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Lezioni etnostoria prof. Bellantonio, Sbobinature di Antropologia Culturale

Trascrizione precisa e dettagliata di tutte le lezioni di etnostoria della prof. Loredana Bellantonio

Tipologia: Sbobinature

2019/2020

Caricato il 02/09/2020

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Scarica Lezioni etnostoria prof. Bellantonio e più Sbobinature in PDF di Antropologia Culturale solo su Docsity! 16 marzo L'ETNOSTORIA è una disciplina antropologica e quindi muove dalle stesse premesse dell'antropologia, ma la sua diversità da quest'ultima sta soprattutto nella metodologia e nel legame al territorio (e quindi a quella dimensione di ricerca caratteristica di ogni territorio). Come tutte le discipline antropologiche ruota attorno ad un concetto fondamentale che è il concetto di cultura. LA CULTURA L'antropologia studia la cultura dell'uomo che si differenzia da tutti gli altri esseri viventi proprio per la sua "produzione" di cultura. Inoltre l'antropologia ha sempre dialogato con tutte le altre discipline come ad esempio pedagogia,sociologia, psicologia, ecc. proprio perché al centro del suo interesse vi è l'uomo e tutto ciò che l'uomo pensa, dice e fa (Giuseppe Pitrè diceva: “noi ci occupiamo di tutto ciò che l'uomo fa e dice”) Dunque questo voleva dire che ci occupiamo della totalità dei comportamenti umani. In questo senso la ricerca antropologica ha un approccio olistico, la radice di questo termine è "olin" cioè tutto. Questo vuol dire che l'antropologia da un lato si occupa di tutto ciò che l'uomo produce (sì intende non solo produzioni materiali ma anche idee, simboli ecc), dall'altro lato questo accade perché anche la cultura è olistica. È importante comprendere che la cultura copre tutti gli aspetti della nostra vita. L'uomo per poter vivere e relazionarsi con il contesto ambientale e con gli altri uomini ha bisogno della cultura. Definizione di CULTURA: “La cultura è un complesso di idee, simboli, comportamenti, disposizioni storicamente tramandati, acquisiti, selezionati e largamente condivisi da un certo numero di individui con cui questi ultimi si accostano al mondo sia in senso pratico, sia intellettuale”. (definizione dell'antropologo Ugo Fabietti 2012). Questa definizione ricalca in parte la prima definizione di cultura che è stata data in senso antropologico nel 1871, la prima definizione di cultura già riconosceva che tutti gli uomini sono portatori di cultura mettendo tutti gli uomini sullo stesso piano. Analisi della definizione:  "Tramandati" vuol dire che l'apprendimento è quasi sempre informale, spontaneo, ed è quel processo che consente alle generazioni precedenti di trasferire il proprio sapere alle generazioni più giovani.  "Selezionati" significa che tra le possibilità di scelta soltanto una è stata selezionata e considerata valida da un numero di individui ( il che significa che nelle società complesse possono esistere più configurazioni culturali alle quali partecipiamo in modo minore o maggiore).A cosa serve tutto questo sapere? Serve ad accostarsi al mondo sia da un punto di vista pratico sia in senso intellettuale.  “Simboli” Una delle capacità che ha solo l'uomo è quella di produrre e usare simboli. Corrisponde all'uso di parole o cose il cui significato rinvia ad altro rispetto alla datità segnica del termine stesso (esempio: il significato di bandiera è simbolico poiché ci riferiamo sia all’oggetto in sè, ma questo rimanda ad una nazione, territorio, persone che condividono territorio spazio e ideologie). Il valore del simbolo non è universale, possiamo ritrovarlo anche in altre culture però con significati diversi. I simboli possono avere valore sacro oppure valore profano, ed anche in questo caso il significato è legato al contesto culturale (esempio: la croce ha un significato simbolico religioso per i popoli cristiani ma questa rapportata a contesti che non conoscono il cristianesimo non ha lo stesso significato e costituisce solo due pezzi di legno incrociati che posso rimandare a diversi significati ed usi).  “Comportamenti” i comportamenti di ogni individuo sono legati al contesto culturale in cui sono appresi e condivisi. Dunque i comportamenti che noi assumiamo quotidianamente non hanno validità assoluta e non sono universali ma sono determinati dall'ambito culturale in cui viviamo. (Es: usare le posate a tavola oppure le bacchette cinesi oppure le mani). Di conseguenza non si parla DELLA cultura ma DELLE culture. LE CULTURE fanno riferimento a precisi contesti geografici, territoriali, temporali e sono più o meno soggette a trasformazioni. Perché nasce la cultura? A quale bisogno risponde la cultura? La cultura nasce come risposta dell'uomo al suo bisogno di relazionarsi, e come risposta ai bisogni in generale primari e secondari. Gli uomini quando vengono al mondo trovano un mondo già preconfezionato, infatti lasciamo in un contesto che ha le sue regole, i suoi valori, comportamenti ecc. Dunque la cultura ci dà struttura. La cultura ci dà un IDENTITÀ. Le specificità culturali fanno di noi ciò che siamo, ma ci pongono in una relazione dialettica con l'ALTERITÀ e con questa alterità noi dialoghiamo nei termini di accettazione ma anche di conflitto. Infatti il concetto di identità comporta anche delle chiusure, dunque da un lato ci serve ma dall'altro costituisce un limite. Il concetto di identità rinvia ad un altro termine ovvero quello di ETNOCENTRISMO(ne parla più in là) Cirese affermava che per parlare di cultura bisogna tenere presenti i 4 Fattori: 1) antropos =l'uomo; 2) etnos = il gruppo; 3) oicos = (lett. "Casa") spazio; 4) cronos= il tempo Secondo lui ed altri antropologi l'uomo è colui che in qualche modo non solo crea la cultura ma è anche il "condotto capillare" di questa ovvero la trasmette. Un espressione culturale per essere tale non può riguardare soltanto l'antropos ma anche l'etnos, cioè deve essere condivisa dal gruppo, da tutta la comunità. ( Ad esempio se un individuo fa un'invenzione ma questa non viene condivisa dal gruppo e non viene usata non può appartenere a quella cultura). Quindi perché avvengano i processi culturali c’è necessità di un legame tra antropos (uomo) ed etnos (gruppo). Inoltre ogni cultura deve essere posizionata in uno spazio ed in un tempo, infatti questa cultura cambia a seconda del tempo e del territorio dove è nate ed è legate. (Ad esempio per quanto riguarda il tempo, se noi analizziamo la cultura siciliana di oggi è diversa da quella di 50 anni fa). METODOLOGIE dell’etnostoria La ricerca etnostorica si conduce secondo delle modalità ampiamente condivise. Tra queste modalità ad esempio vi è la RICERCA SUL CAMPO che porta l'antropologia a condurre la ricerca in stretta relazione con il gruppo studiato e a diretto contatto con il contesto investigato e con i gruppi che operano in quel contesto. Altre metodologie sono l'osservazione partecipante, questionari, interviste. APPROCCIO ETICO ED EMICO Questi due sono due facce della stessa medaglia. Approccio emico= (ottica del nativo) si riferisce al punto di vista degli attori sociali, alle loro credenze ai loro valori. Approccio etico= (ottica dell'osservatore) si riferisce invece alla rappresentazione dei medesimi attingendo da altre discipline diverse dall'antropologia. Queste etnofonti (sia quelle che appartengono alla tradizione sia le "storie di vita") devono essere considerate secondo Rigoli dei documenti storici, e bisogna renderle entrambe in considerazione perché le fonti prodotte da un individuo (quindi con valore antropemico "antropos"=uomo) hanno delle ricadute sul gruppo etnemico ("etnos"=gruppo). Solo così si ha una visione completa. Le etnofonti orali non formalizzate devono essere verificate attraverso l'utilizzo di interviste strutturate (cioè si fanno domande chiuse ben precise che sono volte a verificare l'attendibilità delle info ottenute da ciò che ha detto l'informatore). Questo perché dietro ai narrati personali possono nascondersi incongruenze o problemi (come ad esempio un vuoto di memoria dell'intervistato, oppure sovrapposizione di eventi, oppure i fatti raccontati possono appartenere ad un evento che non è quello analizzato ma uno successivo o precedente). Rigoli continua affermando che una volta ottenuta tutte queste informazioni si è arrivati a farsi un idea del tema trattato, ma il materiale ottenuto deve essere ulteriormente analizzato secondo le due categorie: (1) quella delle azioni e comportamenti e (2) quella delle valutazioni e considerazioni. E quindi capire se è la materia che abbiamo raccolto è ascrivibile ad una di queste due categorie. LA STORIA INTEGRALE Rigoli afferma che vi è: da un lato la STORIA UFFICIALE= quella che è stata tracciata riferendosi alle fonti bibliografiche, dunque alle fonti scritte cosiddette "ufficiali"; dall’altro lato vi è la CONTRO-STORIA=(che spesso si oppone alla storia ufficiale ) tracciata dalle etnofonti/fonti orali (che si dividono in formalizzate e tradizionalizzate e non formaliz. e non tradiz.) Dal tracciato che emerge dalle fonti bibliografiche, si ottiene una determinata descrizione dell'evento, questa descrizione può essere confermata o sconfessata dalle fonti orali che abbiamo recuperato durante la ricerca sul campo, quindi possono verificarsi delle contraddizioni. A questo punto non si è autorizzati a dire che sono vere quelle informazioni che derivano dal prospetto bibliografico (quindi dalle cosiddette fonti “ufficiali”) e invece sono false quelle della contro-storia, ma entrambe le ricostruzioni vanno a costituire le due facce della stessa medaglia e servono per ricomporre quella che Rigoli chiama la STORIA INTEGRALE cioè che tenga conto sia dei dati che emergono dalla bibliografia sia di quelli che emergono dalla ricerca sul campo, fornendo anche una prospettiva subalterna che si oppone alla prospettiva egemone. Prospettiva egemone= quella che viene fuori dalle fonti ufficiali Prospettiva subalterna= quella che emerge dalle fonti orali e che viene definita contro-storia. Afferma Rigoli che se le utilizziamo entrambe abbiamo una definizione dell'evento a tutto tondo. Però le fonti scritte hanno sempre goduto di una posizione privilegiata e sono sempre state ritenute più attendibili di quelle orali. Ma le fonti scritte erano create da persone che appartenevano ad un elite culturale e non dal popolo, dunque questo tipo di fonte era definita EGEMONE perché era espressione di una parte della società che deteneva il potere. Di contro la prospettiva SUBALTERNA fa riferimento e rivaluta i narrati delle classi subalterne (inferiori) che normalmente non avevano accesso alla scrittura e quindi narravano la storia attraverso l'oralità. Cirese volle mettere in evidenza che le classi subalterne non avevano mai avuto l'opportunità di esprimere la loro posizione. Questa analisi che fece Cirese può essere ricondotta ad un analisi che fece molto tempo prima Salvatore Salomone Marino il quale aveva parlato di una storia senza potere cioè costruita dalle classi subalterne che prive di potere la storia l’avevano subita. Dunque Salomone M. voleva riconoscere anche la prospettiva della classe subalterna che poteva essere differente dalla prospettiva delle fonti ufficiali e quindi voleva riconoscere come valide le etnofonti/fonti orali. Ritenendo che l'evento storico può essere letto da più strati sociali. (Ad esempio nei canti siciliani il popolo non sembra a favore della Rivoluzione francese ma a favore dei re perché all'epoca la monarchia era l'unica espressione di governo che ritenevano come valida). dunque il tracciato che emerge da fonti ufficiali deve essere messo a confronto con il tracciato che emerge dalle etnofonti. solo tenendo conto di tutte le fonti si ha una visione più completa (storia integrale). che è quella che vuole dare rigoli senza ritenere che le etnofonti siano migliori di altre. L'ETNOSTORIA nei confronti della storia e dell'antropologia si propone come storia integrale proprio perché mette insieme le istanze della storia e quelle dell'antropologia. Nel suo Saggio "l'epistemologia dell'etnostoria" (cioè come nasce le etnostoria), Rigoli dice: "il neologismo etnostoria designa un metodo di anamnesi storiografica (quindi un metodo per la ricerca storiografica) i cui antecedenti si possono rintracciare nel rapporto folklore-storia che era stato istituito già dai demologi italiani" qui lui fa riferimento agli studi condotti da Salvatore Salomone Marino sulla relazione che esiste tra folklore e storia. Continua: " questo termine etnostoria era stato coniato dagli etnografi americani che intendevano indicare una vocazione storica dell'antropologia" cioè dice Rigoli, ad un certo punto l'antropologia vuole farsi storia, quindi l’etnostoria indica la vocazione e desiderio dell'antropologia di diventare storia. Ma per diventare storia non deve soltanto occuparsi dei temi della storia ma deve anche usarne le fonti. Loro avevano il desiderio di tracciare una storia dei popoli indiani sulla base delle tradizioni e dei dati raccolti su campo, ma queste fonti non erano storiche. Quindi si capisce che questi studiosi da un lato desideravano fare la storia delle comunità che stavano studiando ma dall'altro però si trovavano ad avere una carenza di fonti scritte e quindi le loro fonti erano orali. Ma questi studiosi ritenevano che anche se non trovavano fonti scritte, non significava che non potessero tracciare la storia perché questa si può tracciare lo stesso sulla base di quanto emerge dalle fonti orali. Quindi si tratta di una STORIA AUTOCTONA cioè degli individui che appartengono ad una determinata comunità che (come dice Rigoli) poteva prendere corpo attraverso il narrato degli INFORMATORI (definiti veri e propri archivi ambulanti), questi informatori si erano specializzati nel tenere a memoria molti aspetti di una comunità. (ad esempio nei contesti africani vi erano i Griots, cioè specialisti che conoscevano a memoria tutta la storia della propria comunità o delle famiglie che andavano a rappresentare).Dunque queste figure diventarono la fonte principale per le ricostruzioni etnostoriche operate dagli antropologi e storici (uno di questi era Vanzina). Il problema che riguarda la storia di Vanzina è che da un lato vi era la storia autoctona quindi prodotta dagli indigeni stessi, ma dall'altra parte trattandosi di contesti coloniali vi erano fonti che provenivano proprio dai colonizzatori quindi le fonti scritte in questo caso appartenevano,non solo ad una dimensione egemonica, ma addirittura ad una dimensione che apparteneva a contesti completamente diversi da quelli indigeni cioè quelli dei colonizzatori. 23 marzo Testo Viazzo: pag. 95/97 (Claude Levi Strauss: arte e cultura) L’obiettivo di Viazzo è quello di ricostruire la storia dei rapporti tra storici e antropologi, di come questo dialogo si sia ispessito e come questi studiosi si siano allontanati seguendo i loro punti di vista e le loro metodologie. Le prospettive sono diverse in base all’oggetto di studio. L’oggetto di studio dell’antropologia è rappresentato da società che normalmente si trovavano in contesti geografici lontani rispetto al mondo di formazione culturale dell’antropologo. L’antropologia si caratterizzava per lo spostamento del ricercatore verso contesti diversi. Dopo anche gli storici hanno operato in tal senso. La ricerca sul campo, caratteristica peculiare degli antropologi, comportava una relazione con un’umanità diversa. Solitamente quest’umanità non aveva la scrittura e documentazione, perciò siamo in presenza di società illetterate, cioè erano culture in cui le conoscenze erano tramandate oralmente. Per queste comunità era complesso documentare la storia. La metodologia di ricerca risentiva della mancanza di documenti. Era una necessità realizzare ricerche di tipo sincronico, cioè che ritraevano la società così come si presentava nel momento in cui lo storico la studiava, che dovesse risalire più indietro nel tempo. Di questa metodologia si giovarono anche alcuni storici come Vansina. La metodologia di ricerca sul campo è stata in realtà ritrovata in tutti i contesti delle scienze sociali, come pedagogia, sociologia ecc. Bronislaw Malinowski (1884-1942) Famoso per aver messo in campo per la prima volta il metodo dell’osservazione partecipante. Questo metodo a volte non è applicabile perché quando questa modalità di ricerca venne proposta c’era una situazione in cui l’osservatore e l’osservato appartenevano a culture diverse, perciò la possibilità che sorgessero equivoci era molto alta, quindi era necessario imparare la lingua e seguire la vita di questi gruppi condividendo con loro le attività. Quando ci si trova con una classe scolastica invece la condivisione della cultura è più ampia, quindi alcune delle condizioni che hanno portato a questo metodo, nei nostri contesti sono attenuate. Quello di cui parlano gli antropologi è la restituzione, cioè il momento in cui il gruppo è messo a conoscenza di quanto sta realizzando e suggerisce delle modifiche. Questo metodo è molto antico, messo in campo più di 100 anni fa, negli anni 19-20 dello scorso secolo. L’opera fondamentale di Malinowski Malinowski, durante la prima guerra mondiale si ritrova nell’Oceano Pacifico e visita le isole Trobiant e su questa esperienza scrisse un’opera dal titolo “Argonauti del Pacifico Occidentale”, in cui spiega le sue ricerche nelle isole Trobiant. Il termine “argonauti” non è un’espressione che i popoli conoscevano (fa parte della mitologia greca), ma lui era imbevuto di cultura classica, quindi usa questo termine perché gli argonauti erano marinai che ceravano l’animale fatato da dare all’oracolo, quindi viaggiavano molto. Perciò Malinowski usa questo termine per sottolineare una attività tipica di questi abitanti delle isole del Pacifico Occidentale, che periodicamente si spostavano da un isolotto a un altro, per realizzare una cerimonia molto complessa che si chiamava “il sistema di scambio cerimoniale Kula”, cioè una vera e propria forma di transazione operata attraverso una cerimonia che serviva a garantire benessere e pace agli abitanti di questi isolotti consentendo l’approvvigionamento di beni che non erano presenti ovunque. La cerimonia consisteva quindi in questo sistema di scambio in cui venivano scambiato oggetti che avevano molto valore e prestigio per chi le indossava o possedeva. Malinowski sottolinea che l’obiettivo dell’antropologo è quelo di cogliere il punto di vista dell’indigeno, cioè non raccontare quello che lui vedeva ma cercare di comprendere come l’altro interpreta il suo mondo. Cogliere il punto di vista dell’altro significa accantonare i propri schermi mentali e tentare di entrare in un forma mentis diversa. Questo presuppone il dialogo e un reciproca