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Liliana Barroero, Le arti e i lumi. Pittura e scultura da Piranesi a Canova, Torino, Einaudi, 2011.docx, Sintesi del corso di Storia Dell'arte

Riassunto capitolo per capitolo del libro di Liliana Barroero

Tipologia: Sintesi del corso

2017/2018

Caricato il 10/04/2018

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Scarica Liliana Barroero, Le arti e i lumi. Pittura e scultura da Piranesi a Canova, Torino, Einaudi, 2011.docx e più Sintesi del corso in PDF di Storia Dell'arte solo su Docsity! Liliana Barroero, Le arti e i lumi. Pittura e scultura da Piranesi a Canova, Torino, Einaudi, 2011 Premessa Le arti e i lumi sono i termini scelti per suggerire un percorso riconoscibile all’interno del vasto campo del Settecento europeo. I lumi del titolo sono quelli da cui prende nome e sostanza il principale movimento filosofico che vide il suo culmine nella seconda metà del Settecento, l’Illuminismo. Il termine Illuminismo solo di recente è stato associato allo stile neoclassico e alla nascita degli Stati moderni le cui realizzazioni architettoniche sono costruzioni in stile palladiano, caratterizzate secondo il sistema classico degli ordini. Si tende a dimenticare che spesso questi edifici sono antecedenti alla nascita di quegli Stati e che se in Francia e negli Stati Uniti ospitarono le istituzioni repubblicane, dai palazzi del governo alle banche, in Russia erano l’emblema della monarchia assoluta e in Prussia di un’altra monarchia; e che più tardi questo stile sarebbe stato adottato da regimi totalitari. Il termine Illuminismo va quindi inteso non come uno stile applicato alle arti ma come una mentalità opposta al barocco: un movimento intellettuale e critico che perseguiva la tolleranza in campo religioso, il liberalismo in quello economico e la modernizzazione dello Stato tramite le riforme in campo legislativo e fiscale, in nome della rivalutazione della natura umana in una visione laica del destino dell’uomo. Se l’Illuminismo non ha quindi dirette ricadute su di uno stile, il suo rapporto con le arti è innegabile. Le vicende della pittura, della scultura e dell’architettura si svolgono all’interno di un clima culturale ed economico segnato dalle nuove teorie filosofiche. Capitolo primo Una questione di termini L’arco temporale individuato dall’attività di Giovanni Battista Piranesi e di Antonio Canova coincide grosso modo con il periodo che si è soliti indicare come neoclassicismo. Un termine il cui uso storiografico è relativamente recente anche se fu coniato negli anni Ottanta dell’Ottocento. Impiegato prima in senso dispregiativo è stato in seguito adottato dalla storiografia artistica senza particolari implicazioni valutative. Il termine era utilizzato in senso negativo nel 1950 da Roberto Longhi in Proposte per una critica d’arte, il saggio di apertura del primo numero di Paragone, che liquidò come avello neoclassico protagonisti e opere di tutto il secondo Settecento. Era chiaro che la polemica longhiana avesse quale diretto bersaglio l’opera di Canova. Robert Rosenblum sottolineava come l’arte del neoclassicismo non fosse peculiare di un’area specifica ma coinvolgesse tutta l’Europa e anche l’America del Nord. Culla e centro di elaborazione della cultura neoclassica fu Roma, custode delle antichità greco-romane e luogo d’incontro di intellettuali; ma è in Francia che questo stile conobbe la più completa fioritura, per l’apporto di David e dei suoi seguaci. Hugh Honour avvertiva nello svolgimento del suo saggio l’impossibilità di presentare lo stile neoclassico come unitario e omogeneo, dal momento che non poté evitare di registrare le tensioni e le contraddizioni che lo segnarono. L’universalità dello stile neoclassico si è rivelata più un’aspirazione o un’operazione critica a posteriori che una realtà oggettiva. Più crudamente, Rosenblum definiva il termine una camicia di forza semantica, difficile da impiegare e della quale sembrava impossibile fare a meno. Luigi Lanzi, la cui Storia pittorica della Italia fu realizzata quando i principi illuministici davano i loro frutti più maturi, rappresenta una delle voci da tener maggiormente in considerazione. Al centro di una complessa rete di intellettuali, egli elaborò le sue principali riflessioni a Roma, città che per la comprensione di quell’epoca e dei suoi fermenti continua a stabilire un punto di vista privilegiato. Negli ultimi decenni gli studi hanno portato alla luce personalità rimaste a lungo semisconosciute, scavato nella storia e nel funzionamento delle accademie, considerato il ruolo delle fonti secondo un’ottica diversa. La complessità di alcune figure centrali, i loro percorsi di formazione e il rapporto con la committenza internazionale; il ruolo di Benedetto XIV e Pio VI e quello delle corti europee; l’apporto degli intellettuali; il mercato artistico e le prime misure di tutela del patrimonio culturale delle nazioni: tutto rimanda a Roma e da lì s’irradia per l’Europa. Al punto di vista di chi individua, nella cultura del secondo Settecento, uno sguardo rinnovato nei confronti della classicità, con forti ricadute anche sullo stile, si contrappone quello di chi sostiene che almeno a Roma il legame con l’antico non era mai morto e si fondava su solide radici teoriche risalenti al Seicento maturo e su modelli sempre presenti agli artisti dal Cinquecento in poi. Per contro si è volto sottolineare che a differenza delle epoche precedenti la ricerca formale si accompagnava a un’aspirazione etica e alla convinzione della necessità di una moralità dell’arte inedite per teorici ed artisti, che anche quando portatori di nuovi modi espressivi erano sempre radicati nella tradizione ed estranei ai temi filosofici e morali culminanti nella pratica dell’exemplum virtutis. Quest’ultima locuzione indica l’opera d’arte intesa come lezione di virtù, secondo la definizione stessa di Robert Rosenblum; il quale sottolinea come a partire dagli anni Quaranta del Settecento, soprattutto in Francia, la storia antica e moderna fosse letteralmente setacciata alla ricerca di soggetti di elevato contenuto morale e come questo percorso implicasse il recupero anche formale di uno stile antichizzante, dove alle mosse composizioni impostate su linee diagonali in voga nel rococò si sostituiva una spazialità ispirata alla struttura dei bassorilievi antichi, per piani paralleli. Nuovi stili, ragione: questi sono i termini che Luigi lanzi impiega a proposito dell’arte dei suoi tempi. Con semplicità lo storiografo indica già la conclusione alla quale gli storici dell’arte odierni sono pervenuti e sulla quale concordano: la radice dell’arte nuova del Settecento va ricercata nella cultura dell’Illuminismo. La fiducia nelle potenzialità della ragione conduceva a guardare con occhi differenti alla storia dell’arte e si avvertiva la necessità di organizzare le conoscenze in un sistema ordinato, accessibile e fondato su chiari principi. L'Enciclopedia o Dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri, pubblicata a Parigi dal 1751 al 1780, sotto la direzione di Diderot e di D’Alembert, fu in questo senso l’incunabolo della nuova filosofia. Nella premessa della sua Storia pittorica della Italia, Luigi Lanzi osservava che il suo secolo si poteva definire il secolo de’ compendi. Lanzi spiegava la sua scelta di scrivere una storia della pittura che superasse l’insoddisfacente schema biografico articolandola per scuole ed epoche; il solo modo di operare una selezione che, lasciando cadere inutili dettagli, pervenisse all’essenziale per offrirlo in un quadro ordinato, razionale e perciò più facile da padroneggiare. Anche nell’archeologia e nell’antiquaria si assiste a una riflessione che ne investe metodo e contenuti. Nell’introduzione alle sue Antichità romane, pubblicate nel 1756 e cui aveva premesso una grande pianta della Roma antica, Piranesi precisava di essersi