poiché scritte in lingua araba o ebrea. ** L’espressione Jarcha rappresenta la traslitterazione in lingua spagnola del termine (in italiano diventa “cargia, cargiat”)arabo khargat, che significa proprio “uscita,finale” La scoperta, dunque, avvenne nel 1948 e non prima, proprio per questa difficoltà nel confrontarsi con delle lingue semitiche. Sterne rinvenne venti canzoncine in lingua ebraico-romanza ed Emilio García Gomez ne aggiunse un’altra cinquantina; ad oggi, il numero delle jarchas ammonta complessivamente ad un’ottantina di testi. Esiste nella terminologia linguistica e letteraria spagnola un termine specifico per indicare la letteratura scritta in lingua volgare spagnola ma con caratteri diversi: literatura aljamiada (di cui fanno parte le jarchas), derivante dall’arabo, dove “aljamiada” significa “scritto in lingua straniera”. Distinguiamo poi due tipologie di Jarchas: -jarchas ebraico-romanze, in caratteri ebraici appunto; -jarchas arabo-romanze, in caratteri arabi; **Questo dimostra che, evidentemente, la nascita della Muwassaha fu conseguente all'apprezzamento che questi poeti arabi dimostrarono per una lirica in una lingua paleo- romanza che circolava nel territorio di Al-Andalus al momento della conquista. Essi, partendo dal sistema delle rime offerto dalle Jarchas (molto brevi, composte da circa 4 versi) costruirono (con una modalità molto particolare) il testo che ne rappresenta, in un certo modo, un lungo preludio. Le Muwassaha Entriamo nello specifico della letteratura in lingua mozarabe (chiamata anche mozarabica, roman-andalusí o romance-andalusí). Il termine Muwassaha rappresenta una traslitterazione del termine dall’arabo (in spagnolo è moaxaja) che significa “cintura”. Per spiegare cos’è una Muwassaha bisogna ricorrere ad un confronto con la poesia araba classica. Si tratta di una Muwassaha anonima molto particolare per la voce dell’io lirico, del non si intende bene se sia uomo o donna. Proprio per questo, potrebbe trattarsi di una Muwassaha omo-erotica di espressione omofila. La società urbana di Al-Andalus infatti, aveva il privilegio di vivere dei costumi molto più libero rispetto a quella cristiana e a quella degli arabi d’Oriente. Troviamo quindi delle circostanze di carattere amoroso che nell’XI secolo non ci aspetteremo. Potrebbe essere anche che l’io lirico sia femminile. Nell’XI secolo si avevano già autrici femminili, esiste addirittura un’opera di María Jesús Rubiera Mata che è un rapporto riguardo la poesia femminile ispano-araba. Le donne scrivevano poesie valorizzando la figura del sovrano, dell’aristocratico e del nobile, per ottenere un compenso. Qui ci troviamo dunque forse di fronte ad una donna o forse no ma l’unica cosa certa è che viene esaltata la bellezza maschile (cosa molto inusuale). Nella lirica araba poi esistono due tipi di sentimento amoroso: -l’amore oudrii: l’amore concepito in maniera platonica molto simile allo stil novo, caratterizzato dalla distanza dall’essere amato e dalla sofferenza causata da tale distanza che non può essere colmata; -lirica ibai: celebra l’amore vissuto nella sua dimensione più erotica, nella sua passionalità e carnalità. Analisi di Lunas nuevas salen entre cielos de seda: Quasi tutte le Muwassaha iniziano con due versi che ne costituiscono un preludio (in spagnolo cabeza). Quando questo è assente, allora il testo sarà una Muwassaha calva (in arabo āgra). Esso normalmente serve ad anticipare l’oggetto del testo che sarà poi sviluppato nelle strofe successivo. “Lune nuove salgono tra cieli di seta/ guidano gli uomini quando non hanno punti di riferimento” Da sottolineare è la complessità di fare l’esegesi di questi testi, la quale deriva da due elementi fondamentali: -elemento di carattere linguistico: le Muwassaha son scritte in arabo, scritte dunque senza vocali. Quando esse vengono dunque traslitterate sono sono soggette all’interprete; -elemento culturale: la dimensione letteraria è molto diversa rispetto a quella occidentale, con un carattere metaforico ancora più spiccato con metafore non del tutto trasparenti rispetto a quelle della tradizione; Questo preludio varia rispetto alla normalità perché mentre solitamente esso anticipa il tema del componimento, in questo caso non è così. Esso in questo caso serve a dare una circostanza temporale: ci troviamo in piena notte, un momento propizio per l’incontro e per il sentimento amoroso. Il preludio dunque assume un carattere circostanziale ed evocativo. In particolare ci troviamo in una notte di novilunio, la fase astronomica in cui la luna si trova tra il sole e la terra. Nel trovarsi in congiunzione con il sole essa non si vede, è nera. Il poeta però allude alle prime fasi del novilunio, quando essa è sottilissima. Il poeta poi afferma che gli uomini si orientano con la luna. Essa, nel mondo antico, era effettivamente un astro attraverso il quale era possibile orientarsi: quando era crescente le punte indicavano sempre l’est, quando era calante indicavano l’ovest. L’emistichio “aun cuando eje no tengan” rimane comunque oscuro (emistichio perché è la metà del verso più lungo**) nonostante sia chiara l’immagine degli uomini che si orientano con la luna crescente (oscuro: non si ha bene chiaro il significato pieno delle metafore usate, diverse dalla cultura occidentale). **in questi componimenti abbiamo una doppia possibilità di scrittura metrica spezzando a metà i versi, possibilità che ritornerà anche nell’epica. 1 strofa: Nella prima strofa, come già detto precedentemente, viene affrontato un tema completamente estraneo alla lirica occidentale: l’esaltazione della bellezza maschile da parte di un io lirico con un genere non definibile. “Soltanto i biondi dilettano i miei occhi:/sono rami d’argento da cui spuntano foglie d’oro/oh se potessi baciare il diluvio di queste perle…” (Si tratta di un tristico monorimo —> tre versi con una stessa rima assonante) Il modo in cui viene elogiata la bellezza maschile ci è abbastanza noto: le caratteristiche fisiche vengono paragonate ad elementi del mondo minerale. Elementi come argento, oro, perle, servono ad esaltare il colore e la brillantezza. L’argento indica il bianco, il pallore, il colore dell’incarnato mentre l’oro rappresenta i capelli e le perle il bianco dei denti. Non è affatto curioso il fatto che in un poema musulmano venga esaltata una bellezza ariana poiché nell’iconografia dei tempi di sovrani e capi berberi essi venivano raffigurati biondi con una pelle molto chiara. I due versi finali (estribillo) sono scritti volutamente in corsivo per distinguersi dai primi tre versi (mudanza) che rappresentano un’unità metrica e tematica. Questi due versi cambiano anche la rima. “E perché il mio amico si nega di baciarmi/se la sua bocca è dolce e la sete mi tormenta?” Siamo passati dunque dalla mudanza con un carattere descrittivo a due versi con un forte accento dal tono lirico. Essi sono modulati sulla concessione di una pena d’amore, utilizzano anche un registro diverso. Nei primi tre abbiamo un registro colto,aulico è più raffinato. Quest’ultima parte, definibile come estribillo (ogni strofa ne ha una) abbiamo un lessico più diretto, popolaresco. In tutti i componimenti però il tema amoroso è affrontato tramite metafore (sete d’amore qui, ospedale d’amore ecc) che diventano poi allegorie e che permettono all’autore di giocare con diverse tematiche. Possiamo notare già da ora come ogni strofa della Muwassaha è costituita da un tristico monorimo e un estribillo che si caratterizza appunto per un registro più popolare. 2 strofa: Diciamo che tutta la poesia può essere inclusa nel genere letterario “panegirico” in cui vengono lodati i pregi spesso intenzionalmente esagerati. “È, tra i gigli, la sua gota papavero/ raggi di scirocco e di zibetto la adornano/ se aggiungo anche la corniola, non importa.” L’autore continua a descrivere la bellezza di quest’uomo aggiungendo, oltre ad elementi minerali, elementi vegetali —> gigli, papaveri, scirocco e zibetto Il contrasto gigli/papaveri rappresenta il pallido del volto con il rosso delle guance (si riprendono i colori della prima strofa) simile anche alla corniola. La descrizione dunque procede ancora attraverso elementi minerali e naturali. !! Il pittore Arcimboldo rappresenta l’estrema trasposizione della rappresentazione del corpo attraverso elementi naturali. Da notare è che la bellezza dell’amato si descrive solo fino al collo, seguendo canoni di pudore. L’estribillo di questa strofa ha la stessa rima del preludio e della prima strofa. Da qui possiamo dedurre che la Muwassaha segue lo schema rimico AA BBB AA CCC AA … La Muwassaha si compone dunque di strofe (4-5) con un tristico monorimo che variano e un distico (o estribillo) con la stessa rima. Nell’estribillo compiono le figure del “galan” (colui che ama, termine che tornerà in tutte le poesie dei canzonieri) e della “gacela” (l’uomo di cui si è innamorati). “Non si comporta bene la gazzella se spaventa il suo galan/ quando accetta le malelingue dei censori” Si introduce qui un altro protagonista spesso presente: il censore. Esso è una figura socio- culturale che rappresenta un controllore (può essere un padre, un fratello) che tutela e mette ordine nei comportamenti sociali in un ambiente, seppur molto libero nei costumi, comunque medievale. I censori sono spesso anche detrattori, ovvero antagonisti rispetto alla coppia degli innamorati. La loro figura sarà ritrovata anche nella lirica quattro/cinquecentesca, nella lirica trobadorica e in quella galego-portoghese. Terza strofa: “Con il mio Ahmad, ditemi, chi compete? / Unico in bellezza è come un cucciolo di gazzella/ Colpisce il suo sguardo tutti coloro che lo guardano. Quanti cuori ben trafigge con le frecce che ornano i suoi occhi come ciglia spesse” !! Il canto d’amore posto in bocca di donna non appartiene soltanto alla lirica romanza nella quale troviamo anche le canzoncine della malmaritata nella lirica popolare italiana e le chanson d’etoile per la Francia, le Frauer lieber in Germania. È stata poi scoperta anche una tradizione orientale siriana dei canti di donna. Questo ci aiuta a dire che in realtà, probabilmente, la prima lirica accompagna proprio il mondo femminile nella sua quotidianità. Nell’area spagnola abbiamo la fortuna che questi canti siano stati trascritti così presto, cosa che nelle altre lingue accade verso l’800 (in Spagna nel IX secolo). Questo comporta che nelle altre letterature europee la lirica popolare non trova spazio mentre nella letteratura spagnola la letteratura folklorica sarà sempre presente con diverse riprese d’autore. Commento Muwassaha pag. 16 antologia: Andiamo adesso ad analizzare una Muwassaha con una nota d’autore conosciuto sotto il nome di ” Il panettiere di Murcia” (vedi nota antologia) e contenente la jarcha datata 1042 (prima testimonianza della datazione delle jarchas che ci permette di retrodatare al IX-XVIII secolo l’esistenza di queste canzoncine). In questa trascrizione i versi sono messi di seguito e divisi da una barra, in sequenza orizzontale. Anche in questo caso, come nel caso precedente, ci troviamo in alcuni passaggi interpretativi complessi, quasi oscuri. Bisogna ricordare infatti che l’oscurità e la complessità di trattare questi testi è essenzialmente legata a un problema di traslitterazione e traduzione dall’arabo in castigliano (traslitterazione perché la lingua araba non ammette le vocali e traduzione perché ci troviamo in un contesto culturale diverso). L’opera è formata da un preludio iniziale, quattro strofe ed una quinta di transizione che introduce la jarcha. L’io lirico al carico del quale va il lamento d’amore (diverso dal panegirico di Lunas Nuevas) sembrerebbe essere a carico di una figura maschile. • Preludio e prima strofa: ¿Quién me dará la gacela esclava, / que cazan los leones de los cañaverales, / morosa en mi deuda, cuando / yo esperaba de ella el pago de lo que me debe? Puse mi suerte en cuanto a ella / entre la esperanza y el deseo. / No manifesté mi desespero/ Chi mi restituirà la gazzella schiava / che i leoni cacciano nei canneti/ lei che è mia debitrice quando io mi aspettavo da lei la restituzione di quello che mi deve? Il mio destino è affidato, per quanto la riguarda/ alla speranza e al destino. Non manifestai la mia disperazione cuando prolongó ella la injusticia; / sino que me dije: «¡Oh corazón mío, protégela / en ti de un mal pensamiento; / y tú, oh alma, disuélvete / y – ¡oh quién dilata su venida! – / haz lo que quieras en cuanto a tu jurisdicción, / pues ciertamente yo con tu juicio estaré contento!». quando lei prolungó la sua ingiustizia se non che ho detto a me stesso: << oh cuore mio, proteggila da un cattivo pensiero e tu, anima,rasserenati e -oh,chi ritarda la sua venuta- fai ciò che vuoi per quanto è in tuo potere io certamente mi contenterò del tuo giudizio! Vediamo tornare la figura della gacela presente anche nell’opera Lunas nuevas che in questo caso rappresenta la trasposizione metaforica della bellezza dell’amata. Anche qui dunque troviamo una geografia ed una fauna esotica, in un contesto occidentale (questa metafora ritornerà nella 40esima notte di Le mille e una notte con il senso di “caccia d’amore”) Il contesto non è del tutto diafano ed il preludio circostanzia l’assenza dell’amata (gacela esclava) che, per certi versi, già dimostra di non corrispondere il sentimento dell’io lirico (è mia debitrice). Essa andrà piano piano, all’interno del componimento, ad assumere delle caratteristiche vicine a La belle dame sans merci (la dama ostile e impietosa), componimento di Alain Chartier del XV secolo. Usiamo questa figura per qualificare all’interno dei testi (anche medievali) la figura della femme fatale: ostile, impietosa,non accondiscendente verso il sentimento dell’amato. Siamo dunque in un contesto di non corrispondenza in tutti i sensi. Si nota subito come la fanciulla evocata sia molto diversa dalla fanciulla tipica delle Jarchas, quest’ultime accomunate a questo componimento per la presenza del lamento dell’assenza. Questa assenza dell’innamorato comporta che, in entrambi i testi, l’io lirico si lamenti a partire da un sentimento fatto di memoria. La prima strofa testimonia la presenza di un amante con delle qualità alla quali siamo abituati: egli è reso, prostrato, sottomesso alle volontà di lei, disperato, tutte caratteristiche che ci riportano ai testi d’amore sentimentale e trobadorico in cui l'innamorato vive in una situazione di vassallaggio nei confronti della dama. Ritorna anche il contesto di quell’amore che la lirica trobadorica ha trasmesso nei secoli a seguire (e che ancora trova rappresentazioni nella poesia) con la figura di donna silente e lontana che con la sua indifferenza causa sofferenza all’innamorato —> dal termine injusticia della prima strofa si allude proprio a questo atteggiamento di indifferenza assunto dalla donna. Assistiamo poi ad un monodialogo che si articola tra l’innamorato ed il suo cuore. Si tratta dunque di un’introspezione del sentimento amoroso che si trasforma in una elucubrazione. Si passa poi da un parlare con sé stesso a parlare ad un tu (oh quien) interlocutore. In questa strofa risaltano appunto le caratteristiche già menzionate: lei non si presenta ma lui non si ribella, confessa il suo stato di abbattimento e di frustrazione e si dichiara totalmente asservito alla sua dama. Seconda strofa: ¡Oh el que se aparta injustamente / de quien no puede ser paciente! / No hay mal en que yo sufra la enfermedad (de amor), / si de mí no huyes. / Mi último soplo de vida está en tí, después de que / el que duerme, el tranquilo de ojos, / el que lanza flechas certeras /hacia sanos y enfermos / me mira enviándome una flecha, / y mi corazón está en su camino. oh colui che si allontana ingiustamente da colui che non riesce ad essere paziente! Non è un problema che io soffra la malatta (d’amore) se da me non fuggi. Il mio ultimo soffio di vita è nelle tue mani, colui che dorme, colui con gli occhi tranquilli, colui che lancia frecce sicure verso sani e malati mi guarda lanciandomi una freccia, ed il cuore è lungo la sua traiettoria In questa strofa troviamo una serie di allegorie dell’amore (come già detto, questi testi procedono molto recuperando una metaforica di questo sentimento). Alcune di queste ci sono note mentre altre appartengono ad un contesto poetico meno familiare, ad un campo metaforico più estraneo alla nostra cultura di raffigurazione ed oggettivizzazione del sentimento amoroso con correlativi meno noti. Essa con una costruzione molto enfatica (sempre presente in questi testi) data, in questo caso, da un’esclamativa (nella prima strofa era un’interrogativa, nel corso del testo esse quasi si alternano). Si ha poi un poi un cambiamento nel soggetto al quale ci si riferisce, che da essere un soggetto femminile diventa maschile (el que se aparta), in realtà si sta facendo riferimento all’amore. Il secondo relativo (de quien) è rivolto all’innamorato e ci viene presentata una visione dell’amore come impaziente. Abbiamo poi messe in sequenza tre raffigurazioni dell’amore: el que duerme, el tranquilo de ojos, el que lanza flechas certeras L’ultima ci estremamente familiare poiché rimanda all’immagine di cupido che lancia le sue frecce d’amore, le altre sono un po’ meno familiari. Sono però certamente tutte raffigurazioni dell’amore che convergono in quella della freccia che, stagliata verso sani e malati (ritorna il tema della malattia d’amore) coglie l’innamorato nella sua traiettoria. Terza strofa: ¿Cómo se ha portado mi corazón contigo / que no acaban sus males? / A ti se lamenta de su pasión / Si è comportato così male il mio cuore con te che le mie pene non finiscono? Confida a te il suo lamento Jarcha: Nelle prime due linee si nota la complessità testuale: nel traslitterare il testo, passando dai caratteri arabi ai caratteri romanzi: khargia: y’mm mw ‘lhbyb / (y)š ‘n mn trn’d / g’r kfry y’ mm’ / ’nn (m)y(w) ‘n’(’)l(’) š’d Prima Ipotesi di vocalizzazione: Ya mammā, mío habībi / bai-še e no me tornarāde. Gār ké faréyo, yā mammā / in no mío ‘inā’ lēšade? Traduzione in castigliano: ¡Oh madre, mi amigo / se va y no vuelve! / ¿Qué haré mamá, si mi pena no me deja? Traduzione in italiano: Mamma, l’amico / se ne va e non tornerà! / Mamma, di’ che farò, /se la mia pena non mi lascia? Verbo gārrire in mozarabico significava “dire”. Vediamo in questa jarcha tornare il contrasto tra esclamativa ed interrogativa. La madre non risponde perché, come abbiamo già detto, nelle jarchas non è importante la narrazione ma la sfera lirica. Vediamo tornare poi questa jarcha a pag 18 in una vocalizzazione di Emilio García Gomez, in cui l’ultimo verso è radicalmente diverso: Y mammā, mío habībi / bai-še e no me tornarāde. Gār ké faréyo, yā mammā / no un beziello lēšarade? Madre, mi amigo se va y no vuelve.. ¿Qué haré madre? ¿no me dejará un besito? Mamma, il mio amico se ne va e non tornerà. Che farò madre? Non mi lascerà un bacetto? Le jarchas cominciano sempre in medias res (possibilità di raccontare senza partire dall’inizio) e finiscono sempre ex abrupto (si interrompono bruscamente). Possiamo dunque dire che nella loro poetica è marcatamente presente un laconismo (È più ciò che non si dice che quello che si dice), questo perché, le jarchas puntano di più ad una descrizione di una condizione psicologica ed emotiva, in questo caso di una fanciulla abbandonata. Da questo fatto ne consegue un’incertezza psicologica che diventerà il tema del componimento. La descrizione dell’amore nelle jarchas è lontano da tutta la retoricizzazioni presenti nelle Muwassaha perché in esse si punta ad una poetica dell’immediatezza ed estremamente sintetica, con un lessico molto semplice. Quest’ultima sarà poi conosciuta come poetica popolare ed avrà un grande successo nella lirica spagnola —> in Lorca e Rafael Alberti e nella generazione del ‘27 si attraversa proprio una fase di neotradizionalismo e neotubolarismo in cui le caratteristiche di questa poetica saranno riprese talmente tanto da non riuscire a distinguerle. Dal punto di vista metrico, notiamo in questa jarcha dei versi molto brevi per questo diciamo che il testo è in versos de arte menor —> la metrica spagnola, dal punto di vista della misura versale, si divide in due grandi categorie: -versos de arte menor: ne fanno parte tutti quei versi inferiori alle otto sillabe; il verso principe dell’arte menor è l’eptasillabo; -versos de arte mayor: ne fanno parte tutti quei versi superiori alle otto sillabe; il verso principe dell’arte mayor è l’endecasillabo; Dal punto di vista rimico, in questa seconda versione troviamo un’assonanza tra il primo ed il quarto verso. N.b Molto importante però rimane il frammentalismo (inizio in medias res e fine in ex abrupto) ed il carattere epigrammatico (tragico). Analisi jarchas antologia pag 18-21 Jarcha II Yā matre mía r-rajīma, a rāyyo dê manyāna, ben Abū-l-Haÿÿāÿ, la fāže dê matrāna. Oh madre mía dulce! al rayo la mañana, ven Abū-l-Haÿÿāÿ con su faz de aurora. Ci troviamo, anche in questo caso, di fronte ad una quartina conversi che oscillano tra senari e settenari. Ritorna la figura della madre presente all’inizio, definita come “dolce” —> r-rajīma, prestito dall’arabo Di notevole distacco è la costruzione metaforica “al rayo la mañana” e “su faz de aurora” —> l’amato viene paragonato all’alba, “i primi raggi di sole” e “il suo volto come l’aurora”, il volto di lui come il raggio di sole che entra a riscaldare la fanciulla. Come detto già diverse volte, solitamente le jarchas esprimono un lamento d’amore ma in altri casi possono anche avere come oggetto l’incontro amoroso come in questa jarcha, il giovane infatti arriva sul far del mattino. Questi tipi di testi saranno presenti anche nella lirica successiva e nella lirica galego-portoghese, sotto il nome di albas o alboradas, in cui viene descritto l’incontro o la separazione degli amanti sul far dell’alba. La metafora genitiva faz de aurora distacca particolarmente per la sua bellezza. Anche in questo caso, come per gli altri componimenti, non sappiamo nulla dal punto di vista narrativo. Jarcha III: ¡Tant' amare, tant' amare, habib, tant' amare! Enfermiron welyoš [n]idioš, ya duelen tan male. Tanto amar, tanto amar, amigo, tanto amar, enfermaron ojos antes alegres y ahora duelen tanto Essa è costruita con una manciata di parole e si basa sulla ripetizione. Per il tanto piangere gli occhi si sono ammalati e fanno male. Ci troviamo difronte ad una narrazione esilissima. Jarcha IV: Garid vos, ay yermaniellas, com' contener a mieu male sin el habib non vivréyu, a ob l’yrei demandare. Decid vosotras, oh hermanillas, ¿cómo contener mi mal? Sin el amado yo no viviré, y volaré a buscarlo. Ci troviamo di fronte a un famosissimo poeta ebreo Jeudà- a -levi. La fanciulla dopo aver invitato le sorelline (non troviamo questa volta la madre) a risponderle si lancia in una serie di interrogative retoriche, alla quale non c’è risposta poiché essa è elusa dalla poetica del testo —> “come contenere il mio male?” Jarcha V: Non spiegata Jarcha VI: ¿Qué faré, mamma? Meu al-habib est ad yana. Ci troviamo di fronte a un distico che nella traduzione è addirittura a rima baciata. Troviamo solo tre termini fondamentali: mamma, habib, yana (porta), proprio a sottolineare l’estrema sintesi. Nei due versi si vuole sottolineare l’incertezza di una fanciulla così giovane ed il sentimento di intrepidazione. Jarcha da VII a X: In queste jarchas vediamo la presenza di donne più “attive” nel senso reattive come nella VII e attive anche eroticamente nella numero IX. Le jarchas IX e X ci interessano particolarmente perché sono scritte quasi completamente in arabo, ciò testimonia o che i poeti arabi cominciarono a scrivere jarchas o che la permanenza in territorio arabo aveva comportato una quasi totale assimilazione della lingua da parte dei mozarabi. VII Per capire ciò bisogna soffermarsi su quello che stava accadendo in Francia tra il XII e XIII secolo. La lirica trobadorica nasce in Provenza in un momento storico di relativa pace e tranquillità che permette a questo genere amoroso di svilupparsi nelle corti. Tuttavia, nel 1208 Papa Innocenzo III scatenò una crociata contro l’eresia catara, sviluppatasi in Francia nella città di Albi. Proprio per questo la crociata passò alla storia come crociata contro i catari ma anche contro gli albigesi. All’inizio del 1200 dunque, i trobadori scappano dalla Provenza (fenomeno passato alla storia come diaspora-occitanica) diretti verso Italia, Francia e Germania alla ricerca di nuove corti dove esercitare il loro canto. È proprio per questo che, attraverso il cammino di Santiago, arrivarono nella Galizia. Ciò che accadde successivamente fu un fatto peculiare: mentre in Catalogna la diffusione della lirica provenzale si espresse secondo le sue stesse modalità, senza innovazioni, ma adattando alla lingua catalana i moduli, le forme retoriche ed i temi della lirica occitanica, in Galizia al lato di una lirica che imitava la lirica provenzale, nacque un genere che si può definire autoctono rappresentato proprio dalle Cantigas de Amigo. Viene da chiedersi perché, in letteratura spagnola, vengono studiate le Cantigas de Amigo di genere galego-portoghese? Alberto Vàrvaro, uno dei maggiori studiosi di questo genere, sostenne che il galego- portoghese più che un unione della lingua fu una coidè linguistica, cioè una comunità. Questo significa che concretamente e letterariamente la lingua della lirica galego-portoghese non fu soltanto veicolo dei poeti galiziani ma rappresentò la lingua della lirica per eccellenza fino al XIV secolo in Spagna. Ciò significa che, mentre l’epica si esprimeva in lingua castigliana, la lirica utilizzava la lingua galego-portoghese. Per capire ciò, riportiamo l’esempio di Alfonso X el Sabio, uno dei più importanti re della Spagna medievale e grande mecenate il cui circolo di intellettuali passò alla storia per la grande opera di divulgazione che fecero nel territorio spagnolo, scrisse queste cantigas in galego-portoghese. A carico di questo re castigliano abbiamo un corpus di 427 componimenti conosciuti come “Cantigas de Santa Maria” di tema religioso che rappresentano uno dei più grandi repertori di musica antica in Spagna. La cosa più importante di queste Cantigas è che esse sono state tramandate attraverso codici, di cui uno conserva una partitura musicale probabilmente un tempo accompagnata da passi di danza. Vicino al nome di Alfonso X el Sabio è necessario affiancare il nome del re del Portogallo, don Dionigi, a cui carico vanno una serie di Cantigas che lo resero uno dei due rappresentanti dell’aristocrazia che si dedicarono a questo genere letterario. Quanti e quali canzonieri ci hanno trasmesso la lirica galego-portoghese? Dobbiamo innanzitutto distinguere tra canzonieri collettanei (presenti in antologie costituite da diversi autori) e canzonieri individuali, in misura minore. Il corpus della lirica galego-portoghese è costituito da tre canzonieri collettanei e due canzonieri individuali. Complessivamente ci troviamo di fronte a 1600 composizioni. Collettanei: -Canzoniere de Ajuda: il più antico, allestito (indica che un intellettuale ha messo insieme i diversi componimenti di cui non abbiamo datazione) probabilmente verso il 1280 e contiene solo Cantigas de amor (cominciamo dunque a capire che esistono diversi generi di Cantigas, La forma autoctona è quella delle Cantigas de Amigo). Questa antologia prende tale titolo poiché è stata rinvenuta ed è tutt’oggi conservata nella città di Ajuda, nella biblioteca del palacio real. -Canzoniere della Vaticana: rinvenuto nel 1840, copia del XIV secolo di un codice precedente, scoperto da Fernando Wolf nella Biblioteca Vaticana, di qui il suo nome. In esso vi vengono rappresentati tutti e tre i generi della lirica galego-portoghese (Cantigas de amor, de amigo, de escarnio o maldizer); -Canzoniere Colocci-Brancuti: oggi conosciuto come Canzoniere della Biblioteca Nazionale di Lisbona. Fu proprietà dell’umanista Angelo Colocci (1467- 1549) che lo allestì, ne numerò i fogli e vi fece varie annotazioni, poi ritrovato nella biblioteca del Conte di Cagli Paolo Brancuti. Ad oggi sappiamo che, una volta rinvenuto il manoscritto, Brancuti lo vende al grande filologo italiano Ernesto Monaci e venne poi comprato dal Portogallo nel 1924. Canzonieri individuali: -Pergamena Vindel (Pergaminho Vindel): ritrovato casualmente dal libraio Vindel nel 1914, su una pergamena che fungeva da copertina al De officiis di Cicerone. Contiene le sette Cantigas de amigo di Martín Codax. Esso è considerato un canzoniere d’autore le cui Cantigas sono conservate anche nei collettivi del Canzoniere della Vaticana e del Canzoniere Colocci-Brancuti la cui organizzazione è la stessa della pergamena (questo dettaglio ha indotto gli storici a pensare che si trattasse di un repertorio recitato dall’autore in tale sequenza). ** -Pergamena Sharrer, rinvenuta a Lisbona nel 1990, con sette Cantigas de Amor composte dal re portoghuese Don Dinis (Don Dionigi). Harvey Sharrer, studioso dell’Università della California rinvenne quest’opera come copertina di un registro notarile del XVI secolo, ritrovata in uno stato molto molto deteriorato. **nella Francia del sud i trobadori facevano particolare riferimento nelle corti mentre in Spagna essi circolavano anche nelle pubbliche piazze, permettendo una maggiore diffusione dei canti. Non ci sono dubbi sul fatto che tutte le Cantigas siano state provviste di notazione musicale , purtroppo non pervenuta nella stragrande maggioranza di testi tranne che nei due canzonieri individuali. Altri ritrovamenti sono frazioni definite “contraffatte”, essendo alcune liriche galego- portoghesi sono riscritture di opere trobadoriche per le quali si adatta la notazione presente nei modelli originali. L’etnomusicologo Antoní Russell dell’Università autonoma di Barcellona si occupi di ricostruire repertori in cui si trovavano molte Cantigas anche in versione musicale. Cantigas de amor Il modello occitanico di cui le Cantigas sono certamente un’affiliazione è decisamente preponderante nelle Cantigas de Amor, considerate la trasposizione vera e propria della concezione dell’amore come servizio feudale (amore cortese) in una logica erotico-amatoria. Nelle cantigas de Amor galego-portoghesi (che costituiscono la maggior parte del corpus delle Cantigas in generale tra i 1600 ai 2000 testi, abbiamo poi le Cantigas de Amigo con un numero di 500 testi e le Cantigas de Escarnho o maldizer che sono circa 400 testi) in quanto trasposizione, la dama viene chiamata molto spesso al maschile (proprio perché considerata gerarchicamente superiore) con l’appellativo di senhor ed è sempre descritta come la tirava del cuore del poeta. È una donna silente, Il poeta è colui che la corteggiano i termini di venerazione, come un essere superiore perché lei è perfetta nelle sue fattezze fisiche limitate sempre, per una concezione di decoro, al volto quindi soprattutto agli occhi e all’espressività del sorriso. La donna nonostante sia perfetta, riserba all’innamorato un atteggiamento ostile anche quando lo ricambia rappresentando la figura della dame sans merci, presente anche nelle Jarchas, ostile a tal punto che il poeta spesso è costretto ad allontanarsi e ad andare in esilio. È molto importante ricordare per l’adattamento in terra spagnola dell’amore cortese ** vedi giù analisi poesia. Il principale sentimento del poeta è la coita ovvero una la profonda tristezza che quasi sfocia in uno stato di depressione per non essere ricambiato. Il predominio sul piano lessicale della coita dà a queste composizioni, rispetto a quelle Franco-occitaniche, una caratteristica di marcata cupezza, quasi lugubre, alla quale contribuisce un’altra caratteristica diversa (sempre rispetto alla canzone provenzale), ovvero la mancanza di incipit: la canzone trobadorica/occitanica infatti inizia spesso in una circostanza temporale, la primavera, che costituisce una sorta di locus amoenus, un momento propizio per la nascita dell’amore. Nelle Cantigas de Amor invece questo non c’è, le dichiarazioni d’amore dunque prescindono totalmente da una contestualizzazione sia di luogo che di tempo. Ricordiamo inoltre che il poeta deve serbare il segreto della sua identità, concetto conosciuto come mesura. Quello che accomuna le jarchas e le cantigas de amor è la struttura tematica: anche le seconde sono canti in cui si ha la presenza di un io lirico che lamenta l’abbandono. Analisi quarta cantiga della serie di Martin Codax (pag 32 antologia) (Mentre le jarchas avevano sì un autore che gli aveva dato origine ma erano diventate un canto del popolo le liriche dei trovatori avevano degli autori) Esempio di Cantigas de Amor tratto da Canzoniere di Pero Garcia Burgalês: Cantigas de escarnho e maldezir: Anche in questo caso abbiamo un modello francese a cui le cantigas si rifanno ovvero il sirventés provenzale. Il nome stesso della cantigas ci aiuta a capire i contenuti stessi dei testi: escarnho —> scherno, maldezir —> dire male. Ad oggi, contiamo circa 430 testi di questo tipo di Cantigas. In un primo momento cantigas de escarnho e maldezir venivano considerati due generi diversi di taglio satirico. Ad oggi si tende a considerarlo un unico genere ritenendo non molto “importante” la distinzione tra i due individuabile all’interno dei canzonieri. Prima infatti si riteneva che le cantigas de escarnho avessero come un oggetto della satira implicito, omesso del tutto o trasposto in termini metaforico mentre nelle cantigas de maldezir fossero dirette, con un soggetto o oggetto** della satira esplicito. **All’interno di queste Cantigas si poteva trovare una satira politica-morale o personale o letteraria. La maggior parte di queste Cantigas de escarnho hanno come oggetto di satira la donna, esse dunque potrebbero anche essere definite la parodia delle Cantigas de amor dove troviamo l’esaltazione della donna. Il tipo si donna sulla quale viene fatta la satira è: la donna infedele, la donna brutta o la donna dotata di un eccessivo appetito sessuale, si tratta dunque di canzoni piuttosto misogine. Talvolta attraverso la donna però si colpisce il marito con il fine di denigrarlo, facendo riferimento il più delle volte all’infedeltà. Altre volte, invece, abbiamo come oggetto di satira personaggi altolocati di corte. Solitamente vediamo l’autore della Cantiga rivolgersi in termini poco rispettosi rispetto ad un altro poeta, considerato socialmente inferiore. Esisteva infatti una scala gerarchica dei poeti: nel punto più alto troviamo i trovatori ed a seguire menestrelli e giullari. In alcune Cantigas troviamo invece come oggetto i signori la cui identità non viene esibita e verso i quali ci si lamenta del fatto che sono avari e non ricompensano il giullare in modo adeguato. Esempio di Cantiga de escarnho (solo lettura) di Johan Garcia de Guilhade sulla donna brutta: Approfondimento Cantiga de Amigo: Le Cantigas de Amigo (che prendono nome dal loro interlocutore) sono espressione autoctona della lirica (non essendo esse presenti nella lirica occitanica) e vengono considerata una delle diverse trasposizioni della canzone d’amore posta in bocca di donna, già vista nella lirica mozarabica e ripresa successivamente nei villancicos spagnoli. Il fatto che esse siano scritte in galego-portoghese non comporta che anche gli autori siano galego-portoghesi perché, come già detto, tale lingua fu caratteristica della lirica utilizzata fino al XIV secolo e quindi utilizzata anche da autori spagnoli, primo fra tutti Alfonso X el Sabio con le Cantigas de Santa Maria. Abbiamo la fortuna di avere all’interno del Cancionero de Nacional de Lisboa (prima Colocci- Brancuti) una poetica della lirica galego-portoghese chiamata “Arte de Trovar” (Arte della Poesia) in cui ci viene spiegato cosa sono le Cantigas de Amor, de Escarnho e Maldizer e de Amigo. In particolare, delle Cantigas de Amigo, si dice che sono quelle “que se mueven a razón de ella”, cioè che “fanno parlare lei”. —>mentre nella Cantigas de Amor è l’innamorato che parla (come nelle Muwassaha), nelle Cantigas de Amigo parla della donna. Proprio per questo quest’ultime vengono considerate, secondo l’Arte de Trovar