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Libro 1984 - appunti, Appunti di Letteratura Inglese

Libro 1984 - appunti corso letteratura inglese

Tipologia: Appunti

2020/2021

Caricato il 27/11/2022

tuttocchei
tuttocchei 🇮🇹

5

(1)

7 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Libro 1984 - appunti e più Appunti in PDF di Letteratura Inglese solo su Docsity! MODULO A – 1984 1984 è un romanzo scritto nel 1948 (notiamo come le due cifre siano solo invertite, simboleggiando il capovolgimento dalla realtà) da George Orwell, pseudonimo di Eric Arthur Blair, il quale ebbe modo durante la sua vita di raccogliere l’esperienza necessaria a consentirgli di estrapolare quella che sarà la sua peculiarità in campo letterario, ossia il modo tutto “orwelliano” di descrivere meccanismi totalitari di controllo del pensiero. La sua famiglia di origine angloindiane vive, insieme a lui, in India, poiché il padre svolgeva il suo ruolo di funzionario statale proprio lì, nell’allora colonia inglese. Eric cerca in tutti i modi di garantirsi gli studi in Università, non riuscendosi però ad ambientare in quell’ambiente snob che gli causerà un forte complesso d’inferiorità. Decide così di seguire le orme del padre (da questo momento ogni esperienza ne altererà profondamente la sua concezione di società politica, portandolo infine a scrivere le sue opere più famose), arruolandosi nel 1922 nella Polizia imperiale indiana a Mandalay, in Birmania. L’esperienza si rivela traumatica: il giovane Eric si ritrova diviso fra il crescente disgusto per l’arroganza imperialista e la funzione repressiva che il suo ruolo gli impone, portandolo a dimettersi nel 1928. Successivamente a questa delusione decide di partire alla volta dell’esplorazione di quelli che possono essere i bassifondi di una città importante, vestendo proprio i panni di un vagabondo, e ciò lo ispira a scrivere il suo primo romanzo pubblicato sotto lo pseudonimo di George Orwell, ovvero “Senza un soldo a Parigi e a Londra”, ossia le città dove è stato ospitato e dove ha provato cosa voglia dire vivere come un mendicante. Nei primi mesi del 1936, su commissione di un’associazione culturale filosocialista, svolge un’indagine nelle zone più colpite dalla depressione economica, che lo porterà tra i minatori dell’Inghilterra settentrionale. Le loro misere condizioni saranno descritte in “la strada di Wigan Pier”. Nel dicembre dello stesso anno, invece, parte volontario per la Guerra in Spagna, combattendo nelle file del Partito Operaio di Unificazione Marxista (POUM, Partito Obrero de Unificacion Marxista, d'ispirazione trotzkista), contro il dittatore Francisco Franco. Colpito alla gola da un cecchino franchista, rientra a Barcellona, terra dei suoi alleati, trovando un clima ben diverso da quello che aveva lasciato: con il prevalere della linea del Fronte Popolare e del Partito comunista nel governo repubblicano, il POUM e gli anarchici sono dichiarati fuori legge e Orwell deve lasciare la Spagna quasi clandestinamente. Gli anni dal 1941 al 1946 lo trovano a Londra dove collabora a giornali e riviste, cura inoltre per la BBC una serie di trasmissioni propagandistiche dirette all’India. Nel 1947, dopo la morte della moglie, si stabilisce insieme al figlio adottivo Richard a Jura, una fredda e disagiata isola delle Ebridi. Il clima non si confà alle sue ormai disperate condizioni di salute, costringendolo a continui ricoveri in sanatorio. Nel 1949, dopo un secondo matrimonio, si dedica, letteralmente incalzato dalla morte, alla revisione di “1984”. Si spegne a Londra il 21 gennaio 1950. Orwell ha perciò ben presente in mente quali sono i meccanismi di un sistema assolutistico, riproducendo, all’interno delle sue opere un modello arcaico di totalitarismo. 1984, capitolo IX della parte II: “Il Grande Fratello è il modo in cui il partito sceglie di mostrarsi al mondo”. Partito Interno = cervello o mente; Partito Esterno = braccio; 85% della popolazione, i cosiddetti ‘prolet’ = parti ‘basse’ del corpo. Questo è tutto un discorso che si rifà alla divisione gerarchica del corpo dello stato, gli strati del potere di un regime autoritario sono strutturati come una gerarchia corporea.
 L’immagine del Grande Fratello è ovunque proprio per simboleggiare la spettacolarità del potere: anche se il corpo del Grande Fratello di fatto non esiste, un corpo invisibile ha bisogno comunque di trovare un modo per mostrarsi al proprio popolo, come avveniva nei grandi totalitarismi del passato, attraverso parate e propagande. I due minuti d’odio canalizzano la frustrazione del popolo, aggravato dalle esecuzioni pubbliche (che, seppur non vi sia più la loro presenza nella realtà già dal 1800, vengono comunque inseriti in questo sfondo distopico). È un modo per far trasgredire la gente che altrimenti risulterebbe troppo oppressa dal punto di vista sociale, un parallelismo al carnevale, il quale aveva in sostanza la stessa funzione. Il potere che permette la trasgressione per potersi imporre, dando l’illusione di un minimo di libertà al popolo si riesce a contenerlo e assoggettarlo. Il modello arcaico del corpo politico pervade l’intero testo. Il Big Brother è chiamato così per dar proprio l’idea di un potere che ti è amico, fratello, vicino. La forma del potere all’interno del testo? L’occhio e il controllo che da esso ne deriva attraverso la visione. Ma perché proprio l’occhio? Ciò deriva da tutta una tradizione secolare, anche teologica: Dio che guarda la sua creazione. (il simbolo del divino è infatti un occhio). Esso è l’emblema del potere. L’occhio è anche considerato il più nobile dei simboli, specialmente in età illuminista, dove l’uomo attingeva alla razionalità per portare i lumi della ragione nella realtà che lo circondava, e qual è l’organo della luce? È l’occhio, l’unico capace di percepire l’illuminazione, per questo è il simbolo vero e proprio della cultura illuminista. Michel Foucault, Sorvegliare e punire, 1975 “È docile un corpo che può essere sottomesso, che può essere utilizzato, che può essere trasformato e perfezionato. I più famosi automi non erano solamente modi di illustrare l’organismo, erano anche manichini politici, modelli ridotti di potere. (...) Nasce un’arte del corpo umano ch e non mira solamente all’accrescersi delle sue possibilità ma alla formazione di un rapporto che lo rende tanto più obbediente quanto più è utile, e inversamente. Prende allora forma una politica di imposizioni che sono un lavoro sul corpo, una manipolazione calcolata dei suoi elementi, dei suoi gesti, dei suoi comportamenti. Il corpo umano entra in un ingranaggio che lo fruga, lo disarticola e lo ricompone. Una “anatomia politica”, che è anche una meccanica del potere, va nascendo. (...) La disciplina fabbrica così dei corpi sottomessi ed esercitati, corpi docili”. Successivamente ai regimi totalitari si instaura una politica che mira all’assoggettamento del cittadino, puntando tutto su quell’arte del corpo umano che mira alla formazione di un rapporto che rende il prossimo sempre più obbediente e utile, una sorta di politica d’imposizione volta alla manipolazione del soggetto, un’anatomia politica. Si parla dei supplizi, esecuzioni pubbliche, ma anche della modernità, di quello che succede nel momento in cui vengono meno i regimi totalitari. Si passa dal potere come spettacolo al potere come sorveglianza. Direttamente collegata alla citazione di Michel Foucault è l’idea partorita da Jeremy Bentham nel 1791. Egli è conosciuto da molti come il fondatore dell’utilitarismo, concezione filosofica che pone la ricerca dell'utile individuale o sociale come motivo fondamentale dell'agire umano; in poche parole: è "bene" (o "giusto") ciò che aumenta la felicità degli esseri sensibili. Si definisce perciò utilità la misura della felicità di un essere sensibile. A Bentham si deve inoltre, appunto, l’invenzione di un nuovo modello di formazione nei confronti dei criminali della sua epoca, ossia il cosiddetto “Panopticon” (che significa “visione totale”). Questo Panopticon è un innovativo modello di carcere con il quale ci si propone di riuscire ad imporre il potere sui carcerati senza l’uso alcuno di torture o altre forme di violenza estrema, in piena coordinazione con quelli che sono i principi dell’illuminismo. La struttura del panottico è composta di una torre centrale, all'interno della quale stazionerebbe l'osservatore, circondata da una costruzione circolare, dove sono disposte le celle dei prigionieri, illuminate (essendo in pieno illuminismo, ciò è molto significante) dall'esterno e separate da spessi muri. Esse erano disposte a cerchio, con due finestre per ognuna: l'una rivolta verso l'esterno, per prendere luce, l'altra verso l'interno, nella direzione di una colonna centrale, nella quale si sarebbe collocato il custode. In questo modo il guardiano, situato al centro della struttura, era in grado di poter vedere ogni detenuto, ma lo stesso non poteva dirsi per loro, che infatti non possono accorgersi se il custode li stia osservando oppure no. Quello che si viene a creare a seguito di questo sistema innovativo è semplice: i criminali sono convinti che, pur non vedendo gli occhi del custode fisicamente rivolti verso la loro cella, quest’ultimo li stia comunque osservando; ciò fa nascere in loro una sorta di autogestione che li induce a rispettare le regole senza venire richiamati o torturati. La violenza fisica viene sostituita da una più invisibile e subdola, ricordare la tomba dei faraoni) in un posto volto alla cancellazione e alla modifica del passato. 