sforzato a collocare e riprodurre in pianta anche gli edifici dei quali non sopravviveva nulla, avvalendosi delle memorie e del confronto con gli antichi. La posizione di Piranesi differisce profondamente da quella del più illustre degli archeologi del secolo, Johann Joachim Winckelmann, e non solo perché fautore della superiorità dell’antichità romana rispetto a quella greca, che lo studioso e teorico prussiano aveva collocato ai vertici della sua Storia dell’arte presso gli antichi. Lo sforzo di Piranesi era quello di contestualizzare gli edifici e i monumenti dell’antichità, prendendo le distanze dall’approccio estetico che privilegiava una linea evolutiva dell’arte basata sull’esame di singole opere isolate messe in sequenza. Nella nascente disciplina dell’archeologia si potrebbero distinguere due linee: quella storico-artistica di matrice winckelmanniana e quella storico-antiquaria che ha il suo rappresentante in Piranesi. Quello di Piranesi è un metodo autoptico originato dalla necessità di giungere una spiegazione e che suggerisce un percorso concreto: l’antichità deve essere vivificata dagli artisti e rinascere nelle opere. Quando l’interesse dei viaggiatori e degli eruditi si estende alla Magna Grecia. Essi scendono verso Paestum, sostano presso le città sepolte dal Vesuvio, sbarcano in Sicilia, poi in Siria e in Grecia. Di questi viaggi, definiti pittoreschi nei titoli dei volumi che ne offrono il rendiconto, il termine pittoresco va inteso nell’accezione letterale: le illustrazioni riproducono con la maggior precisione possibile i luoghi descritti, utilizzando l’immagine a integrazione della parola. Il risultato finale di questa attività di documentazione dei siti è uno sguardo particolare, che distingue la visione offerta dall’artista-illustratore da quella dell’antiquario che se ne servirà. Quale antico? Le riviste erudite dell’epoca, le collezioni private e i musei pubblici concedevano sempre maggior spazio sia all’antichità classica che alle altre antichità (etrusca, egizia, paleocristiana). Prevaleva il tentativo di delineare uno sviluppo ordinato e “razionale” della civiltà umana. A Roma la presenza dei numerosi obelischi, ricomposti e collocati al centro delle principali piazze a partire dal Cinquecento, aveva presto suscitato la curiosità e l’interesse degli studiosi che tentavano di decifrare il sistema della scrittura geroglifica. Ma era nel campo delle arti figurative che l’interesse per questo specifico antico cominciava a manifestare i suoi effetti. Ravvivato dagli scavi condotti a Villa Adriana, l’egittomania prendeva a diffondersi con sempre maggiore ampiezza. Piranesi aveva fatto ricorso a elementi egizi nella dell’imperatrice Maria Teresa. Sono gli anni nei quali le accademie vanno differenziando il loro insegnamento tra quanti con l’apprendimento del disegno potranno migliorare la produzione artigianale nei più diversi campi, secondo una visione mercantilistica delle arti utili, e quello riservato agli artisti veri e propri. Su questo sfondo si muovono le nuove figure degli artisti, le loro fisionomie affidate ai ritratti in una mutata concezione. Il nuovo prestigio riflesso nell’iconografia allegorica secondo le sue diverse modalità, dal vero ragionare erudito e teorico alla messa in scena della politica illuminata dell’arte come tratto caratteristico del riformismo settecentesco, trova uno dei punti più emblematici nella nuova visione delle arti così come testimonia il rinnovamento della Galleria degli Autoritratti agli Uffizi. Era una prassi di quasi tutte le accademie d’arte organizzare a intervalli regolari, sul modello dei Salons francesi, delle esposizioni nelle quali i giovani artisti e quelli più affermati potessero presentare al pubblico le loro opere. Il Salon parigino in particolare era riservato ai membri dell’Académie Royale e si svolgeva con cadenza biennale. A Roma mancavano invece occasioni paragonabili a questa e ai Salons, tant’è che nel 1792 l’abate Michele Mallio lanciò sugli Annali di Roma un appello perché anche qui fosse individuato un luogo per le esposizioni artistiche. Le sole occasioni collettive erano quelle stabilite dalle premiazioni dei concorsi dell’Accademia di San Luca; ma era consuetudine che gli artisti esponessero pubblicamente nei loro studi, nelle residenze di ambasciatori o di mecenati e nelle chiese le proprie opere. David nel 1785 presentò il Giuramento degli Orazi in un ambiente di proprietà dell’Accademia di San Luca. Una convinzione condivisa voleva che i romani costituissero un pubblico particolarmente competente in quanto educato fin dall’origine, a motivo delle bellezze che ne costituivano l’habitat quotidiano, a riconoscere la qualità. Artisti in Arcadia È recente il chiarimento della funzione dell’Accademia dell’Arcadia come luogo di incontro tra le arti, le lettere e le scienze in nome del buon gusto e all’insegna della razionalità e della chiarezza. In questa Repubblica delle Lettere che ebbe tra i suoi cittadini Voltaire e Mengs, presero corpo alcuni importanti principi fondativi di una nuova visione dell’arte sotto il segno di una corrente unita nella diversità. Forse una delle caratteristiche più interessanti del mandato di Gioacchino Pizzi (custode dell’Arcadia dal 1772 al 1790) consiste nel suo tentativo di riorganizzare la sociabilità culturale italiana della sua epoca. Ne consegue una riaffermazione della valenza unificatrice dell’Accademia. Si tratta della declinazione più diffusa dei lumi europei in chiave poetica, musicale e artistica che in alcune sue frange si spingerà fino agli esiti rivoluzionari. Angelika Kauffmann, pur non essendo mai stata arcade, diviene in sostanza la maggior rappresentante dell’espressione artistica dell’Arcadia riformata, sia quando ritrae una colta nobildonna romana nel gesto eroico di Lucrezia, da cui nacque la Repubblica romana, sia quando dà forma compiuta a quella che lei stessa definisce una favola di Arcadia tratta da un poema inglese, o quando si rappresenta come Ercole al femminile, al bivio tra musica e pittura. È quindi un’artista domma come Angelika che, in virtù del suo culto della grazia, si candida a sostituire Mengs come punto di riferimento e amica comune di quel partito di intellettuali che intreccia viaggi ed epistolari, favorisce commissioni ed esportazioni, determina la fortuna degli artisti presso le corti e dissemina in Europa questo gusto nuovo. Mentre l’Arcadia di questi anni favorisce l’elemento femminile e si entusiasma per le nuove prospettive della scienza, sotto il profilo estetico promuove quella categoria del buon gusto cui lo stesso custode generale dedica un poema. All’interno di questa visione di una storia comparata della cultura tardosettecentesca in età prerivoluzionaria, l’elemento in cui si polarizza la lotta tra la nuova visione secolarizzata del mondo e il retaggio dell’antico regime, è la questione dello scioglimento della Compagnia di Gesù. Una più moderna attenzione al ruolo intellettuale delle donne è promossa dallo stesso Gioacchino Pizzi, che fin dal 1758 aveva pubblicato Il trionfo delle donne forti. Dallo spoglio degli elenchi degli arcadi nel Settecento si ricava la presenza di un numero esiguo ma non trascurabile di artisti. Molti tra questi sono stranieri e i francesi rappresentano il gruppo più nutrito. Costituiva una premessa qualificata per l’ascrizione all’Accademia dell’Arcadia la carica di direttore dell’Accademia di Francia di Palazzo Mancini . Ma quel che soprattutto dovette apparire necessario per partecipare a pieno titolo a un tale consesso di eguali, era una riconosciuta familiarità con la pratica letteraria. Che l’essere arcade rappresentasse un riconoscimento e un trampolino sociale è tra l’altro dimostrato dal ricorrere negli stessi personaggi dei tre maggiori segni di distinzione onorifica cui un artista francese potesse aspirare: la croce dell’ordine di San Michele conferita