complemento e contrappunto delle Cantigas de Amor. La donna che troviamo nelle Cantigas de Amigo è diversa da quella delle Cantigas de Amor e somiglia di più alla fanciulla delle jarchas. In questo caso non abbiamo definizione di età, abbiamo più caratteristiche fisiche, sempre in una dimensione di decoro (quindi descritta fino al collo) e sappiamo essere una fanciulla innamorata che anche in questo caso si lamenta dell’assenza dell’ amato—> a differenza delle Jarchas però abbiamo Cantigas che celebrano un amore gioioso in cui non c’è l’assenza di contestualizzazione delle Cantigas de Amor. Abbiamo qui un ambiente in cui si riversa molto della simbologia amorosa rendendolo più che un ambiente realistico, metaforico, quasi bucolico, presentando luoghi ameni (novità rispetto alle jarchas caratterizzate per essere liriche urbane, che nascono nelle città). Il fatto che la Cantiga de Amigo si radichi anche in un ambiente le conferisce, rispetto alle jarchas, una dimensione leggermente più narrativa, anche se rimane comunque non Enas verdes hervas, vi anda-las cervas, meu amigo. Enos verdes prados, vi os cervos bravos, meu amigo. Vediamo anche in questa cantiga l’organizzazione delle strofe in coppie. Nelle prime due vediamo una predominanza di termini femminili nella prima e maschili nella seconda —> hervas-cervas/prados-bravos. Il cervo è simbolo di virilità mentre l’acqua, presente nelle strofe successive, è simbolo di fecondità. Nella strofa 1 e 2 si traspone il sentimento di amore in uno scenario naturale carico di sensualità in un incontro desiderato. E con sabor delas lavei mias garcetas, meu amigo. E con sabor d’elos lavei meus cabelos, meu amigo. Anche qui vediamo il contrasto tra termini femminili e maschili nella terza e nella quarta strofa. La fanciulla si lava i capelli per il piacere di aver assistito a questa scena che in un certo senso riproduce l’incontro amoroso che lei desidera venga con il suo amico. Vediamo che nelle strofe 3 e 4 ancora non è presente il leixa-pren che entrerà a partire dalla strofa 5: Des que los lavei, d’ouro los liei, meu amigo. Des que las lavara, d’ouro las liara, meu amigo. Anche qui vediamo il contrasto tra termini femminili maschili ma vengono introdotti due nuovi artifici linguistici: -il polittoto: con il quale si intende la ripetizione di una parola o di un verbo declinata o coniugata in modi diversi. Esso è sostanzialmente la ricorrenza di un vocabolo con funzioni sintattiche diverse —> nella strofa 5 e 6 sono due: - “lavei” nel passato remoto e “lavara” nel congiuntivo imperfetto; -“liei” e “liara” anche loro rispettivamente al passato remoto e congiuntivo imperfetto; La fanciulla dopo essersi lavata i capelli li intreccia con fili d’oro. D’ouro los liei e vos asperei, meu amigo. D’ouro las liara e vos asperara, meu amigo. Anche qui contrasto femminili/ maschili e polittoto. La strofa otto ripete l’argomento: una scena idilliaca in cui i capelli sciolti o raccolti in un intreccio sono, nel folklore, simbolo di verginità in un contesto bucolico carico di rimandi simbolici. Ricordiamo che il motivo di lavarsi capelli è un motivo topico nella lirica galego-portoghese. il cervo invece appare come animale di culto della tradizione celtica mentre l’identificazione tra il cervo e gli amanti si trova anche nella Bibbia e nella cultura araba. Nel testo notiamo un sistema ritmico più complesso rispetto a quello di Codax perché sostanzialmente più ricco. Cantiga IV In questo testo ci troviamo di fronte ad una cantigaDal tono più ironico di tipo dialogato. Il dialogo tra la madre e la fanciulla si struttura maniera molto semplice, diviso in tre battute della fanciulla (rappresentate dalle prime tre strofe) e due della mamma. Notiamo però che la terza strofa è indipendente e centrale, non collegato ad altre, costituendo il cuore la narrazione. Questa volta dunque non ci troviamo di fronte al topico così comune in questa lirica della madre confidente che si limita ad ascoltare in silenzio i lamenti della figlia ma essa interviene con la sua esperienza, dando origine al dialogo dialettico. Il dialogo presenta la passione della figlia innamorata e la potenza della madre che avvisa la giovane dicendole che potrebbe trattarsi di un inganno. Tal vai o meu amigo, con amor que lh’eu dei, come cervo ferido de monteiro del-Rei. Tal vai o meu amigo, madre, con meu amor, come cervo ferido de monteiro maior. E, se el vai ferido, irá morrer al mar; si fará meu amigo, se eu del non pensar. —E guardade-vos, filha, ca ja m’eu atal vi que se fez mui coitado, por guaanhar de min. E guardade-vos filha, ca ja m’eu vi atal que se fez mui coitado, por de min guaanhar. Anche qui c’è la connotazione erotica dell’immagine del cervo che rappresenta l’innamorato. La fanciulla teme che quest’ultimo sia ferito dal guardiacaccia del re e che possa morire in mare. Ovviamente la ferita rappresenta la ferita d’amore ed allude alla dimensione metaforica del sentimento. !Mui coitado —> ripresa del termine coito che rappresentava il sentimento d’amore del poeta. La mamma avvisa la figlia e le racconta che anche lei ha incontrato un uomo che sembrava penare per il suo amore ma realtà voleva solamente approfittarsi della donna. Nonostante la presenza di parallelismi vediamo una struttura meno rigida del testo, priva anche del consueto leixa-pren constatato negli altri testi. I Villancicos Si tratta di un genere risalente al XIV secolo antecedente alla letteratura medievale spagnola. Quando Samuel Sterne rinveni le Jarchas, fu egli stesso a denominarle canciones de amigo, proprio come le canciones de amigo, notando dunque un’affinità fra questa produzione rinvenuta all’altezza della metà del XIX secolo e un’altra produzione lirica in castigliano che sono appunto i Villancicos de amigo. I Villancicos ci sono pervenuti attraverso i canzonieri, ovvero raccolte collettanee che per circa 200 anni furono il supporto più importante della produzione lirica. Ad un certo punto infatti, nasce una moda di corte, legata alla poesia, di produrre e trascrivere poesie di autori diversi o anche anonime all’interno di queste raccolte collettanee. Questi canzonieri costituiscono un lascito enorme sia per i poeti di cui ci danno testimonianza (circa 700) sia per le migliaia di canti che vi sono presenti, considerando che i canzonieri generali sono circa una cinquantina. Essi sono estremamente importanti per i villancicos perché nelle corti quattrocentesche cinquecentesche (in particolare nella corte dei re cattolici) si cominciò ad apprezzare questa poesia lirica di carattere tradizionale su i cui modelli, i poeti coevi, attraverso la tecnica dell’imitazione, componevano i loro testi (succede lo stessa cosa che accade in Al-Andalus, I poeti arabi apprezzarono amente tanto i testi tradizionali che li inserirono nelle loro opere). Succede dunque che nel 500 si cominciò ad apprezzare e a trascrivere i canti popolari ancora viva, applichiamo dunque ad essi il concetto di “periodo di latenza“ per i quali sappiamo che questi canti arrivano fino al XV-XVI secolo (alcune anche nell’800, raccolte dallo stesso seminario Ramon Menendez Y Pidal) Ma sono collocabili in un periodo non specificabile —> Ramón Menéndez y Pidal sostiene che essi si basano sul canto posto in bocca di donna da cui presero origini le jarchas, le cantigas de amigo e i villancicos. Se collochiamo dunque le Jarchas in un periodo intorno al 1100 allora dobbiamo collocare i Villancicos in un’epoca altrettanto remota con una sopravvivenza enorme nel corso dei secoli. !!Ricorda il concetto di “allestire” i cancioneros. Tra i più importanti canzonieri, in questo ambito ricordiamo: Esiste poi un altro tipo di villancico, chiamato villancico strofico. Vediamone un esempio: x x a b b a a x Entra mayo y sale abril: ¡cuán garridico me le vi venir! Entra mayo coronado de rosas y de claveles, dando alfombra y doseles, en que duerma Amor, al prado; a de trébol viene adornado, de retama y toronjil. estribillo mudanza verso de enlace vuelta Tr. it «Entra maggio ed esce aprile / così leggiadro l’ho visto arrivare! // Entra maggio incoronato / di rose e garofani, / dando tappeti e baldacchini, / dove Amore dorma, sul prato; di trifoglio viene ornato/ di ginestra e di melissa». Si suole parlare di villancico strofico quando all’estribillo iniziale (considerato il villancico vero e proprio, di base) si aggiungono delle strofe. Raramente quest’ultime sono di origine popolare e tradizionale e solitamente ciò accade quando troviamo una sola strofa aggiunta. Nella maggior parte dei casi però, il villancico strofico è opera d’autore. Ciò che accade dunque è che i poeti colti prendono i versi popolari e li ampliano e completano con dei propri versi creando opere miste. Abbiamo dunque una struttura simile ma esattamente contraria a quella della muwassaha. —> nei villancicos però i versi popolari presi vengono posti all’inizio. La strofa è costituita da una struttura fissa che si ripete in tutti i villancicos strofici ed è chiamata in spagnolo piè (la strofa aggiunta). Essa si divide in vari elementi: -mudanza: versi di variazione che rappresentano propriamente l’amplificazione del tema dell’estribillo. Essa si caratterizza di rime diverse rispetto ai due versi iniziali. Nell’esempio vediamo una quartina (quarteta in spagnolo) con versi ABBA in rima abbracciata (le strofe di questo tipo quindi con questo numero di versi e questa rima si chiamano redondillas). -verso de enlace: letteralmente un verso di allacciamento che lega la quartina all’elemento della vuelta -vuelta: è un verso che ripete la rima del villancico. Solitamente i villancicos d’autore sono molto regolari mentre quelli anonimi no. Per percepire la trascendenza di questa lirica bisogna capire che essa non fu soltanto molto amata dai poeti del 400/500/600 ma venne apprezzata moltissimo anche in pieno 900 da alcuni dei migliori poeti della generazione del 27 e del 98 che scrissero poesie tradizionali. Per quanto riguarda la generazione del 98 essa fu caratterizzata proprio da una fase chiamata neotradicional in cui venne recuperata la poetica di queste strofette caratterizzate da una brevità testuale, un grande carattere evocativo, ed un ripetitività testuale per costruire i loro villancicos. In particolare si dedicarono a questa attività Rafael Alberti e García Lorca. Rafael Alberti: Si me fuera, amante mía, si me fuera yo, si me fuera y no volviera, amante mía, yo, el aire me traería, amante mía, a ti. Commenti villancicos pp. 42-44 manuale I Llaman a la puerta y espero yo al mi amor. Ay, que todas las aldabadas me dan en el corazón! Bussano alla porta ed io aspetto il mio amore Ogni colpo risuona nel mio cuore! Vediamo una narrazione molto esile, limitata a creare un’aspettativa che non scioglie: la fanciulla sente bussare alla porta mentre aspetta l’amore ed è talmente emozionata che quei colpi le risuonano nel cuore. È proprio la brevità del testo e la descrizione di una situazione che si potrebbe definire quasi elementare che conferisce a queste opere una grazia che sarà apprezzata anche dai poeti successivi invogliati ad esprimersi tramite essa. Vediamo qui un villancico de amigo costituito da una quarteta in cui il primo verso è costituito da sei sillabe e gli altri tre da otto (il fatto che il primo verso sia costituito da sei sillabe ci indica il suo carattere popolare tradizionale). Lo schema rimico è ABCB, abbiamo dunque il primo e il terzo verso libero ed il secondo e il quarto che rimano tra loro per assonanza. II Si tratta di un villancico molto particolare ed estremamente amato all’interno della cultura spagnola per il suo carattere misterioso. En Ávila, mis ojos, dentro en Ávila. En Ávila del Río mataron a mi amigo, dentro en Ávila. Dal punto di vista formale ci troviamo di fronte ad un villancico strofico con un pié costituito da due versi a rima baciata e l’ultimo che rappresenta il verso de vuelta. In realtà non ci sappiamo se ci troviamo davanti ad frammento iniziale di un’altra poesia. C’è un ellissi narrativa che rende il tutto più misterioso. Vediamo infatti il lamento di una donna che dice di aver visto il suo amico essere ucciso davanti suoi occhi ad avila ma non abbiamo altre informazioni. Abbiamo dunque un’attesa narrativa molto alta in cui però non ci viene raccontato quasi nulla. In quest’opera troviamo anche una dimensione metaforica che normalmente nei villancicos è assente: gli occhi rappresentano l’amore stesso della donna che è ad Avila. !Questo villancico fu riscritto da Federico García Lorca. III Aquel pastorcico, madre, que no viene, algo tiene en el campo que le duele. Ci troviamo di fronte al classico villancico de amigo in cui la fanciulla soffre e fa delle ipotesi ma non abbiamo risposte. Ci sono diverse versioni del testo in cui, invece di duele abbiamo entretiene —> in questo caso vediamo la fanciulla temere che il pastorello non venga poiché interessato ad un’altra. Abbiamo anche delle riscritture parodiche del testo, tra le più famose una in cui al posto del pastorello c’è il Manzanar, fiume che attraversa Madrid che fino a qualche decennio fa esso era spesso secco. Esso infatti recita: Donde está el manzanar que no viene, algo tiene en agosto que le duele. Dal punto di vista nella forma metrica vediamo nel testo un dettaglio molto curioso ripreso da altri autori, ovvero il verso de pié quebrado: questo significa alternare versi di otto sillabe a versi di quattro sillabe. Anche qui lo schema rimico è ABCB. Come già detto si tratta di un testo estremamente apprezzato nella cultura spagnola ed è per questo che ne troviamo tante riscritture e diverse versioni. IV Aquel si viene o no viene Aquel si sale o no sale No hay que mayor dolor De cuantos el mondo tiene Si tratta di un villancico molto particolare poiché tematicamente appartenente al genere della definizione d’amore: ci sono tutta una serie di testi di epoca medievale ma anche ripresi nel 900 (e in particolare di Lorca) in cui il poeta ci dà una serie di caratteristiche dell’amore. In questo senso possiamo anche dire che l’epica ha un carattere a problematico, acritico e manicheo poiché divide il mondo in una dimensione di buoni e di cattivi. Questo manicheismo però non si manifesta soltanto sul piano dei valori ma anche sul piano delle qualità straordinarie che vengono attribuite agli eroi. L’eroe è un elemento fortemente integrato all’interno del gruppo ed è la sua espressione più alta, rappresentandone quasi una metafora (da qui discende il fatto che in Italia non sia nata un’epica, in essa nasce l’identità di una comunità molto tardi). Rispetto al carattere di oggettività e realismo è necessario aggiungere che nella presentazione della fatti storici c’è una certa forzatura. La realtà viene percepita è descritta in termini eroici ed idealistici (l’eroe sul piano fisico ad esempio è sempre dotato di una grande forza, spinge tutti al bene ecc). Come la lirica delle origini, anche la poesia eroica è affidata al canto recitativo, accompagnato da strumenti a corda. È difficile, parlando di epoche così antiche, ricostruire come avveniva la trasmissione di questi poemi, tuttavia è stato possibile avere qualche informazione dallo studio e dall’osservazione di popoli che ancora oggi mantengono questo tipo di poesia: popoli dell’ex- jugoslavia ed alcune tribù africane. Lo studio di queste popolazioni ci ha dato la possibilità di capire meglio qual è il contesto ed il repertorio della trasmissione dei canti. Essa era a carico di una figura principale chiamata in epoca classica aedo e diventata in epoca medievale juglar, giullare o menestrello. Si tende però ad usare la parola più neutra interprete per indicare chi interpreta i poemi che non coincide con l’autore). Tutta la produzione di carattere anonimo affidata ad una diffusione orale tramite degli interpreti o juglares in spagnolo riceve la definizione di mester de juglaria. È stato scoperto che normalmente i repertori dei giullari sono costituiti fino a 70 cantari che, per essere recitati a memoria, vengono imparati attraverso una serie di temi affiancati ad una serie di formule che si ripetono (infatti si chiama stile formulare) aiutando il giullare, qualora non le ricordasse, a costruire delle rime a fine verso. L’apprendistato di un interprete si fa seguendo il maestro, una volta che il giovane acquista disinvoltura può iniziare ad interpretare i canti. Quando si parla di poemi epici ed eroici, l’età eroica non corrisponde alle stesse epoche per i diversi popoli. Da questo ne discendono altri aspetti: ad esempio nel poema epico più conosciuto, la chanson de Roland l’età eroica cantata è l’epoca di Carlo Magno, in particolare la famosa battaglia di Roncisvalle del 578. Essa dunque racconta una storia che considera fondativa per la nazione e che risale all’VIII secolo nonostante essa sia scritta nell’XI secolo. Nella Castiglia (rappresentava la Spagna del Medioevo) Individuiamo due epoca e considerate eroiche e dunque cantate nei diversi poemi: una relativa all’inizio della Reconquista (Il cantar de mio Cid) e un’altra che narra un altro nucleo eroico, ovvero l’indipendenza del regno di Castiglia, con il Conte Fernan Gonzalez che riesce ad imporre l’indipendenza castigliana trasformando la Castiglia in una contea ereditaria che va dal Mar del Cantabrico fino alle rive del Duero. Altro chiarimento è da fare riguardo i fatti storici narrati. La materia Eroica infatti subisce una serie di trasformazioni che alterano il fatto storico. Si possono individuare tre momenti distinti: -fatto storico: così esistente avvenuto -elaborazione della leggenda epica: sul fatto storico e che vive nei secoli all’interno di una serie di cantari. -sua elaborazione come cantar de gesta. Una cosa su cui insistono molto gli studiosi è il fatto che una leggenda epica approdi a una relazione scritta (quindi diventi una cantar de gesta) deve essere considerato come un fortuito e sfortunato incidente che poteva anche non succedere, perdendo i canti tramandati oralmente. Questo ci porta a dire che alcune leggende epiche ebbero certamente più forza di altre. Una delle leggende che