 Winston, lavorando in archivio, si occupa della continua modifica di documenti attraverso un aggeggio chiamato “parla scrivi”; ciò è molto significativo, perché appunto l’uomo perde la possibilità di scrivere, di cimentarsi nel rapporto fra carta e penna, altra forma di controllo. Inoltre, quei documenti trattati da Winston, vengono poi gettati, attraverso delle specie di finestre che prendono il nome di buchi della memoria, in una nube di aria calda che li trasporterà all’interno di una fornace. Il suo compito consiste nel mettere in circolazione una versione alterata di documenti originali ormai distrutti in buchi della memoria. Riesce a tenere insieme il corpo collettivo proponendo nuove memorie che sostituiscono quelle vecchie e lo fa anche costruendo dal nulla nuovi miti (come il racconto eroico del fratello O’Ghibli) o vanificando ogni possibilità di far combaciare gli effetti alle cause (come nel caso delle porzioni di cioccolata, che una settimana mostrano un abbassamento della produzione, mentre in quella successiva, alzandosi ma non arrivando al livello di quella precedente, quest’ultima viene esaltata come una vittoria per il Partito). Episodio di membri del Partito: la fotografia è una prova tangibile, per questo Winston si inquieta. Ha avuto tra le mani la prova che tutto il sistema del Grande Fratello è una menzogna ma butta la fotografia. Il romanzo raffigura Winston volontariamente come contraddittorio. Da questo suo essere contraddittorio arriva lo stimolo della ribellione. Winston tiene un diario, ma qual è il senso di questo gesto? La possibilità di tenere un diario, dove potersi “confessare”, è semplicemente il primo passo verso la trasgressione. Il diario è appunto un vecchio quaderno, ossia un supporto appartenente al passato. Il diario è legato alla scrittura e alla soggettività. Il primo approccio alla scrittura di Winston è molto significativo: risulta una scrittura quasi automatica, come un flusso di coscienza; Winston non era abituato a scrivere ed esplode in una scrittura istintiva della sua memoria e del suo inconscio. Il diario è una confessione, la scrittura una terapia, facendolo guarire dal trauma relativo alla morte della madre, ad esempio. Episodio del cinematografo (?):
 Winston rinviene, dopo uno dei bombardamenti che puntualmente colpiscono i prolet, una mano appartenente presumibilmente ad uno di loro. Inizialmente, in maniera istintiva, calcerà quel frammento di corpo; più avanti, invece, lui stesso sarà portato a riflettere sul gesto precedentemente commesso, maturando una consapevolezza del rispetto da garantire al corpo umano. Il diario tenuto avidamente da Winston è destinato in parte ai posteri (anche perché il protagonista sa già che, prima o poi, in qualche modo lo troveranno), garantendo una prova tangibile del passato, ma soprattutto per O’Brien, il quale nel sogno gli propone di incontrarsi “là dove non c’è la tenebra”. Winston nutre un profondo bisogno di credere in qualcosa di tangibile, necessita di memoria. Dove va a cercarla? Dove si trovano i prolet, approfittando del fatto che quest’ultimi vengono tenuti nell’ignoranza più totale, considerati alla stregua degli animali, senza neppure teleschermi ad osservarne i comportamenti. In questo territorio entra in un negozio di cianfrusaglie antiche, dove vi trova il quaderno che utilizzerà come diario. Winston sostiene che il passato è rinvenibile negli oggetti; in questo luogo è colpito da un oggetto di antiquariato: un fermacarte con all’interno un corallo (ci ricorda una sfera, un globo, un occhio: un microcosmo alternativo che si contrappone al Grande Fratello). Dallo stesso venditore affitta anche una stanza, rappresentazione dell’“io”. In questa stanza lo affascina particolarmente una stampa raffigurante la chiesa alla quale è legata anche una filastrocca che più volte farà la sua comparsa all’interno del testo. La bellezza di questi oggetti, nota Winston, sta proprio nella loro inutilità: quello che spaventa il Partito è il desiderio senza scopo, la trasgressione, e quale metodo migliore per trasgredire dell’acquistare degli oggetti senza alcuna utilità. Winston è alla continua ricerca di testimonianze, seppur paradossalmente, lavorando negli archivi, contribuisce a sua volta a gettare nei cosiddetti “buchi della memoria” tutto quello che il Partito vuole che sia dimenticato. Tutta quella dimensione dedicata agli oggetti della bottega del rigattiere, in particolare il portacarte di vetro (simbolicamente un piccolo microcosmo da ricostruire), rappresenta un piccolo mausoleo del passato, assumendo la funzione di guida per quella che sarà la “rivolta” di Winston e Julia, dando vita ad un’altra situazione paradossale: loro si ritengo già morti, attribuendosi la possibilità di poter diventare fantasmi ricordati dai posteri, che, tramite il suo diario, saranno a conoscenza di quanto accaduto. E se questo passato che Winston sta cercando non fosse mai esistito? Il romanzo da una parte promuove un’identificazione del lettore con Winston, rendendo, quindi, questa ricerca del passato utile per lo scatenarsi di un’ipotetica rivoluzione; ma dall’altra ci presenta un personaggio paranoico, che lui stesso costruisce e subisce. Troviamo invece una rievocazione della tematica corporale attraverso l’erotismo e la figura di Julia, un corpo che nelle viscere, in quell’ulcera che non si chiude mai, in quella ferita costantemente aperta, continua a ricordare a Winston che il mondo potrebbe essere diverso. Julia e Winston incontrano O’Brien. Segue un giuramento basato su un test proposto da O’Brien con lo scopo di cercare di capire quali fossero i limiti dei due soggetti: fino a che punto fossero disposti a spingersi per tradire il Partito e, soprattutto, capire quale fosse il loro punto di rottura. Alla fine dell’interrogatorio, sia Winston che Julia, risultano disposti a tutto tranne che a tradirsi reciprocamente; sarà infatti proprio l’infrazione di questo punto che causerà l’inizio dell’instabilità mentale del protagonista, portandolo definitivamente a “guarire” e ad essere successivamente giustiziato.