dal re di Francia cui Roma rispondeva con i titoli di accademico di San Luca e pastore d’Arcadia. Dunque, il passaggio in Arcadia contribuiva all’affermazione degli artisti e in epoca di progressiva istituzionalizzazione delle carriere accademiche, esso rappresenta una tappa importante per cui gli artisti possono mettere a frutto i loro interessi letterari e le loro relazioni mondane per occupare posizioni di rilievo. Capitolo secondo Nuove e antiche tecniche e nuovi stili Le motivazioni che avevano spinto Luigi Lanzi a scrivere la sua opera posso essere utilizzate a definire i temi ricorrenti dell’epoca. I principi illuministici coinvolsero l’intera produzione artistica e, per quanto riguarda le arti figurative, trovarono applicazione non solo nelle tradizionali arti del disegno (pittura, scultura, architettura) ma anche nel campo di quelle che in Italia erano indicate come arti utili (ceramica, vetro, ebanisteria). La creazione a Meissen, nei primi anni del Settecento, di una manifattura di porcellane, sembrò aprire la strada a nuove possibilità. Winckelmann e Algarotti, che a Dresda avevano potuto seguire da vicino il fiorire della prestigiosa manifattura, lamentavano tuttavia che un materiale così prezioso venisse impiegato per realizzare ridicole bambole, e sostenevano che tali oggetti avrebbero acquistato prestigio se avessero imitato le cose antiche. Nella seconda metà del secolo i soggetti all’antica divennero sempre più frequenti e furono adottati da altre manifatture, i cui modellatori non solo traevano ispirazione dalle antichità per inventare nuove soluzioni iconografiche e formali, ma spesso si cimentavano nella realizzazione di copie fedeli di oggetti celebri; fino alla creazione di servizi da tavola con motivi che riproducevano le pitture ercolanensi. In qualche caso ci si spingeva a realizzare oggetti di stile egizio, i cui motivi ispiratori erano soprattutto le incisioni di Piranesi e le illustrazioni di Carlo Antonini dedicate alla Sala Egizia di Villa Borghese. In Inghilterra, l’antica manifattura di porcellane di Wedgwood poco dopo la metà del secolo fu razionalmente organizzata secondo criteri industriali precisi: il design e la produzione erano nettamente distinti e si promuoveva un’attività di ricerca finalizzata a innovazioni tecniche. Il gusto Wedgwood si può riscontrare anche nella decorazione degli interni di Villa Albani e di Villa Borghese: le lesene delle pareti sono spesso interrotte da grandi cammei su fondo azzurro con figure rilevate in bianco. In realtà, l’origine di questi motivi va ricercata nelle Logge di Raffaello e in particolare nelle decorazioni dei pilastri. Proprio in quegli anni le Logge erano infatti incise a colori da una squadra di specialisti tra cui primeggiava Giovanni Volpato. Se il tentativo di recuperare le tecniche antiche era certamente stimolato dalla richiesta del mercato di oggetti ispirati al gusto antiquario, l’interesse per tali argomenti era animato anche da motivi più propriamente scientifici e di conoscenza e coinvolgeva le stesse arti maggiori. Di fronte alla freschezza delle pitture murali ercolanensi attribuita alla perizia degli antichi nell’affresco e all’encausto, si tentò si scoprirne il segreto. Era un apporto della cultura illuminista, che aspirava a sottoporre al vaglio della scienza le conquiste del passato e a trasferirle nella pratica contemporanea. Le sperimentazioni e i dibattiti sull’encausto si svolsero tra Parigi e Roma. Nella capitale francese ne furono protagonisti Diderot e Caylus, attestati su posizioni contrastanti; le ricerche erano riconducibili all’ambito dell’Encyclopèdie, dove le arti meccaniche avevano assunto una nuova importanza accanto alle arti liberali e dove una voce specifica era stata dedicata proprio all’encausto. A Roma, la discussione sull’encausto si svolse e si concluse negli anni Ottanta intorno agli scritti del gesuita spagnolo Vicente Requeno y Vives pubblicati a Venezia e a Parma e dei quali i periodici fornivano un attento rendiconto. Sottoponendo a critica quanto era stato fatto in Francia, Requeno propose nuove soluzioni a partire dalla rilettura dei testi di Plinio. Nel 1769 Johann Zoffany rappresentò il ricco aristocratico scozzese Lawrence Dundas nella dressing room della sua casa londinese. Sulla mensola del camino sono visibili riproduzioni in bronzo, di piccolo formato, di statue famose. Il quadro di Zoffany è una delle più note testimonianze della diffusione e del prestigio di un’altra tipologia di produzione artistica che ebbe enorme fortuna nel secondo Settecento: quella delle riduzioni, nel medium del bronzo o della porcellana, delle opere meta dell’itinerario italiano, di cui costituivano un prezioso souvenir. I piccoli bronzi che riproducevano in scala le più celebrate sculture antiche e moderne non rappresentavano una novità. Tuttavia, il punto di forza della produzione settecentesca, che venne ripresa con particolare vigore a partire dal settimo decennio del secolo, sta nella serialità e nell’ampia diffusione degli oggetti, organizzata secondo moderne strategie di vendita. I prodotti erano pubblicizzati tramite cataloghi a stampa, spesso bilingui, con prezzi, inviati in tutta Europa; erano di pregio differente per la presenza o meno di basamenti in marmi rari eventualmente profilati da cornici dorate; a fianco dei soggetti antichi si potevano trovare capolavori moderni o creazioni originali. Le porcellane di Giovanni Volpato – arrivato a Roma nel 1771 per collaborare all’impresa calcografica della riproduzione a stampa delle Logge di Raffaello – si prestavano a comporre centritavola, a riprodurre sculture antiche e a creare nuovi originali, sempre però in modi classici. Prima, Volpato aveva conseguito notorietà internazionale in seguito ai volumi di incisioni colorate delle Stanze di Raffaello e grazie alla sua calcografia, nella quale si realizzavano stampe che riproducevano con la massima esattezza possibile opere d’arte antiche e moderne. Il commercio delle stampe era una voce florida nel mercato dell’arte. Diverso è il caso di Piranesi, che impiegò l’acquaforte come strumento espressivo autonomo, di grande potenzialità. Francis Haskell ha indicato in Roma e Parigi i due centri maggiori della produzione incisoria . La fortuna della stampa di traduzione diede infatti il via in entrambe le capitali a un’attività specializzata che si sarebbe poi sviluppata in una vera e propria forma di editoria. Il pittore inglese Gavin Hamilton aveva affidato all’incisore Domenico Cunego la fama dei suoi quadri di soggetto omerico dipinti a Roma e che voleva fossero noti anche in patria. La sua sensibilità di commerciante d’arte per il mercato anglosassone è all’origine della realizzazione, nel 1773, del volume Schola italica picturae da lui ideato. Il volume illustrava un’antologia di dipinti che andavano dagli affreschi sistini di Michelangelo alla Galleria Farnese e includeva maestri del Cinquecento e del Seicento, con una scelta corrispondente al gusto del collezionismo internazionale, e che rifletteva la libertà con la quale lo stesso Hamilton sapeva guardare all’arte dei secoli precedenti. Gli incisori erano numerosi. Volumi di incisioni potevano essere dedicati anche a una singola raccolta. La prima iniziativa del genere è rappresentata dalla Galleria Giustiniana, curata nel Seicento da Joachim von Sandrart per illustrare le antichità riunite dal marchese Vincenzo Giustiniani nel suo palazzo romano a San Luigi dei Francesi. Lo scopo era glorificare il gusto e la lungimiranza del proprietario che ne faceva dono a sua discrezione. Anche i volumi delle Antichità di Ercolano, stampati a cura dell’Accademia di Ercolano tra il 1757 e il 1792 per riprodurre quanto stava venendo alla luce negli scavi, erano distribuiti per iniziativa del sovrano e non tramite i canali della vendita. Un significativo mutamento si è verificato, nella prima metà del