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LIBRO DI STORIA ROMANA, Appunti di Storia Romana

DALLE ORIGINI DI ROMA ALLA REPUBBLICA LA CREAZIONE DELLA REPUBBLICA LA CONQUISTA DELL’ITALIA LA CONQUISTA DEL MEDITERRANEO LE CONSEGUENZE DELLE CONQUISTE LO SCONTRO TRA OTTIMATI E POPOLARI: MARIO E SILLA LA CRISI DELLA REPUBBLICA LA NASCITA DELL’IMPERO LA DINASTIA GIULIO CLAUDIA LA GUERRA CIVILE DEL 68-69 d.C. E LA DINASTIA FLAVIA IL PRINCIPATO ADOTTIVO E LA DINASTIA DEGLI ANTONINI LA DINASTIA DEI SEVERI L’ANARCHIA MILITARE DA DIOCLEZIANO A COSTANTINO TEODOSIO E LA DIVISIONE DELL’IMPERO ROMANO LA CADUTA DELL’IMPERO ROMANO D’OCCIDENTE

Tipologia: Appunti

2021/2022

Caricato il 09/10/2023

Elisa9988
Elisa9988 🇮🇹

4.4

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50 documenti

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Scarica LIBRO DI STORIA ROMANA e più Appunti in PDF di Storia Romana solo su Docsity! Capitolo 1 DALLE ORIGINI DI ROMA ALLA REPUBBLICA 1. LA FONDAZIONE DI ROMA Verso l’inizio del I millennio a.C. l’Italia era abitata da varie popolazioni, di diversa origine, lingua e cultura. La penisola era occupata da tribù italiche di agricoltori, divise linguisticamente in due gruppi: • Latino-falisco, meno numeroso, che godeva di una civiltà più sviluppata • Osco-umbro, popolo di pastori Nella penisola italica sud- orientali vivevano tribù illiriche, Iapigi e i Messapi, di civiltà agricola poco avanzata. Intorno all’VIII secolo a.C. si affacciarono sul suolo italico i Greci che, attraverso la fondazione di numerose colonie, occuparono l’area meridionale della penisola, la cosiddetta Magna Grecia. Gli influssi della cultura greca furono assorbiti con più forza nel Sud, mentre erano deboli al Centro e nell’entroterra. Nello stesso periodo anche gli Etruschi, stanziati nell’attuale Toscana, svilupparono un’originale civiltà urbana, facendo divenire le città importanti centri economici ed esercitando una grande influenza sull’Italia centrale sino alla Campania. Nella valle del Po penetrarono poi tribù galliche, che riuscirono ad impadronirsene: l’intera regione sarà conosciuta con il nome di Gallia Cisalpina. Tra tutte queste popolazioni i Latini dell’Italia centrale ebbero il ruolo storico più importante, fondando, nel territorio compreso tra il Tevere e i Colli Albani, alcuni villaggi indipendenti tra loro ma riuniti in leghe di carattere difensivo e religioso. Esistevano città autonome ben organizzate, raccolte nella Lega Latina, il cui centro principale fu rappresentato dalla città di Alba Longa. La nascita di Roma, che la tradizione data al 21 aprile del 753 a.C., è avvolta nella leggenda, come attestano le storie di Romolo e Remo e dei sette re di Roma; tali racconti mitici erano utili per nobilitare le oscure origini della città. Nel IX secolo a.C. comunità di Latini si insediarono sui colli che si trovano in prossimità del Tevere, in una posizione privilegiata, con la presenza di alture facilmente difendibili, vicino a un fiume e nel contempo al mare, in un punto di incrocio di vie di transito commerciali. I primi insediamenti latini (villaggi di capanne) sorsero sul Palatinato e poi si svilupparono sui colli contigui. La leggenda sulla fondazione di Roma testimonia inoltre una coabitazione iniziale tra Latini e Sabini: si pensi ad esempio all’episodio del ratto delle Sabine o ad alcuni re sabini, come Numa Pompilio e Tito Tazio, o come Tullio Ostilio e Anco Marcio, figli di donne sabine. A partire dal IX secolo a.C. le piccole comunità indipendenti di villaggi latini cominciarono a coagularsi attorno all’originario nucleo urbano del Palatino per poi dare vita a un vero e proprio centro cittadino: Roma. Questa città dilatò progressivamente i confini sino ad integrare tutti gli insediamenti protourbani dei sette colli. Risultato del sinecismo fu una società di lingua latina, a struttura gentilizia: più famiglie, imparentate tra loro, formavano una GENS, e le circa trecento genti esistenti si ripartivano in trenta curie, a loro volta divise nelle tre, originarie e arcaiche, tribù di Roma: 1. TITIENSES 2. RAMNENSES 3. LUCERES Le strutture portanti della società erano la gens e la sua cellula, ovvero la familia. Cosa si intende per gens? Una sorta di clan, che raggruppava più famiglie, discendenti da uno stesso mitico antenato, che condividevano la casa e il possesso di pascoli e terreni. All’interno di una gens le famiglie erano gerarchizzate per grado di ricchezza: ciascuna aveva il proprio pater, i propri culti e i propri riti. A guidare la società romana era dunque un’aristocrazia gentilizia. Al di fuori del sistema gentilizio c’era poi la classe dei PLEBEI (dal latino PLEBS, moltitudine) che, a differenza dei PATRIZI, non godeva dei diritti civili e politici. Era un insieme eterogeneo di persone, privato però di qualsiasi riconoscimento politico: ai plebei non era garantito il diritto di proprietà, non potevano partecipare ai culti pubblici e non avevano alcuna organizzazione istituzionale. Erano Romani, ma non cittadini. A Roma gli dei venerati erano quelli Latini, divinità antropomorfe, con caratteri simili a quelli degli dei greci, ma la Triade specificamente romana, posta a protezione dell’Urbe, con un tempio sul Campidoglio, fu quella di Giove, Giunone e Minerva, la cosiddetta Triade Capitolina. 2. L’ETA’ REGIA La prima forma di governo di Roma fu la monarchia, che durò dal 753 a.C. sino al 509 a.C., anno della cacciata di Tarquinio il Superbo. Secondo la leggenda, in questo periodo governarono sette re, MA si tratta di un numero troppo esiguo per un arco cronologico di 244 anni, che darebbe una media di 35 anni di regno ciascuno. Spesso la tradizione riconduce all’etimologia dei nomi le fasi dell’evoluzione della città: 1. A Romolo: fondazione, nome di Roma e fusione di romani e sabini. (753-715) 2. A Numa Pompilio: Basi dell’ordinamento religioso (715-672) 3. A Tullo Ostilio: inizio dell’espansionismo, sconfitta di Alba Longa ed egemonia romana nella Lega Latina (672-640) 4. Ad Anco Marcio: fondazione della prima colonia romana, Ostia, e avvio dei traffici commerciali sul Mar Tirreno. (640-616) 5. Tarquinio Prisco (616-578) 6. Servio Tullio (578-534) 7. Tarquinio il Superbo (534-509) Gli ultimi tre re, etruschi, testimoniano l’influenza etrusca su Roma. Nel VI secolo a.C. infatti alcuni capi etruschi erano riusciti a imporsi sulla città, imprimendo un impulso alle opere pubbliche e all’organizzazione politica. Gli influssi etruschi si fecero sentire sulle istituzioni, sui costumi e sulla lingua, senza mutare il carattere specificatamente latino di Roma. Tarquinio Prisco fece bonificare la valle paludosa tra il Palatino e il Campidoglio, e Roma era una società aristocratica, dominata dai patrizi, che basavano la loro ricchezza su grandi proprietà terriere e, in ragione di queste, avevano il diritto di governare lo Stato. Il principale organo della repubblica romana rimase sempre il senato, dove si raccoglievano i rappresentanti delle famiglie aristocratiche e coloro che avevano esercitato cariche pubbliche. Era composto da 300 membri e consigliava i magistrati, approvava le misure politiche importanti e preservava i valori essenziali dello Stato. I primi magistrati esecutivi della repubblica furono i PRAETORES. Poi il sistema mutò: le magistrature erano annuali e collegiali, in modo da limitare gli abusi di potere e alla fine le magistrature repubblicane furono costituite da: • Due consoli • Quattro pretori • Quattro edili • Dieci tribuni della plebe • Otto questori • Due censori Un magistrato era un capo politico eletto dai cittadini, responsabile per la sua gestione degli affari pubblici. Agli inizi del III secolo a.C. il sistema era gerarchizzato in una scala di poteri ben definita: 1. QUAESTORES, che amministravano le finanze pubbliche 2. AEDILES, che amministravano strade, edifici e mercati 3. PRAETORES, giudici ed esperti di diritto 4. CONSULES, che guidavano la politica interna ed estera e davano il loro nome all’anno I consoli e i pretori erano forniti di IMPERIUM, comando militare. In caso di pericolo improvviso il senato designava un DICTATOR, solitamente un ex console, che aveva poteri straordinari, tranne quello di legiferare, per sei mesi. Ogni cinque anni erano eletti anche due censori, in carica per 18 mesi, che erano privi di imperium e avevano il compito di redigere le liste dei cittadini in base al censo e di fissare l’entità delle imposte. L’intera progressione delle magistrature prendeva il nome di CURSUS HONORUM: nessuno poteva accedere all’ultima, il consolato, prima di averle percorse tutte, in ordine ascendente, a partire dalla prima. Tra una carica e la successiva vi era un biennio di attesa, durante il quale l’ex magistrato era passibile di indagine sul proprio operato. L’obiettivo del cursus honorum era quello di vietare ogni indebito accesso al potere, ed era quindi un elemento basilare per difendere la legalità e la costituzionalità dello stato. Annuali erano anche le cariche sacerdotali, tranne quelle di pontifex maximus e di flamen dialis. Appartenevano alla nobilitas consoli, pretori e coloro che discendevano in linea diretta da un console o da un pretore. Dopo l’equiparazione dei diritti è possibile parlare di nobilitas patrizio-plebea, che doveva dedicarsi alle cariche pubbliche e a servire la comunità. Ai nobiles si contrapponevano gli homines novi, coloro che, privi di senatori tra i loro antenati, cercavano di prendere parte alla vita politica, entrando di diritto nella nobilitas. Nell’Urbe gli stessi cittadini che avevano diritto al voto si raccoglievano in diverse assemblee, i COMITIA, ovvero i comizi, organizzate su criteri distinti e con differenti attribuzioni. In età repubblicana Roma ebbe tre assemblee popolari. La prima struttura fu quella dei vecchi comizi curiati, a struttura gentilizia. I cittatribù urbane. Dal III secolodini vennero poi ripartiti in tribù territoriali: quattro urbane e sedici rustiche, che si affiancarono alle tre antiche tribù delle origini, senza mai sostituirle del tutto. La partizione territoriale diede vita ai COMITIA TRIBUTA, in cui i cittadini si raggruppavano e votavano per tribù, travalicando l’appartenenza gentilizia di ciascuno. Sebbene la ricchezza contasse meno, la suddivisione territoriale assicurava la posizione preminente ai ceti più ricchi: le 31 tribù rustiche, dipendenti dai grandi proprietari terrieri, ottenevano sempre la maggioranza, a scapito delle quattro tribù urbane. Dal III secolo i comizi tributi sostituirono i vecchi concilia plebis. I cittadini romani furono divisi in cinque classi di reddito, articolate in 193 unità, le centurie; erano unità patrimoniali e non gentilizie, che raggruppavano uomini che funzionavano come base del reclutamento militare: ciascuna doveva fornire un numero di soldati. Le classi censitarie superiori formavano numerose centurie di piccole dimensioni, mentre le categorie più povere poche centurie con moltissime componenti. La prima classe di censo era formata da 80 centurie, con i possessori di un reddito superiore a 100.000 assi. La seconda, la terza e la quarta da 20 centurie, mentre la quinta da 30. Ogni classe si caratterizzava per un reddito sempre più ridotto. Vi erano poi 18 centurie di cavalieri extra- classem, cioè abbastanza ricchi per permettersi di possedere un cavallo e 5 centurie di artigiani. L’esercito era costituito dalle grandi unità di fanteria, le legioni: un pretore ne comandava una, mentre un console anche di più. Solo coloro che avevano un censo potevano far parte dell’esercito, mentre gli altri erano esenti dal servizio militare, ma contribuivano con il loro lavoro all’approvvigionamento dell’esercito. I cittadini di Roma partecipavano fuori dalle mura dell’Urbe, nel campo Marzio, a un’ulteriore assemblea, chiamata COMITIA CENTURIATA. Il voto avveniva per centurie e così le centurie più ricche, molto più numerose, potevano imporre sempre la volontà dei ceti sociali superiori. Le assemblee erano presiedute dai magistrati, che decidevano il loro ordine del giorno. I magistrati maggiori, consoli, pretori, censori e tribuni militari, venivano eletti dai comizi centuriati, quelli minori, come gli edili curuli e i questori, dai comizi tributi. Gli antichi comizi curiati dovevano conferire l’imperium ai magistrati eletti dall’assemblea centuriata e ricevettero poi competenze di natura religiosa. Gli aristocratici formavano la nobiltà senatoriale, monopolizzavano le magistrature e accoglievano tra loro i nuovi membri. Questa nobiltà godeva di vari privilegi, in cambio i suoi membri erano obbligati a mettersi sempre a disposizione della repubblica. Questo sistema politico fu il risultato di una lunga evoluzione, grazie all’emancipazione della plebe e la conquista dell’Italia. Gli aristocratici erano attenti a vietare ogni preponderanza di personalità carismatiche, che avrebbero potuto minacciare e limitare la loro libertà. La nobiltà senatoriale ostentava valori quali la pietas, la gravitas e la liberalitas, nonché rispetto e deferenza per il mos maiorum, cioè i valori morali e comportamentali ricevuti dagli anziani attraverso la tradizione, che assicuravano la coesione della società. 2.3 L’EMANCIPAZIONE DELLA PLEBE Roma dovette fronteggiare guerre contro nemici esterni e porre rimedio a gravi tensioni interne, provocate dai contrasti tra patrizi e plebei; questi ultimi infatti non godevano di alcun diritto: le loro proprietà non erano tutelate dallo Stato, non potevano accedere alla giustizia, né partecipare alla vita comunitaria e religiosa. La plebe, numerosa, era comunque indispensabile alla vita e al mantenimento dell’organizzazione statuale romana sotto il profilo economico e militare. La plebe di Roma era aumentata di numero e si era stratificata al suo interno, annoverando sia poveri che ricchi. La plebe povera rivendicava in campo economico, mentre quella più ricca chiedeva l’accesso alle cariche pubbliche. Nei periodi di guerra i plebei erano coinvolti in maniera gravosa, sostenendo spese per l’armamento; i piccoli proprietari, che non avevano dipendenti al loro servizio, erano costretti a lasciare incolti i loro possedimenti, e dunque correvano il rischio di diventare schiavi dei creditori. Le rivendicazioni comprendevano dunque la rivoluzione del peso dei debiti, come il diritto di usare l’ager publicus, cioè i terreni sottratti ai nemici vinti, e la possibilità di partecipare alle distribuzioni gratuite di frumento in caso di carestia. I plebei chiedevano dunque i diritti civili fondamentali, l’integrazione civica e politica, volevano rompere quelle barriere che li escludevano da ogni tipo di carica pubblica e che vietavano i matrimoni misti tra patrizi e plebei. La secessione rappresentò la prima ribellione della plebe: nel 494 a.C. i plebei si ritirarono sul Monte Sacro, abbandonando lavoro e servizio militare; si diedero nuove istituzioni con il tribunato della plebe, una magistratura sacra e inviolabile, composta inizialmente da due tribuni, poi cinque e infine dieci. Menenio Agrippa fece da intermediario per la riconciliazione tra patrizi e plebei, che riuscirono ad ottenere il diritto di veto, in modo da poter bloccare le decisioni ritenute lesive per gli interessi della plebe. I due tribuni erano eletti dall’assemblea della plebe, riunita in tribù territoriali, i concilia plebis tributa. Conquistarono inoltre lo ius commercii. Nel 451 a.C. i plebei ottennero l’introduzione delle leggi scritte, dette delle XII tavole, perché incise su tavole bronzee. Per la loro stesura venne istituito un collegio di 10 uomini, i decemviri, di cui cinque erano plebei. Le leggi scritte tutelavano i cittadini dai soprusi, stabilendo l’uguaglianza di ciascuno di fronte alla legge. Era inoltre la prima legge romana scritta. Affinchè tutti ne fossero a conoscenza, le XII tavole furono esposte nel foro. Nel 445 a.C., con la legge canuleia, furono permessi i matrimoni, ius conubii. Le tradizionali barriere gentilizie furono abbattute dalle nuove rendite dei nuovi ricchi plebei, comunque fedeli ai valori del patriziato, con cui formarono una nuova classe: la nobilitas. L’opposizione ora era tra la nobilitas patrizio-plebea e la maggioranza non privilegiata della popolazione. L’ammissione dei plebei alla magistratura avvenne nel 421 a.C.; nel 367 le leggi Licinie-Sesti, fatte approvare dai tribuni della plebe Stolone e Laterano, li ammettevano al consolato e permettevano loro l’ingresso al senato; nel 356 a.C. ottennero l’accesso alla dittatura, nel 351 alla censura e nel 337 alla pretura; nel 300 quello alle cariche religiose, compreso il pontificato massimo. Il tribunato della plebe entrava a far parte del CURSUS HONORUM, equiparato come livello all’edilità. Nel 287 con la Lex Hortensia deplebiscitiis, dal nome di Quinto Ortensio dittatore, si sancì che i plebisciti, cioè le deliberazioni dei comizi tributi, avessero valore di legge non solo per i plebei ma anche per i patrizi. Nel 326 a.C., con la lex POETELIA-PAPIRIA, (consoli Libone e Cursore), viene abolita la schiavitù per debiti. Si determinò una nuova divisione sociale: quella tra ricchi, ossia la nobilitas patrizio-plebea, e poveri, ovvero la plebe, la gente comune. La società romana fu ampliata e consolidata, e fu creata una struttura statale in grado di accogliere e accettare persone straniere. I poveri potevano diventare clientes di ricchi e potenti patroni, appartenenti alla popoli confinanti con i Sanniti e la fondazione di colonie ubicate ai confini del territorio nemico. I Romani riuscirono ad attaccare Boviano, uno dei centri fondamentali dei Sanniti, costringendoli, nel 304 a.C. a chiedere la pace e a riconoscere l’influenza romana in Campania. Lo scontro decisivo con i Sanniti si aprì nel 298 a.C. con lo scoppio della terza guerra sannitica (298-290 a.C.). Il comandante dei Sanniti, Gellio Egnazio, riuscì a convogliare contro Roma il malcontento delle altre popolazioni italiche, preoccupate del crescente espansionismo romano, dando vita a una coalizione antiromana, che comprendeva anche gli Etruschi, i Galli e gli Umbri. La battaglia conclusiva si ebbe nel 295, a Sentino. Gli eserciti riuniti dei due consoli romani Quinto Fabio Rulliano e Publio Decio Mure (quest’ultimo, dopo aver compiuto la devotio, ossia il rituale con cui un comandante militare sacrificava la propria vita, si scagliò contro il nemico per risollevare le sorti del combattimento) riuscirono a vincere, obbligando i popoli vinti ad accettare un’alleanza forzata. Alla fine delle guerre sannitiche Roma raggiunse un dominio che si estendeva su tutta l’Italia centrale, dalle Marche fino alla Puglia. Lo stato romano cominciò anche a costruire strade lastricate in Italia: la prima fu la via Appia, nel 312 a.C., eretta grazie agli sforzi del censore Appio Claudio Cieco. La forza di Roma si fondava essenzialmente sul sistema di reclutamento dei cittadini, armati ed equipaggiati ciascuno in base alla propria ricchezza e appartenenza sociale. L’esercito era inoltre sostenuto e approvvigionato come non era mai avvenuto per nessun altro esercito antico; i comandanti militari avevano notevoli capacità di comando, di competenza e lungimiranza, nonché di grande spirito di sacrificio, come nel caso di Mure, che non esitò a sacrificare la propria vita per risollevare le sorti della battaglia. 3.2 LA CONQUISTA DELLA MAGNA GRECIA Al termine delle guerre sannitiche le mire egemoniche di Roma si indirizzarono verso le città della Magna Grecia, attrattiva sia economica che culturale. Roma decise di inserirsi in maniera diretta nei confini che tenevano le città magnogreche impegnate a fronteggiare le popolazioni indigene dei Bruzi e dei Lucani, e per questo motivo furono inviati dei presidi romani a Locri, Crotone e Turi (quest’ultima rientrava nella sfera di influenza di Taranto, la più potente e ricca città greca). Taranto aveva stipulato con Roma un trattato, in base al quale quest’ultima si impegnava a non oltrepassare con le sue navi da guerra il capo Lacinio, a sud di Crotone. Tuttavia, nel 282 a.C. Turi, minacciata dai Lucani, chiese aiuto a Roma, che acconsentendo alla richiesta inviò una flotta davanti al porto di Taranto, violando il trattato. I Tarantini allora attaccarono le navi di Roma, ne affondarono alcune e dichiararono guerra all’Urbe. Taranto, preoccupata, decise di chiedere aiuto a Pirro, re dei Molossi e comandante della Lega epirota, il quale, spinto dal progetto di creare uno Stato greco nell’Italia meridionale, accettò la richiesta dei Tarantini e nel 280 a.C. sbarcò in Italia con un esercito di 22.000 fanti, 3000 cavalieri e 20 elefanti da guerra. I Romani, a causa dell’abilità tattica di Pirro e dell’impiego di elefanti, a loro del tutto sconosciuti, subirono due pesanti sconfitte. Le vittorie ottenute dai Greci furono però pagate a caro prezzo, con pesanti perdite (basti pensare al modo di dire “Vittoria di Pirro”, vittoria a costi troppo alti per il vincitore). Pirro propose poi ai Romani trattative di pace, che avrebbero dovuto permettergli di trasferirsi in Sicilia, dove era stato chiamato in soccorso delle colonie greche minacciate dai Cartaginesi. La lega dominata da Cartagine, temendo questo intervento, aveva chiesto alleanza ai Romani, che rifiutarono le offerte di pace di Pirro. I Romani dimostrarono molto coraggio, decisione e unità, e ciò impressionò persino lo stesso nemico. Nonostante ciò, Pirro spostò le ostilità in Sicilia, dove sperava di liberare le colonie greche dalla minaccia cartaginese. Le città greche dapprima accolsero Pirro come un liberatore, proclamandolo addirittura loro re; ben presto però tra le colonie cominciò a diffondersi un generale malcontento, a causa delle continue e gravose richieste fatte alle popolazioni per sostenere le ingenti spese militari. Pirro ritornò quindi in Italia, riprendendo così la guerra con i Romani. Lo scontro decisivo avvenne nel 275 a.C., a Benevento ( a quel tempo Maleventum, ribattezzata Beneventum dopo la vittoria dei Romani). Pirro, sconfitto dal console Manio Curio Dentato, decise di tornare in Epiro e i Tarantini, nel 272 a.C., furono costretti ad arrendersi e ad accettare l’alleanza con Roma. Roma con questa vittoria aveva il predominio su tutta l’Italia meridionale, le colonie greche e il territorio dei Lucani e dei Bruzi. 