 Riceve il testo di Goldstein, manuale che spiega come è costruito il Partito. Proprio durante la lettura di questo testo, Winston e Julia sentono una voce metallica proveniente dal teleschermo dietro la stampa, proprio da quel mondo che doveva essere incontaminato; questa voce completa la filastrocca (anch’essa con ruolo simbolico, sarebbe un rimando al passato, poiché le filastrocche sono strutturate per essere infantili). Da qui la scoperta che Winston e Julia erano stati tenuti sotto osservazione per anni, e che tutto gli è stato fornito dal Partito: il potere ha prodotto la sua trasgressione. Tutti gli strumenti di cui Winston si è servito (il diario, la stanza, il fermacarte, eccetera) sono stati programmati dal partito dentro la logica del potere. Si avvera quel paradosso del sogno: Winston si trova in un luogo dove non c’è tenebra, ovvero una stanza chiusa dove la luce è perennemente accesa. Viene sconvolta tutta la tradizione illuminista seconda la quale la luce simboleggiava un qualcosa che aveva solo un’accezione positiva, ovvero: ragione, intelligenza, progresso; sostituendola con ciò che è totalmente opposto: una forma di tortura, di violenza. La tenebra si manifesta con la luce. In questa stanza il protagonista subisce un cambiamento sia fisico che psicologico, un condizionamento imposto da O’Brien, che da capo dei ribelli passa a torturatore, con il solo scopo di modificare, guarire, la mente di Winston, portandolo a dire che due più due fa cinque (o tre, in base a determinati casi imposti dal Partito) così da garantire che da quel momento in poi ogni cambiamento ne consegue. Ciò però non basta. Il punto definitivo della conversione al Partito non è la sola convinzione nell’affermare che ciò che dice il Partito sia vero, bipensiero, ma bisogna tradire ogni tipo di legame esterno, che possa in qualche modo allontanare Winston dagli ideali del Partito. La stanza 101: il trasgressore viene messo di fronte alla sua più terribile paura, forma molto capillare e pervasiva di potere: il soggetto viene messo a nudo davanti al suo esaminatore. Winston, ad esempio, aveva rapportato all’interno del suo quaderno le sue confessioni, un luogo segreto della sua interiorità, dove appunto aveva scritto della sua innata paura dei topi; questa tortura è particolarmente tormentosa proprio perché implica l’entrata del partito fino al midollo, nei più oscuri meandri della sua psiche, del detenuto. Si agisce a livello inconscio dell’individuo, oltre di pensiero. A questo punto Winston tradisce Julia, il rapporto tra i due si manifesta anche in questo episodio. Il condizionamento è perfettamente riuscito. Winston ama il Grande Fratello. La domanda che Orwell pone è questa: perché il potere fornisce i mezzi per trasgredire al potere? qui troviamo ancora delle somiglianze con il Panopticon e il relativo concetto di libertà condizionata: i soggetti sono condizionati mentalmente al punto da autoregolarsi e autogestirsi. Winston continua a confessarsi all’interno del suo diario: il paradigma della confessione è il luogo di rivelazione della propria identità, della verità; nel confessionale il soggetto non è veramente libero, non esprime un’autenticità, sta solo dicendo quella verità che il Panopticon, per fare un esempio, ha plasmato all’interno della sua psiche. Il potere controlla tutto attraverso una visione a 360°, ciò implica l’impossibilità di fuggire; l’uomo ha solo l’impressione di star trasgredendo, senza sapere che, proprio in quel momento, è maggiormente controllato, dato che gli vengono forniti gli strumenti proprio dal potere stesso. Il Carnevale è il modello analogicamente più corretto per far capire il concetto; la Chiesa infatti consente al popolo tre giorni in cui poter trasgredire. Non esisterebbe potere se non ci fosse trasgressione; il potere ha bisogno della trasgressione, è l’eccezione che conferma la regola, la regola è confermata dalle trasgressioni. Il potere arriva a produrre l’opposizione così da potersi mostrare come potere e avere la possibilità di riassorbirla e controllarla. Orwell parla di meccanismi di controllo che caratterizzeranno anche le democrazie moderne (come gli Stati Uniti che paradossalmente finanziano il proprio nemico scatenando attacchi di terrorismo, o Hitler che veniva finanziato da banche inglesi). ogni tipo di atteggiamento trasgressivo, opposto a quello assunto dalle classi dirigenti, viene assorbito e trasformato in moda (Black Mirror, puntata due). Ciò avviene anche per il passato: Winston cerca il passato per riscattarsi dal presente, trovando però oggetti forniti proprio da quel presente dal quale tenta di fuggire. Gli oggetti fungono da emulatori di emozioni nostalgiche, come, del resto, avviene pure in epoca moderna attraverso tutto il mercato del vintage, delle mode e del design. Il ritorno di stili del passato (come gli oggetti di Winston) simboleggia il ritorno della loro epoca, in contrasto con presente che non vive nel benessere, così da poter soddisfare il vuoto, colmando l’esigenza di un’alternativa, o, nel caso di Winston, la ricerca della memoria e di verità. Winston, anche attraverso la lettura del libro di Goldstein, arriva a capire il come, ovvero tutta la serie di meccanismi che spieghino in che modo il Partito riesca ad assoggettare a sé la totalità della popolazione, ma non arriva a spiegarsi il perché. La frase “qui non c’è un perché” era scritta anche nei campi di concentramento ed è esattamente quello che O’Brien dice al protagonista, sottolineando che la violenza è meramente gratuita. La società era arrivata ad un punto tale da consentire all’uomo di non lavorare più, grazie alla presenza delle macchine, e quest’ultime producevano talmente tanto da poter far vivere l’individuo in piena serenità per il resto della sua esistenza; è proprio a quel punto che il Partito entra in gioco proponendo la strategia della guerra permanente, con il conseguente annullamento di ogni possibile utopia. La questione allora è questa: il perché presuppone che ci sia un obiettivo, quindi che ci sia una causa ma che gli effetti prodotti siano anche in funzione di un obiettivo da raggiungere; in 1984 troviamo invece Potere fine a sé stesso, senza la minima presenza di alcun tipo di motivazione. Il perché, che normalmente presuppone un qualcosa di razionale, un obiettivo da raggiungere, perde il suo scopo e il suo senso. Vengono mostrati meccanismi che in teoria potrebbero funzionare anche senza che ci sia necessariamente uno scopo. Il fatto che non ci sia un perché è di fatto una delle forme di violenza più infime del romanzo (così come anche in Titus, quando Tito afferma “se ci fosse un perché di tutta questa violenza potrei anche porre fine al mio dolore”). nel 1797, figlia di William Godwin, un filosofo radicale, editore di libri per bambini, e di Mary Wollstonecraft, definita da molti come la madre del movimento femminista, morta solo dopo dieci giorni la nascita di sua figlia Mary a causa di febbri puerperali (ovvero durante il periodo di tempo che intercorre tra l'espletamento del parto e il ritorno alla normalità degli organi genitali femminili). Ciò che rese la madre promotrice del femminismo Settecentesco fu la sua opera scomoda intitolata: “A Vindication of the Rights of Women” (una rivendicazione dei diritti della donna), del 1792, riguardante il problema dell’istruzione femminile, rispondendo a Rousseau, facendogli notare il fatto che l’educazione non dovesse riguardare solo le donne. Il padre, invece, divenne noto per il suo saggio del 1793 intitolato “L'Inchiesta sulla giustizia politica e sulla sua influenza sulla morale e sui costumi moderni” (Enquiry Concerning Political Justice and its Influence on Modern Morals and Manners), comunemente noto come Giustizia politica; William Godwin è un anarchico preoccupato della degenerazione della giustizia, non solo della sua epoca, ma anche di quelle sottostanti. Mary Shelley riprende largamente le tematiche trattate dai genitori, pensiamo ad esempio alla vicenda che vede Justine condannata ingiustamente, o alla stessa figura del mostro, la quale riprende, se si vuole interpretarla come tale, la figura della donna che chiede