Spagna ebbe molta forza fu quella legata alla figura del CID. L’unico poema, riguardo questo tema, che ci è arrivato quasi completo è il Cantar de mio Cid, tuttavia abbiamo altre testimonianze di poemi del ciclo dedicato al CID: -Cantar de Sancho II (ricostruito a partire dalla sua “pro significazione“ nella Cronica najarense, fine sec XII): abbiamo soltanto alcuni frammenti e narra come Sancho II di Castiglia si ribella contro suo fratello García Re di Galizia, contro Alfonso di Leon e Urraca signora di Zamora e muore nell’assedio della città di Zamora. Esso costituisce una sorta di premessa al cantar del mio Cid. -Las mocedades de Rodrigo, tardo e anonimo, 1360 ca. Se ne conservano 1164 versi, l’unico codice che trasmette l’opera è una manoscritto del 1400 conservato nella Biblioteca Nazionale di Parigi. Narra le origini e la giovinezza dell’eroe della conquista castigliana, il vero del nome del CID è infatti Rodrigo Díaz de Livar. Altra leggenda che appunto ebbe molta forza e si impose è quella legata al primo conte di Castiglia. L’unico poema che ci è giunto di questo ciclo è il Poema de Fernán Gónzales del XV secolo che non appartiene più al mester de juglaria ma al mester de clerecia. Un terzo ciclo è costituito da un ciclo di derivazione francese di cui si ha traccia di due poemi entrambi ambientati e che traggono spunto dalla battaglia di Roncisvalle dal quale prendono il nome —> roncisvalles. Il primo è il roncisvalle pervenuto da Menéndez Y Pidal, un frammento di 100 versi di forse 5.500 versi iniziali in cui si narra la morte di Orlando e la sconfitta dei Mori. Il secondo, il Cantar del Bernardo del Carpio prende spunto da questa battaglia ma la vedo da un punto di vista degli spagnoli, con questa figura mitica di Bernardo del carpio al quale una certa narrazione nazionale dell’epica castigliana attribuisce la vittoria sui francesi. Egli è dunque un personaggio leggendario del medioevo studiano che simboleggia la risposta spagnola contro i francesi a Roncisvalle. Quando si parla di questi poemi giunti in forma frammentaria (come il Poema de Fran González o il Roncisvalle di cui abbiamo soltanto 100 versi) bisogna dire che I frammenti di questi versi sono stati trovati all’interno di cronache storiche. Si da un Spagna questo caso fortunatissimo per cui, se è vero che si sia conservato in forma quasi completa un solo poema epico, è stato tuttavia possibile immaginare la presenza di molti altri poemi epici poiché coloro che compilavano le cronache utilizzavano i poemi epici contemporanei come delle fonti. Essi riportavano interi passaggi in versi (gli studiosi se ne accorsero perché avvertirono una certa musicalità nella lettura delle cronache), ogni Crónaca, ovviamente, recepisce uno stadio del cantar, per questo a volte ci si trova con versioni contraddittorie. Cantares de gestas ricostruiti a partire dalle cronache Grazie a un paziente lavoro di indagine e di ricostruzione, a partire dalle cronache storiche gli studiosi hanno potuto ricostruire parzialmente poemi storici quali: 1)Il Cantar de la hija del don Julián y de la pérdida de España. 2) Il Conde Fernán Gonzáles 3) La Condesa traidora y el conde Sancho García 4) Primera gesta de los infantes de Lara o Salas Come nasce e su quali modelli si costruisce la lirica medievale in Spagna? In merito a questa domanda entrano in gioco tre tesi: • Tesi francese (Gaston de Paris) • Tesi gota (Menéndez Pidal) • Tesi araba (Julián Ribera) Prima di entrare nel merito di queste tesi bisogna specificare il fatto che in Castiglia nasce una poesia eroica mentre in Galizia una poesia lirica è legato ai contesti di questi due territori che vedono la Galizia più lontana dalle frontiere ed imponevano la guerra con Al- Andalua e vedevano invece la Castiglia, collocata nel cuore la Spagna, impegnata continuamente da guerra di frontiera. Tesi gota: Si tratta della tesi più articolata e quella con un maggior fondamento. Quando parliamo di tesi gotha ci riferiamo, ovviamente, ai Visigoti e dunque ai popoli germanici: essi entrarono in Spagna nel V secolo con le invasioni barbariche (che interessarono tutta l’Europa) e rimasero fino all’VIII secolo quando poi entrano gli arabi. Menéndez Y Pidal ritiene dunque che l’epica in Spagna sia di origine germanica. Sappiamo certamente che popoli germanici avevano cantari molto antichi (basti pensare ai famosi nibelungen) e ,secondo Menéndez Y Pidal, questi stessi popoli (in particolare i Visigoti) diffusero i loro canti Spagna. Questa teoria ha anche una attestazione degli storici di quegli anni ed è piuttosto ovvio immaginarlo: come i Goti acclimatarono nella penisola i loro usi e costumi, è del tutto evidente immaginare che anche i loro canti si diffondessero. Menéndez Y Pidal avvolora la sua posizione riscontrando coincidenze che egli definisce “loro occasionali“ fra l’epica germanica e quella spagnola, in esse ci sono alcuni motivi simili (intesi come argomenti) che si ripetono: -Il motivo della consultazione del re con i suoi vassalli prima di prendere una decisione presenti nell’epica spagnola è presente anche nell’epica germanica, cosa che ci porta a pensare ad una affiliazione -È presente poi nelle due epoche il duello rappresentato spesso tra due eroi per dirimere un conflitto -rientrerebbero poi, nelle usanze gote, episodi come quelli del CID mandato in esilio insieme ai suoi vassalli che condividono con lui la sua sorte. Si tratta dunque del motivo dell’eroe mandato in esilio seguito dalla sua mesnada appartenente anche alla cultura germanica. Nei poemi epici la potenza della monarchia non veniva mai messa in discussione, ricordiamo un momento nel CID in cui l’eroe si prostra ai piedi del signore in totale sottomissione e morde l’erba nel terzo cantare quando egli, dopo aver riacquistato una La figura del re Don Sancho II è una figura chiave per la storia del CID. Questo Romance costituisce un antefatto del Poema del mio Cid. Dopo la morte di Ferdinando I nel 1065 (1035-1038), il suo regno di Castiglia e León fu diviso secondo la volontà tra i tre figli: 1. La Castiglia toccò a Sancho II 2. Il León ad Alfonso VI (secondo figlio) 3. La Galizia a García (terzo figlio) 4. La signoria della città di Zamora a Urraca (prima figlia) 5. La città di Toro a Elvira. (seconda figlia) Nel Cantar di Sancho II si narrano i tentativi di sopraffazione di Sancho rispetto ai suoi fratelli. Sancho II muore nell’assedio di Zamora Nella storia il Cid era stato cresciuto a corte insieme ai figli di Ferdinando I ed il poema racconta la storia di quando egli fu stato mandato ad assediare la città di Zamora per toglierla alla sorella Urraca. S’insinua poi anche una storia d’amore ed è per questo che questi canti si chiamano epico lirici. Vediamo uno di questi romances che ebbero moltissima fortuna anche in seguito e che sono parte della cultura spagnola (basti pensare ai romanceros di Lorca) Il romance ha una struttura metrica costituita da una serie astrofica di ottonari assonanzati nei versi pari. Vediamo il poema trascritto in un’altra convenzione grafica: Llegado es el rey don Sancho sobre Zamora, esa villa; muchas gentes trae consigo, que haberla mucho quería. Caballero en un caballo, y el Cid en su compañía, andábala al rededor, y el Rey así al Cid decía: Cid, a vos crió mi padre, y mucho bien os hacía; hizos mayor de su casa y caballero en Coimbra viendo llegar la su hora.... Invece di ottosillabi abbiamo versi di sedici sillabe con una forte cesura al centro. Il romance circolava anche in questo modo, ad esempio nei piegos sueltos (foglietti volanti su cui circolavano i poemi) in cui, per risparmiare spazio gli ottosillabi si scrivevano uno vicino all’altro con una forte cesura al centro. A questo punto accade che i romances non possono più essere definiti ottosillabi assonanzati in versi pari ma diventano una sequenza di versi di sedici sillabe con la stessa rima. Proprio per questo si avanzarono le due ipotesi sulla nascita dei romances e sui poemi epici. El Cantar de mio Cid: La storia editoriale: Innanzitutto bisogna dire che l’opera fu pubblicata a Stampa per la prima volta nel 1779, dallo studioso ed editore Tomás Antonio Sánchez sotto il titolo di “Poema del Cid”. I titoli si alternano tra “Poema del mio Cid” e “Cantar de mio CID”, quest’ultima versione prevale in Spagna ed è più esatto dal punto di vista della fruizione del poema il quale, in epoca medievale, si percepiva cantato. Tomás Antonio Sánchez aveva rinvenuto il poema in un codice** mutilo (incompleto, mancante di tre folei di cui probabilmente era quello iniziale) ** ricordiamoci che per “codice“ si intende un manoscritto anteriore alla stampa Tale codice era firmato da un certo “Per Abat” per il quale abat può essere sia il cognome che la mansione. Il manoscritto purtroppo appare estremamente deteriorato ma grazie all’edizione paleo grafica elaborata da Menéndez Pidal, a parte i tre fogli iniziali, l’opera ci appare sostanzialmente completa e fruibile nella sua interezza. Di cosa parla il componimento? L’opera racconta la storia di Rodrigo Díaz de Vivar, rinominato “el Cid Campeador” (soprannome legato al suo ruolo nella Reconquista) e che visse tra il 1043-1099. Rodrigo Díaz de Vivar viene considerato in termini tecnici un infanzón (termine che non ha traduzione italiana). Per comprendere bene il significato di questa parola bisogna sapere che la nobiltà, ai tempi, si divida in tre classi: -i ricoshombres: l’aristocrazia, l’alta nobilità; -i caballeros: nobiltà media, letteralmente nobiltà a cavallo (Indicatore non proprio chiaro poiché anche gli infanzon possedevano un cavallo ma si Trovano comunque posizione inferiore) -gli infanzón: bassa nobiltà. L’infanzón era vincolato da legami di vassallaggio al re e alla nobiltà, ma essendo loro stessi nobili godevano di alcuni privilegi (non pagavano le tasse). Per i servigi resi ricevevano beni e proprietà. Il codice si forma su alcune caratteristiche: è in pergamena, è costituito da 74 folii (di cui tre mancanti: il primo, il folii 47 e 48 e 69 e 70) Da un’analisi del codice di tipo oggettivo e paleografiche (l’analisi della pergamena che viene utilizzata, il tipo di scrittura ecc) si è giunti a dire che esso appartiene probabilmente alla prima metà del secolo XIV (1320-1330 circa) —> necessario non confondere la data del codice con quella della prima stesura dell’opera che esso riporta. Forse fu creato, elaborato o incaricato dal Monastero di San Pedro de Cardeña, a partire da un esemplare pre-esistente. Questo monastero, dove si disse che furono conservati i resti dello stesso Cid e della sposa Jimena, svolgerà un ruolo all’interno della stessa vicenda del CID. Per quanto riguarda la datazione di stesura dell’opera abbiamo alcune informazioni nei versi vv. 3731-3733: Quién escribió este libro dél Dios Paraíso. Per Abbat le escribió en el mes de mayo. En era de mill CC XLV Si tratta dei versi finali del cantar chiamati tecnicamente explicit (il contrario di incipit, il finale) che indica appunto le ultime linee dell’opera. Questi versi rappresentano dunque il primo explicit in cui abbiamo informazioni sull’opera riguardo l’autore e l’anno. Traduzione: A chi ha scritto questo libro dia (da dél—>dé a el)Dio il paradiso Per Abbat lo scrisse nel mese di maggio. Nell’era del 1245. In realtà le cose non stanno così. Una prima questione la apre il verbo escribir Che, in epoca medievale, non significava “comporre“ l’opera, azione indicata dal verbo fazer. Con la dicitura escribir un libro Si intendevo a copiarlo. Dai versi finali dunque noi non ricaviamo il nome dell’autore ma quello di un copista, Per Abbat appunto, in cui Abbat può indicare sia un chierico che il cognome di un giullare. Anche per quanto riguarda la data si ha un’incertezza. Nei versi infatti ci viene detto che l’opera è stata scritta nell’era del 1245. In Spagna si ebbe un conteggio diverso degli anni da quando Augusto nel 38 a.C instaurò l’era ispanica, dopo aver pacificato la provincia romana. Fino al XIV secolo dunque si utilizzò questa datazione. Leggendo dunque “era 1245” si intende l’anno 1207 (1245 meno 38). Mentre alcuni studiosi accettano questa teoria, altri no. Quest’ultimi contestano il 1245 come data poiché notano nel manoscritto uno spazio, un’abrasione tra X e C della dicitura CC XLV. Effettivamente è piuttosto anomale scrivere dei numeri romani con un spazio che li divide ed essi ritengono che il realtà ci fosse scritto CCCXVL, 1345. Se così fosse ci troveremmo a dire che la copia di Per Abbat è del 1307 e che quindi, quella del 1320-30 è di poco successiva. Successivamente, da mano diversa; viene aggiunto al Cantar de mio Cid un secondo explicit (chiamato anche colophon) appartenente ad un altro giullare e molto importante poiché ci racconta ancora qualcosa su come venivano trasmessi questi testi: E el romanz es leído, datnos del vino; si non tenedes dineros, echad allá unos peños, que bien nos lo darán sobr’ellos In questi versi si segnala l’abitudine del giullare chiedere una ricompensa per il lavoro svolto. Ma qual è la versa data di composizione del poema? A tal proposito si hanno diverse ipotesi: -in passato vigeva l’ipotesi che il poema del Cid fosse stato redatto mentre egli stesso era in vita intorno al 1083. Ad oggi questa ipotesi viene quasi completamente scartata. [CRONISTA] De los sus ojos tan fuerte mientre llorando, Tornaba la cabeza & estabalos catando; Vio puertas abiertas & uzos sin cañados, Alcandaras vazias sin pieles & sin mantos Y sin falcones y sin adtores mudados. Suspiro mio Çid, ca mucho habia grandes cuidados, Fablo mio Çid bien y tan mesurado: [CID] Grado a Ti, Señor Padre, que estas en alto. ¡Esto me han vuelto mios enemigos malos! L’inizio del poema,forse fortuito (forse inizia così perché si è perso un pezzo), è estremamente efficace. Si tratta di un inizio in medias res il quale gli conferisce un’enfasi accentuata. De los sus ojos tan fuerte mientre llorando —> l’immagine del pianto dell’eroe, nella cultura castigliana, è simbolo di virilità; Tornaba la cabeza & estabalos catando —> da questo verso (da “lì”) capiamo che per forza doveva esserci qualcosa prima di questi versi, “girava la testa e lì stava guardando” Vediamo il Cid appena uscito da Livar e guarda i suoi palazzi, le proprietà piangendo mentre le abbandona. Vio puertas abiertas & uzos sin cañados, Alcandaras vazias sin pieles & sin mantos —> ci viene spiegato cosa vede il Cid una volta che si gira attraverso una costruzione in parallelismo (quando una struttura sintattica si ripete) —> “vio” viene reso esplicito una volta sola Alcandaras vazias sin pieles & sin mantos Y sin falcones y sin adtores mudados. —> struttura parallelistica con una reiterazione del “sin” proprio ad indicare questa privazione, dettaglio che indica il fatto che l’autore conosce i meccanismi di un linguaggio retoricamente efficace. Fino ad ora dunque vediamo l’immagine di un Cid che piange, che assiste alla perdita e rappresenta la figura emblematica dell’esule e che si sente deprivato di ogni cosa. Suspiro mio Çid, ca mucho habia grandes cuidados, Fablo mio Çid bien y tan mesurado: —> attraverso il “suspiro” si passa, secondo gli studiosi, dalla rassegnazione alla capacità di reagire In questo passaggio vediamo la struttura retorica della gradazione ascendente o climax (volta ad aumentare la suspance) Il termine Çid viene da Sahiddi, che in arabo vuol dire “signore” —> curioso come l’eroe della Reconquista riceva come appellativo un nome di origine araba. Bisogna inoltre notare come il possessivo “mio” diventa un epiteto di tipo affettivo volto ad indicare che il giullare (colui che sta cantando e presentando questa storia al popolo) è dalla parte del Cid, si allea con lui e dunque sposa la sua ideologia. Suspiro mio Çid, Fablo mio Çid —> si tratta anche qui di un parallelismo (ripetizione all’interno dei versi) molto utilizzato poiché permette di memorizzare più facilmente i versi. In questi versi ci viene detto in che modo parla il Çid: bene e misurato. Si tratta di una virtù che qualifica l’eroe: egli non è iracondo o violento ma misurato. Si dice che la mia riassuma le quattro virtù cardinali (prudenza, giustizia, fortezza e temperanza) che la morale cristiana ricevette dalla morale stoica. Il Cid è sempre una figura molto equilibrata che mantiene quasi sempre la compostezza. Anche quando le figlie sono oltraggiate, egli non ha una reazione vendicativa o violenta ma cercherà giustizia, ottenendola. La misura verrà impiegata anche verso i musulmani che scopriranno il vantaggio di trovarsi sotto la sua giurisdizione. Tale caratteristica è dunque fondamentale nella prima lassa per presentare l’eroe. Grado a Ti, Señor Padre, que estas en alto. ¡Esto me han vuelto mios enemigos malos! —> si tratta di due versi particolari in cui sembra l’uno sostenere il contrario dell’altro. Nel primo c’è una forma di ringraziamento (molto particolare ringraziare in un esilio) mentre nel secondo verso il Cid condanna i suoi nemici. Il primo verso è Stato interpretato in due visioni antitetiche: -In una prima visione, essendo il Cid l’eroe della riconquista, attraverso queste parole si vuole dimostrare la sua religiosità profonda che non viene messa in discussione neanche degli eventi che succedono. -in un’altra forma si vogliono leggere Queste parole con un tono sprezzante ed ironico che però è poco confacente ai comportamenti successivi dell’eroe. Ad ogni modo, in questi versi, vediamo il protagonista accettare il suo destino. Questa strategia di attribuire ai suoi nemici e non al re la sua sventura è un modo per preservare la figura reale —> Si presuppone che sia un poema scritto da due mani in cui un primo giullare aveva un carattere più anti-aristocratico mentre un secondo era molto più dentro al sistema, attribuendogli la riconciliazione tra il re e l’eroe (non dipenderebbe dunque da un’evoluzione della narrazione) In ogni caso, questo ultimo verso della prima lassa, da un lato scagiona il re dalla responsabilità per aver cacciato il suo vassallo e dall’altro testimonia un conflitto sociale, soprattutto all’epoca di Alfonso VII, fra l’alta nobiltà