3.3 L’AMMINISTRAZIONE DELL’ITALIA La vasta superficie conquistata e controllata da Roma era pari a circa 130.000 kmq, ma non era organizzata in modo unitario e i rapporti che legavano le città sconfitte all’Urbe erano variabili. Ogni città alleata o vinta, inclusa nella dominazione romana, rimaneva autonoma, cioè si autogovernava, manteneva le proprie istituzioni e sfruttava il proprio territorio. Roma trattava con le elite dirigenti locali. Un principio seguito fu la dissoluzione di ogni lega o alleanza tra le città suddite, ognuna delle quali doveva concludere un proprio trattato con Roma. Tutte le città perdevano però la possibilità di una politica estera indipendente. I terreni confiscati alle popolazioni sconfitte diventavano, come ager publicus, proprietà dello Stato romano: venivano sia distribuiti ai coloni romani sia concessi agli appaltatori delle imposte. Gli alleati italici invece non potevano usufruire dello sfruttamento dell’agro pubblico. Le città entrate nella sfera d’influenza romana erano suddivise in varie categorie: • Vi erano pochissime città liberae et immunes, che godevano del migliore statuto, dovendo solamente seguire e aiutare Roma nella sua politica estera. • Più numerose erano le città foederatae, ossia quelle alleate con cui Roma aveva stipulato dei trattati di alleanza; solo in rari casi si trattava di un accordo paritario, che consentiva piena libertà politica. La gran parte delle alleanze erano invece iniqua, a vantaggio di Roma, in quanto obbligavano le città federate a fornire tributi, milizie e navi all’esercito romano e impedivano loro di svolgere una politica autonoma. • La maggior parte delle alleanze apparteneva alla categoria delle civitates stipendiariae: tutte dovevano pagare un tributo, uno stipendium, allo Stato romano per lo sfruttamento della terra. Godevano dell’autonomia, ma il loro statuto veniva imposto da Roma, che poteva anche cambiarlo. Erano città vinte. Le città federate potevano ascendere allo statuto di municipi, città conquistate che avevano mantenuto la possibilità di governarsi da sé, con propri magistrati, ma che avevano l’obbligo di versare tributi per le spese militari e di fornire contingenti di soldati. Alcuni municipi, quelli cum suffragio, potevano ottenere la cittadinanza romana, e dunque i loro abitanti godevano degli stessi diritti politici dei cittadini romani. Altri municipi, quelli sine suffragio, avevano solo i diritti civili, cioè potevano solamente commerciare e contrarre matrimoni con i cittadini romani. La vera struttura portante dello Stato romani in Italia erano le colonie, nuclei più o meno numerosi di cittadini trasferiti a presidio dai territori di recente conquista, fondate nei punti nevralgici della penisola, sui terreni confiscati ai vinti. A differenza delle colonie greche, autonome e indipendenti dalla madre patria, quelle romane rappresentavano una sorta di naturale estensione di Roma nelle aree periferiche. I coloni coltivavano le terre ricevute dallo Stato, erano cittadini romani, ma non potevano legiferare e ad amministrarli erano le leggi votate a Roma. In caso di guerra dovevano presidiare con le loro guarnigioni il territorio geografico che occupavano. Accanto alle colonie romane, Roma fondò anche colonie latine, i cui abitanti godevano del diritto latino. Tutti coloro che non erano cittadini del mondo romano prendevano il nome di peregrini. C’erano poi i dediticii, cioè cittadini di comunità che avevano opposto resistenza alla dominazione romana sino alla resa senza condizioni. Se non venivano ridotti in schiavitù, ricevevano uno statuto chiamato pessima libertas: erano senza patria, senza cittadinanza, privati da Roma persino dei loro culti civici. Non possedevano nulla e le terre che abitavano e coltivavano erano state loro confiscate da Roma; non potevano ottenere la cittadinanza romana. Quest’ultima, la civitas, veniva conferita come un meritato privilegio, divenendo nel tempo un formidabile strumento di integrazione. Tranne i Latini, gli altri Italici ricevevano la cittadinanza come un premio speciale. Il potere di Roma in sostanza si basava sul principio del divide et impera, ossia “tieni divisi i popoli soggetti, se vuoi dominarli”. Nella prima metà del III secolo a.C. lo Stato romano non era né un regno centralizzato, né una lega egemonica di tipo greco o cartaginese: era privo di qualsiasi istituzione federale comune, un conglomerato sui generis di varie città, non legate tra loro ma tutte vincolate a Roma. Se da un lato questo sistema assicurò pace e stabilità a tutta la penisola, ponendo fine a guerre e abusi endemici, dall’altro esso non permise la nascita di alleanze antiromane, perché l’obiettivo di ogni comunità sottomessa era quello di migliorare lo status del proprio rapporto con Roma, sia attraverso la fedeltà politica, sia attraverso il patrocinio di nobili romani. A differenza degli alleati italici, i cittadini romani godevano di tutti i diritti, ma potevano esercitare il suffragio politico solo nell’Urbe, prendendo parte ai comizi. Tutte le decisioni importanti erano prese dal senato romano, tant’è vero che da questo periodo datano alcune famose espressioni come Roma locuta, causa finita, ovvero “Roma ha parlato, la causa è definitivamente chiusa”. pagamento della forte indennità di guerra. Il generale Amilcare Barca e il genero Asdrubale conquistarono gran parte della penisola iberica. L’espansionismo di Cartagine in Spagna allarmò Roma, che nel 226 a.C. impose ai Cartaginesi un accordo che fissava nel fiume Ebro un limite invalicabile. Dopo la morte di Asdrubale, al comando dell’esercito passò il giovane Annibale Barca, figlio di Amilcare. Il nuovo comandante, ambizioso, voleva portare guerra a Roma, con lo scopo di annientarla. La causa della seconda guerra punica (218-202) fu l’attacco di Annibale alla città spagnola di Sagunto, alleata con Roma. Così i Romani accusarono i Cartaginesi di aver violato il trattato dell’Ebro, che impediva loro ogni intervento e azione militare a nord del fiume, anche se in realtà Sagunto si trovava a sud e quindi nella zona di pertinenza di Cartagine. Nel 219 a.C. Annibale cinse d’assedio la città spagnola e la espugnò, e questa azione provocatoria spinse i Romani a dichiarare guerra ai Cartaginesi. Annibale voleva penetrare in Italia, sollevare le popolazioni galliche e quelle italiche contro i Romani, per poi puntare sull’Urbe. Annibale concepì il temerario disegno di raggiungere l’Italia via terra, sapendo di poter trarre vantaggi dalla sorpresa e dalla presenza dei Galli nella Pianura Padana. Roma intanto già preparava due eserciti per combattere il nemico in Spagna e anche in Africa. Ma il genio militare di Annibale rovesciò la situazione: nel 218 a.C., alla testa di un esercito grandioso, costituito anche da 37 elefanti, passò al di là dei Pirenei e giunse in Gallia; poi, raccogliendo nuovi alleati, valicò le Alpi, comprendo un’impresa difficilissima, e arrivando inaspettatamente nell’Italia settentrionale. Questa azione fu tuttavia molto onerosa, in quanto il potenziale bellico di Annibale si ridusse in modo significativo. Per i Romani la sorpresa fu grande. Nel 218 Annibale vinse due eserciti consolari nella Gallia Cisalpina, e i Galli e i Liguri passarono dalla sua parte, aumentando il suo esercito. Nella primavera del 217 a.C. Annibale entrò nell’Etruria, e il console Flaminio lo attaccò imprudentemente sulla riva del lago Trasimeno, dove i Romani furono schiacciati. La paura per il nemico era tanta che già si diceva “Annibale è alle porte”. Il vecchio senatore Quinto Fabio Massimo fu nominato dittatore e gli furono messe a disposizione ben quattro legioni, ma egli evitò ogni scontro diretto, preferendo una continua e costante azione di logoramento, che gli valse il soprannome di “Temporeggiatore”. Quando Roma si stava ormai preparando all’assedio, Annibale decise di deviare verso l’Umbria, perché contava sull’insurrezione delle popolazioni italiche. La prudenza di Quinto Fabio Massimo non era condivisa dal senato e dal popolo romano, che volevano affrontare i Cartaginesi in campo aperto. Terminati dunque i sei mesi della dittatura, il potere passò ai due consoli Gaio Terenzio Varrone e Lucio Emilio Paolo, che decisero di affrontare il generale cartaginese in uno scontro decisivo. Il confronto militare avvenne a Canne, lungo il fiume Ofanto, presso Canosa, in Puglia, nel 216 a.C.: i Romani disponevano di circa 80.000 soldati, mentre i Cartaginesi ne avevano circa la metà. I Romani attaccarono frontalmente, ma Annibale riuscì ad accerchiarli, poi ad annientarli. Fu una strage per Roma: sul campo caddero 60.000 uomini, e molte popolazioni e città dell’Italia meridionale passarono dalla parte dei Cartaginesi, compresa la ricca Capua. Ma la grande maggioranza degli Italici rimase fedele a Roma. Neppure dinnanzi a una vittoria militare così eclatante Annibale marciò su Roma, perché non si sentiva ancora pronto per l’attacco decisivo, anche perché aveva perduto la maggior parte della cavalleria: erano indispensabili i rinforzi. In ragione di questo attendeva aiuti sia da Cartagine sia dal fratello Asdrubale, che era però impegnato in Spagna. Il generale cartaginese si ritirò con i suoi uomini a Capua, passata dalla sua parte, dove trascorse l’inverno in mezzo al lusso, periodo passato alla storia come “gli ozi d Capua”. Roma reagì prontamente alla sconfitta e malgrado la difficoltà il popolo rimase unito e lo Stato seppe resistere. Era soprattutto la concordia interna, insieme alla fedeltà degli alleati, ad assicurare ai Romani una superiorità di forze. Roma voleva evitare lo scontro diretto con Annibale, attaccare gli altri comandanti cartaginesi e colpire gli alleati infedeli, ostacolando l’approvvigionamento dei Cartaginesi. Nel 212 a.C. in Sicilia, il console Marco Claudio Marcello conquistò la città di Siracusa, alleata di Cartagine. Nel 211 Capua fu rasa al suolo dai Romani per aver dato ospitalità ai Cartaginesi e Annibale si ritirò più a sud. Intanto Cartagine, nel 215 a.C. strinse un trattato con il re di Macedonia, Filippo V, che vedeva con ostilità il crescere della potenza romana in Adriatico. Roma riuscì a inviare una flotta nell’Adriatico e a creare contro Filippo V una coalizione di stati greci a lui ostili, tra i quali primeggiava la Lega etolica. Si giunse nel 205 a.C. alla pace di Fenice, che pose fine alla prima guerra macedonica. La riscossa di Roma nella guerra contro Cartagine ebbe una svolta grazie ai successi che l’esercito romano, comandato da Publio Cornelio Scipione, conseguì in Spagna, riuscendo persino a impadronirsi di Nova Cartagho, l’odierna Cartagena, la loro principale base nella penisola iberica. Scipione ottenne la collaborazione degli aristocratici iberici, imponendo quindi la dominazione romana sulla Spagna ex punica. Il tentativo intrapreso da Astrubale di portare rinforzi al fratello fallì, perché venne sconfitto e ucciso in battaglia presso il fiume Metauro. Nel frattempo, a Roma, Scipione, forte del consenso popolare, chiese e ottenne di essere eletto console nel 205 a.C. e di potersi poi recare in Africa per eliminare definitivamente il pericolo di Annibale dall’Italia, convinto del fatto che fosse necessario portare la guerra sul territorio cartaginese. Il senato romano autorizzò la spedizione militare in Africa, ma non gli diede le truppe necessarie e i materiali sufficienti ad affrontare l’impresa bellica. Ma Scipione riuscì a trovare il sostegno delle popolazioni italiche, e sbarcò nel 204 a Utica, in Africa, dove riuscì a ottenere l’alleanza di Massinissa, capo di una potente tribù di Numidi. I Cartaginesi furono battuti ripetutamente. Pochi mesi dopo, Annibale e il suo esercito furono richiamati a Cartagine per aiutare la madrepatria direttamente minacciata dai Romani: il generale cartaginese abbandonava l’Italia dopo quindici anni di successi militari, senza aver subito sconfitte, e sbarcò in Africa con un esercito imponente. Scipione e Annibale si stimavano molto, ebbero anche un incontro personale, ma ogni tentativo di pace fallì, a causa della sfiducia radicale dei Romani nei confronti dei Cartaginesi. La battaglia decisiva ebbe luogo a Zama, il 19 ottobre del 202 a.C.: se Annibale contava di rompere le linee romane con un attacco degli elefanti, Scipione dispose le sue truppe in colonne parallele alla direzione dell’attacco, vanificandone l’effetto. Aveva fatto installare anche delle trappole contro gli elefanti, che furono colpiti da tutte le parti senza attaccare in modo significativo. Per i Cartaginesi l’esito fu disastroso, tale da concludere definitivamente la guerra. Scipione, che a ricordo della vittoria venne soprannominato “l’Africano”, con grande nobiltà e rispetto del nemico, offrì a Cartagine una pace sì dura, che però non prevedeva la distruzione della città vinta. Il trattato di pace, siglato nel 201 a.C., che poneva fine alla seconda guerra punica, prevedeva che Cartagine dovesse rinunciare a tutti i suoi possedimenti al di fuori dell’Africa e consegnare la flotta, tranne dieci navi, e non le era consentito di fare guerra senza il permesso di Roma. [Pace punica, pace che annienta il nemico vinto]. Cartagine sopravvisse, ma perse tutto. Annibale prese la via dell’esilio e si rifugiò in Siria, dove continuò a incitare il re Antioco III alla guerra contro Roma, prima di uccidersi con il veleno, nel 183, per non cadere nelle mani dei Romani. Roma controllava tutto il Mediterraneo occidentale. 4.3 ROMA CONQUISTA L’ORIENTE ELLENISTICO Dopo la vittoria di Zama, sottratta la Pianura Padana ai Galli e sistemate le conquiste nella penisola iberica, con la creazione di due province della Hispania Citerior e della Hispania Ulterior, i Romani cominciarono a estendere la loro influenza sul Mediterraneo occidentale. Dalle famiglie nobili arrivavano però sempre più pressioni per un intervento diretto di Roma anche nel Mediterraneo orientale, che avrebbe consentito una notevole espansione dei traffici commerciali. Roma cominciò dunque a rivolgere il proprio interesse verso i regni ellenistici, sorti dallo smembramento dell’impero di Alessandro Magno. La Siria e la Macedonia erano in contrasto con l’Egitto, e il loro espansionismo preoccupava i regni ellenistici; i conflitti permanenti tra questi ultimi permisero e favorirono l’ingresso di Roma negli affari del Mediterraneo orientale. La politica espansionistica romana iniziò con l’intervento nella contesa che opponeva la Macedonia alle città greche. Il console Tito Quinzio Flaminino aveva stipulato con le città greche una serie di alleanze, che nel 200 a.C. portarono alla seconda guerra macedonica. Nel 197 l’esercito macedone di Filippo V fu annientato da quello di Flaminino. Quanto alla Grecia, il generale romano proclamò solennemente la libertà delle città greche dall’occupazione macedone. Le truppe romane fecero ritorno a Roma, che non faceva che sostituirsi alla Macedonia nella tutela delle città greche e questa forma di protettorato le avrebbe permesso di estendere la propria egemonia all’interno del mondo ellenistico. Una seconda occasione di ingerenza da parte dei Romani nelle vicende dell’Oriente ellenistico si presentò nel 193 a.C. Il regno di Pergamo, in Asia Minore, chiese aiuto a Roma contro il re di Siria, Antioco III, che a sua volta era intervenuto rispondendo all’appello di alcune città greche contrarie a subire il protettorato romano. Il suo esercito sbarcò in Grecia. La risposta di Roma non si fece attendere, dando inizio alla guerra siriaca. Nel 191 il re siriaco venne sconfitto in Grecia e nel 190 da un esercito guidato da Scipione l’Africano. La pace di Apamea del 188 costrinse il re siriaco ad abbandonare l’Asia oltre il confine naturale segnato dalle montagne del Tauro, ad affondare tutta la sua flotta, tranne dieci navi, a pagare un’enorme indennità di guerra e consegnare alcuni nemici di Roma che avevano trovato rifugio presso la sua corte, tra cui lo stesso Annibale, che però fuggì in Bitinia, dove poi si diede la morte con il veleno. Molte città greche comunque mal sopportavano il protettorato romano, e di questo malcontento volle approfittare il re di Macedonia, Perseo, figlio di Filippo V. La terza guerra macedonica scoppiò nel 171 a.C. Nel 168 Lucio Emilio Paolo, a Pidna, riportò una schiacciante vittoria su Perseo, ponendo in tal modo fine alla guerra: il re fu portato prigioniero nell’Urbe e venne abolita la monarchia in Macedonia, che fu smembrata e suddivisa in quattro repubbliche, costrette a essere alleate e tributarie di Roma. Le città greche che avevano appoggiato il re macedone furono costrette a consegnare a Roma mille dei loro cittadini più autorevoli; tra questi lo storico Polibio, che si sarebbe poi legato al circolo degli Scipioni. Nel 150 a.C. un tale Andrisco, facendosi passare per Filippo, il figlio di Perseo, radunò un esercito e portò la Macedonia alla rivolta. Nel 148 Andrisco fu sconfitto dal pretore Metello, sconfitta che sancì la fine della quarta guerra macedonica e la riduzione della Macedonia a provincia romana. Anche la Grecia si sottomise a Roma ma, al fine di evitare altre ribellioni, il Dopo un secolo di conquiste Roma era diventata capitale di un vasto impero. Si erano create le condizioni per un intenso commercio via mare, che avrebbe abbattuto i costi del trasporto via terra. Una prima conseguenza delle conquiste romane fu il grande afflusso di ricchezze verso l’Urbe e l’Italia, sotto forma di imposte provinciali, derrate alimentari. Dalla seconda metà del II secolo a.C. il denario romano divenne la moneta più utilizzata negli scambi e nelle transazioni commerciali. L’abbondanza di capitali in mano a mercatores e negotiatores permise loro di concedere prestiti. Diversi senatori e anche cavalieri possedevano ormai veri e propri latifondi nell’Africa, nell’Hispania e nel mondo greco. L’improvvisa profusione di ricchezza danneggiò pesantemente l’economia tradizionale dell’Italia e di Roma. L’importazione di cereali e di altri prodotti alimentari delle province, venduti a basso prezzo oppure distribuiti gratuitamente al popolo dell’Urbe, rovinò il mercato dei contadini romani e italici: molti persero le loro piccole proprietà terriere, costretti a venderle per mancanza di fondi. Solo i latifondisti ne uscirono indenni, perché i grandi capitali permettevano loro sia di investire ingenti quantità di denaro per riconvertire i terreni a colture speciali, come olive e vigne, sia di disporre, allo scopo, di una considerevole manodopera servile. L’esenzione dal tributum soli, ossia dalla tassa sulla proprietà fondiaria, introdotta nel 167 a.C. per tutti i proprietari terrieri dell’Italia, avvantaggiò soprattutto il grande latifondo. Le enormi ricchezze nelle mani di un’ampia parte della società fecero aumentare la richiesta di beni di lusso. Le officine che fabbricavano vasi bronzei, vetri e ceramiche incrementarono la loro produzione e sempre più numerosi furono gli artigiani e gli altri specialisti stranieri che giunsero in Italia e a Roma per lavorare. 5.2 L’EVOLUZIONE SOCIALE I cambiamenti economici che ebbero luogo in Italia accentuarono la differenziazione sociale nella distribuzione della ricchezza. La divisione tra ricchi e poveri era accentuata dallo spopolamento delle campagne e la crisi della piccola proprietà agraria. Le cause di tale crisi furono molteplici: • La devastazione delle campagne provocata dalla guerra contro Annibale • L’assenza prolungata dai campi di contadini-soldati arruolati in eserciti • La concorrenza delle merci prodotte dai grandi latifondisti o importate dalle province Se i grandi proprietari terrieri potevano contare su molto denaro e sulla manodopera servile, i piccoli proprietari si trovarono invece costretti ad abbandonare le loro attività nelle mani dei ricchi latifondisti, emigrando in città in cerca di lavoro. Una volta inurbati, cittadini ormai senza proprietà, restavano anche senza occupazione, e vivevano delle saltuarie donazioni dei ricchi e le distribuzioni gratuite di frumentum, che lo Stato periodicamente elargiva loro per tenerli a bada. Molti di questi diventavano clientes delle più potenti famiglie che, così accresciute, vedevano aumentare il loro peso nelle contrattazioni politiche: per ciascuna famiglia, infatti, la propria ampia schiera di clienti corrispondeva a un numero di votati, pronti a esprimersi nei comizi secondo le indicazioni ricevute dal patronus, il protettore. Tutti i cittadini più poveri erano soliti vendere il proprio voto a chiunque fosse stato disposto a ricambiarli con regali e vettovaglie. In sintesi, la società romana si divideva tra una minoranza ricchissima, capace di acquistare coscienze e voti, e una maggioranza di poveri, senza nessuna prospettiva, pronta a vendersi. Si apriva la strada verso la crisi sociale. La rovina dei contadini e lo spopolamento rurale vanificavano la motivazione psicologica che animava il contadino-soldato: senza proprietà non avrebbe più nulla da difendere. La crisi agraria metteva in difficoltà persino il sistema politico. L’aristocrazia senatoria divenne ricca e potente: i suoi componenti avevavano interessi in quasi tutti i settori economici, anche se la loro ricchezza si fondava esclusivamente sul latifondo. La classe dei senatori era chiusa ed esclusiva, una vera e propria oligarcgia ch monopolizzava l’esercizio delle magistrature, strumento per accedere al governo provinciale, fonte di tutti i profitti: un senatore che governava una provincia godeva di fortune e poteri superiori a quelli di molti re orientali, tutelato da una clientela che poteva annoverare al suo interno intere città e popoli stranieri. La conseguenza fu l’insolentia nobilium, l’arroganza dei nobili, che portava l’aristocrazia a trasgredire i valori tradizionali del mos maiorum. I valori etici erano sempre più permissivi nell’ambito familiare come nella vita pubblica. In base alla lex Claudia del 218 a.C. i senatori non potevano gestire in prima persona gli affari commerciali, e ricorsero dunque a intermediari: cavalieri o liberti, ossia schiavi liberati dai loro padroni, cittadini romani a tutti gli effetti, privi però dello ius honorum, cioè del diritto di essere eletti in magistratura. Cominciò l’ascesa degli equites Romani, i cavalieri, che possedevano fortune paragonabili a quelle dei senatori, indossavano abiti e insegne speciali e usufruivano di luoghi riservati nelle manifestazioni pubbliche. Essi investivano i propri capitali in attività finanziarie a largo raggio, occupando le diciotto centurie loro riservate dall’ordinamento centuriato: vi si accedeva solo con un patrimonio di oltre 400.000 sesterzi. La struttura sociale non permetteva però un significativo accrescimento del mercato, perché un’ampia fascia sociale diventava sempre più povera, anche a causa della manodopera servile. Le vittoriose guerre di conquista fecero entrare a Roma ingenti masse di schiavi, impiegati sia in mansioni di responsabilità e lavori di intelletto, sia in compiti di fatica. Il fenomeno nuovo della società romana consistette nella massiccia presenza di schiavi. Le grandi insurrezioni servili dell’antichità si verificarono nell’ambito sociale romano proprio in questo periodo storico, il II secolo a.C. Oltre al numero degli schiavi, in questo stesso periodo aumentò anche quello dei liberti: essi per gratitudine nei confronti dei padroni che li avevano liberati avevano il dovere legale di aiutarli e sostenerli nell’ascesa economica, sociale e politica. Alcuni liberti riuscirono anche a mettere insieme fortune considerevoli. Ben diversa era la condizione dei provinciali, che dovevano talvolta sopportare anche permanenti abusi e ingiustizie, e alcune province furono addirittura rovinate da illeciti nell’amministrazione, da malversazioni, dalle imposte esagerate e dall’usura. Il governo stesso evitava di investire molte risorse nelle province: furono costruite solamente alcune strade lastricate, per ragioni militari, e poche fortificazioni. Gruppi significativi di Romani risiedevano già nelle principali città provinciali, formando in ciascuna un conventus civium Romanorum, ossia un’assemblea di cittadini romani. Le popolazioni provinciali erano scontente della fiscalità onerosa e degli abusi dei governatori e dei publicani, nonché della mancanza di prospettive. Cercando una vita migliore, molti provinciali emigrarono verso l’Italia o verso l’Urbe, ma per loro la possibilità di ottenere la cittadinanza romana era alquanto difficile. 