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Lineamenti di Diritto Processuale Penale - Tonini 2023, Dispense di Diritto Processuale Penale

Riassunto della Parte Prima e Seconda del manuale del Tonini (da p.1-321). Non è presente il capitolo dei "Mezzi di ricerca della prova". Aggiornato alla riforma Cartabia. Anno 2023/2024

Tipologia: Dispense

2023/2024

In vendita dal 30/03/2024

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Scarica Lineamenti di Diritto Processuale Penale - Tonini 2023 e più Dispense in PDF di Diritto Processuale Penale solo su Docsity! DIRITTO PRCESSUALE PENALE – TONINI PARTE PRIMA – EVOLUZIONE STORICA DEL PROCESSO Capitolo I – Sistemi processuali La legge penale definisce i “tipi di fatto” che costituiscono reato e le sanzioni previste per coloro che li commettono. La legge processuale penale regola il procedimento tramite il quale si accerta se è stato commesso un fatto di reato, se l’imputato ne è l’autore, in caso positivo, quale pena deve essere applicata. Una volta commesso un reato, occorre accertare: le modalità del fatto, scoprire il responsabile o i responsabili e applicare le sanzioni. Questo compito aspetta allo Stato in base al diritto perchè l’uso della coercizione e della forza resta monopolio dello Stato. Il compito di acccertare se un Imputato è responsabile di un reato spetta al giudice, le modalità di svolgimento del processo sono regolate da legge in base all’art 111 cost. Il diritto processuale penale ha una funzione strumentale rispetto al diritto penale sostanzione, il giudice accerta se il fatto commesso dall’imputato (fatto storico) rientra nella fattispecie di reato previsto dalla legge penale incriminatrice (fatto tipico), in caso positivo l’imputato deve essere condannato, in caso negativo l’impuatato deve essere assolto. SISTEMA INQUISITORIO Con i termini sistema inquisitorio e sistema accusatorio ci riferiamo a “tipi ideali di processo” ossia dei modelli, sono ricavabili in astratto da alcuni caratteri reali presenti nei singoli ordinamenti processuali in determinati momenti della storia. Il sistema Inquisitorio: si basa sul principio di autorità, la verità è accertata quando il potere è dato ad un unico soggetto inquirente. In lui cumulano tutte le funzioni processuali egli è giudice, accusatore e difensore dell’impuatato. Egli ha pieni poteri di iniziativa processuale e formazione della prova, noto come giudice inquisitore, si tratta di un unico soggetto o anche un organo collegiale, quello che conta è il tipo di potere che gli viene concesso. Si crede nel cumulo delle funzioni processuali in un unico organo. Si tende a non riconoscere alcun potere alle parti. Le principali caratteristiche sono: - Iniziativa d’ufficio. L’iniziativa del processo penale spetta al giudice. - Iniziativa probatorio d’ufficio. La ricerca della prove non aspetta alle parti ma al giudice. - Segreto. L’inquisitore ricerca la verità senza la contrapposizione dialettica tra le parti. Assume le deposizioni in segreto e non ha la necessità di confrontare la sua ricostruzione della verità con le posizioni dell’accusa e difesa dell’impuatato. - Scritto. Le deposizioni raccolte dall’inquisitore sono redatte nel verbale. - Nessun limite all’ammissibilità delle prove. - La presunzine di reità. E’ sufficente aver raccolto indizi contro l’imputato o anche una denuncia anonima perchè l’impuatato sia chiamato a discolparsi. È l’impuatato che deve dimostrare la sua innocenza tramite prove, se fallisce viene condannato. - Carcerazione preventiva. Poichè l’imutato è presunto colpevole, in mancanza di prove di innocenza puo’ essere sottoposto a custodia preventiva in carcere. - Molteplicità delle impugnazioni. Una volta pronunciata sentenza, le parti possono presentare impugnazione, sulla quale decide un giudice superiore dotato di poteri inquisitori. SISTEMA ACCUSATORIO Il sistema accusatorio si basa sul princio dialettico, la verità viene accertata meglio quando le funzioni processuali sono ripartite tra soggetti che hanno interessi cotrapposti. Il giudice deve essere indipendente e imparziale, spetta dedicere sulla base di prove raccolta dall’accusa e difesa. La scelta del giudice è stimolata dalla dialetica che si svolge fra le parti. Il sistema viene definito come “separazione delle funzioni processuali” si evita che il potere possa degenerare in abusi. Caratteristiche del sistema accusatorio: - Iniziativa di parte. Il giudice non può procedere d’ufficio perchè altrimenti si dimostrerebbe parziale, l’iniziativa del processo penale deve spettare soltando alle parti. In origine il potere di azione (cioè di chiedere una decisione al giudice) aspettava ad un accusatore privato, poteva essere la persona offesa del reato o un cittadino qualunque. Oggi il potere è stato attribuito ad un organo pubblico, ossia il Pubblico ministero. - Iniziativa probatoria di parte. I poteri di ricerca, ammissione, assunzione e della valuzione della prova sono divisi e ripartiti tra il giudice, l’accusa e la difesa in modo che nessuno possa abusarne, indispensabile la regolamentazione della prova. Colui che accusa ha l’onere di ricercare le prove a convincere il giudice della reità dell’imputato. La difesa ha il potere di ricercare le prove e di convincere il giudice che l’imputato non è colpevole, o che le modalità di svolgimento del fatto addebitato devono essere ricostruite in modo diverso da quanto ha fatto l’accusa. Il giudice deve solo decidere se ammettere o meno il mezzo di prova richiesto, nel corso dell’esame deve limitarsi a valutare l’ammissibilità delle domande formulate da una parte. L’istituto che esprime il sistema accusatorio è l’esame incrociato dove le parti hanno poteri di iniziativa e il giudice poteri di controllo. - Contraddittorio. La separazione delle funzioni processuali si attua mendiante il principio del contraddittorio. Questo assicura che prima della decisione, il giudice permette alla parte interessata di sostenere le proprie ragioni, riferito alla materia della prova, fa si che ciascuna delle parti possa contribuire alla formazione della prova ponendo le domande al testimone (o altro dichiarante). Il contraddittorio adempie a 2 funzioni essenziali: tutela i diritti delle parti e costituisce una tecnica di accertamento dei fatti. Ad ogni parte deve essere data la possibilità di mettere in dubbio l’esistenza del fatto affermato dalla controparte. - Oralità. Si ha oralità in senso pieno solo quando coloro che ascoltano possono porre domande e ricevere risposte da colui che ha reso dichiarazioni. L’oralità permette di valutare in modo pieno la credibilità e l’attendibilità di un testimone (o altro dichiarante). Da ciò deriva l’esclusione, ai fini della decisione non sono utilizzabili le dichiarazioni scritte. - Limiti di ammissibilità delle prove. Qualora venga rispettato il metodo di formazione della prova l’elemento puo’ essere valutato nella sua attendibilità, quindi utile allo scopo di ricostruire l’esistenza del fatto storico. prima della decisione, il giudice permetta alle parti di sostenere le proprie ragioni (audita altera parte). Si tratta di quel significato debole del principio secondo cui il soggetto che subirà gli effetti di un provveddimento giurisdizionale, deve essere messo in grado di esporre le sue difese prima che il provveddimento stesso sia emanato. Il significato debole viene attuato quando la parte e il suo difensore conoscono i presupposti di fatto e di diritto sui quali il giudice baserà la decisione. Applicato alla prova penale il contraddittorio debole si definisce anche al contraddittorio “sulla prova”: il diritto di argomentare su una prova che si sia già formata. Parità delle parti: il comma due sancisce parità tra le parti, ma ha una portata applicativa diversa nel processo civile e in quello penale. Nel civile: è possibile attuarlo quando si ha la piena eugualianza delle armi tra attore e convenuto. Nel processo penale invece significa equilibrio di poteri. Imparzialità del giudice: “il processo si svolge davanti ad un giudice terzo e imparziale”. L’imparzialità riguarda la funzione esercitata nel processo ed impone che non ci siano legami tra il giudice e le parti. La terzietà riguarda lo status, si vuole che il giudice non cumuli altre fuzioni processuali, questo perchè la carta fondamentale ha accolto il princio della separazione delle funzioni processuali tra giudice, accusa e difesa. Ragionevole durata: ultimo principio sancito dal comma 2 la cui attenzione è rimessa al legisllatore. Si tratta del recepimento di un precetto della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, il cui mancato rispetto in Italia ha portato molteplici condanne al nostro paese da parte della Corte europea. La ragionevole durata non può compromettere le garanzie dell’imutato e la qualità dell’accertamento processuale. I commi successivi enunciano i principi che si riferiscono esclusivamente al processo penale. Il comma 3 è modellato sull’art 6 della Convenzione europea e contiene il cataologo dei diritti spettani nel processo penale alla persona accusata di un reato. La parola accusato, non ha un preciso significato tecnico e sembra riferirsi sia alla persona sottoposta alle indagini e sia all’imputato. Ma la parola processo in senso stretto pare non comprendere la fase delle indagini preliminari. Si deve attribuire volta, in volta ai due termini il significato che li rende coerenti con il tipo di diritto che viene riconosciuto. Comma 3. Conoscenza dell’accusa: “la legge assicura alla persona accusata di un reato, di essere informata, nel piu’ breve tempo possibile, riservatamente della natura e motivi dell’accusa.” Nel significato “nel piu’ breve tempo possibile” non significa immediatamente, bensì non appena l’avviso all’indagato è compatibile con l’eseginza di genuità ed efficacia delle indagini. “Riservatamente” è funzionale a prevenire divulgazioni in stava e televisione evitando che la notizia di reato possa aprire processi paralleli. Diritto di difesa: “disponga del tempo e delle condizioni necessarie per preparare la difesa”. Questa disposizione fa richiamo alle indagini difensive, l’istituto del patrocinio per i non abbienti e dei termini di difesa dell’imputato. Diritto a confrontarsi con l’accusatore: “l’imputato ha il diritto davanti al giudice di interrogare o di far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico”. La disposizione è modellata sulla convezione salvo 2 punti. Il primo, il diritto a confrontarsi deve trovare attuazione davanti al giudice e questo costituisce un importante garanzia per l’imputato. Il secondon punto la norma parla di “persone che rendono dichiarazioni a suo carico” e non di testimoni come cita la Convenizone. La variazione terminologica è necessaria per poter comprendere anche quel dichiarante che ricopre la qualifica di imputato conesso o collegato. Infine la norma utilizza la locuzione “far interrogare” senza precisare chi sia il soggetto che svolge l’esame, la disposizione è idonea a ricomprendere ipotesi in cui l’esame è condotto dal giudice, a mezzo del quale le parti possono porre domande al dichiarante. Diritto alla prova: all’imputato è riconsciuto “il diritto di ottenere la convocazione e l’interrogazione di persone a sua difesa, nelle stesse condizioni dell’accusa e l’acquisizione di ogni altro mezzo di prova a suo favore”. La prima parte rinosce il diritto alla prova, per la seconda parte le prove richieste dall’imputato devono comunque superare il vaglio giudiziale di ammisibilità. Diritto all’interprete: il diritto a farsi assistere da un interprete se l’imputato non comprende la lingua o non parla la lingua utilizzata nel processo. La convenizone sottoliena gratuitamente. Nei commi 3 e 4 dell’art 111 cost è affermato il principio del contraddittorio forte in relazione alla materia della prova. Il principio ha due significati diversi perchè la norma include sia l’aspetto oggettivo e soggettivo. Contraddittorio in senso oggettivo: è sancito dal comma 4, si tratta del contraddittorio nella formazione della prova come metodo di conoscenza. “Il processo penale è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova”. La dottrina lo definisce con la locuzione “per la prova” poichè il contraddittorio opera nel momento in cui la prova si forma. Una prova per essere attendibile non si ottiene in segreto unilateralmente, ma in modo dialettico, e fa riferimento allo strumento dell’esame incrociato. Contraddittorio in senso soggettivo: Ha 2 significati, il primo il diritto all’imputato di confrontarsi con l’accusatore previsto dal comma 3 “L’imputato ha il diritto di interrogare o far interrogare persone che rendono dichiarazioni a suo carico”. Il secondo è quello enunciato dal comma 4: “la colpevolezza dell’imputato non puo’ esseren provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta si è volutamento sottratto all’interrogatorio da parte dell’imputato o dal suo difensore”. Il diritto a confrontarsi trova la sua sanzione attraverso l’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese da si è sotratto dal contraddittorio. Le eccezioni al contraddittorio: comma 5 pone 3 eccezioni: La prova è utilizzabile anche se si è formata fuori dal contraddittorio per: - Consenso dell’imputato - L’accertata impossibilità di natura oggettiva - Per effetto di provata condotta illecita Consenso dell’imputato: il 5 comma dell’art 111 cost legittima al legislatore ordinario a prevedere ipotesi nelle quali il consenso dell’imputato, unito ad altri presupposti, porta a una acquisizione di elementi di prova formati unilaterlamente. Le norme devono essere configurate in maniera tale da assicurare uno svolgimento equilibrato del processo, evitando che la rinuncia del contraddittorio da parte dell’imputato possa pregiudicare la correttezza della decisione.Il consenso dell’ imputato opera nei procedimenti che non prevedono la fase del dibattimento. Nel giudizio abbreviato, patteggiamento e nel decreto penale di condanna, l’imputato rinuncia al contraddittorio e permette al giudice di utilizzare le prove acquisite in modo unilaterale nel corso delle indagini. I diritti dell’imputato e le esigenze di giustizia sono soddisfatti in quanto il principio di ragionevole durata del processo è un valore espressamente riconosciuto dall’art 111 cost cm2. Occore sottolineare che il consenso dell’imputato a solo l’effetto di rendere utilizzabili prove raccolte in modo unilaterale, non costituisce un divieto per il giudice di valutare quelle prove. Infatti qusto può rigettare la richiesta del singolo procedimento semplificato quando ritiene che non esista una base probatoria necessaria, e nel rito abbreviato può disporre d’ufficio che siano assunte nuove prove (art 441 cm5 cpp). Inoltre tramite l’istituto dell’acquisizione concordata le parti concordano che i verbali di determinati atti, contenuti nel fascicolo del PM, sono acquisiti al fascicolo per il dibattimento e diventano utilizzabili tramite lettura. L’accordo non costituisce un vincolo per il giudice che può disporre anche d’ufficio l’escussione dibattimentale della prova introdotta in modo consensuale (art 507 cm.1bis). L’accertata impossibilità di natura oggettiva: la seconda deroga al principio del contraddittorio nella formazione della prova è consentita in caso di accertata impossibilità di natura oggettiva. La formulazione è generica perchè non specifica quando si tratta di una ipotesi di non ripetibilità dovute a cause imprevedibili. Il termine oggettiva allude a quelle cause indipendenti dalla volontà di taluno, che sembrano assimilabili a situazioni di forza maggiore. Pare che l’ambito applicativo della disposizione sia limitata alle situazioni di non ripetibilità originaria o sopravvenuta ( es: macchia di sangue esposta alla poggia, morte o grave infermità del dichiarante). Occorre che in natura non sia possibile assumere in contraddittorio quell’elemento di prova. L’impossibilita’ non deve apparire a sorpresa per la prima volta nella motivazione della sentenza, ma deve essere oggetto di prova e di discussione tra le parti. Sul punto deve esserci un apposito provveddimento incidentale del giudice. Il contraddittorio viene recuperato nello specifico dibattimento sull’esistenza del requisito dell’impossibilità oggettiva e nella valutazione sull’attendibilità dell’elemento di prova raccolto in modo unilaterale. La provata condotta illecita: il cm 5 si riferisce a comportamenti contrari al diritto, finalizzati ad indurre il dichiarante a sottrarsi al contraddittorio, succede quando il metodo del contraddittorio è inquinato, il processo deve far ricorso al metodo alternativo che consiste nella utilizzabilità delle precedenti dichiarazioni, (es il testimone viene minacciato). Riforma Cartabia In data 30 dicembre 2022 è entrato in vigore il Decreto - Legislativo del 10 ottobre 2022, n. 150, che modifica profondamente la normativa relativa al procedimento penale. In particolare, le riforma del sistema processuale penale è finalizzata a ridurre i tempi di trattazione dei procedimenti penali per rispettare gli impegni assunti dall’Italia in relazione al PNRR, ossia la riduzione entro il 2026 del 25% della durata media del processo penale nei tre gradi di giudizio. In particolare, le principali novità normative sono le seguenti: 1. ampliamento del regime di procedibilità a querela di parte: alcuni reati contro la persona (come, ad esempio, il reato di lesioni personali stradali gravi o gravissime, nell’ipotesi non aggravata, o il reato di lesioni personali, anche lievi), alcuni delitti contro il patrimonio (come, ad esempio, la truffa aggravata dal danno patrimoniale di rilevante gravità), nonchè altri processo penale deve essere troncato ed il giudice è obbligato, una volta ritenuta ammissibile l’impugnazione, a dichiarare la improcedibilità dell'azione penale. Questa parte della riforma Cartabia è entrata in vigore il 19 ottobre 2021 e concerne soltanto i reati commessi dal 1° gennaio 2020, e cioè dopo l'entrata in vigore della legge n. 3 del 2020 che ha eliminato la prescrizione in appello e in cassazione. Fino alla sentenza di primo grado il tradizionale istituto della prescrizione resta in vigore. Una volta pronunciata tale decisione, i tempi del processo saranno scanditi dal diverso istituto della improcedibilità dell’azione (art. 344-bis c.p.p.): l’istituto in oggetto, dal punto di vista sistematico, è stato collocato nel codice di procedura tra le condizioni di procedibilità. Dal meccanismo dell’improcedibilità, tuttavia, sono esclusi i reati imprescrittibili, e cioè quelli puniti con l’ergastolo anche come effetto dell’applicazione di circostanze aggravanti (art. 344-bis, comma 9 c.p.p., introdotto dall’art. 2, comma 2. I termini massimi per i giudizi di appello e di cassazione (art. 344-bis, comma 3 c.p.p., introdotto dall’art. 2, comma 2, legge n. 134) decorrono dal novantesimo giorno successivo al termine per il deposito della motivazione della sentenza impugnata o dal termine eventualmente prorogato (artt. 544 c.p.p.; 154 att.). La improcedibilità scatta in caso di mancata definizione del giudizio di appello entro il termine di due anni (comma 1), estesi a tre se l'impugnazione sarà proposta entro il 31 dicembre 2024. Parimenti, la improcedibilità scatta in caso di mancata definizione del giudizio di cassazione entro il termine di un anno (comma 2), esteso ad un anno e sei mesi se l'impugnazione sarà proposta entro il 31 dicembre 2024. Occorre segnalare che l’improcedibilità non può essere dichiarata quando l’imputato chiede la prosecuzione del processo (art. 344-bis, comma 7). Analogamente a quanto avviene per l’istituto della prescrizione del reato, l’imputato assolto in primo grado o in appello può rinunciare all’improcedibilità sperando di ottenere una pronuncia che confermi l’assoluzione, e quindi una decisione di merito; l’imputato condannato può rinunciare all’improcedibilità sperando di ribaltare la condanna con un’assoluzione. Le proroghe dei termini massimi. È ammessa una prima proroga con ordinanza motivata da parte del giudice che procede, quando il giudizio di impugnazione è particolarmente complesso in ragione del numero delle parti o delle imputazioni o del numero o della complessità delle questioni di fatto o di diritto (comma 4). La proroga concessa non può essere superiore ai seguenti termini: un anno nel giudizio di appello e sei mesi in quello di cassazione. Il totale, quindi, è di 4 anni per il giudizio di appello proposto fino a tutto il 2024 (che diventeranno 3 anni a regime) e di 2 anni per il giudizio di cassazione proposto fino a tutto il 2024 (che diventerà 1 anno e 6 mesi a regime). Nell’insieme il termine complessivo per le impugnazioni proposte fino al 2024 è di 6 anni (che diventeranno a regime 4 anni e 6 mesi). Contro l’ordinanza che dispone la proroga del termine l’imputato e il suo difensore possono proporre ricorso per cassazione, a pena di inammissibilità, entro cinque giorni dalla lettura dell’ordinanza o, in mancanza, dalla sua notificazione. Il ricorso non ha effetto sospensivo (comma 5). Ulteriori proroghe per reati gravi. Ulteriori proroghe (senza numero massimo, quindi senza un limite prefissato) possono essere disposte, per le ragioni e per la durata indicate sopra, quando si procede per i seguenti delitti: - delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordinamento costituzionale, per i quali la legge stabilisce la pena della reclusione non inferiore nel minimo a cinque anni o nel massimo a dieci anni; - delitti di cui ai seguenti articoli del c.p.: 270, co. 3 (ass. sovversive disciolte); 306, co. 2 (partecipazione a banda armata); 416-bis (associazione mafiosa); 416-ter (scambio elettorale politico-mafioso); 609-bis (violenza sessuale aggravata nelle ipotesi di cui all’art. 609-ter), 609- quater (atti sessuali con minorenne) e 609-octies (violenza sessuali di gruppo); - delitto di cui all’art. 74 dpr n. 309 del 1990 (associazione per traffico stupefacenti); - delitti aggravati ai sensi dell’art. 416-bis.1, co. 1 c.p. (e cioè i delitti commessi avvalendosi del metodo mafioso o agevolando l’associazione mafiosa); ma per questi i periodi di proroga non possono superare complessivamente tre anni nel giudizio di appello e un anno e sei mesi nel giudizio di cassazione (3 ). Cause di sospensione. I termini di cui ai commi 1 e 2 (e cioè relativi all'appello e alla cassazione) sono sospesi, con effetto per tutti gli imputati nei cui confronti si sta procedendo, nei casi previsti dall'art. 159, comma 1 c.p. (impedimento di parti e difensori) e, nel giudizio di appello, anche per il tempo occorrente per la rinnovazione della istruzione dibattimentale (con un massimo di 60 gg.; comma 6). Quando è necessario procedere a nuove ricerche dell’imputato, ai sensi dell'art. 159 c.p.p. per la notificazione del decreto di citazione per il giudizio di appello o degli avvisi che devono precedere il giudizio di cassazione (di cui all'art. 613, comma 4), i termini di durata del giudizio di appello e di cassazione (di cui ai commi 1 e 2 dell’art. 2) sono altresì sospesi, con effetto per tutti gli imputati nei cui confronti si sta procedendo, tra la data in cui l’autorità giudiziaria dispone le nuove ricerche e la data in cui la notificazione è effettuata (art. 344-bis, comma 6 c.p.p., come introdotto ex art. 2, comma 2, lett. a, legge n. 134 del 2021). Cenni sulla successione delle norme processuali nel tempo In più occasioni il Parlamento è intervenuto con nuove leggi apportando modifiche alle norme del Codice di procedura penale: in tutte queste situazioni si pone il problema inerente alla disciplina da applicare ai procedimenti pendenti nel momento in cui si verifica la successione tra norme. Anzitutto è opportuno chiarire che, in caso di successione nel tempo di norme processuali penali, possono darsi due situazioni differenti: può accadere che la nuova legge rechi una disciplina apposita, ma può altresì accadere che