secolo, con l’iniziativa avviata da Pierre Crozat che con l’aiuto del giovane Caylus e su suggerimento di Filippo II d’Orléans, aveva pubblicato nel 1729 e nel 1742 a Parigi un Recueil di stampe in due volumi che riproducevano i principali dipinti delle raccolte francesi con incisioni eseguite su disegno di un consistente numero di artisti. Progettato come una storia dell’arte per immagini, il Recueil fu forse la più ambiziosa impresa di quel genere in tutto il secolo. Era destinato a quello che sarebbe stato il classico pubblico illuminista (amatori, conoscitori, collezionisti, artisti). La diffusione e l’importanza di questa forma di editoria era tale che nel 1771 Carl Heinrich von Heineken, direttore delle raccolte di grafica di Dresda, aveva pubblicato una sorta di catalogo delle maggiori collezioni di stampe, apparto a Lipsia e Vienna. Forse l’esempio più noto del culto di Raffaello, complementare a quello per l’antico, è dato da una delle più ambiziose commissioni di Caterina II: la copia a scala naturale delle Logge vaticane. Dopo aver visto i tre volumi di incisioni all’acquaforte colorati all’acquerello, di grandi dimensioni e quindi chiari, dettagliati e piacevoli, Caterina aveva scritto a Grimm a Parigi. L’incarico della zarina fu assolto dal 1779 al 1792 sotto la direzione di Cristoforo Unterperger. L’équipe tuttavia non riprodusse con assoluta fedeltà il modello, m intervenne elaborando nuovi motivi soprattutto per quelle parti delle Logge che risultavano più danneggiate. Le logge di Caterina furono eseguite su tela. Sembra che un gruppo di specialisti lavorasse a tradurre le Logge di Raffaello in incisione già nel 1768. L’iniziativa era stata promossa da papa Clemente XIII per documentare meglio le Logge, le cui condizioni di conservazione destavano preoccupazione. Quando apparve il terzo volume il nome preminente era quello di Volpato; lo accompagnava un opuscolo bilingue con il prospetto dell’intera opera. La scelta del francese era una chiara indicazione della destinazione europea del prodotto. pubblicazioni risultò breve; ma sono, nell0ambito della cultura di fine Settecento, anni cruciali sia per la diffusione delle idee che per la produzione artistica, connotati da una straordinaria ricchezza e vitalità. Prima e dopo questi anni, altri periodici davano conto dell’attività artistica italiana e internazionale. Si trattava tuttavia di pubblicazioni nelle quali gli articoli di tenore storico-artistico e antiquario coesistevano insieme ad altri di carattere scientifico e letterario. Vi comparivano di recente recensioni di volumi pubblicati all’estero, segnalazioni di scavi, notizie su opere e artisti. Il periodico Efemeridi Letterarie era stampato con cadenza settimanale e discuteva argomenti di carattere scientifico, letterario, artistico e archeologico. La più longeva Antologia Romana (1744-98) si pone come complemento delle Efemeridi. Vi trovano posto l’architettura, le arti utili, le antichità e le belle arti. Sono però i periodi romani apparsi negli anni Ottanta a dar conto con grande rilievo e completezza della produzione artistica contemporanea. Diffusi oltre i confini dello Stato della Chiesa, erano letti in tutta Europa e spesso se ne trova notizia negli inventari delle biblioteche di colti personaggi. Non pochi contrasti segnarono la vita dei periodici; inoltre va segnalata una antica confusione nell’attribuzione all’uno o all’altro degli eruditi della paternità delle testate e degli specifici contributi. Le Notizie Enciclopediche e le Memorie, affidate rispettivamente al Guattani e al gruppo di De Rossi, illustrano autonomamente ma in ideale sintonia l’aspetto antiquario e quello moderno dell’ambito artistico coevo; il Giornale si propone invece già nel titolo con un deciso carattere onnicomprensivo. Un’operazione analoga tenterà il Guattani all’inizio dell’Ottocento quando darà vita alle Memorie Enciclopediche. Il primo periodico in ordine di tempo a vedere la luce è il Giornale delle Belle Arti, che per il 1784 è la sola fonte di informazioni. Ed infatti l’annata 1784 è la più interessante e ricca di notizie: l’avanzamento dei lavori per Villa Borghese è registrato con puntualità, così come i saggi in scultura di Canova, delle opere degli stranieri a Roma e di quelle eseguite dai romani per altre regioni d’Italia e d’Europa, nella consapevolezza della centralità del ruolo di Roma. Il giornale tratta anche di musica e di poesia. Nel mese di febbraio la nascita delle Notizie sulle antichità e belle arti viene annunciata con diffidenza; a marzo si precisa che la nuova pubblicazione si limita a esaminare le antichità e belle arti di Roma in un’epoca più remota. La comparsa, l’anno successivo, delle Memorie per le Belle Arti darà il via a querelles significative, una delle quali coinvolgerà il terzo volume della Storia delle arti del disegno di Winckelmann commentata da Carlo Fea. La comune adesione all’estetica di Mengs, l’appartenenza di molti dei collaboratori di entrambe le testate dell’Accademia dell’Arcadia, la sostanziale uniformità nella scelta delle opere illustrate, e la coincidenza dei punti di vista, non riuscirono a evitare l’insorgere di attriti e polemiche. La lettura dei periodici non offre solo una grande quantità di notizie, ma soprattutto consente la totale immersione in un mondo di idee che talvolta non collima con l’immagine stereotipa di quel periodo e dei suoi protagonisti. Il recupero di testimonianze figurative oggi disperse, con l’operazione di accompagnare i teti con le illustrazioni delle opere antiche e moderne che vengono citate, ne fa scaturire invece uno straordinario panorama dell’arte in quegli anni cruciali unito a una stimolante rappresentazione della pittura di storia, religiosa, del ritratto, del paesaggio, di cui si dibattono i motivi ispiratori, il rapporto con la tradizione, la coerenza con la nuova idea di moralità dell’arte. Nell’introduzione al primo numero delle Memorie, sorta di manifesto programmatico della rivista, si rivendica la concezione filosofica dell’arte. Il ragionamento sul rapporto tra filosofia e libertà della creazione artistica, tra precetto e dura pratica dell’arte sfocia nella pubblicazione, nelle Memorie del 1787, dell’elogio di Pompeo Batoni. I periodici sembrano privilegiare le discussioni e i rendiconti sulla pittura; la scultura vi compare meno frequentemente e l’impressione che si può ricavare da questo ideale museo del tardo Settecento europeo è quella di un ricco complesso archeologico accompagnato da una pinacoteca di taglio contemporaneo, dove si possono incontrare sculture isolate. Una lettura comparata delle annate delle Memorie per le Belle Arti e del Giornale consente di ricavare informazioni, ad esempio, circa le esposizioni nelle quali si presentavano al pubblico romano e internazionale le opere elaborate a Roma per altri luoghi o sulla produzione artistica già destinata all’esportazione. L’importanza di queste pubblicazioni è attestata dalla ripresa in periodici stranieri di parecchi articoli ivi comparsi. Collezioni e collezionisti: pubblico e privato, mercanti e scavatori Uno degli effetti della fede illuministica nella funzione educativa dell’arte fu l’istituzione di raccolte pubbliche, create ex novo o con l’apertura al pubblico di collezioni private. È forse già sotto l’effetto di una simile sensibilità che l’ultima discendente dei Medici, Anna Ludovica, con il Patto di famiglia del 1737 trasferì le collezioni medicee al casato dei Lorena, destinati a succederle nel governo della Toscana, a condizione che restassero proprietà perpetue della città di Firenze. Gli Uffizi e tutte le collezioni medicee divennero così una istituzione pubblica della quale la dinastia regnante aveva il dovere di garantire la tutela e l’integrità. Po il granduca Pietro Leopoldo avrebbe stabilito il libero accesso quotidiano ai musei fiorentini. La sua decisione di far confluire agli