5.3 LA CRISI DELL’AGRICOLTURA E LE RIFORME DEI GRACCHI La situazione sociale a Roma si era fatta più tesa. I ceti più poveri della società avevano perso ogni peso politico. I cavalieri non volevano cambiare il sistema, ma partecipare più direttamente alla gestione del potere, nonché alla spartizione dei privilegi che il sistema assicurava. La vita politica dell’Urbe era dominata tra gli aristocratici di spicco, che gareggiavano per ottenere il potere. A Roma la manipolazione delle masse dei votanti era il problema principale di questi nobili: i comizi di Roma erano sempre meno rappresentativi, perché includevano solo i cittadini domiciliati nell’Urbe. Il dominio romano aveva subito una profonda trasformazione anche per quanto riguarda i rapporti con le popolazioni italiche. Il graduale processo di assimilazione aveva portato gli Italici a riconoscersi come cittadini romani: basti pensare a tale riguardo alla loro fedeltà durante l’invasione di Annibale nella seconda guerra punica. Gli Italici erano esclusi dal pieno godimento dei diritti che la cittadinanza romana dispiegava e non avevano pertanto il diritto di adire alle cariche pubbliche, né quello di partecipare alla distribuzione dell’ager publicus, pur avendo il dovere di combattere per Roma e di contribuire alle spese belliche. Si sentivano ridotti quasi a semplici sudditi. L’iniziativa per modificare questo stato di cose fu assunta da due lungimiranti aristocratici, Tiberio e Gaio Gracco, figli di Tiberio Sempronio Gracco, distintosi nella pacificazione della Spagna, e di Cornelia, figlia di Scipione l’Africano. I fratelli Gracchi avvertivano che il problema dei piccoli contadini espropriati dalle loro terre, e quindi ridotti a uno stato di miseria, rischiava di compromettere la sopravvivenza stessa dello Stato. L’esercito era la struttura portante che aveva permesso la grandezza di Roma, formato da quella massa di contadini soldati che veniva arruolata attraverso la suddivisione della popolazione in classi di censo. Lo Stato doveva riprendere la piena proprietà dell’agro pubblico, ceduto troppo facilmente ai latifondisti, e doveva suddividerlo in appezzamenti da assegnare al proletariato urbano, in modo che esso lo coltivasse e ne traesse i mezzi di sostentamento. Tiberio Gracco, il maggiore dei due fratelli, fu eletto tribuno della plebe nel 133 a.C.: la carica gli permetteva di varare leggi cui il senato non avrebbe potuto opporsi. Presentò così una proposta di riforma agraria, la lex Sempronia, con la quale a nessuno sarebbe stato lecito possedere più di 500 iugeri, corrispondenti a 125 ettari, di agro pubblico, più altri 250 iugeri per ogni figlio maschio, sino a un massimo di 1000 iugeri. Un collegio di tre membri, i triumviri, eletto dal popolo, era incaricato di recuperare le terre occupate illegalmente dagli appaltatori privati e di distribuirle ai cittadini meno abbienti in piccoli lotti da 30 iugeri a testa. Queste proposte attirarono però contro Tiberio l’odio delle classi superiori. Tiberio Gracco ottenne però il consenso popolare dei comizi e quando il senato, attraverso il veto del tribuno Marco Ottavio, asservito alle posizioni aristocratiche, cercò di bloccare la riforma, egli fece destituire il collega dai comizi, andando contro la norma che sanciva l’inamovibilità di un magistrato eletto, e fece approvare la legge, investendo l’assemblea di un insolito potere. Per imporre una misura di salute pubblica un magistrato, con l’appoggio popolare, procedeva illegalmente. La commissione agraria che doveva esaminare i latifondi lavorava però lentamente: la ridefinizione dello statuto giuridico del terreno richiedeva infatti grandi sforzi. L’anno successivo Tiberio, per meglio garantire l’attuazione della sua legge ripresentò la propria candidatura. L’iterazione della carica, pur non essendo vietata da alcuna legge scritta, non aveva precedenti nella tradizione e, in ragione di questo, gli avversari politici accusarono Tiberio Gracco di cercare di instaurare un potere personale. Le votazioni si svolsero in un clima di esasperate tensioni e nei violenti tumulti che ne nacquero Tiberio e molti dei suoi seguaci vennero assassinati. Era la prima volta che a Roma la lotta politica degenerava in vera e aver militato per 16 anni, avrebbero avuto all’atto del congedo un appezzamento agricolo. L’esercito diventava un vero e proprio esercito professionale, con soldati pagati con uno stipendium e in servizio permanente. Durante il servizio militare i soldati erano equipaggiati dallo Stato, rimanevano lontani dalla vita civile e soggetti alla legge militare, mentre i loro diritti civili erano momentaneamente sospesi. L’esercito romano diventerà lo strumento d’affermazione del potere di ambiziosi generali, dal momento che si consolidava sempre di più il legame tra comandante e soldati, totalmente dipendenti dal primo: era il generale che li arruolava, che li guidava in battaglia e che li congedava. In tal modo il soldato era fedele al proprio comandante. Mario, grazie alla sua riforma, riuscì a dare una svolta decisiva alla guerra contro Giugurta già nel 105. Il re della Numidia fu catturato grazie al questore Lucio Cornelio Silla, luogotenente di Mario in Africa e suo rivale politico. Giugurta fu giustiziato in carcere: Mario era l’idolo del popolo, capo dei popolari, mentre Silla campione della parte avversa, degli ottimati. Dopo la vittoria sul re numida, Gaio Mario fu eletto cinque volte console in cinque anni, senza intervallo tra le cariche, andando al di là di quanto consentito dalla legge; il motivo era legato a una grave minaccia per lo Stato, ossia la migrazione verso sud delle tribù germaniche dei Cimbri e dei Teutoni. Queste tribù seminavano il terrore tra la penisola iberica e la Gallia meridionale; dopo aver sconfitto nel 105 i Romani in Gallia, ad Arausio, sul Rodano, stavano per calare in Italia. I Cimbri e i Teutoni, 200.000 uomini, si trovarono di fronte ben sette legioni, comandate dal console Manlio Massimo. Fu un disastro totale e il numero dei romani uccisi nella battaglia superò quello della strage di Canne. L’Italia temeva ora una possibile invasione, e Mario ne preparò la difesa. I Germani avanzarono suddivisi in due grandi colonne: i Cimbri di ritorno dall’odierna Austria e i Teutoni provenienti dalla Gallia meridionale. I Romani li affrontarono dunque separatamente. I Teutoni si spinsero verso le Alpi, dove furono poi attaccati di sorpresa alle spalle. La battaglia decisiva avvenne ad Aquae Sextiae, nel 102. Una parte dei barbari fu annientata. Intanto Mario inviò un distaccamento a presidiare una posizione laterale per poter attaccare alle spalle i nemici. I Teutoni furono completamente schiacciati. Mario venne chiamato a Roma, per celebrare il trionfo che gli era già stato decretato dal senato, ma il console non volle accettare questo onore, ben consapevole che la guerra non era ancora finita. Mario cercò di contenere i barbari nel territorio padano. I Cimbri non vollero attaccare battaglia sin quando non si fossero congiunti con i Teutoni, ma quando ebbero la notizia della loro disfatta ad Aquae Sextiae, cercarono di raggiungere un accordo con Mario, che rifiutò, arrivando così allo scontro. Mario introdusse un’innovazione tecnica di rilievo nell’armamento romano. Il pilum, il tradizionale giavellotto da lancio delle legioni, era formato da un’asta di legno, cui era attaccata una punta di ferro per mezzo di due chiodi. Mario ordinò di sostituire uno dei due chiodi con un perno di legno, in modo che il giavellotto, una volta conficcatosi nello scudo del nemico, non rimanesse diritto ma si piegasse nella parte in ferro e rimanendo inserito nello scudo non solo non potesse più essere utilizzato, ma appesantisse a tal punto l’arma difensiva del guerriero cimbro da renderne impossibile l’uso. Nel 101, presso Vercellae, ai Campi Raudii, i Cimbri furono sconfitti definitivamente. La località di Vercellae è stata identificata da alcuni studiosi con l’odierna Vercelli, in Piemonte; altri ritengono che il luogo dello scontro sia da individuare a Macello, sempre in Piemonte, così denominato a ricordo del massacro di un intero popolo, quello dei Cimbri. L’ipotesi ad oggi più accreditata è che la battaglia sia avvenuta tra Rovigo e Ferrara. Il popolo romano celebrò grandemente Mario, onorato come nuovo fondatore e salvatore di Roma. Tuttavia, il generale non fu capace di gestire la crisi politica del 101, quando alcuni dei suoi seguaci cercarono di ottenere il consolato ricorrendo persino all’assassinio di un candidato avversario. Mario represse l’agitazione, ma la sua popolarità ne uscì incrinata. Nel frattempo, Silla ottenne il consolato. La componente più moderata del ceto nobiliare si scontrava con il problema degli Italici, che premevano per ottenere la cittadinanza romana e la possibilità di partecipare al governo; non tolleravano l’obbligo di versare pesanti tributi militari e l’esclusione dalle distribuzioni di terre e di grano a prezzo politico. Fu con Marco Livio Druso, di nobile famiglia senatoria, eletto tribuno nel 91 a.C., che la questione italica venne posta all’ordine del giorno; ma la sua uccisione, a causa degli avversari politici, provocò la reazione degli Italici, che decisero di entrare in guerra. Iniziò così la cosiddetta guerra sociale, da socii, ossia alleati, in riferimento agli Italici, particolarmente difficile per l’esercito romano, perché combattuta contro popolazioni che ben conoscevano le tecniche militari dei Romani. La guerra scoppiò ad Ascoli, nel Piceno, nel 91, dopo l’uccisione del pretore Quinto Servilio Cepione. Tutte le altre popolazioni italiche del Centro e del Sud si unirono in uno Stato federale, dotato di un proprio esercito, guidato da due comandanti. Il nuovo stato si diede anche una capitale, Corfinium, ribattezzata Italica, e una monetazione propria. Rimasero fedeli a Roma solo l’Etruria e l’Umbria. Questa volta i popoli italici riuscirono a coalizzarsi contro i Romani e non chiedevano più l’integrazione, ma cercavano di fondare uno Stato separato. Le lotte furono violente, e i protagonisti furono sempre Gaio Mario e Lucio Cornelio Silla. Nel timore che altre popolazioni insorgessero, il senato romano decise di concedere la cittadinanza romana a tutti i socii: nel 90 a.C., su proposta del console Lucio Giulio Cesare, con la lex Iulia de civitate venne concessa la cittadinanza agli alleati rimasti fedeli e tra questi alle colonie che avessero deposto le armi; nell’89 con la lex Plautia Papiria, promossa dai tribuni della plebe Gaio Papirio Carbone e Marco Plauzio Silvano, veniva estesa la cittadinanza agli Italici che entro 60 giorni si fossero registrati presso il pretore di Roma. La guerra si esaurì nel giro di pochi mesi, mentre si ingrandiva notevolmente il corpo dei cittadini romani. Le città italiche divennero municipi di cittadini romani, con istituzioni simili a quelle dell’Urbe, ma per ridurre il loro potere di voto, i nuovi cittadini furono ripartiti solo in 9 delle 35 tribù territoriali già esistenti. Non fu creata alcuna istituzione amministrativa comune: gli affari dello Stato rimanevano in mano ai comizi di Roma e al senato. Roma inoltre si trovò alle prese anche con gravi problemi sorti in Oriente, che concorsero ad accelerare la crisi. Dopo la fine di questa guerra lo Stato romano dovette affrontare Mitridate, il re del Ponto. Apparteneva alla famiglia regale del Ponto, uno Stato ellenistico collocato sulla sponda nord- orientale dell’Asia Minore. La cultura pontica era un mix di tradizioni persiane, barbariche e greche; il regno del Ponto era retto in modo assolutistico, con metodi duri. Il padre omonimo di Mitridate, all’epoca dodicenne, fu assassinato nel 120 e il potere passò nelle mani della sua dispotica vedova. Mitridate si dedicò intensamente allo studio, diventando un guerriero forte e ben addestrato, sviluppando una grande cultura e dimostrando grandi capacità amministrative, diplomatiche e militari, ma di indole crudele e senza scrupoli, pur di ottenere risultati. Una delle sue maggiori preoccupazioni era quella di assumere, ogni giorno e in piccole dosi, alcune decine di veleni, in modo da divenirne poi immune. Ritornato nel Ponto, Mitridate prese il potere, assassinando i rivali, ossia la madre e il fratello: regnò con pugno di ferro, accrescendo sempre di più il suo potere. Nell’89, colse i Romani di sorpresa, invadendo le province romane di Asia e Acaia, presentandosi come una sorta di liberatore dell’ellenismo; numerose furono le città greche che lo sostennero. Mitridate fece una vera e propria strage, massacrando 80.000 persone, tra Romani e Italici. Il senato romano decise di dichiarare guerra a Mitridate e nell’88 accordò a Silla, come console, il comando delle operazioni militari, ed egli raccolse un potente esercito, concentrandolo a Capua. Ma a Roma il partito popolare protestò contro questa decisione e impose che il comando della guerra contro il re del Ponto fosse tolto a Silla e affidato a Mario, più sensibile ai loro interessi. Silla nell’88 marciò su Roma alla testa dei suoi soldati: un esercito romano, agli ordini del suo generale, si muoveva contro Roma stessa e la conquistava come se fosse una città nemica. Impadronitosi dell’Urbe, Silla fece dichiarare i suoi avversari nemici pubblici e costrinse alla fuga Mario, che si rifugiò in Africa. Silla instaurò un governo aristocratico, ma apparentemente legale. Poi nell’87 si diresse in Oriente per porre fine all’espansionismo di Mitridate. Nello stesso anno, Lucio Cornelio Cinna, schierato dalla parte dei mariani, sostenitori di Mario, dopo essere stato deposto con la forza e cacciato da Roma, si rifugiò in Campania, dove venne raggiunto dal vecchio generale, e insieme marciarono su Roma. Eletto console per la settima volta, Gaio Mario morì dopo due settimane, nell’86, lasciando il suo partito senza un capo autorevole. Poco tempo dopo venne ucciso anche Cinna. Nel frattempo, Silla combatteva con successo il re del Ponto: con circa 30.000 soldati egli affrontò l’esercito nemico di 200.000 uomini, ma eterogenei e divisi tra vari comandanti. Dopo aver invaso l’Epiro e la Tessaglia, Silla marciò contro Atene, entrando in città nell’86 e facendo una vera e propria strage. Le forze di Mitridate si concentrarono successivamente in Boezia, ma Silla seppe sfruttare a proprio vantaggio l’eterogeneità dell’esercito nemico e, con un attacco a sorpresa, schiacciò l’esercito nemico a Cheronea. Avendo ripreso il controllo della Grecia e della Macedonia, Silla punì i ribelli e ne trasse un bottino di guerra; riorganizzò poi le province romane e continuò la pressione contro i nemici nell’Egeo. Malgrado le sue vittorie, Silla, preoccupato del nuovo governo dei populares a Roma, stipulò nell’85 la pace con Mitridate a Dardano, nella Troade. Mitridate perdeva tutte le sue conquiste, ma conservava il suo regno. Silla sbarcò in Italia nell’83, deciso a restaurare l’ordine degli optimates; con lui si schierarono anche le truppe al seguito dei vari capi aristocratici ribellatisi. I popolari si avvalsero dell’appoggio dei Sanniti, avversari di Silla. La guerra civile fu violentissima, durò circa due anni e coinvolse tutti i ceti sociali. Nell’82 a.C. nella battaglia di Porta Collina gli eserciti di Silla riportarono la definitiva vittoria sui mariani. Gli oppositori in Sicilia e in Africa furono vinti dal giovane Gneo Pompeo che Silla gratificò con l’epiteto di Magnus. Dopo la vittoria, Silla fu nominato dittatore a tempo indeterminato: si profilava una realtà nuova, il potere personale illimitato di un capo militare vittorioso. Dapprima Silla punì spietatamente i propri avversari politici: la stesura delle liste di proscrizione, ossia elenchi di persone soggette a condanne a morte e confische di beni in assenza di preventivo giudizio, aprì una vera e propria caccia all’uomo. I delatori venivano incoraggiati con donazioni di parti considerevoli delle fortune dei denunciati. Il nuovo potere confiscò i beni dei nemici politici vinti per spartirli tra i propri seguaci, in primo luogo tra i veterani. Gli schiavi che denunciavano i loro padroni venivano liberati. In seguito, il dittatore attuò il suo progetto politico: restaurare la tradizione repubblicana, dando vita a un governo oligarchico. Rinsaldò l’autorità del senato, introducendo altri 300 membri, scelti tra l’aristocrazia italica e il ceto equestre. Ai cavalieri tolse il controllo dei tribunali per i reati di concussione, che passò al senato. Il tribunato della plebe fu privato di ogni potere: i tribuni non poterono più presentare proposte senza l’approvazione preventiva del mitridatica scoppiò nel 73, a causa della morte di Nicomede, re di Bitinia, che aveva lasciato il suo regno allo stato romano. Mitridate pretendeva questo territorio e perciò attaccò con un potente esercito le province romane di Asia, Bitinia e Cappadocia. Il re del Ponto ancora una volta rischiava di sconvolgere tutto l’Oriente. Roma dichiarò immediatamente la guerra e mandò un imponente esercito, sotto la guida del proconsole della provincia d’Asia Lucio Licinio Lucullo, che riuscì a sconfiggere più volte lo stesso Mitridate, che però potè continuare la resistenza, appoggiato dall’Armenia. Nel 6 Lucullo occupò questa regione, sconfiggendo i catafratti armeni a Tigranocerta, ma il suo esercito si ammutinò. A sbrogliare la difficile situazione si fece così ricorso nuovamente a Pompeo, non solamente per le sue capacità militari, ma anche per le sue abilità organizzative, per affrontare una guerra in luoghi tanto remoti. Nel 66 dunque Pompeo ricevette l’incarico con le stesse prerogative della legge Gabinia: disponeva di un esercito costituito da 60.000 soldati e oltre 3000 cavalieri. Non si hanno testimonianze dirette della guerra, perché i resoconti redatti sono andati perduti; ciò che si sa lo si deve a Livio e Strabone. Pompeo seppe assicurarsi l’alleanza del potente regno persiano dei Parti. Con tale sostegno e appoggio i Romani riuscirono a costringere l’Armenia a capitolare. Il re armeno mantenne il suo regno, ma perdette tutte le conquiste che sino a quel momento aveva compiuto. L’Armenia divenne alleata di Roma e dunque Mitridate si trovò completamente isolato. Pompeo vietò inoltre al regno dei Parti ogni possibilità di estensione a occidente del fiume Eufrate, dando così inizio a quella grande inimicizia tra i due stati. L’Oriente mediterraneo era ormai quasi completamente controllato da Roma, precludendo un’espansione occidentale dei Parti. Dopo aver perduto l’appoggio del re d’Armenia Tigrane II, Mitridate fu costretto a ritirarsi nella valle del Lico; però, nel tentativo di sottrarsi all’accerchiamento, subì una disastrosa sconfitta in una battaglia notturna. Morirono più di 10.000 soldati. Mitridate riuscì comunque a mettersi in salvo e vide come una unica possibilità di sottrarsi alla cattura una fuga verso la Colchide, uno dei suoi antichi possedimenti all’estremità orientale del Mar Nero. Pompeo era consapevole che la guerra non poteva considerarsi definitivamente conclusa fintanto che Mitridate era ancora vivo. Pertanto, il generale romano, dopo aver accettato la sottomissione del re d’Armenia Tigrane, che con le sue enormi ricchezze fu prodigo di doni, con il grosso dell’esercito inseguì Mitridate, che nel frattempo si era trasferito nell’odierna Crimea, con l’intento di raccogliere un nuovo esercito per fronteggiare Pompeo. Ma il peso delle sue esazioni provocò una rivolta e pertanto, dopo anni di lotte, nel 63 il re del Ponto, abbandonato anche dal figlio, si fece uccidere da uno schiavo per non subire l’onta di essere portato prigioniero a Roma durante il trionfo di Pompeo, che lo seppellì onorevolmente nella necropoli regale del Ponto. Pompeo organizzò tutto l’Oriente mediterraneo conformemente agli interessi di Roma, creando una rete di regni e stati clientelari. Dopo cinque lunghi anni di gloriose imprese, Pompeo nel 62 tornò in Italia. Mentre Pompeo era in Asia, tra il 64 e il 62, Lucio Sergio Catilina, appartenente al partito aristocratico ma di condizioni economiche modeste, tentò invano di essere eletto console. Le fonti dipingono Catilina come corrotto e scellerato, ma in realtà il suo piano era quello di cercare il sostegno degli aristocratici decaduti, per tentare un colpo di stato. Egli ventilava la confisca dei beni alle classi agiate per poi ridistribuirli ai nullatenenti e ai suoi seguaci. Catilina e i suoi seguaci riunirono un piccolo esercito, con l’intento di far partire in Etruria il germe della rivolta, ma la congiura venne smascherata da Cicerone prima che potesse prendere piede. Cavalieri e aristocrazia senatoria furono per una volta coalizzati nella repressione della sanguinosa rivolta e, nella battaglia di Pistoia del 62, Catilina e i suoi seguaci vennero sconfitti e uccisi. I congiurati vennero condannati alla pena capitale, senza poter esercitare il loro diritto di appello contro la sentenza, una mossa di difesa illegittima. Tornato a Roma, Pompeo celebrò il trionfo come conquistatore dell’Oriente, avendo riversato nelle casse della repubblica un’ingente quantità di bottino di guerra, incrementando significativamente le entrate annuali dello Stato, portandole da 50 a 85 milioni di denarii. Pompeo doveva ottenere dal senato la ratifica dell’assegnazione delle terre ai suoi veterani, ma allarmati dal suo potere, i senatori respinsero le sue richieste. Il generale romano si trovò così isolato, senza alcuna influenza sullo Stato. Di questa situazione approfittò Cesare, che da tempo cercava di imporsi nella vita politica. Propose la sua alleanza a Pompeo, in modo da ricevere l’appoggio per essere eletto console, offrendo in cambio di ottemperare a tutte le richieste che il generale romano aveva fatto al senato. Per avere una maggiore probabilità di successo, la ripartizione del potere coinvolse anche una terza personalità, quella di Marco Licinio Crasso che, ostile al