la nuova legge taccia in proposito, e allora occorrerà fare riferimento ai princìpi generali. Nell’ipotesi che la legge predisponga una apposita disciplina per i rapporti giuridici pendenti al momento della sua entrata in vigore è possibile fare una distinzione. La nuova legge puo’ dettare norme intemporali o norme transitorie. Le norme intertemporali: non regolano direttamente la materia interessata dalle norme che si sono succedute, bensì indicano il criterio in base al quale si individua la disciplina per il caso concreto. Detto altrimenti, si tratta di norme che disciplinano l’applicazione di altre norme. Una norma intertemporale si limita ad individuare, nell’àmbito dei rapporti pendenti, quali tra di essi saranno regolati dalla nuova disciplina e quali, invece, resteranno sotto il regime della disciplina previgente. le disposizioni transitorie: sono “norme materiali di diretta applicazione” che regolano le situazioni giuridiche coinvolte nella successione di leggi e recano una disciplina speciale per il caso concreto, di solito intermedia tra quella contenuta nella nuova legge e quella dettata dalla normativa abrogata. Cosi’ se una disposizione stabilisce che ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della legge si applichi una disciplina intermedia tra quella abrogata e quella nuova, si tratta di una norma transitoria. Il principio tempus regit actum: è la diversa situazione nella quale la nuova legge non rechi alcuna previsione circa i rapporti giuridici pendenti al momento della sua entrata in vigore. Vale il principio di irreotrattività sancito dall’11 disp. prel. c.c. {Efficacia della legge nel tempo: «La legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo. I contratti collettivi di lavoro possono stabilire per la loro efficacia, una data anteriore alla pubblicazione, purché non preceda quella della stipulazione»}, che viene considerato uno dei princìpi generali, validi in tutte le branche dell’ordinamento giuridico. Ai sensi dell’11 disp. prel. c.c. «la legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo». Si tratta di una disposizione di tipo intertemporale, alla luce della partizione sopra prospettata. Essa può esser letta sotto due profili simmetrici: da un lato, sancisce l’efficacia immediata della nuova disciplina; dall’altro, ne prevede la irretroattività. La norma appena esposta, riportata alla materia processuale, è condensata nel brocardo latino tempus regit actum. Con “actus” può forse correttamente intendersi ciascun atto o fatto processuale, nonché i relativi effetti; per “tempus”, conseguentemente, dovrà intendersi il momento nel quale l’atto si è perfezionato. Pertanto dovrà ritenersi che gli atti i cui effetti si siano ormai esauriti saranno regolati dalla disciplina previgente; gli atti ancora da compiere saranno regolati dalla nuova disciplina; gli atti complessi, non ancora perfezionati, ricadranno sotto la nuova disciplina. Effettuate queste precisazioni sul piano generale, un discorso a parte deve svolgersi in merito al procedimento probatorio. In passato, la giurisprudenza riteneva che la valutazione della prova dovesse essere disciplinata dalle norme vigenti al momento dell’assunzione della stessa. Le Sezioni unite della Cassazione viceversa hanno sottolineato che il procedimento probatorio è plurifasico e, pertanto, si compone di una pluralità di atti (ricerca, ammissione, assunzione e valutazione) tra di loro autonomi quanto ad efficacia. Pertanto il giudice in camera di consiglio dovrà applicare la disciplina vigente al momento della valutazione della prova, anche se tale disciplina è diversa da quella che vigeva al momento dell’assunzione: così, potrà accadere che il giudice debba applicare un divieto probatorio di nuovo conio e non possa utilizzare elementi che pure erano stati legittimamente acquisiti al momento dell’assunzione. Le fonti internazionali del diritto processuale penale Tra le fonti del diritto processuale penale, il diritto internazionale ha sempre assunto una particolare rilevanza per vari motivi. In primo luogo, per una ragione di carattere storico, perché al momento della redazione del codice il Parlamento ha vincolato il Governo ad adeguarsi alle <norme delle convenzioni internazionali ratificate dall’Italia e relative ai diritti della persona e al processo penale (art.2 legge-delega n. 81 del 1987). In secondo luogo, la rilevanza ha un riscontro diretto nel diritto positivo, perché nella materia dei rapporti giurisdizionali con autorità straniere (es. estradizione) il codice sancisce il principio della prevalenza delle Convenzioni e del diritto internazionale generale sulle norme previste dal libro undicesimo (art 696 c.p.p.). Molti anni è rimasta aperta la questione, di carattere generale, della collocazione che deve essere attribuita al diritto internazionale pattizio nel sistema delle fonti. Soltanto nel 2007 la problematica ha trovato un punto fermo nella soluzione che è stata offerta dalle sentenze costituzionali nn. 348 e 349. con la nostra Carta fondamentale, la Corte costituzionale provvede “ad espugnarla dall’ordinamento giuridico italiano” considerando la norma pattizia non idonea “a integrare il Parametro di legittimità ai sensi dell’art 117, comma 1 Cost”. I margini interpretativi del giudice italiano di fronte ai principi espressi dalle sentenze CEDU. Con la sentenza n. 49 del 2015 la Consulta ha affermato che anche le sentenze della Corte EDU debbono essere assoggettate alla interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente conforme, se di tali decisioni “non si è in grado di cogliere con immediatezza l’effettivo principio di diritto che il giudice di Strasburgo ha inteso affermare per risolvere il caso concreto”. Solo quando si trovi in presenza di un “diritto consolidato” o di una “sentenza pilota” il giudice italiano sarà vincolato a recepire la norma individuata a Strasburgo, adeguando ad essa il suo criterio di giudizio per superare eventuali contrasti rispetto ad una legge interna, anzitutto per mezzo di “ogni strumento ermeneutico a sua disposizione”; oppure, se ciò non fosse possibile, ricorrendo all’incidente di legittimità costituzionale Effetti delle sentenze di condanna pronunciate dalla Corte edu L’obbligo a conformarsi alle sentenze della Corte edu: La CEDU impegna gli stati parte della convenzione a conformarsi alle sentenze definitive della corte emesse nei loro confronti, se lo stato viola la convenzione o i suoi protocolli e se il diritto interno dello stato non consente di rimuovere del tutto le conseguenze di tale violazione, la corte accorda un’equa soddisfazione alla parte lesa. Riapertura del processo come “restituzione in pristino”: la finalità della misure individuali che lo stato convenuto è tenuto a porre in essere è stata individuata dalla Corte europea nella “restituzione in pristino” in favore dell’interessato. Con riguardo alle violazioni della Convenzione commesse dalle autorità statali nel corso di un processo penale, la Corte ritiene che rimedio idoneo ad assicurare la restituzione in pristino consista nella riapertura del processo tale da consentire il recupero delle garanzie in precedenza negate. Cio’ accade in particolar modo nei casi in cui si accerta la violazione delle regole del giusto processo stabilite da art 6 cedu. La sentenza costituzionale del 2011: Il giudice delle leggi ha ritenuto che in Italia mancasse un rimedio generale che consentisse la restituzione in pristino nel caso di violazione delle garanzie di diritto sostanziale e processuale riconosciute dalla convenzione (art 6cedu), l’assenza di tale struemento nel nostro sistema processuale è apparsa in contrasto con la costituzione, integrata da norme della cedu, cosi’ come interpretata dalla Corte di Strasburgo. La riforma cartabia con decreto leglistativo n.150 del 2022 ha introdotto nel cpp il nuovo art 688-bis “richesta per l’eliminazioni degli effetti pregiudizievoli delle decisioni adottate in violazione della convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali o dei protocolli addizionali”. PARTE SECONDA – PROFILI GENERALI DEL PROCEDIMENTO PENALE Capitolo I I soggetti del procedimento penale Procedimento e processo. Il processo penale ha lo scopo di accertare: - Se una determinata persona ha commesso reato - Quale è la personalità dell’autore del reato - Quali sono le sanzioni che devono essergli applicate Il processo penale ha una funzione strumentale rispetto al diritto penale sostanziale, nel senso che è veicolo necessario per applicare la legge penale, quest’ultima indica i fatti che costituiscono il reato e la sanzioni previste. Il fine del processo penale è quello di accertare i fatti storici che costituiscono il reato, di identificare gli autori e di conoscere la personalità di questi ultimi. Lo scopo del processo penale consiste nell’accertare se tale fatto costituisce reato e, nel caso positivo, nell’applicare una sanzione a chi lo ha commesso. L’accertamento del fatto e l’individuazione del suo autore servono solo per valutare se e quali sanzioni penali devono essere irrogate. L’accertamento della personalità dell’autore del reato è reso necessario dalla caratteristica che distingue la sanzione penale essa è proporzionata alla personalità dell’autore del fatto illecito, oltre che alla gravità dell’offesa arrecata al bene tutelato dalla norma incriminatrice. Se la sanzione penale ha unicamente una funzione “retributiva”, l’esecuzione della stessa può essere affidata alla p.a. e il processo si disinteressa di questo momento. Viceversa, se la pena ha, fra le sue molteplici funzioni, anche quella rieducativa, è indispensabile che un giudice accerti l’evoluzione della personalità del reo in sede esecutiva. Tale accertamento serve a valutare quale misura alternativa alla sanzione detentiva siano applicabili, in generale ha lo scopo di modificare il contenuto della pena in relazione al grado di socializzazione manifestato dal condannato. L’azione penale. “Procedimento” e “processo” non sono sinonimi. Il procedimento penale indica una serie cronologicamente ordinata di atti diretti alla pronuncia di una decisione penale, ciascuno dei quali, fa sorgere il dovere di porre in essere il successivo ed, al contempo, è esso stesso realizzato in adempimento di un dovere posto dal suo antecedente. Nel concetto di procedimento penale sono ricompresi almeno due elementi fondamentali: in primo luogo, la legge prevede una “serie cronologicamente ordinata” di atti, nel senso che gli stessi devono essere compiuti rispettando una determinata sequenza temporale. In secondo luogo, tutti gli atti del procedimento hanno la finalità di accertare l’esistenza di un fatto penalmente illecito e la sua attribuibilità ad una persona. In terzo luogo, il compimento di un atto del procedimento fa sorgere in un altro soggetto il “dovere” di compiere un atto successivo, fino alla decisione definitiva. Quest’ultima potrà essere una sentenza di condanna o di proscioglimento, se viene percorsa l’estensione massima del procedimento; oppure, sarà un decreto (o un’ordinanza) di archiviazione, se il procedimento si arresta prima che venga formulata un’imputazione. Il procedimento penale è diviso in tre fasi: le indagini preliminari, l’udienza preliminare ed il giudizio. Il processo penale. L’espressione processo penale indica una porzione del procedimento penale. Fanno parte del “processo” le fasi dell’udienza preliminare e del giudizio. Il momento iniziale del processo corrisponde all’esercizio dell’azione penale, il momento finale si ha quando la sentenza diventa irrevocabile, e cioè, in sintesi, non più impugnabile perché nessuna parte ha presentato ricorso nei termini o perché tutte le impugnazioni ordinarie sono state esperite. Con l’espressione “in ogni stato e grado del processo” si intende escludere un periodo meramente procedimentale, e cioè la fase delle indagini preliminari. Con l’espressione “in ogni stato e grado del procedimento” si intende ricomprendere sia le indagini sia il processo. Col termine “grado” si vuole indicare se il giudice prende cognizione dell’oggetto sul quale deve decidere in primo esame ovvero in appello o in sede di ricorso per cassazione. Col termine “stato” si vuole indicare una fase del procedimento; nel procedimento ordinario si susseguono nell’ordine le seguenti fasi: indagini preliminari, udienza preliminare, giudizio. L’azione penale. È correlata a quella di processo penale, con l’espressione processo penale si fa riferimento a quella serie cronologicamente ordinata e necessaria di atti che ha come atto iniziale l’azione penale. L’azione penale è la richiesta, diretta al giudice, di decidere sull’imputazione. Ai sensi dell’art 405 cpp comma I, nel procedimento ordinario il p.m. esercita l’azione penale quando chiede il rinvio a giudizio dell’imputato. La richiesta è rivolta al giudice e contiene la formulazione dell’imputazione. Nei procedimenti speciali, che eliminano l’udienza preliminare, l’azione penale è esercitata quando il pubblico ministero formulando l’imputazione nell’atto che instaura il singolo procedimento: ad esempio nel giudizio direttissimo il p.m. contesta l’imputazione all’imputato che sia stato condotto direttamente in udienza (art 451 cm 4). L’imputazione. L’imputazione consiste nell’addebitare ad un determinato soggetto un fatto di reato, nel procedimento oridario l’imputazione è formulata dal Pm al termine delle indagini preliminari. Gli elementi dell’imputazione sono indicati dall’art 417 c.p.p.: a) le generalità dell’imputato o le altre indicazioni personali che valgono a identificarlo nonché le generalità della persona offesa dal reato qualora ne sia possibile l’identificazione; b) l’enunciazione, in forma chiara e precisa, del fatto, delle circostanze aggravanti e di quelle che possono comportare l’applicazione di misure di sicurezza, con l’indicazione dei relativi articoli di legge; c) l’indicazione degli articoli di legge che si ritiene violati L’esercizio dell’azione penale determina due effetti: in primo luogo, pone al giudice l’obbligo di decidere su di un determinato fatto storico. In secondo luogo, fissa in modo tendenzialmente immutabile l’oggetto del processo, e cioè impone al giudice il divieto di decidere su di un fatto storico differente da quello precisato nell’imputazione (salve le eccezioni descritte negli artt. 516- 521). Nei procedimenti speciali che omettono l’udienza preliminare l’azione penale è esercitata con quell’atto introduttivo del singolo procedimento col quale è precisata l’imputazione. Non ha la natura di imputazione l’addebito provvisorio che è formulato dal p.m. nel corso delle indagini; ad esempio, quando nell’interrogatorio il p.m. contesta all’indagato il fatto che gli viene addebitato (65: Interrogatorio nel merito). L’ordine giudiziario. La costituzione nell’art 104 utilizza il termine ordine giudiziario e non potere giudiziario riferendo alla magistratura. La carta fondamentale vuol far comprendere che la magistratura non partecipa alla funzine di indirizzo politico, la sua attività ha una prevalente funzione di garanzia. Quando la costituzione afferma che la magistratura è autonoma e indipendete da ogni altro potere, riconosce implicitamente che la stessa è un potere dello stato. In caso di colflitti con altri poteri dello stato, come esecutivo o legislativo sono risolti dalla corte costituzionale ai sensi dell’art 134 cost. L’indipendenza di tutti i magistrati è garantita dalla costituzione attraverso un apposito organo ossia il Consiglio Superiore della magistratura che ha il compito di provvedere alle assunzioni,trasferimenti, promozioni e provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati. Il consiglio è eletto per due terzi dai magistrati ordinari e per un terzo dal parlamento in seduta comune tra professori ordinari in materie giuridiche e avvocati con 15 anni di servizio. La caratteristica dell’indipendenza la distingue dagli altri poteri dello stato. L’indipendenza e l’imparzialità. Il potere giudiziario ha la funzione di emanare sentenze, e cioè di applicare la legge al caso concreto. In base alla Costituzione (101.2: «I giudici sono soggetti soltanto alla legge»), il giudice è soggetto soltanto alla legge e non ad altra fonte (ad es. un atto amministrativo). L’indipendenza del giudice (sia come potere giudiziario, sia come persona fisica) è garantita dalla Costituzione attraverso un apposito organo, e cioè il Consiglio superiore della magistratura (104). L’imparzialità del giudice è stabilita dal nuovo comma II del 111 Cost., in base al quale ogni processo si svolge davanti a giudice terzo e imparziale. In determinate situazioni nelle quali il giudice è (o può apparire) “parziale”, egli ha il dovere di astenersi; se non lo fa, le parti possono ricusarlo (36 e 37 c.p.p. Ricusazione). Quando una grave situazione locale può pregiudicare la libertà di determinazione delle persone che partecipano al processo o l’imparzialità dell’intero ufficio giudicante territorialmente competente, il processo stesso è rimesso ad un altro ufficio giudicante predeterminato dalla legge (45: Casi di rimessione). Non esistono controlli esterni al potere giurisdizionale per l’ovvio motivo che, altrimenti, questo non sarebbe più indipendente: i controlli sono previsti all’interno dello stesso potere giurisdizionale. Giusto processo. Nel testo della Costituzione le norme sulla “giurisdizione” contengono al loro interno quelle sul “giusto processo”: non può esservi giurisdizione senza giusto processo. Non è sufficiente che la Costituzione garantisca un giudice indipendente da altri poteri dello Stato: occorre anche che sia garantito lo svolgimento della sua funzione. Elementi indefettibili del giusto processo sono il contraddittorio (nel senso di audiatur et altera pars), la parità delle parti, l’imparzialità del giudice e la ragionevole durata (111 Cost.) La competenza per materia e per funzione Si può definire competenza quella parte della funzione giurisdizionale che è svolta da un determinato organo giudiziario: in tal senso, la competenza è distribuita in base ai criteri della materia (il titolo di reato), del territorio (il luogo in cui si è commesso il reato), della funzione (che deve essere svolta in una determinata fase o grado del procedimento e della eventuale connessione con gli alti procedimenti) e della connessione. La competenza per materia è a sua volta ripartita in base a due criteri: uno qualitativo (con riferimento al tipo di reato), l’altro quantitativo (relativo alla pena edittale). Quando la legge utilizza quest’ultimo criterio, occorre tenere presenti le regole generali dettate dal 4. In base ad esse, per determinare la competenza si ha riguardo alla pena massima stabilita dalla legge per ciascun reato consumato o tentato. Non si tiene conto della continuazione e della recidiva. Non si tiene conto delle circostanze, fatta eccezione delle aggravanti per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato (ad es. ergastolo rispetto a reclusione) e di quelle circostanze che il codice penale denomina “ad effetto speciale” (63 c.p.: Applicazione degli aumenti o delle diminuzioni di pena) in quanto comportano un aumento della pena superiore ad un terzo. La competenza per materia si ripartisce tra la Corte d’assise, il Tribunale per i minorenni, il Giudice di pace ed il Tribunale. Il Tribunale per i minorenni (composto da due giudici togati e da due esperti in psicologia, pedagogia e materie analoghe, nominati con decreto del Capo dello Stato su proposta del Ministro della Giustizia, previa deliberazione del Consiglio Superiore della magistratura) è competente per i reati commessi dai minori degli anni 18. Per stabilire la competenza del tribunale dei minori si deve prendere in considerazione l’eta che aveva l’imputato all’epoca dei fatti addebbitati. Questa competenza è esclusiva: la cognizione resta attribuita al Tribunale per i minorenni anche se il minore ha commesso un reato che sarebbe di competenza della Corte d’assise, del Tribunale o del Giudice di pace. Inoltre, se il minore ha commesso un reato insieme ad adulti, per lui la competenza resta radicata nel Tribunale per i minorenni. I reati commessi da persone adulte, la competenza per materia è ripartita tra la Corte di assise e il Giudice di Pace, il Tribunale ha di regola una competenza residuale , salvo determinati reati espressi da legge. Alla Corte d’assise (giudice collegiale composto da due giudici di carriera e sei giudici popolari) è attribuita la competenza a giudicare i più gravi fatti di sangue ed i più gravi delittipolitici. Il Giudice di pace è un giudice monocratico (singolo giudice), la persona che svolge le funzioni di giudice di pace è nominata a tempo determinato. L’elenco dei reati è riporatata dal decreto leglislativo del 2000, si tratta per la maggiorn parte di reati che costituiscono situazioni di microconflittualità individuale. In generela il criterio per la determinazione della competenza è costituito dalla tenuità della sanzione e dalla semplicità dall’accertamento. Da tale decreto art 4, la competenza del giudice di pace si distinguono in reati procedibili a querela e reati procedibili d’ufficio. Nei reati procedibili a querela attribuiti al Giudice di pace, merita ricordare le percosse, l’ingiuria, la diffamazione, la minaccia semplice, i furti lievi. Tra i reati procedibili d’ufficio è opportuno menzionare la somministrazione di bevande alcoliche a minori o infermi di mente, gli atti contrari alla pubblica decenza , l’inosservanza dell’obbligo di istruzione elementare dei minorenni. Il tribunale organo composto da magistrati in carriera, competente a giudicare quei reati, che non appartengono alla competenza della Corte D’assise ne dal giudice di pace. Oltre a questa competenza si puo’ definire residuale, il tribunale ha una competenza qualitativa a giudicare reati che sono previsti in modo specifico da norme di legge e che presuppongono che il magistrato giudicante conosca materie tecniche o complesse (es reati commessi a mezzo di cinema, stampa, radio). A seguito di legge 1999 e legge del 2000, le attribuzioni del tribunale in composizione collegiale e monocratica risulatano ripartite in questa maniera: Il Tribunale in composizione collegiale (cioè formato da tre giudici) conosce i reati puniti, anche nelle ipotesi di tentativo, con una pena detentiva superiore nel massimo a 10 anni, ma inferiori a 24 anni, purché non siano di competenza della Corte d’assise. Sono attribuiti al Tribunale collegiale, di regola, anche i reati commessi dai pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione. Il Tribunale in composizione collegiale conosce altresì di tutti i reati previsti dal Codice civile in materia di società e di consorzi. Tra le attribuzioni del collegio rientrano poi i reati riconducibili all’associazione a delinquere, reati in materia di aborto ecc. Al Tribunale in composizione monocratica (cioè composto da un solo giudice) è attribuita la cognizione dei delitti di produzione e traffico illecito di sostanze stupefacenti. Inoltre il Tribunale in composizione monocratica giudica dei reati puniti con pena detentiva fino a 10 anni nel massimo, purché non siano di competenza del Giudice di pace. La competenza funzionale è la comptetenza a svolgere determinati procedimenti o particolari fasi del procedimento o a compiere determinati atti. Ad esempio nei procedimenti per reati di competenza della Corte D’assise o del tribunale, gli atti giurisdizionali, che devono essere compiuti nella fase delle indagini prliminari, sono attribuiti alla competenza funzionale del giudice per le indagini preliminari incaricato presso il tribunale. Ancora a competenza a giudicare sull’appello, proposto contro le sentenze di primo grado dalla carte d’assise e dal tribunale, spetta rispettivamente alla corte d’assise di appello e alla corte di appello. La competenza per territorio La competenza per territorio è determinata