incessantemente i suoi diritti. Per approfondimento leggere libro da pagina 11 a pagina 30. Aspetto peculiare del romanzo è la caratterizzazione minuziosa della creatura. Notiamo come essa inizialmente sia pacifica, coincidendo con la teoria dell’educazione naturale dell’uomo di Rousseau - secondo la quale allo stato di natura l'uomo vive in una condizione di uguaglianza e libertà, mentre rapportato alla società e con la cultura si trova costretto tra imposizioni e disuguaglianza – tramutandosi in seguito in un vero e proprio mostro, a cui la violenza è stata però indotta a seguito del rapporto con gli altri esseri umani all’interno di una società. Il fatto che egli non possegga un’identità, fa sì che venga riletto, inoltre, anche come la mera rappresentazione di tutte quelle classi sociali prive di una personalità, come la figura Ottocentesca della donna, che fino al momento del matrimonio possedeva il cognome (simbolo principale di un’identità) del padre e, successivamente, acquisiva quello del marito. Entrambi i genitori di Mary Shelley scrivevano le loro opere in età rivoluzionaria, alla quale seguì l’epoca del terrore, segno di una società che inizia a chiudersi in sé stessa, capovolgendo tutti i buoni propositi legati alla rivoluzione, a quell’utopia che da anni si cercava di raggiungere. L’entrata nella storia del terrore dà vita a un processo in completa antitesi con quello prefissato dall’illuminismo, il quale porterà alla manifestazione, intorno agli anni duemila, del terrorismo globale. Altro esempio all’interno del testo volto a testimoniare il fatto che vengano riprese la teoria o i vari aspetti dei genitori è l’episodio in cui la creatura comincia a domandare spiegazioni al suo creatore, ricordando i comportamenti anarchici ed eterodossi dei filosofi ottocenteschi ponendosi questioni riguardanti il modello illuminista. L’opera di Francisco Goya risalente al 1797, Capricci (Il sonno della ragione genera mostri), mostra come dal sonno dell’uomo, rappresentante l’assopimento della razionalità, si manifestano degli animali, dei mostri, ovvero l’altro volto della luce illuminista in chiave politica e sociale. I mostri sono i lati peggiori che fuoriescono dalla ragione proprio quando questa è in fase di impotenza. la fantasia è alla base di tutte le creazioni. Se questa è lasciata delirare in maniera incontrollata, senza il supporto della ragione, condurrà ai mostri e a tanti elementi inesistenti; se, invece, la ragione è sveglia e si unisce alla fantasia, in un intimo connubio tra regola e genio, si dà vita a uno strumento dalla potenza inesauribile. In spagnolo, inoltre, la frase assume un altro significato: la parola “sueño” sta ad indicare sia “sogno”, che “sonno”, simboleggiando una ragione che necessita dei mostri, come un suo sogno, una sua ambizione, proprio come il sonno causa i sogni. Essa è ossessionata da questo lato che vuole controllare e dal quale non può proprio fare a meno. In Capricci del 1799 di Francisco Goya i volti dei personaggi raffigurati hanno una morsa all’altezza delle tempie; una delle trasposizioni filmiche più iconiche di Frankenstein, risalente al 1932, si è apertamente ispirata ai capricci di Goya. Viene rappresentata la mostruosità sia nel dipinto che nel romanzo, ed essa riguarda la tematica del doppio oscuro rispetto all’poca illuminista. Johan Heinrich Füssli,autore di L’artista sconvolto davanti alla grandezza delle
 rovine antiche, visse nell’epoca di William Blake, ha origine svizzere ma è attivo in Inghilterra. Inoltre, ha avuta anche una relazione con la madre di Mary Shelley. La parola chiave del dipinto è “sopraffatto”, poiché sopraffatto è l’artista sconvolto dalle rovine antiche, prendendo atto, attraverso queste, dei cambiamenti in atto. L’artista, si ritrova schiacciato da questi frammenti, a indicare un mondo che sta cadendo letteralmente a pezzi, che fa fatica a trovare la sua ricomposizione politica e sociale e dove, questi enormi frammenti, o verranno riassorbiti in una nuova totalità, oppure daranno il via ad un corpo sociale, politico, sociale, artistico assolutamente nuovo, basato sul frammento, sulla ricucitura del frammento, l’artificio. Non è un caso se Mary Shelley sceglie la figura dell’anatomista, il quale ha esigenza di creare un corpo perfetto, riprendendo la tradizione dei teatri anatomici e soprattutto del De Humani Corporis Fabrica. Ma il sogno fallisce, la creatura risulta tutt’altro che perfetta, una serie di parti cucite insieme. Anche nel film di Kenneth Branagh viene ripresa tutta una tradizione anatomica risalente ai tempi passati, attraverso le tavole di Vesalio o i testi di Agrippa. Con Horace Walpole (Il castello di Otranto), nel 1764, abbiamo la nascita del genere gotico. Con la ripresa dell’aggettivo gotico, Walpole, decide di tornare all’epoca di Tito Andronico, ovvero quella dei Goti, dei barbari, gente sfregiata e mostruosa, rappresentazione di un corpo corrotto. Il termine gotico comincia ad indicare perciò ciò che la civiltà ha espulso o inglobato. Il romanzo è apertamente ispirato a Shakespeare e al genere della tragedia di vendetta. I romanzi scritti seguendo la falsa riga di quel genere letterario hanno tutti degli elementi comuni, i quali saranno destinati a diventare dei cliché: come la collocazione cronologica, l’età medievale, o l’ambientazione in castelli di quell’epoca. Il gotico trasporta il lettore in un altro tempo e in un altro luogo, e con esso, anche la figura del mostro. Il primo romanzo nasce quindi in Inghilterra, ma viene ambientato in Italia, nel castello di Otranto (Puglia), luogo che secondo le credenze era ancora soggetto a superstizioni. Mary Shelley, invece, decide di sconvolgere ogni genere di Topos già presente, alternandone i presupposti. Ma come mai un genere come quello Gotico nasce proprio in epoca illuminista? Ciò richiama la teoria secondo la quale ogni cosa, ogni forma di potere, per manifestarsi, deve anche disporre del suo contrario. Il genere gotico diventa anche un tipo di contestazione per tutte le figure che troviamo descritte dalla modernità. Il mostro non è altro che uno specchio deformato della società, un modo per riflettere sulla modernità. Tematica del sublime: nasce e si manifesta come una rivoluzione estetica. Il sublime è definibile in molti modi, è sinonimo di meraviglia, di paura, di angoscia, ma può essere visto anche come la creatura mostruosa, la quale induce nello spettatore, un certo sentimento di minaccia verso la sua esistenza. È sublime qualsiasi cosa minacci l’individuo, il quale però, trovandosi in una posizione di sicurezza rispetto a quella che è la minaccia, riesce a notarne e ad apprezzarne ogni singolo particolare. Come quando si osserva un paesaggio tempestoso da qualche kilometro di distanza oppure, in questo caso, quando il lettore legge Frankenstein riuscendo ad apprezzare tutte le singole sfaccettature della creatura e delle atmosfere cupe del romanzo. Di sublime aveva già parlato Aristotele, Poetica: pietà e orrore nel tragico Longino, Trattato del sublime (I sec. d.C), sottolineando il fatto che la categoria del sublime ha una storia tanto antica da essere già presente in altre epoche. Edmund Burke, Inchiesta sul bello e sul sublime, 1757
 “Tutto ciò che può destare idee di dolore e di pericolo, ossia tutto ciò che è in un certo senso terribile, o che riguarda oggetti terribili, o che agisce in modo analogo al terrore, è una fonte del sublime; ossia è ciò che produce la più forte emozione che l’anima sia in grado di sentire” (1, VII) Edmund Burke, nell’inchiesta sul bello e sul sublime, definisce sublime tutto ciò che può destare idee di terrore, producendo la più forte emozione che l’anima è in grado di percepire. La categoria del sublime suscita il sentimento di paura, il mostruoso diventa legittimo. Di uguale importanza è la risposta psicologica da parte dell’arte. Il fruitore di essa deve sentire che si trova in una situazione di pericolo, della quale ne può godere solo se si trova al riparo. Da qui deriva sostanzialmente il genere letterario dell’Horror: allo spettatore piace rifugiarsi in tale pratica perché si trova in una situazione di sicurezza, pur trovandosi di fronte a situazioni terribilmente orrende. Frankenstein è anche promotore di un’iniziale produzione massiccia di opere riguardanti l’automa. Ciò avviene perché Victor Frankenstein, ambizioso scienziato, vuole unire sotto la sua figura tutta la conoscenza riguardante la