trasformazione, quindi conoscere anche l’alterità e la cultura dei vari popoli. L’empatia era una caratteristica di Malinowski perché esogamia, Io rinuncio a mia madre o a mia sorella o a mia figlia e le rendo disponibili per altri gruppi. Questo sistema è il primo passo verso la comunicazione in senso linguistico che vede la comunicazione di beni e servizi. Lo scambio deve essere reciproco. Per ogni uomo che si priva delle proprie donne, ce ne deve essere un altro che fa lo stesso. Le donne diventano quindi mezzo di comunicazione e parti essenziali di un discorso di comunicazione e di cultura. Questa regola dell’esogamia è evidente in quello che Levy Strauss definisce “atomo di parentela”, cioè la struttura elementare di tutti i vari sistemi di parentela. Il termine “’atomo” è importante perché rivela questa modalità di scambio: una parentela era costituta da madre, padre, figlio e fratello della moglie, (lo zio materno). Il tabù dell’incesto è universale perché anche se di volta in volta riguarda persone diverse è pur sempre presente. Se è universale l’incesto lo è anche la regola dell’esogamia, ma non sono universali le categorie di persone che vengono di volta in volta coinvolte. Da noi ad esempio non è concepito il matrimonio fra uno zio e una nipote. Allora diceva Levy Strauss che tutte le società conoscono il tabù di incesto, ma le persone di volta in volta coinvolte sono diverse, tant’è che presso alcune società ad esempio il matrimonio fra cugini di primo grado viene considerato come forma di matrimonio migliore. L’atomo di parentela è una struttura parentale minima, al di sotto della quale non si può andare e mette in evidenza il processo di scambio. La varietà delle strutture elementari è enorme, ma tutte hanno alla base l’atomo di parentela. La presenza dello zio di indica che c’è uno scambio perché le forme di matrimonio avvenivano attraverso lo scambio: io scambio mia figlia per ottenere in cambio un’altra donna. Queste norme erano di carattere generale, poi ci sono le eccezioni, se non c’erano sorelle o figli maschi. Ogni società ha trovato strategie per sopperire a situazioni particolari. Ad esempio se in una famiglia c’erano solo femmine e non maschi non si poteva sperare nella continuità di un nome o nella trasmissione di terreni, quindi ad esempio nel popolo dei Nouer la donna A sposa un’altra donna (B), consentendole di procreare e scegliendo un uomo con il quale la donna B si sarebbe dovuta accoppiare. A questo punto quindi, la donna A assumeva le funzioni di padre, mentre l’uomo (il padre biologico) era genitore, ma non aveva nessun ruolo all’interno della famiglia. Il nascituro otteneva i privilegi di quella famiglia e si rivolgeva alla donna A come se fosse il padre. La teoria di Levy Strauss è generale, che non riguarda alcune situazioni particolari in cui ci si organizzava diversamente. Il concetto di razza per Claude Levy Strauss Levy Strauss si è interessato anche alla problematica relativa alla discussione secondo la quale l’antropologia si occupasse o meno di storia e quindi si è interessata o meno ai problemi di razze ecc. Levy Strauss è conosciuto infatti soprattutto per il saggio che riguarda l’antropologia e il concetto di razza e storia. Subito dopo la seconda guerra mondiale, gli antropologi vennero coinvolti nella stesura di una dichiarazione sulla razza, che servisse a smentire il concetto di razza e a promuovere una ideologia diversa da quella che aveva dominato nei decenni precedenti. Questo antropologo pertanto fa parte di una commissione che redige questa dichiarazione e nel 1952 scrive un saggio che si chiamava prima “razza e storia” e poi “razza e cultura”, pubblicato nell’opera “Razza e storia e altri studi di antropologia”. Nel periodo in cui lui scrive, ancora la genetica non aveva fatti i progressi di oggi, ma già si sapeva bene che il conetto di razza non esiste perché non ci sono qualità diverse negli esseri umani, ma la diversità fra etnie emerge soprattutto nei differenti caratteri somatici, che portano erroneamente a pensare che esistano razze diverse. Nei geni non ci sono differenze che possono far parlare di razze. Levy Strauss va a confutare l’idea della razza ma si sofferma molto sul concetto di cultura e sul fatto che la storia non sia appannaggio esclusivo dei popoli civili, ma anche dei popoli cosiddetti primitivi. Un genetista, Barbujani, dice che l’Europa è stata conquistata da popolazioni che provenivano dall’Africa, che sarebbe quindi proprio il luogo fisico da cui provennero questi gruppi, i quali avevano la pelle nera e gli occhi verdi, pertanto le prime popolazioni europee erano nere e, dopo altre migrazioni, la pelle degli europei si è schiarita. Mentre in Africa rimane nera a causa delle condizioni climatiche. Noi possediamo tre o quattro teorie sul razzismo ma in realtà ne sono state formulate tantissime, a tal punto che si arrivò ad ipotizzare che esistevano 200 razze. Levy Strauss parlò di queste problematiche studiando le culture più complesse e quelle più semplici, per riuscire a capire se è possibile parlare di ricerca antropologica e di ricerca storica. 24 marzo Slide Saggio Claude Levy Strauss In questo saggio vengono affrontati alcuni argomenti fondamentali: il concetto di diversità culturale, la critica al concetto di razza e una posizione originale per ciò che riguarda il concetto di storia. Levy Strauss si sofferma a discutere sul concetto di razza e sui teorici che lo avevano formulato chiamando in causa Gobineau perché aveva dato il via alla riflessione sul concetto di razza Opera Gobineau Gobineau non era uno scienziato ma un pensatore. Il suo saggio assume quasi il valore di un documento scientifico riscuotendo un grande successo. L‘opera che Gobineau scrisse si chiama “Saggio sulla disuguaglianza delle razze umane”, pubblicato nel 1953-1954. In quest’opera egli mette l’accento sulla disuguaglianza, operando pertanto un distinguo su cose che non hanno fondamenti. Il testo fu molto importante per tutti coloro che sostenevano l’esistenza delle razze. Gobineau si era rifatto ad un altro pensatore che riprende l’idea della distribuzione delle razze individuando 3 razze: bianca, nera, gialla che venivano disposte in una gerarchia dalla superiore all’inferiore. Il problema era quello di aver attribuito ad ogni razza delle qualità e dei difetti, ritenendo quindi che alcune sono migliori di altre. Ad ogni razza corrispondono caratteristiche morali e psicologiche. Questo portò all’affermazione di un’inferiorità dei neri, che venivano considerati meno intelligenti dei bianchi. Secondo tale autore citato da Gobineau il problema derivava dal fatto che queste razze si fossero mescolate favorendo una degenerazione  La razza gialla è definita materialista, incapace di esprimere pensieri metafisici;  la razza nera presenta sensi sviluppati all’eccesso e modesta capacità intellettiva;  la razza bianca invece è la migliore perché incarna le virtù della nobiltà e i valori aristocratici oltre all’amore per la libertà. Questa razza sarebbe originaria dell’India e si sarebbe sovrapposta alle prime popolazioni europee. Diversità di razza o diversità di cultura? Claude Levy Strauss dice invece che le razze non esistono perché è vero che i diversi caratteri somatici delle varie popolazioni non possono essere negati e che attraverso questi si può individuare la zona di provenienza, ma a queste differenze non possono essere attribuite qualità migliori o peggiori. Il discorso si deve spostare quindi dalla discussione sterile sulle razze a quella che riguarda le culture. Bisogna discutere del fatto che le culture sono più numerose delle razze e sono diverse. Il concetto di diversità non è applicabile alle razze, ma alle culture che sono molto diverse. Questo concetto di diversità di una cultura rispetto a un’altra è un concetto dinamico perché non riguarda solo il confronto tra due culture diverse ma anche all’interno della stessa cultura. Esistono numerosissime suddivisioni di gruppi che sono portatori di specificità e questa diversità è destinata a continuare nel tempo. Le società non sono statiche. La diversità caratterizza le culture umane. Levy Strauss dice che l’antropologo ha la possibilità di recarsi a conoscere popoli anche privi di scrittura. Lo storico non può andare indietro nel tempo a incontrare popoli del passato, quindi la possibilità di entrare a contatto con popoli diversi è una caratteristica degli antropologi che come lui si recavano in vari posti della terra. Secondo Levy Strauss bisogna conoscere tutte le culture per comprendere come e perché esistono le differenze e questo potrebbe spostare la discussione dal concetto di differenza di razza a quello di differenza di culture portando all’idea di una cultura più o meno complessa e riproponendo la stessa visione gerarchica che era stata applicata alle razze. Le culture sono diverse per vari motivi, che possono essere ambientali oppure il concetto di habitat influisce sullo sviluppo culturale o perché sono lontane da altri popoli e di conseguenza hanno avuto meno possibilità di dialogare e modificare il loro assetto culturale. Questa diversità non va intesa in maniera statica perché le società non sono mai sole, tranne casi eccezionali di posti isolati geograficamente. Ogni società si giova delle relazioni con altre società sottolineando il concetto di scambio e il dialogo che avviene tra le culture. Levy Strauss sostiene che queste differenze a volte diventano motivo di chiusura in quanto ad esse si attribuisce estrema importanza, cioè si pone l’accento non su ciò che unisce ma su ciò che divide. Queste differenze sono ritenute così significative perché ad esempio in una cultura si fanno alcune cose che in altre culture non si fanno e questo determina la superiorità. Subentra quindi il concetto di etnocentrismo: nel momento in cui si attribuisce importanza alle differenze si cade nell’atteggiamento etnocentrico. La diversità delle culture è dovuta alle relazioni che uniscono le culture. Ciò che deve farci apprezzare la diversità è l’isolamento dei gruppi. Maggiore è la relazione con altri gruppi, maggiore è il grado di diversità. Ogni gruppo umano riceve dagli altri gruppi dei tratti che rendono la propria cultura sempre più originale. Questa posizione di Levy Strauss matura da studi precedenti condotti da Franz Boas, il quale parla della trasmissione culturale che avviene o fra individui che appartengono a due culture diverse oppure indirettamente perché c’è un trasferimento tra una cultura e l’altra senza che ci siano stati contatti reali. Ad esempio il baco della seta che arrivò dalla Cina, ma che era stato portato dai cacciatori all’interno di una canna di bambù senza che ci fosse un contatto diretto fra Cina ed Europa. La diversità delle culturale diviene l’occasione per giudicare in modo negativo le altre culture, perché spesso le differenze diventano l’elemento scatenante per affermare che la propria cultura sia migliore della propria. L’etnocentrismo però ci porta a considerare ciò che ci è noto come migliore rispetto a ciò che è diverso da noi. Levy Strauss condanna questo atteggiamento perché non favorisce il dialogo e lo scambio fra le culture, che invece è l’unica cosa che consente una crescita. Egli è favorevole al dialogo e alla contaminazione fra le culture. Levy Strauss dice che l’etnocentrismo ha portato gruppi umani a ritenere che la diversità fosse sinonimo di mostruosità e quindi che si trattasse di qualcosa che non era interpretabile in termini culturali, ma in termini di natura. La mostruosità è qualcosa che ha caratterizzato soprattutto i popoli occidentali che nel momento in cui sono entrati in contatto con una realtà diversa, l’hanno giudicata senza neanche capirla. Questo fenomeno si realizzò in maniera eclatante con la scoperta dell’America (1492). Questo da un lato incrementa la curiosità e la voglia di conoscere e viaggiare, dall’altro però consente di sviluppare dei giudizi assolutamente negativi e di considerare questa umanità come se superiore. Pertanto si ritiene che altre popolazioni siano tecnologicamente meno sviluppate. Ma cambiando l’ordine di questi elementi che ci servono per sviluppare classificazioni, possiamo prendere in esame la conoscenza della flora e della fauna. Se il criterio dominante adottato dagli occidentali nei confronti delle popolazioni del terzo mondo fosse questo, noi saremmo ultimi perché non abbiamo queste conoscenze. La classificazione è operata sulla base di criteri che riguardano colui che sta interpretando la realtà e, cambiando il sistema di classificazione, troviamo che queste culture che vengono considerate inferiori invece non lo sono. La conclusione di Levy Strauss è che il processo culturale deriva dalla coalizione tra le culture, quindi più le culture dialogano tra di loro, più progrediscono. Questa affermazione non si può negare, ma Levy Strauss dice che questa condizione è più feconda soprattutto quando avviene fra culture molto diverse. In realtà abbiamo da apprendere di più da popoli diversi che non da popoli simili a noi. Ci sono visioni del mondo che sono diverse e che possono arricchire la nostra cultura. Ma nel momento in cui tutte queste culture vengono in contatto, il rischio è quello di “omogeneizzazione”, cioè un risultato che porta le culture ad essere omologate e quindi tutte uguali, la cosiddetta globalizzazione. Se si dovesse realizzare una dimensione di questo genere, si verificherebbero degli scatti differenziali all’interno delle società, quindi lo scambio di elementi culturali non avviene nello stesso modo e neanche all’interno della stessa società, ma la soluzione più originale è quella di coinvolgere nel dialogo sempre nuovi partner esterni, quindi Levy Strauss si riferisce a quegli eventi storici che furono l’imperialismo e il colonialismo che in realtà confrontarono non proprio il dialogo con culture diverse. Il concetto è quello di allargare la coalizione immettendo nel dialogo sempre culture diverse. Per progredire occorre che gli uomini collaborino. Man mano che si realizza questa collaborazione, la diversità iniziale, che era l’elemento che aveva favorito il dialogo, in qualche modo si appiana smorzandosi. Pertanto la conclusione è che non si può pensare che esista un cultura privilegiata perché questo può portare a delle conseguenze disastrose, però non è neanche possibile pensare ad una umanità tutta uguale, perché questo avrebbe come conseguenza estrema la presenza di un’umanità cristallizzata. È necessario che le culture nel giovarsi delle diversità delle altre culture si rinnovino procedendo verso la strada della diversificazione. Questo dovrebbe portare ad un atteggiamento di tolleranza. È necessario che l’uomo capisca che la diversità è ricchezza. 30 marzo Saggio di Angelov sul commerciante Irving Questo autore prende in esame alcuni testi dello scrittore Irving. Egli era un commerciante e aveva sentito parlare delle storie dei briganti, pertanto contribuì alla diffusione di un’immagine dell’Italia pervasa dal fenomeno del brigantaggio. Quest’immagine fu esportata al di fuori dell’Europa fino all’America e viene sottolineata l’importanza della leggenda che è assolutamente facile da apprendere e da tramandare. Irving scrisse un testo nel 1824 dal titolo “Storie di briganti italiani”, terza parte della raccolta “Racconti di un viaggiatore”. Per questi personaggi viaggiare era un’esperienza formativa e questo tipo di esperienza veniva condotta anche nel ‘600, cioè il letterato colto completava la sua formazione attraverso questi viaggi e di solito venivano redatti dei diari che ricordavano proprio questi viaggi. Era una formazione nata dal vedere direttamente realtà diverse. L’Italia era una delle mete più gettonate e queste opere dei viaggiatori si nutrono di sensazioni, suggestioni e pregiudizi perché in realtà il viaggiatore è un uomo come tanti altri che, calato in una realtà diversa, è condizionato dalla sua appartenenza culturale. Egli legge gli eventi anche a seconda della sua formazione e infatti non è scevro da pregiudizi. La realtà che incontra Irving in Italia viene considerata arretrata perché lui rapporta la società italiana con quella inglese che rappresenta per lui la civiltà. Irving ricorda pure un’esperienza che aveva condotto quando si era recato nel Lazio all’inizio dell’800 e racconta l’incontro con i briganti. In realtà egli aveva avuto un’esperienza simile ma in altre circostanze. Irving come tutti i viaggiatori del tempo subisce il fascino delle leggende di questi briganti. Le leggende erano diffuse su tutto il territorio italiano con estrema facilità e proponevano un’immagine dei briganti poco aderente alla realtà. La figura del brigante veniva idealizzata secondo in modello che ritroviamo in tutte le leggende: secondo tali leggende il brigante non è un malvivente ma un uomo che ha subìto un torto dalla giustizia e che pertanto tenta di vendicarsi, perciò viene presentato come colui che agisce nell’interesse della gente sia distribuendo i suoi beni che riparando a delle ingiustizie. Quello che è in realtà un malfattore violento, nelle leggende viene visto come un brav’uomo. Anche i viaggiatori erano a conoscenza di queste leggende e allora Irving le usa per tramare questo suo racconto che riguarda le storie di briganti italiani. Il tema dei briganti che assaltavano le corriere e le navi era infatti molto ricorrente. Il brigantaggio aveva diverse cause sociali, politiche economiche ecc. Questa realtà era presente Italia dal XIV secolo. Quindi i briganti venivano visti come degli eroi, ma non era così. I dati reali non traspaiono in quelle che sono le produzioni delle leggende e del narrato orale. Salomone Marino scrive alcune leggende e fra queste alcune sono relative ai briganti, sempre con lo stesso stereotipo del brigante eroe. Quello che si realizza alla fine del 1700, quindi quando queste leggende si attestano per poi essere raccolte da Salomone Marino, ha delle conseguenze sociali. Si trattò di una rivolta dei contadini contro i borghesi. A queste motivazioni di tipo sociale ed economico c’erano state anche le rivolte delle classi strumentali rurali contro la presenza dei francesi. Il fenomeno del brigantaggio trovava molte ragioni per attecchire e per diffondersi. Una repressione a questo fenomeno si ebbe con Burat nel 1815. Il fenomeno era reale ma fra ciò che veniva raccontato e ciò che era reale c’era un abisso. Si attesta quindi un modello culturale che è quello dell’eroe. Il brigante che è un malfattore diviene un eroe giustiziere. Irving non è l’unico autore a fare riferimento alle leggende sui briganti: ad esempio anche Salomone Marino è un demologo che raccoglie nell’opera “Leggende popolari siciliane in poesia” diverse testimonianze, tra cui una in