dal luogo nel quale il reato è stato consumato: in tale luogo le prove sono raccolte con maggiore facilità e rapidità. Sono previste alcune eccezioni, ispirate dalla medesima giustificazione. «Se si tratta di fatto dal quale è derivata la morte di una o più persone, è competente il giudice del luogo in cui è avvenuta l’azione o l’omissione» (8.2). «Se si tratta di reato permanente, è competente il giudice del luogo in cui ha avuto inizio la consumazione, anche se dal fatto è derivata la morte di una o più persone» (8.3). «Se si tratta di delitto tentato, è competente il giudice del luogo in cui è stato compiuto l’ultimo atto diretto a commettere il delitto» (8.4). Le regole suppletive, l’art 9 prevede alcune regole suppletive nei casi nei quali la competenza non può essere determinata in base alle regole generali, sono singole leggi speciali che prevedono criteri di determinazione della competenza per territorio diversi dal luogo nel quale il reato è stato consumato (es in tema di diffamazione mediante trasmissione radio, il foro competente è determinato dal luogo di residena della persona offesa). Il procedimento nei confronti di un magistrato. Un’importante deroga alle norme ordinarie sulla competenza territoriale è prevista nei procedimenti in cui un magistrato (giudice o p.m.) assume la qualità di imputato, indagato, persona offesa o danneggiata dal reato, quando in base alle regole ordinarie tali procedimenti sarebbero attribuiti alla competenza di un ufficio giudiziario compreso nel distretto di Corte d’appello nel quale il magistrato esercita le sue funzioni, ovvero le esercitava al momento del fatto. In base all’11 la competenza è attribuita al giudice competente per materia e che ha sede nel capoluogo del distretto di Corte d’appello individuato dalla Tabella A annessa alla legge 420/1998 (guarda libro p.44). Tale regola vale anche in caso di procedimenti connessi a quelli in cui un magistrato assume la qualità di imputato,indagato, persona offesa o danneggiata dal reato (11.3). Nei casi menzionati lo spostamento di competenza per territorio ha lo scopo di assicurare l’imparzialità dell’organo giudicante. La legge di riforma introduce un identico meccanismo di spostamento della competenza anche per i procedimenti in materia di responsabilità civile dei magistrati e per le cause civili nelle quali un magistrato sia parte. rifiutano di prendere cognizione del medesimo fattoa ttribuito alla medesima persona, ritendo la propria incompetenza. Il conflitto puo’ sorgere in ogni stato e grado del processo. Puo’ essete denunciato dal pm o dalle parti private, ma puo’ anche essere rivelato d’ufficio da uno dei giudici. L’ordinanza che rileva l’esistenza del conflitto è trasmessa alla corte di cassazione. Ne la denuncia o l’ordinanza hanno effetto sospensivo sui procedimenti in corso. La corte di cassazione decide in camera di consiglio con sentenza e inidica quale giudice è competente a procedere. La decisione della corte è vincolante, salvo che risultino nuovi fatti che determinino la competenza di un giudice superiore. La dichiarazione di incompetenza L’inosservanza delle disposizioni che regolano le competenza comporta che il giudice dichiari la propria incompetenza. Per quanto riguarda l’efficacia degli atti che siano stati compiuti dal giudice incompetente, di regola le prove acquisite restano efficaci (art 26), mentre le dichiarazioni, se ancora ripetibili, diventano utilizzabili in giudizio solo col meccanismo delle contestazioni probatorie (art 500 e art 503). Le misure cautelari già disposte conservano un’efficacia provvisoria limitata a 20 giorni dall’ordinanza che dichiara l’incompetenza e che trasmette gli atti; entro tale termine il giudice competente deve disporre, se lo ritiene necessario, una nuova misura cautelare (art 27). L’incompetenza per materia. In tema di competenza per materia, le norme sono più rigorose quando è eccepita o rilevata un’incompetenza “per difetto”, e cioè quando sta procedendo un giudice “inferiore” il quale, per definizione, è meno idoneo a giudicare rispetto ad un giudice “superiore”. Così avviene che se un Tribunale procede per un reato di competenza della Corte d’assise, l’incompetenza è rilevabile fin quando non si è pervenuti ad una sentenza irrevocabile (art 21.1). Meno rigoroso è il regime giuridico quando un giudice superiore stia procedendo per un reato di competenza di un giudice inferiore (art 23): se la Corte d’assise sta procedendo per un reato di competenza del Tribunale, l’incompetenza “per eccesso” può esser rilevata anche d’ufficio, ma non oltre le questioni preliminari prima della dichiarazione di apertura del dibattimento. Inoltre, se il giudice di primo grado, errando, avesse ritenuto di essere competente, la Corte d’appello, che accerti un’incompetenza “per eccesso” deve decidere nel merito ( art 24). L’incompetenza per territorio. L’incompetenza per territorio è eccepibile dalle parti, ed è rilevabile dal giudice, fino alla chiusura della discussione finale nell’udienza preliminare. Quando l’udienza medesima non ha luogo, l’incompetenza per territorio deve essere eccepita o rilevata nel corso delle questioni preliminari in dibattimento (art21). Il rinvio pregiudiziale in cassazzione sull’eccezione di incompetenza per territorio. La riforma cartabia ha previsto che il giudice, chiamato a decidere una questione concernente la competenza per territorio, possa anche su instanza di parte, rimettere la decisione alla corte di cassazione, che provvede in camera di consiglio partecipata. Si tratta di una questione pregiudiziale che ha effetto preclusivo perchè la parte, che ha eccepito l’incompenza per territorio senza chiedere contestualmente la rimissione della decisione alla cassazione, non puo’ piu’ riproporre l’eccezione nel corso del procedimento. L’innoservanza delle disposizioni sulla competenza collegiale o monocratica del tribunale. Una norma stabilisce che l’innoservanza delle disposizioni sulla composizione collegiale o monocratica del tribunale non determina l’invalidità degli atti del procedimento ne l’inutilizzabilità delle prove già acquisite. La capacità del giudice Quando si parla di “capacità del giudice” si fa riferimento al complesso dei requisiti indispensabili per un legittimo esercizio della funzione giudicante. In base all’art 33 comma I sono “condizioni di capacità del giudice” quelle che appaiono stabilite dalle leggi di ordinamento giudiziario. In proposito la dottrina distingue la capacità di acquisto dalla capacità di esercizio della funzione giurisdizionale: la capacità di acquisto della funzione giurisdizionale concerne il possesso di tutti i requisiti necessari all’assunzione della qualità di giudice (cittadinanza, età, titolo di studio, etc.); la capacità di esercizio della funzione giurisdizionale riguarda l’esistenza delle condizioni richieste per il valido esercizio del potere giurisdizionale, come ad es. il decreto ministeriale di nomina al ruolo di uditore giudiziario (127 ord. giud.) Capacità generica e specifica. Non tutte le disposizioni finalizzate a regolare l’attribuzione e lo svolgimento della funzione giurisdizionale sono previste a pena di nullità: si ritiene che tale sanzione sia messa a presidio della sola capacità generica (che si ottiene con la nomina e l’ammissione nel ruolo) e non anche dell’idoneità specifica, che presuppone la regolare costituzione del giudice nell’àmbito di un determinato processo. Infatti il 33 stabilisce che non si considerano attinenti alla capacità del giudice le disposizioni riguardanti la destinazione del magistrato giudicante agli uffici giudiziari ed alle sezioni. Ripartizione tra tribunale collegiale e monocratico. Il comma III del 33 esclude che l’attribuzione degli affari penali al Tribunale collegiale o monocratico attenga alla capacità del giudice o al numero dei giudici necessario per costituire l’organo giudicante. L’imparzialità del giudice – Incompatibilità, astensione e ricusazione La storia ci insegna che l’imparzialità del giudice, perché sia “effettiva”, deve essere fondata sui seguenti princìpi: 1) la soggezione del giudice alla legge; 2) la separazione delle funzioni processuali e quelle che sono tipiche di una parte 3) la presenza di garanzie procedimentali che consentano di estromettere il giudice che sia (od appaia) parziale. 4) la terzietà 5) l’impregiudicatezza come situazione psichica di assenza della forza della prevenzione 6) l’equidistanza dalle parti (giudice super partes) 1. Solo la presenza di leggi che indichino con precisione quali fatti sono reato e quali poteri processuali possano o debbano essere esercitati impedisce che il giudice sia influenzato dall’esterno (potere politico, economico, sociale) e interno (ideologismi del magistrato, soggettivismi caratteriali). 2. l’imparzialità è fondata sulla separazione delle principali funzioni processuali in soggetti distinti, e cioè l’accusa, la difesa ed il giudice, se il giudice cumula poteri di una parte (es i poteri dell’accusa) la sua funzione decidente rischia di essere sviata. 3. la garanzia dell’imparzialità puo’ dirsi effettiva soltando quando l’ordinamento prevede garanzie procedimentali che garantiscono alle parti il diritto di far accertare le situazioni citate. Per assicurare la garanzia nei confronti del giudice come persona fisica sono stati predisposti gli istituti dell’astensione e della ricusazione. Quando vi sono motivi di dubitare sull’imparzialità dell’ufficio giudicante nel suo complesso è previsto l’istituto della rimessione. 4 e 5. Terzietà e impregiudicatezza. Dal punto di vista teorico la garanzia della imparzialità può essere definita solo in senso negativo (non parzialità) sulla base dei due fondamentali criteri della terzietà e della impregiudicatezza. Tali criteri possono essere così espressi: a. vi è terzietà quando è assente qualsiasi legame con una delle parti o con l’oggetto da decidere; b. la situazione psichica di impregiudicatezza si ha quando una persona non ha già espresso in precedenza un giudizio sulla responsabilità dell’imputato. L’esigenza di imparzialità impone che il giudice debba non solo essere, ma anche “apparire” all’esterno come terzo e impregiudicato. In base al criterio della terzietà occorre che il giudice (persona fisica) non abbia legami né con le parti (attuali o potenziali: ad esempio, la parte civile) né con l’oggetto del procedimento (ad esempio, non deve avere un interesse all’esito dello stesso, come avverrebbe per quel magistrato che abitasse accanto ad una fabbrica della quale egli dovesse accertare la capacità di inquinare l’ambiente). L’altro aspetto dell’imparzialità, che consiste nella situazione di impregiudicatezza, è stata definita come “assenza di un pre-giudizio rispetto all’oggetto del procedimento” (la c.d. res iudicanda, e cioè la responsabilità dell’imputato). Il fondamento teorico di tale esigenza è stato individuato nella “forza della prevenzione”, che può essere definita come la naturale tendenza di ogni persona a mantenere fermo un giudizio già espresso. 6. l’equidistanza dalle parti (giudice super partes). Vi è imparzialità nel senso di equidistanza quando è assente qualsiasi legame tra il giudice e una delle parti (attuali o potenziali), o tra il giudice e una questione da decidere (non avere un interesse nell’esisito dello stesso). L’incompatibilità L’incompatibilità può esser definita come un’incapacità a svolgere una determinata funzione in relazione ad un determinato procedimento. L’incompatibilità scatta nelle situazioni nelle quali appare carente la caratteristica della impregiudicatezza a causa della forza della prevenzione. Le situazini che danno luogo all’incompatibilità sono facilmente riconoscibili ex ante rispetto al momento in cui il magistrato è assegnato ad un determinato procedimento, questo vuol dire che l’impregiudicatezza del giudice puo’ essere apprezzata fin dal momento della formazione dell’organo giudicante. Le situazioni di incompatibilità impediscono ad un magistrato di essere designato a svolgere funzioni di giudicante in un determinato procedimento, se non vengono accertate preventivamente al momento delloa formazione dell’organo, le situazioni di incompatibilità divantano motivi di astensione o di rincusazione. Le situazioni di pre-giudizio previste dal codice come causa di incompatibilità possono esser ricomprese in tre categorie: pronunciare sentenza, una volta accertata la situazione pregiudizievole, viene designato ad un’altro magistrato. La rimissione del processo. Considerazioni generali. Vi possono essere casi nei quali è pregiudicata l’imparzialità dell’intero ufficio giudicante territorialmente competente a prescindere da situazioni che riguardino il singolo magistrato che lo compone: in questi casi il codice prevede lo spostamento della competenza per territorio ad un altro organo giurisdizionale (con la medesima competenza per materia) situato presso quel capoluogo del distretto di Corte d’appello individuato in base all’11 (e cioè nelle ipotesi di un reato commesso da un magistrato).Lo spostamento è deciso dalla Corte di cassazione se ed in quanto tale organo accerti l’esistenza di almeno uno dei requisiti della rimessione (45: Casi di rimessione). La richiesta motivata di rimessione può esser presentata solo dall’imputato, dal p.m. presso il giudice che procede e dal Procuratore generale presso la Corte d’appello. I casi di rimessione. Nei tre casi nei quali è prevista la rimessione devono essere presenti gravi situazioni locali, tali da turbare lo svolgimento del processo e non altrimenti eliminabili. La situazione deve essere “grave”, e cioè occorre che sia presente una obiettiva situazione di fatto che lasci fondatamente presagire un esito non imparziale e non sereno del giudizio. Deve essere “locale”, e cioè non diffusa sull’intero territorio nazionale. Deve essere “esterna” rispetto al processo, e cioè non deve consistere in un fenomeno connesso alla dialettica processuale. Infine, deve essere “non eliminabile” con gli strumenti a disposizione del potere esecutivo. a. Il primo caso di rimessione si ha quando sono pregiudicate la sicurezza e l’incolumità pubblica: quale esempio si può citare lo stato di guerriglia urbana. b. Il secondo caso di rimessione sussiste quando è pregiudicata la libera determinazione delle persone che partecipano al processo: può essere la situazione in cui i giudici popolari o i testimoni sono intimiditi da associazioni mafiose. c. Il terzo caso di rimessione consiste in gravi situazioni locali che determinano motivi di legittimo sospetto: questa ipotesi fa riferimento ad una “grave e oggettiva situazione locale, idonea a giustificare la rappresentazione di un concreto pericolo di non imparzialità del giudice”, inteso questo come l’intero ufficio giudicante della sede in cui si svolge il processo. La Corte di cassazione, investita dalla richiesta presentata dall’imputato o dal p.m., verifica l’esistenza di una delle situazioni che impongono la rimessione; ove accolga la richiesta, trasferisce il processo ad un altro giudice che abbia la medesima competenza per materia e che abbia sede nel capoluogo del distretto di Corte d’appello individuato in base all’art 11. Decisione sulla richiesta. La Cassazione decide in camera di consiglio ai sensi dell’art 127 dopo aver assunto, se necessario, le opportune informazioni. L’ordinanza che accoglie la richiesta di rimessione è comunicata senza ritardo al giudice che procede e a quello designato, la rimessione determina uno spostamento della sola competenza per territorio. Il giudice designato provvede alla rinnovazione degli atti compiuti anteriormente alla rimessione quando ne è richiesto da una delle parti e non si tratta di atti di cui è diventata impossibile la ripetizione. Ove la cassazione rigetti o dichiari inammissibile la richiesta delle parti private, queste con la stessa ordinanza possono essere condannate al pagameto a favore delle casse delle ammende di una somma da 1000 euro a 5000 euro. Le questioni pregiudiziali alla decisione penale. Il principio di autosufficienza della giurisdizione penale. Nel momento in cui si deve accertare la responsabilità dell’imputato, il giudice penale puo’ avere la necessità di risolvere una questione pregiudiziale, In senso lato, è pregiudiziale una questione che si pone come antecedente logico- giuridico per pervenire alla decisione (es per decidere sull’imputazione di furto occorre accertare la altruità della cosa). In senso stretto, una questione può dirsi pregiudiziale quando l’iter logico per approdare alla decisione sull’imputazione presuppone la risoluzione di una controversia non appartenente alla diretta cognizione del giudice procedente (es per dichiarare la responsabilità dell’imputato per il delitto di ricettazione occorre accertare che la cosa acquistata è stata oggetto di furto, ma la cognizione di tale reato potrebbe essere in concreto di competenza di un giudice diverso da colui che procede). Il giudice penale ha il potere di risolvere ogni questione da cui dipenda la sua decisione, salvo che una norma di legge disponga diversamente. Ciò costituisce espressione del principio di autosufficienza della giurisdizione penale e, al tempo stesso, attua la massima semplificazione delle forme e la ragionevole durata del processo. La risoluzione della questione in via incidentale. Il giudice penale si limita a “risolvere” la questione in via incidentale: egli conosce della questione soltanto in quanto presupposto dell’accertamento della responsabilità dell’imputato. Ed infatti il art 2 comma II precisa che la pronuncia del giudice penale che risolve incidentalmente una questione civile, amministrativa o penale non ha efficacia vincolante in nessun altro processo (es per dichiarare la responsabilità dell’imputato per il delitto di ricettazione occore accertare che la cosa acquistata è stata oggetto di furto, detta questione è risolta ai soli fini dell’esistenza della ricettazione e non vincola il giudice competente a decidere sull’imputazione del furto). Le regole probatorie. Nel risolvere la questione pregiudiziale il giudice penale di regola non è vincolato ai limiti di prova stabiliti dalle leggi civili (come ad es. il limite alla prova testimoniale per certi contratti: 2721 e 2722 c.c.): le esigenze di speditezza del processo penale possono portare ad un eventuale contrasto con le decisioni di altri giudici penali, civili o amministrativi. Solo in due casi il giudice penale deve seguire le regole probatorie speciali vigenti per la specifica materia: si tratta delle questioni pregiudiziali sullo stato di famiglia e di cittadinanza, in presenza delle quali il giudice penale deve osservare i “limiti di prova” stabiliti dalle leggi civili (193 c.p.p.). In questo caso prevale il principio della certezza dei rapporti giuridici, che sono regolati in modo esclusivo dalle leggi civili e vincolano il giudice penale. Cio’ conferma l’art 3 che la sentenza irrevocabile del giudice civile sullo stato di famiglia e di cittadinanza ha efficacia di giudicato nel processo penale. L’autosufficienza totale: le questioni pregiudiziali “penali”. Il giudice penale gode di una totale autosufficienza nell’accertare le questioni pregiudiziali penali. Il rapporto tra questione penale pregiudicante e pregiudicata è regolato dal codice nel modo seguente. L’eventuale sentenza irrevocabile sull’esistenza del furto non ha efficacia di giudicato nel processo per ricettazione; se mai può essere utilizzata come prova documentale in presenza di riscontri e salvo prova contraria (238 bis: Sentenze irrevocabili). A sua volta, la risoluzione della questione pregiudiziale sulla qualità di “cosa rubata”, quale antecedente logico dell’esistenza della ricettazione, non vincola altro giudice penale che debba accertare l’esistenza del furto. L’autosufficienza parziale: le questioni pregiudiziali sullo stato di famiglia o di cittadinanza. Il particolare rilievo delle questioni sullo stato di famiglia o di cittadinanza si manifesta sotto un ulteriore profilo, oltre all’aspetto del giudicato: il sorgere di una pregiudiziale di tale natura può comportare la sospensione del processo penale: il giudice penale non ha l’obbligo di sospendere sempre il processo in attesa che il giudice civile abbia deciso su tale questione: il giudice penale ha solo il potere-dovere di valutare la necessità della sospensione, che può avvenire unicamente in presenza dei rigorosi requisiti previsti dal 3 (Questioni pregiudiziali), comma I. I requisiti devono essere interpretati in modo tassativo perché comportano un’eccezione alla cognizione incidentale attribuita al giudice penale dal 2 [Cognizione del giudice], comma I. Il giudice penale in base al 3, comma I può sospendere il processo solo quando la questione sullo stato di famiglia o di cittadinanza abbia due requisiti concorrenti, e cioè: a. la questione deve essere “seria”. b. l’azione a norma delle leggi civili deve essere già in corso. {Ove la sospensione sia concessa, questa opera fino al passaggio in giudicato della sentenza che definisce la questione}. L’autosufficienza quasi totale: le controversie civili ed amministrative diverse dallo stato di famiglia e di cittadinanza. In casi limitatissimi il codice consente al giudice penale di sospendere il processo per devolvere la decisione di una questione pregiudiziale civile o amministrativa “diversa” da quelle sullo stato di famiglia o di cittadinanza. In particolare, è posto come condizione che il giudice civile o amministrativo pronunci una sentenza irrevocabile entro un anno dal momento della sospensione del processo penale. Le altre questioni pregiudiziali. Quanto alle controversie attinenti alla proprietà dei beni sequestrati o confiscati, il codice ne affida la risoluzione al giudice civile (263; 324; 676). Sulle questioni relative alla conformità delle leggi (o di atti aventi forza di legge) alla Costituzione, il giudice penale deve provocare l’intervento della Corte costituzionale se la questione è “rilevante” e “non manifestamente infondata” (c.d. pregiudiziale di costituzionalità: l. 87/1953). Ed ancora, il giudice penale può rimettere alla Corte di giustizia delle Comunità europee le questioni previste dal 234 del Trattato istitutivo della Comunità (c.d. pregiudiziale comunitaria: l. 204/1958). L’ufficio per il processo. L’ufficio per il processo si presenta come una struttura complessa, richiede la cooperazione di piu’ professionalità in grado di affiancare il magistrato nello svolgimento dei suoi compiti. Il pubblico ministero L’oragano e le funzioni l “pubblico ministero” è quel complesso di uffici pubblici che rappresentano nel procedimento penale l’interesse generale dello Stato alla repressione dei reati. Il pubblico ministero non è un organo unitario, bensi’ è frazionato in tanti uffici ciascuno dei quali svolge le sue funzioni, soltando davanti all’organo giudiziario presso cui è costituito (art 51 cm3). è formulata in occasione della convalida dell’arresto o del fermo (390: Richiesta di convalida dell’arresto o del fermo) o in occasione della convalida del sequestro preventivo operato d’urgenza (321). I rapporti con gli organi di informazione. Il procuratore della Repubblica mantiene personalmente i rapporti con gli organi di informazione. Ogni informazione inerente alle attività della procura della Repubblica deve essere fornita attribuendola in modo impersonale all’ufficio ed escludendo ogni riferimento ai magistrati assegnatari del procedimento. È fatto divieto ai magistrati della procura della Repubblica di rilasciare dichiarazioni o fornire notizie agli organi di informazione circa l’attività giudiziaria dell’ufficio. I rapporti tra gli uffici Ogni ufficio del pubblico ministero è competente a svolgere le sue funzioni esclusivamente presso l’organo giudiziario davanti al quale è costituito. A tale regola sono poste alcune eccezioni che danno vita a singole ipotesi di rapporti di tipo