senato, aderì al patto che, stretto nel 60, venne conosciuto impropriamente come primo triumvirato. Non era una magistratura vera e propria, ma un patto privato di alleanza tra i tre più potenti uomini di Roma, per dividersi il comando dello Stato. Ottenuto il consolato nel 59, Cesare diede effetto agli accordi. Gli oppositori di spicco del triumvirato, come Catone e Cicerone, furono allontanati per qualche tempo con vari pretesti: il senato sembrava non poter far nulla. Alla fine del suo consolato, Cesare prese per sé, per la durata di cinque anni, il proconsolato della Gallia Cisalpina e della Gallia Narbonense. Fu l’inizio di una splendida carriera militare. C’era inoltre un’altra minaccia, ossia la migrazione di varie tribù germaniche che cercavano di respingere i Galli verso l’Atlantico, strappando loro territori. Nel 58 gli Elvezi, una tribù celtica, si riversò nella Gallia Meridionale. Senza aver ricevuto alcuna autorizzazione dal senato, Cesare intervenne in maniera autonoma, ergendosi a protettore delle Gallie e massacrando gli Elvezi. Tutto il territorio della Gallia, già dal 57, era sotto il controllo diretto o indiretto delle legioni romane. Nel 58 furono vinti anche gli Svevi di Ariovisto; nel 55 e 54 le truppe romane oltrepassarono il fiume Reno, che segnava il tradizionale confine tra Gallia e Germania. Tutte le tribù galliche passarono a poco a poco sotto il controllo romani e la fama e il potere di Cesare crebbero rapidamente. Intanto Pompeo, alleato con gli ottimati, perché preoccupato dell’ascesa di Cesare, era rimasto nell’Urbe, dove però l’anarchia regnava sovrana. Il triumvirato entrò in crisi: in un incontro svoltosi a Lucca nell’aprile del 56, per ricomporre i contrasti i triumviri decisero che Cesare avrebbe avuto il proconsolato in Gallia per altri cinque anni; Pompeo e Crasso il consolato per il 55 e poi sarebbero stati proconsoli, Pompeo delle province iberiche, Crasso della Siria. Ciascuno pensava alle nuove conquiste e ai guadagni materiali, a dispregio delle antiche virtù del mos maiorum. Crasso intraprese una guerra di conquista contro i Parti, che avevano fondato un vasto impero nell’altopiano iranico e in Mesopotamia, ma nel 53 trovò la morte nella battaglia di Carre. La provincia di Siria fu saccheggiata dai Parti. Con la morte di Crasso terminò il primo triumvirato e il comportamento politico di Pompeo diventò sempre più ostile a Cesare e favorevole agli ottimati. Egli rimase a Roma, governando le province spagnole attraverso suoi luogotenenti. Tra il 53 e il 52 Cesare fu invece impegnato a domare una grande sollevazione di tribù galliche, guidate dal capo degli Arverni, Vercingetorige, grande re dei guerrieri. Nel 53 i capi Galli si erano riuniti nella foresta dei Carnuti, giurando di espellere i Romani dalla loro terra o di morire nel tentativo di riconquistare la libertà perduta. Il segnale dell’insurrezione fu il massacro di un funzionario, Gaio Fufio Cita. Vercingetorige reclutò un esercito nella campagna arverna e conquistò il potere politico attraverso un vero e proprio colpo di stato e nel 52 si proclamò re a Gergovia, diventando capo di tutto il movimento antiromano. Vercingetorige incoraggiava tutte le popolazioni galliche a unirsi per conquistare la loro libertà: mandò ambasciatori a tutte le tribù galliche e ai loro oppida, ossia le loro città fortificate. Questa unione avrebbe dovuto portare alla costituzione di un regno, con alla testa un re che poteva essere lui stesso. Vercingetorige fondò l’unica unità gallica preromana, una vera e propria lega, al cui appello risposero i Senoni, i Parisi, i Turoni e altri ancora. Ma tale unione era abbastanza fragile. I Galli approfittarono della popolazione che era molto scontenta dell’occupazione romana e ne sconfissero alcune truppe. Vercingetorige elaborò un piano d’azione coordinato: il capo dei Senoni avrebbe bloccato Labieno, luogotenente di Cesare; i Cadurchi avrebbero messo a ferro e fuoco la Provincia Narbonensis, cioè l’attuale Provenza. Ma Cesare giunse rapidamente con un grande esercito. La guerra divampò in tutta la Gallia e divenne feroce. Deciso a colpire al cuore dell’insurrezione, Cesare passò la barriera dei Cevenni, guidando le sue truppe a marce forzate. I Romani presero l’oppidum e lo diedero alle fiamme. Cesare, usando uno dei suoi trucchi preferiti, ovvero utilizzare i barbari per combattere altri barbari, arruolò nel suo esercito forti contingenti di cavalleria germanica. Le cavallerie romane e germane misero quindi in fuga i cavalieri celti e Cesare avanzò verso Avaricum, che i Galli consideravano la più bella delle loro città. Vercingetorige adottò una guerra di logoramento, applicando la tattica della terra bruciata, per affamare e scoraggiare i Romani: tutto doveva essere bruciato davanti al nemico, e Cesare avrebbe dovuto trovare il vuoto davanti a lui. In un solo giorno i Biturigi bruciarono venti dei loro oppida, imitati poi da Senoni e dai Carnuti; ma non vollero però abbandonare e distruggere la loro capitale, Avaricum; Vercingetorige si lasciò convincere e pose il campo lontano dall’oppidum. Questo si rivelò un grande errore: Cesare assalì la città fortificata e la prese; la popolazione venne massacrata e i Romani ottennero un ingente bottino. I Romani attaccarono poi Gergovia, capitale degli Arverni, ma furono sconfitti. Alla fine comunque Vercingetorige si ritirò nella città fortificata di Alesia, oppidum dei Mandubii, sperando di costringere Cesare ad un assedio e aspettando nel frattempo l’aiuto militare di tutte le popolazioni galliche alleate. Cesare assediò Alesia e la situazione dei Galli diventò disperata, perché i combattenti erano 80.000 con grano a sufficienza per soli 30 giorni. Cesare fece costruire delle fortificazioni intorno alla città, ma anche alle spalle delle sue truppe per evitare ogni possibile attacco di sorpresa. Quando il grande esercito gallico unito arrivò in prossimità di Alesia, i Romani avevano già chiamato rinforzi, compresi i Germani alleati. Nel settembre del 52 i Galli attaccarono il campo romano, che resistette bene, fino a che non individuarono un punto debole. La situazione dei romani si fece molto critica, ma alla fine i Galli non riuscirono a rompere le linee romane e furono sconfitti. Per risparmiare la vita dei suoi compagni Vercingetorige si arrese e, inviato a Roma, venne rinchiuso nel celebre carcere Tulliano, dove rimase per sei anni in attesa che Cesare celebrasse il proprio trionfo, durante il quale sarebbe stato decapitato o strangolato. La caduta di Vercingetorige rappresentò una catastrofe politica per i Galli: ogni tribù si sottomise a Roma e la Gallia diventava così una provincia romana. A Roma però la situazione politica peggiorava sempre più e lo Stato sembrava incapace di controllarla. Il senato nominò nel 52 Pompeo console senza collega, un titolo mai precedentemente attribuito a nessun generale romano. Pompeo deteneva di fatto l’imperium proconsulare, ossia il governo assoluto dello Stato. A questo punto Cesare richiese il consolato per il momento in cui la sua carica di proconsole della Gallia sarebbe scaduta, ossia nel 48 a.C. Il senato gli intimò di sciogliere l’esercito e di tornare suo teatro nel Campo Marzio. Cesare cadde sotto i colpi dei congiurati, ma la loro speranza di restaurare la repubblica si rivelò fallace. La figura di Cesare nel corso della storia rimase a significare il simbolo dell’autorità imperiale, tanto che il suo nome, Caesar in latino, è diventato in alcune lingue, come Kaiser in tedesco e czar in russo, l’appellativo per indicare l’imperatore. 7.3.L’AGONIA DELLA REPUBBLICA I congiurati non avevano alcun programma politico: il loro scopo era solo eliminare il dittatore; nella città si diffuse un clima di paura e confusione. L’assassinio di Cesare creò uno stato di caos senza precedenti. A Roma la popolazione, incitata dal console Marco Antonio, condannò i congiurati e deificò Cesare. Tutti i comandanti militari rimasero senza ordini precisi, ciascuno con il proprio esercito. Bruto e Cassio furono inviati in Oriente a governare, rispettivamente, la Macedonia e la Siria, Marco Antonio restò a Roma, dove si fece assegnare dai comizi il governo della Gallia Cisalpina e Transalpina per cinque anni. Ma il senato, guidato da Cicerone, gli si opponeva: a Roma era giunto il diciannovenne Gaio Ottavio, figlio adottivo di Cesare, e per questo chiamato poi Gaio Giulio Cesare Ottaviano, deciso a ereditare le fortune del dittatore, insieme alla sua forza politica. I rapporti tra Antonio e il senato erano piuttosto tesi quando nel 43 Cicerone nelle sue Filippiche, criticando la smisurata ambizione del luogotenente di Cesare, richiamò tutti alla difesa della repubblica. Ottaviano diventò alleato politico di Cicerone. Marco Antonio mosse verso la Cisalpina, dove il governatore originariamente designato, Decimo Bruto Albino, si rifiutò di cedergli il passo e si barricò nella fortezza di Modena, che Antonio assediò. Allora il senato inviò a Decimo dei rinforzi, in particolare i due consoli in carica, Aulo Irzio e Gaio Vibio Pansa, insieme a Ottaviano. Nella battaglia di Modena Marco Antonio si scontrò dunque con l’esercito consolare e con quello di Ottaviano, con esempi di valore da ambo le parti. Tra i cesariani si distinse la legio Martia, che aveva disertato, passando da Antonio a Ottaviano. Marco Antonio fu sconfitto, ma ambedue i consoli morirono in battaglia. Ottaviano chiese dunque il consolato, che gli fu però rifiutato dal senato, che preferì a questo punto riavvicinarsi ad Antonio. Ambizioso e senza scrupoli, Ottaviano non esitò a minacciare lo Stato con le armi, marciando con l’esercito sino alle porte dell’Urbe e ottenendo il consolato dopo aver convocato i comizi. Costituì poi nel 43 con Marco Antonio e il generale Marco Emilio Lepido un secondo triumvirato di governo: una vera e propria magistratura, ratificata poi dai comizi. L’accordo, di durata di cinque anni, era una vera alleanza ufficiale tra generali che davano vita a una dittatura militare. Prevedeva una divisione di poteri, eserciti e territori tra i triumviri ed era finalizzata a dare una nuova costituzione allo Stato. Numerosi governatori provinciali, con i loro eserciti, in Occidente, appoggiarono questa nuova realtà politica. I triumviri dovevano riorganizzare lo Stato e combattere insieme i comuni nemici, come i cesaricidi e i loro stessi avversari. Contro di questi vennero istituite liste di proscrizione, che consentirono l’uccisione di numerosi anticesariani, tra cui lo stesso Cicerone, irriducibile avversario di Antonio. Trecento senatori e duemila cavalieri furono uccisi e le loro proprietà furono confiscate. Tutto questo indebolì l’aristocrazia senatoria, che non fu più in grado di riprendere il controllo dello Stato. In Oriente i partigiani della repubblica organizzarono la resistenza armata, guidata da Marco Giunio Bruto e Gaio Cassio. Ma la repubblica era ormai finita: gli uccisori di Cesare erano dei comandanti militari che agivano come ribelli contro lo Stato, senza alcuna legalità. Gli ultimi repubblicani, comandati da Bruto e Cassio, furono vinti nel 42 nella battaglia di Filippi, in Macedonia. L’esercito dei triumviri era ora comandato da Marco Antonio e Ottaviano. A Filippi Antonio affrontò l’esercito repubblicano, più numeroso del suo. Ottaviano non riuscì a reggere l’attacco di Bruto e nel contempo Cassio attaccò Antonio, ma fu rapidamente vinto. Malgrado l’aiuto di Bruto, Cassio non seppe fronteggiare la situazione e vedendosi perduto si suicidò. Bruto reagì con crudeltà, uccidendo i prigionieri e poi si rifugiò nel suo campo fortificato. L’esercito dei triumviri era privo di rifornimenti. Antonio già pensava di ritirarsi, quando Bruto attaccò in forze. L’inesperto Ottaviano fu nuovamente battuto, ma Marco Antonio penetrò con alcune legioni nello schieramento avversario, sino a prendere alle spalle l’esercito di Bruto, che reagì in modo disastroso, piombando nel caos. Bruto si suicidò. Mentre Ottaviano massacrava i vinti, Antonio mostrò un comportamento nobile e generoso e la vittoria di Filippi rappresentò il culmine della sua gloria politica. La rivalità tra Antonio e Ottaviano ricominciò ben presto per la conquista del potere, mentre Lepido fu relegato in una posizione marginale. Nel 40 i triumviri si spartirono il potere: • Antonio le province orientali • Ottaviano le province occidentali • Lepido il controllo dell’Africa e il pontificato massimo a Roma Tuttavia, non era stato definito alcun programma politico di lunga portata. Marco Antonio nel frattempo partì per l’Oriente, cercando di ripristinare il controllo romano, ma cadde completamente sotto l’influenza della regina d’Egitto Cleopatra VII, il cui potere, unito all’immensa ricchezza, contribuì a fiaccare il debole carattere del generale romano, che non solo abbandonò la moglie Ottavia, sorella di Ottaviano, ma le proibì persino di raggiungerlo in Egitto. Antonio, stabilitosi nella corte di Alessandria, condusse una politica praticamente autonoma nelle province d’Oriente, disponendo dei territori di Roma come beni privati e attuando una sistemazione dell’Asia che rispondeva più agli interessi di Cleopatra che a quelli di Roma. In questo modo egli non solo scontentò i sentimenti dei Romani, ma minò anche la fedeltà dei suoi collaboratori. Ottaviano presentò all’opinione pubblica Marco Antonio come un pericolo per l’unità politica dell’Impero Romano, ma Antonio godeva ancora di molte simpatie popolari a Roma, e gli rimaneva fedele un grande esercito, esperto e potente. Ottaviano, da parte sua, scelse tutta un’altra via: mostrava rispetto per le tradizioni romane e per la repubblica e conduceva una vita morale simile a quella dei nobili romani. Si circondò di valenti collaboratori, come Agrippa. Ottaviano migliorò negli anni le sue competenze e capacità come generale, combattendo contro i Dalmati e gli Asturi e contro la resistenza degli ultimi pompeiani. A Nauloco la flotta di Ottaviano affrontò le forze del figlio di Pompeo Magno, Sesto Pompeo, che aveva ottenuto il governo della Sicilia, della Sardegna, della Corsica e anche del Peloponneso, insieme con l’accesso al senato. Ma egli rimaneva una spina nel fianco e alla fine Ottaviano decise di combatterlo. Ottaviano condusse la guerra con grande abilità, concependo, insieme ai triumviri, un piano d’attacco simultaneo sulla Sicilia da tre parti, con le truppe di Ottaviano da nord e da est e con Lepido da sud, insieme ai rinforzi mandati da Marco Antonio. Ma Ottaviano aveva preparato la sua nuova forza navale. Sotto il comando di Agrippa venne scavato un canale tra il mare e il lago Lucrino e furono costruite nuove navi, capaci di trasportare un numero maggiore di soldati, dotate di un harpax, una sorta di dardo d’abbordaggio che si contrapponeva al corvo, cioè il ponte mobile provvisto di un gancio, capace di fissarsi sulle navi nemiche per trasformare una battaglia navale in uno scontro terrestre. A Nauloco la flotta di Ottaviano affrontò quella di Sesto Pompeo; ciascuna contava 300 navi, ma quella del primo aveva un equipaggiamento superiore. Per Sesto Pompeo fu un vero e proprio disastro, Ottaviano conquistò la Sicilia, fece decadere Lepido dal triumvirato e si impossessò del territorio di sua competenza, vale a dire l’Africa. Agli occhi della nobiltà romana e dei cittadini la situazione di Antonio peggiorava sempre più, mentre quella di Ottaviano guadagnava progressivamente l’appoggio della società. Entrambi comunque non pensavano più alla repubblica e agivano come veri e propri dittatori, anche se l’erede di Cesare riusciva ancora nascondersi dietro una parvenza di legalità. Ottaviano costruì attorno alla sua persona una grande ondata di popolarità. La guerra che il senato e il popolo romano dichiararono a Cleopatra fu ufficialmente contro l’Egitto, che secondo la propaganda di Ottaviano mirava al controllo delle province orientali di Roma e umiliava la repubblica. La guerra di Ottaviano venne presentata come una guerra di difesa preventiva contro una potenza straniera, alla quale Marco Antonio si era sottomesso per via delle sue debolezze, esponendo i territori di Roma al dispotismo dei Tolomei. Ad Azio, nonostante la superiorità numerica e la sua abilità di comandante in terraferma, Antonio accettò lo scontro sul mare contro una flotta guidata dal migliore ammiraglio di Ottaviano: Agrippa. Antonio disponeva di una grande flotta di circa 500 navi, ma poco manovrabili; vi erano poi numerose unità egizie. La flotta di Ottaviano non aveva che 250 navi, ma costituite da liburne leggere e molto manovrabili. Volendo invadere l’Italia, Antonio giunse nel golfo di Ambracia, accompagnato dalla regina Cleopatra. A causa di decisioni sbagliate, Antonio perse, ancor prima del confronto, la sua possibilità di avere la meglio su Ottaviano. Un’epidemia di malaria inoltre decimò gli equipaggi di Antonio e Cleopatra, che avevano scelto di far uscire la loro flotta dal golfo, colpendo il lato nord di Ottaviano e rompendo anche il collegamento di quest’ultimo con le sue truppe di terra. Ma l’ufficiale Quinto Dellio disertò, comunicando il piano di Marco Antonio ad Ottaviano. La battaglia iniziò il 2 settembre del 31: la flotta di Antonio attaccò come previsto, ma Agrippa evitò il confronto. La flotta di Ottaviano lasciò uno spazio meno sorvegliato al centro, dove avanzò subito Cleopatra, con la sua squadra egizia appostata dietro alle navi di Marco Antonio, e fuggì con il tesoro reale verso Alessandria. Sebbene la regina avesse segnalato l’inaspettato movimento, Antonio non capì e abbandonò la lotta, seguendo la nave di Cleopatra. L’amore giocò qui un grande ruolo, ma il gesto irresponsabile di Marco Antonio causò confusione generale e molte navi si arresero. Alla fine del giorno la vittoria di Ottaviano fu totale. Senza avere più il tempo e la possibilità di raccogliere le truppe sparse rimaste, Antonio era ormai un ribelle fuggiasco, senza più alcuna legittimità. Marco Antonio e Cleopatra si rifugiarono ad Alessandria, ma qui i vassalli orientali erano passati dalla parte di Ottaviano, che l’anno successivo attaccò l’Egitto. Incapaci di resistere, Marco Antonio e Cleopatra si diedero la morte, e l’Egitto entrò a far parte dell’Impero, mentre Roma era di fatto nelle mani di un’unica persona: iniziava il principato di Ottaviano. candidati da lui suggeriti. Su temi di natura religiosa solo i comizi curiati furono ancora consultati, ma di rado e in maniera del tutto formale. 8.2 L’ORGANIZZAZIONE DELL’IMPERO Il primo e fondamentale problema da risolvere per Augusto era la riorganizzazione amministrativa del vasto impero, che si estendeva dalle colonne d’Ercole alle sabbie della Nubia. La città di Roma venne posta sotto l’amministrazione del praefectus Urbis, di rango senatorio, comandante delle coorti urbane, gli urbaniciani, con il compito di garantire l’ordine pubblico, mentre per l’approvvigionamento alimentare venne creato un funzionario di rango equestre, il prefetto dell’annona; c’era poi il prefetto dei vigiles, che comandava le coorti dei vigili, create appositamente per contrastare i numerosi incendi della capitale, composte da liberti, cioè da schiavi affrancati. Per la difesa personale dell’imperatore e per impedie ogni tentativo di rivolta venne istituita la guardia pretoria, un corpo scelto, reclutato tra gli Italici, a capo del quale fu posto il praefectus praetorio. La guardia pretoria era costituita da truppe sia a piedi sia a cavallo e con Augusto divenne un vero e proprio esercito, da cui spesso sarebbero poi dipesi i destini dell’impero. L’Urbe fu divisa in 14 settori, le regiones, ripartiti in 265 quartieri, i vici, diretti dai magistrati eletti. Fu migliorata l’amministrazione dell’Italia, ormai estesa sino alle Alpi. Augusto divise la penisola in dodici distretti, oltre a quello dell’Urbe, nominando per essi curatori, scelti tra i senatori, con il compito di risolvere problemi relativi a strade o acquedotti. C’erano poi due flotte militari stanziate nella penisola: una a Miseno e l’altra a Ravenna, comandate da prefetti di rango equestre. Per quanto riguarda l’amministrazione delle province, Augusto attuò una politica differente, di accentramento del potere, attraverso una ripartizione delle medesime in due categorie, senatorie e imperiali. Per poter disporre di un maggior numero di ex consoli da destinare all’amministrazione provinciale, la durata del consolato diventò più breve, cioè sei mesi, e poi la coppia di consoli titolari veniva sostituita da consules suffecti. Nelle province imperiali ciascun governatore provinciale era dotato di un procuratore finanziario per amministrare le risorse e pagare l’esercito. Tutta l’amministrazione locale era concentrata nelle mani delle istituzioni di ciascuna città. L’impero si componeva di quasi mille comunità autonome, di diversa condizione giuridica, che gli conferivano l’aspetto di una sorta di federazione. Le città e le comunità autonome peregrinae avevano le loro istituzioni e potevano legiferare per sé; ma le città di cittadini romani dovevano seguire le leggi romane e la loro organizzazione imitava la struttura PROVINCE IMPERIALI PROVINCE SENATORIE Situate ai confini, erano controllate dal princeps, che nominava a capo delle stesse dei governatori imperiali, i legati Augusti, di rango senatorio, che rispondevano del loro operato solo al principe. Era presente l’esercito. Erano assegnate ai proconsoli, che venivano disegnati dal senato ed erano di rango senatorio. In queste province non c’erano particolari problemi di sicurezza o di instabilità politica, per cui non erano presenti grandi eserciti. amministrativa dell’Urbe. Un punto debole dell’amministrazione imperiale rimaneva la mancanza di un apparato burocratico che ruotasse intorno alla persona del princeps. Fu Augusto che cominciò ad organizzarlo, istituendo la figura del liberto imperiale, una sorta di domestico personale dell’imperatore, che poteva ascendere a un’importanza politica di rilievo, come sarebbe accaduto per Claudio. 