cui diceva che il bosco di Partinico era noto perché si nascondevano banditi. Uno di questi era il bandito Porcasi che sarebbe diventato tale perché era vittima di persecuzione di baroni. Nelle leggende di Salomone Marino è presente pure la figura del celebre brigante Testalonga. L’idea dei briganti era quella di un uomo che toglieva ai ricchi per dare ai poveri. Angelov si chiede quale immagine della società italiana trasmettano questi testi di Irving. Egli sosteneva che Irving con le sue opere favorì la diffusione di un’immagine dell’Italia post unitaria dominata da questo fenomeno del brigantaggio. Angelov mette in evidenza In realtà un’epoca che dovrebbe essere caratterizzata dalla logica è ancora in balìa della cultura popolare, che si serve di stereotipi. Lo stereotipo per eccellenza è quello del brigante buono. Egli sottolinea quindi l’approccio di una storia sociale, cioè analizza i racconti come mediatori sociali i quali a loro volta creano valori e formano mentalità e comportamenti. Il brigante ha un valore positivo e i comportamenti che ne derivano sono in aderenza con questi criteri. Del brigante si ha paura, ma la sua immagine genera rispetto e ammirazione. Ogni società e ogni epoca esprime dei valori a cui non possono che corrispondere precisi comportamenti che ne derivano. Tali comportamenti vanno collocati in una precisa epoca e bisogna avere la consapevolezza di una cultura dinamica, perché se così non fosse, l’idea di un’Italia dominata dai briganti dovrebbe essere ancora radicata. Mentre la fotografia di una società è pertinente a un tempo e un luogo ben preciso, perché la cultura è dinamica. Le realtà presenti in un determinato momento sono immagini che vengono mutate nel tempo attraverso i cambiamenti. La diffusione di uno stereotipo culturale come quello dei briganti generava valori e relativi comportamenti. Questi racconti di Irving furono pubblicati in Inghilterra e negli Stati Uniti, quindi la diffusione fu molto ampia. Irving aveva vissuto un’esperienza diretta con dei briganti che in realtà erano stati sulla sua nave e avevano derubato i viaggiatori. Avendo egli assistito all’esecuzione di un brigante estremamente noto, Giuseppe Musso, sarebbe rimasto impressionato. Questo brigante aveva avuto un ruolo non indifferente nell’assedio di Genova. Quindi i briganti facevano parte di eserciti, erano perciò mercenari che venivano assunti ma che poi vivevano attraverso queste opere di furti e di violenze. Musso, durante una rapina ad esempio uccise tutti coloro che si trovavano in una locanda, quindi Irving si ispirò a queste vicende. I racconti di Irving per quanto trattino una tematica storica non sono documenti storici, cioè attingono a un evento veramente esistito attestando un atteggiamento condiviso. È ovvio che non esistendo un documento storico non c’è un approfondimento delle cause che attestavano la diffusione del brigantaggio. L’effetto negativo che si mette in evidenza non è quello degli atti criminali dei briganti, bensì quello che colpisce il viaggiatore e che gli effetti violenti non riguardano ciò che fa il brigante ma ciò che ha subìto. Un altro romanziere che contribuisce alla diffusione dell’idea di un’Italia dominata dal brigantaggio è Stendhal, il quale nell’opera “passeggiate romane” racconta un atto di brigantaggio capitato a un suo amico, il quale viene derubato mentre si reca da Napoli a Roma. In Italia si chiamavano assassini, banditi, ma non c’era una generale riprovazione come in realtà accadeva in altre parti. Stendhal racconta la modalità di percepire la cura dei briganti e il provare per loro ammirazione considerandoli quasi semidei. Questa testimonianza è importante perché contribuisce a diffondere tali idee. I temi che usa Angelov sono quelli di esotismo e pittoresco. Il primo termine è quello che viene percepito quando è un estraneo a guardare la realtà, il secondo termine si usa quando ci si riferisce a dimensioni proprie. L’esotismo è associato alla violenza, perché viene definita “esotica. Il comportamento del brigante in realtà rispecchia il carattere degli italiani, positivi ma violenti quando si arrabbiano e quindi si afferma che per gli italiani è facile cadere in atteggiamenti criminali. Non sono solo gli stranieri a giudicare negativamente gli italiani, ma anche i turisti inglesi venivano derisi dagli italiani perché erano ritenuti superbi e distaccati, ma anche perché facevano ricorso a strumenti che erano espressione della modernità e di una dimensione di civiltà superiore. La riservatezza viene attribuita agli inglesi, mentre l’emotività e le effusioni verbali sarebbero tipici degli italiani. Siamo al pieno stereotipo culturale che le opere di Irving contribuiscono a diffondere. Temi ricorrenti nelle storie dei briganti: le aggressioni dei briganti nelle regioni di confine dello stato pontificio e del regno di Napoli; le azioni dello stato pontificio contro i briganti; il fatto che i briganti fossero protetti dalla popolazione locale che in qualche modo ne otteneva un beneficio. Un altro elemento ricorrente è quello naturale: il bosco è il luogo nel quale i briganti si nascondono. L’immagine della natura è l’elemento dell’inciviltà contro la civiltà. Altri stereotipi ricorrenti sono: il fatto che a determinare la scelta di una vita da brigante era stato un torto subìto quasi sempre dal rappresentante della polizia, che magari abusando del proprio potere si rendeva o odioso o commetteva delle illegalità e quindi chi aveva subìto questi torti si dava al brigantaggio. Questo stesso stereotipo si trova nel narrato di Salomone Marino. Nel romanzo di Irving a parte lo stereotipo ricorrente è sottolineata anche l’assenza di un governo che possa arginare il fenomeno del brigantaggio. Nessuno interviene perché le popolazioni ne traggono in quale modo beneficio. deve indagare in relazione a tutti gli altri aspetti della vita culturale di questo popolo. Il particolarismo è studiare in particolare una società e le singole pratiche in relazione a tutto il contesto culturale. Il secondo problema è la diffusione: qualche anno prima che Boas realizzasse le sue ricerche si erano già attestate delle idee sulla diffusione dei tratti culturali. Questi studiosi affermavano che non si trattava di invenzioni multiple, cioè invenzioni fatte una volta sola e poi diffuse, quindi possiamo organizzare tutto il mondo in cicli culturali che subiscono delle evoluzioni. Quest’idea venne poi abbandonata perché il ciclo culturale raggruppava popoli che appartenevano a tutte le zone del mondo. Questa modalità di racchiudere in un unico contenitore popoli così distanti non era un’idea che poteva reggere e venne poi sostituita dal concetto di area culturale, cioè una porzione di territorio all’interno del quale vivono diversi gruppi che condividono numerosi elementi culturali. Il modo di servirsi della storia muta, perché è la storia dell’evoluzione di alcuni elementi o tratti culturali, non la storia in generale. Per poter fare storia in tal senso l‘unica fonte possibile era l’osservazione. Era possibile registrare presso mondi lontani la presenza degli stessi oggetti. Non si può pensare che popoli così lontani e diversi abbiano inventato la stessa cosa, quindi in qualche modo sono venuti a contatto. Tutti questi gruppi umani vengono raggruppati nello stesso contenitore, ma non si può parlare di cicli culturali. Il concetto di area culturale sostituisce quello di ciclo culturale, perché ormai era superato. Alcuni studiosi, gli iper diffusionisti, pensavano che tutte le culture siano partite dagli egizi. Boas anticipa le stesse esigenze di Malinowski, cioè conoscere la lingua. Soltanto attraverso un’esperienza diretta è possibile ad esempio riconoscere i significati che si celano dietro una lingua. Ad esempio Boas dà un contributo al mantenimento e all’evoluzione culturale. Si pone il problema di quanto la cultura influenzi e orienti la psiche umana. Un altro tema posto da Boas riguarda il relativismo culturale perché tutto sommato si rende conto che solamente conoscendo dall’interno una cultura la si può comprendere e ciò lo porta a rivalutare questi popoli perché si rende conto della ricchezza e soprattutto si fa interprete delle istanze, sostenendo la necessità di non parlare di razze, assumendo un atteggiamento più comprensivo verso la diversità razziale. Il problema dei documenti è serio. Da tutto questo emerge un’attenzione per la cultura materiale, perché la raccolta e la fruizione degli oggetti risentiva della impostazione teorica della ricerca antropologica in quanto si diceva che questi oggetti venivano esposti tipologicamente. Quindi si risentivano delle teorie dei cicli culturali. C’è questa attenzione per le tecniche, uguale a quella che ha Boas quindi parla delle abitudini culturali degli eschimesi. Il modo in cui questi materiali venivano esposti risentiva delle ideologie dominanti. A un certo punto lo stesso Wistler inizia ad esporre gli oggetti tenendo conto di un’area culturale, in base a quali popoli appartengono e non per tipologia di oggetto. L’esposizione per aree aiuta a capire se ci sono delle differenze e delle particolarità. Wistler era il creatore di un museo antropologico di storia naturale. Egli nei primi del ‘900 aveva organizzato una mostra sulle culture indiane e questi etnoreperti erano stati esposti insieme a materiali etnografici che provenivano dalla ricerca di vari antropologi. Wistler sosteneva che si poteva ricostruire il passato delle società studiate dagli etnologi attraverso la saldatura tra i materiali che era possibile ricavare dall’etnostoria e dall’etnologia considerando come dati etnostorici le informazioni di carattere etnologico che potevano essere rinvenute nella documentazione prodotta dai bianchi. Questo etnologo afferma di voler arricchire il tutto con documentazione di carattere etnologico. Cioè tutto ciò che era stato prodotto dai bianchi che avevano dominato quei popoli e avevano redatto una documentazione di materiali che non appartenevano a quei popoli ma che erano stati prodotti su quei popoli. A caratterizzare questa etnostoria non sono le fonti orali ma quelle scritte dei bianchi. L’etnologia pur avendo a che fare con popoli senza scrittura, aveva documentazioni indirette, cioè non prodotte dagli stessi popoli. Quindi questa documentazione sarebbe stata recuperata dalle testimonianze dei bianchi, quindi le autorità governative di questi popoli, i missionari ecc. Boas si pone contro il razzismo perché ritiene che i caratteri razziali non abbiano correlazione con la cultura. Definizione di cultura secondo Boas: la totalità delle relazioni e delle attività intellettuali e fisiche che caratterizzano il comportamento degli individui che compongono un gruppo sociale, in relazione al loro ambiente naturale e ad altro gruppo, ai membri del gruppo stesso, nonché quello di ogni individuo rispetto a se stesso. C’è un’attenzione di questo antropologo non solo alla produzione materiale, ma anche alla totalità delle relazioni e delle attività intellettuali. Tutto entra in quella che è la definizione di cultura, quindi anche la relazione degli individui con il loro ambiente naturale e anche le relazioni che legano i gruppi umani ad altri gruppi umani. Le sue posizioni sui documenti scritti e orali sono il frutto della sua esperienza e del suo contatto con questi popoli. 6 aprile Documento Jan Vansina (Power Point): questo documento è stato presentato nel simposio sui metodi di ricerca etnostorici e inoltre è stato illustrato anche in altre parti del mondo nella nona riunione annuale della conferenza etnostorica che si è tenuta nella “Brown Library” nel 1861. Le pubblicazioni di Vansina si concentrano sulle società africane prima della colonizzazione. L’attenzione per le fonti e la storiografia e gli approcci metodologici allo studio del continente africano sono una componente fondamentale del suo lavoro. Vansina introduce lo studio della tradizione orale africana come fonte autorevole perché, come sappiamo, le fonti orali hanno sempre avuto un ruolo di second’ordine rispetto alle fonti scritte, mentre lui introduce la fonte orale come fonte autorevole e importante. In Africa vi è un’abbondanza di fonti storiche non scritte come le tradizioni orali, dati antropologici ecc. Quando Vansina organizza le sue ricerche trova una tradizione molto ricca, perché la differenze principale tra Africa e Oceania o America è che le culture africane erano ancora fiorenti rispetto alle culture indiane e polinesiane che invece non avevano dato il giusto valore alle tradizioni orali e quindi non le avevano custodite nello stesso modo. Le tradizioni orali presenti in Africa erano tantissime, ad es solo in Ruanda c’erano più di 500 tipi di racconti storici e 200 tipi di storie reali (che riguardavano i re e i regni). La domanda da cui parte Vansina è se le tradizioni orali possono essere considerate dei documenti storici. Prima di riunire questi documenti in una collezione, lo studioso deve comprendere e studiare la lingua di quelle popolazioni. Vansina si pone dei problemi di natura metodologica, perché l’antropologo deve trovare nuovi metodi. Emerge un problema metodologico posto dalla ricerca etnostorica che riguarda l’applicare metodi storici alla tradizione orale, focalizzandosi sul background della popolazione che sta studiando e conosce le tradizioni. Vansina esplicita che è importante che lo storico si ponga delle domande ad esempio sul perché quella tradizione è stata preservata e come è stata tramandata. Lo storico deve collocare ogni tradizione nel suo contesto antropologico e avere padronanza della lingua e per questo è importante il lavoro di squadra. È importante che venga accolto da diversi specialisti come antropologi, archeologi, linguisti. In questo documento si evidenzia che uno studio caratterizzato da questo lavoro di equipe è stato svolto nel Berneim: lo studio ha coinvolto diversi professionisti che hanno lavorato insieme. Un altro tema affrontato è il fatto che ogni sapere può contribuire alla soluzione dei problemi etnostorici. Fra le varie discipline descritte si hanno la zoologia, la botanica ecc. Tutte discipline che permettono di studiare le origini della flora e della fauna . Fra queste vi è pure quella che studia le malattie trasmesse dagli insetti. Questo problema riguarda infatti l’Africa, dove ci sono tanti insetti. Queste discipline sono importanti per questo motivo. Il documento dice che tra circa 20 anni la storia del continente africano sarà rinnovata da nuovi metodi etnostorici. L’auspicio è quello di migliorare la ricerca etnostorica usando fonti etnostoriche. È preferibile rivolgersi a degli specialisti, perché è difficile capire qualcosa da queste popolazioni che vivono realtà completamente diverse. Nei contesti in cui stava operando Vansina, questi specialisti a cui lui faceva riferimento, sono gli specialisti della parola che erano in realtà persone che ricordavano a memoria tante storie e conoscevano la storia dei re, delle imprese ecc. La carica di questi specialisti si tramandava di generazione in generazione e venivano definiti gli archivi viventi perché conoscevano a memoria la storia di tutto il regno e la dinastia. Inoltre erano figure presenti nei contesti un cui c’erano i regni. In altri contesti esistevano persone che avevano queste grandi capacità di memoria che erano i wucambi. Questi erano gli specialisti della memoria e quindi in un contesto dove tutto è affidato all’oralità ci sono persone predisposte alla conservazione di queste storie. L’informatore può dimenticare qualche cosa oppure essere stato testimone di un evento ma non averlo compreso. Se quindi ci si affida a queste fonti le conclusioni a cui si arriva sono alterate. Ci possono essere delle sovrapposizioni di cui si deve tenere conto. Vansina si avvicina all’antropologia e conosce bene anche i limiti di queste fonti e la necessità di doverle verificare, nel senso che più persone devono raccontare le stesse cose, ma al tempo stesso poterle capire. Se il narratore ha un interesse particolare può falsificare intenzionalmente qualche parte del racconto. Ormai quasi tutti i popoli sanno cos’è la scrittura e vivono in contesti in cui le leggi sono scritte anche se magari loro non sanno scrivere. Accade però che non transitano ad una dimensione scritta perché la tradizione orale è flessibile rispetto a quella scritta e questo comporta una serie di problemi. Vansina è uno storico, ma veste i panni dell’antropologo, mettendo a frutto queste modalità di registrazione delle fonti. Clifford Geertz (1926-2006) libro Viazzo, pag. 141 È un antropologo americano che segna una sorta di svolta sia per la ricerca antropologica sia per il concetto stesso di cultura. Egli, grazie ad una serie di ricerche condotte sul campo, riformula il concetto di cultura e l’obiettivo della ricerca antropologica. La sua riflessione ha a che vedere con la ricerca storica e con il problema delle fonti. Egli quindi si inserisce in questa problematica che vede contrapposti storici e antropologi. Geertz in una prima fase della sua ricerca si comporta da storico perché usa una serie di fonti scritte, quindi ha questa doppia prospettiva di ricerca: una basata sulle fonti scritte, l’altra sulle fonti orali. Questa problematica ci riconduce al distinguo che esiste fra il metodo dell’indagine quantitativa e quello dell’indagine qualitativa e quindi alla differenza fra ricerca storica e ricerca antropologica. La ricerca storica è stata sempre una ricerca quantitativa, mentre quella antropologica è qualitativa, perché l’antropologia studia popoli senza scrittura, quindi cambiando i contesti cambiano anche le necessità. La ricerca storica ha un disegno di ricerca che è predisposto prima ancora che il ricercatore si metta a lavorare quindi viene costruito a tavolino ed è l’opposto di quello dell’antropologo che compie invece un disegno di ricerca aperto, in quanto non sa a cosa andrà incontro. L’antropologo infatti sfrutta anche le scoperte improvvise e impreviste che contribuiscono ad arricchire di significato le sue scoperte, quindi è un disegno di ricerca che prende corpo man mano che la ricerca stessa procede. Natura dei dati: per gli storici poi i dati sono fondamentali, mentre nella ricerca qualitativa sono meno rilevanti ma sono riconducibili a un singolo individuo. Inoltre l’analisi che fa l’antropologo è Geertz sottolinea l’attenzione che l’antropologia pone alla produzione simbolica, quindi come espressione massima dell’attività umana; l’uomo si esprime attraverso simboli e questa espressione simbolica deve essere colta. Quindi nella definizione di cultura entrano anche i simboli (anche Fabietti aveva dato una definizione simile, mettendo in risalto la produzione simbolica