gerarchico. Non vi è un generale potere di sovraordinazione tra ufficio superiore ed ufficio inferiore; al contrario, l’ufficio superiore ha in via eccezionale singoli e limitati poteri riguardanti la disciplina e l’organizzazione. Il procuratore generale presso la Corte di cassazione svolge una funzione di sorveglianza, nel senso che ha il potere di iniziare l’azione disciplinare contro un qualsiasi magistrato requirente o giudicante (questo potere spetta anche al Ministro della Giustizia: 107, comma II Cost.: «Il Ministro della giustizia ha facoltà di promuovere l’azione disciplinare»), la decisione spetterà poi al CSM. Lo stesso procuratore generale può essere chiamato a risolvere un contrasto negativo o positivo tra uffici del p.m. appartenenti a diversi distretti di Corte d’appello. Nozione di contrasto tra uffici. Si ha contrasto negativo tra pubblici ministeri quando due uffici, durante le indagini preliminari in relazione ad un determinato reato, negano la competenza per materia o per territorio del giudice presso il quale ciascuno di essi esercita le funzioni, ritenendo la competenza di un altro giudice. Si ha contrasto positivo tra uffici del p.m. quando due uffici stanno svolgendo indagini a carico della stessa persona ed in relazione al medesimo fatto e ciascuno di essi ritenga la propria competenza esclusiva. il Procuratore generale presso la Corte d’appello. Svolge in relazione agli uffici sottordinati una funzione di sorveglianza: 1) nel potere di dirimere i contrasti tra due uffici del pm del medesimo distretto di corte d’appello, i quali ritengono contemporaneamente di affermare o negare la propria competenza in un singolo caso. 2) nel potere di avocare un singolo affare in casi tassativamente previsti dalla legge. In queste due ipotesi non viene attivato alcun potere gerarchico sull’ufficio inferiore, poichè nl’ufficio superiore non puo’ dare direttive vincolanti in relazione alla trattazione del singolo caso. Il potere di avocazione. In base al diritto amministrativo, l’avocazione è il potere dell’organo superiore di sostituirsi all’organo inferiore nello svolgimento di una determinata attività. Il codice attribuisce tale potere al procuratore generale presso la corte d’appello nei confronti del procuratore della repubblica presso il tribunale quando sono presenti situazioni espressamente previste da legge. Questo avviene quando il titolare, o un magistrato dell’ufficio inferiore hanno omesso un’attività doverosa o quando un procedimento penale rischia una stasi per l’inerzia del magistrato del pm. Il potere di avocazione mira a conciliare i principi di indipendenza del magistrato di pubblica accusa con quelli di buona amministrazione dell’uffico e di ragionevole durata del processso. L’astenzione del pubblico ministero Il giudice ha l’obbligo di astenersi ove sia presente una di quelle situazioni che lo facciano apparire parziale (36: Astensione); per gli stessi motivi può essere ricusato. Viceversa, il magistrato del p.m. non può essere ricusato, perché è una parte. L’astensione. Il magistrato del p.m. ha, dal punto di vista disciplinare, l’obbligo di astenersi quando esistono gravi ragioni di convenienza (52: Astensione). Ciò avviene quando egli ha un interesse privato in un determinato procedimento; mentre la sua funzione vuole che sia mosso soltanto da un interesse pubblico, art 52: se il magistrato del p.m. non si astiene quando ha un interesse privato, tale comportamento è sanzionato dal CSM come illecito disciplinare. La sostituzione. La presente interpretazione trova una conferma nel 53, comma II, nel quale il codice pone al capo dell’ufficio l’obbligo di sostituire il magistrato del pubblico ministero che abbia un interesse privato nel procedimento. I casi di sostituzione possono così essere sintetizzati: 1. se il magistrato ha interesse nel procedimento come parte anche solo potenziale ovvero se è creditore o debitore di una delle parti private; 2. se il magistrato è tutore, curatore, procuratore o datore di lavoro di una delle parti private ovvero se uno di costoro è prossimo congiunto di lui o del coniuge; 3. se vi era già in precedenza una inimicizia grave tra il magistrato e una delle parti private; 4. se un prossimo congiunto del magistrato è offeso o danneggiato o parte privata. (Una parte può segnalare al procuratore generale che il magistrato del pubblico ministero ha un interesse privato: tale segnalazione è l’unico rimedio attivabile giacché non è possibile ricusare il p.m.). Dovere di lealtà processuale. In conclusione, il p.m. è un magistrato indipendente, che svolge la funzione di una parte pubblica. Nella sua qualità di “magistrato indipendente” egli si distingue dal giudice per il fatto di essere collocato in un ufficio che dipende da un capo, sia pure solo per gli aspetti organizzativi della sua attività. Per la sua qualità di parte pubblica egli si distingue dalle parti private che perseguono un loro personale interesse. L’interesse pubblico impone al p.m. l’obbligo di lealtà processuale. La parte privata (imputato, persona offesa, etc.) ricerca solo le prove a sé favorevoli e non ha l’obbligo di far conoscere alle altre parti le prove che giovano a queste ultime. Diversa è la situazione del p.m.: egli in base al 358 [Attività di indagine del pubblico ministero] deve svolgere anche accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini. Inoltre, tutti i risultati delle indagini (anche quelli favorevoli all’indagato) devono essere depositati dal p.m. nei tempi previsti (366: Deposito degli atti cui hanno diritto di assistere i difensori) e comunque contestualmente alla notifica dell’avviso di conclusione delle indagini (415 bis). In definita, sul pm incombe un obbligo di lealtà processuale a cui non sono tenute nella stessa misura le altri parti private. E’ questo l’aspetto che connota la funzione di parte pubblica che è svolta dal pm. Le procure distruttuali e la procura nazionale antimafia e antiterrorismo. Il collegamento tra le indagini. L’art 371 comma II elenca i casi nei quali le indagini si considerano collegate; si tratta delle ipotesi in cui: a. i procedimenti sono connessi a norma del 12 (e non sono stati riuniti); b. vi sono reati dei quali gli uni sono stati commessi in occasione degli altri, o per conseguirne o assicurarne al colpevole o ad altri il profitto, il prezzo, il prodotto o l’impunità, o che sono stati commessi da più persone in danno reciproco le une delle altre, ovvero la prova di un reato o di una circostanza influisce sulla prova di un altro reato o di un’altra circostanza; c. la prova di più reati deriva anche in parte dalla stessa fonte. In presenza di tali situazioni, il codice pone ai diversi uffici del p.m. l’obbligo di coordinarsi: ciò vuol dire che gli uffici devono scambiarsi gli atti e le informazioni e devono comunicarsi reciprocamente le direttive impartite alla polizia giudiziaria. Il legislatore sanziona la violazione dell’obbligo di coordinamento mediante l’istituto dell’avocazione. La soluzione, proposta da Giovanni Falcone e poi approvata dal Parlamento, è stata quella di istituire le procure distrettuali e di porle sotto il controllo e lo stimolo del Procuratore nazionale antimafia. La procura distrettuale antimafia. La procura distrettuale non è un nuovo ufficio del p.m., ma è l’ufficio della procura della Repubblica presso il Tribunale del capoluogo di ciascuno dei 26 distretti di Corte d’appello nel cui àmbito ha sede il giudice competente. A tale ufficio sono attribuite le funzioni del p.m. in primo grado in relazione ai delitti di criminalità organizzata mafiosa ed assimilati, ed ai delitti consumati o tentati con finalità di terrorismo (art 51). Per tali delitti la procura distrettuale svolge le indagini preliminari ed esercita le funzioni di accusa pubblica nell’udienza preliminare e nel dibattimento entro l’àmbito territoriale del distretto di Corte d’appello. Di conseguenza, tutte le attività investigative della polizia giudiziaria sono coordinate da questo ufficio all’interno del medesimo distretto. All’interno della procura distrettuale è costituita una “direzione distrettuale antimafia” (DDA), che non è altro se non il gruppo (pool) di magistrati che hanno chiesto di dedicarsi esclusivamente ai procedimenti attinenti alla criminalità organizzata mafiosa (70 bis ord. giud.). I magistrati predetti hanno l’obbligo di coordinarsi in modo stretto sia tra di loro, sia col procuratore capo; inoltre, possono essere applicati temporaneamente presso altre procure distrettuali (110 bis ord. Giud). In relazione a tutti i procedimenti per delitti attribuiti alla cognizione della procura distrettuale (terrorismo internazionale, tratta di persone e criminalità informatica, di cui all’art. 51, comma 3-bis, 3- quater e 3-quinquies), le funzioni di giudice per le indagini preliminari e di giudice dell’udienza preliminare sono esercitate da un magistrato del Tribunale del capoluogo del distretto nel cui commissi delicti La procura nazionale antimafia e antiterrorismo. E’ un ufficio con sede in Roma; capo di questo ufficio è il Procuratore nazionale, che è sottoposto alla sorveglianza del Procuratore generale presso la Corte di cassazione. Il procuratore nazionale è nominato dal CSM in seguito ad un accordo col Ministro della Giustizia. L’uffico del procuratore nazionale è nominato direzione nazionale antimafia e antiterrorismo, composto da 20 magistrati del pm e 2 procuratori aggiunti, tutti nominati dal csm, sentito il procuratore nazionale. Funzioni. Il Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo ha poteri di coordinamento che non toccano l’indipendenza dei singoli uffici del p.m. In sintesi, il Procuratore nazionale ha compiti di Procuratore generale presso la Corte d’appello, la decisione spetta ad un organo composto da due giudici e da un ufficiale di polizia giudiziaria. Soggetta alla giurisdizione disciplinare è, oltre al personale delle sezioni e dei servizi, qualsiasi altra persona che abbia la qualifica di ufficiale o di agente di polizia giudiziaria (16-19 disp. att.). Oggetto del potere disciplinare sono tutti gli illeciti che riguardano l’espletamento dei compiti di polizia giudiziaria. La giurisdizione disciplinare della magistratura è, in tal caso, esclusiva; per gli illeciti che non attengono alle funzioni di polizia giudiziaria, gli ufficiali ed agenti rimangono soggetti alle sanzioni che sono stabilite dai corpi di appartenenza. Ufficiali e agenti di polizia giudiziaria Gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria possono avere una competenza generale per tutti i reati, o una competenza limitata all’accertamento di determinati reati. Polizia giudiziaria con competenza generale. Sono ufficiali di polizia giudiziaria con competenza generale i soggetti previsti nel 57 [Ufficiali e agenti di polizia giudiziaria]: si tratta delle persone alle quali l’ordinamento dell’amministrazione della pubblica sicurezza riconosce tale qualità; ed inoltre gli ufficiali superiori ed inferiori (non i generali) ed i sottoufficiali dei carabinieri, della guardia di finanza, del corpo di polizia penitenziaria e del corpo forestale dello Stato; ed infine in via residuale il sindaco. Polizia giudiziaria con competenza limitata. Sono ufficiali e agenti di polizia giudiziaria con competenza limitata a determinati reati i soggetti previsti nel 57.3, e cioè le persone alle quali le leggi e i regolamenti attribuiscono le funzioni previste dall’articolo 55 (cioè le funzioni di polizia giudiziaria). Per godere di tale qualifica è sufficiente che una legge o un regolamento attribuisca le funzioni di polizia giudiziaria ad una determinata persona. L’attribuzione della qualifica opera nei limiti del servizio cui tali persone sono destinate e secondo le rispettive attribuzioni: ciò significa che la qualità di ufficiale od agente di polizia giudiziaria è determinata dalla qualifica svolta nel rispettivo ordinamento. Una situazione singolare si è venuta a creare riguardo a coloro che il 57 denomina “guardie dei comuni” e che più correttamente la legge quadro 65/1986 definisce “addetti al servizio di polizia municipale”: tali soggetti hanno la qualifica di agente di polizia giudiziaria sia con competenza limitata, sia con competenza generale. La competenza limitata di polizia giudiziaria riguarda le materie attinenti alla polizia municipale ed alla polizia stradale (57.3); la qualifica generale permette alla polizia municipale di svolgere le funzioni di agente di polizia giudiziaria per tutti gli altri reati (57.2), ma solo durante l’orario di servizio ed esclusivamente nel territorio dell’ente di appartenenza (con l’eccezione del caso di flagranza). L’imputato. La distinzione tra imputato e indagato. All’inizio del procedimento penale le indagini possono svolgersi contro “ignoti” oppure contro un “indagato”. La maggior parte delle denunce sono presentate contro ignoti nel senso che lo stesso denunciante molto spesso non è in grado di indicare colui che ritiene responsabile del reato. La polizia giudiziaria trasmette la denuncia al p.m. e questi ordina alla segreteria di iscriverla nell’apposito registro, denominato “registro delle notizie di reato” (335). Svolte le indagini, può darsi che gli elementi raccolti consentano di addebitare il reato alla responsabilità di una determinata persona: allora il p.m. ordina alla segreteria di iscrivere nel registro, accanto all’indicazione della denuncia, il nome del soggetto al quale il reato “è attribuito”. Costui è il soggetto che il codice denomina “persona sottoposta alle indagini preliminari” e che la prassi con un sostantivo poco elegante chiama “indagato”. Solo in relazione al momento conclusivo delle indagini il codice usa il termine “imputato”, e lo fa con un preciso significato: l’imputato è la persona alla quale è attribuito il reato nell’imputazione formulata dal pm con la richiesta di rinvio a giudizio o con l’atto simile al singolo procedimento speciale. L’imputazione è composta dall’enunciazione in forma chiara e precisa del fatto storico di reato e dall’indicazione delle norme di legge violate e della persona alla quale il reato è addebitato (417). L’assunzione della qualità di imputato. Nel procedimento ordinario l’assunzione di tale qualifica avviene con la richiesta di rinvio a giudizio. Viceversa, nei procedimenti speciali la qualifica di imputato si acquista nel momento in cui si instaura il singolo rito. La qualità di imputato, ai sensi dell’ art 60 cm2, si conserva in ogni stato e grado del processo sino a che non sia più soggetta ad impugnazione la sentenza di non luogo a procedere, sia divenuta irrevocabile la sentenza di proscioglimento o di condanna, o sia diventato esecutivo il decreto penale di condanna. Infine il comma 3 modificato dalla riforma cartabia 2022, prevede che la qualità di imputato si riassuma in caso di revoca della sentenza di non luogo a procedere, o qualora sia disposta la revisione del processo oppure la riapertura dello stesso a seguito della rescissione del giudicato, oppure a seguito di accoglimento della richiesta per l’eliminazione degli effetti preegiudizievoli delle decisioni adottate in violazione della CEDU. La qualità di indagato. Occorre evidenziare i motivi in base ai quali il codice pone la fondamentale distinzione tra imputato e indagato. In primo luogo, il legislatore vuole che il p.m. prenda una posizione definitiva sull’addebito solo quando, terminate le indagini preliminari, chiede il rinvio a giudizio. Occorre che gli elementi raccolti nelle indagini preliminari siano «idonei a sostenere l’accusa in giudizio»; e cioè devono essere tali che, se confermati in dibattimento, possano permettere al p.m. di chiedere la condanna dell’imputato. In secondo luogo, prima che sia stata formulata un’imputazione, il codice tende a usare un termine il più possibile “neutro” e “non pregiudizievole”: ecco allora il riferimento alla persona sottoposta alle indagini preliminari, denominata nella prassi “indagato”. È ben vero che il p.m. nel corso delle indagini può formulare un “addebito provvisorio” nei confronti dell’indagato; ma ciò avviene solo a fini di garanzia, perché mette in grado quest’ultimo di esercitare il diritto di difesa. L’addebito provvisorio non deve essere confuso con l’imputazione che potrà essere formulata al termine delle infagini. In conclusione il codice distingue indagato e imputato ai fini garantistici, ma quando si tratta di enunciare i diritti di difesa, il codice opera un’ampia equiparazione ai sensi dell’art 61 cm 1 “diritti e garanzie dell’imputato si estendono alla persona sottoposta alle indagini preliminari”. L’equiparazione non è totale perche’ risente del fatto che la fase delle indagini è di regola segreta, mentre le succesive come udienza preliminare e giudizio si svolgono in contraddittorio. Pertando le misure cautelari previste per l’imputato possono essere applicate anche all’indagato purchè siano presenti i requisiti necessari per emanare il relativo provvedimento. L’interrogatorio Il codice prevede che l’interrogatorio possa essere svolto da vari soggetti (es anche dal giudice nell’udienza preliminare). Per comodità di esposizione, facciamo l’ipotesi che l’interrogatorio sia svolto dal p.m. nelle indagini preliminari. Le regole generali sono precisate nell’art 64: Dall’interrogatorio si potranno ottenere dichiarazioni solo se e nei limiti in cui l’indagato decida liberamente di renderle. La norma si propone infatti di rispettare la libera scelta di tale soggetto. Art 64, comma II «Non possono essere utilizzati, neppure con il consenso della persona interrogata, metodi o tecniche idonei a influire sulla libertà di autodeterminazione o ad alterare la capacità di ricordare e di valutare i fatti». Con tale precisione il codice vuole affermare che la libertà di autodeterminazione dell’imputato non è disponibile. Gli avvisi. In base al terzo comma dell’art 64.3, l’indagato riceve una serie di avvisi prima che abbia inizio l’interrogatorio: a. è avvertito che «le sue dichiarazioni potranno sempre essere utilizzate nei suoi confronti» (64, comma III, lett. a): infatti, le dichiarazioni rilasciate dall’indagato sono utilizzabili nei suoi confronti sia durante le indagini, sia nel corso del dibattimento anche se il medesimo non si presenta o tace. Se l’autorità inquirente omette di rivolgere il predetto avviso, ovvero lo rivolge in modo incompleto, il codice stabilisce che le dichiarazioni rese dall’interrogato sono inutilizzabili (64, comma 3 bis). b. l’indagato deve essere avvertito che ha la facoltà di non rispondere ad alcuna domanda; egli è avvertito altresì che ha l’obbligo di rispondere secondo verità sulla sua identità personale. Il codice riconosce all’indagato il diritto di restare silenzioso su tutte le domande o su alcune fra di esse. L’indagato è altresì avvisato che, se anche non risponde, comunque il procedimento seguirà il suo corso; anche in questo caso, l’omissione o l’irritualità dell’avviso è sanzionata con l’inutilizzabilità. c. l’indagato è avvertito che «se renderà dichiarazioni su fatti che concernono la responsabilità di altri, assumerà, in ordine a tali fatti, l’ufficio di testimone». L’omissione o l’irritualità dell’avviso comportano una duplice conseguenza: in primo luogo, le dichiarazioni eventualmente rese dall’indagato su fatti che concernono la responsabilità di altri non sono utilizzabili nei loro confronti; in secondo luogo, l’indagato non potrà assumere la qualità di testimone sulle dichiarazioni rese in assenza di un rituale avvertimento. Il tutto finché la sentenza a suo carico non sarà divenuta irrevocabile (infatti, ai sensi dell’art 197 [Incompatibilità con l’ufficio di testimone], quando nei confronti dell’imputato sarà stata emessa sentenza irrevocabile di condanna, proscioglimento o patteggiamento, egli potrà essere sentito come testimone). Le regole dell’interrogatorio sul “merito”. Il p.m., prima di rivolgere domande all’indagato, deve rendergli noto in forma chiara e precisa il fatto che gli è attribuito, quindi deve indicargli gli elementi di prova esistenti contro di lui, infine deve comunicargli le fonti di prova (ad es., il nome del testimone), salvo che ciò comporti un pregiudizio per le indagini. Solo a questo punto il p.m. invita l’indagato a rispondere alle domande. Tre sono le possibilità che si presentano a quest’ultimo: Prima di tutto, l’indagato può rifiutare di rispondere a tutte le domande o ad alcune soltanto di esse: in tal caso, il p.m. dà atto nel verbale che l’indagato si è avvalso della facoltà di non rispondere. In secondo luogo, l’indagato può rispondere. Se i fatti che egli ammette sono a lui sfavorevoli, si ha una “confessione”. L’indagato non ha un obbligo, penalmente sanzionato, di dire la verità. La possibilità di mentire. In terzo luogo, l’indagato può rispondere dicendo il falso. Da un lato, egli non commette il delitto di falsa testimonianza (372 c.p.), né di false informazioni al p.m. (371 bis c.p.), giacché non è sentito come testimone, né come possibile testimone. Da un altro lato, in relazione ad ulteriori reati che possa integrare rendendo dichiarazioni mendaci, egli è protetto dalla causa di non punibilità prevista dal 384, comma I c.p.: tale norma stabilisce una scusante in favore di colui che ha commesso determinati delitti contro l’amministrazione della Giustizia per esservi del procedimento il p.m. (66) e la polizia giudiziaria (349) procedono all’identificazione dell’indagato, che viene invitato a dichiarare le proprie generalità e viene ammonito circa le conseguenze cui si espone chi si rifiuta di dare le proprie generalità o le dà false (66, comma I). È sanzionato penalmente il rifiuto di dare indicazioni sulla propria identità personale (651 c.p.: Rifiuto d’indicazioni sulla propria identità personale) e il dichiarare una falsa identità (495 c.p.). Inoltre l’impossibilità di identificare un indagato è un elemento che deve essere valutato ai fini del fermo, l’uso di falsi documenti di identità consente l’arresto facoltativo in flagranza (384 [Fermo di indiziato di delitto] e 381). Sospensione o definizione del procedimento per incapacità processuale dell’imputato. Il giudice deve valutare anche d’ufficio se l’imputato o indagato, per infermità mentale, non è in grado di partecipare coscientemente al procedimento penale, e cioè se non è capace di esercitare consapevolmente quel diritto di autodifesa che spetta a lui personalemente e che non può essere praticato da altre persone al suo posto. In questo caso il giudice deve compiere una valutazione preliminare. La materia ha subito modifiche con l.2017 (riforma orlando), inoltre la sentenza della corte cost. 2023 ha parificato all’infermità mentale quell’infermità di natura mista, e cioè anche di natura fisica, tale da compromettere la facoltà di coscienza, pensiero, percezione ed espressione (es SLA). 1) La pronuncia che proscioglie l’imputato. In via preliminare, il giudice deve valutare se nei confronti dell’imputato puo’ pronunciare una sentenza di proscioglimento (in giudizio) o una sentenza di non luogo a procedere (in udienza preliminare). Cio’ significa che quando è possibile prosciogliere l’imputato perche’ innocente, o perche’ vi è una situazione di improcedibilità (es manca la querela o l’autorizzazione a procedere) o perche’ mancava totalmente la capacità di intendere e volere al momento del fatto di reato, il giudice non deve sospendere il procedimento penale: la sentena che enuncia una delle formule elencate deve essere pronunciata, anche se l’imputato è incapace processualmente in quel momento. 