8.3 LA POLITICA AMMINISTRATIVA Il nerbo dell’esercito romano era stato da sempre costituito dalle popolazioni italiche. Nella tarda età consolare il principale flusso di ricchezza per lo Stato era l’imposizione fiscale attraverso tributi che erano calcolati in base alla produttività del suolo (tributum soli) e in base alle persone fisiche (tributum capitis); si trattava di una tassazione che riguardava però solo le province, perché l’Italia manteneva l’esenzione da tutte le imposte dirette e anche del diritto preminente di proprietà dello Stato sul suolo, il cosiddetto Ius Italicum. Le imposte sulle proprietà fondiarie delle province controllate dal senato entravano nel tesoro statale; quelle delle province imperiali andavano ad alimentare il fiscus, cioè il tesoro imperiale, di cui faceva parte anche il patrimonio personale di Augusto. In tal modo lo Stato romano incamerava enormi rendite tributarie, riusate nelle province dove c’erano gli eserciti più numerosi. La maggior parte dei tributi erano destinati al pagamento delle truppe nelle province o alla costruzione di oppure monumentali che creavano nelle popolazioni assoggettate il sentimento di appartenenza alla civiltà di Roma. Conseguenza di questo sistema era la circolazione della moneta, perché la paga dei soldati veniva reinvestita nella stessa provincia in cui essi erano di stanza, favorendo la produzione di materie destinate alla vendita grazie all’aumento della domanda interna di merci. L’esazione delle imposte e delle tasse era appaltata a società di imprenditori privati. Augusto non cambiò il sistema, ma divise i proventi dello Stato per province o gruppi di province; erano delle circoscrizioni finanziarie, ciascuna con le proprie imposte e tasse doganali per il commercio esterno o interno. La riscossione era appaltata per zone geografiche o tipologia di tasse. I grandi gruppi di pubblicani scomparvero, sostituiti da società meno ricche e meno potenti di imprenditori, vale a dire i conductores. Queste misure garantirono un’amministrazione provinciale migliore e più equa. L’economia fiorì rapidamente, grazie alla stabilità e alla legalità ritrovate. Fu riformata anche la coniazione, ormai divisa tra la monetazione del princeps, in oro e argento, e quella del senato, in bronzo, mantenendo però per entrambe lo stesso tipo monetale: tutte le monete portavano sul verso il ritratto del principe. 8.4 LA RIORGANIZZAZIONE DELL’ESERCITO E LA POLITICA ESTERA Augusto non tralasciò di cercare costantemente la fedeltà e l’appoggio dell’esercito imperiale: si era presentato al popolo come il garante della pace, disponeva di un ampio consenso ma non poteva dimenticare che le fortune degli imperatores si basavano sul grado di soddisfazione che sapevano infondere nell’esercito, vero custode della pace e del potere. Ottaviano doveva provvedere alla sistemazione dei veterani, perché il numero di soldati sotto le armi era esagerato rispetto alle reali necessità dello Stato; doveva provvedere alla ridistribuzione delle truppe e alla loro collocazione nei punti strategici dell’Impero romano. Il primo problema venne risolto grazie al patrimonio personale del princeps, attraverso il congedo, l’honesta missio, e l’assegnazione di terre e denaro ai veterani di Cesare che avevano combattuto per lui sino alla battaglia di Azio. Provvide poi a ridurre il numero delle legioni, garantendo comunque la sicurezza e l’ordine. Furono mantenute venti legioni, ciascuna di 5500 soldati, stanziate sui confini a difesa dell’impero. Questa collocazione era necessaria per mantenere stabili le frontiere attraverso l’alloggiamento dei soldati in campi militari rettangoli permanenti, i castra, eretti in pietra e mattoni, per prevenire anche futuri interventi dell’esercito nella vita politica. E’ possibile parlare di una frontiera, il limes, munita di truppe, fortezze, strutture difensive e vie d’accesso. Se un’unità militare era stanziata in un luogo privo di sviluppo urbano, nelle sue vicinanze si formava un insediamento, composto da civili che vivevano in stretto collegamento con l’esercito. In tal modo la presenza dell’esercito determinava lo sviluppo economico del territorio in cui era stanziato, promuovendo fenomeni di colonizzazione e urbanizzazione. Alla fine del loro servizio, i veterani dovevano ricevere un lotto di terra, ma il governo aveva smesso di praticare confische per non creare scontento nella popolazione. Augusto allora stanziò i veterani nelle province, fondandovi numerose colonie o municipi e, più raramente, quelli che godevano dello ius Latii. Il sistema più logico per il mantenimento della pace era una continua espansione dell’impero o comunque il proseguimento della politica di conquista di Giulio Cesare. Nei confronti dei Parti, a Oriente, la politica di Augusto fu diplomatica: voleva contenere la pressione dei Parti sulle province orientali, tessendo una ramificazione di stati vassalli che potessero assicurare a Roma la presenza di zone cuscinetto tra i due imperi. Augusto non solo riuscì a ottenere una pace temporanea, ma addirittura la restituzione delle insegne che i Parti avevano strappato ai soldati di Crasso nella tragica battaglia di Carre. Nei regni confinanti con le province dell’Asia Minore furono insediati sovrani che si riconoscevano alleati di Roma. La Galazia divenne una nuova provincia nel 25. In Occidente venne completata la conquista dell’intera penisola iberica, mentre nella zona delle Alpi Augusto concluse un trattato con Cozio, re dei Celto-Liguri che abitavano l’arco alpino. Queste conquiste furono fondamentali per la sicurezza in Italia, e i confini dell’impero furono spostati sino al corso del Danubio e occupando Rezia e Norico. Tiberio, uno dei figliastri di Augusto e dei più valenti generali del suo tempo, tra il 12 e il 9 conquistò la Pannonia, l’odierna Ungheria occidentale. Fu annessa anche la Mesia, mentre Druso Maggiore voleva estendere i confini fino al corso dell’Elba. Nel 9 d.C. però una sollevazione di tribù germaniche renane, comandate da Arminio, rappresentò una delle pagine più nere della storia di Roma. Arminio, dei Cherusci, entrò al servizio dell’Impero Romano, combattendo nell’esercito imperiale come comandante di un distaccamento ausiliario di Cherusci, ricevendo anche la cittadinanza romana e il rango di cavaliere. I Romani stavano preparando una spedizione per sottomettere anche le tribù della Germania orientale. L’avversario principale era Maroboduo, re dei Marcomanni, ma gli sforzi dei generali romani furono vanificati a causa della rivolta della Dalmazia e della Pannonia. Arminio, resosi conto della fragilità di quest’area del sistema difensivo dell’impero, preparò di nascosto un’azione politica e militare per liberare i territori germanici dalla dominazione romana, oppressiva e ingiusta. Il governatore della Germania, Publio Quintilio Varo, agiva senza alcuna abilità politica, perdendo gradualmente l’appoggio delle elite germaniche. Arminio e i suoi seguaci riuscirono a coagulare intorno a sé tutto il malcontento popolare, all’insaputa dei Romani. I congiurati pensarono di attirare l’esercito romano in una trappola e di annientarlo, ma in realtà Arminio aveva un progetto più ampio: il ritorno alla terra e lo sviluppo della piccola proprietà agricola, che sempre più scomparve a favore del latifondo. Il popolo di Roma continuava a vivere grazie alle distribuzioni di grano gratuite, con la mente rivolta ai grandi spettacoli gladiatori e del circo. Attraverso il richiamo alla politica del panem et circenses venivano alleviati momentaneamente i gravi problemi della disoccupazione. Vennero intrapresi grandiosi lavori pubblici, come strade, ponti, acquedotti e terme, che accrescevano il senso di benessere collettivo. Il regime incoraggiò lo sviluppo delle associazioni cittadine, sia territoriali, i collegia compitalia, sia professionali, i collegi di artigiani e mercanti, sia religiose, i collegi di culto. Tali organizzazioni erano dirette dai magistri che erano eletti nel loro ambito, avevano un loro statuto, le loro festività e possedevano alcuni beni comuni. Lo Stato sorvegliava attentamente le associazioni e solamente quelle approvate dalle autorità, i collegia licita, potevano esistere. Lo Stato augusteo godeva del consenso del popolo, tant’è che le associazioni popolari non causarono mai problemi gravi. Per quanto riguarda le province, Augusto avviò un programma di investimenti, inviandovi numerosissimi veterani ed effettuando grandi lavori pubblici, come vie, ponti, acquedotti e fortificazioni. Si costituirono leghe di città e popoli provinciali. La parola greca per indicare una lega era koinon, mentre concilium era quella latina. Ogni lega aveva il suo consiglio federale, il suo tesoro e i suoi culti comuni. Il consiglio si riuniva per celebrare il culto imperiale, per decidere la politica nei confronti delle città alleate e formulare denunce contro gli abusi dei governatori. Invece di minacciare la dominazione romana, tali leghe aiutavano a limitare le disfunzioni del sistema. La cittadinanza romana fu estesa alle elite provinciali fedeli e, ad alcune città peregrinae provinciali, fu accordato lo ius Latii. In tal modo, gli aristocratici che ricoprivano una magistratura locale diventavano automaticamente cittadini romani, cioè veicolo di influenza romana e modello culturale. Augusto coinvolse i provinciali anche nella difesa dello Stato, affiancando alle legioni le truppe ausiliare, gli auxilia: si trattava di numerose piccole unità militari, di 500-1000 soldati di fanteria, di cavalleria, di truppe irregolari e miste di fanteria e cavalleria, reclutate tra i peregrini, cioè gli abitanti delle province privi della cittadinanza romana, e comandate da ufficiali romani di rango equestre. I soldati ausiliari vivevano la stessa vita militare e dovevano imparare il latino; alla fine del servizio i veterani ricevevano non solo un terreno agricolo, ma anche la cittadinanza romana per sé e le proprie famiglie. Seguendo le idee dei Gracchi e di Cesare, Augusto fondò numerose colonie romane nelle province. In Occidente si diffondeva un intenso fenomeno di urbanizzazione a opera dei ceti aristocratici autoctoni, che abbandonavano i loro vecchi insediamenti e davano vita a nuovi centri urbani, prendendo a modello le città romane. A diffondere la cultura romana contribuirono sia le fondazioni augustee di colonie sia l’urbanesimo provinciale. Segno visibile di questo mutamento è l’onomastica romana nelle province, insieme con la nascita di una cultura epigrafica provinciale. Con Augusto cominciò il grande processo di integrazione delle società provinciali nell’ambito romano, elemento di profonda romanizzazione. Nelle province orientali l’impero si fece veicolo di ellenizzazione. Questi cambiamenti migliorarono la vita di coloro che facevano parte dell’impero romano e determinarono un clima di generale consenso per Augusto. In ragione di ciò nacque tra i provinciali peregrini d’Oriente un nuovo culto religioso che rispecchiava questa nuova mentalità: il culto imperiale. Durante le guerre civili molti schiavi erano stati liberati illegalmente o erano fuggiti. Augusto rafforzò il potere dei padroni sui loro schiavi, ma poiché la schiavitù divenne redditizia, il costo degli schiavi era in costante aumento, perché non c’era la disponibilità delle grandi masse di prigionieri che le guerre vittoriose dell’età repubblicana avevano riversato sui mercati romani. C’erano diversi livelli di schiavitù, quella delle masse era necessaria in alcuni settori, come quello minerario. Importanti erano gli schiavi del princeps, la cosiddetta familia Caesaris. In età augustea si registrò non solo una diminuzione degli schiavi, sostituiti da lavoratori liberi e salariati, ma anche la loro manomissione. Lo schiavo affrancato diventava un liberto del suo padrone, di cui seguiva la condizione giuridica: si creavano così nuovi cittadini, anche se privi dello ius honorum, mentre i loro figli erano a pieno titolo tra i cittadini romani. Spesso i liberti erano affaristi ricchissimi, esclusi però dalle cariche e alcuni di loro, diedero vita nelle città a una forma consociativa: gli Augustales, ministri del culto imperiale. Gli Augustali, pur non potendo rivestire cariche pubbliche, ricevevano considerazione, onore e anche insegne visibili del loro rango. La società romana, ristrutturata in età augustea sui principi e valori tradizionali, raggiunse una duratura stabilità. Importante fu la mobilità sociale, cioè la possibilità di accedere ai ceti immediatamente superiori al proprio o di entrare a far parte della comunità dei cittadini romani. 8.6 LA CULTURA AUGUSTEA Grazie al periodo di pace stabile e duratura, Augusto potè dedicarsi a un’ampia politica di restaurazione culturale, che prevedeva grandi investimenti nel campo delle arti. Il princeps agiva in prima persona o attraverso collaboratori, come Mecenate, il cui nome divenne sinonimo di protettore delle lettere e dei letterati. Nella sua casa si riunivano e trovavano protezione artisti che in cambio trasformavano le loro opere nello strumento per veicolare i valori della restaurazione morale augustea. Il regime augusteo investiva nelle arti e nella letteratura come nei lavori pubblici e negli spettacoli, favorendo gli artisti che celebravano i valori ufficiali del principato. La letteratura latina visse in questi anni la sua età d’oro. Il princeps ebbe al proprio servizio la penna di poeti come Virgilio, Orazio e Ovidio, storici come Livio, scienziati come Vitruvio e geografi come Strabone. Ci furono anche sporadiche manifestazioni culturali di dissenso al regime, che vennero represse. Uno dei poeti allontanati da Roma fu Ovidio, esiliato per le sue opere troppo licenziose. La produzione letteraria era molto ricca e variegata. Il periodo augusteo mostrò una lingua latina molto matura ed evoluta, che raggiunse il culmine dello stile e della chiarezza linguistica. Il latino continuò a diffondersi nelle province, diventando un modello per la cultura dell’Occidente e riuscendo a prestare al greco alcuni termini della scienza, del diritto e della burocrazia; il greco affiancherà il latino, specializzandosi nella narrazione delle vicende di Roma. L’età augustea mostrò anche un fenomeno di rinascita delle lettere greche, offrendo nuovi scrittori e artisti di grande talento, segno di una rinnovata prosperità e di un felice adattamento alla nuova realtà. La pace ritrovata e il benessere permisero al regime augusteo di sviluppare un’ampia politica di lavori pubblici e abbellimento delle città, soprattutto di Roma. Augusto diceva di aver trovato una città di mattoni e si vantava di restituirla coperta di marmi. Tra gli slogan del principato: pietas verso gli dei, la famiglia e la patria, virtus e mos maiorum. L’arte era uno strumento della propaganda imperiale. I tratti principali di quest’arte furono l’eclettismo e l’ideologia imperiale. Il princeps fece edificare un altare che celebrasse la pace restituita, vale a dire la celebre Ara Pacis, un foro e un grande tempio, il Pantheon. Sia nell’Urbe che nei centri provinciali, grande era l’attività edilizia pubblica. In molti luoghi sorsero templi di Augusto e di Roma e della Fortuna Augusta. Con grandi sforzi Augusto cercò di ripristinare la fede romana tradizionale, ovvero tutti quei culti e quelle istituzioni religiose che erano stati gravemente trascurati durante l’età precedente. Non vi erano culti prediletti da vari ceti sociali. Accanto ai culti ufficiali continuarono a proliferare nuove forme religiose, come superstizioni straniere o riti magici, tutte accettate, sebbene prive di appoggio ufficiale. Nacque un nuovo culto, quello dell’imperatore. Dapprima titubante, in seguito Augusto lasciò che la propria persona venisse onorata come divinità nell’Urbe e nelle province. La venerazione dell’imperatore fu un fatto di coesione sociale, perché tutti gli abitanti si riconoscevano così uniti da uno stesso culto. Dopo Augusto la celebrazione del princeps divenne un obbligo esteso a tutte le regioni. 8.7 IL PROBLEMA DELLA SUCCESSIONE Il problema che assillava Augusto era quello di trovare un successore che garantisse la continuità del regime da lui creato. La soluzione doveva essere trovata senza la nomina di un erede diretto, perché altrimenti il regime si sarebbe trasformato in una vera e propria monarchia ereditaria. L’unica soluzione era il sistema di proporre un candidato che gradatamente assumesse le cariche concentrate nelle mani del princeps, venendo poi riconosciuto dalle istituzioni e dalla società come avente lo stesso prestigio personale. Augusto tuttavia non aveva figli maschi e la questione fu resa più difficile dalla morte prematura dei possibili successori. Alla fine la scelta cadde su Tiberio Claudio Nerone, valente generale e figlio di primo letto di Livia, moglie di Augusto. Tiberio venne associato alla potestà tribunizia e al comando proconsolare. Quando Augusto morì nel 14, Tiberio divenne il nuovo princeps. Apparteneva alla famiglia dei Claudii. Augusto, per legarlo alla propria famiglia, lo aveva obbligato a sposare la figlia Giulia Maggiore, vedova di Agrippa. Era l’unico modo affinchè un regime monarchico, calato dietro una facciata costituzionale, aveva per far accettare all’aristocrazia l’idea di un principato ereditario. Tiberio ricevette un giuramento di fedeltà personale da parte di tutti i magistrati e funzionari dello Stato, di ogni ceto sociale. In tal modo la successione monarchica diventò effettiva, e Tiberio annoverava i cognomi di Caesar e Augustus. Augusto fu deificato. Il regime politico da lui attuato procurò pace e creò le condizioni per un ulteriore sviluppo, basato sempre sui valori del mos maiorum. Il problema principale rimaneva il ruolo dominante del princeps: non esisteva freno alcuno a un potere personale tirannico e feroce e l’intero equilibrio politico dipendeva dalla personalità del monarca. princeps. In realtà Claudio mise in atto un vero e proprio rafforzamento del regime monarchico: attuò una riorganizzazione dell’apparato statale, istituendo uffici centrali per meglio gestire i vari ambiti dello Stato, e affidò i posti a liberti imperiali. Gli uffici più importanti erano quelli delle finanze, della cancelleria imperiale, delle domande al princeps su questioni amministrative e delle inchieste. Claudio risanò l’amministrazione finanziaria dopo i dissesti causati dal predecessore e rinforzò il ruolo del tesoro imperiale e di quello senatorio. A Roma furono intrapresi grandi lavori pubblici, come vie, acquedotti, porti e campi militari. Fu salvaguardata la religione tradizionale e furono espulsi da Roma gli Ebrei e i primi cristiani. In campo provinciale il princeps spinse verso una politica di romanizzazione, nelle Gallie soprattutto, incentivando la formazione di colonie e favorendo l’estensione della cittadinanza romana. I ceti elevati della Gallia, che godevano da due generazioni della cittadinanza romana, ottennero l’accesso alle magistrature e al senato. D’ora in poi la collaborazione dei ceti sociali superiori delle province sarà sempre più necessaria all’impero. A questo riguardo nel 48 Claudio tenne un discorso in cui sostenne l’apertura della carriera senatoriale alle classi dirigenti della Gallia Transalpina. Contrariamente a Caligola, che aveva finto effimere spedizioni contro i Germani, con Claudio si ebbe una nuova fase espansiva ed egli annesse la Mauretania, la Tracia, la Licia e la Giudea. Le fortune politiche di Claudio furono però offuscate dalle sue vicissitudini familiari, in particolare per la triste influenza che ebbero su di lui le sue due ultimi mogli. La prima, Messalina, celebre per la dissolutezza dei costumi, venne poi condannata a morte dallo stesso Claudio per una congiura ordita nei suoi riguardi. L’ultima moglie, Agrippina Minore, la convinse ad adottare il figlio di primo letto, Lucio Domizio Enobarbo, chiamato poi Nerone, e a nominarlo erede insieme a Britannico, figlio di Claudio e Messalina. Nel 54 fu proprio Agrippina ad avvelenare Claudio per favorire l’ascesa al trono di Nerone. 9.4 NERONE (54-68 d.C.) Giunto al potere a soli 17 anni, Nerone fu un princeps di pessima fama. Inizialmente si fece guidare dalla madre e dai suoi due maestri, Seneca e il prefetto del pretorio Sesto Afranio Burro, che di fatto governarono in sua vece per alcuni anni, attraverso una politica moderata. Seneca infatti teorizzava la possibilità dell’esistenza di una monarchia assoluta nei limiti della moralità e durante i primi cinque anni di governo neroniano così fu. Ma ben presto Nerone disconobbe il maestro e i suoi insegnamenti. Dall’anno 61 il regime divenne una monarchia assoluta repressiva. Nerone uccise il fratello Britannico e la madre, dando inizio a una serie di feroci delitti e atti di assoluto dispotismo. Il regime sosteneva spese colossali per il lusso della corte, accontentava le masse di plebei urbani con distribuzioni alimentari e spettacoli circensi. Furono promossi gli adulatori di Nerone o i sodali delle sue dissolutezze. Il princeps fece assassinare la prima moglie Ottavia, figlia di Claudio, e uccise la seconda, Poppea. Nel 64 un incendio devastò Roma e Nerone cominciò a erigere per sé un palazzo immenso e lussuoso nel cuore dell’Urbe: la Domus Aurea. Secondo alcuni l’incendio sarebbe stato causato dallo stesso Nerone, ma il governo imperiale attribuì la responsabilità ai cristiani, mettendo in atto contro di loro la prima grande persecuzione. Tra le vittime vi furono gli apostoli Pietro e Paolo. Nel 65, Nerone sventò una congiura ordita contro di lui, nota come la congiura di Pisone, dal nome di uno dei principali congiurati: fu ordinata una vera e propria strage, in cui caddero vittime anche Seneca e Petronio, costretti al suicidio. Si instaurò una politica di terrore assoluto, in cui dominavano i delatori e il prefetto del pretorio Ofonio Tigellino. La soluzione per l’eliminazione dei nemici politici fu trovata ricorrendo al delitto di lesa maestà. Il dominio assoluto di Nerone tendeva a instaurare una monarchia di tipo ellenistico, con tratti teocratici, che comprendeva uno stile di vita eccentrico. Nerone cercò di imporre un diverso sistema di valori, una reformatio morum incentrata sui concetti di agon, competizione, e luxus, i piaceri della vita. Lo scandalo maggiore per la mentalità romana era l’amore sviscerato che Nerone nutriva per le arti, specialmente greche, che lo portava a trascurare le problematiche politiche dello Stato. Egli stesso si riteneva un artista e pretendeva dal pubblico un’ammirazione divina. Lo stile di vita del princeps, ricco di spese inutili, assottigliò pesantemente il tesoro statale. Nel 64 Nerone mise mano a una riforma monetaria: diminuì il peso d’oro e d’argento delle monete, l’aureus e il denarius, che cominciarono ad avere un carattere parzialmente fiduciario. In politica estera cercò di mantenere la pace, riportando anche una vittoria contro i Parti e conquistando nuovamente l’Armenia. Nel 66 lo stesso Nerone incoronò re d’Armenia Tridate, cliente dei Romani. Il princeps voleva allargare l’influenza romana verso Oriente, senza però provocare un nuovo conflitto militare. In Britannia gli abusi dei procuratori imperiali causano una sollevazione popolare e anche la Giudea si ribellò, insieme alla Gallia. Da diverse parti dell’impero cominciarono a nascere insurrezioni militari contro Nerone, dichiarato nemico pubblico. Abbandonato da tutti, nel 68 Nerone preferì morire di propria mano, esclamando “Quale artista muore con me!”