Uffizi le opere d’arte conservate nelle proprietà granducali coinvolse la stessa Roma: lasciarono Villa Medici pitture e sculture moderne ma soprattutto statue antiche, come il gruppo dei Niobidi. A questa migrazione, avvertita da tutta la comunità internazionale presente a Roma come una grave perdita, seguì quella delle sculture conservate in Palazzo Farnese, pervenute ai Borbone di Napoli. Il fatto che nel 1471 papa Sisto IV avesse restituito al popolo romano una serie di bronzi antichi sopravvissuti alle distruzioni, fa sì che i Musei Capitolini siano considerati la più antica istituzione museale europea. Di lì a pochi anni, Giulio II sembrò voler creare un secondo polo di aggregazione nel Belvedere vaticano. Clemente XII aveva provveduto a fa riordinare nel Palazzo Nuovo, di fronte al Palazzo dei Conservatori, un numero ingente di sculture; il suo successore Benedetto XIV ne accrebbe il numero e allo stesso tempo creò la Pinacoteca Capitolina acquisendo parte della collezione Sacchetti e della quadreria Pio di Savoia. Sarebbe stato però il Museo Pio-Clementino, sorto sotto Clemente XIV, a costituire in Vaticano un nuovo eccezionale Museo. Il Museo Capitolino era amministrato da un conservatore e venne dotato di un catalogo illustrato la cui direzione fu affidata a Giovanni Gaetano Bottari che ingaggiò alcuni dei maggiori incisori e disegnatori del tempo. Si trattava di un vero e proprio catalogo critico, curato e commentato dallo stesso Bottari. Nel 1741 usciva il primo volume dell’opera, che comprendeva i busti di filosofi, poeti e oratori conservati nel Museo; nel 1750 il secondo volume, con quelli degli imperatori e delle imperatrici; il terzo nel 1755 con le statue; infine il quarto, con i bassorilievi, usciva solo nel 1782. Il Museo Pio-Clementino, per il quale vennero costruivi nuovi ambienti concepiti per suggerire una spazialità corrispondente a quella delle antiche fabbriche e quindi per ambientare coerentemente le opere che vi andavano collocate, venne ordinato da Giovanni Battista Visconti e da suo figlio Ennio Quirino secondo criteri tematici. Anche il Museo Pio- Clementino ebbe il suo catalogo, in sette tomi, apparso tra 1782 e 1807, curati in successione dai due Visconti. I monumenti venivano illustrati seguendo la partizione per generi e per classi concepita per l’allestimento e analizzati sulla base della loro diretta lettura e del confronto con le fonti letterarie antiche. Il museo illuministico europeo per eccellenza è il British Museum. A differenza di altri non nacque dalla trasformazione di raccolte patrizie o appartenuti a regnanti, ma fin dall’inizio fu voluto come sede del sapere e luogo in cui soddisfare l’esigenza di conoscenza . Aveva avuto origine dal museo privato, prevalentemente naturalistico, del medico e collezionista Hans Sloane, che nel suo testamento del 1747 aveva stabilito che venisse conservato integro e ne auspicava la destinazione pubblica. Intorno a quel primo nucleo si raccolsero altre collezioni; la progressiva acquisizione di biblioteche ne fece un centro di ricerca e di studio. Il British Museum fu aperto nel gennaio 1759 al libero accesso di tutte le persone desiderose e per il progresso della conoscenza. Concepito come una gigantesca biblioteca nella quale anche le raccolte naturalistiche e antiquarie avevano la funzione e il valore di testi di studio, il British Museum potrebbe sembrare la traduzione in concreto del sogno seicentesco creato da Cassiano del Pozzo, tra i primi a vedere le testimonianze dell’antichità nel loro valore di documento storico e non solo estetico. Le vicende del British Museum rispecchiano il percorso settecentesco della storiografia artistica e dell’antiquaria in rapporto alle scienze naturali o della terra. Inizialmente il campo delle due diverse branche non era del tutto separato. Ma progressivamente i manufatti artistici, antichi e moderni, si imposero come fonte e argomento di una disciplina che richiedeva uno specifico metodo di studio, basato sulla loro stessa evidenza materica. Il metodo era scientifico, ma affidato alla competenza del conoscitore. Il francese Musée Napoléon nell’enormità della sua concezione è più assimilabile alla cultura del sublime che allo spirito della ragione. Istituito nel Palazzo del Louvre negli anni rivoluzionari con l’incameramento delle collezioni reali, aristocratiche ed ecclesiastiche cui si aggiunsero le opere d’arte prelevate nelle terre conquistate, avrebbe dovuto rappresentare una gigantesca Storia universale delle arti per immagini e insieme per giovane al progresso della conoscenza. Un affondo su Roma Anche nel XVIII secolo, proseguendo il percorso obbligato che aveva preso l’avvio dal Quattrocento, con gli artisti fiorentini impegnati a misurare, a disegnare e quindi a collezionare, raccogliere le antichità di Roma, Roma è la capitale del collezionismo europeo, passaggio obbligato per ogni intenditore d’arte. Roma è l’università delle arti. Le collezioni ricevevano una sorta di consacrazione tra quelle di vera rilevanza quando includevano testimonianze di arte antica o, in campo pittorico, opere della cosiddetta scuola romana in senso lato; ossia le espressioni riconosciute della maniera moderna. Anthony Clark distingue nelle collezioni romane del Settecento cinque tipologie: le collezioni pontificie o civiche; collezioni private di grande consistenza; collezioni principesche di diversa entità, e comunque di grande interesse; collezioni formate a Roma e possedute da monarchi forestieri, quali quelle del granduca di Toscana e del re di Napoli; collezioni di amatori, archeologi e artisti, a volte chiamate musei. Tra queste ebbe grande importanza il museo borgiano che il futuro cardinale Stefano Borgia aveva costituito nel suo palazzo di Velletri con antichità etrusche, opere paleocristiane, oggetti orientali, testimonianze figurative egiziane e copte. Collezioni come quelle di Stefano Borgia stimolavano l’interesse degli studiosi che si cimentavano nella ricomposizione dell’universo dei saperi. Scavare e vendere era una delle principali attività di alcuni inglesi trasferiti a Roma e che avevano in qualche caso abbandonato la professione artistica per dedicarsi a quella di scavatore e mercante per i propri connazionali. Gavin Hamilton continuò la sua attività di pittore parallelamente a quella di mercante; Thomas Jenkins e James Byres, attualmente ricordati per il ruolo avuto nella creazione di alcune tra le maggiori raccolte inglesi, costituite sia tramite sculture reperite negli scavi o opere commissione direttamente, sia per mezzo dell’acquisizione di oggetti di grande prestigio ceduti da famiglie aristocratiche. Scultori come Bartolomeo Cavaceppi, Vincenzo Pacetti e Carlo Albacini si specializzarono nel restauro delle sculture destinate al mercato interno e internazionale. Le collezioni settecentesche delle maggiori famiglie dell’aristocrazia romana per la maggior parte sono andate smembrate, ma in qualche caso hanno recuperato una virtuale integrità grazie a ricerche d’archivio che ne hanno ripercorso le stratificazioni. Nel caso romano, si tratto di collezioni che l’istituto del fidecommesso si proponeva di tutelare in quanto essenziali per la conservazione dello status raggiunto, e che proprio l’abolizione, in epoca napoleonica, di questo strumento giuridico contribuì in gran parte a disperdere. Molte raccolte patrizie conseguirono nel Settecento, grazie all’intensa attività di scavo e ad abili campagne di acquisti, la loro massima consistenza. Ma il Settecento fu anche il secolo della dispersione di alcune di esse, come quella di Cristina di Svezia passata prima agli Odescalchi e poi ceduta al re di Spagna, e si chiuse con le spoliazioni napoleoniche. Il numero dei protagonisti del collezionismo romano oggi noti è cospicuo. Assumendo come guida il Mercurio Errante di Pietro Rossini, l’itinerario attraverso le collezioni pubbliche