2) La impossibilità di prosciogliere l’imputato. Il giudice si trova nella condizione di dover accertare la responsabbiità penale e appare probabile una condanna perche’ l’imputato era imputabile o semi-imputabile al momento del fatto. In questa situazione il giudice valuta de l’imputato a causa dell’infermità mentale in atto, sia in grado di partecipare al processo in modo cosciente. Nel caso in cui non lo sia la l.2017 ha imposto al giudice di accertare se l’incapacità dell’imputato sia reversibile o meno. 3) L’incapacità dell’imputato appare reversibile: sospensione del procedimento. Quando il giudice accerta che l’infermità mentale appare reversibile egli deve disporre con ordinanza che il procedimento sia sposeso e contestualmente nominare un curatore speciale (rappresentate legale dell’imputato). Ogni sei mesi il giudice dispone perizia per accertare lo stato psichico dell’imputato. L’ordinanza di sospensione è revocata quando l’imputato risulta in grado di partecipare al procedimento penale oppure se deve essere pronunciata nei suoi confronti una una sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere. La prescrizione del reato rimane sospesa in caso di sospensione del procedimento per ragioni di impedimento dell’imputato. 4) L’imputato è affetto da incapacità processuale irreversibile e non è pericoloso. In base ad art 72-bis quando si accerta: che lo stato mentale dell’imputato è tale da impedire di partecipare in modo cosciente al procedimento, che tale stato è irreversibile, e che l’imputato non è pericoloso, il giudice deve revocare l’eventuale ordinanza di sospensione del procedimento e pronunciare la sentenza di non luogo a procedere (se in udienza preliminare), o di non doversi procedere (in dibattimento). 5) L’imputato è affetto da incapacità processuale irreversibile ma è pericoloso. Qaundo si accerta che l’imputato è pericoloso viene applicata una misura di sicurezza diversa dalla confisca, il giudice ogni 6 mesi deve disporre ulteriori accertamenti. Il difensore. La rappresentanza tecnica Afferma il 24, comma II Cost. che «la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento». In generale, si può definire “difesa” la tutela contro un attacco che venga mosso ai diritti di un soggetto con qualsiasi procedura giudiziaria. In particolare, la “difesa penale” è quella forma di tutela che permette all’imputato di ottenere il riconoscimento della piena innocenza o comunque di essere condannato ad una sanzione non più grave di quella applicabile secondo la legge. La difesa è un diritto, e cioè consiste nel potere di esigere da altri soggetti un comportamento conforme alla legge. Per quanto riguarda le modalità di esercizio, tale diritto può essere esercitato sia personalmente (autodifesa), sia per mezzo del difensore (difesa tecnica). Esempio di autodifesa è il diritto spettante sia all’indagato, sia alla persona offesa di ricevere personalmente notizia del procedimento penale in corso attraverso l’informazione di garanzia, che deve essere inviata loro quando il p.m. deve compiere un atto al quale il difensore ha diritto di assistere (369: Informazione di garanzia). Esempio di difesa tecnica è il potere del difensore di condurre l’esame incrociato (498: Esame diretto e controesame dei testimoni). Il difensore. Il difensore è una persona che ha particolare competenza tecnico-giuridica e che ha determinate qualifiche di tipo penalistico, privatistico e processuale. La qualifica penalistica è quella di esercente un servizio di pubblica necessità, poiché alla funzione di avvocato si accede mediante una speciale abilitazione dello Stato e, al tempo stesso, dell’opera del difensore i privati sono per legge obbligati a valersi (359 c.p.: Persone esercenti un servizio di pubblica necessità). La qualifica privatistica si individua nel rapporto di prestazione di opera intellettuale che lega il difensore al cliente (2230 c.c.: Prestazione d’opera intellettuale). La qualifica processualistica è quella di rappresentante tecnico della parte. La rappresentanza tecnica. è il potere conferito al difensore di compiere atti processuali “per conto” (cioè nell’interesse) del cliente. Perché il difensore possa disporre di un diritto “in nome” del cliente, deve essergli attribuita una rappresentanza volontaria, e cioè il potere di compiere un atto i cui effetti ricadono sul cliente. La rappresentanza tecnica è conferita dal cliente al difensore mediante una procura ad litem. L’imputato e l’indagato conferiscono tale rappresentanza mediante la nomina che è contenuta in una dichiarazione (96: Difensore di fiducia) che può essere resa oralmente davanti all’autorità procedente (che ne redige verbale) o può essere effettuata per atto scritto (senza necessità di autentica della firma). In tal caso, la dichiarazione scritta deve essere consegnata alla autorità procedente dal difensore o deve essere trasmessa dall’interessato con raccomandata all’autorità procedente (ad es., all’ufficio di segreteria del p.m.). La persona offesa conferisce la rappresentanza tecnica con le medesime forme semplificate che sono previste per l’imputato. Le altre parti (parte civile, responsabile civile, civilmente obbligato per la pena pecuniaria) attribuiscono al difensore la rappresentanza tecnica mediante una procura speciale conferita con atto pubblico o scrittura privata autenticata. La rappresentanza volontaria per gli atti personali. Quando si deve compiere nel procedimento un atto “personale” e non può essere presente la parte assistita, non è sufficiente la rappresentanza tecnica del difensore: è necessario che la parte conferisca una rappresentanza volontaria al difensore o ad altra persona di sua fiducia, e ciò può fare solo con la procura speciale a compiere un determinato atto (122). La procura speciale è necessaria ad esempio per l’istanza di rimessione del processo o per gli atti di disposizione di un diritto, come avviene per la transazione che ha per oggetto il risaricimento del danno derivante dal reato. La rappresentanza volontaria permette di compiere un atto processuale “in nome” del soggetto rappresentato. La procura speciale deve, a pena di inammissibilità, essere rilasciata per atto pubblico o scrittura privata autenticata e deve contenere la determinazione dell’oggetto per cui è conferita e dei fatti ai quali si riferisce (122: Procura speciale per determinati atti). Se la procura è rilasciata per scrittura privata al difensore, la sottoscrizione può essere autenticata dal difensore medesimo. Atti personalissimi. Vi sono atti “personalissimi” per i quali non vi può essere rappresentanza volontaria: ad esempio, rendere l’interrogatorio o l’esame incrociato. Rapporti difensore-imputato. Tra l’imputato ed il proprio difensore esiste una rappresentanza tecnica che assume la forma dell’ “assistenza” nel senso che l’imputato può sempre compiere personalmente gli atti che non siano per legge riservati al difensore. Ciò significa che la difesa tecnica non può escludere quel tipo di autodifesa che spetta all’imputato. Può esser definita “assistenza” quella particolare forma di rappresentanza tecnica che non esclude l’autodifesa del soggetto assistito. Di regola l’imputato ha diritto di partecipare personalmente agli atti del prcedimento affiancato dal proprio difensore che si limita as assisterlo, l’assistanza del difensore è una forma di rappresentanza , che non impedisce al soggetto tutelato si essere presente agli atti piu’ importanti del procedimento (es nel corso del dibattimento e dell’incidente probatorio). Il diritto di autodifesa dell’imputato prevale sul diritto alla difesa tecnica, in considerazione del fatto che nel procedimento penale è in questione un diritto di libertà: in base all’art 99 comma II, «L’imputato può togliere effetto, con espressa dichiarazione contraria, all’atto compiuto dal difensore prima che, in relazione all’atto stesso, sia intervenuto un provvedimento del giudice». La ripartizione delle attività che possono essere compiute dal difensore e dalla parte assistita è precisata nell’ art 99 comma I, «Al difensore competono le facoltà e i diritti che la legge riconosce all’imputato, a meno che essi siano riservati personalmente a quest’ultimo». Il rapporto tra il cliente ed il difensore ha natura fiduciaria. Da ciò derivano le seguenti conseguenze: prima dell’accettazione del mandato, il difensore può rifiutare la nomina; è sufficiente che lo comunichi immediatamente a colui che l’ha effettuata ed all’autorità che procede. La non accettazione ha effetto dal momento in cui è comunicata a quest’ultima (107). Dopo che ha accettato il mandato, il difensore può rinunciare allo stesso: la rinuncia deve parimenti essere comunicata a colui che ha effettuato la nomina ed all’autorità procedente, ma non ha effetto finché la parte non risulti assistita da un nuovo difensore e non sia decorso il termine a difesa, non inferiore a sette giorni, che sia stato concesso a quest’ultimo (107 [Non accettazione, rinuncia o revoca del difensore], comma III e 108); fino a tale forza di tale rappresentanza volontaria il difensore può compiere atti che incidono sulla situazione giuridica sostanziale della parte rappresentata, in nome e per conto della stessa. La procura speciale deve contenere la determinazione dell’oggetto per cui è rilasciata e dei fatti ai quali si riferisce e deve essere conferita, a pena di inammissibilità, con atto pubblico o scrittura privata autenticata; «se la procura è rilasciata per scrittura privata al difensore, la sottoscrizione può essere autenticata dal difensore medesimo» (122, comma I). Il patrocinio per i non abbienti. Il patrocinio è concesso su istanza ai soggetti che sono (o possono diventare) parti private, e cioè all’imputato, all’indagato, al condannato, all’offeso, al danneggiato che intenda costituirsi parte civile, al responsabile civile ed al civilmente obbligato per la pena pecuniaria. L’ammissione al patrocinio a spese dello Stato è deliberata dal magistrato davanti al quale pende il processo o da quello che ha emesso il provvedimento impugnato, se procede la Cassazione; nel corso delle indagini è deliberata dal giudice per le indagini preliminari. Regole per l’attività difensiva. L’imcompatibilità. L’art 106 cm1 prevede la possibilità che la difesa di più imputati sia assunta da un difensore comune «purché le diverse posizioni non siano tra loro incompatibili». {Se il patrocinatore presta contemporaneamente il suo patrocinio a favore di parti contrarie commette il reato di cui al 381 c.p. [Altre infedeltà del patrocinatore o del consulente tecnico]}. L’incompatibilità non deriva dalla semplice diversità tra le affermazioni di diversi imputati o tra le loro posizioni processuali: deve sussistere in concreto un nesso di interdipendenza in base al quale un imputato abbia effettivamente interesse a sostenere una tesi difensiva sfavorevole ad un altro imputato. Una situazione del genere rende impossibile una difesa comune da parte di un unico avvocato, in caso contrario, uno dei due imputati verebbe penalizzato. Quando l’autorità giudiziaria rileva la sussistenza di una situazione di incompatibilità, deve indicarla, esporne i motivi e fissare un termine per rimuoverla (106). L’incompatibilità può essere eliminata in due modi: mediante la rinuncia del difensore a sostenere una o più difese (107, comma I), mediante la revoca della nomina da parte dell’imputato (107, comma IV). Nel caso in cui l’incompatibilità non venga rimossa entro il termine fissato, il giudice la dichiara e provvede a sostituire il difensore incompatibile con un difensore d’ufficio (106.3 e 97). In base all’art 106, un difensore non può assistere «imputati che abbiano reso dichiarazioni concernenti la responsabilità di altro imputato nel medesimo procedimento o in procedimento connesso ai sensi dell’articolo 12 o collegato ai sensi dell’articolo 371, comma 2, lettera b)»: la norma è finalizzata ad evitare che il difensore si renda veicolo di uno scambio di informazioni tra imputati che hanno reso dichiarazioni sul fatto altrui e in tal modo possa indurli a conformare le rispettive affermazioni. L’abbandono ed il rifiuto della difesa. L’art 105 cm 1 riconosce al consiglio dell’ordine forense la competenza esclusiva per le sanzioni disciplinari relative ai casi di abbandono della difesa o di rifiuto della difesa di ufficio: a tal fine, l’autorità giudiziaria «riferisce al consiglio dell’ordine i casi di abbandono della difesa, di rifiuto della difesa di ufficio» e i casi nei quali il difensore abbia violato i doveri di lealtà e probità; infine, riferisce se il difensore ha assunto la difesa di più imputati in una situazione di incompatibilità presunta dalla legge (105, comma IV e 106, comma IV bis). Per individuare i singoli comportamenti che integrano i menzionati illeciti non si può prescindere dall’elemento soggettivo: si deve trattare di un comportamento intenzionale da parte del difensore, con la consapevolezza di arrecare un danno alla parte. Il 105, comma III dispone che se l’abbandono od il rifiuto sono motivati da violazioni del diritto di difesa (che l’avvocato addebita all’autorità giudiziaria) ed il consiglio dell’ordine ritiene giustificato il comportamento del difensore, la sanzione non si applica, anche se il giudice ha escluso la sussistenza della violazione del diritto di difesa. Questa norma è importante perché conferma l’indipendenza dell’ordine forense rispetto all’ordine giudiziario. Le garanzie per il libero esercizio dell’attività difensiva. Le garanzie di carattere generale consistono nella forte tutela del segreto professionale assicurata da art 200 gli avvocati, che «Non possono essere obbligati a deporre su quanto hanno conosciuto per ragione del proprio ministero, ufficio o professione». Le garanzie di carattere speciale riguardano la tutela dell’ufficio e dei colloqui coi clienti e sono finalizzate ad assicurare la libertà di predisposizione delle strategie difensive in un processo di tipo accusatorio. L’ufficio del difensore. Lo studio legale nel quale opera il difensore ha le seguenti tutele: le ispezioni, le perquisizioni ed i sequestri di regola sono vietati; sono ammessi in casi tassativi previsti dalla legge; inoltre, essi devono essere effettuati con modalità da osservarsi a pena di inutilizzabilità dei risultati. Le intercettazioni relative a comunicazioni svolte tra difensore, consulenti tecnici e ausiliari sono inutilizzabili. Questi sono i casi previsti dal codice: a) le ispezioni e le perquisizioni sono ammesse quando i difensori (o le altre persone che svolgono stabilmente attività nel medesimo ufficio) risultano essere imputati; tali atti devono essere disposti «limitatamente ai fini dell’accertamento del reato loro attribuito» (103, comma I, lett. a). In questo caso il difensore o altra persona viene in considerazione come imputato, non viene in questione l’attività svolta dal difensore medesimo. b) le ispezioni e le perquisizioni sono ammesse «per rilevare tracce o altri effetti materiali del reato» (103 [Garanzie di libertà del difensore], comma I, lett. b): si tratta di accertare con quali modalità è stata commessa ad esempio la rapina in uno studio di un avvocato; c) le ispezioni e le perquisizioni sono ammesse «per ricercare cose o persone specificamente predeterminate» che siano nascoste nell’ufficio di un avvocato (103, comma I, lett. b). Esempio, si ricerca un latitante che si sa essere presente nello studio legale. d) il sequestro di carte o documenti relativi all’oggetto della difesa è vietato nell’ufficio del difensore e dei suoi ausiliari «incaricati in relazione al procedimento» (investigatore privato autorizzato e consulente tecnico); il sequestro è ammesso solo in relazione ad oggetti «che costituiscano corpo del reato» (103, comma II). Esempio, un assegno falso. Garanzie. Gli atti sopra menzionati devono essere compiuti solo da un magistrato: in particolare, le attività di ricerca sono compiute personalmente dal giudice; nel corso delle indagini possono essere compiute dal p.m. purché autorizzato dal giudice con decreto motivato (103, comma IV). Quando il giudice o il p.m. si accingono a compiere una perquisizione, un’ispezione od un sequestro nell’ufficio del difensore, devono preavvisare, a pena di nullità, il presidente del consiglio dell’ordine perché questi (o un consigliere da lui delegato) possano «assistere alle operazioni» (103, comma III). Se il presidente (o il consigliere delegato) intervengono all’atto e ne fanno richiesta, deve essere loro consegnata una copia del provvedimento. La persona offesa del reato e la parte civile La persona offesa. La persona offesa dal reato è il titolare dell’interesse giuridico protetto, anche in modo non prevalente, da quella norma incriminatrice che si assume sia stata violata dal reato. Per individuare la persona offesa occorre dunque far riferimento alla norma penale sostanziale, accertare l’interesse che è oggetto della tutela e, quindi, procedere all’identificazione del soggetto o dei soggetti titolari di tale interesse. Bisogna anche tener presente che vi sono reati plurioffensivi, e cioè che ledono o mettono in pericolo più beni giuridici contemporaneamente. Il codice attribuisce alla persona offesa la qualifica di “soggetto” del procedimento; la qualifica di “parte” le viene riconosciuta solo se, nella veste di danneggiato dal reato, la persona offesa abbia esercitato l’azione risarcitoria costituendosi parte civile. Il Codice di procedura penale prevede almeno un caso di persona offesa di “creazione legislativa”: ai sensi del 90 comma III, qualora una persona sia deceduta in conseguenza del reato, le facoltà e i diritti previsti dalla legge in favore della persona offesa sono esercitati dai “prossimi congiunti”, e cioè dai parenti e dagli affini fino al terzo grado (307, comma IV c.p.: «Agli effetti della legge penale, s’intendono per prossimi congiunti gli ascendenti, i discendenti, il coniuge, i fratelli, le sorelle, gli affini nello stesso grado, gli zii e i nipoti: nondimeno, nella denominazione di prossimi congiunti, non si comprendono gli affini, allorché sia morto il coniuge e non vi sia prole») prescindendo dai diritti di natura civilistica derivanti dalla successione. La vittima del reato. La riforma cartabia ha introdotto una definizione di vittima da utilizzarsi solo nelle materie di giustizia riparativa art 42 cm 1, lett. b. La vittima del reato è stata definita come la persona fisica che ha subito direttamente dal reato qualunque danno, patrimoniale e non. Inoltre è vittima del reato il familiare di una persona la cui morte è stata causata da un reato e che ha subito un danno in conseguenza della morte di tale persona. I poteri sollecitatori. La persona offesa dal reato, nella sua qualità di soggetto del procedimento, può esercitare i diritti e le facoltà ad essa espressamente riconosciuti dalla legge (90, comma I). Tra i poteri che può esercitare, possiamo menzionare quelli meramente “sollecitatori” dell’attività dell’autorità inquirente, come il presentare memorie o l’indicare elementi di prova nel corso del procedimento, escluso il giudizio di cassazione. Ai sensi dell’art 90 comma 1 bis introdotto dalla riforma cartabia, la persona offesa ha la facoltà di dichiarare o eleggere domicilio. I diritti di informativa. La persona offesa del reato ha il diritto di ricevere le informazioni necessarie al fine di esercitare i propri poteri nel procedimento penale. La persona offesa ha il diritto di conoscere le iscrizioni che la riguardino e che sono contenute nel registro delle notizie di reato. La persona offesa ha ulteriori diritti di informativa: deve essere avvisata della data e del luogo nel quale si svolgerà l’udienza preliminare (419) serve a mettere l’offeso in grado di valutare se gli convenga costituirsi parte civile, qualora comuli la qualifica di danneggiato; inoltre deve esserle notificato il decreto che dispone il giudizio. Ancora il pm e la polizia giudiziaria, al momento dell’acquisizione della notizia di reato, devono informare la persona offesa della facoltà di nominare un difensore di fiducia, e della possibilità dell’accesso al patricino a spese dello stato. elementi: 1. le generalità della persona fisica (o la denominazione dell’associazione od ente che si costituisce parte civile e le generalità del suo legale rappresentante); 2. le generalità dell’imputato nei cui confronti viene esercitata l’azione civile (o le altre indicazioni personali che valgono ad identificarlo); 3. il nome ed il cognome del difensore e l’indicazione della procura a questi rilasciata; 4. l’esposizione delle ragioni che giustificano la “domanda” (petitum), che consiste nella richiesta al giudice di pronunciare la condanna dell’imputato al risarcimento del danno. I “motivi” consistono nelle ragioni per le quali si ritiene che il reato abbia provocato un danno patrimoniale e un danno non patrimoniale ( costituirebbero causa petendi di un giudizio civile) e consentendo al giudice di valutare se il richiedente è legittimato a costituirsi parte civile. In questo momento non è richiesta la precisazione del quantum del risarcimento; l’indicazione dell’ammontare del danno sarà invece necessaria al momento della presentazione delle conclusioni scritte al termine del dibattimento (523, comma II). Gli altri soggetti del procedimento penale. l codice prevede che possano esser presenti nel procedimento altri soggetti oltre alla persona offesa dal reato ed alla parte civile: tali ulteriori soggetti sono l’ente rappresentativo di interessi lesi dal reato (91), il responsabile civile (83), la persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria (89) e gli enti responsabili in via amministrativa per i reati commessi da loro rappresentanti o dirigenti. L’ente rappresentativo di interessi lesi del reato. Il codice prevede la possibilità di intervento nel procedimento penale dell’ente od associazione rappresentativa di un interesse leso dal reato, rinviando a successive leggi che autorizzano singoli enti (91). Ai sensi del 187 del d. lgs. 58/1998, nei procedimenti per i reati relativi all’uso di informazioni riservate nelle operazioni in valori mobiliari (insider trading), la Commissione nazionale per le società e la borsa (Consob) può esercitare i diritti e le facoltà riconosciute dal codice agli enti rappresentativi di interessi lesi dal reato; in base al 7 l. 189/2004 analoghe facoltà sono riconosciute alle associazioni che tutelano gli animali e che sono individuate con decreto ministeriale. L’ente rappresentativo può «esercitare in ogni stato e grado del procedimento i diritti e le facoltà attribuiti alla persona offesa dal reato» (91): da ciò si ricava che l’ente è un “soggetto” del procedimento e non può diventare “parte”. Il difensore che rappresenta l’ente può partecipare all’udienza preliminare e al dibattimento; in tale sede può chiedere al presidente di rivolgere domande alle persone sottoposte ad esame incrociato e può altresì chiedere l’ammissione di nuovi mezzi di prova (505). In definitiva, l’ente rappresentativo dell’interesse leso dal reato è solo un “soggetto” che si colloca come accusatore a fianco del p.m., senza poter esercitare né l’azione penale, né l’azione civile di danno. Il codice lascia aperta la strada alla possibilità che, in base a future leggi, enti esponenziali di interessi lesi intervengano nel procedimento penale; tuttavia permette l’intervento di questi ultimi ancorandolo a rigidi requisiti: a. quale primo requisito si richiede che l’ente collettivo sia riconosciuto in forza di legge e che tale riconoscimento sia intervenuto anteriormente alla commissione del reato; b. quale secondo requisito si impone che l’ente sia “rappresentativo”, e cioè abbia come finalità la tutela dell’interesse (collettivo o diffuso) leso dal reato; è necessario anche che l’ente non abbia scopo di lucro; c. infine, si richiede un terzo requisito, e cioè il consenso della persona offesa dal reato (92: Consenso della persona offesa), ovviamente se tale persona è identificabile. Quest’ultima può prestare il proprio consenso a non più di un ente e può revocare il consenso col limite che, in caso di revoca, non può più prestarlo né allo stesso, né ad altri enti. Il responsabile civile. Il responsabile civile è il soggetto obbligato a risarcire