e la piccola nobiltà, dovuto principalmente al fatto che l’alta nobiltà non voleva cedere il passo a questi piccoli nobili i quali rafforzavano la loro posizione per i meriti (la stesso Cid passa da essere un infanzón ad essere signore di Valencia, fino ad imparentarsi con il re). Riflessioni di carattere metrico: Cosa ha autorizzato i critici a considerare questi nove versi in una lassa giacché il romanzo si presenta in una serie indistinta di versi? La risposta si trova nella definizione stessa di “lassa“: il corrispondente in spagnolo è tirada, in metrica si tratta di una sequenza di versi in arte mayor (superiore alle 11 sillabe) monorimi assonanzati. Quando cambia la rima cambia la lassa —> la lassa prevede anche un cambio tematico che corrisponde al cambio di rima. Le l’asse sono anche di misure diverse, la più breve nel poema di tre versi mentre la più lunga di 180. Esse terminano quando finisce un tema. I versi tendono alle 16 sillabe dei romance —> sono versi di otto sillabe uniti con un emistichio Nel poema però si ha una forte irregolarità dei versi con combinazioni molto varie: 7+7,7+8,6+9 ecc. proprio perché nato come testo di diffusione orale con tutte le caratteristiche della giulleria (si tratta anche di una delle caratteristiche che distingue dalle poema dalla chanson de Roland) Nella prima lassa dunque ci viene presentato il profilo psicologico dell’eroe, visto come un esule. Ne viene fuori che la caratteristica principale del suo carattere è la misura che rappresenta un carattere temperato ed equilibrato, tanto da arrivare ad accettare con rassegnazione la sua sorte. Vediamo questa caratteristica anche nel terzo cantare: quando il Cid scopre dell’ultra Gere le figlie infatti non è mosso da sentimenti di ira o di vendetta personale ma va dal suo signore per chiedere giustizia. Si tratta di una caratteristica molto peculiare che non vediamo in altri eroi epici. La misura è sempre l’asse psicologico che guida le azioni del Cid, anche verso i nemici musulmani, ai quali si dimostrerà scaltro ma anche comprensivo, al punto che alcune popolazioni islamiche si assoggetteranno a lui spontaneamente, accettando il suo predominio. Un’altra caratteristica che distingue il Cid dagli altri eroi epici è l’attenzione per la sfera familiare: nella Chanson de Roland ad esempio, non c’è spazio per l’amore mentre, in questo caso, l’eroe dimostra una costante preoccupazione per la moglie e le figlie diventando esemplare sia sul campo di battaglia che nella sfera privata. Questa caratteristica lo rende un personaggio più umano e realistico anche nelle imprese che compie. Il realismo è certamente una caratteristica principale del poema sia nella rappresentazione degli eventi storici, sia nella geografia (si è perfettamente in grado di disegnare il percorso del Cid). Nel Cid non troviamo un elemento fantastico, non succede nulla che non possa essere ricondotto ad un plausibilità delle cose: L’unico evento che può essere ricondotto al sovrannaturale è il sogno dell’arcangelo Gabriele che appare all’eroe prima che esso parta per le guerre la riconquista. Si tratta comunque di una figura religiosa (stiamo parlando di un poema in cui si esalta la cristianità) al limite del realismo. Il carattere realistica del Cid si spiega con la vicinanza dell’anno in cui il poema viene redatto e gli eventi raccontati, essi sono ancora molto molto presenti alla memoria di colui che stava scrivendo. Lettura e commento seconda lassa: La traduzione più spontanea sarebbe “dio che buon vassallo se avesse un buon signore” riferendosi ad Alfonso VI. Tuttavia, leggere tale frase in questo modo sarebbe stato molto compromettente per il giullare mettendo in discussione la figura reale, per questo esiste un’altra traduzione, ovvero “dio che buon vassallo se trovasse un buon signore” —> Alfonso VI lo ha cacciato, magari trovasse un altro signore che lo protegga. Esiste poi una terza traduzione che direbbe “dio che buon vassallo se avesse o signore dei beni” —> quando si va in esilio viene impedito di portarsi i propri beni. Rimane il fatto che tutti i cittadini di Burgos, in un coro unanime, pronunciano questa frase che lo accompagnerà per tutto il poema, esaltandone le qualità. In questa frase, la critica ne ha voluto vedere un aspetto democratico del poema: il poeta riconosce ad ognuno di potersi distinguere attraverso le proprie imprese. Si riconosce dunque un forte taglio democratico e anti-aristocratico (si nota anche nel terzo cantare quando gli infanti di Carrion , superiori al Cid nella scala sociale, si macchiano nel sopraffare le ire del Cid per poi essere puniti) nel riscatto della piccola nobiltà di chi ottiene i privilegi attraverso i meriti, rispetto ad una nobiltà di sangue che non ha bisogno di dimostrare il proprio valore. Molto particolari in questa lassa sono le rime. In esse, ci troviamo nel contesto della e-paragogica, basata sulla figura della paragoge che si ha quando per motivi stilistici si aggiunge una vocal). In questo caso non si ha un’esigenza stilistica ma metrica. Si tratta di una risorsa che ha il giullare per creare delle rima laddove non ci sarebbero mentre recita. Nel manoscritto troviamo alcune e-paragogiche ma Menéndez Pidal, quando trovò in questa lassa, delle parole non rimanti ritenne che dovessero esserci e le aggiunse lui stesso. La e-paragogica si distingue in due possibilità: la e etimologica ed una e anti-etimologica. La prima si tratta di una e che si aggiunge e che era già presente nella forma latina (es. dolor —> dolorem). Le e aggiunte nella lassa sono etimologiche, tranne quella di sone che è anti-etimologica. (Nell’antologia i versi sono indicati sbagliati) Lettura e commento quarta lassa: In essa ci viene raccontato quali sono le prescrizioni decise dal re verso coloro che avessero aiutato il Cid nel suo cammino verso l’esilio. Ci troviamo ancora a Burgos e ci viene raccontato che cosa avessero fatto i cittadini se non fosse arrivato un editto reale. Combidarle ien —> è un condizionale di tipo analitico tipico della lingua medievale. Oggi si direbbe “le combiderien”, ma testimonia ancora il passaggio non avvenuto verso un condizionale sintetico. Combidarle ien de grado, mas ninguno non osava, el rey don Alfonso tanto avié la grand saña. —> con saña s’intende le ire del Re ma in realtà ci si sta riferendo all’ira o indignatio regis facente parte dell’istituto giuridico medievale che la inquadrava in una serie clausole. Quando il re era irato o indignato verso un suo vassallo ne conseguivano una serie di pene. Ne deduciamo che Alfonso VI si conforta verso un suo vassallo con grande severità. Secondo l’ira o indignatio regis si potevano concedere al vassallo dai 9 ai 12 giorni per lasciare la città, al Cid gliene vennero lasciati solo 9 e non gli vennero neanche concesse le vettovaglie. Antes de la noche en Burgos d’él entró su carta con grand recabdo e fuertemientre sellada —> i cittadini temono il re perché la notte prima a Burgos arrivò un editto reale in cui si avvertivano i cittadini di non aiutare il Cid: non dovevano dargli riparo, colui che gliele avesse dato doveva essere certo che avrebbe perso tutto i suoi beni e gli occhi, il corpo e l’anima. los ojos de la cara —> un’altra frase fisica, essa corrispondeva alla effosio oculorum, era una minaccia di accecamento ai trasgressori di una direttiva. Si trattava di una pena presente nel sistema giuridico medievale. Perdere l’anima faceva riferimento alla disposizione di execración ovvero di non poter essere sepolti nei luoghi sacri. In questo caso dunque, l’ira del re verso il Cid e chiunque lo aiuto è applicata in modo esagerato. Grande duelo avién las yentes christianas: ascóndense de Mio Çid, ca no l’osan dezir nada. El Campeador adeliñó a su posada; así commo legó a la puorta, fallola bien çerrada, por miedo del rey Alfonso que assí lo avién parado, que si non la quebrantás por fuerça, que non gela abriese nada. El Campeador adeliñó a su posada; así commo legó a la puorta, fallola bien çerrada, —> capiamo che il Cid ha delle proprietà anche a Burgos Puorta è una forma arcaica Los de Mio Çid a altas vozes llaman, los de dentro non les querién tornar palabra. Aguijó Mio Çid, a la puerta se llegava, sacó el pie del estribera, una ferida-l dava; non se abre la puerta, ca bien era çerrada —> i cittadini avevano serrato la porta per paura del re, il Cid tira un calcio ma non si apre, in questo caso esce un po’ fuori dalla caratteristica della misura Una niña de nuef años a ojo se parava: «¡Ya Campeador, en buen ora çinxiestes espada! El rey lo ha vedado: anoch d’él entró su carta con grant recabdo e fuerte mientre sellada. Non vos osariemos abrir nin coger por nada; si non, perderiemos los averes e las casas e demás los ojos de las caras. Çid, en el nuestro mal vós non ganades nada, mas el Criador vos vala con todas sus vertudes sanctas». —> il poeta ancora una volta mostra la sua abilità e ci presenta la figura di una bimba di nove anni, l’unica che ha il coraggio di parlare con il Cid riportandogli le parole dell’editto. compare la seconda parola “Campeador” derivante dal latino “campi-doctor”, dottore nei campi, colui che si distingue sul campo di battaglia, invincibile. Il fatto che le parole vengano ripetute dalla bambina e che dal verso 51, torna a casa sua, oltre alla bellezza di questo passaggio vede una bambina di nove anni che si piazza davanti al Cid campeador per dirgli la verità dando un’efficacia con la quale si rende questo momento. Dopo questo passaggio il Cid capisce, a malincuore si placa, va nella cattedrale Santa Maria di Burgos, cominciata ad essere costruita da Alfonso VI nel 1065 e dopo aver pregato lascia la città di Burgos e pianta l’accampamento su un affluente del fiume Duero, l’Arlanzon. La lassa si chiude con il Cid fuori dalla città come un fuggiasco senza nulla da mangiare e senza un soldo. Si tratta del momento più esistenzialmente basso del Cid, ma da qui in poi inizierà il suo riscatto. Riflessioni riguardo l’autore: Le informazioni riguardo l’autore del poema sono molto scarse e negli anni sono diverse le ipotesi presentate dagli studiosi, lo stesso Menéndez Pidal presentò diverse idee. In particolare, ad un certo punto si è pensato che non avessimo a che fare con un autore solo ma con due. Tale ipotesi era sostanzialmente legata a due elementi: -uno di carattere linguistico: nel poema ci sono oscillazioni di parole, alcune volte compaiono in una forma più antica, altre in una più moderna (es. puorta/puerta). Queste oscillazioni potrebbero dipendere dal fatto che nessuna delle due forme si era ancora affermata come potrebbero fare riferimento ad autori diversi: uno più antico ed uno più moderno. L’ipotesi sul doppio autore è anche un’ipotesi linguistica in cui si affermava inoltre che se il primo autore proveniva da una zona della Spagna individuabile nella Castiglia, ed in particolare vicino la zona di Burgos, il secondo autore, per certe inflessioni marcatamente aragonesi che ad un certo punto cominciano a prevalere, fosse appunto un giullare aragonese. -una di carattere ideologico: nella lettura delle lasse, nel verso 22 Dios que buen vasallo si oviesse buen señor abbiamo due chiavi di lettura: in una di esse si contesta l’autorità monarchica. Alcuni studiosi dunque,fra cui M.P, affermavano che anche dal punto di vista ideologico erano ravvisabili due autori: Nella prima parte, secondo M.P, nei primi 500 versi si notava un autore che difendeva maggiormente i diritti della piccola mobilità di fronte al potere monarchico dell’alta aristocrazia, presentando una personalità più democratica (un uomo della bassa mobilità può affermarsi grazie ai suoi meriti e non per diritto ereditario). Con il v.22 dunque il giullare dimostra di essere più vicino alla mentalità del CID rispetto a quella monarchica —> egli sposa la posizione castigliana rispetto ad una posizione leonese. Nonostante sia un prigioniero, il Cid tratterà il conte come un ospite speciale invitandolo a mangiare nella tavola con lui —> il re orgogliosamente si rifiuta per tre giorni di mangiare. Il Cid per placarne L’ostinazione gli promette di liberarlo, insieme ad altri cavalieri, se il conte gli farà il favore di mangiare. Il nobile mangia e riacquista la libertà. In questa immagine c’è una lettura ironica dell’avversario, il quale, seppur cristiano, prima si indispettisce e poi cede molto facilmente alle offerte del nemico. Con questo episodio termina il primo cantare ed inizia il secondo: El cantar de las bodas. In esso il Sid si spinge verso Levante e assedia la città Valencia, di cui diventerà signore fino alla sua morte. Egli nomina come vescovo di Valencia un sacerdote guerriero, Don Jeronimo e manda Albar Fañez con 100 splendidi cavalli. Il dono arriva insieme alla richiesta dell’eroe di potersi ricongiungere insieme a Doña Jimena e le sue figliole che, nella storia dell’epica, si trovavano nel Monastero di San Pedro de Cardeña (nella storia ciò non coincide, doña Jimena è la moglie del Cid e nel secondo esilio gli toglierà la patria podestà). Il re, nel ricevere il dono dell’eroe, non soltanto gli permette di ricongiungersi con il Cid ma dà, a chiunque lo voglia, la possibilità di unirsi alle sue schiere (del Cid). È a questo punto che si inserisce la prima lassa del secondo cantare. Commento lassa Vv (1610- 1622) - pag 72 antología. In questa lassa, e nella successiva che verrà commentata, è possibile riconoscere la capacità artistica e letteraria del giullare, presente negli squarci descrittivi che ci fanno Percepire la sensibilità e la capacità di trasmettere, a chiunque ascolti, non solo il senso letterale di ciò che si sta dicendo ma anche i risvolti psicologici e umani del momento. Adeliño mio Çid con ellas al alcaçar, Alla las subie en el mas alto logar; Ojos bellidos catan a todas partes, Miran Valençia, como yaze la çiudad, Y del otra parte a ojo han el mar. Miran la huerta, espessa es y grande, Alçan las manos por a Dios rogar D’esta ganançia como es buena y grande. Mio Çid y sus compañas tan a gran sabor estan. El invierno es exido, que el março quiere entrar; Dezirvos quiero nuevas de allende partes del mar, De aquel Rey Yuçef de que en Marruecos esta; Pesole al Rey de Marruecos de mio Çid don Rodrigo. La lassa questa volta è divisa in due parti con un salto anche tematico: da un tema più lirico, che va dai versi 1610 al verso 1619, si passa a dei versi più epici che vanno dai versi 1620 al verso 1622. Da notare è il verso 1616 in corsivo, inserito è ricostruito da M.P, a partire dalla cronaca de los veinte Reyes, non presente nel manoscritto. In che momento ci troviamo? Adeliño mio Çid con ellas al alcaçar, Alla las subie en el mas alto logar; —> Jimena e le sue figlie, doña Elvira e doña Sol (nella realtà si chiamavano Cristina e Maria), sono arrivate a Valencia. Il Cid per dimostrare loro la sua conquista si avvicina insieme a loro all’alcazar (La fortezza che gli arabi costruivano nella parte più alta della città) e le fece salire nel suo punto più alto. In questa parte avviene un momento artisticamente molto alto: l’artista non descrive Valencia attraverso le parole di un conquistatore, di un guerriero come il Cid ma ci presenta il territorio attraverso gli occhi di Jimena e le figlie. Ci viene presentata la conquista, il bottino attraverso gli occhi di tre donne che proprio perché sono sguardi femminili, non guardano il paesaggio come una conquista, con gli occhi di chi ha fatto una guerra per ottenerlo, ma lo vedono con gli occhi di pace, pensando alle possibilità di vita che ci potranno essere in un luogo così rigoglioso (probabilmente è la prima volta che esse vedono il mare). Ojos bellidos catan a todas partes, Miran Valençia, como yaze la çiudad, Y del otra parte a ojos han el mar. Miran la huerta, espessa es y grande, Alçan las manos por a Dios rogar —> !catan vuol dire gurdare, deriva dal latino cattare che nella lingua medievale significava proprio captare con gli occhi. La huerta è un termine geografico spagnolo che si utilizza per indicare un’ampia pianura ortofrutticola. Alzano le mani al cielo per ringraziare il signore di questa conquista, cosa buona e smisurata. Il Cid morirà a Valencia, non si intende bene perché, nonostante la riappacificazione con il suo re, egli non verrà mai riamesso in Castiglia. Alla sua morte Jimena rimarrà altri due anni in questo territorio ma sarà continuamente oggetto di nuove invasioni da parte degli arabi tant’è che nel 1103 Alfonso VI la inviterà, assieme alle sue figlie, a tornare in Castiglia per precauzione. Jimena tornerà con le spoglie del Cid che venne tumulato a Burgos, nella chiesa di San Pietro di Cardeña. Mio Çid y sus compañas tan a gran sabor estan. El invierno es exido, que el março quiere entrar; Dezirvos quiero nuevas de allende partes del mar, De aquel Rey Yuçef de que en Marruecos esta; Pesole al Rey de Marruecos de mio Çid don Rodrigo. —> il giullare dopo questo scorcio letterario molto bello torno ad utilizzare un tono più epico per raccontare un episodio storico veridico. Re Yuçef de Marrueco —> ci si riferisce a Yusuf ben Texufin, personaggio realmente esistito che nella storia si presenta o come imperatore degli Almoravidi (1056- 1106)o come rey del Marruecos, personaggio. Quando parliamo della conquista araba in Spagna, bisogna tenere presente che essa fu graduale. Nel 703 entrò un primo esercito di berberi ma ci furono diverse ondate. Nella metà dell’XI secolo ci furono in Spagna gli almoravidi, un’etnia Che rese la dominazione araba meno rispettosa e più violenta nei confronti dei costumi locali. Yusuf ben Texufin tentò di riconquistare Valencia, entrando nella penisola a partire dal 1086 con conseguenze disastrose sia per i cristiani che per i musulmani spagnoli. I tanti doni da parte del Cid nei confronti del re suscitano nuova invidia a Garcia Ordóñez (colui che li aveva denunciato) ma soprattutto la cupidigia degli infanti di Carrión. Ci sono dei dubbi sulla veridicità storica degli infanti di Carrión e sul fatto che le figlie del Cid, prima di andare in sposa gli infanti di Navarra e Aragona, avessero