e private di Roma includerebbe i musei vaticani e capitolini, i palazzi e le ville delle grandi famiglie e diverse raccolte meno ricche, o collezioni la cui importanza è testimoniata solo dagli inventari. Un settore a parte è stabilito dal collezionismo degli artisti. Gli inventari post mortem ne rilevano il patrimonio talvolta eseguito, altre volte rilevante tanto da costituire la principale fonte di reddito per gli eredi. Libere dai vincoli del fidecommesso, queste collezioni, come quelle degli amatori, venivano subito immesse sul mercato, e oggi solo gli inventari ne restituiscono la consistenza. Le vicende del collezionismo romano nel XVIII secolo sembrano ricollegarsi ai motivi individuati nel secolo precedente. L’azione dei mercanti stranieri è indubbiamente più spregiudicata, e le acquisizioni e le cessioni si alternano a un ritmo che solo parzialmente la politica di tutela promossa dal pontefice riesce a controllare; ma sostanzialmente si consolidano e si definiscono problemi e situazioni già presenti e vivi nel Seicento. Una simile vitalità, rispecchiata anche dal mecenatismo pubblico di Pio VI in Roma e negli Stati della Chiesa, sarebbe stata travolta dai fatti traumatici conseguenti alle spoliazioni napoleoniche, con conseguenze irreversibili e ferite che non si sarebbero più rimarginate. La formazione dell’artista: le accademie pubbliche Tratto distintivo della politica artistica dell’età dei Lumi è la fondazione o la riforma di accademie, nei diversi paesi europei, con la nascita in parallelo di alcune importanti filiazioni nazionali in Roma. Anche le accademie più antiche e gloriose spesso vedono in quest’epoca una vera e propria rifondazione. Una delle accademie e sui primi periodici specializzati; ma a fianco di quei temi privilegiati, pittura religiosa e ritratto, natura morta e paesaggio, insieme alle diverse categorie del disegno furono presenti a tutti i livelli della produzione. La circolazione di stampe di traduzione, i viaggi, le esposizioni, i nuovi musei e la maggiore accessibilità delle gallerie private, i periodici e le corrispondenze degli agenti misero a disposizione del mondo colto di allora un insieme di saperi. Inglesi e francesi a confronto. Classicisti tedeschi In Inghilterra il gusto per il classico aveva radici lontane, soprattutto in architettura e in scultura. Gli inglesi furono tra i primi in Europa a farsi ritrarre all’antica. Già nel 1701 il conte di Exeter aveva chiesto per sé un busto in marmo con corazza romana e mantello al francese Monnot. Ma più che sull’antichità classica, il busto dell’aristocratico inglese è concepito al modo di Cellini e della scultura rinascimentale in genere, mentre il John Gordon di un altro francese Bouchardon è già presentato a tordo nudo, come in un ritratto di età augustea. Ancora Bouchardon raffigura, nel 1729, il vescovo di Derry vestito con appena un mantello di toga, fermato sulla spalla sinistra con un cammeo a fungere da fibbia. Nonostante i difficili rapporti tra Francia e Inghilterra e i propositi della londinese Società antigallicana sorta per combattere le insidie del gusto rocaille, si realizzava a Roma per mano di scultori francesi, favoriti dalla sovranazionalità della capitale del mondo antico, l’aspirazione degli inglesi a presentarsi come gli eredi dell’austerità greco-romana. Monnot – autore dei monumenti funebri di papa Gregorio XV e di Innocenzo XI in San Pietro e vissuto a Roma fino alla sua morte – apparteneva ancora alla generazione di Marat. Non così Bouchardon, che dopo aver soggiornato a Roma per circa un decennio, tornò a Parigi dove fu uno dei più convinti sostenitori del gusto antico in opposizione al rococò. Se Il Cristo con la croce (1735) di Bouchardon per Saint-Sulpice può ricordare nell’idea e nella posa l’analoga statua di Michelangelo nella chiesa romana di Santa Maria sopra Minerva, ma con un trattamento della muscolatura e delle pieghe del panneggio che deve qualcosa all’ultimo Bernini, segno quindi del suo interesse per la scultura moderna e non solo per l’antica, il suo Amore che intaglia l’arco, dalla critica è visto in rapporto, oltre che con l’esemplare capitolino, con il quadro di Parmigianino con lo stesso soggetto. A differenza della Francia e dell’Italia, all’inizio del Settecento l’Inghilterra non poteva ancora vantare una propria consistente tradizione artistica e il collezionismo locale si era alimentato con l’acquisizione di opere provenienti d’oltremanica, che avevano condizionato il gusto e stimolato l’imitazione degli artisti inglesi. Contro questa sorta di colonizzazione si batté il più importante dei pittori della sua generazione, William Hogarth. Feroce satirico nei confronti delle pretese intellettualistiche dell’aristocrazia erudita negli anni che videro la nascita della Società dei dilettanti, dipinse anche soggetti tratti da Shakespeare e realizzò il primo dei molti ritratti dell’interprete shakespeariano David Garrick. I suoi sporadici tentativi di affermarsi come pittore di storia restarono in ombra rispetto alla vera genialità espressa nei suoi dipinti di piccole dimensioni, definiti da lui soggetti morali moderni, in cui ciascuna serie viene dedicata ad un singolo personaggio del quale sono analizzati l’ascesa e il declino. Ne curò egli stesso le incisioni. Nelle sue note autobiografie Hogarth spiegava la scelta dei suoi soggetti: i pittori di storia a suo parere ignoravano quell’elemento tra il sublime e il grottesco e che invece egli ritrovava nella vita reale. Da Hogarth sembra quindi avere origine una linea tutta inglese nella pittura: autarchica, libera, satirica, aperta i torni del sublime. Furono comunque i membri della Società dei Dilettanti a finanziare spesso i viaggi in Italia e i soggiorni a Roma degli artisti inglesi. Essi ritenevano fondamentale il soggiorno italiano per pittori e scultori oltre per la propria realizzazione. Gli artisti britannici restarono fortemente condizionati dal soggiorno romano. Tra di loro furono soprattutto gli scultori a adottare un linguaggio pienamente classico. Per gli scultori infatti, in assenza di una riconoscibile tradizione inglese nel campo, era obbligatorio spostarsi nel continente, a Parigi o a Roma, dove la scultura monumentale era praticata su scala grandiosa tra oltre due secoli, per apprendere l’arte sotto la guida di maestri affermati e per disporre di una varietà sufficiente di modelli. Non così per i pittori: Joseph Wright of Derby era già grandissimo pittore anche prima del suo viaggio. Per Reynolds, i cui esordi erano avvenuti nell’ambito del ritratto, l’ascendente di Van Dyck restò una costante, insieme all’interesse per Rubens e per Rembrandt che gli erano noti perché rappresentati nelle collezioni inglesi, ma che ebbe modo di studiare meglio negli ultimi anni tramite un viaggio in Olanda e nelle Fiandre. Il soggiorno italiano oltre a consentirgli un ampliamento diretto della sua conoscenza dei maestri del Cinque e Seicento, lo aveva posto di fronte alle richieste di mercato. I suoi compatrioti non si limitavano a commissionare a Roma ritratti meno costosi dei suoi, ma richiedevano quadri di soggetto storico o mitologico, che egli cominciò a praticare piuttosto tardi, aggiungendovi soggetti ispirati a Shakespeare e ambientando talvolta i suoi ritratti come scene di storia. Il pensiero di Reynolds non trova una piena rispondenza nella sua pittura. Il suo proposito era quello di fornire solidi principi agli artisti, tramite il frequente ricorso alle teorie formulate a partire dal Cinquecento. La dichiarata superiorità della pittura di storia e l’individuazione in Michelangelo e in Raffaello dei massimi protagonisti dell’arte erano mirate a suscitare il desiderio di studiare l’opera del più gran genio mai apparso nelle arti, e certamente rappresentavano anche l’espressione di un personale convincimento. Tuttavia, l’omaggio ai grandi del Rinascimento implicava