. Con lui si estingueva la dinastia Giulio-Claudia. Capitolo 10 LA GUERRA CIVILE DEL 68-69 d.C. E LA DINASTIA FLAVIA 10.1 L’ANNO DEI QUATTRO IMPERATORI (68-69 d.C.) Il 69 d.C. è comunemente conosciuto come l’anno dei quattro imperatori, perché quattro furono i generali romani che, in successione, si contesero il trono dopo la morte di Nerone. Galba, che aveva determinato la fine di Nerone, fu accettato dal senato. Il nuovo princeps governò con moderazione e sobrietà, secondo la tradizione augustea. Ma la sua politica di austerità scontentò i pretoriani e Galba, ormai 72 enne, il 10 gennaio del 69 decise quindi di adottare il trentenne Lucio Calpurnio Pisone, esponente dell’aristocrazia senatoria, indicandolo come suo successore, allo scopo di consolidare il proprio potere. Ma questo causò la reazione dei pretoriani, a cui non era stato corrisposto il donativo secondo le loro aspettative, che uccisero Galba e Pisone. I pretoriani acclamarono princeps Marco Otone, complice di Galba nel colpo di stato contro il principe. In seguito però fu lo stesso Otone a organizzare un complotto contro Galba, reso di non averlo nominato suo successore. Qualche giorno prima anche le legioni sul Reno insorsero, nominando princeps Vitellio, governatore della Germania Inferiore. Sceso nell’Italia settentrionale, quest’ultimo riuscì a sconfiggere l’esercito di Otone, che si suicidò. Vitellio, entrato a Roma, assunse atteggiamenti neroniani, e ciò alimentò ovunque il malcontento, tanto che pochi mesi dopo, le legioni orientali, insorte, proclamarono princeps Tito Flavio Vespasiano, militare di grande fama. Gli eserciti di Vespasiano si scontrarono con quelli di Vitellio, e alla fine quest’ultimo venne giustiziato. Vespasiano si impose così come il nuovo princeps. Ormai l’esercito si era sostituito al senato nella scelta e nella determinazione del princeps. Vespasiano apparteneva ai Flavi, ricca famiglia equestre originaria della Sabina. Con il suo avvento al trono si apriva la possibilità per le elite italiche di accedere alla più alta dignità dell’impero. La morte di Nerone aveva determinato un radicale mutamento sociale, elevando al trono non più i rampolli di antiche famiglie di tradizione patrizia che vantavano origini divine, ma uomini, anche plebei, che si erano costruiti con le proprie mani il loro destino di gloria, 10.2 VESPASIANO (69-79 d.C.) Vespasiano inaugurò il suo regno con un ritorno all’idea del principato così come configurato da Augusto, per ristabilirne prestigio e legittimità. La prima cosa da fare era trovare un accordo con l’aristocrazia del senato, ripristinando il riconoscimento formale di quest’ultima alla nomina del princeps. I continui repentini cambiamenti dei principes avevano generato una situazione di incertezza e instabilità. Il provvedimento principale di Vespasiano per dare legittimità al suo potere fu la lex de imperio Vespasiani, ovvero la legge sul potere di Vespasiano, una legge in cui erano elencate le funzioni e le facoltà che competevano al principe, delimitandone così il campo d’azione rispetto alle prerogative del senato. Con questa legge Vespasiano sanciva sul piano istituzionale quell’evoluzione che aveva portato al principato, in cui vi era una figura, quella del princeps, superiore a tutti per l’auctoritas personale. La situazione economica dello Stato era precaria e per questo motivo Vespasiano mirò ad attuare una politica che incoraggiasse il ritorno all’agricoltura. Le finanze furono riorganizzate e piuttosto che essere destinate ai lussi di corte, vennero indirizzate alla costruzione di monumentali opere pubbliche, che creassero opportunità occupazionali e nel contempo riscuotessero il consenso della plebe; tra queste, il monumento più rappresentativo fu il celebre anfiteatro Flavio, il Colosseo, destinato ai giochi circensi e ai combattimenti gladiatori. Vespasiano fu un amministratore serio e onesto, che seppe guadagnarsi il consenso dell’alta società romana, come pure quello del popolo. Proseguì anche nell’opera di estensione ai provinciali della cittadinanza romana e istituì a Roma una scuola di retorica, greca e latina, i cui maestri venivano pagati dallo Stato. Vennero intraprese nuove campagne militari in Germania e in Britannia, e vennero stabiliti rapporti di clientela o di amicizia con i barbari dell’Europa centrale. In Giudea il figlio di Vespasiano, Tito, nel 70, con la presa di Gerusalemme, il saccheggio della città santa, la distruzione totale del tempio e lo sterminio di migliaia di Ebrei, mise fine alla rivolta scoppiata in età neroniana. Questi eventi drammatici diedero inizio alla grande diaspora ebraica, cioè la dispersione degli Ebrei in tutta l’area del Mediterraneo. Il grande bottino di guerra contribuì alla stabilità finanziaria dell’impero. Importante fu la collaborazione che Vespasiano riuscì ad attuare con i Parti, ma queste pacifiche relazioni vennero meno quando i Romani non diedero loro alcun supporto nel fronteggiare l’invasione degli Alani, una popolazione sarmatica che, attraverso il Caucaso, minacciavano la Partia e l’Armenia. Malgrado queste difficoltà, Vespasiano riuscì ad acquistare vantaggi territoriali in Asia Minore, estendendo l’influenza romana in Siria. La presa di Gerusalemme permise a Vespasiano di designare il figlio Tito come proprio successore e restaurare così il regime dinastico. Tito ricevette l’imperium proconsulare, ovvero il pieno potere nel governo delle province e nel comando delle armate imperiali. Il 23 giugno del 79 Vespasiano morì nei pressi di Rieti. 10.3 TITO (79-81 d.C.) E DOMIZIANO (81-96 d.C.) governatore della Germania Superiore e ciò lo poneva nelle condizioni di assicurarsi il sostegno degli ambienti militari nei confronti della decisione di Nerva di associarlo al potere. Traiano era una delle poche persone che potesse riscuotere sia le simpatie del senato sia il rispetto dell’esercito. L’origine spagnola di Traiano avrebbe potuto, in circostanze meno difficili, infastidire i conservatori, ma non c’era altra scelta di fronte al potenziale collasso del principato di Nerva. Il 27 ottobre del 97 quest’ultimo salì al Campidoglio e, accanto all’altare, dinnanzi a una grande folla accorsa per l’occasione, colse tutti di sorpresa, pronunciando a gran voce la formula di adozione di Traiano, nominandolo Caesar, successore designato. La proclamazione improvvisa e pubblica pose tutti di fronte al fatto compiuto, impedendo che sorgesse un qualsiasi antagonista di Traiano. Sura e gli altri sostenitori di Traiano riuscirono ad ottenere cioè che da mesi stavano pianificando e, alla morte di Nerva, avvenuta il 27 gennaio del 98, Traiano, a 45 anni, divenne imperatore, nonostante non fosse italico, in virtù dei meriti e delle capacità, inaugurando il cosiddetto principato adottivo, in base al quale la scelta, in nome della ragion di Stato, ricadeva sul migliore. L’adozione permetteva di scegliere come successore il candidato più autorevole, e sottraeva la successione al trono al principio dei legami familiari. La pratica istituita da Nerva continuò durante tutto il II secolo d.C., periodo d’apogeo dell’impero romano; questa successione meritocratica fu tipica della dinastia degli Antonini, così chiamata dal nome dell’imperatore che governò più a lungo, ossia Antonino Pio. 11.2 TRAIANO (98-117 d.C.) L’OTTIMO PRINCIPE Traiano rappresenta per la prima volta un uomo venuto dalle province dell’Impero; nato a Italica nel 54 era infatti spagnolo, anche se proveniva da un’antica famiglia di coloni di origine italica. Il padre aveva fatto carriera sotto i Flavi, e proprio sotto le dipendenze del padre, come tribuno militare, Traiano ebbe modo di fare esperienza. La svolta che permise a Traiano di ascendere dal punto di vista della carriera avvenne nell’89, quando si prodigò per domare la rivolta di Lucio Saturnino, governatore della provincia della Germania Superiore. Riconoscente, Domiziano offrì il proprio sostegno a Traiano, che divenne console nel 91 d.C. Alla morte di Nerva, anziché tornare a Roma per ricevere l’investitura imperiale, preferì rimanere sulla frontiera renana per attenderne al consolidamento, portando a compimento la missione che gli era stata affidata dallo stesso Nerva. Tale comportamento era frutto di un lucido realismo militare e politico, perché in quel momento la sua presenza era molto più importante in Germania. Dopo alcune campagne contro i Daci, Domiziano aveva preferito stringere con il loro re, Decebalo, un trattato di alleanza, ma tale trattato non era stato rispettato dal loro re Decebalo. La Dacia stava assumendo sempre di più la fisionomia di un potenziale nemico per l’impero romano. Diverse motivazioni indussero Traiano alla guerra contro il re dei Daci: • Di carattere personale, cioè legate alla legittimazione della propria autorità imperiale • Di ordine militare, strategico, politico ed economico • Era una ghiotta occasione per affermarsi dal punto di vista militare • Era attratto dalle ricche miniere d’oro e d’argento della Dacia, ricchezze che avrebbero aiutato Roma a superare le difficoltà economiche Il re dei Daci era riuscito a creare e a consolidare un potente regno unitario, ma anche a divenire il punto di riferimento per quelle popolazioni vicine che vedevano in lui il garante della loro libertà. Traiano decise di intervenire con una tempestiva azione militare, prima che i danni divenissero irreversibili. Pertanto, nella primavera dell’anno 101 d.C. Traiano dichiarò la guerra ai Daci, motivandola con il non rispetto da parte di Decebalo del trattato stipulato con Domiziano. L’imperatore riuscì a vincere i Daci nel corso di due sanguinose guerre che sono documentate in modo straordinario dai rilievi della Colonna Traiana. Traiano, dopo averla cinta d’assedio, entrò a Sarmizegetusa, la capitale del regno dacico, e la distrusse. Decebalo scappò, ma raggiunto dai romani, preferì darsi la morte, piuttosto di essere fatto prigioniero. La Dacia divenne così una nuova provincia dell’impero. Traiano tornò a Roma nel 107, e da questa vittoria cominciò la sua grande fama di conquistatore, accresciuta ulteriormente dalle imprese successive. La vittoria sui Daci consentì la sistemazione definitiva dell’assetto dell’area danubiana e contribuì alla stabilità finanziaria romana. Lo dimostrano le spese pubbliche gigantesche compiute da Traiano, nonché i monumenti straordinari che furono fatti costruire dall’imperatore grazie al grande architetto Apollodoro di Damasco, come la Colonna Traiana, il Foro di Traiano, i Mercati Traianei e altri, a imperituro ricordo della conquista e per celebrare la sua gloria. Traiano attuò una politica di deciso ampliamento territoriale dell’impero, di cui la Dacia fu solo la prima tappa: voleva emulare l’esempio di Alessandro Magno. Le sue guerre espansionistiche furono dovute non solo alla fama e alla gloria, ma anche all’urgente bisogno di manodopera servile che ormai scarseggiava nell’impero, nonché alla necessità di incamerare nuovi territori per la popolazione italica impoverita e introiti destinati a fronteggiare la crisi economica. Venne annessa inoltre l’Arabia Petrea. In principio l’imperatore governò in modo paternalistico e moderato, favorendo la concordia sociale e politica, il rispetto per le tradizioni e il senato, guadagnandosi l’appellativo di Optimus princeps, che gli venne conferito in seguito a una deliberazione del senato del 98. Plinio il Giovane nel Panegirico a Traiano, opera encomiastica dedicata all’imperatore, ricorda che Traiano è ottimo non solo per le sue capacità militari, ma anche per le sue virtù morali. L’appellativo di Optimus, assunto come cognomen, gli garantiva un’influenza morale straordinaria: si definì un nuovo modello di monarchia assoluta, che legittimò il connubio tra l’offensiva militare e il compromesso politico interno, frutto della collaborazione con il senato. Traiano metteva il suo immenso potere al servizio del bene comune, contrapponendosi in questo modo agli arbitri e alle violenze dei regni dispotici di alcuni suoi predecessori. Dopo i successi militari, dal 112, il suo principato si vestì dunque di tratti assolutistici. Il senato perse gradualmente d’importanza, ma i senatori furono sempre più coinvolti nella burocrazia superiore, che vide accresciuto anche il peso dei cavalieri. Il consiglio del principe divenne fondamentale, dove l’imperatore cooptava i senatori e i cavalieri più eminenti. A partire dal regno di Traiano scomparvero per sempre le leges e i plebiscita tradizionali, votati nei comizi, sostituiti da formule legiferate dal solo imperatore: le constitutiones. Di queste facevano parte: a. Mandata: istituzioni indirizzate a governatori provinciali e funzionari b. Rescripta: risposte a quesiti posti all’imperatore da privati c. Epistulae: comunicazioni scritte con cui l’imperatore risolveva questioni incerte di diritto su richiesta di funzionari, magistrati o giudici d. Edicta: formulazioni di regole generali valevoli per tutti e. Decreta: sentenze emanate dal princeps su controversie portate alla sua cognizione Traiano riuscì ad eliminare l’attività delatoria, sospese la lex maiestatis e mostrò tolleranza anche verso i cristiani. Decise di continuare con la politica economica inaugurata dal suo predecessore, Nerva, tesa ad arrestare la crisi che opprimeva la penisola italica, istituendo le istituzioni alimentari, cioè un prestito a basso interesse per i piccoli proprietari terrieri, utilizzando poi le rendite per opere assistenziali, come quelle destinate ai fanciulli italici poveri o orfani. Dopo queste riforme, Traiano riprese i suoi progetti di espansione territoriale, in particolare contro i Parti, che erano per i Romani come i barbari e non conoscevano bene né l’estensione del loro regno né i problemi complessi della loro società. La guerra contro i Parti, articolata in quattro diverse spedizioni, portò all’annessione dell’Armenia, della Mesopotamia e dell’Assiria. L’impero romano aveva dunque raggiunto la sua massima espansione territoriale. L’imperatore si ammalò improvvisamente e l’8 agosto del 11 d.C. morì in Cilicia. Traiano è ricordato nella storia come un modello di virtù, clemenza e sapienza politica. Nel tardo impero, l’acclamazione degli imperatori veniva salutata dal senato con l’augurio Felicior Augusto, melior Traiano, cioè possa tu essere più fortunato di Augusto e migliore di Traiano. 11.3 ADRIANO (117-138 d.C.) Adriano, il primo tra gli imperatori a portare la barba alla maniera greca, proveniva dall’aristocrazia spagnola al pari di Traiano, e fu da questi adottato e designato come suo successore. Questa successione fu contestata da alcuni circoli senatori, contro i quali Adriano intervenne per punire i propri oppositori. Quattro consolari furono così giustiziati senza processo. Adriano viaggiò molto per tenersi in contatto con i problemi concreti delle province, ma durante questi viaggi non smetteva mai di governare attivamente: si recò tanto in Oriente quanto in Occidente, soffermandosi a lungo ad Atene, dove fece costruire alcuni monumenti, tra cui il tempio di Giove Olimpio, e dove venne iniziato ai misteri eleusini. In Egitto fu colpito dalla morte del suo amante, Antinoo, un giovinetto greco originario della Bitinia. Adriano in sua memoria dedicò persino una città, Antinopoli, e lo divinizzò. La politica estera non fu espansionistica, perché Adriano si rese conto delle grandi difficoltà che si avevano nel controllare e amministrare un impero tanto esteso. In questa ottica fece dunque erigere grandi mura difensive nei punti più critici e minacciati dell’impero, come in Africa e in Britannia. Nell’isola l’imperatore fece costruire una muraglia, il cosiddetto Vallo di Adriano, allo scopo di proteggere il confine settentrionale delle province britanniche dalle incursioni delle tribù dei Caledoni. I Romani successivamente si spinsero più a nord, costruendovi il Vallo di Antonino, fatto innalzare dall’imperatore Antonino Pio. In Oriente invece preferì abbandonare le province da poco conquistate da Traiano, perché mantenerle sarebbe stato difficile e oneroso. L’Armenia venne trasformata in uno Stato cuscinetto con il regno dei Parti, e questa rinuncia permise all’imperatore di ottenere nel 117 una pace stabile con i Parti. Nel frattempo, le rivolte degli Ebrei furono duramente represse. Con le elite dei popoli vicini i rapporti furono mantenuti e sviluppati. La politica di pace adrianea richiedeva eserciti ben preparati, e ciò spinse l’imperatore a rafforzare le capacità e la disciplina militari. Egli stesso visitava di persona le guarnigioni e face costruire fortezze e nuove vie per facilitare all’esercito gli spostamenti. Venne esteso il reclutamento dei provinciali, diventando regionale: tutte le zone dell’impero nemiche. La peste e la mancanza di sufficienti risorse, materiali e umane, contribuirono ad aumentare le difficoltà del momento già critico. Marco Aurelio, per riuscire a raccogliere i fondi necessari senza introdurre nuove tasse, mise all’asta il proprio tesoro personale e fu costretto a reclutare prigionieri, delinquenti, briganti, gladiatori e schiavi liberati. Nuove legioni furono dislocate sul confine danubiano, la Decia e la Mesia Superiore furono temporaneamente unite sotto un unico governatore e per la difesa dell’Italia venne creata la praetentura Italiae et Alpium, ovvero un distretto militare a protezione delle Alpi orientali, che consisteva in un insieme di fortificazioni e nello stanziamento di una legione. I barbari vennero però tutti sconfitti e ricacciati oltre il limes danubiano settentrionale. Dopo la morte di Lucio Vero, colpito da un ictus, nel 169, fu lo stesso Marco Aurelio a condurre le campagne contro di loro. L’imperatore stabilì il proprio centro di comando a Sirmio, e qui concentrò le sue truppe. L’offensiva romana conobbe fallimenti dolorosi, perché i barbari riuscirono più volte a invadere l’Italia. Nel 175 si combatterono le battaglie decisive, e gli invasori vennero sconfitti. Le importanti vittorie conseguite da Marco Aurelio vennero poi immortalate nei fregi della Colonna Antonina, ispirata dalla Colonna Traiana, innalzata nel Campo Marzio e inaugurata negli anni dell’imperatore Commodo. I Romani obbligarono i vinti a evacuare una stretta fascia di terra lungo il confine, ma permisero loro di frequentare i fori e i mercati di frontiera; in cambio essi avrebbero dovuto fornire truppe ausiliare a Roma. Alcuni prigionieri vennero trasferiti nel territorio romano come coloni romani: avrebbero dovuto coltivare le terre e contemporaneamente militare nell’esercito di Roma. Finiva così la prima delle due guerre marcomanniche. L’intenzione di Marco Aurelio era forse quella di annettere a Roma l’intero territorio dei Sarmati europei e delle tribù germaniche, spostando il confine dell’impero romano lungo la catena dei Carpazi. Ma questo disegno fallì, a causa di una ribellione dell’esercito orientale guidata dal governatore della Siria, Gaio Avidio Cassio. L’imperatore dovette recarsi in Asia Minore, ma nel frattempo Cassio cadde in un agguato, e venne ucciso; gli uccisori inviarono poi a Marco Aurelio la testa dell’usurpatore. Il primo gesto dell’imperatore fu nel segno della riconciliazione: egli ordinò di far seppellire con il dovuto decoro la testa dell’usurpatore. In conseguenza di questa insurrezione Marco Aurelio decise che non sarebbe stato più consentito a nessuno di assumere funzioni di governo nella propria provincia d’origine. Tutto il mondo romano tuttavia risentì drammaticamente delle conseguenze dell’incredibile sforzo bellico sostenuto, aggravato dall’epidemia che aveva sconvolto l’Italia e le province. Le difficoltà economiche e la situazione pericolosa delle province di frontiera furono viste come segni tangibili di una crisi imminente. Per alleviare la pressione esercitata sui confini dalle popolazioni germaniche l’imperatore, per la prima volta nella storia di Roma, consentì loro infiltrazioni all’interno del limes e gruppi barbari si insediarono così nelle province sui terreni incolti. Nell’amministrazione finanziaria l’imperatore, forse anche in ragione delle gravose spese militari dovute alle necessità belliche del momento, limitò in modo significativo le uscite, persino quelle del cerimoniale di corte. Nonostante avesse vinto la guerra, Roma non aveva potuto risolvere le cause profonde della crisi e pertanto permaneva ai confini la minaccia dei popoli transdanubiani. Nel 177 si ripresentò il problema dei barbari. Marco Aurelio, insieme con il figlio Commodo, associato al regno, fu costretto a recarsi sul confine danubiano. La nuova guerra marcomannica cominciò nel 177 e, nell’inverno del 179- Vienna, prima di riuscire a portare a termine la campagna militare. Contrariamente al principio dell’adozione, Marco Aurelio indicò come proprio successore il figlio Commodo. La storia ha apprezzato Marco Aurelio per il suo carattere forte e nobile, la sua cultura e il suo coraggio insieme al suo senso di responsabilità. I tratti salienti dei suoi ideali emergono chiaramente nei Ricordi, il diario, scritto in greco, a cui l’imperatore affidò le sue riflessioni e confessioni. In questi pensieri traspare l’alto valore morale di Marco Aurelio e il suo sentimento del dovere e rispetto verso gli uomini, tipici della filosofia stoica. Tuttavia, il regno di questo imperatore fu contrassegnato da un nuovo sussulto anticristiano. Con Marco Aurelio cominciò la crisi generale del mondo romano, che il governo imperiale non poteva né prevedere né gestire. 11.6 COMMODO (180-192 d.C.) Il sistema attraverso cui Commodo era subentrato al governo dello Stato pose fine all’adozione per la successione al trono, che divenne di fatto ereditaria. Commodo, appena diciannovenne, non possedeva le qualità di un capo politico; era pigro e debole di carattere, e il suo principato sembrò ripetere gli eccessi che avevano caratterizzato l’età di Caligola e di Nerone. Conclusa la pace con i Germani, Commodo diede vita a un governo che tendeva nuovamente all’assolutismo monarchico. Si abbandonò alle delizie della vita, lasciando l’amministrazione dello Stato in mano ai suoi favoriti, vivendo in modo scandaloso tra spettacoli gladiatori e corse di carri. Garantendosi la simpatia della plebe con continui donativi, Commodo concentrò le sue energie sulla divinizzazione della propria persona, presentandosi in pubblico vestito da Ercole e facendosi erigere statue che lo ritraevano nei panni del dio e si faceva chiamare Commodo- Ercole. L’aristocrazia senatoria e gli ambienti altolocati spesso gli mostrarono un’aperta ostilità. Per riuscire a mantenere il potere Commodo orchestrò un sistema di terrore e, ricorrendo allo strumento della delazione, si rese responsabile di odiosi crimini nei confronti dei ceti superiori della società romana. Tale clima favorì la nascita di congiure ordite ai danni dell’imperatore: la sorella Lucilla e altri membri della corte furono uccisi proprio con l’accusa di avervi preso parte. Nel 192 un complotto riuscì a ucciderlo, e Commodo fu dichiarato nemico pubblico, il senato ne decretò la cancellazione della memoria. Era la fine della dinastia Antonina e l’inizio di un nuovo periodo, quello della monarchia militare. 