della cultura; dice che la cultura è fatta di questa produzione simbolica). Geertz maggiore antropologi degli Stati Uniti, diventa punto di rifermento di questa riflessione e punto di incontro tra storici e antropologi. Sia in Francia che negli Stati Uniti c’era una chiara dominanza, egemonia della storia quantitativa, mentre in America, in realtà, si ci andava orientando (grazie anche agli scritti di Geertz) verso quella che poteva essere la storia interpretativa. Accade che gli studi che erano stati condotti in territori africani, o nelle Americhe, o le proteste delle donne avevano richiamato l’attenzione su problematiche che non erano più le classiche degli storici ma che somigliavano sempre di più agli interessi degli antropologi: le proteste contro il razzismo, le indagini condotte presso queste comunità afro-americane cioè di tutti questi immigrati, questi schiavi che erano stati portati nel continente americano= tutte tematiche che agli storici interessavano poche, ma che interessavano gli antropologi; quindi attenzione per una dimensione sociale più contemporanea rispetto al passato. Apertura della storia con gli Annales verso la dimensione sociale. <<In Francia, dove la storia annalista era innanzitutto storia della società dell’Antico regima, la quantificazione era stata la via maestra per studiare quello che nei testi del XVII-XVIII sec. Veniva definito popolo minuto (?) >> C’è un’attenzione degli storici, anche di quelli che appartenevano agli annale, per le pratiche per il popolo minuto; una delle opera più note di questi studiosi riguarda proprio i re drammaturghi, cioè riguarda proprio quelle credenze popolari sul fatto che il tocco del re poteva guarire dalla scrofola (malattia), quindi attenzione inusuale per il popolo minuto. Questo stesso filone di indagine era appannaggio già della demopsicologia, degli studi di folklore. Da un lato gli annalisti, quindi gli storici, si rivolgono alle classi popolari e ne studiano le credenze folkloriche, le pratiche che hanno delle connotazioni di credenze popolari “tocco del sovrano che guarisce dalla scrofola” (anche se l’orientamento adesso è cambiato ma il senso è sempre questo), ma attraverso sempre un’indagine di tipo storico. Il testo dice che, pure avendo costituito la grande maggioranza della popolazione, le classi inferiori avevano solo raramente avuto la possibilità di dare la propria voce a documenti preservati negli archivi, il più delle volte in contesti che producevano severe distorsioni. Questa posizione e riflessione che opera Viazzo è una riflessione che già era maturata nell’800 attraverso studiosi come Pitrè e Salvatore Salomone Marino. (Cosa detta dalla prof, non libro) Quindi, l’attenzione per la storia delle classi popolari, per quelle classi popolari che non avevano mai avuto potere, pur costituendo la maggior parte della popolazione di una comunità, era già stata dai demologhi, folkloristi e in particolare da Salvatore Marino. I contributi, le idee, le credenze di queste classi minute non avevano mai trovato spazio negli archivi; gli storici, anche gli annalisti, si rivolgevano agli archivi e nell’archivio era difficile trovare testimonianze dell’apporto, del contributo, delle posizioni delle classi popolari. Invece tracce si potevano rivenire numerose in una varietà di fonti che in quegli anni stavano svelando agli storici la loro potenzialità quali: registri parrocchiali e catasti. (Quindi sempre problema di fonti) (pag 137) Negli archivi notizie di questo popolo minuto, che costituisce la maggioranza, non ce ne sono ma una nuova sensibilità, attenzione per le classi popolari spinge gli storici a ricercare documenti scritti nelle parrocchie o nei catasti (parrocchie e catasti hanno una serie di registri che indirettamente forniscono notizie su queste classi popolari); quindi il ventaglio delle fonti anche per lo storico si amplia, perché è cambiato il soggetto di indagine, cioè le CLASSI POPOLARI. Classi popolari erano già diventate oggetto di indagine della demologia, demopsicologia, folklore (tutti termini equipollenti nel significato ma connotati diversamente da un punto di vista geografico si direbbe). Viazzo dice che, dimenticandosi che esiste una tradizione di studi demologici, nel 1963 aveva utilizzato in realtà queste fonti, riferito alle classi inferiori …. Tra la fine dell’800 e il primo ventennio del 900, queste famosi classi popolari, dimenticate dalla storia e da tutti, vengono in realtà indagate dalla demologia che, per esempio, trova in Salvatore Salomone Marino un’interprete della storia popolare (quindi non della storia delle classi popolari; a questa ci hanno pensato altre scienze come: Sociologia, la Politica.) cioè del modo in cui le classi popolari leggono e interpretano gli eventi storici); Il problema non è fare la storia delle classi popolari, ma vedere quale ruolo, diretto o indiretto, queste classi popolari avevano nei confronti dei grandi eventi ma soprattutto cosa ne pensavano, come li giudicavano, cioè qual era la storia secondo le classi popolari. Salvatore Marino ha la pretesa di scrivere una storia della Sicilia (storia culturale) dalle origini fino al 1860, ma di costruire questa storia attraverso le fonti orali delle classi popolari (canti, testimonianze); storia della Sicilia dal punto di vista delle classi popolari. Questa annotazione è molto importante, ma che già ci riporta al 1863 con l’annals deve in qualche modo essere integrata con quanto era già avvenuta nel mondo dell’antropologia che però si chiamava studi di folklore o demologia e non si chiamava né etnologia, né etnografia, né antropologia. (RISPOSTA AD UNA DOMANDA DI UNA COLLEGA, MA NON L’HA LETTA) Il problema non è che le fonti siano o non siano attendibili, perché le fonti degli storici possono essere sottoposte a verifiche e risultare anche queste false. Il compito dell’antropologo non è quello di dire se una fonte è vera o meno, ma valutare per quello che vuole significare. Le fonti scritte non sono meno false o più veritiere di quelle orali, ritraggono prospettive diverse. STORIA QUANTITATIVA Cosa aiuta e favorisce la storia quantitativa, cioè quella basata sull’analisi dei dati? È la comparsa dei così detti CALCOLATORI (i primi pc, computer); riuscivano chiaramente ad immagazzinare questi dati e li rielaboravano, riducendo quella che era l’attività di ricerca dello storico. Contributo quindi proviene dalla tecnologia che facilita, quindi amplia potenzialità della storia quantitativa. Viazzo dice, infatti, che grazie al computer diventa possibile affrontare questioni che gli storici avevano sempre evitato per lo sforzo che richiedeva l’elaborazione di tantissimi dati. Esemp: studio delle schede antropometriche (altezza cranio degli individui) dei francesi. Storia quantitativa, cioè quella che accede agli archivi e ad una quantità di dati corposa. <<avvertendo la possibilità di raggiungere conoscenze estese su gruppi numerosi e masse popolari queste ricerche prediligevano tuttavia un livello macroscopico>> Parola che troviamo in Geertz: MACROSIMENSIONE e MICRODIMENSIONE, MACROSTORIA e MICROSTORIA Geertz dirà che in realtà quello dell’antropologo è una microstoria (pag 138) perché in realtà dato che è qualitativa si sofferma su esperienze e su dimensioni circoscritte ma non perde mai il riferimento alla macrostoria, quindi alla dimensione più ampia. Al contrario, queste ricerche quantitative degli storici prediligono i macrosistemi, cioè <<lontano dallo studio dei villaggi e dei piccoli universi umani, in cui l’antropologo aveva dato maggiore espressione di sé>> (espressione di Geertz). L’antropologo si reca nei piccoli villaggi (la sua era una ricerca qualitativa), e si occupa di un microcosmo e quindi di fatti di microstoria, ma non perde mai di vista il contesto generale nel quale questi eventi si sono manifestati; invece gli storici non si occupano di microstoria ma di macrostoria, quindi di eventi di grande portata. <<Gli storici non vanno nei villaggi, ma nei villaggi, nelle comunità piccole, ci vanno gli antropologi>> (espressione di Geertz) STORIOGRAFIA FRANCESE E AMERICANA Orientamento che hanno gli storici che supportati dalle nuove strumentazioni tecnologiche riescono ad imprimere all’analisi storica questo criterio quantitativo perché possono rielaborare grandi quantità di dati. Questo è l’orientamento presente soprattutto in America, mentre si sostiene che gli annalisti francesi si occupano contemporaneamente di fatti culturali o sovrastrutturali, per esempio: processi di alfabetizzazione di uomini e donne (la differenza), o di fatti più strettamente culturali come le pratiche religiose, le adorazioni… ecc. Differenza campi di indagine di quella che è la storiografia francese e storiografia americana. L’attenzione era rivolta a quella letteratura minore come diari dei viaggiatori che fornivano dati utili per analisi di questi aspetti culturali I primi testi di Geertz si pongono a cavallo fra l’analisi antropologica e l’analisi storica. Primi lavori orientati verso un’analisi storica, riguardavano una società indonesiana (quindi la sua storia sociale) e il problema dell’involuzione agricola. Testo “Interpretazione di cultura”, molto noto per la distinzione che Geertz pone fra descrizione densa e descrizione superficiale. Questo discorso ci conduce alla microstoria, cioè descrizione dettagliata della realtà che sta osservando l’antropologo, quindi una descrizione minuziosa. ANTROPOLOGIA COME SCIENZA NOMOTETICA E ANTROPOLOGIA COME SCIENZA IDIOGRAFICA. Geertz rifiuta quella che era l’impostazione degli evoluzionisti, i quali erano convinti di poter individuare delle leggi generali che potessero essere impiegate per la lettura di altri contesti, quindi interpretavano l’antropologia come scienza nomotetica= cioè come scienza volta alla formulazione di leggi. Posizione ribadita, tempo dopo gli evoluzionisti, da un altro antropologo Marvin Harris, lui riteneva che il fine ultimo dell’antropologia fosse quello di formulare delle leggi, quindi una disciplina nomotetica: io osservo determinati fenomeni, quindi immagino possa <<Il combattimento dei galli è in prima istanza un sacrificio cruento, offerto (con i canti e le offerte appropriate) ai demoni allo scopo di acquietare la loro fama rabbiosa, cannibalesca>>. Questa affermazione di Geertz poggia sull’analisi di alcune credenze, di stampo religioso, presenti a Bali. La credenza comune era che: le forze del male (i demoni) invadessero la terra e quindi si cibassero addirittura degli uomini (fame rabbiosa, cannibalesca); allora come avviene presso molte culture, si sacrificano degli animali per ringraziarsi la divinità. (Sacrificio animale= pratica diffusa per fare piacere agli dei) <<Non si dovrebbe celebrare nessuna festa in un templo senza fare uno di questi combattimenti>> (quindi prassi accreditata) Altro atteggiamento che era diffuso: <<Le reazioni collettive ai mali naturali (le malattie, i raccolti perduti, le eruzioni vulcaniche) comportano quasi sempre dei sacrifici>>. Significa che se qualcuno si ammala, c’è una disgrazia, se il raccolto se ne va a male, evidentemente c’è stato un intervento delle forze del male e quindi è necessario offrire degli animali in sacrificio. Vi è una festa “Il giorno del silenzio” nel quale il comportamento prescrive il totale silenzio e immobilità perché i demoni invadono la terra e quindi non ti devono vedere e sentire perché loro sono affamati, sono dei carnivori. Questa festa preceduta da un combattimento dei galli. Quello che sembra un combattimento di animali, un’attività sportiva, un gioco, in realtà nell’interpretazione di Geertz assume uno spessore, profondità non consueta -> descrizione densa= tentativo di cogliere i significati profondi. CONCLUSIONE: nel combattimento dei galli, l’uomo e la bestia, il bene e il male, il potere creativo della mascolinità e il potere distruttivo dell’animalità, si fondono in un sanguinoso dramma. Combattimento dei galli= è la METAFORA della lotta tra il bene e il male, fra la vita e la morte (metafora di questo rapporto dialettico); è una descrizione densa (Risposta ad una domanda: I galli che muoiono si mangiano: il proprietario del gallo che ha vinto si mangia quello morto) CONCETTO DI PERSONA Studio di Geertz molto noto perché parte dall’affermazione di Malinowsky: cogliere il punto di vista dei nativi. Lui si sofferma a riflettere su quella che può essere la natura della comprensione antropologica. È un Saggio che risale al 1974. Con questo tipo di ricerca sta testando questa modalità di fare analisi attraverso la descrizione densa e la capacità che ha il ricercatore di cogliere veramente quelle che sono le posizioni degli attori sociali all’interno di una cultura. Questa sua analisi si ritrova quando decide di indagare il concetto di persona nell’isola di Giava. Tutte le culture, tutti quanti hanno Il concetto di persona è articolato (presso i giavesi) su una dimensione interna ed esterna, non identificabile nel concetto di anima e corpo. C’è una dualità nel concetto di persona per giava. Dimensione interna (interiore) = Si riferisce alla persona pulita, raffinata, di buone maniere, una persona educata. (non anima) Dimensione esterna = serie di comportamenti che devono rispettare questa dimensione interiore. Dice Geertz che queste cose non le comprende, lui si sforza di cogliere questa dimensione, cioè il punto di vista del nativo, dell’indigeno però gli sembra un atteggiamento falso, ipocrita che non ci siano mai comportamenti che diano l’idea della rozzezza e della volgarità o che si nutrano necessariamente pensieri positivi. Situazione di rottura rispetto a quanto proposto da Malinowsky; cogliere il punto di vista del nativo è una bella intenzioni ma non sempre facilmente accessibile. Questa esperienza gli sfugge, questa concezione non la capisce fino a quando si trova al funerale di una giovane donna il cui marito però, in sintonia con quella che è la concezione di persona dominante in quella comunità, accoglie le persone che gli vanno a fare visita con modi cortesi, garbati, si scusa perché la moglie non c’è (essendo morta). Atteggiamento stranito di Geertz, lui si aspettava di vedere un uomo in lacrime, ma invece è un uomo molto composta e allora gli chiede come mai si comportava così e quello risponde: “Devo appiattire le colline interiori” = cioè la rabbia, il dolore che prova internamente devono essere appiattite, controllate e che questo è quanto prescritto dalla loro cultura, cioè avere modi educati e raffinati e quindi riuscire a dominare le sensazioni più forti. Dice Geertz che non la capisce: <<un mondo interiore di emozioni concentrate e un mondo esteriore di comportamenti formalizzato>>. Scrive Geertz: <<solo quando si vede, come ho visto io, un uomo giovane la cui moglie, una donna che lui aveva cresciuta dall’infanzia e che aveva costituito il centro della sua vita, una donna che era improvvisamente e inspiegabilmente morta, (quest’uomo lo si vede) salutare tutti con un sorriso di circostanza, con scuse formali per l’assenza della donna e cercare per mezzo di tecniche miste di appiattire (come lui stesso si espresse ) le colline, le vallate delle sue emozioni in un piano (= Cioè di mettere a tacere queste sue emozioni, questi suoi impeti di rabbia e di dolore) e allora si può comprendere la possibilità di una concezione come questa del sé ed apprezzarla seriamente, sebbene il suo tipo di forza sia a noi inaccessibile >>. Quindi Geertz dice che lui non la capisce, lo capisce soltanto quando si scontro con questo evento, quando vede in pratica questi comportamenti che prescrivono un controllo delle emozioni che si traduce in comportamenti formali e manierati; allora lo riesce a capire perché lo sta vedendo e riesce anche ad apprezzarli (questi comportamenti), solo che dimostrano una forza a cui noi non siamo abituati, una forza che per (noi occidentale) sembra inaccessibile. Siamo nell’ambito della ricerca e delle modalità di fare ricerca e ci si pone il problema: È veramente raggiungibile questa comprensione dell’alterità così come voleva Malinowsky? Ed è veramente così semplice calarsi nella cultura che stiamo osservando, fino a cogliere il punto di vista dei nativi? Geertz dice che questa operazione non è semplice ma si può tentare una sua interpretazione. Abbiamo visto in concreto, analizzando le ricerche di Geertz, quanto il Viazzo ci aveva suggerito cioè che queste ricerche sono al centro di quell’interesse che poi suscitato anche dagli storici: Possibilità di riferirsi alle ricerche attraverso una descrizione densa, quindi una dimensione interpretativa (non più solo analisi dei dati, ma che quei dati rielabora e interpreta). La possibilità che all’analisi matematica, statistica del dato si aggiunge o si predilige la interpretazione del dato, dei fatti. 