l’ammissione del primato rispetto al colore, concetto che non ha riscontro nella pittura di Reynolds. La società inglese che in Italia si faceva ritrarre da Mengs, Batoni e Angelika Kauffmann, a Londra ricorreva a Reynolds e al suo rivale Thomas Gainsborough. Pittore del re e ritrattista di corte era invece lo scozzese Allan Ramsay. Nei suoi due viaggi italiani aveva frequentato gli artisti attivi a Roma e l’Accademia Capitolina del Nudo; tornato in patria si specializzò in ritratti nei quali la sua esperienza romana e l’ascendente di Batoni erano ben visibili. Malgrado l’impegno di alcuni artisti inglesi nell’ambito della pittura di storia per loro fu il ritratto il campo nel quale erano più frequenti le committenze. I viaggiatori britannici erano abbastanza sorpresi di non trovare a Roma segni di altrettanta fortuna. Thomas Gainsborough inizialmente si proponeva di praticare la pittura di paesaggio e a tal scopo aveva frequentato l’atelier del francese Gravelot, stabilitosi a Londra nel 1732; ma a un certo punto si applicò anch’egli al ritratto, che fu il solo ad ambientare in ampi paesaggio all’olandese. Dall’altro lato della Manica e in particolare a Roma, i suoi compatrioti si esercitavano invece in quella grande maniera che l’esempio antico e della pittura monumentale del Seicento aveva posto ai vertici dell’apprezzamento artistico. Gli stessi viaggiatori che al ritorno in Inghilterra avrebbero rinnovato le proprie residenze secondo il nuovo gusto antiquario, desideravano poi arredarle con sculture e dipinti appropriati. Di conseguenza, l’apprezzamento per il ritratto scolpito all’antica ebbe un seguito considerevole. La perizia in questo genere da parte di Christopher Hewetson si rivelò nei busti di aristocratici nei quali lo scultore adottò la formula originale, che tentava di conciliare le esigenze della somiglianza con la voga antiquaria. Per i suoi colleghi artisti Hewetson scelse la soluzione filosofica o all’antica. Era stato prescelto per eseguire il busto di Mengs al Pantheon. Anche Joseph Nollekens aveva esordito a Roma con un ritratto d’artista, quello di Giovanni Battista Piranesi. Il credito acquisito lo rese in patria assai richiesto. Eseguì l’ambizioso monumento funebre di Elizabeth, contessa di Gainsborough, chiaro ricordo della figura femminile dell’Arianna vaticana. Accanto a sculture di soggetto mitologico nelle quali trattava il marmo con la delicatezza di un biscuit di Volpato, o mostrava di considerare anche la scultura di Giambologna, continuò a praticare fin oltre la metà del secolo il ritratto all’antica. Thomas Banks e John Deare trovarono nei soggetti mitologici i motivi della loro ispirazione, ma forse sotto l’influsso delle prime opere romane di Canova e della sinuosità della pittura tardocinquecentesca predilessero l’eleganza all’austerità. La personalità di maggiore spicco tra gli inglesi era John Flaxman, prima disegnatore per la manifattura di Wedgwood per al quale creò perfetti motivi all’antica per le porcellane della serie Etruria e ritratti a medaglione. Fu poi per sette anni a Roma (1787-94) dove eseguì due gruppi di grandi dimensioni, La furia di Atamante per lord Bristol e Cefalo e Aurora per Thomas Hope, diversi modelli per monumenti funebri che spedì a Londra e i famosi disegni al tratto di soggetto letterario (Iliade, Divina Commedia). Flaxman aveva adottato uno stile derivato dalla pittura vascolare greca, in uno sforzo filologico di grande impegno e profondità; un linearismo che si può leggere anche nelle sue sculture. Tornato in Inghilterra realizzò ritratti all’antica, in uno stile ispirato all’arte adrianea o semplificato fino all’essenziale, e imponenti monumenti per personaggi pubblici. Nel suo Elenco dei più noti artisti viventi a Roma, Alois Hirt cita con entusiasmo lo scultore svizzero Alexander Trippel. Seppur eccessivo, il parere di Hirt individuava correttamente nel gusto antico il carattere prevalente dell’attività di Trippel. Egli riuscì a giungere a Roma alla fine del 1776. Era già uno scultore maturo che aveva condotto esperienze di segno diverso; le sue relazioni nella città inclusero gli artisti cui lo accomunava la lingua tedesca. I suoi rapporti con Bartolomeo Cavaceppi, forse conosciuto durante il viaggio in Germania che il romano fece insieme a Winckelmann, si spiegano anche con il fatto che lo studio di Cavaceppi era un centro di restauro dell’antico, emporio di sculture di tutte le epoche e di tutte le tecniche e luogo obbligato di transito per artisti di ogni provenienza oltre che per committenti e collezionisti. Trippel comunque lavorò soprattutto per la Svizzera e la Germania. La vicinanza con i visionari nordici è palmare nel modellato di alcune piccole terrecotte, e alcune soluzioni stilistiche interessarono Canova, che nella posa del suo Teseo oltre al Marte Ludovisi sembra alludere all’Apollo di Trippel. Benché fosse ben inserito e molto rispettato nella comunità di lingua tedesca di stanza a Roma, Trippel non fu acritico nei confronti dei suoi compatrioti. Il suo studio, nel quale gestiva anche un’accademia privata assai frequentata, era visitato da tutti i viaggiatori tedeschi. L’elenco di Hirt omette di citare gli scultori francesi. Pittori di storia Benché nel Settecento il mercato dell’arte avesse definitivamente scardinato le gerarchie dei generi, nella seconda metà del secolo la fortuna della pittura di storia conobbe una nuova fioritura, sia per motivi ideologici sia per la richiesta originata da una classe di committenti che intendevano ambientare le proprie collezioni di sculture, originali antichi e produzioni moderne. È stato osservato che in questo periodo la cultura rimette in auge i modelli antichi, prendendo le distanze da forme realmente innovative quali il barocco e il rococò. Dipingere una storia poteva comportare diversificazioni all’interno di una stessa categoria. Per storia si intendeva un soggetto complesso, a più figure e tratto dalla mitologia, dalla storia o dalla religione; anche le allegorie erano comprese in questa classe, considerata la più nobile perché comportava erudizione antiquaria, conoscenza delle teorie e della letteratura, capacità di rappresentare i sentimenti secondo la seicentesca categoria degli affetti. Pittori di storia furono pressoché artisti del secondo Settecento, tranne i paesaggisti e i vedutisti che risposero però alle nuove esigenze del mercato con un’ottica rinnovata. La mitologia, i poemi classici e moderni, la storia antica e quella contemporanea dalla quale scaturivano gli esempi di virtù da porre a modello di etica, trovarono interpreti a tutti i livelli e nell’intera Europa. In Francia l’exemplum virtutis divenne quasi un tema obbligato, prima e dopo la Rivoluzione del 1789 ed ebbe il suo massimo rappresentante in David. L’affermazione che affiora, che l’Italia e Roma non parteciparono a questo specifico campo della pittura, non ha senso. Si è detto che qui l’exemplum ebbe valore solo antiquario e che non era possibile per gli italiani celebrare le storie patrie in assenza di una patria effettiva. In realtà Roma assurgeva a patria universale nella quale era possibile riconoscersi. Caylus, che oltre a suggerire le corrette iconografie per i temi omerici nel suo Recueil d’antiquités aveva posto le antichità galliche vicino alle greche, romane ed egiziane, fu uno stimolo importante per la riscoperta delle singole storie nazionali. Svizzeri e tedeschi accolsero l’invito. Tra quelli dell’ultima generazione, Johann Heinrich Tischbein insieme a temi condotti nel gusto greco o ispirati a soggetti letterari, nel 1748 creò con il suo Corradino di Svevia e Frederick von Baden ricevono in carcere l’annuncio della loro condanna a morte uno degli esempi più convincenti in questo campo. Il suo coetaneo Jean-Pierre Saint-Ours suscitò l’interesse della critica perché seppe trovare nella Germania di Tacito un soggetto adatto, I riti nunziali