già concluso un primo matrimonio con loro. Se si vuole parlare del poema in termini narratologici, gli infanti di Carrión sono considerati i veri antagonisti. Essi si muovono sempre in coppia, raramente agiscono in modo indipendente, e si caratterizzano per la loro pusillanimità, viltà e cupidigia. Così come Raqel e Vidas erano l’incarnazione degli avidi usurai, loro sono l’incarnazione della malvagità e della meschinità. Gli infanti di Carrión chiedono al re di poter sposare le figlie del Cid. In occasione di un incontro con l’eroe presso il fiume Tago (dove il Cid si prostra a terra e morde l’erba), il re gli propone di stringere questo matrimonio. Il Cid accetterà solamente per doverosa obbedienza, come si evince dal verso 2110 Vos casades mis fijas, ca no se las do yo. —> Egli si rifiuta di consegnare le figlie e chiede di farlo re. Tale verso rappresenta una sorta di anticipazione di ciò che avverrà poiché il matrimonio si rivelerà infelice e porterà all’oltraggio di Corpes, raccontato nel terzo cantare. Terzo Cantare: Dopo aver celebrato il matrimonio, le figlie, gli infanti e il Cid stesso tornano a Valencia che verrà assediata per la seconda volta dal re Bùcar definito re del Marocco ma sconfitto dal Cid. La figura è modellata (1091) probabilmente su quella del conquistatore e governatore di Siviglia probabilmente su quella del conquistatore Sir ibn Abi-Bakr o su Abu Bakr, generale almoravide. Si tratta di uno dei passaggi in cui gli infanti dimostrano la loro pusillanimità poiché mentre i guerrieri ed il Cid stesso si lanciano in un duello corpo a corpo contro i nuovi invasori, ottenendo nella vittoria, gli infanti rimarranno in retroguardia, guadagnandosi lo scherno degli altri guerrieri. In un altro episodio viene raccontato come, in un momento di riposo mentre il Cid dorme su una panca (Altro elemento di veridicità del poema, nella chanson de Roland non verrà mai mostrato loro che dorme), da una gabbia esce un leone che si aggira per l’accampamento. Gli infanti spaventati e si nasconderanno proprio sotto la panca dove riposa il Cid che, svegliato dal trambusto, si alza amore solenne e riconduce il leone nella gabbia. —> Si tratta di un episodio quasi comico in cui l’autore, in maniera anche solenne, vuole mostrare la superiorità dell’eroe. I due infanti sentendosi incompresi ed anche umiliati decidono di vendicarsi nella maniera più vile e subdola, oltraggiando le figlie del Cid. Essi chiedono all’eroe di poter tornare nelle proprie terre insieme alle loro spose per poter ricongiungersi con le loro famiglie —> Il Cid acconsente e gli affida anche le sue due spade, la “Colada” sottratta al conte di Barcellona e la “Tizzona”, Tizón = brace, tizzone. Con la battaglia di Las Navas la Spagna riconquista la sua unità peninsulare portando ad un periodo di serenità fondamentale per lo sviluppo culturale e economico (Rinascimento del XIII secolo). In questo periodo, i centri educativi più importanti acquisirono il titolo di studium generale. Tale titolo veniva attribuito dal papa, dall’imperatore o dal re, che lo prendeva sotto il suo patrocinio, provvedendo anche al suo sostentamento. Esse rappresentano le prime università. Gli estudios generales de Valencia rappresenta la prima università spagnola dalla quale escono i primi clerigos seglares. Seguiranno poi Salamanca e Valladolid. Definizione di mester de clerecia: La parola mester deriva dal latino ministerium, termine con il quale si indicava il compito d’ufficio che ognuno svolgeva. In Spagba vediamo la letteratura dividersi in due mestieri: el mester de clerecía ed el mester de juglaría. Il tratto differenziale di questi mestieri sta negli autori di entrambe: nel primo caso abbiamo come autori i clerici, persone istruite e colte, nell’altro caso abbiamo i giullari, uomini che non avevano seguito degli studi. Da questa differenza ne discende che mentre il clerigo è autore delle sue opere, il giullare interpreta opere altrui, è il veicolo di opere non sue. I poemi epici, i villancicos e le jarchas sono tutte opere appartenenti al mester de juglaría. Il mester de clerecia,invece, riguarda una serie di opere abbastanza compatta nella sua cronologia che si distaccano per l’aspetto formale. Mentre nel Mester de Juglaria le opere sono caratterizzate da una sostanziale irregolarità in tutti gli aspetti (irregolarità rimica, versale), le opere del mester de Clerecia hanno una struttura formale impeccabile (soprattutto le opere del XIII secolo). Vediamo poi una diversità rispetto alle intenzioni, alla finalità per cui queste opere venivano create. Le opere appartenenti al mester de Juglaria avevano principalmente uno scopo di intrattenimento sociale (es. i poemi epici) o di accompagnamento nella vita quotidiana (es. i villancicos). Nel caso del mester de clerecia invece, le opere si occupano di divulgare, in lingua romanza, tutto quel patrimonio letterario presente nella latinità. Mentre il castigliano infatti si stava divulgando sempre di più nel popolo, il latino diventava una lingua sempre meno conosciuta. Queste opere dunque, si faranno tramite del trasferimento della letteratura classica nella sua trasposizione in lingua romanza, con lo scopo divulgativo e pedagogico di diffondere e trasmettere i contenuti veicolati dalla lingua latina basandosi sui codici scritti. Per quanto riguarda la tematica, il mester de juglaria riguarda i poemi epici ed i canti amoroso mentre il mester de clerecia abbraccia temi molto vari. Abbiamo un filone importante di letteratura di carattere angeografico relativo alla vita dei Santi e di carattere religioso. Abbiamo poi una parte importante di opere che si occupano della narrazione bizantina e, più in generale, della narrazione di carattere storico. Abbiamo dunque un repertorio di vari temi riguardanti la classicità. Nonostante i tratti differenziali sopra indicati, la sostanziale differenza tra i due mester sta nella nozione di un particolare schema metrico. Tutte le opere del Mester de Clerecia impiegano la struttura metrica della Cuaderna Vía, appartenente alla letteratura spagnola. Con Cuaderna Via indichiamo una strofa di 4 versi alessandrini (di 14 sillabe) obbligatoriamente monorimi che rende immediatamente riconoscibili le opere del MDC. Il nome deriva da un fatto culturale: i clerici appartenenti agli studi generali avevano accesso alle arti quadrivium, diverse da quelle del trivium. Le arti del trivium, o tres vias, rappresentavano l’insegnamento elementare delle discipline di grammatica, logica e retorica. Le arti del cuadrivium, o cuatro via, appartenevano all’insegnamento superiore che permetteva l’apprendimento delle discipline di aritmetica, geometria, musica e astronomia. La formazione completa del clerigo dunque si basava sulla conoscenza completa delle arti del trivium e quadrivium che insieme formavano le sette arti liberali che dovevano portare allo studio della filosofia e della teologia. Cuaderna via indicava dunque indica quei componimenti che potevano essere elaborati soltanto da chi si era impossessato della cuadrivia. Il nome inoltre indica, in un aspetto più tecnico, i quattro versi della strofa e può essere indicata anche come tetrastrofo monorimo. Da dove nasce la definizione di mester de clerecia? La definizione di mester de clerecia appare per la prima volta nel Libro de Alexandre, un’opera anonima conosciuta come la prima appartenente al mester de clerecia e che rappresenta sia uno spunto formale sia uno spunto tematico su cui tale genere si modellerà. In essa troviamo la seconda quartina del poema (impararare a memoria) scritta in Cuaderna Via in cui per la prima volta appare il nome di questa scuola del mester de clerecia (e da essa recuperiamo anche il nome del mester de juglaria) e dalla quale ne determiniamo le caratteristiche. Il Libro de Alexandre si basa sull’opera Alexandreis di Gualtiero di Châtillon nella quale si narra, in maniera molto originale, la vita di Alessandro Magno. Nell’antichità, la costruzione del suo impero rappresentava una parabola di vita raccontata sia per la sua dimensione epica che per il suo insegnamento morale (la vita terrena è effimera, bisogna impegnarsi in quella spirituale). Il Libro de Alexandre dunque, Oltre ad avere un forte valore morale, apriva anche un vasto repertorio tematico poiché aveva un forte taglio enciclopedico. Su questo libro sono state fatte varie ipotesi: una afferma che il suo autore sia un certo Juan de Astorga che firma il codice ritrovato ma che fu poi additato dalla critica come copista. Si ipotizzò dunque che fosse lo stesso Berceo poiché c’è un codice del Libro de Alexandre che lo mette come suo autore ma, ad oggi, la critica è più propensa a considerare tale opera ancora anonima. Mester traigo fermoso, non es de joglaría mester es sin pecado, ca es de clerezía fablar curso rimado por la cuaderna vía a sílabas cuntadas, ca es grant maestría. Libre de Alexandre, vv 5-8 Traduzione Questo è la mia bella arte, non è quella di giullaria mester senza peccato, poiché è di clerecia parla in rima attraverso la cuaderna via contando le sillabe, che è grande maestria. Mester traigo fermoso, non es de joglaría —> una prima introduzione in cui l’autore dimostra un grande compiacimento per la sua arte, diversa da quella dei giullari. Egli non è un giullare perché la sua arte è bella. mester es sin pecado, ca es de clerezía —> l’autore cerca di spiegare in cosa consiste la sua arte. La critica ha discusso molto sulla definizione di “arte senza peccato” che inizialmente potrebbe far pensare ad una connotazione moralistica di tali opere. Di fatto, una parte di questa produzione ha un carattere devoto e religioso, mentre altri poemi sono costruiti su biografie vere o presunte con una funzione didattica. C’è una parte della critica però che considera la definizione “sin pecado” come un riferimento alla parte formale poiché le opere sono scritte con un metro regolarissimo ed ineccepibile. Anche qui contrappone la precisione della sua opera a quelle di juglaria poiché è di clerecia —> opposizione viene esaltata dal collocare le due parole a fine verso. fablar curso rimado por la cuaderna vía —> il cursus rimado è una cadenza ritmica della prosa. Quello che l’autore ci vuole dire che ogni verso di 14 sillabe termina con una rima per la cuaderna via L’abilità nel concepire versi di questo tipo può concepirsi solamente attraverso la via scritta poiché la cuaderna via non è soltanto un insieme di quattro versi alessandrini monorimi, essa infatti ammette sempre una cesura a metà (una pausa molto marcata) che organizza il testo in due emistichi che si comportano in modo autonomo. Per contare la sillabe metriche: -quando un verso termina con una parola piana, il conto tra un sillaba metrica ed una fonologica può essere lo stesso; -se un verso termina con una parola acuta, quando contiamo le sillabe dobbiamo aggiungerne una; -sei un verso termina con una parola sdrucciola, quando montiamo le sillabe dobbiamo sottrarne una; Il conto delle sillabe metriche nella cuaderna via diventa ancora più complicata perché il conto di sillabe metriche deve essere fatto anche per ogni emistichio. Un’altra regola che rende più complicate le cose, è che nella cuaderna via non si può fare la sinalefe (se in poesia troviamo due parole a contatto, posso contare come sillaba le due Tuttavia l’atteggiamento dell’autore è un atteggiamento estremamente filologico, da cui si evince la sua alta preparazione culturale. Egli infatti nelle sue opere ci dice palesemente che sta lavorando con un testo a fronte e che non può inventarsi cose che non sono inserite in esso. Esempio preso da Santo Domingo de Silos: El nombre de la madre deçir non lo sabría. Commo non fué escripto non lo devinaria... (S. Dom. 8) [Il nome della madre non saprei dire. Siccome non è scritto non posso indovinarlo] Non departe la villa muy bien el pergamino, ca era mala letra, en cerrado latino (S. Dom. 609) [No si intende il paese dalla pergamena Perché la calligrafia è pessima oscuro il latino] De quál guisa salió deçir non lo sabría, ca fallesió el libro en que lo aprendía; perdióse un quaderno, mas non por culpa mia, escribir a ventura seríe grant folía (S. Dom. 751) [In che modo finì non saprei dirlo, perché venne meno il libro che consultavo si è perso un quaderno non per colpa mia scrivere a caso sarebbe una follia] Opera Milagros de Nuestra Señora: Berceo Per la stesura dell’opera ha a disposizione un codice latino intitolato Miracula Beatae Mariae Virginis che contiene 49 miracoli. La scelta di usarne solo 24 potrebbe dipendere dal fatto che Berceo stesse lavorando con un codice (una copia che ne conteneva solo 24). A partire da tale codice l’autore costruisce un proprio repertorio di 25 miracoli. 24 miracoli del testo di Berceo provengono dalla fonte latina mentre il 25esimo sembrerebbe provenire da un’altra fonte o, come la maggior parte degli studiosi credono, sembrerebbe essere un’invenzione dell’autore stesso poiché in essa si nota una particolare toponimia dei luoghi conosciuti da Gonzalo. Il fatto che siano 25 è simbolico, il cinque (e tutti i suoi multipli) è il numero mariano per eccellenza, rimandando dunque ad una dimensione simbolica e metaforica della numerologia. Da un’indicazione interna dell’opera, un dettaglio della copla 325 (!! Quando si parla di opere del Mester de Clerecia è meglio usare il termine “copla” invece di strofa) ci farebbe supporre che questi miracoli siano stati scritti prima del 1246. Cosa sono i miracoli? La miracolistica è un genere medievale usato dai predicatori, le narrazioni usate nei loro sermoni servivano a convincere il pubblico —> È più facile convincere le persone se quello che si vuole essere far passare viene esemplificato con una storia. Possiamo dire dunque che miracoli sono dei racconti con una finalità didascalica e pedagogica e vengono definiti nella cultura classica come exempla, come antesignano di cuento. Lo stesso Berceo utilizzerà tale termine nel senso in cui lo intendiamo di “racconto con finalità morale”. c. 377b: Digamos un exiemplo fermoso que leemos c. 412a: Tantos son los exiemplos que non sierién contados Dalla slide 25 miracoli costruiti sul modello della narrazione breve o exemplum (pl. exempla), genere letterario antenato della novella breve a scopo didattico religioso che nel Medioevo proliferò in Occidente ad opera dei predicatori che nei loro sermoni usavano un racconto (exemplum), dichiarato vero, per illustrare un’idea. La struttura dei miracoli è sempre la stessa. In genere, ma non sempre, abbiamo inizialmente un appello al pubblico e poi una presentazione del protagonista. C’è poi una narrazione vera e propria della crisi del protagonista (che può essere rappresentata o dal peccato commesso o dal fatto che il protagonista è meno incline a coltivare la devozione verso Maria) dal quale egli è sempre salvato grazie all’intervento della Vergine. Nei miracoli dunque il bene vince sempre sul male, abbiamo una religione estremamente ottimistica in cui il peccatore non ha necessità di dimostrare la sua fede attraverso le opere (cosa che implicherebbe, anche per il pubblico, un impegno maggiore) poiché lo fa esclusivamente attraverso il pentimento. Questo rende la religione grandemente accessibile a tutti, molto adatta ad una fase di promulgazione del verbo. Il culto nei confronti della Vergine fu molto sentito in Spagna. In realtà però, la miracolistica mariana comincia a svilupparsi in Europa a cavallo dei secoli XII e XIII. Fino al XII secolo la devozione mariana era stata espisodio marginale poiché anche nelle Sacre Scritture la sua figura era tale. Da che cosa si sviluppa questo culto? -Da una parte fu molto importante l’influenza della corrente dell’amor cortese, in cui la centralità della donna nella teoria dell’amore cortese potrebbe aver influenzato l’affermarsi del culto della Vergine -da un’altra parte il culto di Maria è legato anche ai sermoni di San Bernardo di Chiaravalle, in particolare distinguiamo il sermone de aquaeductu come un piccolo trattato di mariologia. In esso l’autore compara Maria ad un acquedotto, se Cristo è la fonte della vita, Maria è il canale di congiunzione fra Cristo sceso sulla terra e Dio. Berceo probabilmente conosceva l'omelia di san Bernardo, perché usa questa immagine nei Milagros: Tal es Sancta María como el cabdal río, que todos beben d'elli, bestias e el gentío, tan grand es cras como eri, e non es más vazío, en todo tiempo corre, en caliente e en frío. [Così è Santa Maria come un fiume in piena tutti vi si abbeverano, bestie e genti sempre abbondante oggi come ieri e mai vuoto scorre sempre sia col caldo che con il freddo] Esistono poi altri motivi per cui Maria divenne una figura di culto: -A partire dal V secolo María acquista sempre più importanza nella liturgia mozarabica. La madre di Cristo inizia a entrare in uno schema teologico di salvazione e redenzione cristiana: I Padri della chiesa nel tentativo di conciliare Vecchio e Nuovo testamento elaborano un concetto in cui Maria viene identificata con la «Nuova Eva», la donna che è venuta per redimerci dai peccati dell’Eva del Vecchio testamento. -Dalla liturgia mozarabica anche nella liturgia visigota Maria acquista sempre di più la funzione di mediatrice e corredentrice, proprio come Gesù (la Madonna è corredentrice perché ha portato Gesù nel grembo, generandolo ella ha permesso la redenzione del Cristo e dell’umanità). Appare dunque l’idea di Maria come Humani generis reparatrix. La Mariologia antiortodossa vede Maria come corredentrice, giustapposta alla sua figura come mediatrice (in quanto intercede ed aiuta il peccatore). La religione presente nei miracoli di Berceo ha come centro questa figura di donna, rispetto alla quale bisogna fare una riflessione. Berceo non si rivolge ad un pubblico colto ed erudito, la sua diffusione del messaggio cristiano, dunque, deve basarsi su messaggi semplici, accessibili ai più —> quale figura è migliore se non quella di una donna madre per avvicinare affettivamente il fedele alla religione? Anche in questo senso Maria è mediatrice. L’autore dunque ci presenta una religione facile, molto affettiva, sentimentale e gratificante. In tutti i racconti i peccatori si salvano attraverso la devozione alla Vergine. Proprio per questo si dice che la religione dei milagros è la religione della salvazione: i peccatori vengono salvati senza che ci sia una particolare forma di pentimento. Si tratta dunque di una religione molto accessibile, aperta ed umana (in ogni racconto c’è sì il miracolo della Vergine ma anche una tipologia di peccatore che viene in qualche modo salvato). DALLE SLIDE: Maria corredentrice L'idea di una cooperazione di Maria alla nostra salvezza ha il suo fondamento dogmatico nella maternità divina della Madonna. Maria ha concepito, partorito e ha sofferto insieme al figlio fino alla morte in Croce. Alla base della dottrina della corredenzione di Maria stanno i punti dottrinali seguenti: nel disegno di Dio, Maria è associata a Cristo per il trionfosul peccato, così come Eva fu associata ad Adamo nel peccato originale; Maria è stata associata alla Passione e morte di Gesù, partecipandovi con il suo dolore di madre. Natura poco ortodossa dei miracoli anti ortodossa Maria corredentrice:per riferirsi alla partecipazione della Madre di Gesù nell'opera della Redenzione umana. Semeja esti prado egual de Paraíso, en qui Dios tan grand graçia, tan grand bendiçión miso; él que crió tal cosa maestro fue anviso: omne que ý morasse nunqua perdrié el viso. “Semeja esti prado egual de Paraíso,” —> questo prato è uguale/assomiglia al paradiso. Strofa 16: Sennores e amigos, lo que dicho avemos palavra es oscura, esponerla queremos: tolgamos la corteza, al meollo entremos, prendamos lo de dentro, lo de fuera dessemos. tolgamos la corteza, al meollo entremos —> molto spesso l’autore quando spiega un’allegoria fa riferimento ad una corteccia (la parte esterna) ed al midollo (il significato) Fino ad ora lui ha spiegato solo la corteccia 17 Todos quantos vevimos, que en piedes andamos, siquiere en presión o en lecho yagamos, todos somos romeos que camino pasamos, San Peidro lo diz esto, por él vos lo provamos. 