27 APRILE Altre storie, storie altre (Capit 5) C’è un ulteriore cambio di prospettiva nella ricerca antropologica ma anche in quella storica. Accade che mutano quelli che sono i paradigmi interpretativi, quelle che sono le concezioni generali non solo di una storia europea ma anche di una storia globale. Si entra in una fase post- modernismo, si rimettono in discussione alcune acquisizioni, concetti che non sembrano più soddisfare le interpretazioni sia storiche ma anche antropologiche dei contesti nei quali si vive, quindi c’è la necessità di riformulare anche a livello teorico quello che può essere l’approccio conoscitivo al mondo e alla storia. C’era sempre stata una posizione dualista: Storia dei popoli europei, quindi storia centrale e storia delle popolazioni periferiche (poste alla periferia del mondo), quei famosi popoli definiti come in via di sviluppo. Due realtà separate: i popoli che avevano fatto la storia e i popoli che erano rimasti fuori da questo processo anche di industrializzazione e di sviluppo e quindi erano rimasti ai margini della storia. La riflessione, l’approccio cambia. L’abbiamo visto con i lavori di Geertzs “Involuzione dell’agricoltura”. Lui diceva che il contatto con gli occidentali non era stata fonte di sviluppo, quindi mette in crisi l’idea dell’apporto che le civiltà così dette sviluppate potevano dare ai quei popoli così detti primitivi. Lui parla di un’involuzione cioè l’avere introdotto sistemi di produzione industriali aveva determinato quelle condizioni di povertà e misera che prima non c’erano. Accade che nascono opere importati come quella di Immanuel Wallerstein sul sistema-mondo Sistema-mondo: non esistono storie separate, ma esiste il sistema-mondo. Tutto è in relazione, non c’è un centro o una periferia, perché la stessa periferia risente della relazione con le culture del così detto centro. Sistema unico che lui chiama sistema-mondo, per indicare questa continua e costante relazione fra tutti i popoli del mondo. Non esiste una storia dei popoli dominanti e una storia dei popoli dominati, esiste un’unica storia che riguarda tutti questi popoli, compresi quelli che erano stati ritenuti ai margini dello sviluppo e quindi anche del sistema storia. Wallerstein non era un antropologo, ma sociologo, storico, economista, è una figura ecclettica. Teoria del sistema-mondo è quasi un’anticipazione sul concetto di globalizzazione. Nessun popolo rimane al di fuori di questo sistema, sono tutti inglobati; poi arriveranno a dire che la storia di questi popoli marginali, periferici è la storia del contatto con i popoli dominanti. Wolf: studioso, ecclettico. Opera: “Europa e i popoli senza storia”. Accento su questo dualismo: -Europa caratterizzata dalla civiltà, dal possesso di documenti scritti, quindi è quella che ha la storia -Popoli senza storia, perché non avevano gli scritti (Claude Lévi-Strauss siamo noi che non riusciamo a comprendere che non si tratta di una storia stazionaria perché noi giudichiamo, ci rapportiamo a questa realtà con i nostri strumenti.) La modalità di fare storia era sempre una modalità eurocentrica, cioè metteva al centro dell’analisi sempre le visioni, le concezioni degli europei, la superiorità europea. Gli antropologi Cargo= imbarcazione Cook arriva in quest’isola proprio quando si sta festeggiando il capodanno, cioè la fine di questo periodo, e il mito diceva che sarebbe arrivata la divinità sul Cargo (sull’imbarcazione), con una vela bianca e avrebbe portato la fertilità (quindi era la conclusione di questo ciclo, doveva morire, e poi sarebbe subentrato il nuovo anno con una nuova divinità). Siamo nel periodo in cui si sta celebrando una festa “I culti del Cargo”. In quell’area, e non solo, c’era la credenza che le divinità si mostrassero, arrivando dal cielo, da questi posti lontanissimi su delle imbarcazioni, quindi la coincidenza è tale da fare ritenere che Cook fosse la rincarnazione del Dio Lono. Visione di un VIDEO: (esempio del culto del Cargo recente: come nell’isola di Tanna) siamo nell’isola di Tanna e ci sono questi popoli chiamati selvaggi e praticano un culto che è quello di un certo John Frum. John Frum non era altro che un soldato americano che approdò in una di queste isole con il suo aereo e con il suo esercito e gli abitanti di questa isola di Tanna pensavano si trattasse di una divinità. A lui sono riservati tutta una serie di riti: gli abitanti vestono come se fossero dei militari, hanno trasformati dei bastoni come se fossero delle armi e marciano, in ricordo di questa divinità che era approdato sull’isola. Esiste presso questo popolo l’idea che la divinità provenga dai luoghi più lontani, dal cielo e dal mare, e periodicamente li vada a visitare e sia carico di doni (pensate a quanta roba questi americani avevano portato). Vengono interpretati come delle divinità, loro pensano che questi tornano. (esempio del culto del Cargo recente: come nell’isola di Tanna) Ritorno e morte di Cook La tesi di Marshall Sahlins è sorretta da queste credenze diffuse. Perché questa divinità è stata ammazzata? La divinità, nelle concezioni di quel popolo, era arrivata portando fertilità e abbondanza ma doveva poi andarsene e lasciare il posto all’altra divinità, chiuso l’anno ne inizia uno nuovo, un nuovo culto. Cook sta per andarsene ma ha un problema alla nave e ritorna sull’isola. Secondo le concezioni religiose del tempo questo ritorno è un segno negativo: perché sta ritornando? Ci siamo comportati male? Il suo ritorno non consente all’altra divinità di subentrare e allora viene ucciso. Marshall Sahlins riesce addirittura ad individuare un possibile assassino. Le critiche di OBEYESEKERE all'opera di Sahlins Questa interpretazione che è calibrata sulle credenze degli abitanti delle isole Hawaii. Sembra una modalità di fare storia e antropologia rispettando il punto di vista e quindi le credenze del popolo studiato, ma questa interpretazione di Marshall Sahlins determina una reazione di uno studioso, antropologo, che apparteneva a quella stessa area, Obeyesekere; questo è originario delle Filippine e leggendo il resoconto che Sahlins faceva di quest’evento e la sua interpretazione si risente, perché lui è portatore di un’altra ottica. Non ottica del popolo che ha dominato ma ottica del popolo che è stato dominato. Lui attribuisce a Marshall Sahlins un errore di fondo, quello di avere pensato che gli hawaiani fossero così stupidi di avere scambiato Cook per una divinità. Sugli hawaiani, ma non solo, gravava l’accusa di essere popoli cannibale e che quindi avrebbero ucciso e si sarebbero cibati di questa carne perché erano cannibali; pregiudizio che gravava anche sul capitano Cook e sui suoi marinari C’è un continuo botta e risposta fra Mashall Sahlins e Obeyesekere (da questo studioso locale). Era un problema di metodo. È giusto utilizzare quelle categorie? Chi ci diceva che quelle fossero veramente le categorie? Mashall Sahlins ha passato al vaglio tantissimi documenti, compresi i diari di bordo; questi diari di bordo vennero pubblicati, questo era il terzo viaggio che il capitano Cook stava effettuando, da un certo James King, a firma anche del capitano Cook. Mashall Sahlins parlava sulla base non solo della sua esperienza, della sua conoscenza di questi popoli, ma anche sulla base di queste fonti etnostoriche (diario di bordo). Ma questa ricostruzione offende Obeyesekere perché lui diceva che questi popoli non erano così stupidi da averci creduto (avere creduto all’identificazione di Cook con la divinità). Obeyesekere diceva che questo è un mito prodotto dagli stessi europei convinti della loro superiorità. Il capitano Cook, uomo bianco, di bello aspetto, di bella presenza, vestito bene, non può che essere scambiato per un dio dai selvaggi hawaiani. Allora è stata la riproduzione di un mito: mito della superiorità europea, che non fa altro che confermare anche l’ottica dello studioso che si pone in una dimensione etnocentrica. Giuseppe Cocchiara, docente, studioso palermitano che ha contribuito alla fondazione della nostra università. Lui scrive il mito del buon selvaggio. Già negli anni 60, rifletteva sul fatto che il mito del buon selvaggio, così come il mito del cattivo selvaggio non erano miti nati nei contesti così detti selvaggi, ma miti prodotti dagli europei per classificare queste umanità altra. Il mito del buono e del cattivo selvaggio erano le dirette conseguenze di visioni particolari. Rousseau parlava di un buon selvaggio, lo faceva in contrapposizione ad un europeo cattivo. Rousseau diceva di portare il suo Emilio fuori dalla civiltà, perché la civiltà lo contaminava; quindi c’era un buon selvaggio, perché c’era un cattivo europeo. Di contro, il cattivo selvaggio, il mito del cattivo selvaggio nasce perché la concezione europea è quella di un buon europeo e di un cattivo selvaggio. Questa mitopoiesi, non nasce con questi studiosi, questa riflessione era un problema che già si era posto: questo della mitopoiesi= dell’attribuzione di un’etichetta negativa o positiva in relazione anche alle concezioni del sé o di quello che era la dimensione europea. -Mitopoiesi: In generale, l’attività, l’arte o la tendenza a inventare racconti, favole, a formare miti; in particolare nell’interpretazione dell’antropologia culturale, processo di formazione ideologica con cui si attribuisce a fatti reali o alla narrazione di essi un valore fantastico di riferimento culturale e sociale. Diatriba che non si è risolta e mai si risolverà ma porterà Marshall Sahlins a pubblicare un’altra opera: “Capitano Cook” rispondendo a Obeyesekere e sostenendo la validità delle sue indagini e delle sue ricostruzioni storiche. È come se si scontrassero due modi diversi di intendere la storia, di intendere le relazioni di potere. Quindi al di là delle motivazioni messe in campo, il problema è proprio questo: la rivendicazione di una lettura degli eventi fatta attraverso le concezioni locali, contro una lettura operata da un esponente di una cultura dominante. Lo stesso Sahlins ha più volte ribadito il suo sforzo di leggere l’evento non secondo una logica dominante, ma secondo la logica stessa del popolo hawaiano e quindi di avere in un certo modo restituito loro voce per avere tentato di comprendere il modo in cui gli hawaiani avevano vissuto l’evento. L’altro studioso gli diceva che non era vero, che lui l’aveva letto con un’ottica dominante, ma Sahlins diceva di avere tentato, ha interpretato l’evento così come l’hanno visto e letto gli hawaiani del tempo; quindi si scontrano due modalità di leggere gli eventi e di fare ricerca storica e antropologica. Sintesi e sens: Non si può parlare di una storia dei popoli marginali rispetto ad una storia dei popoli dominanti, quelli centrali, perché in realtà le due storie in qualche modo si intrecciano e intersecano quindi la posizione di Wolf sembra accreditata. Articolo “MORIRE COME UN DIO” Articolo apparso sulla Repubblica nel 1997, a ridosso della pubblicazione del testo di Sahlins “Capitano Cook”1995 che poi è stato tradotto qualche anno dopo. Articolo che riporta i contenuti del testo di Sahlins e della polemica nata con questo sociologo, antropologo dello Sri Lanka (non Filippino) Obeyesekere. Lo scritto di Obeyesekere è “Apoteosi del Capitano Cook” e quindi parla proprio dell’esaltazione di un mito squisitamente europeo di superiorità europea. Questo saggio, articolo spiega anche la coincidenza dell’arrivo del Capitano Cook con questa festa del Makahik e spiega come sia potuta accadere questa sovrapposizione, l’incidente accaduta alla nave del capitano, il dovere tornare indietro e quindi la rottura dell’equilibrio di un evento che non prevedeva il ritorno di una divinità perché questa era elemento di disgrazia. https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1997/03/16/morire-come-un- dio.html Archivio > la Repubblica.it > 1997 > 03 > 16 > MORIRE COME UN DIO Uno dei punti che separa maggiormente la posizione di Sahlins da quella Obeyesekere riguarda la DEIFICAZIONE del Capitano Cook. Secondo Sahlins il Capitano Cook sarebbe stato scambiato per una divinità subito, secondo invece Obeyesekere ci sarebbe stato un riconoscimento della divinità solo dopo la morte, secondo una tradizione che apparteneva proprio alle isole Haweii. Uno dei temi di contrasto era questo. PREFAZIONE che scrive Sahlins a questa opera “Capitano cook per esempio” Scrive Sahlins che: “Obeyesekere afferma che i miei scritti (di Sahlins) aggiungono nuove dimensioni di arroganza al mito europeo dell’irrazionalità degli indigeni”. Obeyesekere cosa diceva? Che gli occidentali hanno questa pretesa di essere superiore, quindi c’è il mito dell’uomo bianco, l’uomo bianco conquistatore, superiore culturalmente e tecnologicamente, uomo che sa usare la logica contrapposto agli indigeni che sono tanto irrazionali da scambiare un conquistatore per una divinità, per un Dio. Introduzione (fatta dalla curatrice del libro) veniva sottolineato che: La realtà economica che Cook trova è una realtà piuttosto complessa, perché siamo in presenza, dal punto di vista dell’organizzazione politica, dei così detti domini. Domini= specie di organizzazioni statali senza lo Stato, in cui c’era un capo, un re che seconda la tradizione locale Questa donna che conosce Pitrè, che ha letto quindi le opere di demologia sulla cultura siciliana, su tutti gli aspetti della cultura siciliana. Pitrè aveva realizzato un corpus di 25 volumi su tutti gli aspetti della vita del popolo siciliano; per riassumerlo la battuta che dice sempre Pitrè: lui aveva documentato tutto ciò che un popolo pensa e fa, quindi tutto ciò che appartiene alla dimensione spirituale e alla dimensione pratica. Questa donna che conosce questi scritti, che è molto impegnata e molto intelligente, trasferitasi in questa dimensione marginale, periferica rispetto anche alla stessa Palermo, decide di redigere una sorta di diario su quella che è la sua esperienza in quella dimensione, cioè in questo paesino Montadoro dell’interno della Sicilia. La sua percezione della realtà condizionata dal suo essere donna, dal suo essere colta e dall’essere appartenente ad un’altra dimensione culturale. Cioè lei si trova in una condizione simile a quella degli antropologhi che andavano sul campo: noi abbiamo parlato di Franz Boas che si trova tra gli Inuit, non conosce lingua, gli usi, si ritrova in una dimensione cultura molto distate, diversa. La Caico vive questa sorta di esperienza, cioè si ritrova in una realtà che deve e vuole imparare a conoscere, giovandosi anche delle letture che aveva precedentemente fatti. La sua idea era quella di tracciare un profilo della vita dei siciliani e scrive questa opera che pubblicherà nel 1910. Perché è intitolato la Sicilia senza veli? Caico proprio perché conosceva le opere dei demologhi ottocenteschi dichiara di volere descrivere la vita più intima, vera della Sicilia, quindi sollevare quel velo che avrebbe costituito ostacolo ad una lettura filologicamente esatta del contesto culturale siciliano. Io voglio descrivere la vita dei siciliani, alzare un velo su questa vita, perché io ho avuto la possibilità di condividere la mia vita con i siciliani, quindi io li conosco direttamente, quindi sono in una condizione privilegiata (doppiamente privilegiata): non solo consuetudine di vita con siciliani dal marito, famiglia marito, amici marito, dal sovrastante che l’accompagna in giro per le campagne, (quindi dimensione privilegiata) la condivisione delle pratiche quotidiane, ma in più proprio perché ha un’estrazione culturale diversa riesce a percepire con maggiore immediatezza quelle specificità e diversità culturali che lei non può fare a meno di mettere a confronto con quella che è stata la sua formazione e la sua educazione. Quindi lei dice, in un costante e continuo confronto, parallelismo quello che si faceva o fa in Sicilia e quello che si faceva in Inghilterra o altre zone che lei non definisce civili ma ci va vicino. Ha quell’atteggiamento che mi ha ricordato tanto lo scritto di Malinowsky, cioè quell’idea di volere descrivere una realtà nel modo migliore, senza tacere anche quegli aspetti che possono sembrare meno edificanti, più crudi, senza omettere situazioni che possono risultare sgradevoli, cercando di descrivere con obiettività, condividendo la vita degli gli altri. Atteggiamento mi ha ricordato quello che poi, tanti anni dopo, avrebbe fatto in un certo modo Malinowsky: condividono l’esigenza di una pratica di vita con le comunità studiate, osservate. Lei non poteva conoscere Malinowsky, lui avrebbe pubblicato l’opera nel 1922. Atteggiamento mentale, l’idea di potere descrivere con più esattezza, ricchezza senza omettere aspetti particolari, specifici condividendo la vita della comunità. L’opera nasce perché io conosco le persone. Lei viva in provincia di Caltanissetta. L’Opera se è messa a confronto con quelle dei Demologi dello stesso periodo rivela aspetti interessanti: da un lato ci fanno percepire la realtà siciliana in maniera meno romantica (di come facevano i demologi siciliani) e nel contempo ci rivela questa caratteristica del ricercatore, antropologo, osservatore che proprio perché non appartiene alla cultura osservata può cogliere aspetti critici in maniera più pertinente. Lei nota quelle cose che gli antropologi dell’800 non avevano notato o più esattamente non avevano voluto descrivere; mi riferisco esattamente alla condizione delle donne, alla loro segregazione culturale, alla separazione netta dei ruoli e dei compiti e soprattutto al problema dei matrimoni precoci. Nelle opere demologi siciliani non si parla di queste pratiche di matrimonio precoce perché in realtà erano state vietati. Per la legge non si potevano contrarre matrimoni prima dei 15 anni, però si sapeva che questi matrimoni venivano combinati e realizzati quando le ragazze erano molto giovani 12-13 anni. Di questi aspetti nei resoconti dei demologi ottocenteschi non c’è tracce e se c’è solo per smentire quella che viene considerata una diceria, ma la Caico insiste molto su questo aspetto perché parla: di corpi immaturi, della delicatezza di una fase di crescita e quini questi matrimoni era giusto proibirli. Il suo essere femminista (non odiare gli uomini, ma battersi perché le donne abbiano pari dignità, diritti, ruoli degli uomini), la sua sensibilità la portano a soffermarsi su questi aspetti. Nel suo testo le donne tornano costantemente, sono le donne che svolgono lavori pesanti, donne alla quale è negato qualsiasi possibilità di evasione, la loro vita descritta come abbastanza piatta: uniche attività andare a prendere acqua alla fontana con brocca in testa, andare a messa ma uscire sempre accompagnate. Lei percepisce tutto questo perché lei era una donna libera, nonostante i tempi, lei andava a cavallo e si faceva accompagnare da un sovrastante (uomo di fiducia del marito che era pure uomo abbastanza colto) quindi non solo una cultura generale abbastanza sviluppata, ma anche una conoscenza delle tradizioni e delle pratiche culturali siciliani non indifferenti; dunque andava a cavallo, si faceva accompagnare da un sovrastante e andava a fare visita ai vari proprietari terrieri della zona. Aveva quindi una modalità di vita strana ma non basta, lei si era anche era procurata una Macchina fotografica a sviluppo immediato (una codac, una delle prime) e lei realizza un album fotografico molto interessate non solo dal punto di vista paesaggistico, ma anche della ritrattistica delle persone (come erano vestite, come si atteggiavano, che tipo di attività svolgevano); dunque documentazione fotografica molto interessante. Louis Hamilton dimostra una sensibilità e attenzione anche agli strumenti che possono costituire un valido supporto per gli antropologi. Intorno agli anni 30 (quindi dopo) quando Margaret Mead una delle prime antropologhe donna che si reca nei mari del sud che realizza una serie di ricerca sul campo molto interessanti. Nasce da parte di questa antropologa una riflessione sull’ importanza antropologica dell’impiego di strumentazioni audio-visuali. Noi come antropologi abbiamo solo parole cioè di queste ci perdiamo e queste dobbiamo trascrivere. La trascrizione e descrizione di eventi attraverso le parole può essere penalizzante (vai a descrivere una danza, un rituale molto complesso...). Era giusto che nella ricerca antropologica entrassero questi strumenti audio-visuali come supporto alla ricerca stessa. La Caico, ancora prima che si ponesse il problema della documentazione a corredo e completo dell’osservazione, già usa lei stessa una macchina fotografica. Opera ricca di immagini, di solito donne avvolte da questi mantelli che le coprono e proteggono tutte. Modernità della Caico rispetto al contesto