 tradizione alchemica, “scienza” dell’antichità che si prefiggeva l’obiettivo di creare l’homunculus, prima forma di essere vivente artificiale. Nel Settecento, quindi, la concezione di poter plasmare il primo automa sfocia in ogni campo, specialmente in quello artistico: opera del 1738 appartenente a Jacques Vaucanson, il quale propone un automa che si accinge a suonare il flauto, ovvero non un qualcosa di pertinente alla macchina, bensì un’arte, ciò che per definizione è materia umana. Con l’opera di Jaquet-Droz, invece, viene amplificato il concetto esposto da Jacques Vaucanson, poiché, in questo caso, l’automa, non si limita a mettere in scena un qualcosa di artistico ma di comunque meccanico, bensì scrive, compie l’azione che da sempre discrimina la creatura dall’umano, mimando la vita stessa. Tra le frasi preferite dall’automa troviamo: “penso, dunque sono” esprimendo la volontà di tramutarsi in essere umano, collegando insieme l’aspetto ingegneristico e filosofico. In Il turco giocatore di scacchi di Von Kemplen l’automa non si limita a suonare un flauto o scrivere, risultando comunque meccanico e artificioso nelle movenze e nel contesto, bensì gioca a scacchi, implicando in tale azione qualcosa di razionale, studiato, logico, interagisce in modo tattico, quasi definibile umano. Ovviamente il dipinto rappresenta un trucco di prestigio, di fatto non era l’automa da solo a muovere le pedine, ma un individuo nascosto al suo interno, il concetto rimane comunque lo stesso. In Metropolis di Fritz Lang, la creatura meccanica è un robot, parola derivante dal cecoslovacco “robota”, che significava lavoro. L’uomo riesce quindi a creare una forma di vita, ma essa è finalizzata a sostituire l’uomo in una determinata serie di lavori oppure a creare uomini che siano docili come macchine. Mary Shelley, nella creazione del suo romanzo, prende ispirazione dall’italiano Luigi Galvani. La rana morta viene stimolata attraverso l’elettricità e, di conseguenza, l’arte subisce una tensione che porta ad un apparente movimento consenziente da parte dell’animale. Questo era uno dei principali esperimenti che venivano svolti all’epoca in dimostrazione delle teorie che si prefiggevano di sconfiggere la morte o addirittura di creare la vita. Ecco che il confine tra la rana morta e la sua rinascita diventa labile. Galvani, come altri intellettuali dell’epoca compiono questi atti durante tutta la seconda metà del Settecento; la particolare caratteristica di questa gente è che non avevano nessun titolo scientifico riguardante magari la materia medica, erano puri dilettanti che si “dilettavano” in quello che facevano. Le discipline non erano separate come lo sono nei giorni nostri, un filosofo poteva anche destreggiarsi in operazioni mediche ed esperimenti anatomici, anzi, era quello che succedeva nella maggior parte dei casi. Il nipote di Galvani, Giovanni Aldini, cominciò inizialmente ad applicare i suoi studi da autodidatta in Italia per poi continuare anche a Londra, inizia a sperimentare la teoria del nonno anche su corpi umani. Nel dipinto raffigurante esperimenti anatomici effettuati da Aldini, il nipote di Galvani, notiamo come la testa e le mani siano separati dal corpo, come ingranaggi separati da quello che sarà il prodotto finale; tutto ciò ricorda infatti una catena di montaggio, ricordando tutta la tradizione anatomica descritta in De Humani Corporis Fabrica. La creatura di Frankenstein è plasmata dalla tecnologia, dall’elettricità; la vicenda ricorda la nascita dello zombie, avvenuta, appunto, dalla tecnologia medica, precisamente dai macchinari che tengono in vita la gente in coma, ricordando la figura dello zombi, qualcuno né morto, né vivo. Robert Walton (Lettera II): “C’è un amore per il meraviglioso, una fede nel meraviglioso, intessuta in tutti i miei progetti, che mi spinge oltre i sentieri generalmente battuti dagli uomini, fino al mare selvaggio e alle sconosciute regioni che sto per esplorare” Mary Shelley riprende anche l’antichissimo Topos della mappa di Hereford attraverso la figura dell’esploratore Walton, il quale, arrivando ai confini della terra, trova un luogo senza regole frammenti migliori per la creazione del suo essere, i quali, tuttavia, diventano nell’insieme un qualcosa di terribilmente opposto, un abominio. Il mostro porta sulle sue spalle tutta la colpa del suo creatore, notiamo come infatti lui non dica mai, ad esempio, “che Dio mi perdoni”. Dove comincia e dove invece finisce l’identità dell’individuo? Qualcuno a cui non appartengono le sue stesse parti del corpo, è ancora dotato di identità? Nasce quella che è nota come “sindrome di Frankenstein”: quando viene eseguito un trapianto di mano, la persona che ne usufruisce sente come se la mano si muovesse da sola, come se non sottostesse ai suoi comandi ma vivesse di ragion propria, conservando ancora i ricordi e le esperienze del suo precedente proprietario, proprio come se avesse ancora una sua identità. Rientra in gioco la questione della bioetica: la scienza detiene anche il biopotere? Tutta la strumentazione scientifica ha una certa presa sulla vita. Essa può controllare, a livello etico e capillare, i corpi umani. Ricordiamo infatti il dibattito sull’eutanasia, riassumile con la seguente domanda retorica: “di chi è il mio corpo?”. A tal proposito, Donna Haraway, propone un testo dove afferma, in maniera provocatoria, che ciò che vuol fare Frankenstein con tutta la questione della creazione, sostituendo la donna con la scienza per quanto riguarda la creazione di un essere vivente, non è una cosa sbagliata, da biasimare, bensì da incoraggiare perché liberatoria: solleva la donna dall’obbligo del sesso biologico, o, più in generale, di liberare l’uomo da tutta una serie di compiti che gli sono stati imposti in maniera oppressiva dalla natura. Il golem è una figura antropomorfa immaginaria della mitologia ebraica e del folclore medievale. Il termine deriva probabilmente dalla parola ebraica gelem, che significa "materia grezza", o "embrione", presente nel Tanakh (Salmo 139,16) per indicare la "massa ancora priva di forma", che gli ebrei accomunano ad Adamo prima che gli fosse infusa l'anima. In ebraico moderno golem significa anche robot. Secondo la leggenda chi viene a conoscenza della Qabbalah, e in particolare dei poteri legati ai nomi di Dio, può fabbricare un golem, un gigante di argilla forte e ubbidiente, che può essere usato come servo, impiegato per svolgere lavori pesanti e come difensore del popolo ebraico dai suoi persecutori. Può essere evocato pronunciando una combinazione di lettere alfabetiche. Si narra che nel XVI secolo un sapiente europeo, il rabbino Jehuda Löw ben Bezalel di Praga, cominciò a creare golem per sfruttarli come suoi servi, plasmandoli nell'argilla e risvegliandoli scrivendo sulla loro fronte la parola "verità" (in ebraico אמת [emet]). C'era però un inconveniente: i golem così creati diventavano sempre più grandi, finché era impossibile servirsene: il mago decideva di tanto in tanto di disfarsi dei golem più grandi, trasformando la parola sulla loro fronte in "morto" (in ebraico מת [met]); ma un giorno perse il controllo di un gigante, che cominciò a distruggere tutto ciò che incontrava. Il Golem, non come deità ma come una sorta di angelo, la cui natura nella Qabbalah è segreta, però creato dal maestro in grado di unirne il potere spirituale alla Volontà di Dio, si racconta operasse anche per la difesa di alcune comunità ebraiche dell'Europa orientale. Ripreso il controllo della situazione, il mago decise di smettere di servirsi dei golem che nascose nella soffitta della Sinagoga Vecchia- Nuova, nel cuore del vecchio quartiere ebraico, dove, secondo la leggenda, si troverebbero ancora oggi. La vicenda si avvicina molto all’esoterismo, anche se legata alla religione, ha comunque i suoi aspetti mistici e segreti. A partire dal XIX secolo la società europea