il danno causato dall’autore del reato. Può essere citato nel processo penale a richiesta della parte civile (83) o può intervenire volontariamente quando vi è stata costituzione di parte civile (85: Intervento volontario del responsabile civile). Il Codice di procedura penale fa riferimento ad un istituto civilistico, cioè al responsabile civile per un fatto altrui. Il responsabile civile è un soggetto che non ha partecipato al compimento dell’illecito penale, ma è chiamato a risarcire il danno provocato dalla persona che ha commesso tale fatto illecito. Il Codice civile prevede singole ipotesi di responsabilità “per fatto altrui”; in tali casi il responsabile civile è obbligato in solido con l’imputato al risarcimento del danno. Se il danneggiato esercita, nel processo penale, l’azione civile risarcitoria contro l’imputato, può anche scegliere di chiedere la condanna del responsabile civile. Il responsabile civile può intervenire volontariamente nel processo penale per chiedere l’ammissione di prove che lo liberino da responsabilità o che dimostrino l’innocenza dell’imputato. Pertanto il responsabile civile è “parte” fin dal momento in cui è stato citato o è intervenuto volontariamente; ma è una parte “eventuale” del processo penale perché la sua presenza richiede che, in primo luogo, il danneggiato si sia costituito parte civile e, in secondo luogo, che il responsabile civile sia stato citato o sia intervenuto volontariamente. La persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria. La persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria è una “parte eventuale” del processo penale: essa è citata a richiesta del p.m. o dell’imputato (89: Citazione del civilmente obbligato per la pena pecuniaria). La responsabilità si attiva quando l’autore del reato, che sia stato condannato e sottoposto ad esecuzione per una pena pecuniaria (multa o ammenda), sia insolvibile. In tal caso, l’obbligo di pagare la multa o l’ammenda è posto a carico della persona fisica o giuridica indicata dagli artt. 196 e 197 del Codice penale. In base al 196, i soggetti civilmente obbligati al pagamento della pena pecuniaria sono individuati nelle persone che sono rivestite di autorità, direzione o vigilanza sull’autore del reato, se si tratta di violazioni di disposizioni che le predette persone erano tenute a far osservare. In base al successivo 197, altri soggetti civilmente obbligati sono individuati negli enti forniti di personalità giuridica, qualora sia pronunciata condanna contro chi ne abbia la rappresentanza o l’amministrazione o ne sia dipendente, quando si tratta di reato che costituisca violazione degli obblighi inerenti alla qualità rivestita dal colpevole ovvero sia commesso nell’interesse della persona giuridica. La responsabilità è civile (e cioè attiene al pagamento di una somma), ma la fonte è la condanna penale alla multa o all’ammenda. Gli enti responsabili in via amministrativa per i reati commessi da loro rappresentanti o dirigenti. Il d. lgs. 231/2001 ha introdotto nel nostro ordinamento un nuovo tipo di responsabilità amministrativa dipendente dal compimento di determinati reati. Tale responsabilità è attribuita alle persone giuridiche ed alle società ed associazioni in relazione ai reati commessi, nell’interesse o a vantaggio dell’ente, da persone che rivestono funzioni di rappresentanza, amministrazione o direzione dell’ente medesimo o che ne assumono, anche di fatto, la gestione e il controllo; o ancora, da persone in posizione subordinata in caso di omesso controllo da parte dei soggetti in posizione apicale. Si tratta di una responsabilità limitata a reati espressamente elencati dalla legge. Agli enti è addebitata una responsabilità di tipo amministrativo, anche se questa è accertata all’interno di un procedimento penale; nei confronti degli enti sono applicabili sanzioni pecuniarie ed interdittive (ad es., interdizione dall’esercizio dell’attività; divieto di contrattare con la p.a.; etc.). Nei procedimenti per i reati menzionati il p.m. cita l’ente in qualità di parte. L’ente che intende partecipare attivamente al procedimento penale si costituisce con una dichiarazione scritta che deve contenere, a pena di inammissibilità, la propria denominazione e le generalità del legale rappresentante, il nome ed il cognome del difensore, l’indicazione della procura, la sottoscrizione del difensore e l’elezione di domicilio (39: Rappresentanza dell’ente). Se l’ente sceglie di non partecipare al procedimento e, pertanto, non si costituisce, nella fase processuale viene dichiarato contumace (41: Contumacia dell’ente). Capitolo II Gli ATTI Gli atti del procedimento penale Considerazioni preliminari. Atti analogici e informatici. Il codice dedica un apposito libro, il secondo, gli atti e alle invalidità dei medesimi. Viene definito “atto del procedimento penale” quell’atto che è compiuto da uno dei soggetti del procedimento (giudice, p.m., polizia giudiziaria, difensore, imputato etc.) e che è finalizzato alla pronuncia di un provvedimento penale (sia esso una sentenza, un’ordinanza o un decreto); non rientra in tale concetto la denuncia da parte di un privato perché non è compiuta da un soggetto del procedimento. In base a tale definizione rientra nel concetto di atto, sia gli atti delle indagini preliminari (che sono compiuti in una fase pre-processuale), sia gli atti dell’udienza preliminare e del giudizio (che fanno parte del processo penale). Il primo atto del procedimento penale è quello che segue la ricezione della notizia di reato da parte della polizia giudiziaria o del p.m. (art347). Occorre precisare che col termine “atto” si designa quella “attività” che è compiuta da un soggetto; tuttavia, nella prassi il termine “atto” individua anche il risultato permanente dell’attività che è stata compiuta: in quest’ultimo significato “atto” sta ad indicare sia il verbale che documenta l’attività compiuta, sia il testo del provvedimento pronunciato (sentenza del giudice, o richiesta di una parte). Gli atti informatici. Disposizioni generali. La riforma Cartabia ha introdotto nel libro II del codice nuove dispodizioni sulla documentazione degli atti informatici che si affiancano a quelle relative agli atti incorporati con modalità analogiche (es redatti per iscritto su carta). La nozione di documento informatico è basato su una teoria generale della prova documentale, è atto informatico quella rappresentazione di un fatto che è incorporato su una base materiale con metodo digitale, la formazione e la comprensione della rappresentazione stessa necessita di uno strumento informatico, come smartphone e computer es. Le nuove norme della disciplina sono state inserite nella disciplina degli atti del procedimento che sono sottoposti a una distinta regolamentazione (es redazione di uno scritto su file formato digitale, redazione di uno scritto su carta formato analogico). Atti a forma vincolata. Sono quelli per i quali è richiesta la forma scritta. Il libro secondo del codice di procedura prevede “i modelli legali” che sono prefissati in via generale per gli atti del procedimento. Nei libri successivi vi sono modelli speciali che sono previsti per singoli tipi di atti. Il rispetto delle forme legali è una garanzia poste a tutela dei soggetti che sono implicati nel Copie, estratti e certificati. I’art 116 (Copie, estratti e certificati) prevede che «Durante il procedimento e dopo la sua definizione, chiunque vi abbia interesse può ottenere il rilascio a proprie spese di copie, estratti o certificati di singoli atti». Il rilascio avviene su autorizzazione, salvo che la legge riconosca espressamente al richiedente il diritto al rilascio (43 disp. att.: Autorizzazione al rilascio di copia di atti). L’autorizzazione è disposta dal p.m. o dal giudice che procede al momento della presentazione della domanda o, dopo la definizione del procedimento, dal presidente del collegio o dal giudice che ha emesso il provvedimento di archiviazione o la sentenza (comma II). Dall’interpretazione coordinata degli artt. 116 (Copie, estratti e certificati) e 329 (Obbligo del segreto) si ricava che i casi nei quali l’interessato non può ottenere il rilascio riguardano gli atti coperti dal segreto investigativo. Poiché il deposito dell’atto in favore del difensore fa cadere il segreto investigativo, non è necessaria un’apposita autorizzazione in favore del difensore che chieda di estrerre copia degli atti depositati in suo favore. Richiesta di copie di atti da parte del pubblico ministero. Ai sensi dell’art 117 (Richiesta di copie di atti e di informazioni da parte del pubblico ministero), il p.m. titolare di un procedimento può chiedere personalmente (non mediante delega) all’autorità giudiziaria competente (pubblico ministero o giudice dell’udienza preliminare o della fase del giudizio) copie di atti relativi ad altri procedimenti penali ed informazioni scritte sul loro contenuto, il potere è funzionale alla necessità di svolgere indagini. L’autorità giudiziaria richiesta provvede senza ritardo e, se rigetta la domanda, deve farlo con decreto motivato (117, comma II). Se gli atti sono relativi ad un’indagine preliminare, la trasmissione degli stessi è ammessa anche in deroga al segreto investigativo di cui al 329 [Obbligo del segreto]. Richiesta di copie di atti da parte del Ministro dell’interno. Anche il Ministro dell’interno gode del potere di chiedere atti ed informazioni attinenti ad un procedimento penale; il Ministro può procedervi sia direttamente, sia a mezzo di un ufficiale di polizia giudiziaria o del personale della direzione investigativa antimafia (118: Richiesta di copie di atti e di informazioni da parte del ministro). Il potere è concesso al fine di “prevenire” i delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza. L’autorità giudiziaria richiesta provvede senza ritardo e, se rigetta la domanda, deve farlo con decreto motivato (118, comma II). Se gli atti sono relativi ad un’indagine preliminare, la trasmissione avviene in deroga al segreto investigativo; gli atti sono coperti da segreto d’ufficio (118, comma III). Per le medesime finalità di prevenzione l’autorità giudiziaria può autorizzare i soggetti delegati dal Ministro dell’interno (ed appartenenti alla polizia giudiziaria o alla direzione investigativa antimafia) ad accedere direttamente al registro delle notizie di reato (118, comma 1 bis). Infine, il Presidente del Consiglio dei ministri può chiedere all’autorità giudiziaria copie di atti del procedimento penale che sono indispensabili per il sistema di informazioni per la sicurezza (118 bis). Partecipazione del sordo, muto e sordomuto ad atti del procedimento penale. Ai sensi del 119, quando un sordo, un muto o un sordomuto vuole o deve fare dichiarazioni, al sordo si presentano per iscritto le domande, gli avvertimenti e le ammonizioni ed egli risponde oralmente; al muto si fanno oralmente le domande (etc.) ed egli risponde per iscritto; al sordomuto si presentano per iscritto le domande (etc.) ed egli risponde per iscritto. Testimoni ad atti del procedimento. (art 120) Il codice prevede in varie disposizioni che determinate persone possano assistere ad atti del procedimento penale. Queste intervengono nel processo penale non in quanto sono a conoscenza di fatti oggetto di prova (in tal caso si tratterebbe di testimoni in senso proprio: 187 e 194), bensì perché sono persone di fiducia di uno dei soggetti interessati allo svolgimento del relativo atto, del quale garantiscono la regolarità e sul quale possono essere chiamate a testimoniare. Ciò avviene per l’ispezione personale (245), per la perquisizione personale (249) e locale (250). Il codice definisce tali persone “testimoni ad atti del procedimento” e detta espressamente per loro nell’art 120 alcune cause di incapacità che pongono i seguenti divieti. Non possono intervenire come testimoni ad atti del procedimento: a. i minori degli anni 14 e le persone palesemente affette da infermità di mente o in stato di manifesta ubriachezza o di intossicazione da sostanze stupefacenti o psicotrope (la loro capacità si presume fino a prova contraria); b. le persone sottoposte a misure di sicurezza detentive o a misure di prevenzione. Obbligo di osservanza delle norme processuali. (art 124). La Costituzione, prevedendo il giusto processo regolato dalla legge (111, comma I: «La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge»), detta un principio generale di legalità processuale. Tale principio è attuato dalle norme sulle invalidità degli atti processuali. A chiusura del sistema, l’art 124.1 c.p.p. impone di «osservare le norme di questo codice anche quando l’inosservanza non importa nullità o altra sanzione processuale». L’obbligo è diretto ai magistrati, ai cancellieri, agli altri ausiliari del giudice, agli ufficiali giudiziari ed agli agenti di polizia giudiziaria. La disposizione si traduce in un obbligo deontologico assistito da sanzioni disciplinari. Gli atti del giudice e delle parti Gli atti del giudice sono la sentenza, l’ordinanza e il decreto. La sentenza è l’atto con cui il giudice adempie al dovere di decidere, che gli è posto a seguito dell’esercizio dell’azione penale. La sentenza esaurisce una fase o un grado del processo; con essa il giudice si spoglia del caso. Se una parte impugna la sentenza, un altro giudice esaminerà successivamente il caso, e questo fino a che sarà pronunciata una sentenza non piu’ impugnabile con i mezzi di inpugnazione ordinari (art 648). Dal punto di vista della forma, la sentenza deve essere sempre motivata, e cioè deve dar conto del percorso logico seguito dal giudice per giungere alla decisione. L’obbligo della motivazione è posto direttamente dalla Costituzione (111, comma VI: «Tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati») e ripetuto dal codice, che prevede la sanzione della nullità (relativa) per l’eventuale inosservanza (125, comma III: «Le sentenze e le ordinanze sono motivate, a pena di nullità. I decreti sono motivati, a pena di nullità, nei casi in cui la motivazione è espressamente prescritta dalla legge»). L’ordinanza è il provvedimento col quale il giudice risolve singole questioni senza definire il processo: ad esempio, con ordinanza il giudice accoglie o respinge la domanda di ammissione di un mezzo di prova (190 [Diritto alla prova], comma I). L’ordinanza deve essere sempre motivata a pena di nullità (125, comma III) e, di regola, è revocabile dal giudice. Il decreto è un “ordine” dato dal giudice; deve essere motivato solo se la legge lo precisa espressamente (125 comma III). Singole norme del codice prescrivono quando il provvedimento del giudice assume la forma di ordinanza o del crecreto (es il decreto che dispone il giudizio art 429, questo atto è emanato dal giudice al termine dell’udienza preliminare e costituisce un atto di impulso al proseguimento del processo. È difficile enunciare un criterio generale di distinzione, poiché anche il decreto, come l’ordinanza, risolve singole questioni senza chiudere in modo definitivo il procedimento. L’ordinanza è emessa dopo che si è svolto un contraddittorio fra le parti; il decreto è pronunciato in assenza di contraddittorio. Il decreto è un tipo di atto che può essere emesso, oltre che dal giudice, anche dal p.m. nei casi previsti dal codice; ad esempio, il p.m. dispone con decreto il sequestro del corpo del reato (253). La immediata declaratoria di determinate cause di non punibilità (art. 129). Poiché il processo penale coinvolge diritti di libertà che sono indisponibili per espresso enunciato costituzionale (13, comma I: «La libertà personale è inviolabile»), il 129, comma I pone la regola secondo cui il giudice ha l’obbligo di dichiarare immediatamente d’ufficio determinate cause di non punibilità. Si tratta di quelle che concernono l’assenza di responsabilità dell’imputato, l’estinzione del reato e la mancanza di una condizione di procedibilità. Più precisamente, il codice enumera le seguenti formule terminative che comportano la declaratoria immediata: il fatto non sussiste, l’imputato non lo ha commesso, il fatto non costituisce reato e il fatto non è previsto dalla legge come reato. La immediata declaratoria in ogni stato e grado del processo. La pronuncia del giudice deve intervenire immediatamente in ogni stato e grado del processo, e cioè in momenti successivi all’esercizio dell’azione penale. L’obbligo deve intendersi limitato da norme speciali che regolano la fase o il grado: ad esempio, il giudice deve essere stato investito della piena cognizione del fatto; ciò non avviene nel caso di procedimenti incidentali. Nella fase delle indagini preliminari il giudice non può attivarsi d’ufficio per il semplice motivo che prima dell’esercizio dell’azione penale non vi è “processo” e, quindi, non si può applicare il 129. La gerarchia tra le formule di proscioglimento. Il comma II dell’art 129 pone una gerarchia tra le formule che il giudice è tenuto ad emettere: quando esiste una causa di estinzione del reato (ad esempio, la prescrizione) e risulta evidente dagli atti la “non responsabilità penale” dell’imputato, il giudice deve dare la preferenza a questo tipo di pronuncia, che assume la forma della sentenza di assoluzione (se pronunciata in giudizio) o della sentenza di non luogo a procedere (se emessa nell’udienza preliminare). Ove non sia stata già acquisita agli atti la prova evidente circa la mancanza di responsabilità dell’imputato, il giudice è tenuto a pronunciare immediatamente l’estinzione del reato; ma è stato riconosciuto che l’imputato ha diritto a rinunciare all’amnistia sopravvenuta (Corte cost. 175/1971) ed alla prescrizione del reato maturata nel frattempo (Corte cost. 275/1990; 157, comma VII c.p.) rendendo inoperante l’obbligo di immediata declaratoria delle relative cause di estinzione. La correzione di errori materiali. L’art 130 prevede la procedura di correzione degli errori materiali. L’istituto richiede almeno quattro requisiti: a. sono oggetto di correzione degli errori materiali solo gli atti del giudice riferibili al modello delle sentenze, delle ordinanze e del decreto; b. l’errore non deve essere causa di nullità dell’atto; c. l’errore deve essere materiale, e cioè consistere in una difformità tra il pensiero del giudice (contenuto dell’ordinanza) e la formulazione esteriore di tale pensiero; ma può essere errore materiale anche una omissione relativa ad un comando che dipende in maniera automatica dalla legge; d. l’eliminazione dell’errore non deve comportare una modifica essenziale dell’atto; pertanto si devono escludere quelle correzioni che incidono sul dispositivo. Il procedimento di correzione dell’errore si svolge in camera di consiglio secondo le forme del 127. La competenza spetta al giudice “autore” dell’atto; nel corso delle impugnazioni spetta al giudice ad quem. L’iniziativa spetta al giudice, che provvede anche su richiesta del p.m. o della parte interessata. L’ordinanza recante la correzione deve essere annotata sull’originale dell’atto. La partecipazione a distanza Principio di sussidiaretà. La riforma Cartabia ha predisposto una disciplina generale per la partecipazione a distanza nel titolo II-bis del libro II del codice, solvo eccezioni quando sia espressamente prevista una normativa speciale (art 133-bis). Ad es, restano in vigore le ipotesi di esame e partecipazione a distanza previste dalle norme di attuazione per i reati gravi o per la tutela di persone da proteggere (es operatori sotto copertura, collaboratori o ipumputati connessi). La nuova disciplina tende ad attuare un bilanciamento tra differenti esigenze: 1) Attuare la semplificazione e speditezza del processo. 2) Assicurare l’effettiva partecipazione consapevole dell’imputato e l’idoneità dei mezzi per attuare la partecipazione. Bilanciamento tra differenti esigenze: 1) È chiesto il consenso delle parti interessate nelle nuove ipotesi introdotte dalla riforma (es nell’assunzione delle prove in udienza in base ai nuovi art 496 comma 2-bis e 422 cm 2). 2) L’autorità procedente non è vincolata dal consenso delle parti interessate e autorizza la partecipazione a distanza dopo aver accertato la disponibilità della strumentazione tecnica. 3) L’udienza non può essere un luogo meramente virtuale, bensi’ deve avvenire sia pure con la partecipazione a distanza, in un luogo fisico determinato, cioè in un ufficio giudiziario o della polizia attrezzato, individuato dall’autorità giudiziaria. Modalità di partecipazione. Negli art 133-bis e 133-ter è stata intodotta una regolamentazione generale e uniforme, salvo che sia stato diversamento stabilito. La decisione che autorizza la partecipazione a distanza è assunta dall’autorità giudiziaria procedente con decreto motivato che se non emesso in udienza, deve essere notificato o comunicato alle parti almeno 3 giorni prima dalla data dell’atto. Il decreto è comunicato anche alle autorità interessate. Il luogo in cui si trovano le persone che compiono l’atto o che partecipano all’udienza a distanza è equiparato all’aula di udienza. Garanzie. il collegamento deve essere attuato a pena di nullità con modalità idonee a salvaguardare il contraddittorio e l’effettiva partecipazione delle parti, deve assicurare la contestuale effettiva e reciproca visibilità delle persone presenti nei diversi luoghi e la possibilità per ciascuno di esse di udire quanto viene detto dalle altre (art 133-ter). Nei casi di udienza pubblica deve essere assicurata un’adeguata pubblicità degli atti a distanza e sempre registrazione audiovisiva. All’attestazione delle generalità delle persone collegate provvede un ausiliario del giudice o del pm o un ufficiale di polizia giudiziaria che redigono il verbale. I difensori si collegano dai rispettivi uffici o da altro luogo, purchè idoneo. La documentazione degli atti Gli atti del procedimento penale devono essere documentati perché se ne possa conservare traccia. Il codice prevede che a tale documentazione si provveda “mediante verbale”, che viene redatto dall’ausiliario che assiste il giudice o il p.m. (135, 373 e 480). I’art 136, comma I, indica il contenuto del verbale: «Il verbale contiene la menzione del luogo, dell’anno, del mese, del giorno e, quando occorre, dell’ora in cui è cominciato e chiuso, le generalità delle persone intervenute, […] la descrizione di quanto l’ausiliario ha fatto o ha constatato o di quanto è avvenuto in sua presenza nonché le dichiarazioni ricevute da lui o da altro pubblico ufficiale che egli assiste». Il verbale deve riprodurre sia le domande, sia la risposta (136 [Contenuto del verbale], comma II). Il valore probatorio. La Relazione al Progetto preliminare chiarisce che «il verbale deve bensì documentare gli atti, ma non è esso stesso fonte di prova, ha solo la funzione di documentare gli atti e di attestare quello che è avvenuto in presenza dell’ausiliario. Significa che il giudice rimarrà libero di valutare il significato probatorio del contenuto del verbale, cioè potrà liberamente apprezzare, esempio le dichiarazioni riportate siano vere o false, ma anche potrà valutare la correttezza della descrizione redatta dal pubblico ufficiale. La documentazione può essere effettuata con almeno tre modalità differenti. Il verbale in forma integrale. In dibattimento di regola deve essere redatto il verbale in forma integrale con la stenotipia o altro strumento meccanico ovvero, in caso di impossibilità di ricorso a tali mezzi, con la scrittura manuale (134 comma II). Il verbale in forma integrale ha la caratteristica di riprodurre sia la domanda, sia la risposta (136, comma II). Il verbale in forma riassuntiva con riproduzione fonografica. Una seconda modalità di documentazione è il verbale in forma riassuntiva con riproduzione fonografica (134, comma III): in tal caso spetta al giudice vigilare che «sia riprodotta nell’originaria genuina espressione la parte essenziale delle dichiarazioni» (140, comma II); da ciò si evince che “riassuntivo” non