generale. Esistevano i così detti casini di conversazioni, erano i circoli, luoghi di diletto e di conversazione. Esistevano quelli per le donne e quelli per gli uomini, quindi separazione tra i due sessi costante. Lei critica molto questa cosa. Pitrè ci parlava di questi casini dove gli uomini si riunivano, chiacchieravano, si leggevano il giornale, si fumavano il sigaro. Lei nota, non l’inutilità dei casini (lei era una donna raffinata che a questi circoli partecipava), ma l’idea che ci fossero distinzione così nette. Proprio perché ha un taglio antropologico e sociologico nella sua indagine si sofferma per esempio sulle attività lavorative, quelle più pesanti che sono i lavori in miniera. Lei è un’educatrice, intellettuale si pone sempre il problema della formazione, dell’educazione e dell’istruzione al femminile ma anche al maschile ha delle pagine forti sui lavori in miniera, soprattutto quelle che riguarda i così detti Carusi, pagine di denuncia. Lei sottolinea il danno fisico che certe attività determinano (lavorare sotto terra, con temperature elevate infatti lavoravano praticamente nudi, sempre al buio, lavoro massacrante, pagati pochissimi quindi sfruttati) ma il danno psichico. Lei coglie immediatamente che questa modalità di vita ha delle conseguenze enormi sullo sviluppo psichico dei soggetti, sul loro essere più o meno asociali, sapere condurre una vita sociale e familiare normale. Carusi di solito diventano sovrastanti, rimangono in questo ambito e possono anche salire di grado ma in realtà sono persone segnati nel fisico e nell’animo tanto da diventare tanto aggressivi e bruciare tutto quello che guadagnano nel vino, quindi risultano cattivi padri e mariti. Analisi sulle conseguenze nefaste sulla formazione psichica e fisica dei soggetti. Di queste cose nelle opere dei demologhi non c’è molta traccia, cioè lei ha questa sensibilità che la porta a denunciare certe pratiche perché lesive dell’integrità psico-fisica delle persone. Poi aspetti più divertenti, comici. Sempre in riferimento alle abitudini che ognuno di noi ha appreso nell’ambito della propria società, cultura. Donna raffinata, abituata agli alberghi, a viaggiare. Lei non riesce a capire: -Perché la mattina il letto veniva smontato e il materasso veniva arrotolato? Rispecchiava un’idea ben precisa: di giorno non si riposa, non si dorme. Non è pensabile che una donna possa trovare il tempo di andarsi a coricare, quindi il materasso arrotolato è dimostrazione dell’operosità della donna, è impensabile che possa stare in ozio. -Perché devo condividere il bagno e non posso averne uno tutto mio? Perché non posso fare il bagno tutto il giorno? Le sue abitudini (quelle semplice come potere fare il bagno ogni giorno, di avere a disposizione il letto) totalmente apprese, vissute, si scontravano con una realtà particolare. Lei descrive gli eventi più significativi le feste, i matrimoni, i battesimi cioè è sull’onda, sulla scia delle descrizioni dei demologi siciliani senza averne ovviamente, né lo spessore, né le competenze però tocca tutti gli aspetti della vita siciliana ritornano in quest’opera, con osservazioni anche divertenti una di queste riguarda il battesimo. Uno degli usi era offrire del Rosolio (liquore) e lei ci ride su perché diceva che era terribile, fatto in caso e che quindi non beveva mai, e venivano offerti anche dei biscotti, confetti stantii (vecchi, brutti). Rosolio offerto su dei bicchierini poggiati sul vassoio, ognuno ne prende uno, beve e poi riposa e vengono riempiti nuovamente e poi riprende quello che gli capita. (lei non ne beveva mai). !!!! Atteggiamenti che richiama Malinowsky ma lui viene dopooo, quindi non significa che lei segue lui !!!! DOMANDA: i demologi ottocenteschi ignoravano questi aspetti volutamente? Distinzione tra stregoneria e magia. Stregoneria = qualcosa che non si può acquisire, lo si ha per nascita, quindi trasmesso (biologicamente), unilineare: figlie dalla madre e figli dal padre. Stregoneria è ereditaria, non si può acquisire ≠ Magia = pratica fatta di conoscenze, quindi acquisita dai maghi Due realtà contrapposte ma Quest’opera è interessante perché attinge a delle fonti scritte, secondo quelle che erano le indicazioni dell’etnostoria, così come si era configurata nel primo periodo, quindi attinge alle fonti da archivio= resoconti che i vari governatori mandavano nella madrepatria e questi documenti venivano conservati, così c’era una sorta di testimonianza sulle popolazioni dominate. Pritchard attraverso documenti scopre che gli Azande erano popoli di agricoltori, non allevatori se non per i polli (unici animali allevati) ed erano organizzati in domini= sorta di organizzazione statale fatta da principi e re, quindi un’organizzazione verticistica. (statale non come l’intendiamo noi) Questa organizzazione fatta smantellare dal governo anglo-egiziano, quindi questo governo aveva alterato l’ordine sociale degli Azande, ma anche vita economica, infatti li aveva fatti spostare, aveva creato lunghe strade, fatti spostare queste persone attraverso queste lunghe strade e dunque aveva alterato totalmente il sistema produttivo, politico e di organizzazione della vita , interferenza pesante. Quando arriva Pritchard siamo in una fase di transito tra il vecchio sistema e il nuovo sistema Pritchard si rende conto che la stregoneria è un tema di cui tutti sanno parlare, ed è un tema dominante che sembra condizionare la vita di tutti gli Azande. Sistema di pensiero chiuso, che contrariamente a quello aperto, non va al di là delle cognizioni raggiunte, cioè un tipo di pensiero che non rimette in discussione le teorie, conoscenze a cui è pervenuto; un sistema di pensiero in contrapposizione al sistema di pensiero occidentale= giunge ad una conclusione, conoscenza per poi rimetterla in discussione e tentare di andare oltre. Sistema di pensiero chiuso= quello che viene acquisito come conoscenza e credenza non viene più messo in discussione e dare adito ad altre discussioni Azande: Tutto ciò che di male può accadere nella vita di una persona sia da amputare alla stregoneria. L’appartenere ad una famiglia di stregoni non significa essere stregoni. Agli Azande non interessa perseguire lo stregone, ma gli interessa scoprire chi in un determinato momento ha agito negativamente danneggiando una persona. Come si fa a stabilire quale stregone/ chi ha operato una stregoneria? Attraverso il ricorso alla magia e agli oracoli. La stregoneria ereditata , la magia appresa e serve: per difendersi dalla stregoneria e individuare attraverso gli oracoli il responsabile della pratica stregonesca. 3 oracoli: oracolo delle tavolette, oracolo delle termiti, oracolo del veleno Oracolo delle tavolette: chi si riteneva colpito da un atto di stregoneria si rivolgeva ad un mago; se l’atto non era poi gravissimo, in realtà, si ricorreva all’oracolo delle tavolette. Il danneggiato faceva dei nomi, il mago strofinava queste tavolette e a seconda del rumore che esse facevano si decideva se il soggetto indagato era o non era colpevole dell’atto di stregoneria. Oracolo delle termiti: insetti che creano termitai (montagne) che vanno rosicchiando di tutto. Venivano posti in prossimità dei termitai dei bastoncini e a seconda del modo in cui le termiti mangiavano, divoravano questi bastoncini si stabiliva se il soggetto indicato della vittima fosse o meno lo stregone. Oracolo del veleno: di fronte ad un atto molto grave, un veleno prodotto dagli stessi Azande iniettato in un pollo e a secondo dell’esito cioè morte o sopravvivenza del pollo si stabiliva se c’era un colpevole e qual era; nel caso di fatti molto gravi, prima del dominio anglo-egiziano, gli stregoni potevano essere condannato anche a morte, poi con la presenza del dominio anglo-egiziano invece le pratiche vennero abolite, quindi nei casi più gravi si richiedeva un risarcimento sotto forma di bestiame o lo stregone veniva esiliato (allontanato dalla città). Quest’opera così dettagliata, interessante ha richiamato l’attenzione degli storici su modalità e possibilità di occuparsi di tematiche squisitamente di appannaggio dell’antropologia anche dal punto di vista storico, cioè le figure degli stregoni e dei maghi svincolate dalla dimensione religioso e quindi la possibilità di analizzare la magia come fatto sociale. Viazzo parla degli Azande, di questo popolo anche in maniera dettagliata, vi richiama opera di Friedrich sul problema della magia, del ramo d’oro (?) INIZIO CAP 4 LÉVY- BRUHL (etnografo, etnologo, uno che sta a metà tra la filosofia e l’antropologia) Studioso che apparteneva alla scuola sociologica francese, è un pensatore, filosofo. Leggendo le opere degli antropologhi, etnologi si fece convinto che fossero preseti nell’umanità due forme di pensiero: logica e prelogica (2 logiche di pensiero: prelogica e logica) Secondo questo studioso, la mentalità dei popoli primitivi era una mentalità prelogica, non analogica= lui non pensava che non ci fosse logica, ma che seguissero una loro logica= partecipativa L’uomo primitivo, di queste realtà considerate appunto primitive rispetto alle altre considerate civili, non fosse in grado di formulare pensieri logici, basati sui principi aristotelici Principi aristotelici: principio di non contraddizione e principio di identità Il pensiero occidentale, secondo questi pensatori, dovrebbe basarsi su delle categorie: sono quei principi di identità e di non contraddizione; A è uguale ad A, A è diverso da B (se io sono A non posso essere B e se sono qui non posso essere altrove) Sembrava dire che l’umanità non potesse dialogare (perché esistevano due forme di umanità: una logica e una prelogica e quindi totale incapacità di dialogare). Affermazione grave che poi venne successivamente corretta, limitata, rivista dicendo che: i popoli primitivi avevano questa forma di logica mistica/partecipativa limitata a determinati momenti che si manifestavano nelle cerimonie e altro, ma che in realtà queste modalità così dette partecipative presenti anche nelle società occidentali e si manifestavano nei narrati, racconti o nelle dimensioni del sogno dove un soggetto poteva essere se stesso e qualcun altro contemporaneamente. Idee rivisitate, rimodulate in seguito delle terribili critiche mosse. (Evans-Pritchard non d’accordo su questo concetto) 4 MAGGIO -Evans-Pritchard stregoneria, il suo ruolo nel tentativo di stabilire, di aprire un dialogo tra storici e antropologi - Levy-Bruhl umanità che usa la logica e una che non la usa. Polemiche messe a tacere e superate dalle stesse ricerche che condurrà Evans-Pritchard. C’è un passo dove dimostra che se si assumono gli stessi punti di partenza di un pensiero diverso, questi punti fermi consentono poi di sviluppare un discorso logico; questo discorso viene fatto a proposito delle credenze religiose dei Nuer, altro popolo che lui studia. A proposito delle credenze religiose dei Nuer lui sostiene che assumendo il punto di partenza è possibile sviluppare un discorso logico (questo a proposito dell’espressione religiosa), la difficoltà è nostra se non assumiamo i loro principi. Gli studi sui Nuer sono più antropologici, perché lì non c’è ricorso a fonti scritte perché non ci sono, è tutto articolato sull’osservazione che egli svolge e dialogo che invastisce con questi personaggi (avevano un carattere particolare) e poi lui riuscirà a sviluppare 3-4 monografie su questo popolo di allevatori (avevano bestiame); importanza del bestiame non solo per il nutrimento e il rendimento, ma per la misura del loro prestigio e potere (senza bestiame non si potevano sposare e non erano uomini). INIZIO LEZIONE: Come mai in Italia si viene a delineare una etnostoria ad opera di AURELIO RIGOLI e come mai questa etnostoria è legata agli studi di demopsicologia (come l’aveva chiamata Pitrè) o di folklore? Il dialogo sulla possibilità di utilizzare più fonti rispetto a quelle utilizzate dalla ricerca etnologica ma anche storica come quella di Vansina, sulle fonti formalizzate, è una discussione che in Italia prende l’avvio con Rigoli quando durante uno di questi convegni si mette in evidenza come non solo la materia folclorica possa costituire in generale una fonte, ma il distinguo viene operata sulle tipologie delle fonti: cioè soltanto le fonti formalizzate (e tradizionalizzate) o anche le storie di vita Rigoli per dimostrare che anche le storie di vita potevano essere assunti quali fonti per il lavoro storico e antropologico realizzò una ricerca sullo sbarco degli alleati in Sicilia del 1943. Questa ricerca è quella che vede realizzate tutte le prospettive già viste: rapporto storia e folclore, metodologia di Rigoli, la contrapposizione tra storia ufficiale ed etnostoria, il prospetto di una ricerca etnostorica che si concretizza nella ricerca dello sbarco degli alleati in Sicilia. Ricerca che si articola sul confronto fra le fronti ufficiali e fonti che provengono dal narrato dai protagonisti, quindi sono storie di vita (non canti, non leggende, non proverbi) = narrato dell’esperienze condotta in prima persona da questi individui, che sono dei testimoni. Realizzazione pratica, la messa in pratica di una posizione teorica esplicitata nei confronti di una metodologia che negava la validità delle fonti orali non formalizzate e non tradizionalizzate, cioè delle storie di vita. Ma ancora prima di questa ricerca, il problema e la riflessione si avvia sulla scorta degli studi che Rigoli aveva condotto su Salvatore Salamone Marino e Giuseppe Pitrè; lì trova quella materia attraverso il ricorso alle fonti scritte . Quindi da un punto di vista metodologico il problema del rapporto folclore e storia è importante, perché il dare priorità a certe fonti piuttosto che ad altre, porta ad esiti che possono anche essere contraddittori; la posizione di Salomone Marino sembra quella di una possibile, necessaria collaborazione fra le fonti (supposizione poi esplicitata da quelle che era il percorso di ricerca di Rigoli). SAGGIO DI AURELIO RIGOLO: in cui viene analizzato il rapporta folclore e storia. Salomone Marino parlava di storia scienziale dei dotti, parlava di una storiografia ufficiale che ignorava il folclore, la storia del folklore. Lui sosteneva che il popolo ha una sua storia, cioè il modo in cui gli eventi vengono vissuti, letti, ricordati è una visione peculiare, specifica del popolo; spesso è in contraddizione con quella che è la visione degli storici che non tiene evidentemente conto di questo vissuto dei popoli. Rigoli scrive questo saggio “Il rapporto folclore e storia in Salomone Marino” che è in una pubblicazione che si intitola “Magia ed Etnostoria” (Raccolta di saggi, l’opera è pubblicata nel 1978). Secondo Rigoli, Salvatore Salamone Marino può essere considerato il precursore della metodologia etnostorica. L’etnostoria, secondo Rigoli, si impone come nuovo metodo di investigazione storiografica proteso all’utilizzazione delle tradizioni orali, raccolte e vagliate secondo un metodo critico e comparativo. Metodo comparativo è all’origine del configurarsi della ricerca antropologica. Le fonti orali devono essere raccolte e vagliate perché sono fonti storiografiche, quindi hanno la stessa importanza, valore che hanno le fonti scritte per gli storici; sono fonti storiografiche, fonti utili non solo per la storia delle società etnologiche, ma anche utili a fare integralmente la storia delle società occidentali (posso usarle sia in contesti primitivi, sia in contesti più complessi). Dice Rigoli che questo recupero storiografico del folclore risale all’800 e vede in Salvatore Salomone Marino e Pitrè i maggiori rappresentanti di questa metodologia. Pitrè (secondo Rigoli) Pitrè, ci ricorda Rigoli, evidenziava la bivalenza del folclore, dunque il folklore ha un aspetto duplice: da un lato è patrimonio che rispecchia e riflette il popolo, ma dall’altro è materia che registra le vicende della storia. Quando parliamo di folclore lo possiamo usare con un duplice significato: come sapere del popolo e quindi un qualcosa che ci attesta il sentire del popolo, le sue convinzioni, i suoi ideali, i suoi valori; dall’altra è materia di studio (questi studiosi definiti folcloristi, quindi studiosi del folclore). Pitrè parlando di Canti, la sua prima opera del 1860 era costituita da due volumi sui canti popolari; diceva che i canti popolari sono gli archivi del popolo. Non curiosità per la produzione orale, non interesse letterario, ma era un interesse da storico, antropologo. <<Canti popolari= archivi del popolo, tesoro della sua scienza, della sua religione, della teogonia e cosmogonia sua, della vita dei suoi padri, dei fasti (momenti eclatanti) della sua storia, sono l’espressione del suo cuore quindi dei suoi sentimenti, l’immagine del suo interno nella gioia e nel pianto, presso il letto delle cose e accanto il sepolcro (lo dice Pitrè ad apertura del suo volume)>>. Questa materia viene raccolta e valutata non da un punto di vista letteraria ma come documento perché contiene dati su tutti gli aspetti della vita popolare (gioia, amore, salute, dolore, pianti). Questa materia folclorica si propone come <<specchio fedele del cuore del popolo, libro che ne reca memoria e svariate diverse, il canzoniere siciliano ha di reminiscenze tre canti di più dei ricordi storici propriamente detti >>; uno storico nel folclore siciliano trova in materia storica 3 volte superiore a quella che tu da storico riesci a documentare. Questo rivolgersi alla letteratura orale, cultura popolare, non è fine a sé stessa, ma poteva fornire dei contenuti che potevano, se ben indagati, ricostruire un quadro storico culturale della Sicilia, aderente al vero e più ricco di quello che gli stessi storici riuscivano a documentare attraverso le fonti scritte. L’intenzione di questi studiosi era quella di mettere in evidenza l’indole del popolo siciliano. Rigoli ricorda che sempre Pitrè, al pari di Salomone Marino, è considerato un precursore dell’etnostoria. Pitrè sosteneva che i fatti storici, gli eventi (anche i grandi eventi) vengono ricordati dagli storiografi, dagli storici sempre dalla parte dei dominatori e non tengono mai conto dei dominati, di chi quei fatti, eventi li ha subiti. La storia scienziale dei dotti è proprio questa, cioè una storia non solo fatta da chi appartiene alle classi egemoni, ma è anche la storia che si occupa soltanto delle cime e delle vette, cioè dei personaggi più noti e illustri e dei fatti più eclatanti, in questo modo tutto il resto del popolo viene assolutamente dimenticato; quindi è la storia di chi ha determinato gli eventi, non chi li ha subiti ( quindi è la storia dei dominanti e non dei dominati). Il riferimento a fonti orali consentirebbe, secondo questa prospettiva, una conoscenza a tutto tondo della realtà. <<La vita vera del popolo si è confusa finora con quella dei suoi dominatori. Della sua storia si è voluta fare una cosa stessa con la storia dei suoi governi, senza pensare che il popolo stesso ha memoria ben diversa (il popolo degli stessi eventi ha memoria diversa da quella che gli si attribuiscono). Il tempo di ricercare queste memorie, di studiarle con pazienza è venuto meno. Cerchiamo di fare storia in un senso più completo, quindi comprensivo delle classi dei dominati, non solo dei dominanti. Tutta la ricerca di Pitrè sembra volta a mettere in luce questa ricchezza. Pitrè, meno attento alla ricerca storica, ma a raccogliere e documentare aspetti che fino a quel momento erano rimasti sconosciuti. Salomone Marino (secondo Rigoli) Rigoli dice di Salomone Marino che a lui si deve la prima impostazione della relazione folklore e storia. Impostazione, intuita già da Pitrè, che viene precisata in termini di recupero della materia folklorica da parte della storia scienziale dei dotti, cioè l’indicazione agli storici è quella di parlare pure di cime e di vette ma recuperate la dimensione folklorica. Questo diviene un problema metodologico superata attraverso la verifica delle fonti orali. Salvatore Salomone Marino progetta una storia della Sicilia che va dai tempi più remoti fino all’impresa garibaldina (1860). Questo percorso storica ipotizzato, solo in parte realizzato, si avvaleva della ricostruzione degli eventi non attraverso le fonti ufficiali ma fonti folkloriche (quindi studio storico e antropologico attraverso le fonti orali). Ricostruzione storia della Sicilia attraverso l’utilizzo delle fonti orali. Questo progetto, della realizzazione di un’opera storica, non realizzata ma nel tempo va pubblicando dei saggi “la storia nei canti popolari siciliani”. In queste opere, ci fa notare Rigoli, viene fuori l’antipatia che il popolo siciliano aveva per i francesi (Misogallismo) o le incursioni dei pirati, Carlo V…ecc. OPERE di Salvatore Salomone Marino: - “La Baronessa di Carini” - Saggi “la storia nei canti popolari siciliani”. - “La vita e i costumi dei siciliani” oppure “Costumi e usanze dei contadini di Sicilia” (opere citate quando abbiamo parlato di Louise Hamilton “Caico”) Atteggiamento, secondo Rigoli, di Salvatore Salomone Marino nei riguardi delle fonti. Queste fonti storiche esaminate attraverso 3 chiavi di letture: 1) Ai documenti folklorici viene attribuita una maggiore validità, rispetto alle fonti ufficiali (quindi fonti del folklore maggiore validità). 