18 Quanto aquí vivimos en ageno moramos; la ficança durable suso la esperamos; la nuestra romería estonz la acabamos, quando a Paraíso las álmas envïamos. 19 En esta romería avemos un buen prado en qui trova repaire tot romeo cansado: la Virgin Glorïosa, madre del buen Criado, del qual otro ninguno egual non fue trobado. In queste strofe l’autore ci spiega che il prato in realtà è la Vergine e, nelle strofe successive ci dice anche perché: 20 Esti prado fue siempre verde en onestat, ca nunca ovo mácula la su virginidat, post partum et in partu fue virgin de verdat, illesa, incorrupta en su entegredat. Il verde è il colore della verginità —> il prato dunque è sempre verde poiché Maria rimase sempre vergine, non si macchiò del peccato della carne (ca nunca ovo mácula la su virginidat) post partum et in partu fue virgin de verdat —> il dogma della vergine si esprimeva in questo modo (prima e dopo il parto rímase vergine) Nelle strofe successive ci spiega il significato degli altri simboli: 21 Las quatro fuentes claras que del prado manavan, los quatro evangelios, esso significavan, ca los evangelistas quatro que los dictavan, quando los escrivién, con ella se fablavan. 22 Quanto escrivién ellos, ella lo emendava, esso era bien firme lo que ella laudava; parece que el riego todo d'ella manava quando a menos d'ella nada non se guiava. 23 La sombra de los árbores, buena, dulz e sanía, en qui ave repaire toda la romería, sí son las oraciones que faz Santa María que por los peccadores ruega noch e día. 24 Quantos que son en mundo, justos e peccadores, coronados e legos, reys e emperadores, allí corremos todos, vassallos e sennores, todos a la su sombra imos coger las flores. 25 Los árbores que facen sombra dulz e donosa son los santos miraclos que faz la Glorïosa, ca son mucho más dulzes que azúcar sabrosa, la que dan al enfermo en la cuita raviosa. Riassunto significati -io pellegrino: perché San Pietro dice che tutti gli uomini sono Pellegrini -il prato: rappresenta Maria -quattro fonti limpide: i quattro vangeli -ombra degli alberi: le preghiere che Maria rivolge al Signore per intercedere da parte dei peccatori -alberi: i santi miracoli che la vergine fa Nelle strofe conclusive abbiamo poi l’introduzione ai miracoli. Questo testo si tratta dunque di un’introduzione estremamente allegorica ma accessibile a tutti, essendo lo stesso Berceo a spiegare in che modo si traduce a livello simbolico ed ideologico tale allegoria. Analisi miracolo “La boda y la virgen” Si tratta di un miracolo con un taglio molto umano, visibile nel fatto che la Vergine viene dipinta come una donna molto gelosa (essa è sempre presente e solitamente compare o come madre o come moglie), tanto da sembrare quasi una dea pagana. Essa è furiosa perché il suo fedele, colui che l’ha amata tanto, si sposa. Di questo miracolo, fin da Menéndez Pelayo, si è andato segnalando il carattere profano. Enna villa de Pida, cibdat bien cabdalera en puerto de mar yaze, rica de grand manera, avié y un calonge de buena alcavera, dizién Sant Cassïan ond el calonge era. Como fizieron otros que de suso contamos, fque de sancta María fueron sos capellanos, ésti amóla mucho, más que muchos christianos, e faziéli servicio de piedes e de manos. Non avié essi tiempo uso la clerecía dezir ningunas oras a ti, Virgo María, pero elli diziélas siempre e cada día, avié en la Glorriosa sabor e alegría. Avién los sos parientes esti fijo señero, quando ellos finassen era buen eredero; dessávanli de mueble assaz rico cellero, tenié buen casamiento, assaz cobdiziadero. El padre e la madre quando fueron finados, vinieron los parientes tristes e desarrados, diziénli que fiziesse algunos engendrados, que non fincassen yermos logares tan preciados. Cambióse del propósito, del que ante tenié, moviól la ley del sieglo, dixo que lo farié; buscaronli esposa qual a él convenié, destajaron el día que las bodad farié. Queste prime cople costituiscono la premessa. Si tratta di uno dei pochi miracoli in cui si ha un’ambientazione precisa, in questo caso italiana, ovvero la città di Pisa. Dall’analisi di questo miracolo come le storie siano molto semplici, prive di qualsiasi riflessione intellettuale (a differenza della scolastica medievale che comporta un approccio alla teologia quasi intellettuale e razionale), in cui tutto è immediato con una dimensione essenzialmente consolatoria. Il mester de clerecia si caratterizza di una storia lunga durata quasi due secoli, fatto che dimostra la sua grande vitalità. Mentre prima il verso più utilizzato nella poesia spagnola era il verso ottonario, a seguire sarà proprio l’alessandrino utilizzato nel mester de clerecia. L’alessandrino (come verso di arte mayor) è un verso di importazione proveniente dalla Francia che fino al 500, insieme all’ottonario (come verso di arte menor) saranno i versi più usati, fino all’arrivo dell’endecasillabo con la diffusione del petrarchismo in Europa. El libro de Buen Amor ed il Mester de Clerecía del XIV secolo: El mester de clerecia del XIII secolo, come abbiamo già detto rispetta assolutamente le regole metriche imposte. Nel mester de clerecia del XIV secolo invece la quartina di alessandrini è soggetta ad esempio a rime assonanti o c’è una imperfezione sillabica, perdendo dunque questa assoluta perfezione, alternandosi ad altre misure metriche. Ne El libro de buen amor, proprio per il carattere miscellaneo dell’opera (significa che ha un insieme di testi diversi),vediamo alternarsi versi de arte menor e versi de arte mayor. Il mester de Clerecia del XIV secolo è dunque molto meno rigido e le sue opere più rappresentative sono proprio El libro de buen amor ed il Rimado de Palacio di Pero Lopez de Ayala. Di juan ruiz, come di Gonzalo de Berceo, non sappiamo nulla se non ciò che viene detto dall’autore stesso. Nasce ad Alcalá (non si sa se parla di Alcalá de Mares o di Alcalá la Real) e fu Arciprete a Hita. Arciprete era il parroco di una parrocchia o il sacerdote più anziano, con funzioni di vicario del vescovo. “Yo, Juan Ruiz, Arcipreste de Hita (copla 19b e c) “Yo, Johan Ruiz, el sobredicho arcipreste de Hita (copla 575a). Hita si trova nel cuore del cuore della Castiglia, in provincia di Guadalajar (come Berceo). Ovviamente non sono mancati i tentativi per avere maggiori dati biografici, ma si scoprì che esistettero diversi arcipreti di Hita di nome Juan Ruiz. Nasce dunque il dubbio per cui questo autore utilizzi un nome già molto conosciuto in modo simbolico, come nome fittizio, adottato. El libro de buen amor si presenta come un’ autobiografia dove viene raccontata la storia dell’autore ed, in particolar modo, le sue storie amorose. In questo senso potrebbe facilmente essere che il nome sia fittizio come l’autobiografia. Vediamo dunque questo insistente anonimato nelle opere spagnolo, nei quali spesso si fa fatica a far emergere una paternità condivisibile o altamente probabile. Altre informazioni che abbiamo riguardo l’autore ci sono dati dalle prime 10 coplas, dove egli ci dice di trovarsi in una prigione e invoca il Signore affinché lo liberi. Copla 1d: Señor Dios, que a los jodios, pueblo de perdiçión, sacaste de cabtivo, del poder de Far[aón], a Danïel sacaste del poço de Babilón: saca a mí, coitado, d’esta mala presión. Che si stia parlando di una prigione reale o metaforica non lo sappiamo. È certo che fin dai tempi di Pitagora e dell’orfismo, il tema del corpo come prigione dell’anima, che poi passerà al cristianesimo, fu frequentemente usato. La prigione dunque è intesa nella sua dimensione metaforica. Anche questo dato dunque potrebbe non essere del tutto illuminante. Nel libro de Buen Amor troviamo una descrizione dell’arciprete (vedi pag 111 dell’antologia, nota 6) che ci potrebbe approssimare la sua figura. !!dalla descrizione si percepisce già il carattere goliardico della narrazione, con l’occhio strizzato verso il pubblico che doveva coglierne il doppio senso. La mezzana sta descrivendo l’aspetto del arciprete e presenta lo stereotipo medievale del “buon amante” con un fisico forte e tratti marcati. Cosa s’intende con il concetto di Buen Amor? Juan Ruiz ci spiega cosa intende con Buen Amor nell’introduzione della sua opera, dicendo che sostanzialmente esistono due tipi di amore: -un amore profano, il mal amor -un amore Cristiano, il buen amor Egli poi dice che le sue intenzioni di carattere didattico, scrive il libro “per indicare qual è la strada giusta da intraprendere se si vuole essere un bravo Cristiano”, quella del Buen Amor appunto. Ad un certo punto però, con una torsione di totale, ci troviamo di fronte ad un’opera che, nonostante questa dichiarazione di principio iniziale, narra 14 avventure amorose di un Arciprete, un amante sfortunate. Egli vive una serie di avventure senza lieto fine: tenta prima di corteggiare una gentildonna, poi una fornaia ed poi quella che lui chiama “una donna onesta senza riuscire a conquistarle. Dopo queste esperienze giunge in suo soccorso Don Amor, il dio amore che gli dice che per avere fortuna deve ricorrere a una mezzana. A questo punto compare per la prima volta nella cultura spagnola, già presente in una commedia del XIII chiamata Phamphilo de Amore, la figura della mezzana,che qui ha il nome di Orraca (ripresa poi dall’opera La Celestina), la quale si rende mediatrice nelle questioni amorose e che aiuterà l’arciprete a conquistare, nella quarta avventura, una signora. A questa avventura seguono poi la quinta, sesta,settima, ottava e nona con le montanare, donne robuste che vanno subito al sodo senza dover essere corteggiate. Ad esse segue poi l’avventura con una donna vedova, una con una donna di Chiesa, con Donna Garosa (controllare nome) che sposerà e infine una con una donna mora ed una con una donna piccolina. Quello Che si deve dire su queste avventure però è che la maggior parte non vanno a buon fine, mentre le uniche due compiute, cioè la quarta e la dodicesima saranno poi marcate dalla morte delle due donne —> quando l’autore dice che vuole insegnarci il giusto cammino verso l’amore sacro potremmo anche credirgli, il racconto che ci fa, proprio perché marcato dalla sfortuna di questi incontri e dalla morte delle due donne che amerà, potrebbe far parte di quell’amore di cui si parla anche nella Celestina in cui il racconto deve essere colto come exemplum a contrario, cioè non fare quello che si racconta altrimenti si avrà la stessa sorte del protagonista del racconto. Tale introduzione viene fatta anche per evitare la censura dell’opera, ci troviamo infatti negli anni in cui in Spagna comincia ad operare la Santa Inquisizione. El Libro de Buen Amor ha un prologo in versi ed uno in prosa. Nel prologo in versi Juan Ruiz vuole spiegare al lettore come leggere il libro e per farlo si serve di un aprologo che ha come tema la disputa fra greci e romani —> “devi leggere il libro come i greci e i romani si capirono vicendevolmente in un incontro che ebbero” Tale disputa non è nuova, risale infatti ad Accursio (controlla nome) e viene reinterpretata dall’autore in maniera abbastanza divertente. (Vedi antologia con spiegazione della disputa) Juan Ruiz attraverso questa disputa ci vuole dire che “non c’è mala parola se non è capita male”, è il lettore che deve ricavare da una storia mondana e licenziosa capire il suo verso senso morale, tutto sta dunque nelle intenzioni di chi legge. !Da notare è il soprannome della Mezzana, ovvero trotaconventos, dal quale, nell'azione di tirare in mezzo figure religiose, vediamo questo clima picaresco e goliardesco L’opera è ricca di fonti, dettaglio da cui si nota la vastissima cultura e conoscenza dei clerici, che vengono maneggiate con grande sapienza. Dalla slide: Bibbia Libro de Aleixandre Ysopete (raccolta delle favole esopiche) Ars amandi di Ovidio e filone pseudo ovidiano Pamphilus de amore commedia latina del XII secolo (commedia elegiaca in latino XIII secolo): Panfilo, un giovane timido, che ama una ricca sua vicina Galatea, e per rivelare a lei il suo sentimento invoca l'aiuto di Venere e si giova dell'astuzia d'una vecchia. Comprende 780 versi in distici elegiaci; ha somiglianze con l'altra commedia De nuncio sagaci e vi si nota ugualmente l'imitazione d'Ovidio. L'opera ebbe singolare fortuna, specie nella letteratura spagnola dal Libro de Buen Amor dell'arciprete de Hita e attraverso a questo nella Celestina Nell’antologia sono presenti anche le Cantigas delle Serranas. Esse sono una riscrittura in termini cominci della pastorella francese, sviluppata all’interno della lirica cortese dell’amore in cui si confrontavano il mondo dei cavalieri ed il mondo bucolico delle pastorelle il quale si contrappone qui con il mondo realistico della montanara. Il territorio dell’attuale S. fu colonizzato nel 1° millennio a.C. da Fenici, Celti, Greci, Cartaginesi, e infine conquistato dai Romani (3°-2° sec. a.C.) grazie alle campagne di P. Scipione Africano (210-206 a.C.). Durante l’età repubblicana vi furono numerose sollevazioni delle popolazioni indigene; le province furono pacificate sotto Augusto, e, grazie all’intensa colonizzazione, furono profondamente romanizzate ed ebbero un grande sviluppo economico. Cristianizzate nel 2°-3° sec., all’inizio del 5° sec. subirono le invasioni di Vandali, Svevi e Alani (409), poi dei Visigoti (415), che vi organizzarono un vasto regno romano- barbarico con capitale Toledo. Tuttavia non riuscirono del tutto nell’opera di consolidamento dello Stato. Seguirono la conversione di re Recaredo (586-601) dall’aria;nesimo al cattolicesimo con la conseguente partecipazione dell’alto clero al governo (Concili di Toledo), e l’unificazione legislativa operata dal re Recesvindo (649-72) con la promulgazione di una Lex Wisigothorum, che aboliva la tradizionale dualità dei diritti tra vinti e vincitori: l’alta nobiltà, padrona di vasti latifondi, mantenne un elevato grado di autonomia di fronte al potere regio. Negli ultimi decenni del 7° sec. divenne palese che il re non era in grado di tenere sotto controllo l’alto clero e la nobiltà neanche con la forza. 2. Dominazione araba Nel 710 la S. fu travolta da Arabi e Berberi di religione musulmana provenienti dall’Africa settentrionale, che condotti da Ṭāriq ibn Ziyād posero fine al dominio dei Visigoti, ormai indebolito, e conquistarono gran parte del territorio spagnolo (711), dando inizio a una dominazione destinata a durare fino al 1492. I conquistatori, chiamati poi dagli Spagnoli Mori e anche, più tardi, con significato spregiativo, Moriscos, furono accolti bene dalla popolazione indigena, insofferente dell’esoso fiscalismo visigotico; la larga tolleranza religiosa agevolò la trasformazione dell’occupazione del paese in conquista stabile (nel 713 il califfo di Damasco fu proclamato, in Toledo, sovrano della regione occupata). La rivolta dei Berberi (732-756), malcontenti di aver avuto le regioni più povere (Galizia, Asturie, León), repressa nel sangue, ne provocò l’emigrazione verso sud. La linea di frontiera della S. musulmana divenne così una linea che toccava Coimbra, Coria, Talavera, Toledo, Guadalajara, Tudela e Pamplona e, nei Pirenei centrali, non oltrepassava Alquézar (Sobrarbe), Roda (Ribagorza), Ager (Pallás), lasciando fuori le regioni nord-occidentali della Penisola Iberica. L’omayyade ‛Abd ar-Raḥmān I, fattosi riconoscere emiro di Cordova (756), organizzò saldamente il paese, sottraendolo di fatto alla sovranità del califfo di Baghdad. Le gravi crisi che successivamente sconvolsero la S. (le rivolte di ‘rinnegati’, cioè i cattolici convertiti all’islam, e di cattolici contro i potenti fuqahā’ o giureconsulti; l’attrazione esercitata sui cattolici sudditi degli Arabi dai minuscoli Stati cristiani salvatisi dall’invasione; le insurrezioni di nobili Arabi e rinnegati; scorrerie dei Normanni iniziate nell’844; la lotta fra Berberi e Arabi) non riuscirono a spezzare lo Stato creato da ‛Abd ar-Raḥmān, che resistette fino all’11° secolo. Dopo un periodo di quasi generale anarchia (9° sec.), infatti, l’unità fu salvata da ‛Abd ar-Raḥmān III, il più grande degli Omayyadi spagnoli (912-61) che assunse il titolo di califfo a Cordova (929). L’epoca del califfato di Cordova fu il periodo più splendido della S. musulmana: fiorì una grande civiltà, mirabile per lo sviluppo economico (agricolo, ma anche industriale), fastosa per costruzioni e per il tono culturale; l’apice della potenza politica fu toccato, sotto il califfato di Hishām II (976-1008), con il generale al-Manṣūr, che invase il regno di León e conquistò Barcellona, giungendo fino a Santiago de Compostela (997). Morto al-Manṣūr (1002), lotte civili e razziali, rivolgimenti sociali a sfondo religioso ecc. sconvolsero il califfato, che crollò quindi per crisi interna nel 1031 e fu frazionato in piccoli Stati, i cosiddetti regni di Taifas, governati da potenti famiglie. 