11.7 SOCIETA’ E CULTURA NEL I E NEL II SECOLO d.C. I primi due secoli del principato furono generalmente un periodo di pace e prosperità. Nel I e II secolo d.C. il latino è la lingua ufficiale dell’impero. Si trattava di una lingua unitaria, molto ricca ed evoluta. Le particolarità regionali rimasero senza importanza, benchè il latino delle province, specie di quelle periferiche, fu ovviamnte meno colto. Nella parte occidentale dell’impero romano il latino si confermò come lingua dominante, d’uso anche nell’onomastica degli autoctoni provinciali. Tra loro un certo numero portava il nome gentilizio degli stessi imperatori, segno di una recente romanizzazione. Nell’Oriente però il latino divise con il greco lo spazio della parola parlata e scritta. Se il greco rimase la lingua del popolo provinciale, il latino diventò quella delle elite greco-orientali, e latini erano i vocaboli del linguaggio tecnico, giuridico, militare e burocratico delle aree grecofone. Ma nelle colonie romane orientali, benchè il latino fosse sempre la lingua ufficiale, il greco in molti casi mantenne un ruolo di spicco. Ci fu una grande diffusione del greco a livello territoriale, e regioni sino a quel momento arretrate cominciarono a essere ellenizzate. Rimasero vive anche alcune lingue regionali, come il demotico, il copto, l’aramaico, il celtico. Conoscere e utilizzare il greco era prova di distinzione intellettuale, e un esempio fu proprio il fatto che Marco Aurelio scrisse le sue opere in greco. In età post-augustea si spezzò il legame tra intellettuali e potere, e poeti, filosofi e storici manifestarono la propria estraneità al potere attraverso la scelta di particolari temi e modalità narrative. Nel periodo giulio-claudio la poesia di Lucano si estraniò, cantando dell’antica guerra tra Cesare e Pompeo con gli accenti tragici delle coeve tragedie d’argomento mitologico composte da Seneca, metafore dei colori tetri e cupi dei principati di Claudio e di Nerone. Anche la prosa romanzesca di Petronio trasformò il Satyricon nel ritratto feroce di un mondo corrotto e privo di moralità. La ridotta libertà condusse a un gusto più barocco, marcato dalla difficoltà del vivere. Fu l’età argentea delle lettere latine. In età flavia furono invece la satira di Marziale e di Giovenale, insieme alla storiografia di Tacito, a criticare il regime, richiamandosi agli antichi valori augustei. Fu il secondo classicismo. In età antonina l’evoluzione letteraria tese verso un formalismo arcaicizzante e la letteratura, ormai chiusa in se stessa, si espresse attraverso il romanzo fantastico di Apuleio. Si svilupparono e affinarono i saperi tecnici particolari, come la scienza naturale, con Plinio il Vecchio e Seneca, la geografia e l’astronomia. Il tratto saliente della cultura romana fu il pragmatismo, perché la ricerca scientifica fu sempre sviluppata non per ragioni speculative, ma per applicazioni di natura pratica. Il principato conobbe un grande sviluppo dell’insegnamento retorico di origine greca, ed è proprio la letteratura greca che si sviluppò accanto a quella latina, anche se il suo slancio rimase minore. In entrambe le letteratura si incontravano gli stessi generi letterari, ma in proporzione diversa; si diffuse inoltre anche il genere epistolare, la missiva d’arte, a dimostrazione del fatto che l’arte si fosse allontanata dai problemi quotidiani, alla ricerca di forme elaborate, ma lontane dalla concretezza. Si diffuse anche una letteratura cristiana incipiente. L’architettura si fece grandiosa e imponente: basti pensare ai Fori Imperiali, al Colosseo, le Colonne di Traiano e Marco Aurelio, opere destinate ad abbellire la città e migliorare anche la qualità di vita dei cittadini. I tratti specifici sono la monumentalità, l’eclettismo, la scelta delle proporzioni. Ci fu inoltre una grande diffusione dell’architettura romana: vie lastricate, acquedotti e canali, ponti, insediamenti urbani con pianta ortogonale, templi, ville, fortificazioni. Benchè inferiori per qualità, la maggioranza degli edifici provinciali seguivano fedelmente le regole basilari dell’architettura romana, codificate da Vitruvio. Anche nell’Oriente ellenistico cominciarono a comparire alcune forme dell’architettura romana. L’aspetto delle città rimase ellenistico, ma il senso dell’evoluzione seguì quello dei centri urbani dell’Occidente. Le belle arti, in tutte le loro manifestazioni, mostrano uno stretto collegamento con la letteratura e i suoi luoghi comuni. L’arte figurativa trova nel bassorilievo storico il suo momento più alto, caratterizzato da un accentuato realismo, come nel caso dell’Arco di Tito e della Colonna Traiana. Si sviluppò inoltre la produzione di oggetti artistici in serie. Il pensiero filosofico rimase dominato dalla cultura greca: la filosofia non si preoccupava della morte o del destino dell’anima, ma cercava di stabilire regole per una vita felice. Le principali correnti filosofiche: neopitagorismo, epicureismo, stoicismo. Ci fu inoltre la proliferazione di vari influssi orientali, che apportavano un tocco di misticismo e magia. Ragione e religione cominciarono a mescolarsi nel pensiero filosofico. Dopo Augusto la religione ufficiale romana, riconsolidata, sembrava forte e sicura. Accanto agli dei tradizionali l’universo religioso romano era popolato anche da varie allegorie, genii di ogni entità e numina. Nonostante la restaurazione augustea della religione tradizionale, penetrarono nell’ambito greco-romano culti stranieri estranei alla sensibilità greca o romana: forme religiose, spesso di provenienza orientale, caratterizzate da riti magici, cerimonie orgiastiche e pratiche superstiziose: Iside, Serapide e Cibele, e altre divinità, ripopolarono il Caracalla e Greta, cooptati entrambi alla guida dell’impero. Quella dei Severi fu una nuova dinastia. 12.2 SETTIMIO SEVERO (193-211 d.C.) Nato nella provincia romana d’Africa, Settimio Severo apparteneva all’ordine equestre. Ammesso alla carriera senatoria dall’imperatore Marco Aurelio, alternò le funzioni amministrazioni con i comandi militari, raggiungendo, sotto Commodo, il governo della provincia danubiana della Pannonia Superiore. Settimio Severo è colui che introdusse la monarchia militare. L’esercito divenne la preoccupazione maggiore: l’imperatore concesse ai soldati privilegi considerevoli, come aumentare loro il soldo, assegnare premi straordinari a coloro che si erano distinti, dare loro licenza di sposarsi e di abitare insieme alle famiglie durante il servizio militare. Alla guida degli eserciti furono nominati professionisti dell’arte della guerra, i cosiddetti viri militares, di rango senatorio ed equestre. I Severi portarono a compimento la parificazione dei diritti tra Italici e provinciali. Complice la sua provenienza, l’imperatore favorì l’ascesa delle province e delle loro aristocrazie. Il numero dei senatori provinciali superò quello degli italici. Furono favorite le stesse città provinciali, concedendo ad alcune il diritto di colonia o di municipio romani, ad altre il diritto italico, ossia l’immunità dal tributum capitis e dal tributum soli, e abolendo infine la proprietà statale sui terreni prossimi agli accampamenti militari. L’attenzione rivolta al mondo provinciale contribuì ad accentuare la frattura tra Settimio Severo e il senato, che invece sosteneva il primato degli Italici. Questa antica istituzione, che aveva sostenuto i rivali dell’imperatore, perse peso politico e la sua attività legislativa fu limitata alla sola approvazione degli editti dell’imperatore. Crebbero di importanza anche i funzionari imperiali, in particolare il prefetto dei pretoriani. A ricoprire questa carica non a caso furono chiamati insigni giuristi che riuscirono a trasformare la volontà dell’imperatore in legge. In politica interna notevole fu lo sforzo compiuto per riordinare le finanze statali, le cui difficoltà erano dovute alle ingenti spese che lo Stato doveva affrontare. Accanto alle due casse tradizionali, l’aerarium e il fiscus, furono introdotte anche una cassa personale dell’imperatore, res privata, e una militare, alimentate entrambe dalle numerose confische di beni compiute ai danni degli oppositori e dei nemici. La crisi economica era alle porte: il denario conteneva solo il 50 % di metallo prezioso. Furono incoraggiate le civiche coniazioni bronzee, che fiorirono in Oriente, mentre in Occidente fiorivano le coniazioni bronzee cosiddette di necessità, prodotte da varie officine semiufficiali. In definitiva, la politica economica generale fu inflazionista, con uno slancio momentaneo ma aggravando a lungo termine i problemi. In politica estera Settimio Severo riuscì a sconfiggere i Parti e ad annettere la Mesopotamia settentrionale. Morì lasciando l’impero in mano ai suoi due figli, Caracalla e Geta, entrambi nominati coreggenti ma apertamente rivali. 12.3 CARACALLA (211-217 d.C.) Nel 212 Caracalla fece uccidere il fratello Geta. Rimasto da solo, il giovane imperatore regnò insieme alla madre Giulia Domna, che di fatto dirigeva l’intera amministrazione statale. Caracalla proseguì nella politica che era stata del padre. Era amato dai soldati e ai militari dedicò sempre grande attenzione: concesse loro premi e ricompense, aumentandone ancora il soldo, anche se quest’ultimo provvedimento non fece che aggravare i già seri problemi finanziari dello Stato. L’imperatore pensò di risolverli attraverso la coniazione di una nuova moneta d’argento e attraverso la promulgazione di un editto, la Constitutio Antoniniana, che estendeva la cittadinanza romana a tutti gli abitanti liberi dell’impero, con l’esclusione di coloro che avevano fatto atto di resa, i cosiddetti dediticii, termine la cui interpretazione è forse riconducibile a quelle popolazioni barbariche che erano state sconfitte da non molto tempo e che erano entrate a far parte dell’impero roano. In tal modo lo Stato avrebbe acquisito nuovi contribuenti. L’editto sanciva la definitiva parificazione dell’Italia al resto delle province. Poteva dirsi concluso quel processo di unificazione sociale e culturale intrapreso da Augusto e portato avanti da Claudio, Vespasiano, Adriano e Settimio Severo. Diretta conseguenza della Constitutio Antoniana fu la progressiva perdita d’importanza dello status di civis Romanus. Tuttavia, l’editto di Caracalla fu importante nella storia: la società civica con le cittadinanze locali era superata, e l’integrazione giuridica e civica degli abitanti dell’impero romano era compiuta. In politica estera, dopo una campagna contro i Germani, l’imperatore si diresse in Partia, dove morì nel 217 d.C., vittima di un complotto organizzato dal prefetto del pretorio Marco Opellio Macrino, che divenne il nuovo imperatore. 12.4 DA MACRINO AD ALESSANDRO SEVERO Macrino apparteneva all’ordine equestre. Riuscì con difficoltà a portare a termine la guerra contro i Parti, pagando la pace a peso d’oro. L’esercito siriaco cominciò allora a cercare un nuovo imperatore. Giulia Mesa, sorella di Domna, che si era suicidata alla morte di Caracalla, propose la candidatura a imperatore del proprio nipote, Sesto Bassiano, figlio di Giulia Soemia, una delle sue due figlie, acclamato con il nome di Marco Aurelio Antonino. Macrino, dopo soli quattordici mesi di regno, venne sconfitto e ucciso. Il nuovo imperatore salì al trono, facendosi chiamare Elagabalo, il dio del sole siriano, di cui era fervente seguace. Inesperto per governare il vasto impero in crisi, Elagabalo univa a queste mancanze problemi di natura paranoica e psicologica, in cui la crudeltà si associava a un dispotismo monarchico di tipo orientale. L’imperatore volle imporre a Roma il culto del dio del sole siriano, erigendogli un tempio sul Palatino: i rituali di Elagabalo erano però troppo stravaganti e crudenti per i costumi occidentali, così come lo erano gli stessi comportamenti privati dell’imperatore. Fu la nonna Giulia Mesa a convincere il nipote ad adottare il cugino Bassiano Alessiano, figlio di Giulia Mamea, e a nominarlo Cesare con il nome di Marco Aurelio Alessandro. Elagabalo venne ucciso, insieme con sua madre, da una congiura nel 222. Alessiano salì al trono appena quattordicenne, con il nome di Alessandro Severo, ma possedeva una solida cultura ed era stato educato ai valori tradizionali di Roma. Per prima cosa abolì il culto del dio sole e ripristinò il prestigio dell’aristocrazia senatoria, che fu riammessa a collaborare al governo. La grave crisi finanziaria obbligò Alessandro Severo ad aumentare le imposte dirette: ciò gli alienò il consenso degli eserciti e gli procurò l’ostilità dei contadini. I soldati si ribellarono, e a Roma i pretoriani uccisero il loro prefetto del pretorio, Domizio Ulpiano, malgrado l’opposizione dell’imperatore. In Persia, il re dei Parti, fu vinto e ucciso dal persiano Ardashi, che divenne il primo re della dinastia Sasanide, che professiìava la religione iranica mazdeista, intenzionata a sottrarre ai Romani tutte le province orientali. Nel 234 Alessandro Severo fece una spedizione contro i Persiani, conclusasi senza brillaniti risultati. L’incertezza dimostrata dall’imperatore nella conclusione di questa campagna, insieme alla sua abitudine di comprare la pace per evitare la guerra, contribuirono a far crescere il malessere: fu ucciso dall’esercito insieme alla madre, e venne acclamato imperatore il loro comandante Giulio Vero Massimino. Con Alessandro Severo finiva la dinastia dei Severi e, da questo momento, si alterneranno alla guida dell’impero ufficiali dell’esercito, gli unici in grado di garantirsi l’appoggio dei soldati. Inizia il periodo dell’anarchia militare. Capitolo 13 L’ANARCHIA MILITARE 13.1 DA MASSIMINO IL TRACE A VALERIANO Il periodo compreso tra la morte di Alessandro Severo e l’ascesa al trono di Diocleziano viene chiamato anarchia militare: in cinquant’anni si succedettero ventotto imperatori, tutti di estrazione militare; erano uomini di scarso prestigio politico e morale, esperti solo dell’arte della guerra. Non avevano molta autorità, e infatti venivano destituiti con estrema rapidità e spesso in maniera violenta. Di fatto però l’esercito non possedeva una sufficiente unità decisionale. All’inizio del III secolo alcune etnie scomparvero, sostituite da altre, come i Franchi, i Suebi, i Burgundi e i Sassoni, che diverranno nemiche dei Romani, e soprattutto i Goti. Il sistema difensivo delle frontiere, il limes, mostrò tutta la sua debolezza. Il regno di Massimino, detto il Trace, segnò il trionfo dell’esercito e degli elementi provinciali, di scarsa romanizzazione. Massimino il Trace si dedicò da subito a quelle guerre che Alessandro Severo aveva trascurato, riuscendo a vincere le tribù germaniche. Nonostante i successi militari conseguiti, gli abusi che caratterizzarono il suo regno spaventarono soprattutto il senato: Massimino razziava e sequestrava i beni dei municipi e dei templi e si impadroniva delle ricchezze dei grandi proprietari e dell’aristocrazia. Scoppiarono focolai di rivolta in varie parti dell’impero romano, e il più violento si registrò in Africa, dove nel 238 i grandi proprietari proclamarono imperatori il proconsole d’Africa Marco Antonio Semproniano Gordiano, col nome di Gordiano I, e il figlio omonimo, Gordiano II. Il loro regno durò appena venti giorni, perché il legato della Numidia, Capelliano, fedele a Massimino, marciò contro Gordiano II, che morì in combattimento, causando anche il suicidio del padre. Il senato scelse allora venti senatori cui affidare il potere esecutivo, i vigintiviri rei publicae curandae, eleggendo Marco Clodio Pupieno Massimo e Decimo Celio Calvino Balbino. I soldati di Massimino si ribellarono e ucciso lui e suo figlio, insieme ai due correggenti Pupieno e Balbino. Il nuovo imperatore, Gordiano III, nipote di Gordiano I, godeva del sostegno del senato e, vista la giovane età, fu guidato dal suocero Timesiteo, che seppe trovare un equilibrio nei rapporti con il senato e l’esercito. La crisi economica era comunque già in atto, si coniò massicciamente l’antoniniano, la moneta fiduciaria, con un titolo d’argento sempre più basso. A causa dell’impossibilità di dare un corso forzoso al denario svalutato, Gordiano III riprese la coniazione di aurei. Ma ciò fece lievitare i prezzi. Inoltre, nel 240, l’imperatore dovette combattere contro le tribù germaniche renane e affrontare gli assalti dei Goti, che divennero stipendiarii dell’impero romano. Durante alcune campagne contro i Persiani, l’imperatore morì priva al suo interno di metallo prezioso. La causa profonda di questa crisi era da ricercarsi nel sistema sociale ed economico aristocratico del mondo mediterraneo, dove grandi ricchezze si concentravano nelle mani di pochi, che se ne servivano per fini improduttivi. Il mercato dunque non poteva espandersi. A ciò si devono aggiungere le guerre civili, le epidemie e le invasioni dei barbari. Il governo imperiale e le amministrazioni civiche finirono con l’incrementare l’apparato burocratico e gli interventi statali nell’economia. I piccoli contadini, rovinati dagli oneri fiscali, cercarono la protezione degli aristocratici, diventandone clienti. I cavalieri guadagnarono in ricchezza, importanza e ruolo politico; questo sviluppo raggiunse il culmine con Gallieno, e cavalieri e senatori divennero un’unica nobiltà. Al livello basso della società rurale si registrarono fenomeni di paupertà. I ceti sociali più colpiti dalla crisi furono le aristocrazie municipali e la borghesia cittadina. La posizione sociale dei decuriones e dei curiales divenne sempre più onerosa, e in virtù del loro status essi erano costretti a intervenire con i propri beni nel caso in cui la città non fosse riuscita a riscuotere l’ammontare delle tasse previsto. Ciò provocò un generale rifiuto a ricoprire le cariche pubbliche municipali. La mobilità sociale si contrasse, mentre la schiavitù continuò a esistere. La miseria endemica causò molte rivolte contadine, soprattutto in Gallia, dovei ribelli presero il nome di bagaudae. La cultura del III secolo d.C. è meno conosciuta, perché quasi nessun lavoro letterario è sopravvissuto, anche se, durante l’età dei Severi, definita l’età dei giuristi, abbiamo numerosi esempi di cultura giuridica. Sappiamo di più sulla letteratura greca di questa età, e scrivere in greco la storia di Roma si dedicarono Cassio Done ed Erodiano, rivelando l’ormai completa integrazione dei Greci nell’impero. Per quanto riguarda le belle arti si osserva una loro decadenza, o la loro evoluzione verso un mutato ideale estetico. Nell’architettura il fenomeno dominante fu la crisi dell’urbanismo tradizionale, sostituito da un’urbanistica destinata a soddisfare i bisogni della difesa. Interessante fu l’evoluzione della religione: i culti tradizionali persero popolarità e, nell’anonimia religiosa esistente, le masse cercarono altri orizzonti spirituali. Le divinità straniere orientali rimasero sempre di moda, ma se alcune videro aumentare i propri fedeli, come nel caso del dio Mitra, altre ne persero, come per Giove Dolicheno. Si moltiplicarono anche le manifestazioni di superstizione e occultismo, e fu proprio per rispondere a questo clima di magia che Aureliano cercò di imporre il culto del Sol Invictus. In questo periodo le comunità cristiane aumentarono, e si strutturarono meglio al loro interno sia dal punto di vista organizzativo sia amministrativo. Il vescovo più autorevole era quello di Roma, sede della più grande comunità cristiana. Decio e Valeriano perseguitarono in maniera sistematica i cristiani di tutto l’impero romano, e molti furono i martiri. Nascono le prime forme di eresie, come il montanismo, da Montano. I seguaci del montanismo avversavano l’universalismo della religione cristiana, colpevole di aver cercato un modus vivendi con lo Stato pagano e di aver cominciato ad accumulare beni e proprietà. Essi, viceversa, esortavano i propri fedeli a rinunciare alle ricchezze terrene e a condurre una vita ascetica. Dal montanismo derivò il donatismo: il vescovo Donato, in Africa, si mise a capo di una corrente di montanisti intransigenti, che rifiutavano il perdono a tutti coloro che avevano abiurato la fede cristiana. Malgrado l’ostilità e le persecuzioni, il mondo romano fu l’unico spazio dove la fede in Gesù Cristo potè svilupparsi e progredire. Capitolo 14 DA DIOCLEZIANO A COSTANTINO 14.1 DIOCLEZIANO E LA TETRARCHIA Nel 284 Diocleziano fu acclamato imperatore dalle truppe. Egli comprese che la realtà dell’impero romano era troppo complessa per essere gestita da un solo uomo, e per questo decise di associare alla guida dello Stato il generale Marco Aurelio Massimiano, e divise l’impero in due parti fondamentali, l’Oriente e l’Occidente, affidando a Massimiano quest’ultimo. Ai due “Augusti” si affiancarono in posizione subordinata due collaboratori, detti “Cesari”; trascorsi vent’anni i due Cesari sarebbero succeduti ai rispettivi Augusti, che avrebbero dovuto abdicare, dopo aver scelto a loro volta altri due Cesari: in questo modo si sarebbe risolto il problema della successione. In Occidente, insieme a Massimiano, venne nominato Cesare Flavio Valerio Costanzo, noto come Costanzo Cloro per il colore giallastro della pelle; in Oriente, con Diocleziano, fu prescelto Valerio Massimiano. Si istituiva la cosiddetta tetrarchia, cioè un comando a quattro. I quattro tetrarchi governavano aree geografiche distinte: le quattro prefetture. Ciascuna prefettura venne poi divisa in diocesi, 12 complessivamente, rette da vicari imperiali, e queste furono a loro volta divise in 96 province, più piccole rispetto a prima. • Diocleziano dirigeva la prefettura d’Oriente, con capitale Nicomedia • Massimiano guidava la prefettura d’Italia e Africa, e risiedeva a Milano • Galerio si occupava della prefettura dell’Illirico, con capitale Sirmio • Costanzo Cloro amministrava la prefettura dell’Occidente, con capitale Treviri Roma perdette dunque il proprio ruolo di centro decisionale. Ogni tetrarca aveva giurisdizione sull’area geografica di sua competenza. Non per questo però l’impero romano perse la sua unità politica, che fu garantita dalla personalità di Diocleziano. Tutte le decisioni erano prese di comune accordo: la tetrarchia rendeva più razionali i compiti di governo di un territorio troppo vasto, ma non ridimensionava il potere assoluto di Diocleziano, che si manifestava anche esteriormente negli abiti lussuosi che indossava. Egli introdusse la proskynesis davanti alla sua persona e assunse il titolo ufficiale di dominus. Considerati vere e proprie divinità viventi, Diocleziano e Massimiano ricevettero gli epiteti di Iovius e di Herculius. Per risolvere la grande crisi, tutta l’amministrazione fu riorganizzata e accresciuta, furono dissociate le funzioni amministrative centrali da quelle regionali, e quella locale rimaneva nelle mani dei curiales, appartenenti all’aristocrazia cittadina. Furono poi separate le competenze militari da quelle civili. In ogni provincia esistevano due governatori: un praeses, ovvero un funzionario, con competenze civili e giuridiche, e un dux, comandante militare. L’Italia fu divisa in due province, sottoposte all’onere del pagamento delle imposte. Per quanto riguarda l’esercito, il numero dei soldati crebbe fino a 500.000 uomini, come pure quello delle unità militari. Tale incremento fu reso possibile grazie a un massiccio arruolamento di barbari, tendenza dovuta a varie ragioni, come quella di contenere le spinte aggressive dei barbari e quella di sopperire alle notevoli difficoltà del reclutamento. Gran parte dell’esercito fu stanziato ai confini, i cosiddetti limitanei, ripensens o riparii, che assicuravano un servizio di guardia contro gli assalti improvvisi, ma che non venivano impiegati nelle campagne militari. Fu poi istituito un reparto mobile a disposizione dell’imperatore, chiamato comitatus, pronto a intervenire a sostegno delle guarnigioni. Furono edificate inoltre piccole fortezze chiamate quadriburgia, per sorvegliare i confini. Furono fondate numerose zecche statali. 