2) Le fonti ufficiali vengono impiegate come controllo delle fonti folkloriche (evidenti con la terza edizione della Baronessa di Carini). 3) Folklore e storia come indagini necessarie e complementari perché servono ad illuminarsi reciprocamente meglio, quindi si completano a vicenda. (collaborazione fra ricerca storica e ricerca antropologica). RISALTO DATO AL PARTICOLARE Quello che viene descritto dalle fonti folkloriche non è il grande evento ma è il micro evento, si parla di una micro storia. Viene ricordato che le fonti folkloriche documentano il mondo popolare attraverso certe particolarità, minuzie sulle quali la storia ufficiale di solito non si sofferma. Scrive Salomone Marino: <<Il popolo conserva della Storia la parte spicciola, certe particolarità, certe minute circostanze che gli scrittori (storici) ordinariamente trascurano e disprezzano ma che sono di grande interesse per conoscere i fatti e le persone, i tempi in cui i fatti e le persone si svolsero e agirono >>. Vengono riportati per esempio aneddoti che dagli storici venivano trascurati. Fonti folkloriche consentono una conoscenza più approfondita dello stesso popolo (sosteneva Salvatore Salamone Marino, ma anche Pitrè) Altra opera: “Tradizione e storia” del 1876 in cui prende forma l’idea che nella tradizione ci sia il dato storico, l’importanza dell’evento storico. RITORNIAMO A PARLARE DI PITRÈ: Pitrè era un medico. L’ingresso dell’antropologia nelle università italiane si deve a lui. In Italia esistevano degli insegnamenti di antropologia ma era antropologia fisica, cioè lo studio delle caratteristiche morfologiche degli individui (e quindi della loro distribuzione nel territorio, della loro posizione); in un secondo momento ci si rende conto che l’antropologia fisica non dava quei risultati che avrebbe dovuto, si delinea un’antropologia culturale. Nella seconda metà dell’800 iniziano degli studi antropologici che invece di guardare all’alterità e quindi invece di guardare ai contesti lontani, ai contesti di studio diversi dal luogo di formazione dell’antropologo (quindi c’era questo spostamento non solo fisico ma anche culturale; il ricercatore e l’antropologo si dedicavano ad una realtà lontana e diversa), c’erano degli antropologi e ricercatori (che invece di guardare all’alterità) guardavano a casa propria; quindi quella che oggi è ritenuta una comune campo di ricerca di antropologia che si rivolge ai contesti nostri, non è una novità perché già nella seconda metà dell’800 c’erano questi antropologi, siciliane avevano molta paura dei soldati di colore alleati. Oppure la storiografia egemone ci dice che l'atteggiamento popolare nei confronti degli alleati risulta sia positivo che negativo, invece nella storiografia subalterna basata sulle fonti orali si sostiene che l'atteggiamento popolare nei confronti degli alleati è sempre positivo. Le conclusioni a cui arriva Rigoli sono che mentre la prospettiva egemone si concentra sull'episodio politico-militare tralasciando completamente il contesto socio-economico, culturale ecc. Invece le etnofonti presentano una maggiore coerenza ed una rappresentazione anche del contesto storico e culturale ponendosi come contro-storia che rispetto alla storia ufficiale è contrassegnata da una maggiore coerenza ed adeguatezza alla descrizione degli eventi. Dunque Rigoli afferma che la storia intergrale emerge dal momento in cui mettiamo a confronto la storia egemone e la controstoria e tentiamo una ricostruzione "a tutto tondo" che tenga conto anche delle contraddizioni. TESTO VIAZZO ( libro da pag 39 a 45) RADCLIFFE-BROWN (paragrafo 1 capitolo 2 pag 39) Questo antropologo operò negli anni in cui tra antropologia e storia non correva buon sangue (1922-1950) e divenne una delle figure più significative degli studi antropologici sia in contesto europeo che americano, egli si oppose totalmente alle teorie sia del diffusionismo sia dell'evoluzionismo (che tentavano una ricostruzione storica delle società illetterate) e diede inizio ad una corrente antropologica definita ANTROPOLOGIA SOCIALE (cioè un antropologia che rifiuta la possibilità di realizzare una ricerca storica ed invece è più sul versante della ricerca sincronica volta ad indagare il significato dei processi in esame). Radcliffe-brown sostiene che nonostante vi sia l'assenza di una documentazione scritta nella situazione in cui lui si trovi ad operare, questo non costituisce un grosso limite per la ricerca antropologica poiché è più importante soffermarsi sul significato che hanno gli eventi che non sulla loro origine (bisogna precisare però che egli non nega l'importanza di una ricerca storica, ma dice che operare per una ricostruzione storica ipotetica significa distogliere lo sguardo da quella che è invece l'interpretazione dei fatti, il loro significato). In tal senso questo studioso viene ricollegato alla scuola sociologica francese (rivista annales sociologique). In sintesi quindi radcliffe-brown finirà per distinguere l'etnologia dall' antropologia sociale perché l'etnologia viene identificata con le ricerche condotte dagli evoluzionisti e diffusionisti (che erano propensi al metodo della ricostruzione storica) invece l'antropologia sociale si prospetta come una ricerca di tipo sincronico volta ad indagare il significato dei processi in esame. E a determinare le regole generali a cui sono sottoposti i fenomeni culturali. Inoltre lui è uno studioso molto importante poiché inizia a riflettere sul fatto che la definizione di cultura risulta piuttosto equivoca poiché la cultura non esiste a prescindere dalle persone e dai loro comportamenti quindi si vede più che altro una rete di relazioni. Le opere fondamentali di questo studioso sono:" Isolani delle Isole andamane" e "i metodi nell'etnologia e dell'antropologia sociale" del 1923 , questa data è importante perché è la stessa che ci riconduce all'opera di Malinosky "gli argonauti del Pacifico occidentale", però Radcliffe Brown aveva già condotto la sua ricerca anni prima e gli esiti della ricerca furono pubblicati anni dopo alle sue indagini. Radcliffe brown ha sostenuto una ricerca sul campo con un atteggiamento che ci ricorda quello di Malinoschy cioè quello di una partecipazione attiva alla vita delle persone che si prendono in esame. Radcliffe-brown distingue l'etnologia e antropologia sociale come due discipline diverse, ed addirittura egli afferma la superiorità dell'antropologia sociale rispetto l'etnologia, Infatti afferma che l'etnologia può solo essere utile all'antropologia sociale e che da sola non costituisce ricerca antropologica. Il punto di vista di Radcliffe-brown era basato sulla scelta di un metodo diverso rispetto a quelli utilizzati precedentemente, ovvero il METODO INDUTTIVO (cioè che conduce dal particolare al generale,universale) dunque la proposta dell'antropologo era quella di un osservazione diretta dei fenomeni attraverso la quale è possibile pervenire a delle leggi universali. P.39 parole di radcliffe Brown: "ogni costume o credenza svolge in una società primitiva un determinato ruolo nella vita sociale della comunità, esattamente come ogni organo di un corpo vivente ha una qualche parte nella vita generale dell'organismo" quindi l'idea è che vi sia una visione organicistica (che avevamo visto anche in malinovskij) per cui ogni elemento di una cultura svolge un ruolo (una funzione) e quindi è necessario comprendere questa struttura. Dunque io non vedo una cultura ma vedo comportamenti e azioni di persone inserite in una struttura e bisogna comprendere il significato di questa struttura che esiste a prescindere dell'esistenza dei singoli individui.(ad esempio i legami di parentela padre- figlio sussistono a prescindere da quello che può essere il padre x e il figlio y perché la struttura è permanente rispetto agli individui). Quindi c'è una dimensione strutturale all'interno della quale ogni individuo ha un suo posto. Questa definizione (quella sopra citata in virgolette) di Rad.Brown in realtà è molto simile a quella che diede Malinovsky, infatti, tra i due nacque una vera e propria diatriba su questa definizione perché Radcliffe-Brown venne identificato come struttural-funzionalista infatti proprio per questa sua idea della funzione che ogni credenza o costume svolge all'interno di una società, lo fece immediatamente ricondurre al funzionalismo (etichetta sempre rifiutata da radcliffe-brown che invece propose quella di antropologia sociale). Radcliffe-brown sperimentò appieno il metodo induttivo quando si occupò dei sistemi di parentela. Lui pubblicò un opera che riguarda l'organizzazione sociale delle tribù australiane, che fu esito di ricerche condotte in Oceania nel 1930 circa). Il testo pubblicato individua un sistema di parentela che si chiama "cariera" (prende il nome da una delle tribù australiane presso le quali questo sistema di parentela viene individuato). È un sistema di parentela a 4 sezioni, questo vuol dire che sono coinvolte 4 tribù. Come avviene la relazione in questo sistema? Ad esempio se le 4 tribù vengono nominate A,B,C,D e sono tribù esogamiche cioè che contraggono matrimoni all'esterno di conseguenza chi appartine alla sessione A sposa chi appartiene alla sessione B, il figlio di questa unione non può sposarsi ne con appartenenti ad A ne con appartenenti a B ma deve cercare il/la consorte nel gruppo C quindi appartiene alla sezione C e può contrarre matrimonio con chi appartiene alla sezione D. Quindi si tratta di un sistema ciclico(che sì ripete) che riflette una struttura che non ha a che fare con i singoli soggetti, ma permane aldilà dell'esistenza delle singole persone. Questa analisi che lui ha fatto è un'analisi di tipo induttivo poiché ha osservato il ripetersi di alcuni eventi e ne ha tratto una regola generale. 12 maggio VOLUME: IMMAGINI E ALTERITA’ NEI MEDIA, NELLE ARTI E NELLA PERCEZIONE COLLETTIVA. Il concetto di identità ha a che fare con il concetto di ETNOCENTRISMO cioè una modalità di percezione della nostra cultura di appartenenza come superiore alle altre realtà. Questo deriva anche dai processi acculturativi che ci portano a crescere ed essere educati e formati all'interno di una comunità impadronendoci totalmente dei modelli interpretativi ed operativi della propria cultura. Proprio per questo sviluppo di comportamento etnocentrico qualsiasi individuo di fronte all'alterità si trova disorientato. Quindi la percezione dell'alterità ha come immediato tornaconto quello dell'identità. Qualsiasi individuo è portato a difendere la propria identità. IDENTITÀ= L'identità è un concetto equivoco proprio perché noi riteniamo che questa sia reale e concreta ma in realtà non è concreta. Il concetto di identità è stato in qualche modo alimentato dalla stessa antropologia perché questa ha messo in evidenza sia le peculiarità sia quanto accomuna tutti gli uomini è solo che l'accento è stato posto sulla diversità.Si è venuta quindi a determinare la nostra identità in contrapposizione con quella degli altri. Il concetto di identità vista come assoluta però costituisce un limite, perché anche se da un lato ci aiuta a definirci, dall'altro però è un ostacolo alla relazione con gli altri con il diverso. Infatti la riflessione antropologica ormai da anni è proprio rivolta a cercare di scardinare quelle sicurezze che possono derivare dall'attestazione di un'identità definita una volta per tutte. Quindi l'identità non deve essere vista come un elemento da contrapporre ad altri identità ma deve essere visto come un concetto in divenire che può subire dei cambiamenti. (anche in saggio di Clelia Mirabella). Il concetto di identità è stato sottoposto a critiche perché se da una parte determina l'attenzione e difesa verso certe peculiarità di un gruppo, dall'altra però influisce sulla possibilità di un dialogo con la diversità. (principi di identità: A=A#B). L'antropologo italiano Francesco Remotti affermò che l' ALTERITA' ci è necessaria per definire noi stessi' quindi la definizione dell'identità non può prescindere dal confronto con l'alterità. Quindi in un certo senso l'identità si nutre dell'alterità e non esiste un'identità senza un'alterità. ( Infatti noi siamo quello che siamo perché ci sono dei gruppi diversi da noi). Francesco Remotti nel suo volume intitolato "contro l'identità" si era schierato contro il concetto di identità ritenendolo limitante. Nel saggio egli prende in considerazione quanto diceva "Maluf", questo autore aveva riferito della sua stessa esperienza poiché vive sulla sua pelle una sorta di doppia identità infatti era nativo di un territorio (era libanese) ma naturalizzato francese. Dunque egli ha subito l'influenza di due culture completamente diverse e riflettendo sulla sua situazione è arrivato a riflettere anche sull'intera umanità, sostenendo che l'identità può mutare in relazione anche alle esperienze che un individuo può fare, portandolo ad aprirsi a dimensioni diverse. Dunque noi rapportandoci con l'alterità possiamo anche assumere aspetti diversi. Allo stesso tempo Maluf afferma che nel nostro concetto di identità ci può essere un qualcosa a cui siamo più attaccati, che sentiamo assolutamente nostra e che non vogliamo che venga intaccata ( quindi ci sono determinati elementi che non siamo pronti a mettere in discussione). Le famiglie dei migranti vivono questo problema di confronto tra la loro identità originaria e gli stili di vita dei contesti nei quali si ritrovano ad operare e se non vogliono essere tagliati fuori dai contesti che li ospitano devono necessariamente impararne la lingua,i valori, le visioni del mondo di questi. Tant'è che oggi si parla di identità molteplici, ma molti aspetti possono essere in conflitto con quelli della propria cultura originaria, dunque vivono una sorta di dissidio tra il sentirsi legati alla cultura della propria famiglia di appartenenza e quello di assumere alcuni aspetti dei contesti ospitanti. Questi gruppi di migranti cercano di continuare a mantenere viva la propria cultura di appartenenza e le loro tradizioni (ad esempio continuando a fare alcuni riti ecc) e se da una parte questo mantiene viva la loro cultura dall'altro se sono eccessivamente ancorati a questa si ostacola il loro inserimento nel nuovo contesto. Dunque il punto è che ognuno dovrebbe cercare di integrarsi senza però penalizzare troppo la propria cultura di origine. Non si deve reificare l'identità ovvero darle troppa consistenza. Remotti dirà addirittura che l'identità è una parola avvelenata perché ci illude perciò che non che del passato. È chiaro che diventò un’opera monumentale, enciclopedica proprio perché mano a mano che andavano aumentando gli studi veniva a galla qualche società che praticava la magia e quindi questo studioso attingendo sia dall’epoca classica, sia contemporanea aveva a disposizione una quantità di materiale enorme, proprio per dimostrare le sue TESI che erano: La MAGIA è una prima forma del pensiero che si basa su un’errata corrispondenza di causa ed effetto. L’uomo primitivo non ha capito bene qual è la relazione fra la causa e l’effetto, per cui pensa che: ad una causa x possa dare direttamente esito ad un effetto (la relazione causa ed effetto non gli è chiara); di conseguenza, una volta che si accorge che le pratiche magiche sono destinate a fallire, si rivolge alla RELIGIONE. Si rende conto che non è lui l’artefice di ciò che accade e se lui non è l’artefice, ci sarà sicuramente una forza superiore che può invece determinare alcune cose. Di conseguenza, l’uomo abbandona queste credenze: quindi da colui che impone la sua volontà - > diventa colui che chiede= quindi la preghiera che si rivolge ad enti superiori per ottenere ciò di cui ha bisogno. Frazer si rende conto che i 22 volumi non li avrebbe letto nessuno e li riduce a 2 volumi, che sono la sintesi di questo percorso di ricerca. Viazzo dice che il golden bau aveva tentato attraverso sconfinate analisi comparative (22 volumi) che l’intera esistenza delle più primitive, fra le popolazioni studiate dagli etnologi, era pervasa da comportamenti e credenze magiche e che tali comportamenti e credenze erano riconducibili a due principi basilari I DUE PRINCIPI (sia magia nera che magia bianca) basilari sono: 1) il simile produce il simile 2) due corpi che sono stati a contatto continuano ad