cominciò ad adottare la figura del Golem in varie opere di fantasia; quest’ultime diedero un nuovo e drammatico volto al Golem, divenuto una creazione di mistici ambiziosi che inevitabilmente vengono puniti per la loro blasfemia (molto similmente alla storia del mostro di Frankenstein di Mary Shelley e all'homunculus dell'alchimia). Mary Shelley sembra dunque offrire un manifesto a tutte quelle identità escluse dalla normalità e dalle quali si teme una forma di ribellione: la creatura è impersonata da un uomo di colore, riesumando tutta la questione relativa alla razza, allo schiavo, all’uomo inferiore. Identificazione con l’araba ‘Safie’ (‘sophia’: il sapere); Cap. 13: Narrazione/ruolo politico-sociale: Volney, Le rovine degli imperi: “Attraverso questo lavoro mi procurai una sommaria conoscenza della storia e ne ricavai un panorama dei diversi imperi esistenti al mondo; mi feci un’idea dei costumi, dei governi e delle religioni delle varie nazioni della terra. Sentii parlare dei pigri asiatici, dello stupendo genio e del rigoglio intellettuale dei greci, delle guerre e splendide virtù dei primi romani (...) Udii della scoperta dell’emisfero americano, e piansi con Safie sull’infelice destino dei suoi abitanti originari.” Ciò riflette sul colonialismo, sull’espropriazione della terra che prima, e perciò di diritto, apparteneva ai nativi; il mostro si identifica con i colonizzati, in chi, come lui, non ha mai avuto la possibilità d’espressione. Inoltre, ciò gli ricorda, anche tramite la figura di Safie (donna araba), che non basta essere un essere umano per godere di una propria identità, per quella servono delle prerogative sociali, come un nome, un cognome, tutto ciò che indichi l’originalità dell’individuo. Dal nome di una persona derivano infatti storie riguardanti la sua famiglia, riuscendo ad ottenere la possibilità di raccontare qualcosa sé stesso. a riguardo bisogna inoltre ricordare la lunga battaglia della donna per ottenere questo diritto tramite l’occasione di poter tenere il proprio cognome anche dopo il matrimonio. “Mentre ascoltavo gli insegnamenti che Felix impartiva alla giovane araba, mi resi conto dello strano sistema su cui si basa la società umana. Sentii parlare della divisione di proprietà, della immensa ricchezza e della squallida povertà, del rango, discendenza e sangue nobile” “E io che cos’ero? Della mia creazione e del mio creatore non sapevo assolutamente nulla, ma sapevo che non avevo denaro né amici né alcun genere di proprietà” Safi, una donna e per giunta araba, viene paragonata al mostro. Entrambi riescono nell’intento di giungere alla formazione morale e culturale, dimostrandoci come i mostri siano inventati da noi in base a secoli di distinzioni nate a causa delle diverse culture. la donna, che ricordiamo, ha un nome che ricorda “Sofia”, termine greco per indicare la sapienza, è proprio colei che nel romanzo fa da garante culturale. L’immagine di Frankenstein comincia a dilagare anche in campo politico e satirico, parodistico, così da imporsi all’interno dell’immaginario collettivo fino a non uscirne più, tant’è che tutt’oggi pensiamo alla figura della creatura come un cult universale. Il racconto della creatura inizia a mettere in discussione, attraverso la cultura, la differenza tra l’essere umano e il mostro. Frankenstein, quindi, è stato definito sul modello di un genere letterario molto popolare, ossia, il romanzo di formazione. La creatura parte da zero accingendosi verso quella che sarà una vera e propria iniziazione all’umanità, l’iniziazione di un soggetto alla vita moderna. Il genere diventa popolare proprio perché sono quegli anni dove la società subisce una riforma, e ne sono esempi romanzi come: i dolori del giovane Werther, di Goethe, o Le ultime lettere di Jacopo Ortis, di Ugo Foscolo. Questi racconti servono a fornire dei paradigmi d’integrazione sociale, alla costruzione di un soggetto che deve essere uniforme alla società. Frankenstein, può definirsi autobiografico: il mostro scopre una casa fuori dalla società, collocata, appunto, in una foresta; qui le fasi del suo sviluppo ricalcano quelle della crescita di un bambino. Ciò non spiega però il perché venga definito autobiografico: la questione della foresta riprende la vita di Mary Shelley perché riaffiora il dibattito della madre con Rousseau; infatti, la creatura nella foresta è esattamente come l’uomo rousseauiano. Secondo tale teoria è infatti la civiltà a corrompere l’uomo, che è invece in principio un essere buono. Se è possibile apprendere l’” essere umani”, la mostruosità è veramente solo un fattore culturale. Segue il Cap. 14: Storia dei De Lacey (Felix, Agata, il padre cieco) e di Safie, nata da un mercante turco e da un’araba cristiana catturata come schiava dai turchi. Safie è allevata dalla madre a “un’indipendenza di spirito proibita alle donne maomettane” Mary Shelley mette in discussione i diritti delle donne mostrando come l’Europa abbia le abbia restituito tutta una serie di concessioni che invece, portando l’esempio di Safi e di suo padre, i musulmani si ostinano ancora a vietare. La parte del romanzo che tratta la vicenda dove Felix incontra Safie salvandone il padre è non solo una microstoria riguardante l’ingiustizia, ma anche un modello di storia d’amore che arriva a toccare nel profondo l’animo del mostro, proprio come successo quando si avvicinò alla lettura dei dolori del giovane Werther. In questa microstoria accade un fatto da non sottovalutare: la stessa persona che Felix tenta e riesce a salvare da un’ingiusta prigionia, ossia il padre di Safie, finisce poi per tradirlo proprio a quelle forze dell’ordine che lo avevano incarcerato; si apre così un altro dibattito etico: chi ha agito nel giusto? E chi invece nel sbagliato? Cap. 15: Narrazione/ruolo familiare: John Milton, Il paradiso perduto: creatore-creatura, padre- figlio. Il mostro trova i libri; tra questo c’è Il paradiso perduto. Leggendo il testo, egli capisce finalmente di essere anche lui una creatura, passando dal non sapere assolutamente nulla della sua vita, allo scoprire che ha un creatore. Rapportandosi al libro arriva addirittura a domandarsi se in tutto ciò fosse più vicino a Satana oppure ad Adamo. Narrazione dell’interiorità: Plutarco, Vite; Goethe, I dolori del giovane Werther Grazie all’ultimo libro, Le Vite, di Plutarco, la creatura impara invece che ogni essere umano è come “una narrazione di una vita”: le Vite è il contatto con un genere letterario che trasforma la biografia (ossia il dato esperienziale di una vita) in una storia; siamo delle storie raccontate dagli altri. Altro insegnamento dal romanzo di Plutarco è la capacità di saper esprimere e comunicare dei sentimenti che altrimenti, inarticolati, non avrebbero nemmeno esistenza; essere umani non significa solo avere dei sentimenti, senza possibilità di articolarli, forse i sentimenti stessi non esistono. Da questo testo ha imparato perciò a riconoscere un sentimento e soprattutto a parlarne. Questa è una delle espressioni trasgressive di maggior impatto rispetto al periodo romantico, e lo è perché, per i romantici, se un giorno venissero abolite tutte le strutture politiche e sociali, rimarrebbero i sentimenti, cosa che invece, in base al discorso di prima, essi sono un qualcosa da imparare solo attraverso le culture, le strutture del linguaggio. La creatura, rendendosi conto che non ha nessuno, non appartiene a nessuna catena umana (non ha una famiglia), non può nemmeno inserirsi all’interno di un contesto sociale; chiede allora al suo creatore una compagna, cosicché possa condividere la sua esperienza con qualcuno, per realizzare, in qualche modo, il suo essere uomo. Nasce quindi un rapporto umanità-mostruosità che vuole farci notare come, in effetti, acquisendo sempre più cultura, il mostro tenti di sostituirsi all’uomo, dimostrando molta più umanità di quanta non ne abbia la gente che invece lo aveva cacciato e maltrattato in diverse occasioni. “tu che mi definisci mostro, non sei forse, come me, l’esito di una narrazione politica-sociale che io non ho? Di una narrazione familiare che non possiedo o che mi è stata negata? E di una narrazione sentimentale