14, tutte dirette dalla corte imperiale. Lo Stato coniava in oro, argento e bronzo. Diocleziano unificò anche il sistema tributario: tutta la popolazione fu sottoposta alle tasse dello iugum e del caput; lo iugum era un’imposta che gravava sulla proprietà fondiaria e che variava da una località all’altra, in base all’estensione e alla qualità del terreno; il caput era una tassa che pesava sulle attività non agricole. Per meglio organizzare la riscossione delle imposte venne istituito un catasto, un censimento dei terreni. Le autorità territoriali obbligavano inoltre i coloni residenti a lavorare le terre incolte, in modo da raggiungere l’importo assegnato. Lo stesso principio funzionava anche nelle città, dove i collegi professionali dovevano garantire allo Stato il regolare pagamento delle tasse da parte dei loro membri. Inoltre, Diocleziano nel 301 emanò l’Edictum de pretiis, che fissava i costi dei generi di consumo e dei prodotti artigianali. L’editto però fu abrogato poco dopo, perché era impossibile imporre gli stessi prezzi a tutte le merci. Lo spirito che animava questa massiccia opera di riforma delle strutture dell’impero era quello di uniformare i metodi di governo attraverso il controllo di una burocrazia statale presente in modo capillare su tutto il territorio. Questo sistema però paralizzò la società. Nei primi anni di regno, Diocleziano intraprese una prima spedizione contro i Persiani, che permise di riconquistare la Mesopotamia. Massimiano invece riuscì ad arrestare il movimento dei bagaudi. Per quanto riguarda la religione, ogni resistenza all’antica religione romana divenne un crimine politico. Nel 303 Diocleziano emanò un editto che ordinava di distruggere le chiese e i locali di riunione dei cristiani, di requisire i beni della Chiesa e di vietare riunioni di carattere religioso. Una vera e propria epurazione nei confronti dei cristiani, eliminati dalle fila dell’esercito e dall’apparato burocratico statale. Nel 304 emise il suo quarto editto di persecuzione contro i cristiani, con cui aggravava ulteriormente le precedenti disposizioni persecutorie: chiunque si fosse rifiutato di compiere sacrifici era mandato alla tortura senza processo, o veniva condannato ai lavori forzati nelle Gallia ai suoi danni dal generale Flavio Magno Magnenzio, che venne subito dopo acclamato imperatore d’Occidente. Costanzo II, appresa la notizia della morte del fratello, intervenne in Occidente e sconfisse Magnenzio a Mursa, costringendolo poi al suicidio e restando dunque l’unico padrone dell’impero romano che divenne ariano. Costanzo II nominò il giovane nipote Flavio Claudio Giuliano Cesare dell’Occidente, che ottenne una gran fama vincendo i Germani sul Reno. La morte di Costanzo II nel 361 permise a Giuliano di restare unico imperatore, acclamato dall’esercito. Egli cercò di accrescere il peso della nobiltà senatoria e dei curiales, l’aristocrazia municipale, e cercò di cancellare la politica di cristianizzazione ripristinando la tradizione classica pagana, cosa che gli valse il titolo di Apostata, ossia colui che rinnegava la religione cristiana, che era però ormai penetrata in profondità nella società romana. La sospensione dei privilegi della Chiesa causò a Giuliano la perdita di molti consensi, che egli cercò di recuperare durante la guerra contro i Persiani, guerra che però gli costò la stessa vita. Alla sua morte l’esercito acclamò imperatore il generale Flavio Claudio Gioviano, che cedette ai Persiani la Mesopotamia. Egli era un cristiano fedele e sospese le persecuzioni messe in atto da Giuliano, ma morì all’improvviso, dopo soli otto mesi di regno. Al suo posto fu nominato il generale Flavio Valentiniano, che decise di affiancarsi come coreggente il fratello minore Valente. L’impero romano fu di nuovo suddiviso: Occidente a Valentiniano I e Oriente a Valente, ed entrambi dovettero affrontare numerose invasioni barbariche. Sebbene cristiano niceano, Valentiniano I evitò di implicarsi nelle controversie dogmatiche e anche il paganesimo fu tollerato. Al contrario, Valente si rivelò ostile ai pagani e appoggiò l’arianesimo, perseguitando la fede niceana. Nel 365-366 il regno di Valente fronteggiò l’usurpatore Procopio, che si era proclamato imperatore a Costantinopoli: fu sconfitto e ucciso. Dopo la morte del fratello Valentiniano, Valente cercò di dominare il giovane figlio del fratello scomparso, l’imperatore d’Occidente Flavio Graziano, investito del titolo di Augusto dal padre nel 367, causando così sfiducia tra i due governi imperiali. Ma la crisi che pose fino al regno di Valente scoppiò nel 375, quando gli Unni invasero i territori dei Goti orientali: le province furono devastate nel 378, l’esercito romano fu completamente distrutto e lo stesso Valente morì in battaglia. Capitolo 15 TEODOSIO E LA DIVISIONE DELL’IMPERO ROMANO 15.1 TEODOSIO (379-395 d.C.) Alla morte di Valente, unico imperatore rimase Graziano, il figlio di Valentiniano I, nominato dal padre coreggente per l’Occidente nel 367 d.C. Il clima era teso. Agli inizi del 379, in seguito alla morte di Valente nella disastrosa battaglia di Adrianopoli, Graziano nominò imperatore d’Oriente Flavio Teodosio, generale molto capace. Teodosio I condusse una lunga lotta contro i barbari in territorio balcanico e, nel 382, fu siglato un accordo con Fritigerno, capo dei Visigoti, che divennero alleati romani e furono stanziati nella penisola balcanica. Erano un vero e proprio Stato nello Stato. L’impero romano ormai arretrava davanti ai barbari. Intanto, anche l’imperatore d’Occidente Graziano aveva insediato gruppi di barbari nelle province del Danubio superiore e, anche se la loro coabitazione con i Romani si rivelò difficile, la barbarizzazione dell’esercito e della società continuò. Tutto ciò provocò nell’esercito la rivolta dei soldati romani che, nel 383 d.C., proclamarono imperatore Magno Massimo, governatore della Britannia, e Graziano venne ucciso. Massimo invase poi l’Italia, ma nel 388 fu sconfitto da Teodosio I e fu poi trucidato dai soldati. Fu nominato imperatore d’Occidente , il fratello minore di Graziano, Valentiniano II, ma data la sua giovane età, governò per lui la madre Giustina, seguace dell’arianesimo. Teodosio I pose fine alla parentesi anticristiana: combattè l’eresia eriana e proibì i culti pubblici pagani, suscitando le reazioni dell’aristocrazia. Emanò nel 380 l’Editto di Tessalonica, con il quale il cristianesimo diventava religione di Stato. Il paganesimo fu perseguitato e i suoi templi furono chiusi. La cristianizzazione dell’impero si scontrava tuttavia con la tradizione pagana, ancora radicata nell’aristocrazia, perché costituiva un legame con il glorioso passato di Roma. Il paganesimo dunque sopravviveva largamente nei vari ceti sociali. Anche per la Chiesa questa evoluzione apriva problemi di autonomia e indipendenza. L’uomo che si fece carico di queste contraddizioni fu Ambrogio, vescovo cattolico di Milano, che operò per tutelare l’autonomia della Chiesa nei confronti del potere politico per quanto riguardava le questioni dottrinarie. In diverse occasioni, Ambrogio volle mostrare come il potere spirituale avesse maggiore autorevolezza di quello temporale. Quando l’imperatore ordinò un massacro contro la popolazione di Tessalonica, che si era ribellata a una decisione imperiale, Ambrogio condannò questa strage e impose a Teodosio I una pubblica penitenza. Nel 392 Valentiniano II morì a Vienne, in circostanze misteriose, trovato impiccato nel suo palazzo. Per volere di Arbogaste fu proclamato imperatore d’Occidente Flavio Eugenio, funzionario della cancelleria imperiale, che però non venne riconosciuto da Teodosio, che vinse le forze di Arbogaste e di Eugenio. Per l’ultima volta, tutto l’impero romano era sotto il potere di Teodosio I. Morì pochi mesi dopo, nel 395, lasciando come redi i due figli minori: Flavio Onorio, in Occidente, sotto la tutela di Flavio Stilicone, e Flavio Arcadio, in Oriente, sotto Flavio Rufino. Nelle intenzioni di Teodosio I la divisione dell’impero romano doveva essere finalizzata a renderlo meglio controllabile, ma da questo momento in poi i due imperi avranno storie e destini diversi. Si delineò in questo periodo un’economia naturale basata sullo scambio dei prodotti: il commercio si contrasse, diventando quasi esclusivamente locale. Nelle città la nobiltà senatoria rimase il ceto sociale superiore, privo di potere politico ma dotato di importanti privilegi. I grandi proprietari terrieri erano in grado di proteggere le loro proprietà e i loro contadini dagli abusi dello Stato, cui si sostituivano all’intero del loro latifondo, riscuotendo le imposte e assicurando l’ordine. Le loro residenze erano dotate di cinte murarie difensive e di torri: si trattava di una nobiltà stratificata, che accanto a nobiles di antica tradizione annoverava uomini anche di origine barbara. La maggior parte dei contadini era ridotta alla condizione di coloni, ossia coltivatori dipendenti dal latifondista e vincolati per tutta la vita alla terra. A questa grande categoria appartenevano contadini, ex schiavi e anche immigrati barbari, i laeti. Spesso la miseria spinse a rivolte popolari, come in Oriente, dove acque una particolare forma di ribellione sociale, l’anachoresis, cioè l’abbandono della società e la fuga nel deserto. I ceti sociali medi erano sempre più sfavoriti e i cittadini più abbienti delle città, garanti con i loro beni della riscossione delle imposte, cercavano di evitare di assumersi impegni amministrativi, fenomeno noto come obnoxius curiae. La mobilità sociale era ostacolata dalle leggi: ciascuno doveva rimanere nel proprio ceto di appartenenza, e due erano le grandi categorie in cui la società era divisa: 1. HONESTIORES, i privilegiati di varie condizioni serie di crisi militari e politiche. Tuttavia, l’impero potè contare sulla guida di un grande ministro, il prefetto del pretorio Antemio, che fortificò Costantinopoli e seppe mantenere la pace con l’impero persiano. I Visigoti tra il 408 e il 410 emigrarono in Italia, liberando l’Oriente dalla loro pressione. Teodosio II potè così regnare senza ostacoli: non comandava più gli eserciti in guerra e viaggiava pochissimo, trasformatosi in un protettore della cultura. La più importante realizzazione del suo regno fu la creazione del Codice teodosiano, una collazione sistematica e commentata delle leggi romane, promulgato nel 438, nel nome di entrambi gli imperatori romani d’Oriente e d’Occidente. L’imperatore collaborò bene con l’aristocrazia e la ricchezza delle province orientali, meno esposte agli attacchi barbarici, assicurava risorse rilevanti. Due furono gli scopi perseguiti da Teodosio II durante il suo regno: 1. Centralizzazione dell’amministrazione statale 2. Imposizione della fede cristiana nella sua variante ufficiale, quella niceana, cattolica o ortodossa Il primo fu raggiunto, il secondo causò numerosi problemi. Dal 425 venne introdotta una serie di misure atte a contrastare coloro che appartenevano ad altre professioni religiose, per cui per la prima volta nel mondo romano, l’esercizio dei diritti civili fu subordinato all’appartenenza alla Chiesa ufficiale. Furono distrutti templi pagani e sinagoghe. Teodosio II fu un imperatore- teologo, volto alla difesa della fede niceana in un’epoca piena di controversie religiose: cercò di imporre tale fede attraverso due concili ecumenici, nel 431 e nel 449, entrambi tenutisi a Efeso, in Asia Minore. Ma il suo tentativo fallì. L’arianesimo perse attrattiva, ma si svilupparono nuove forme di eresie, come quella nestoriana, condannata nel 435, e quella monofisita. In politica estera il governo di Teodosio II seppe mantenere la pace con i Persiani, ma a essere preoccupante era la situazione in Occidente. Se sino al 408 fu l’Occidente a cercare di dominare la parte orientale dell’impero, in seguito fu proprio l’Oriente a intervenire in suo aiuto, riaffermando così l’unità del mondo romano: il giovane imperatore d’Occidente, Valentiniano III, regnava sotto la protezione di Teodosio II. Gli Unni, principale pericolo per l’impero d’Oriente, uniti sotto Attila, sottomisero diversi popoli barbari e attaccarono le province danubiane, crudelmente saccheggiate. Teodosio II, incapace di resistere, pagò loro ingenti somme di denaro, cedendo la valle del Danubio. Alla sua morte, privo di eredi, nel 450 fu nominato Augusto il senatore Marciano, che sposò Elia Pulcheria, sorella dell’imperatore scomparso. Come primo atto l’imperatore si rifiutò di pagare il sussidio agli Unni, e la morte del loro re causò l’allontanamento della principale minaccia per lo Stato. Marciano seppe mantenere la pace con i Persiani, ma non riuscì a recuperare il controllo della valle del Danubio. Sul fronte religioso, venne convocato nel 451 un nuovo concilio ecumenico, a Calcedonia, in cui fu adottato il canone 28, che parificava il patriarca di Costantinopoli al papa di Roma e riduceva l’influenza del patriarcato di Alessandria. Aumentarono però i conflitti interni alla Chiesa: i nestoriani fondarono una Chiesa separata, attiva in Asia, mentre i monofisiti guadagnarono consensi nelle province orientali. Con la morte di Marciano, la dinastia teodosiana scomparve. Fu nominato imperatore un ufficiale di umili origini, Leone I, che in mancanza della legittimità dinastica volle essere incoronato dal patriarca Anatolio: fu la prima consacrazione ecclesiastica di un imperatore romano. In politica interna Leone I continuò gli sforzi di Marciano, e le decisioni di Calcedonia furono imposte alla Chiesa, anche attraverso l’uso della forza militare. In politica estera la pace fu mantenuta. I rapporti con l’Occidente, caduto nell’anarchia, divennero sempre più difficili. Quando il pericolo dei Vandali si riversò sulla stessa Roma, Leone I cercò di organizzare un’azione militare congiunta tra forze orientali e occidentali e, nel 468, fece allestire una grande flotta, ma l’operazione si rivelò un fallimento. Alla morte dell’imperatore nel 474, gli succedette il nipote Leone II, figlio di sua figlia Ariadne e di Zenone, ma il bambino, che aveva solo sette anni, morì quello stesso anno, lasciando il trono nelle mani del padre. Il regno di Zenone fu lungo ma molto agitato, dovette fronteggiare numerosi tentativi di usurpazione. L’imperatore sostenne sempre l’ortodossia niceana, cercando però un compromesso con la dottrina monofisita. Nel 482 promulgò un editto, l’Henotikon, con cui si intendeva porre le basi della riconciliazione tra Costantinopoli e Alessandria, fondando l’unità dello Stato sulla riunificazione della Chiesa. Ma l’editto fu rifiutato sia dagli estremisti religiosi, niceani e monofisiti, sia dal papa di Roma. La curia romana respinse la posizione conciliante, fondata sul compromesso politico, e proclamò apertamente l’indipendenza dell’autorità della Chiesa, uguale e speculare a quella dello Stato. Ne nacque uno scisma, che allontanò la Chiesa di Roma dall’Oriente per circa trent’anni. Dopo molti scontri e accordi di breve durata i diversi gruppi di Ostrogoti si riunirono sotto il re Teodorico, capace soldato e abile politico. Zenone si accordò con lui, affinchè insieme alla sua gente scacciasse il germanico Odoacre, che aveva invaso l’Italia e messo fine nel 476 d.C. all’impero romano d’Occidente. La morte di Zenone aprì nuovamente il problema della successione. La scelta fu affidata all’imperatrice, che scelse il 60enne Flavio Anastasio, modesto funzionario di corte, proclamato con il nome di Anastasio I l’11 aprile del 491. L’impero romano d’Occidente era caduto nel 476, mentre quello d’Oriente sarebbe durato sino al 1453, anno della presa di Costantinopoli per mano degli Ottomani, guidati da Maometto II. 16.2 IL CROLLO DELL’IMPERO ROMANO D’OCCIDENTE Nel 395 la guida dell’impero romano d’Occidente era passata ad Onorio, giovane imperatore che era sotto la tutela del generale Stilicone, capo del governo. Sebbene di origine vandala, Stilicone cercò di garantire l’integrità del mondo romano e l’eredità di Teodosio I, inseguendo un’idea unitaria di regno, anche se ciò gli provocò l’aperta ostilità della parte orientale dell’impero. Intanto, i Visigoti avevano ripreso a compiere nuove scorrerie nella penisola balcanica. Stilicone accorse in aiuto dell’impero orientale, ma alla fine lasciò che i Visigoti si ritirassero. I Visigoti invasero l’Italia, devastandola e ponendo Milano sotto assedio. Stilicone riuscì a concludere con Alarico un trattato, che li univa entrambi nella guerra comune contro l’impero orientale. Nel 406 una nuova invasione di genti germaniche, come Visigoti e Vandali, alla testa del barbaro Radagaiso, scese in Italia e fu arrestata e battuta da Stilicone presso Fiesole. Il limes renano fu però invaso da vari popoli barbari, e tutta la Gallia venne saccheggiata. I provinciali, spaventati, sostennero vari usurpatori, dai quali richiedevano difesa e sicurezza. Stilicone cadde in disgrazia e nel 408, accusato di tradimento, fu messo a morte a Ravenna. Onorio non riconobbe il trattato stipulato da Stilicone con Alarico I e i Visigoti, e questi ultimi invasero dunque di nuovo l’Italia. Alarico non voleva distruggere il potere romano, ma chiedeva semplicemente vantaggi per i suoi Visigoti e un’integrazione nel mondo romano. Dopo quattro assedi successivi della Città Eterna, i Visigoti, nel 410, presero Roma, che fu saccheggiata, risparmiando però i luoghi sacri. Galla Placidia, sorella dell’imperatore, fu catturata. Dopo aver saccheggiato Roma, i Visigoti si diressero verso sud, volendo occupare la Sicilia e l’Africa, ma Alarico I morì e il suo successore, Ataulfo, guidò i Visigoti verso la Gallia meridionale. Intanto, il nuovo re dei Visigoti, Ataulfo, voleva assicurarsi un ruolo importante nell’Occidente, e perciò sposò nel 414 Galla Placidia, ma non riuscì a ottenere uno statuto legale per il suo regno. Alla morte di Ataulfo, i Visigoti ottennero di servire l’impero come alleati, ricevendo in cambio la possibilità di insediarsi anche in Spagna. Il loro arrivo in Spagna costrinse i Vandali a dirigersi verso l’Africa settentrionale. Flavio Costanzo sposò nel 417 Galla Placidia, dalla quale ebbe un figlio, il futuro imperatore Valentiniano III. Flavio Costanzo, associato al trono con il nome di Costanzo III, morì agli inizi del settembre dello stesso anno. Alla morte di Onorio, nel 423, l’Occidente venne a trovarsi in una difficile situazione. Fu eletto imperatore dal senato Giovanni, che però non venne riconosciuto da Teodosio II, che impose sul trono d’Occidente Valentiniano III, figlio di Placidia e Costanzo III. Gli aristocratici provinciali avevano solamente due alternative: sostenere i vari usurpatori o cercare un’intesa con i barbari, che si erano ormai insediati nell’impero. Fattore pericoloso era la debolezza economica dello Stato, e avevano acquisito un ruolo importante i federati barbari e gli eserciti personali di ogni ministro dello Stato, i suoi bucellarii, entrambi di dubbia fedeltà. Il regno di Valentiniano III fu molto lungo, ma non apportò stabilità all’impero, e sino a che egli non compì 18 anni, la reggenza fu assegnata alla madre, coadiuvata da due aristocratici di rilievo, Bonifacio e Flavio Ezio, comandanti degli eserciti d’Africa e di Gallia: questi ultimi si scontrarono per il potere, arrivando alla guerra civile, ed Ezio nel 433 si impose, appoggiato dagli Unni. Tra il 429 e il 435 i Vandali conquistarono la zona nord-occidentale dell’Africa, dove diedero vita a un regno forte e minaccioso, con una grande forza navale. Ravenna non oppose alcuna resistenza, e Genserico potè impadronirsi di tutte le isole del Mediterraneo. Ezio, grazie agli Unni, riuscì a dominare le rivolte dei bagaudi, e a vincere alcune tribù barbare, ma non potè arrestare la conquista della penisola iberica da parte dei Suebi e fu costretto a firmare nel 442 un trattato con i Vandali. Intanto però gli Unni, nell’Europa centrale, avevano creato una politica centralizzata, e il loro re Attila manteneva questo assetto grazie al terrore e a un’attenta distribuzione delle ricchezze tra i capi tribù. Attila devastò le province europee dell’impero d’Oriente e il governo non esitò a pagare agli Unni ingenti somme d’oro e a cedere loro estesi territori. Ezio si alleò con Visigoti e Franchi e Attila venne sconfitto nel 451, nella battaglia dei Campi Catalaunici, presso Troyes, nella Francia settentrionale. Nel 452 gli Unni attaccarono l’Italia, giungendo sino ad Aquileia, che venne distrutta, e si spinsero poi fino a Roma. Papa Leone I intervenne per convincere Attila a ritirarsi: quest’ultimo alla fine cedette, ma morì subito dopo, nel 453, e il regno degli Unni si disgregò velocemente. Valentiniano III fece assassinare Ezio, istigato dal prefetto del pretorio Petronio Massimo, ma fu poi ucciso, e insieme a lui finiva anche la dinastia teodosiana d’Occidente. Seguì un lungo periodo di anarchia: il regno fu usurpato inizialmente da Petronio Massimo, che dovette fronteggiare l’assalto di Genserico, re vandalo d’Africa che, sperando di poter colmare il vuoto di potere creatosi alla morte di Valentiniano III, con la sua flotta attaccò Roma. Petronio fu ucciso e i Vandali occuparono Roma, priva di difesa. Furono migliaia i prigionieri, tra cui anche la figlia di Valentiniano, Eudocia, che divenne moglie di Unerico, figlio e successore di Genserico. Il potere imperiale passò nelle mani di Marco Avito, un ufficiale gallico, sostenuto dai Visigoti che, in cambio dell’appoggio ricevuto, ottennero di poter estendere il loro regno in Spagna, dove vinsero e sottomisero i Suebi. Avito dovette affrontare i generali Maggiorano e Ricimero, di stirpe barbara, ma sconfitto da questi a Piacenza e nominato vescovo, poco fu sorpreso e
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