influenzarsi anche quando il contatto è finito; di conseguenza c’è una relazione che continua nel tempo. Questa magia viene definita MAGIA SIMPATICA, significa che c’è una relazione di simpatia= un comune sentire tra gli elementi Il simile produce il simile è quel principio che si spiega secondo Frazer perché c’è una mancata correlazione fra la causa e l’effetto (esemp: Se io rovescio dell’acqua determinerò la pioggia, quindi il simile produce il simile; presso molti popoli esiste il bastone della pioggia che muovendolo si determina un rumore di pioggia). Il secondo principio fa sì che per esempio le parti del corpo o oggetti che appartengono alle persone devono essere protetti, perché agendo su quegli specifici oggetti si può nuocere alla persona; quindi si presuppone che esista una relazione che dura nel tempo fra la parte e il tutto. (nascondevano cordone ombelicale, capelli…) Frazer era un autore che si era si occupato moltissimo anche di totemismo. L’autore è il primo antropologo che occupandosi di magia cerca di individuarne i principi su cui si basa (legge contatto e similarità). Viene citato anche Lèvy-Bruhl, è un sociologo, filosofo, non antropologo che aveva scritto “La mentalità primitiva”; questo testo che ebbe grandi ripercussioni e condizionò a lungo anche la ricerca sul campo. L’idea che ci fossero due mentalità era un problema, perché significava che c’erano due mondi che non potevano comunicare tra loro. Si occupa di magia anche Malinowski, il quale si scosta dal suo maestro che è Frazer; quando si reca nelle isole Trobriand è attratto dallo studio della magia perché ha letto Frazer e quest’ultimo curerà l’introduzione di “Argonauti del Pacifico Occidentale”, quindi Malinowsky è anche orientato allo studio della magia sulla base dei suoi studi e delle letture, ma si discosterà da lui: la magia non è una forma primitiva di pensare, destinata a scomparire, ma è la ritualizzazione dell’ottimismo. Le pratiche magiche servono a garantire il successo in un’azione. VIDEO (visto con la professoressa): c’è un uomo anziano che si reca nell’orto e recita una formula magica; l’antropologo che sta realizzando il documentario intervista un ragazzo che era laureato e lui dice che non ci trovo nessuna incoerenza tra la scienza, di cui lui era un rappresentante, e le pratiche magiche; nonostante il ragazzo fosse laureato in discipline scientifiche continua a ritenere la magia valida e non ci trova nessun tipo di contraddizione. Evans-Pritchard e ricerche sugli Azande (sistema di pensiero chiuso). Par 2: “Due paradigmi nello studio storico della stregoneria”: Poniamo ora l’attenzione sugli studi storici e sugli studi che si collocano a metà tra storia e antropologia. C’è un percorso di ricerca, lo studio più interessante e completo da attenzionare è il dato che ci riporta all’analisi delle fonti processuali. Questi studiosi si rifanno alle sentenze, ai processi, agli atti che riguardano i processi per stregoneria. Il testo di Giuseppe Bonomo “Caccia alle streghe” fa riferimento a questo tipo di ricerca, infatti, realizzata analizzando gli atti dei processi che si erano svolti in Toscana per atti di stregoneria. Questi materiali, queste fonti divengono dunque peculiarmente preziose; prezioso non è il dato in sé (svolti tot processi, condannati tot donne e tot uomini), quanto più il cogliere le due visioni contrapposte degli inquisitori e delle vittime (dei condannati). Ricerca di MARGARET MURRAI, la quale si occupa di stregoneria in Europa “IL culto delle streghe nell’Europa occidentale” ed è uno studio antropologico. Lei è una storica, ma realizza un’opera che è a cavallo fra la storia e l’antropologia e si rifà a Frazer (famoso antropologo dell’evoluzionismo che costituisce una sorta di guida, punto fermo per tutte le ricerche che si rivolgono ad indagare la magia). La studiosa sostiene che la stregoneria non fosse fatta in realtà solo di pratiche più o meno occasionali, ma che in realtà si trattava di una forma di religione. La magia era organizzata come era organizzata la religione; molti antropologi avevano tentato di stilare dei confronti tra la magia e la religione: per esempio lo aveva fatto Malinowski (dicendo le caratteristiche della religione e della magia). MAGIA e RELIGIONE Uno degli elementi di differenza fra magia e religione sta nel fatto che la religione aveva un sacerdote, cioè qualcuno che era preposto ad interpretare i testi sacri, a somministrare i sacramenti, cosa che nella magia non ci sarebbe stato. Anche i luoghi altra realtà che determinava differenza tra magia e religione. In realtà parlare di magia come una vera e propria religione era inusuale, tant’è che la Murrai sostiene che ci siano i ministri del culto, una serie di date specifiche nelle quali si realizzavano dei momenti festivi, di commemorazione e celebrazione, che esistevano tutta una serie di simboli, tutto questo ha a che fare con il saba (riunione delle streghe); lei analizza questi processi ,fra il 1400 e il 1600, (perché poi la Santa inquisizione venne sciolta) e mette in evidenza queste pratiche magiche in contesto europeo. È una lettura originale di questo fenomeno discusso. Altro riferimento è quello di Carlo Ginzburg si sofferma a descrivere i cosiddetti "benandanti" del friuli (p.123), qui ad un certo punto si scontrano due posizioni diverse perché questo termine stesso rimanda alle pratiche magiche alla stregoneria, ma invece la tesi sostenuta da Ginzburg è che i benandanti in realtà non fossero streghe e stregoni ma bensì i loro antagonisti. Le fonti orali di questi vertevano sul loro ruolo di difensori dei raccolti, campi, ecc. proprio contro streghe e stregoni. Quindi analizzando queste fonti orali emerse una dimensione inedita che rinviava ad una specie di culto che aveva a che fare con i culti agrari (che era una forma religiosa molto molto antica). Ginzburg sostiene che le testimonianze dei benandanti vengono confrontate con le cosidette confessioni che erano state estorte dagli inquisitori con torture. Dunque c'è una sorta di corrispondenza e a volte continuità con una tradizione ben precisa. ULTIMO PARAGRAFO: Blondes e fevre da fare. Viene citato anche Rosario Rosaldo poiché sostiene che le testimonianze che sono state utilizzate nella delineazione della problematica sono valide e quindi convalida le ricerche che erano state realizzate attraverso queste informazioni dirette. Una delle opere di Rosaldo fa riferimento anche ad un'opera di Ginzburg che si intitola proprio "l'inquisitore come antropologo". (capitolo 4). Malinowski sottolinea sia gli aspetti che accomunano magia e religione sia gli aspetti che li distinguono. Magia e religione trovano una loro ragione di esistenza attraverso condizioni di tensione psicologica e di paura ed incertezza. Quindi magia e religione esistono perché esiste una dimensione di incertezza ed hanno una funzione protettiva di rassicurazione. Diapositive 6-7-8 25 maggio SAGGIO SUI MIGRANTI (prof. Clelia Mirabella) Nel saggio si evidenziano il concetto di identità, alterità e riconoscimento, in quanto in questo saggio si sottolinea la figura del migrante come espressione pregnante del nomadismo identitario che è un aspetto della società contemporanea. Partendo quindi dal concetto di identità non si può non fare riferimento alle implicazioni di tale tema che vanno dall'individuo nella sua profonda intimità (quindi nella ricerca interiore dell'individuo) alle strutture istituzionali e a significati poi culturali e simbolici del tema dell'identità. In tal senso la costruzione dell'identità sta tra due polarità da una parte la ricerca individuale di un equilibrio ed una stabilità interiore, dall'altra un processo evolutivo dall'esterno che preme l'individuo in una continua evoluzione ed adattamento ai cambiamenti psicologici che sono in ogni individuo ma anche storici e sociali che stanno all'interno. Quindi l'individuo nella costruzione della sua identità si ritrova da una parte ad avere l'esigenza di un equilibrio interiore in continua ricerca, dall'altro ad un continuo mutamento ed adattamento nella sua psicologia e nella realtà storica sociale che lo circonda. Rifacendosi a Bauman lui parla della nostra società come società dell'incertezza, della continua evoluzione e la definisce modernità liquida proprio per sottolineare il passaggio da un sistema relativamente stabile qual era quello precedente (per il quale le modifiche ai cambiamenti venivano poco percepiti) ad un sistema fluido in cui i cambiamenti e le evoluzioni sono repentine. In questo continuo processo di strutturazione e destrutturazione della soggettività individuale sta la difficoltà dell'individuo di costruire la propria identità ed appartenenza con riflessi negativi nelle relazioni interpersonali e nel rapporto tra l'individuo e la comunità. In altre parole, ferma attività produttive e del commercio fu sicuramente predominante nelle corporazioni sin dall’XI secolo, ma a partire dal XIV e XV secolo nell’ambito delle corporazioni si affievolì l’aspetto economico e si rafforzò l’aspetto legato al potere religioso e sociale, perché man mano si andava delineando un sistema economico di distribuzione capitalistica e ciò non sposava bene le attività delle corporazioni che arrivavano a cambiare pure i prezzi del mercato. Quindi questa attività corporativa non poteva sopravvivere in una realtà economica che si stava aprendo ad un sistema capitalistico. L’altro aspetto che determinò sicuramente il ridimensionamento delle corporazioni fu il Concilio di Trento che diede un nuovo ruolo alla chiesa dopo l’esplosione delle eresie e che tentò di portare la centralità di Roma nella chiesa cattolica, riportando a sé tutte le forme laico religiose diffuse nel territorio che spesso, quando venivano eseguiti dei riti magici, sfuggivano al controllo centrale della chiesa. In questo periodo nacquero le arci confraternite che creavano una struttura piramidale all’apice della quale c’era l’arci confraternita che incorporava tutte le confraternite che prendevano il nome dell’arci confraternita. Se nell’Alto Medioevo sia le corporazioni che le confraternite costituivano il tessuto portante economico, sociale e religioso del medioevo, nel Concilio di Trento c‘è il rafforzamento della centralità della chiesa che condannò gli aspetti delle confraternite legate alla sopravvivenza di tradizioni arcaiche e demandò alle confraternite. Chiaramente la chiesa si rendeva conto che le confraternite erano radicate nel tessuto sociale, quindi non poteva negarle del tutto, ma le inserì nel proprio sistema, assegnando a queste associazioni il ruolo di contenimento della diffusione delle eresie. Quindi le inserì in quel processo di evangelizzazione del mondo, cioè divennero uno strumento di diffusione del patrimonio religioso cristiano. Questo tentativo della chiesa di riportare nell’ambito del sistema gerarchico della chiesa le confraternite, non raggiunse i suoi scopi in quanto queste sopravvissero nel loro radicamento popolare a questo processo di inserimento nella struttura della chiesa, rimanendo sempre delle strutture laico religiose parallele alla struttura della chiesa in sé. In tutte le parrocchie sopravvivono queste confraternite che hanno in realtà una autonomia e quindi la chiesa stessa non riuscì a sottometterle, come aveva tentato invano di fare anche il Concilio di Trento. Questa situazione sopravvive ai nostri giorni. L’altro aspetto che riguarda le confraternite è il processo di evangelizzazione, la quale non raggiunse i suoi scopi perché l’universalità del pensiero cristiano come unico pensiero nel mondo, oggi viene messa in discussione dal Papa che parla di pari dignità delle diverse religioni. Questo tentativo del Concilio di Trento di esaltare il potere centrale della chiesa, nei secoli non ha dato i frutti che si prevedevano. Da questo punto di vista nel saggio viene analizzata la struttura delle confraternite e il continuo rapporto di queste associazioni col potere politico dal sorgere dei principati fino all’annessione al sistema gerarchico della chiesa. Un altro aspetto che viene affrontato nel saggio riguarda il forte legame che hanno le corporazioni e le confraternite con l’età antica: addirittura risalgono all’epoca pre civica di Roma, quando i latini giunsero in questo territorio e trovarono una serie di clan e villaggi che trovavano la propria forza nell’identità di un culto particolare che faceva riferimento a un condottiero eroico che stava alle radici dello stesso clan. Quando arrivarono i latini, non si opposero proprio per evitare la conflittualità e instaurarono un rapporto di collaborazione con questi clan e Roma accettò i culti di questi clan che rappresentavano l’identità della comunità. I romani pertanto non distrussero questa forma di identità, ma la accorparono nel sistema romano, tant’è che nella religione che noi conosciamo come religione politeista esistevano i cosiddetti collegia romani, cioè strutture laico religiose che fanno riferimento a dei culti privati, che erano i culti che avevano origine in questi clan che ritroviamo nel mondo romano e che fanno riferimento alle famiglie patrizie e che venivano praticati dai pater familias. Quindi il sistema religioso romano riprende e include questo associazionismo laico religioso perché era espressione fondamentale della identità e della sopravvivenza del gruppo. Questa accettazione ridimensionava la conflittualità all’interno di questi clan. Quindi quello che viene definito paganesimo romano in realtà meriterebbe una nuova lettura libera dai pregiudizi della religione cristiana. L’accettazione di questi culti in realtà nel mondo romano erano uno strumento politico di superamento della conflittualità, quindi i vari clan che poi si trasformarono nella gens romana continuavano a trattare il proprio culto all’interno della famiglia. Poi esistevano i culti pubblici che venivano praticati all’esterno in cui si facevano sacrifici di animali e veniva distribuita la carne che veniva macellata. La partecipazione a questi culti pubblici, che non avevano niente a che vedere con i culti privati, rappresentavano una forma di accettazione del potere statale di Roma. C’erano questi due livelli nella religione romana: quello del culto privato e quello di accettazione della sovranità romana. Anche nel mondo romano il rapporto tra questi culti privati che avevano un aspetto di culto religioso, ma erano anche delle associazioni ricreative che sono gli archetipi delle associazioni cosiddette politiche. Cioè questo ritrovarsi del gruppo solidale all’interno di un’idea e di una solidarietà comune, faceva nascere comunità ricreative e lì nascevano le posizioni politiche. Il rapporto del governo di Roma con queste associazioni politiche e laico religiose evidenzia la relazione che esisteva tra queste associazioni laico religiose e gli spostamenti nel quadro della politica e della gestione del quadro politico romano. Cioè in realtà queste associazioni laico religiose assumevano anche un aspetto politico e quindi il governo di Roma ebbe un rapporto di chiusura di alcune associazioni e di sovvenzione ad altre associazioni che erano favorevoli a questo tipo di governo. Questo associazionismo laico religioso fu strettamente collegato al sistema di potere di Roma. Questo sopravviverà nel medioevo e ai giorni d’oggi rappresenta un aspetto del potere delle confraternite. Un altro aspetto che viene approfondito nel saggio è il culto della religione romana, all’interno della quale le cerimonie che venivano attuate a Roma mostrano la mappa simbolica della struttura sociale di Roma. Un aspetto fondamentale dell’associazionismo romano è l’appartenenza all’identità. Cioè che l’uomo nella realtà romana esisteva in quanto appartenente ad una comunità laico religiosa e anche economica sociale, quindi nell’identità e nell’appartenenza al mondo romano praticare un culto significava esistere. Roma repubblicana e imperiale non si oppose mai a questo sistema perché era insito nel sistema sociale di esistenza di Roma stessa e in un certo senso questa struttura di culto garantiva un certo ordine sociale. Quello che interessava a Roma era l’ordine sociale, per cui ai romani non importava condannare Gesù, perché non era un nemico in quanto esponente di uno dei culti che c’erano a Roma, quindi ad esempio Barabba era più pericoloso di quanto fosse Gesù Cristo, in quanto metteva in discussione il potere di Roma. Quindi il comportamento di Giulio Cesare è indicativo di quello che era il sentimento religioso di Roma. Roma e il cristianesimo hanno un rapporto molto controverso e il saggio dà una traccia di questo alternarsi di persecuzioni e di tolleranza dei cristiani perché laddove non c’erano pressioni popolari istigate da movimenti politici, Roma tollerava il cristianesimo. Il motivo di scontro col cristianesimo si creava quando diventava pericoloso per l’ordine e quindi c’erano movimenti politici che creavano movimenti sociali al sistema romano e quando i cristiani non partecipavano al culto pubblico, cioè andare in piazza a prendere il pezzo di carne distribuito in piazza e questo aveva significato di accettazione del sovrano come sommo pontefice. Solo nel momento in cui alcuni gruppi politici portavano il disordine, allora Roma interveniva nelle persecuzioni, ma dalla lettura dei documenti non sempre lo fece con grande voglia di portarle a termine, infatti a volte venivano condannati sia i cristiani ma anche coloro che li perseguitavano. Il motivo per cui i romani condannavano il cristianesimo era perché dal punto di vista popolare era ritenuto una superstizione, mentre dal punto di vista del sistema religioso veniva tollerato laddove il cristianesimo rientrava in uno dei collegia religionis causa veniva accettato come culto privato. Questo diede la possibilità al cristianesimo di approdare nel medioevo. Il cristianesimo comunque non fu la causa del crollo dell’impero romano, ma ci furono altre motivazioni che portarono alla sua caduta, fra cui una serie di pestilenze che indebolirono il potere di Roma. I cristiani non si posero mai in contrapposizione al potere di Roma. Il cristianesimo divenne sempre più potente sia perché dal punto di vista economico raccolse dei lasciti appartenenti a famiglie molto ricche sia perché al suo interno cominciò a scindere il ceto ecclesiastico, dandogli potere, da quello laicale, secondo il modello amministrativo di Roma, ridimensionando anche quello che è l’aspetto fondamentale delle associazioni laico religiose della chiesa antica. Queste associazioni diventeranno via via sempre più potenti nel tessuto medievale fino ad arrivare al tentativo della chiesa del ridimensionamento di queste strutture, che però non riuscì del tutto.
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