e affettiva che io non posso manifestare con nessuno?”; la domanda fondamentale del testo è: “che differenza c’è tra me e te?” la differenza è che tu possiedi delle prerogative che io non ho, ma non perché tu sei umano e io invece no, ma semplicemente perché a te sono state concesse dal fatto di essere in una famiglia, di essere stato cresciuto. L’interrogativo tende ad azzerare la differenza tra umano e mostruoso, rivelando che, solamente nel momento in cui il mostro avesse tutte queste prerogative sarebbe a tutti gli effetti un umano, evidenziando la teoria che il “mostruoso” non appartiene alla natura, bensì alla cultura umana. Umano non si nasce ma ci si diventa. Questa messa in discussione del rapporto tra natura e cultura conferisce umanità alla creatura. C’è però un punto che riguarda allora il modo in cui il corpo e l’immagine del corpo condizionano la recezione di ciò che è umano, di ciò che è accettato e di ciò che non lo è. Chi è quindi la creatura? È il risultato di ciò che pensa, dei suoi sentimenti, o del suo corpo? L’attenzione, all’interno di un contesto sociale, ricade sull’immagine, condizionando quello che è. Di fatto, l’unico con cui il mostro riesce ad avere una conversazione è proprio un uomo cieco. L’immagine del proprio corpo diventa discriminante per l’individuo. L’importanza del modo di presentarsi ricade anche nel romanzo di Oscar Wilde, Il Ritratto di Dorian Gray, rovesciando le carte in tavola, capovolgendo tale convinzione sociale: Dorian Gray è un ragazzo bellissimo che però compie continuamente orribili crimini. Il bello non equivale più alla bontà e il brutto, invece, alla cattiveria. magnifica, come quella descritta nel film di Tarantino “Bastardi senza gloria”, dove i ribelli riescono a ribellarsi al nazismo) possa avvicinarsi in qualche modo a quella che sia la realtà che viviamo. Ishiguro propone un’ibridazione di generi, riprendendo quella che era già stata la mossa dirompente di Mary Shelley, dando voce al narratore, alla creatura. È anch’esso un romanzo di formazione, incentrato sui rapporti di memoria, di amicizia e di crescita del protagonista. Tutta questa formazione è però pronunciata in un soggetto che non ha futuro, il che rende la questione formativa inefficiente, inutile; ecco uno degli aspetti terribili del romanzo. L’obiettivo di questi cloni, i quali vengono “allevati” (come a sottolineare un’analogia con l’allevamento animale) in apposite strutture, è quello di donare (per un massimo di quattro volte) degli organi, accompagnati da un loro apposito assistente, il quale, a sua volta, è un clone in attesa di compiere delle donazioni. Dopo le quattro donazioni, il clone è completa il suo ciclo. Da questa premesse, quello che salta agli occhi ad un primo impatto, è la forma del linguaggio utilizzato: vengono continuamente usati eufemismi per indicare cose che necessiterebbero dell’uso di terminologia totalmente differente; ne sono un esempio i vari “completare il ciclo”, “assistente”, “donazioni”. La verità, rispetto alla loro funzione effettiva, viene mascherata attraverso altri termini che ne travolgono il significato, rimuovendo ciò che c’è di drammatico. Ishiguro riprende da Orwell l’idea di violenza del linguaggio, del mascheramento della violenza. Anche in epoca nazista, però, veniva usata questa tecnica; ricordiamo infatti i vari motti, come: “la soluzione finale” per indicare l’eliminazione di un nemico e “pulire la nazione” per indicare la debellazione delle razze semitica e slava dalla faccia del pianeta Terra; l’uso di queste particolari tecniche di linguaggio vengono comunemente definite come banalità del male, ovvero: accadono cose orrende ma le si fa passare per normali. Ishiguro utilizza una tecnica narrativa che induce il lettore (che viene continuamente fuorviato dagli eufemismi) ad acquisire lentamente il tema del romanzo, ossia il fatto che si sta effettivamente parlando di un clone. Che genere di rapporto punta ad avere lo scrittore con i suoi lettori? Kathy si approccia al lettore come se stesse raccontando una storia ad un amico, a qualcuno che si trova nella sua stessa situazione, o che comunque abbia vissuto almeno una volta nella vita momenti simili a quelli che lei ha vissuto nella sua. Chi legge il romanzo è costantemente coinvolto nella condivisione di esperienze relative ai ragazzi di Heilsham, presupponendo il fatto che i cloni svolgano una vita che li accomuna a qualunque persona considerata normale vissuta anche nei giorni nostri. Lo scrittore combina due meccanismi opposti: non ci rivela che si sta trattando di cloni, però, allo stesso tempo, mette la voce narrante sullo stesso piano del lettore, addirittura attraverso continue interpolazioni, invitandolo a riflettere sulla comunità delle loro esperienze; attraverso questa modalità, il lettore, inizialmente all’oscuro, è portato a condividere ciò che legge, rendendosi conto che magari, durante la sua vita, avrà avuto anche lui un amico che dava in escandescenze, come Tommy, o uno che era solito comportarsi da leader, come Ruth, ma ritrovandosi poi, dopo aver scoperto la verità dei fatti, ad aver abolito la differenza fra clone e umano. Non è come in Mary Shelley, ovvero il solo dare una voce alla creatura, ma di nuovo riproporre la relazione tra l’umano e il mostruoso e porre questa identità, sollecitata dalla voce di Kath, la quale, tra l’altro, come tutti gli altri cloni, ha un cognome puntato, a sottolineare il fatto della non possessione di un’identità. Kath ha, per tutta la durata del romanzo, un tono tranquillo, come se non avesse emozioni, pur diventando l’assistente dei suoi amici. lei era lì mentre questi effettuavano le loro donazioni e completavano il loro ciclo. A questo punto ci si aspetta dalla protagonista un modo adeguato di trattare l’argomento, magari con un po’ più di tatto, ma Kath risulta apatica: ci racconta gli avvenimenti come se non fosse successo nulla di particolare. Mentre in Frankenstein tutta la questione della creatura, del diverso, punta a coinvolgere il lettore attraverso l’empatia, in Non Lasciarmi abbiamo l’esatto opposto: il coinvolgimento del lettore avviene attraverso la narrazione e gli aspetti comuni con la creatura, ma non attraverso un’empatia verso i suoi confronti. Altro aspetto degno di nota è la scelta, da parte di Ishiguro, di scegliere come microcosmo per la sua opera una scuola, un campus, ossia Heilsham, richiamando attenzione attraverso la visione collettiva: la gente dell’epoca, infatti, quando aveva davanti una struttura di quel tipo, pensava subito alla scuola di magie di Hogwarts, presente in Harry Potter, legando l’immaginario del suo romanza alla famosissima saga di J.K. Rowling, riuscendo a richiamare tutto l’immaginario dell’adolescenza, altamente presente nel suo testo. Il romanzo ha come protagonisti degli orfani, scelta ponderata proprio per richiamare al lettore la memoria del romanzo di Charles Dickens, rendendo un romanzo di formazione dove i ragazzi riescono comunque a crescere rapportandosi con la società. Heilsham, nel romanzo, rappresenta per i personaggi, sia un luogo della memoria, ma anche, e soprattutto, un surrogato dell’origine, di ciò che è materno, appartenente all’ambiente famigliare. Il passato è, in fin dei conti, l’unica vita concessa al clone. Ciò è evidenziato dal fatto che anche i ragazzi che non provengono dalla stessa struttura di Kath, ovvero Heisham, le domandano a proposito di essa, come ad aver bisogno di racconti infantili, che descrivano il calore famigliare. Heilsham è anche un microcosmo sociale, per molti aspetti simile al Panopticon di Bentham: i ragazzi sono costantemente sotto osservazione; se da una parte è uno spazio dove non c’è un minimo di privacy, dall’altra, però, si crea un clima oscuro, nascosto, tant’è che i ragazzi tramano teorie complottiste, come quella nei confronti di Madame, ricordando in qualche modo l’universo visto in 1984. Il bosco descritto nel romanzo è analogia del terrore, un luogo di leggenda: si vocifera tra i ragazzi addirittura la storia di un loro compagno che venne ritrovato mutilato. L’Universo di Ishiguro ricrea la società illuminata attraverso Heilsham, ma fornisce