germanici. Trattò anch’egli soggetti di storia romana, greca e temi biblici. Ma i suoi quadri concettualmente più rilevanti sono quelli eseguiti a Roma ed esposti nel 1791 a Parigi al Salon de la Liberté. Ispirati alle teorie di Rousseau potevano generare sospetto, ma il ricorso al linguaggio universale della classicità li poneva al riparo da possibili censure. Alla stessa generazione di Tischbein e Saint-Ours appartiene Friedrich Heinrich Füger, già ricordato come autore nel 1782 della decorazione ad affresco della biblioteca della Reggia di Caserta e che si muove sui registri dell’eroico e atteggia all’antica i suoi nudi accademici, mentre nei soggetti erotici o patetici sembra guardare a maestri romani come Batoni. Gli episodi della storia contemporanea erano raramente rappresentati in pittura. Le cerimonie pontificie costituivano un’eccezione perché ambientazione e apparti erano avvolti da un’aurea sacrale che li sollevava dal registro della cronaca, mentre dipinti quali le vedute di Giovan Paolo Panini rientrano piuttosto nella pittura celebrativa delle imprese urbanistiche promosse dal papa. Interpreti e temi del sublime. Goya Reynolds raccomandava ai giovani artisti inviati a Roma dalla Royal Academy di non perdere tempo nel fare copie da vendere ai loro compatrioti ma di studiare soprattutto Michelangelo, perché solo con la riflessione su quella grandezza di stile sarebbero stati in grado di produrre qualcosa di proprio. Sosteneva infatti che la conoscenza dei maestri e l’esercizio del disegno dal vero avrebbero messo in grado l’artista di tentare condotti secondo il gusto e il costume antico. Il più influente dei protettori di Vien era Caylus, che all’Académie Royale aveva tenuto alcune conferenze sulla pittura e sulla scultura dei Greci e che aveva avuto un grande ruolo nell’orientare le scelte di Vien. Nello stesso Salon del 1765 in cui Vien aveva esposto il suo Marco Aurelio, Diderot recensì positivamente una grande tela di Fragonard, Il sacrificio del gran sacerdote Coreso totalmente in opposizione alla linea stilistica rappresentata dal quadro di Vien: un soggetto tratto da Pausania. Egli, con questo dipinto, aveva salutato come il rinnovatore della grande pittura di storia che avrebbe consolidato il primato europeo della Francia. Il problema della pittura di storia era avvertito tanto a Parigi quanto a Roma grazie alla grande tradizione risalente al XVII secolo percepita come ancora viva e operante in entrambe le capitali, negli stessi anni che vedevano maturare la ricerca classicista. David La città nella quale David era arrivato nel 1775 vedeva ancora attivo Mengs. Batoni era nel pieno della sua fortuna; Canova sarebbe giunto nel 1779. È noto come inizialmente David ritenesse di non aver molto da imparare dall’antichità. I molti disegni eseguiti durante il viaggio ancor prima di giungere a Roma, quelli realizzati una volta stabilitosi a Palazzo mancini rivelano come non fossero soltanto le antichità a suscitare il suo interesse, benché queste a un certo punto catalizzassero la sua attenzione. Di questo quinquennio fecondo resto opere importanti tra le quali i celebri nudi di accademia noti come Patroclo ed Ettore, un quadro mitologico che non parla la lingua di Mengs, dipinti religiosi dove uno studio di vecchio al naturale diventava pala d’altare, il San Rocco intercede presso la Vergine per la guarigione degli appestati (1780) e l’abbozzo del Ritratto del conte Stanislao Potocki terminato a Parigi e presentato al Salon del 1781. È stata messa inoltre in luce, per David e per Canova, della presenza in quegli anni in Italia della figura davvero illuminata di Quatremère de Quincy, che indirizzò David alla comprensione dell’antico e sostenne sempre Canova con il quale scambiava consigli e pareri. Il soggiorno di David a Roma si concluse con la presentazione, al Salon del 1781, del Belisario cieco riconosciuto da un soldato mentre chiede l’elemosina. Il quadro di David, che suscitò l’entusiasmo di Diderot, è una sapiente rielaborazione dei grandi modelli della pittura di storia, ma il suo riferimento sembra essere Poussin, tradotto su scala monumentale e memore dei potenti chiaroscuri caravaggeschi. Con Il pianto di Andromaca sul corpo di Ettore concepito ed eseguito interamente a Parigi e che gli valse nel 1783 l’ammissione all’Académie, prese le distanze dal linguaggio più morbidamente antiquario di Gavin Hamilton in favore di una scelta di maggiore sobrietà, senza nessuna concessione al patetico. Apice di questo stile severo è Il giuramento degli Orazi, realizzato nel suo secondo soggiorno romano e che ne sancì la consacrazione, a Roma come a Parigi. La critica si è interrogata recentemente sulla possibilità che i pittori nordici incontrati a Roma potessero aver influenzato David per la terribilità dell’ultimo quadro di commissione reale prima della Rivoluzione, I littori riportano a Bruto i corpi dei suoi figli (1789), che raffigura la decisione che dovette prende il fondatore della repubblica romana, condannando a morte i propri figli che avevano congiurato contro di essa. L’elaborazione del quadro è coeva ad altri di diverso tenore: Gli amori di Elena e Paride e il Ritratto dei coniugi Lavoisier tutti presentati al Salon del 1789 che fu inaugurato poco dopo la presa della Bastiglia. Lo scoppio della Rivoluzione ebbe conseguenze rilevanti nelle vicende personali di David, che sostenne con entusiasmo la causa giacobina si batté per l’abolizione dell’Accademia, ottenendo che nel 1792 venisse chiusa la sede di quella di Francia a Roma e l’anno successivo l’Académie Royale a Parigi. In questi anni arte e politica si intrecciarono nelle sue attività: ottiene l’incarico di celebrare il Giuramento della Pallacorda, il suo primo dipinto di soggetto storico contemporaneo e non esempio di antiche virtù. Dipinto contemporaneo, e di carattere tragico, è il Marat assassinato (1793), seguito l’anno dopo dalla Morte di Barra che come il Marat vede il recupero di modi ispirati addirittura alla pittura religiosa: il ragazzo, ucciso mentre sta portando un messaggio, è presentato come un piccolo martire cristiano. Tra questi due dipinti trova spazio la cruda immagine di Maria Antonietta condotta alla ghigliottina, realizzata con un segno feroce nella sua assoluta assenza di umana pietà. Si verificò in David un sostanziale mutamento stilistico intorno al 1795. Arrestato per qualche mese dopo la morte di Robespierre, intraprese l’elaborazione di un soggetto pacificatore: Ersilia, sposa di Romolo, si frappone con i propri figli tra Romolo e Tazio per chiedere la pace . Il lungo travaglio compositivo si chiuse nel 1799 e il quadro venne presentato in un’esposizione a pagamento organizzata dallo stesso David. Il grande quadro, detto Le Sabine, è innovativo e non solo per il contenuto, aspirazione alla pace che soppianta nella sua produzione la celebrazione dell’antico, ma anche il più disumano come quello di Bruto purché consumato per la patria. Il linguaggio pittorico è di grande limpidezza formale. Canova Con il Teseo (1781-83) e con la tomba di Clemente XIV, cui seguì quella del predecessore Clemente XIII nella basilica di San Pietro, Canova si rivelò nastro nascente della scultura e in un momento nel quale gli scultori apparivano impegnati a restaurare e a copiare l’antico solo per motivi legati al commercio, egli catalizzò l’attenzione come artista creatore. Canova si impose come protagonista, salutato come colui che avrebbe restituito all’Italia e alla scultura il primato dell’arte. Verso la fine del secolo, l’arrivo di Thorvaldsen e la sua prima rilevante opera pubblica, il Giasone, avrebbero suscitato altrettanto entusiasmo e indicato nel giovane danese il solo rivale di Canova. Fino ad allora la sua egemonia internazionale fu incontrastata. Era sempre ritenuto insuperabile interprete del genere grazioso.
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