3. La reconquista Di questa divisione approfittarono i regni cristiani del nord per iniziare la reconquista (fig. 2). Tali Stati si erano costituiti per il ritiro, al momento dell’invasione musulmana, di non pochi indigeni sui monti delle Asturie dove, secondo una incerta tradizione, il re Pelagio avrebbe battuto gli Arabi (718) e organizzato il primo regno cristiano di Oviedo, divenuto nel 740 regno delle Asturie; nel 9° sec. la frontiera meridionale fu portata fino al fiume Duero e la capitale trasportata a León (dal 918 Regno di León). La vittoria di Ramiro II (931-51) sui musulmani a Simancas (939) ebbe risonanza europea. Nel periodo seguente, però, il conte di Castiglia si rese indipendente dal re di León e presto altri potenti feudatari seguirono il suo esempio: nel 10° sec. esistevano i regni cristiani di Navarra (presto marginalizzato), di Castiglia e Léon (uniti nel 1037) e di Aragona (che nel 1137 si unì alla contea di Barcellona), le cui forze riunite si spinsero fino a Cordova (1010); ma, dopo le prime vittorie, la penetrazione cristiana nella S. musulmana subì un arresto. Invocati dai re di Taifas, i Berberi almoravidi passarono in S. sconfiggendo Alfonso VI di Castiglia a Zallāqa (1086) e tra il 1091 e il 1110 riconquistarono gran parte delle antiche terre musulmane, instaurando un nuovo regime di intolleranza religiosa. Il dominio almoravida crollò per opera degli Almohadi (Maiorca, ultimo baluardo degli Almoravidi, cadde nel 1202) che, meno intolleranti dei loro predecessori, riuscirono per qualche tempo a frenare l’avanzata dei re cristiani di Castiglia e di Aragona (1195) ma, indeboliti da lotte dinastiche, subirono una sconfitta decisiva nella battaglia di Las Navas de Tolosa (1212). Apertasi la via del sud, le forze cristiane, verso il 1270, ridussero il dominio musulmano al solo regno di Granada, che durò tuttavia fino al 1492. 4. I regni di Aragona e di Castiglia L’ultima fase della lotta contro i musulmani mostra chiaramente che tutta la Penisola Iberica era sotto l’effetto di due grandi forze motrici: il regno di Aragona e quello di Castiglia. L’Aragona, staccatasi dalla Navarra, aveva finito con l’aggregarsi nel 1076 la stessa Navarra, conservandola fino al 1134; nel 1137, il matrimonio tra Raimondo Berengario IV, conte di Barcellona, e Petronilla, erede del trono aragonese, aveva consentito l’unione fra Catalogna e Aragona nella confederazione catalano-aragonese, nota in seguito con il nome di regno d’Aragona. Raimondo Berengario IV (1131-62), Alfonso II (1162-96) e Giacomo I (1213-76) conquistarono i regni di Valencia, di Murcia, delle Baleari e sistemarono i confini aragonesi. La monarchia di Castiglia e León, le cui due corone, unite dal 1037, si scissero nuovamente nel 1065-72 e nel 1157-1230, fu invece l’erede dell’opera della monarchia asturiana: raggiunta la linea del Tago, minacciò la S. meridionale e infine, sotto Ferdinando III (1217-52), conquistò Cordova, Jaén, Siviglia, l’Andalusia e si spinse fino a Cadice (1236- 48); contemporaneamente il centro di gravità si spostava verso il Sud (nel 1085 la capitale era stata trasferita a Toledo) e, nel 1230, l’unità era saldamente costituita: essendo la Castiglia la parte più importante del regno, questo fu ben presto chiamato regno di Castiglia. Questi due regni, divenuti politicamente marginali il regno di Navarra (territorialmente ridotto ed entrato nella sfera d’influenza francese) e quello di Portogallo (indipendente dalla Castiglia-León nel 1263), rimasero a contendersi l’egemonia. Mentre la monarchia castigliana continuava la politica di espansione territoriale verso sud, quella aragonese, costretta nel 1213 dalla sconfitta di Muret, dove morì lo stesso re Pietro II, a rinunciare alla politica di espansione verso la Francia, avviò una politica mediterranea in grande stile (Sicilia, Sardegna, imprese della Compagnia catalana in Grecia e in Asia Minore). L’uno e l’altro regno tuttavia furono travagliati (sec. 14°-15°) da violente discordie interne, spesso degenerate in guerre civili, nel cui corso mutarono anche le dinastie: sul trono di Castiglia, nel 1369, si ebbe l’avvento dei Trastamara con Enrico II; su quello di Aragona, nel 1412, morto senza eredi Martino I, per il compromesso di Caspe, salì il nipote Ferdinando d’Antequera, figlio di Giovanni I re di Castiglia: l’insediamento di una dinastia castigliana sul trono di Aragona costituì un primo passo importante verso l’unità spagnola. Nella seconda metà del 15° sec., alla morte di Enrico IV (1474), scoppiò una nuova guerra civile in Castiglia fra la sorella di lui Isabella I, dal 1469 moglie di Ferdinando il Cattolico, futuro re di Aragona, e i sostenitori di Giovanna del Portogallo (la Beltraneja). Con la vittoria definitiva di Isabella (1479) iniziò una nuova fase nella storia spagnola: essendo in quello stesso anno salito al trono di Aragona il marito Ferdinando, si venne a realizzare un’unione fra i due regni fino a quel momento divisi. Si trattava ancora di un’unione puramente personale, destinata a diventare definitiva nella persona del nipote Carlo (Carlo V). Con la Celestina ed il Lazarillo entriamo nella seconda parte del corso, riguardante i classici veri e propri. Con la parola “classico” facciamo riferimento a quelle opere che hanno avuto una risonanza vera e propria almeno Europea (se non universale) che ancora oggi sono dei veri e propri modelli. Secondo Calvino “i classici sono quelle opere che non smettono mai di dire quello che devono dire” ovvero sono testi che ancora oggi vengono considerati moderni e non hanno perso la loro efficacia. La Celestina La Celestina è certamente un’opera molto complessa, non tanto nella lettura del suo messaggio, quanto in tutte le problematiche che si aprono a partire dalla paternità, per passare alla storia editoriale dell’opera, permettendoci anche di ragionare sul significato dell’opera stessa. La prima edizione de La Celestina si chiamava in realtà Comedia de Calisto y Melibea pubblicata a Burgos nel 1499. Tale titolo faceva riferimento al termine Comedia e al fatto che, in alcuni aspetti della veste grafica, l’opera poteva essere considerata un’opera teatrale. Essa mancava delle prime pagine e si presenta con una xilografia che riassume l’argomento riportato sotto. Essa ci dice che un giorno un cavaliere a caccia, nell’inseguire il suo falcone, entra nel giardino di Melibea. (Da notare gli elementi simbolici) Egli una volta vista la fanciulla se ne innamora ma non trovando il modo giusto di Per scoprire il nome e la sua provenienza dobbiamo unire la prima lettera di ogni verso delle prime undici strofe messe ad inizio libro diventate dunque acrostiche, nella lettera lettera in cui l’autore si scusa. Tramite questa operazione otteniamo tale frase: El bachiler Fernando de Rojas acabò la Comedia de Caliasto y Melibea y fue nacido en la puebla de Montalban. Da questo sappiamo che lo studente Fernando de Rojas terminò la Comedia de Calisto e Melibea e nacque nel paese di Montalbán. L’identità di questo co-autore (“acabó”) fu messa molto in discussione tanto da considerarla un’attribuzione fittizia (come ad es. con Juan Ruiz) finché, ad un certo punto, furono effettivamente scoperti alcuni documenti (tra cui il suo testamento) che dimostrano la reale esistenza di quest’uomo e dai quali si evince che nacque tra il 1470/76 e morì nel 1541 nella città di Talavera de la Reina (o Talavera de los Reyes) In un altro preliminare dell’opera poi ci viene detto che egli era laureato in giurisprudenza, che esercita la professione e che sarebbe diventato sindaco di Talavera de la Reina. Ci viene inoltre detto che egli era un ebreo converso e che ne avrebbe difesi molto altri (fra cui anche il padre della moglie Leonor Alvarez de Montalban) dall’accusa di cripto giudaismo. Per spiegare tale accusa bisogna aprire una parentesi di carattere storico culturale: Fino al XII secolo sappiamo che in Spagna cristiani, musulmani ed ebrei vissero in un clima pacifico e di tolleranza reciproca tanto che il territorio venne chiamato “Spagna delle tre religioni”. Con la conquista di Al Andalus sappiamo infatti che arabi e cristiani potevano continuare a mantenere il loro culto in un territorio con religione diversa tramite il pagamento di alcuni tributi. Intorno al 1300 però, a causa delle diverse epidemie di peste e dai numerosi periodi di siccità si ebbe un forte impoverimento del cosiddetto “popolino” il quale si tradusse in una serie di predicazioni che imputavano agli ebrei la causa di queste disavventure. Essi furono attaccati soprattutto perché, a partire dall’alto medioevo, si erano particolarmente distinti nel commercio e nella gestione di soldi, diventando una nascente borghesia. Gli ebrei inoltre, proprio per il loro ruolo di intermediari tra musulmani (parlando anche loro una lingua semitica) e cristiani si distinsero per il patriziato burocratico, cioè cominciarono ad ottenere importanza anche nell’amministrazione burocratica proprio per la loro spiccata intelligenza. Questo li rese dei facili bersagli agli occhi del popolo che li accusò di essere la causa della sostanziale penuria di alimenti nei mercati ma addirittura di diffondere l’epidemia, avvelenando i pozzi. Tali predicazioni che incitavano ia comportamenti razziali diedero vita ai cosiddetti progrom, ovvero l’assalto alle sinagoghe, ai quartieri ebraici e alle persecuzione. Alcuni di questi progrom rimasero alla storia come: gli eccidi del 1391 che portarono ad un vero e proprio sterminio delle comunità ebraiche. L’idea della “Spagna delle tre regioni“ dunque tramontò definitivamente quando i Sovrani, che avevano sempre apprezzato il contributo dell’intelligenza ebraica (molta dell’opera di traduzione e divulgazione di opere greche si deve proprio gli ebrei che, parlando una lingua semitica, costituirono proprio un ponte tra lingua romanza e le lingue semitiche), a partire da Enrico IV (regnò dal 1454-1474), cominciarono a chiedere alla chiesa romana la possibilità di impiantare in Spagna i tribunali della Santa Inquisizione. Tale richiesta inizialmente fu rifiutata dal Papa ma venne poi rinnovata nel 1478 dai Re Cattolici, il cui potere mirava a cavalcare il risentimento popolare per ottenere l’unificazione. Tutti gli ebrei furono costretti a convertirsi, chiunque si rifiutasse doveva lasciare il territorio determinando l’esodo degli ebrei dalla Spagna (molti si rifugiarono sulle coste del Marocco). Allo stesso tempo però, il tribunale della Santa inquisizione, inizio ad indagare su quegli ebrei convertiti per accertarsi della sincerità del gesto, una sorta di caccia alle cosiddette conversioni considerate “false” verso coloro che pubblicamente avevano accettato gli usi e costumi della religione cristiana ma che privatamente mantenevano il culto della religione ebraica, accusati proprio di cripto giudaismo. La polizia inquisitoriale era però insufficiente a controllare che ogni famiglia rispettasse i riti cristiani anche in casa e dunque si stabilì una sorta di controllo sociale. Ognuno poteva denunciare il proprio vicino di giudaizzare o di sospetto cripto giudaismo. Coloro considerati colpevoli si vedevano sottratti di ogni bene consentendo anche alle casse della corona di arricchirsi notevolmente e costruendo una nuova società fortemente dilaniata. Fernando de Rojas dunque scrive in questo determinato contesto storico, in cui molti elementi della trama (passione degli amanti, la figura della strega) potevano risultare compromettenti per un autore ebreo converso (chiamati anche cristianos nuevos) il quale, come disse Gilhelm (controlla nome, uno dei più grandi studiosi de La Celestina) fu costretto a vivere esiliato nel suo stesso paese. !! Gli ebrei in Spagna erano chiamati Sefarditi poiché chiamavano la loro Spagna Sefarad. Lettera a su amigo: Tale lettera può essere considerata un primo prologo dell’opera e contiene informazioni molto importanti circa la paternità dell’opera, le circostanze in cui fu scritta/continuata e sul suo messaggio. El autor a un su amigo (Toledo 1500) Suelen los que de sus tierras ausentes se hallan considerar de qué cosa aquel lugar donde parten mayor inopia o falta padezca, para con la tal servir a los conterráneos,3 de quien en algún tiempo beneficio recibido tienen. E viendo que legítima obligación a investigar lo semejante me compelía para pagar las muchas mercedes de vuestra libre liberalidad recibidas, asaz veces retraído en mi cámara (acostado sobre mi propia mano, echando mis sentidos por ventores e mi juicio a volar) me venía a la memoria, no sólo la necesidad que nuestra común patria tiene de la presente obra por la muchedumbre de galanes e enamorados mancebos que posee, pero aun en particular vuestra misma persona, cuya juventud de amor ser presa se me representa haber visto y dél cruelmente lastimada, a causa de le faltar defensivas armas para resistir sus fuegos. Las cuales hallé esculpidas en estos papeles; no fabricadas en las grandes herrerías de Milán, mas en los claros ingenios de doctos varones castellanos formadas. E como mirase su primor, sutil artificio, su fuerte e claro metal, su modo e manera de labor, su estilo elegante, jamás en nuestra castellana lengua visto ni oído, leílo tres o cuatro veces. E tantas cuantas más lo leía, tanta más necesidad me ponía de releerlo, e tanto más me agradaba y en su proceso nuevas sentencias sentía. Vi no sólo ser dulce en su principal historia o ficción toda junta, pero aun de algunas sus particularidades salían deleitables fontecicas de filosofía; de otras, agradables donaires; de otras, avisos e consejos contra lisonjeros e malos sirvientes, e falsas mujeres hechiceras. Vi que no tenía su firma del autor; el cual, según algunos dicen fue Juan de Mena, e según otros Rodrigo Cota. Pero, quienquiera que fuese, es digno de recordable memoria por la sutil invención, por la gran copia7 de sentencias entregeridas8 que so color de donaires tiene. ¡Gran filósofo era! E pues él, con temor de detractores e nocibles lenguas, más aparejadas a reprender que a saber inventar, quiso celar e encubrir su nombre, no me culpéis si, en el fin bajo que lo pongo, no expresare el mío. Mayormente que, siendo jurista yo, aunque obra discreta es ajena de mi facultad e quien lo supiese diría que no por recreación de mi principal estudio, del cual yo más me precio, como es la verdad, lo hiciese; antes9 distraído de los derechos, en esta nueva labor me entremetiese.10 Pero, aunque no acierten, sería pago de mi osadía. Asimismo pensarían que no quince días de unas vacaciones, mientras mis socios11 en sus tierras, en acabarlo me detuviese, como es lo cierto; pero aun más tiempo e menos acepto. Para disculpa de lo cual todo, no sólo a vos pero a cuantos lo leyeren, ofrezco los siguientes metros. E porque conozcáis dónde comienzan mis mal doladas12 razones y acaban las del antiguo autor, en la margen hallaréis una cruz, y es el fin de la primer [es]cena. Vale.13 Già da una prima lettura è possibile notare la forte retoricizzazione del linguaggio. Normalmente sappiamo che il prologo ha la funzione di rendere il pubblico benevolo, attento e ben disposto attraverso una serie di motivi tradizionali tra cui quello di esaltare l’utilità dell’opera e la falsa modestia: lo scrittore si descrive come incapace o si presenta come il traduttore o rinvenitore dell’opera per rendere il lettore benevolum, attentum, docilem. Tale prologo ha infatti la struttura di una dedica (molto ricorrente in epoca medievale e solitamente rivolta o ad un amico o ad un protettore). In questo caso ci si rivolge ad un amico anonimo, definito in narratologia il narratario, una figura speculare al narratore rappresentante il destinatario ideale di cui, in questo caso, sappiamo essere certamente innamorato. L’autore scrive all’amico innamorato per offrirgli “defensivas armas para resistir al fuego del amor”, ovvero per offrirgli armi non reali, ma parole che ad oggi abbiamo grazie all’ingegno degli uomini sapienti —> L’opera dunque è scritta per mettere sull’avviso l’amico dai mali in cui potrebbe incorrere a causa dell’amore. Poco prima l’autore mette l’amico insieme ai molteplici innamorati della sua patria che hanno bisogno di quest’opera. —> ecco il motivo in cui l’opera viene esaltata per la sua utilità. Nella prima parte poi l’autore ci dici che coloro che sono lontani dalla propria terra (come lui) si sentono obbligati a ringraziare per le grazie ricevute dalla propria terra e dall’amico e lui lo farà facendo conoscere la propria opera —> da qui ne ricaviamo che l’intera opera è scritta per aiutare l’amico a difendersi dalle insidie che derivano dal suo amore ed essa è definita “una riprobazione scritta contro l’amore mondano”. In questo modo Rojas fornisce all’autore le intenzioni con le quali sta scrivendo il testo, intenzioni di carattere pedagogico e morale per i giovani innamorati. Anche qui dunque, come ne El libro de Buen Amor, raccontando l’opera una storia molto particolare di un amore tra due giovani nei quali poi si inserisce anche la figura di una strega, l’autore nel prologo la presenta come un exemplum a contrariis, una storia in cui l’autore narra una storia illecita o licenziosa per mettere in guardia dei mali in cui si può incorrere se ci si comporta come i personaggi.
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