al lettore anche il suo “doppio”, ovvero la foresta, un luogo totalmente sregolato (come quello presente già in Titus), dove vi è frammentazione (ripresa attraverso la vicenda del ragazzo rinvenuto smembrato nel bosco) e gotico (ripreso invece attraverso la leggenda di un fantasma vagante nella foresta). Ai cloni viene solamente insinuata quella che è l’origine e lo scopo della loro esistenza; questo perché, chi gestisce i ragazzi, non sa se renderli coscenti della verità dietro la loro origine in maniera graduale e velata oppure in modo diretto e schietto. Il risultato è una sorta di alternanza delle due opzioni, dando alla luce quello che il libro definisce dire - non dire, che è anche una delle somiglianze tra cloni e l’umano: poniamo come base della questione “perché i cloni non si ribellano?”; notiamo come tutte le storie che hanno come base una qualche creatura sottomessa per qualche ragione a qualcuno di predominante, queste tendano a ribellarsi, avendo come fine ultimo il poter diventare umano; nella storia narrata da Ishiguro, invece, i cloni non mostrano il benché minimo cenno di ribellione. È proprio quest’ultimo aspetto che, paradossalmente li rende umani: pensiamo infatti al fatto che neanche noi, pur sapendo che un giorno arriverà il momento di completare il nostro ciclo, mostriamo segni di ribellione. Come i cloni, anche noi siamo a conoscenza del nostro destino ma viviamo come se in realtà non lo conoscessimo, perciò, in un certo senso, anche noi attuiamo su noi stessi la tattica del dire - non dire. Alla base dell’essenza umana c’è l’accettazione e la rimozione; anche gli umani, inoltre, vengono educati in una sorta di struttura panoptica. Ci accorgiamo quindi che non è tanto il clone ad equivalere all’uomo, bensì il contrario, ed è proprio questo il motivo che rende il romanzo tanto inquietante agli occhi del lettore. L’unico che si ribella, attraverso urla e atteggiamenti fuori dalla norma, è Tommy, il quale però non viene ascoltato, anzi deriso proprio a causa della sua anormalità. Tutti hanno paura dei cloni: importante l’episodio di Madame, la quale, dopo che venne avvicinata dai ragazzi che volevano salvarla dal presunto rapimento cospirato da Ruth, cede a un sobbalzo dovuto alla paura nei loro confronti. Ciò avviene perché i cloni ricordano a tutta la gente quello che è il loro destino, il fatto che ogni essere umano deve completare il suo ciclo. Per dimostrare la loro umanità, i cloni vengono interfacciati alle arti umane, come la poesia e la pittura, ovvero gli unici modi per dimostrare all’umanità che i cloni possono esprimersi in maniera originale, irripetibile. L’arte, oltre al suo scopo principale già descritto, ha anche la funzione di costituire oggetti per i baratti dei ragazzi: i giovani scambiano le proprie creazioni con dei buoni, con i quali è possibile acquistare oggetti scambiabili provenienti dal mondo fuori. Importante è anche il Grande Incanto: una grande asta delle loro opere e dei loro oggetti durante la quale vengono scelte le loro opere per venir esposte alla “galleria” di Madame; in tutta questa descrizione nel romanzo abbiamo, da una parte il contesto economico, perché sembra ci sia dell’interesse, ma queste opere sono prodotte come una prova di esperienza da parte di laboratori al fine di testare la loro umanità. Il concetto è “produrre arte per essere umani”, ma ciò non risulta come un marchio di umanità, bensì come forma di sfruttamento, che sfocia nella faccenda delle loro donazioni. Inoltre, i cloni collezionano ciò che acquisiscono durante i baratti, formando delle vere e proprie collezioni; con ciò si punta a costruire una sorta d’identità, l’importanza degli oggetti traduce molti degli aspetti dell’identità della persona. Il titolo del romanzo evoca l’identità del clone e l’umano contemporaneamente. “Non lasciarmi”, grammaticalmente, è una paradossale richiesta di divieto, una libertà che si trova dentro una struttura limitativa, proprio come nel Panopticon: i cloni hanno la possibilità di andare via da Heilsham, ma non lo fanno, come una richiesta di prigionia eterna. Never let me go è una canzone di Judy Bridgewater, una cassetta che Kathy ha collezionato, un’ora d’arte non originale, una replica, una copia. Non c’è un’arte intesa come inimitabile ma viene proposta la dimensione della copia. Da evidenziare il fatto che il romanzo prenda il suo nome da un’altra forma d’arte, ossia la cassetta di Kathy, anch’essa già di per sé una copia, tra l’altro. La nozione di originalità è stata superata. Jean Baudrillard, L’illusione dell’immortalità, 2007 “è la cultura a clonarci; e la clonazione mentale anticipa quella biologica. Attraverso i sistemi scolastici, i media, la cultura e l’informazione di massa i singoli individui diventano copie gli uni degli altri. È questo tipo di clonazione – la clonazione sociale, la riproduzione industriale di cose e persone – ad aver reso possibile la scoperta biologica del genoma e la clonazione genetica, la quale non fa altro che confermare ulteriormente la clonazione culturale di comportamenti e conoscenze” Ricordiamo citazioni come quelle di Norbert Elias in “la società delle buone maniere” o di Marcell Maus in “le tecniche del corpo”: i media, ogni mezzo di comunicazione di massa, ma anche la società in generale hanno una certa influenza su di noi, siamo il risultato del nostro rapportarci con la gente che ci circonda, ciò ci inculca ideologie, modi di fare, atteggiamenti, tramutandoci in masse sempre più uniformi. La cultura ci rende cloni in qualche modo. Chi è che dice che la creatività dell’uomo si misuri solo in originalità? Tommy è ritenuto poco creativo, allora ipotizza degli animali meccanici: produce meccanicamente un’opera d’arte che è la ripetizione di ciò che è riciclato in modo creativo. Creando il clone, Tommy non esprime l’umano, ma sé stesso. l’umano è umano se dimostra di essere irripetibile? Per questo la clonazione risulta un grande scandalo. Baudrillard rovescia il ragionamento: in realtà ciò che ci spaventa del clone è proprio la ripetizione, la quale, in realtà, caratterizza già l’umano, la base dell’umanità intesa come valore la si può trovare più nella copia rispetto all’originale, come Non Lasciarmi che copia la cassetta o Tommy che disegna una copia degli animali disegnandoli colmi di parti meccaniche, artificiose. Altra questione importante è quella riguardante i possibili, perché hanno questo nome? Semplicemente perché, per definizione, il possibile è quel qualcosa che, nel momento in cui è interpellato, può ancora accadere, spianando la strada ad una miriade di opzioni riguardanti il futuro. I veterani riprendono il filone dell’umano come sinonimo di originalità, anch’essi ribaltandolo completamente: infatti, i veterani, vengono inizialmente descritti in base alla loro principale caratteristica di copiare, negli atteggiamenti, le serie tv o comunque un qualsiasi altro macro- mezzo d’intrattenimento a cui avevano modo d’interfacciarsi. Abbiamo quindi la presenza di dei modelli da imitare, ma ciò non vuol dire copiare, bensì imparare. Quindi, a partire dalla seconda parte del romanzo, viene contestata la comunanza tra clone e umano. Le opere plasmate dai cloni avevano come fine il dover dimostrare che anche i cloni avessero un’anima, ma ciò serviva solo al bene dei promotori di questo sistema e, infatti, nulla riuscirà mai a mutare quello che è il loro destino. Pur somigliando molto all’umano, non arriva mai a esprimersi come tale. Questo modello appena descritto è di tipo umanistico: l’arte diventa dimostrazione di umanità. La vita degna di rispettabilità è quella che ha un’anima. Ma c’è uno studente in particolare, Tommy, al quale viene espressamente detto di essere privo di creatività, è forse lui non degno di rispetto? Tommy possiede un altro tipo di umanità, forse più spontanea e veritiera di quella degli altri cloni, poiché i suoi animali sono istintivi, personali. In seguito, proprio come gli organi, anche le loro opere vengono donate, offerte ai compagni. I cloni sono nati con il solo fine di essere utili agli altri, così anche le loro opere d’arte.
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