significa riassunto del concetto delle dichiarazioni, ma solo sommaria esposizione degli elementi extra- dichiarativi. Quando il verbale è redatto in forma riassuntiva deve essere effettuata anche la riproduzione fonografica (134, comma III). La riforma Cartabia ha valorizzato la documentazione integrale degli atti a contenuto dichiarativo compiuti nel corso delle indagini preliminari e delle prove dichiarative assunte nell’incidente probatorio, nel giudizio abbreviato, e nel dibattimento. Per un verso ha abrogato il comma 4 dell’art 134 che prevedeva una disciplina della riproduzione audiovisiva. Per un altro verso, ha previsto apposite modifiche delle norme speciali sulla documentazione si singoli atti. La documentazione mediante riproduzione audiovisiva o fonografica. In particolare è prevista la documentazione mediante riproduzione audiovisiva o fonografica, salva la indisponibilità di strumenti di riproduzione o di personale tecnico: Dichiarazioni resa da minorenni, infermi di mente, la documentazione degli interrogatori degli indagati, le prove dichiarative acquisite in dibattimento, giudizio abbreviato e nell’incidente probatorio. La notificazione Considerazioni preliminari. La notificazione è lo strumento previsto dalla legge per render noto al destinatario un atto (o un’attività) del procedimento; di regola essa è eseguita mediante la consegna di una copia dell’atto stesso al destinatario. Questo può essere un atto del procedimento (ad es., la richiesta di archiviazione: (408, comma II), o l’avviso di un’attività già compiuta o da compiere (ad es., l’avviso che è depositato in segreteria il verbale di un atto di indagine: 366, o l’avviso che sarà compiuto un atto garantito art 364). La riforma Cartabia ha riscritto delle norme contenute nel titolo V del libro II del codice e ha introdotto nuove disposizioni in materia di notificazioni. Lo scopo è quello di rendere il processo telematico, che secondo la regola generale fissata da art 148 “sono eseguite, a cura della segrteria o cancelleria, con modalità telematiche, che ne rispetto della normativa anche regolamentare concernente la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici, assicurano la identità del mittente e del destinatario, l’integrità del documento trasmesso, nonchè la certezza, anche temporale dell’avvenuta trasmissione e ricezione”. Il nuovo art 148 deve essere letto assieme al cm 1 dell’art 161, ove è previsto che nel momento in cui viene compiuto il primo atto con l’intervento della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato, l’autorità procedente invita a quest’ultimo a dichiarare uno dei luoghi indicati nell’art 157 cm 1, o un indirizzo di posta elettronica certificara ovvero a eleggere il domicilio per la notificazione degli atti introduttivi del giudizio. Viene introdotto nel codice il concetto di domicilio digitale. Gli organi che eseguono la notificazione. Gli organi che eseguono la notificazione telematica, in base all’art 148 sono la cancelleria del giudice o la segreteria del pm. . In casi eccezionali le notifiche sono svolte anche dalla polizia penitenziaria o dalla polizia giudiziaria. Se la notifica è effettuata con modalità telematiche, l’organo che la esegue assicura la identità del mittente e del destinatario, l’integrità del documento trasmesso, nonchè la certezza, anche temporale, dell’avvenuta trasmissione e ricezione. Se la notifica è effettuata attraverso modalità tradizionali, l’atto è notificato per intero tramite consegna della copia dell’atto stesso al destinatario da parte dell’ufficiale giudiziario. Conoscenza effettiva e presuntiva. Le formalità prescritte dalla legge sono finalizzate ad assicurare l’effettiva conoscibilità dell’atto da parte dell’interessato; una volta che esse sono state adempiute, scatta la presunzione legale di avvenuta conoscenza. Il Codice in materia di protezione dei dati personali (d. lgs. 196/2003) ha voluto tutelare la riservatezza della persona destinataria della notifica. Infatti, quando la notifica è effettuata con le modalità tradizionali e non puo’ essere eseguita in mani proprie del destinatario, l’atto è consegnato in busta sigillata, ad esempio al portiere. Questa formalità non è prevista nel caso di notifica al difensore o al domiciliato. La relazione di notificazione. Della consegna dell’atto è redatto un verbale, che viene chiamato “relazione di notificazione” e che ha il contenuto indicato nell’art 168 del codice: l’ufficiale giudiziario (od altro soggetto legittimato) «scrive, in calce all’originale e alla copia notificata, la relazione in cui indica l’autorità o la parte privata richiedente, le ricerche effettuate, le generalità della persona alla quale è stata consegnata la copia, i suoi rapporti con il destinatario, le funzioni o le mansioni da essa svolte, il luogo e la data della consegna della copia, apponendo la propria sottoscrizione». La relazione di notificazione è il verbale di un’attività compiuta; come tale, è destinata a far prova di quanto il pubblico ufficiale ha compiuto e dei fatti da lui constatati. La notificazione produce effetto per ciascun destinatario dal giorno della sua esecuzione (168); pertanto, da tale momento l’atto si presume conosciuto dal destinatario. Quando la notifica viene eseguita con modalità telematiche, la ricevuta di avvenuta consegna, generata dal sistema, assume valore di notificazione (art 168). È da questo momento che la notifica telematica produce effetto e l’atto si presume conosciuto al destinatario. I soggetti legittimati a disporre le notificazioni Notificazioni disposte dal giudice. Le notificazioni ordinate dal giudice sono eseguite a cura della segreteria o della cancelleria, con modalità telematiche attraverso l’invio di una copia digitale dell’atto conforme all’originale (art 148 cm1). Se per espressa previsione di legge la notifica è effettuata con modalità tradizionali di regola, l’atto è notificato per intero mediante consegna al alla notifica disposta dal giudice ed effettuata dall’ufficiale giudiziario, senza una previa dichiarazione o elezione del domicilio). Le notifiche successive alla prima. Il nuovo art 157-bis disciplina ex novo tutte le notificazioni all’imputato non detenuto successive alla prima, diverse dalla notificazione dell’avviso di fissazione dell’udienza preliminare, del decreto di citazione a giudizio direttissimo, del decreto che dispone il giudizio immediato, del decreto di citazione diretta a giudizio, del decreto di citazione a giudizio di appello, nonchè del decreto penale di condanna. Le notifiche successive alla prima diverse da queste enunciate sono sempre eseguite mediante consegna al difensore di fiducia o di ufficio. Si tratta di una vera e propria domiciliazione ex lege. Le notifiche degli atti introduttivi del giudizio. Sempre a garanzia della effettiva conoscenza del processo, l’art 157-ter prevede che le notifiche degli atti introduttivi del giudizio siano sempre effettuate al domicilio dichiarato, anche se si tratta di domicilio digitale o a domicilio eletto, solo il mancanza di tale nei luoghi diversi da questi in base a art 157. In sostanza, se l’imputatoi ha dichiarato o eletto domicilio, la notifica dell’atto introduttivo potrà esser effettuata presso il luogo indicato o tramite invio di notifica telematica all’indirizzo di posta eletronica certificata. Viceversa se l’imputato non ha ancora dichiarato o eletto il domicilio la disciplina da applicare è quella prevista per la prima notifica all’imputato non detenuto. Il decreto di irreperibilità. Il codice considera anche l’ipotesi nella quale, malgrado l’attivazione delle modalità previste dal 157 (prima notificazione all’imputato non detenuto), non sia comunque possibile effettuare la notificazione all’imputato perché questi non è reperibile: in tal caso, il giudice o il p.m. devono disporre nuove ricerche nel luogo di nascita, in quello di ultima residenza anagrafica o di dimora e negli altri luoghi indicati dal 159 [Notificazioni all’imputato in caso di irreperibilità], comma I. Qualora le ricerche diano esito negativo, il giudice o il p.m. emettono un decreto di irreperibilità: con tale provvedimento viene designato un difensore all’imputato che ne sia privo e viene ordinato che le notificazioni siano eseguite mediante consegna di copia al difensore, che rappresenta l’irreperibile (lo stesso vale per il latitante e l’evaso). Il codice si preoccupa di assicurare la conoscibilità del procedimento da parte dell’irreperibile; in particolare, considera necessaria una verifica costante dell’attualità di tale situazione. Il nuovo testo dell’art 160 prevede che il decreto di irreperibilità cessa di avere afficacia con la notificazione dell’avviso di conclusioni delle indagini preliminari, o quando questo manchi, con la chiusura delle indagini preliminari. Una volta cessata la fase delle indagini preliminari, la notificazione all’imputato dell’atto introduttivo del giudizio deve essere effettuata secondo le regole odinarie. Nel caso di mancato rintraccio dell’imputato stesso il giudice dovrà disporre ulteriori ricerche per la notifica a mani. Efficacia del decreto di irreperibilità nei successivi gradi di giudizio. Il decreto di irreperibilità emesso dal giudice di primo grado cessa di avere efficacia con la pronuncia della sentenza di primo grado. Il decreto di irreperibilità emesso dal giudice di secondo grado e da quello di rinivo cessa di avere efficacia con la pronuncia della sentenza. Ogni volta che il decreto cessa di avere efficacia devono essere disposte nuove ricerche, in caso negativo l’autorità giudiziaria emette un nuovo decreto di irrepetibilità. Notificazioni alla persona offesa, alla parte civile, al responsabile civile, al civilmente obbligato per la pena pecuniaria e ad altri soggetti. La notificazione alla persona offesa e ad altri soggetti diversi dalle parti private (ad es., testimoni, consulenti tecnici, etc.), nonché la prima citazione del responsabile civile e della persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria sono eseguite con le modalità della prima notificazione all’imputato non detenuto (154, commi I e II; 167). In caso di pluralità di persone offese, se per il numero dei destinatari o per l’impossibilità di identificarne alcuni la notificazione nelle forme ordinarie risulta difficile, il p.m. o il giudice possono disporre con decreto che la notificazione sia eseguita mediante pubblici annunzi (155). Le notificazioni alla parte civile, al responsabile civile ed al civilmente obbligato, già costituiti in giudizio, sono eseguite presso i difensori (154, comma IV). Le notificazioni all’imputato interdetto od infermo di mente sono eseguite con le modalità ordinarie, ma sono effettuate anche presso il tutore o il curatore (166). Nullità delle notificazioni. Il codice prevede una serie di nullità speciali relative alle notificazioni.Si tratta in sintesi di tutte quelle ipotesi nelle quali non sono state osservate determinate formalità prescritte dalla legge. Ai sensi dell’art 171 la notificazione è nulla: a) se l’atto è notificato in modo incompleto, fuori dei casi nei quali la legge consente la notificazione per estratto. b) se vi è incertezza assoluta sull’autorità o sulla parte privata mittente o richiedente ovvero sul destinatario. c) se nella relazione della copia notificata con modalità non telematica manca la sottoscrizione di chi l’ha eseguita. d) se sono violate le disposizioni circa la persona a cui deve essere consegnata la copia. e) se non è stato dato l’avvertimento nei casi previsti degli art 157 cm 8-ter e 161 commi 1, 2 e 3 e la notificazione è stata eseguita mediante consegna al difensore. f) se è stata omessa l’affissione o non è stata inviata copia dell’atto con le modalità prescritte da art 157 comma 8. g) se sull’originale dell’atto notificato manca la sottoscrizione della persona indicata nell’articolo 157 comma 3. Le cause di invalidità degli atti Considerazioni generali. Il codice prevede dettagliatamente i requisiti formali che devono avere i singoli atti del procedimento penale: tali requisiti danno luogo al “modello legale” del singolo atto, essi rispondono alla esigenza che in concreto l’atto possa svolgere la funzione che è ad esso assegnata all’interno del procedimento. L’atto perfetto è quello che è conforme al modello descritto dalla norma processuale; esso è valido e produce gli effetti giuridici previsti dalla legge. L’atto che non è conforme al modello legale può essere invalido o meramente irregolare. È invalido quando la singola difformità rientra in uno dei quattro casi di invalidità previsti da codice, e cioè quando la singola inosservanza di legge è prevista come causa di decadenza, di inammissibilità, di nullità o di inutilizzabilità. L’atto irregolare. L’atto è irregolare se la difformità dal modello legale non rientra in una delle cause di invalidità che sono previste dalla legge. Pertanto l’atto irregolare è valido: il giudice potrà tenerne conto ai fini della decisione. Se mai l’inosservanza della legge nel compiere l’atto processuale potrà essere valutata dal punto di vista disciplinare e potrà dar luogo all’applicazione di una sanzione del genere a carico della persona colpevole: ciò è ricavabile dall’art 124 (Obbligo di osservanza delle norme processuali), secondo cui i soggetti del procedimento «sono tenuti a osservare le norme di questo codice anche quando l’inosservanza non importa nullità o altra sanzione processuale». L’atto invalido. Le cause di invalidità previste dal codice sono quattro. L’inammissibilità impedisce al giudice di esaminare nel merito una richiesta presentata da una parte (effettiva o potenziale) quando la richiesta stessa non ha i requisiti previsti dalla legge. La decadenza comporta l’invalidità dell’atto che sia stato eventualmente compiuto dopo che è scaduto un termine perentorio (173: Termini a pena di decadenza. Abbreviazione). La nullità è un vizio che colpisce l’atto del procedimento che sia stato compiuto senza l’osservanza di determinate disposizioni stabilite espressamente dalla legge appunto a pena di nullità (177). L’inutilizzabilità è un’invalidità che colpisce direttamente il valore probatorio di un atto: il giudice non può basarsi su di esso per emettere una decisione. Il principio di tassatività. Nella materia in esame vige uno stretto principio di tassatività: l’inosservanza della legge processuale è causa di invalidità solo quando una norma espressamente vi ricollega una delle invalidità appena citate, esempio l’incompetenza per territorio deve essere eccepita dalle parti o rivelata dal giudice a pena di “decadenza” prima della conclusione dell’udienza preliminare art 21 cm2. Viceversa, se l’inosservanza non rientra in una previsione generica o specifica di invalidità, l’atto è meramente irregolare. Il principio di tassatività è dettato specificamente per la nullità (177) e per la decadenza (173); tuttavia esso è desumibile dall’intero sistema delle cause di invalidità. Esso è ricavabile altresì dalla legge delega 81/1987, che ha stabilito la previsione espressa sia delle cause di invalidità degli atti che delle conseguenti sanzioni processuali, fino alla nullità insanabile. L’inammissibilità. Questa causa di invalidità impedisce al giudice di esaminare nel merito una richiesta avanzata da una parte effettiva o potenziale del procedimento, quando la richiesta non ha i requisiti stabiliti dalla legge a pena di inammissibilità. Il requisito può riguardare il tempo entro il quale deve essere compiuto l’atto (es art 78 cm1, per la dicharazione di costituzione della parte civile), od il contenuto dell’atto, oppure un aspetto formale (es art122 cm1 sulla forma della procura speciale), o ancora la legittimazione al compimento dell’atto (es art 41, in base al quale è inammissibile la ricusazione presentata al soggetto che non ha il diritto). Il regime giuridico. L’inammissibilità è rilevata dal giudice su eccezione di parte od anche d’ufficio; quando la rileva, il giudice dichiara l’inammissibilità della domanda (con ordinanza o con sentenza) e non decide sul merito della stessa. Il giudice può rilevare anche d’ufficio tale invalidità fino a che la sentenza sia divenuta irrevocabile, salvo che non sia previsto espressamente un termine anteriore. La decadenza; la restituzione nel termine. 1)La decadenza. La decadenza denota la perdita del potere di porre in essere un atto a causa del mancato compimento dello stesso entro un termine perentorio. L’atto eventualmente compiuto oltre il termine perentorio è giuridicamente invalido. Lo svolgersi del procedimento penale comporta una successioine di atti, la successione deve avvenire in un ordine prestabilito. Gli strumenti che impongono una determinata cadenza al procedimento sono denominati “termini”; essi indicano il momento in cui un atto può o deve essere compiuto. Sono denominati “termini rigiuarda i presupposti di tipo oggettivo, il decreto penale aggredibile con la restituzione nel termine deve avere il carattere della irrevocanbilità art 648 cm3. Non vi è decreto irrevocabile se il titolo esecutivo non si è formato validamente, esempio è stata omessa o è invalida la notificazione del provvedimento , in tale ipotesi, l’imputato puo’ proporre opposizione tardiva e, se del caso, instaurarare l’incidente di esecuzione art 670. Dal punto di vista soggettivo, la richiesta di restituzione nel termine puo’ essere presentata dall’imputato art 175 cm2, e dal suo difensore sul presupposto che l’imputato puo’ non aver avuto conoscenza effettiva del decreto penale di condanna per caso fortuito o forza maggiore. c)La restituzione nel termine per impugnare in favore dell’imputato assente. La riforma cartabia ha introdotto una nuova ipotesi di restituzione nel termine per proporre impugnazione art 175 cm2. L’imputato giudicato in assenza è restituito, a sua richiesta, nel termine per proporre impugnazione, salvo che vi abbia volontariamente rinunciato in presenza di alcune condizioni. Anzitutto, deve essere stato dichiarato assente nelle ipotesi previste dall’art 420-bis cm2 (il giudice ha ritenuto comunque provata l’effettiva conoscenza del processo e la scelta volontaria e consapevole di non presenziare) oppure da art 420-bis cm3 (imputato latitante o comunque volontariamente sottrarsi alla conoscenza delle pendenza del processo). In tali casi per poter ottenre la restituzione nel termine per impugnare, l’imputato deve fornire la prova di non aver avuto effettiva conoscenza della pendenza del processo e di non aver potuto proporre impugnazione nei termini senza sua colpa. La nuova disciplina dell’assenza si basa su un meccanismo di notificazioni finalizzato a garantire la conoscenza concreta dell’atto e prevede che l’assenza sia dichiarata non sulla base di presunzione ma soltanto se il giudice accerta in concreto la mancata conscenza del processo. Pertanto, in caso di corretta dichiarazione di assenza, soltanto quell’imputato che riesce a provare la mancata conoscenza della pendenza del processo e il conseguente mancato rispetto incolpevole dei termini per impugnare puo’ essere restituito nel termine. Disciplina comune alla restiruzione speciale. La richiesta di restituzione nel termine per opporre decreto penale di condanna o per proporre impugnazione deve essere presentata al giudice competente entro 30 giorni da quello in cui l’imputato ha avuto conoscenza effettiva del provvedimento; il termine è a pena di decadenza art 175 cm2bis. Sulla richiesta decide con ordinanza il giudice che procede al tempo della presentazione della richiesta. Se si tratta di restituzione nel termine per opporre decreto di condanna, la competenza spetta al giudice per le indagini preliminari, in quanto a lui tocca la deciosione sulla ammissibilità o meno della opposizione art 175 cm4. Se il giudice ritiene insussistente i presupposti per concedere la restituzione nel termine speciale, egli respinge la richiesta, contro ordinanza, come si è anticipato trattando dal rimedio generale, l’imputato puo’ proporre ricorso per cassazione art 175 cm6. Se invece, la richiesta dell’imputato è fondata, il giudice deve accoglierla con ordinanza che puo’ essere impugnata solo con sentenza che decide sulla impugnazione o sulla opposizione art 175 cm5. Cioè che l’inputato ottiene dalla decisione, che concede la restituzione, è la possibilità di presentare opposizione contro il decreto penale di condanna o la possibilità di impugnare la sentenza che ha chiuso il processo in assenza, pertanto in tale sede, egli ha l’onere di esercitare i propri diritti. Quando si tratta di decreto penale di condanna, esso non è annulato, bensi’ viene eliminato il carattere di irrevocabilità. Pertanto, il decreto è sottoposto all’effetto sospensivo della esecuzione ai sensi dell’art 588. La nullità. Questa causa di invalidità colpisce un atto del procedimento che è stato compiuto senza l’osservanza di quelle disposizioni che sono imposte dalla legge appunto a pena di nullità. Il principio di tassatività è previsto espressamente dall’art 177 (Tassatività): «L’inosservanza delle disposizioni stabilite per gli atti del procedimento è causa di nullità soltanto nei casi previsti dalla legge». La norma esprime una scelta di tipo formalistico. In primo luogo, non è possibile applicare la nullità per analogia: se anche il caso non previsto espressamente appare “simile” ad un’ipotesi sanzionata con la nullità, quest’ultima non può regolare il caso non previsto. In secondo luogo, una volta accertata una nullità non è possibile valutare se vi sia stato un pregiudizio concreto per l’interesse protetto o se comunque l’atto nullo abbia raggiunto l’effetto. Non danno luogo a nullità gli errores in iudicando, che trovano il loro rimedio nelle impugnazioni (ad es., il giudice ritiene il testimone non attendibile e poi basa la sentenza su tale deposizione). Le modalità di previsione. Sulla base della modalità di previsione dell’inosservanza, si distingue tra nullità speciali e generali. Le nullità speciali sono quelle previste per una determinata inosservanza, precisata nella species (ad es. 109, comma III: inosservanze relative alla lingua degli atti del procedimento); le nullità generali sono previste per ampie categorie di inosservanze e sono indicate nel 178 (Nullità di ordine generale) (ad es, disposizione sull’intervento dell’imputato). Cio’ non contrasta con il principio di tassatività ed evita che il leglislatore dimentichi singole ipotesi che hanno una notevole importanzaa. In particolare tra le nullità generali (che si distinguono in assolute e intermedie) vi sono innoservanze che toccano i soggetti principali del processo, qualo il giudice, il pm, l’imputato e le altre parti private in aspetti particolarmente rileventi. Il regime giuridico. Per quanto riguarda il regime giuridico, le nullità si distinguono in tre tipi: assolute, intermedie e relative. Sono colpite da nullità assoluta le inosservanze più gravi che sono previste dal 179 [Nullità assolute] e che riguardano i soggetti necessari del procedimento penale. Le nullità assolute sono rilevabili anche d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento e sono insanabili; esse sono sanate dall’irrevocabilità della sentenza. Sono colpite da nullità intermedia le inosservanze di media gravità che sono disciplinate dal 180 [Regime delle altre nullità di ordine generale] e che riguardano una sfera più ampia di soggetti. Le nullità intermedie sono rilevabili anche d’ufficio, ma entro determinati limiti di tempo; inoltre sono sanabili (183: Sanatorie generali delle nullità: «Salvo che sia diversamente stabilito, le nullità sono sanate: a) se la parte interessata ha rinunciato espressamente ad eccepirle ovvero ha accettato gli effetti dell’atto; b) se la parte si è avvalsa della facoltà al cui esercizio l’atto omesso o nullo è preordinato»). Le nullità relative sono quelle nullità speciali che non rientrano tra quelle assolute e quelle intermedie (181); sono dichiarate su eccezione di parte ed entro brevi limiti di tempo; inoltre sono sanabili. Nullità assolute. Rientrano in questa categoria (179, comma I) le violazioni delle disposizioni concernenti «le condizioni di capacità del giudice», intese nel senso di capacità generica all’esercizio della funzione giurisdizionale (ad es., la mancanza della laurea in giurisprudenza). Rientra nelle nullità assolute generali (179, comma I) la violazione delle disposizioni concernenti «il numero dei giudici necessario per costituire i collegi» stabilito dalle leggi di ordinamento giudiziario. E ancora: è prevista come nullità assoluta generale (179, comma I) la violazione delle disposizioni concernenti «l’iniziativa del pubblico ministero nell’esercizio dell’azione penale»: in tale nozione rientrano i vizi che si risolvono nel mancato promovimento dell’azione penale (ad es., è stato omesso uno degli atti previsti dal 405 [Inizio dell’azione penale. Forme e termini], come la richiesta di rinvio a giudizio nel procedimento ordinario); ma può essere ricompreso anche l’invalido promovimento dell’azione penale esercitata in modo non conforme al modello legale (ad es., richiesta di rinvio a giudizio sottoscritta dal segretario). Infine, sono previste tra le nullità assolute generali quelle derivanti dalla «omessa citazione dell’imputato o dall’assenza del suo difensore nei casi in cui ne è obbligatoria la presenza» (179). La presenza del difensore dell’imputato è imposta a pena di nullita assoluta da art 179 cm1, nei casi in cui è prevista come obbligatoria. Ricordiamo che la presenza del difensore è obbligatoria nelle udienze dibattimentali ed inoltre nelle altre udienze nelle quali è prescritta espressamente come tale (es udienza preliminare). Le nullità assolute sono rilevabili anche d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento e sono insanabili, esse sono sanate dalla irrevocabilità della sentenza art 649. Nullità a regime intermedio. Le nullità intermedie sono quelle nullità generali (art 178) che non sono comprese dall’art 179 fra quelle assolute: esse sono indicate dall’art 180 con l’espressione “altre nullità”. Sono definite dalla dottrina “intermedie” perché hanno un trattamento che è simile in parte a quelle assolute (sono rilevate anche d’ufficio dal giudice) e in parte a quelle relative (sono sanabili). Hanno un termine per poter essere dedotte (dalle parti) e rilevate (dal giudice). Se verificatesi prima del giudizio, devono essere dedotte dalle parti entro la chiusura del dibattimento e devono essere rilevate dal giudice al momento della deliberazione della sentenza di primo grado. Se verificatesi nel giudizio, non possono essere dedotte né rilevate dopo la sentenza del grado successivo (180: Regime delle altre nullità di ordine generale). Nella categoria delle nullità intermedie rientrano l’inosservanza delle disposizioni attinenti alla “partecipazione” del p.m. al procedimento (quindi anche prima del processo): si può ricordare la lesione del contraddittorio nei suoi confronti (ad es., il mancato avviso della data fissata per l’udienza preliminare). Costituiscono nullità intermedie le inosservanze concernenti «l’intervento, l’assistenza e la rappresentanza dell’imputato e delle altre parti private nonché la citazione in giudizio della persona offesa dal reato e del querelante. Quindi è affetto da tale vizio sia il provvedimento del giudice che decida senza che vi sia stata la richiesta del pm, quando questa è prevista come necessaria art 291, sia il compimento di un atto senza previo avviso al difensore delle parti private, ove questo sia imposto dalla legge art 364 cm3. Riepologando: le nullità intermedie sono rilevabili anche d’ufficio, ma entro determinati limiti di tempo, inoltre sono sanabili art 183. Nullità relative. In questa categoria rientrano, ai sensi dell’art 181, le nullità che non sono previste tra quelle assolute ed intermedie. Sono nullità relative quelle inosservanze della legge che costituiscono nullità speciale e che, al tempo stesso, non rientrano tra le nullità assolute od intermedie. Ad esempio, art 199 cm2 impone, a pena di nullità che i prossimi congiunti dell’imputato siano avvisati della facoltà di astenersi dal deporre come testimoni. Si tratta di nullità che sono dichiarabili dal giudice su eccezione di parte e, più precisamente, soltanto della parte interessata (182 comma I). Al giudice è precluso il potere di rilevare d’ufficio le nullità relative. Sempre per quanto concerne il regime delle nullità relative, occorre evidenziare che i termini per eccepirle sono più brevi di quelli previsti in relazione alle nullità intermedie; si fa riferimento solo all’eccezione di parte, perché il giudice di regola non può dichiarare d’ufficio le nullità relative. Una volta eccepite dalla parte interessata, le nullità relative sono dichiarate dal giudice; ove per qualsiasi motivo il giudice non vi provveda prima del giudizio (181, comma III), le parti devono riproporre l’eccezione tra le questioni preliminari (491: Questioni preliminari). Se non sono dichiarate dal giudice del giudizio, le nullità relative devono essere eccepite con l’impugnazione della sentenza (arg. ex 181 [Nullità relative], comma IV). Le nullità relative verificatesi nella fase del giudizio e non dichiarate dal giudice devono essere eccepite con l’impugnazione della relativa sentenza (181, comma IV). evitare che siano utilizzate per la decisione dibattimentale prove raccolte nel corso delle indagini preliminari. In tale fase, infatti non viene garantito il principio del contradditorio, salvo quando si svolge l’incidente probatorio i cui verbali, infatti sono utilizzabili in dibattimento art 392. L’inutilizzabilità fisiologica differisce da quella patologica nel fondamento normativo e nella regolamentazione. Viceveresa,vale per i due tipi di inutilizzabilità quel principio di tassatività che vige per l’intera materia delle invalidità. L’inutilizzabilità patologica. L’inutilizzabilità patologica di tipo generale è disciplinata dall’art 191 cm1, in base al quale “le prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge non possono essere utilizzate”. La norma ha una formulazione estremamente generica, tuttavia essa deve essere interpretata in senso restrittivo in base al principio di tassatività delle invalidità. In applicazione ti tale criterio, occore ritenere che i divieti idonei a provocare l’inutilizzabilità patologica siano esclusivamenti quelli previsti dalle norme processuali. Cio’ è chiarito dalla rubrica dell’art 191, che si riferisce alle “prove illegittimamente acquisite”. Se il divieto avesse avuto ad oggetto la violazione di una legge penale sostanziale, si sarebbe utilizzata l’espressione “prove illecitamente acquisite”. Viceversa , la rubrica dell’art 191 fa riferimento alle prove “illegittimamente acquisite”. Pertanto le prove raccolte violando una norma della legge penale sostanziale (c.d prove illecite) sono, di regola utilizzabili, diventano inutilizzabili se è stata violata una specifica norma processuale che disponga in tal senso (es art 240, cm2, art 191, cm2-bis). Il divieto probatorio. In base al 191, l’inutilizzabilità è la conseguenza che deriva dall’aver acquisito una prova violando un “divieto” probatorio. Il vizio che viene in considerazione consiste nel fatto che il giudice ha esercitato nell’acquisizione di una prova un “potere istruttorio” che la legge processuale vietava (divieto relativo all’an): ad es., può accadere che il giudice violi il divieto di acquisire documenti che contengano «sulle voci correnti nel pubblico intorno ai fatti di cui si tratta nel processo» (234 [Prova documentale], comma III). Quando è stata violata una semplice “modalità” di assunzione di una prova (divieto relativo al quomodo), questa di regola è utilizzabile: la prova diventa inutilizzabile se tale sanzione è prevista espressamente dalla legge come conseguenza della violazione di quella modalità di assunzione. Un esempio che riguarda una modalità di assunzione è offerto dall’art 188: «Non possono essere utilizzati, neppure con il consenso della persona interessata, metodi o tecniche idonei a influire sulla libertà di autodeterminazione o ad alterare la capacità di ricordare e di valutare i fatti». Viceversa, le modalità di assunzione non espressamente poste a pena di inutilizzabilità non sono idonee a far scattare tale sanzione processuale, ove siano violate: ad esempio la disposizione testimoniale deve essere resa in seguito a «domande su fatti specifici» (499 [Regole per l’esame testimoniale], comma I), ma se al testimone viene chiesto dalla parte che lo interroga di narrare spontaneamente ciò che sa sul fatto al quale ha assistito la deposizione è utilizzabile. Un diverso fenomeno si verifica con riguardo alla “nullità” (177 ss. [Tassatività]). L’atto nullo è formato violando norme che di regola concernono determinate modalità di assunzione previste a pena di nullità. Non è vietato che un determinato soggetto compia quel tipo di atto, ma che lo compia violando quelle modalità di assunzione (quomodo). Pertanto, l’atto nullo è stato formato nell’esercizio di un potere legittimo. Il regime giuridico della inutilizzabilità. L’inutilizzabilità colpisce non l’atto in se stesso, bensì il suo valore probatorio. Il giudice d’ufficio, o su richiesta di parte, dichiara che l’atto è inutilizzabile. L’inutilizzabilità deve essere rilevata dal giudice in ogni stato e grado del procedimento, e cioè dalle indagini preliminari alle impugnazioni. In base al 191 [Prove illegittimamente acquisite], comma II, l’inutilizzabilità non può essere sanata (a differenza della nullità), perché l’atto è stato compiuto esercitando un potere vietato dalla legge processuale; inoltre, per la stessa struttura logica del vizio, che consiste nella violazione di un divieto probatorio, non è possibile procedere alla rinnovazione dell’atto: di regola il divieto impedisce che una determinata prova entri nel processo. L’inutilizzabilità è un tipo di invalidità che si traduce direttamente in un limite al libero convincimento del giudice. I divieti probatori costituiscono una sorta di “prova legale negativa”, nel senso che il legislatore esclude alcuni elementi di prova dal materiale che è utilizzabile dal giudice per prendere una decisione e motivarla. Principio di tassatività e divieti probatori. La legge delega 81/1987 ha imposto la previsione espressa sia delle cause di invalidità degli atti che delle conseguenti sanzioni processuali. Se è pacifico che le ipotesi di inutilizzabilità speciali debbono ritenersi tassative, maggiori problemi crea l’applicazione della clausola generale prevista dal 191. Tale norma commina l’inutilizzabilità se è violato un divieto probatorio. La complicazione sta nel fatto che l’individuazione dei divieti probatori è rimessa all’interprete. Solo se dalla norma processuale è ricavabile con certezza un vero e proprio divieto probatorio è possibile applicare il 191; ma per poter superare l’ostacolo del principio di tassatività occorre che in base ad una determinata disposizione sia sottratto in modo assoluto al giudice il potere di ammettere, assumere o valutare quella prova. Quale esempio di vero e proprio divieto probatorio possiamo citare l’incompatibilità a testimoniare (197: Incompatibilità con l’ufficio di testimone). I divieti probatori impliciti. In dottrina ci si è chiesti se siano configurabili divieti probatori impliciti, cioè divieti che non sono direttamente ricavabili dalla norma che disciplina una determinata prova, bensì discendono dai princìpi generali del sistema. Alla conclusione positiva si perviene se si tiene presente che, in alcuni casi, la rigida applicazione del principio di tassatività nell’individuazione dei divieti potrebbe creare pericolosi vuoti di tutela. La prova incostituzionale. Al tema dei divieti probatori impliciti si collega la questione relativa alla configurabilità della c.d. prova incostituzionale, ossia quegli elementi di prova che vengono acquisiti con modalità non disciplinate da codice di rito e lesive dei diritti fondamentali dell’individuo costituzionalmente tutelati. Nel momento in cui riconosce come inviolabili alcuni diritti fondamentali dell’individuo, stabilendo che eventuali limitazioni sono consentite nei soli “casi e modi” stabiliti dal legislatore ordinario, la Costituzione fissa altrettanti divieti probatori. La violazione dei predetti “divieti probatori costituzionali” rinviene la propria sanzione e la propria disciplina nel 191. Altri studiosi ritengono viceversa che l’inutilizzabilità consegua solo alla violazione di divieti probatori espressamente stabiliti nel codice e, pertanto, respingono la categoria della prova incostituzionale. Il Giudice delle leggi si è cimentato più volte con la problematica ed ha avuto atteggiamenti ondivaghi. L’inutilizzabilità derivata. Ci si chiede se sia configurabile la c.d. inutilizzabilità derivata, e cioè se la illegittimità di una prova si estenda ad un’altra prova il cui reperimento sia stato determinato dalla prima. In materia si è pronunciata la Corte cost, alla quale era stato sottoposto un caso di perquisizione illegittime disposte dalla plizia giudiziaria in situazione di neccesità e urgenza in materia di stupefacenti. La corte cost con sentenza del 2019 ha affermato che quando il codice ha voluto tutelare al massimo grado un interesse fondamentale mediante inutilizzabilità derivata, lo ha scritto espressamente, come è avvenuto nel comma 2-bis dell’art 191. Ma in nessuna altra disposizione del codice, ne in nessuna norma sull’inutilizzabilità speciale, si ricava che una regola del genere abbia portata generale. Nel codice non c’è una norma analoga alla disciplina della nullità derivata art 185, quindi non c’è una inutilizzabilità derivata. Secondo la consulta la legge lo doveva prevedere espressamente nel codice se si voleva applicare anche all’istituto della inutilizzabilità la disciplina prevesta per la nullità derivata da art 185. L’inutilizzabilità fisiologica. Alcune norme del codice prevedono l’inutilizzabilità di determinate categorie di atti non perché questi siano stati compiuti in violazione di un “divieto probatorio”, ma solo perché sono stati acquisiti “prima” del dibattimento, senza il contradditorio nella formzione della prova. L’atto è stato comnpiuto in modo formalmente regolare, ma durante le indagini senza il contradditorio. Infatti il codice pone la regola (salvo eccezioni) in base alla quale il giudice può utilizzare ai fini della deliberazione dibattimentale solo le prove legittimamente acquisite nel dibattimento (526: Prove utilizzabili ai fini della deliberazione). Ad esempio, le dichiarazioni che sono state raccolte durante le indagini preliminari, ma che non sono state legittimamente acquisite in dibattimento nelle specifiche ipotesi nelle quali è ammessa la lettura (art 514-511),non sono utilizzabili nella decisione perchè non hanno subito il vaglio del contraddittorio. Con questo strumento si munisce di una sanzione processuale il principio del contraddittorio. L’atto inesistente, l’atto abnorme L’atto inesistente. L’inesistenza è una causa di invalidità che è stata elaborata dalla dottrina e dalla giurisprudenza, non essendo prevista espressamente dal codice. In particolare è possibile che gli atti del procedimento siano colpiti da vizi tanto gravi da non rientrane neppure nel catalogo delle nullità assolute insanabili. Si tratta di porre un rimedio alle violazione di legge processuale che non sono espressamente previste dal codice, quindi dottrina e giurisprudenza hanno creato una ulteriore causa di invalidità chiamata inesistenza. Fra i casi di inesistenza comunemente riconosciuti possiamo ricordare i seguenti: a. la carenza di potere giurisdizionale di colui che pronuncia una sentenza es,una sentenza penale emessa da un organo della pubblica amministrazione; b.la sentenza pronunciata contro un imputato totalmente incapace perché coperto dall’immunità (es agente diplomatico) o nei confronti di persona inesistente. L’inesistenza della sentenza puo’ essere rilevata dal giudice anche dopo che la sentenza stessa è diventata irrevocabile. L’atto abnorme. La giurisprudenza ha creato l’ulteriore diversa categoria del provvedimento abnorme, che può essere sottoposto a ricorso per cassazione prima dell’irrevocabilità della sentenza. Il principio di tassatività dei mezzi di impugnazione avrebbe precluso la possibilità di impugnare quei provvedimenti affetti da anomalie così gravi da renderli del tutto eccentrici rispetto al sistema del codice. Proprio per introdurre un correttivo a tale situazione, la giurisprudenza ha escogitato la categoria della abnormità e l’ha considerata come un vizio non tipizzato che giustifica il ricorso immediato per cassazione (applicando direttamente il 111, comma VII Cost.: «Contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà personale, pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali, è sempre ammesso ricorso in cassazione per violazione di legge. Si può derogare a tale norma soltanto per le sentenze dei tribunali militari in tempo di guerra»). È abnorme non solo il provvedimento che, per la singolarità e stranezza del contenuto, risulti avulso dall’intero ordinamento processuale, ma anche quello che, pur essendo in astratto manifestazione di legittimo potere, si esplichi al di fuori dei casi consentiti e delle ipotesi previste, al di là di ogni ragionevole limite. L’impugnabilità per Cassazione del provvedimento abnorme dipende non dalla sua conoscenza legale (la quale può mancare), ma dalla sua conoscenza concreta. Il termine per ricorrere, pur partendo dalla conoscenza concreta, è quello ordinario. fonte e l’attendibilità dell’elemento ottenuto, ricavandone un risultato probatorio (192 comma I). Pertanto, il risultato probatorio è l’elemento di prova valutato in base ai criteri della credibilità e dell’attendibilità. Mediante i risultati dei mezzi di prova assunti il giudice ricostruisce il fatto storico di reato (cd. Conclusione probatoria, es art 530). Il ragionamento inferenziale. Il fatto storico di reato è avvenuto nel passato: si tratta di un fatto non ripetibile, che puo’ essere conosciuto soltando attraverso le tracce che ha lasciato nel mondo reale o nella memoria degli uomini. Da tali tracce (elementi di prova) il giudice ricava l’esistenza del fatto del passato. Gli strumenti, dei quali egli serve, consistono nelle prove. Nel suo insieme la prova puo’ essere definita come un ragionamento che da un fatto reso noto al giudice (es dichiarazione del testimone) ricava l’esistenza di un fatto che è avvenuto nel passato e dalla cui esistenza occorre convincere il giudice. Per questa sua caratteristica viene definito ragionamento inferenziale, poichè da un fatto di oggi ricava l’esistenza di un fatto passato. Nel processo penale il fatto da provare (thema probandum) è precisato nel 187, comma I. Oggetto di prova. È oggetto di prova, in primo luogo, il fatto descritto nell’imputazione, e cioè il fatto storico addebitato all’imputato. Sono fatti da provare anche quelli che permettono di quantificare la sanzione penale e quelli dai quali dipende l’applicazione di norme processuali (187 comma II), si tratta ad esempio dei fatti che servono per stabilire se un teste è stato minacciato (500, comma IV e V). In caso di costituzione di parte civile, sono inoltre oggetto di prova i fatti inerenti alla responsabilità civile derivante da reato (ad es., quantificazione del danno). La prova rappresentativa. Si distingue tra prova rappresentativa ed indizio. Col termine “prova rappresentativa” (definita anche “prova storica”) si fa riferimento a quel ragionamento che dal fatto noto ricava, per rappresentazione, l’esistenza del fatto da provare. Rappresentare un fatto significa costruirne uno equivalente, in modo da renderlo conoscibile quando non sia più presente; pertanto la rappresentazione è il modo con cui un fatto può essere reso conoscibile da altre persone. Il fatto può essere rappresentato con immagini, parole, gesti o suoni. Ad esempio, tizio riferisce di aver visto Caio sparare. Il fatto noto è la dichiarazione di Tizio, che narra quanto ha visto. Il fatto storico è ricavabile in via diretta dalla dichiarazione perchè è rappresentato dalle parole pronunciate dal testimone. Naturalmente il giudice deve valutare l’affidabilità della fonte e l’attendibilità della rapresentazione prima di decidere se e quale risultato probatorio se ne possa ricavare. E’ una valutazione razionale di credibilità e attendibilità razionale basata su regole logiche, scientifiche e di esperienza. Detta valutazione è opereta di regola attraverso lo strumento dell’esame incrociato che si svolge mediante domande e contestazioni. Da un lato, si tratta di accertare quanto il dichiarante sia sincero, quanto è stato attendo allo svolgimento del fatto, quanto è in grado di comprendere il significato defli elementi che riferisce. Tutto cio’ è ricompreso nel giudizio di credibilità della fonte. Frutto delle due operazioni è il risultato probatorio. Il giudice, accertato il grado di credibilità della fonte e il grado di attendibilità della rappresentazione, valuta quanto della rappresentazione fornita è accettabile razionalmente, di cio’ deve dare atto nella motivazione ai sensi di art 192 cm1, precisando i risultati acquisiti e i criteri adottati. Una volta ritenuta credibile la fonte e attendibile la dichiarazione, il giudice ottiene il seguente risultato probatorio: è ragionevole ritenere che il racconto del testimone corrisponda allo svolgimento del fatto al quale il testimone ha assistito. La decisione altermine del processo, valutati tutti i risultati derivanti dagli elementi di prova acquisiti, il giudice nella motivazione ricostruisce il fatto storico, indicando in base a quali criteri ritiene attendibile le prove poste a supporto della deciose e per quali ragioni ritiene non attendibili le prove contrarie art 546 cm1, l.e. La prova indiziaria. Col termine “indizio” (definito anche prova critica) si fa riferimento a quel ragionamento che da un fatto provato (c.d. circostanza indiziante) ricava l’esistenza di un ulteriore fatto da provare. Il collegamento tra la circostanza indiziante ed il fatto da provare è costituito da un’inferenza basata su di una massima di esperienza o su di una legge scientifica. L’oggetto da provare può essere sia il fatto storico che è addebitato all’imputato (e che è denominato nella prassi “fatto principale”); sia un’altra circostanza indiziante, che viene denominata “fatto secondario” e dalla quale, con un’ulteriore inferenza, si può ricavare l’esistenza del fatto principale. Il fatto storico può essere accertato anche sulla base di circostanze indizianti ulteriori, che non sono legate al fatto stesso da una relazione causa-effetto. Appare chiara la differenza con la prova rappresentativa, mediante la quale dal fatto noto (dichiarazione del testimone) si ricava per rappresentazione il fatto da provare. Nella prova critica, dal fatto provato (circostanza indiziante) si desume l’esistenza del fatto da provare utilizzando un’interferenza , ad esempio una massima di esperienza, che esprime quello che avviene nella magior parte dei casi. ES DI MASSIMA DI ESPERIENZA: Un testimone dice di aver visto una persona uscire dalla porta del condominio verso le 2 di notte con un sacco sulle spalle, nel camminare si guardava intorno. La polizia accerta che all’una e mezza di quella medisima notte è stato svaligiato un appartamento in quel condominio. Sentito il testimone, questi identifica in Caio la persona che ha visto uscire dal condominio (circostanza indiziante o fatto secondario). Caio interrogato dalla polizia, non sa dare spiegazioni ragionevoli sulla presenza sul luogo del delitto, o fornisce un alibi non provato. Accertati questi fatti, si formula una massima di esperienza ricavandola da casi simili al fatto provato. Dall’osservazione dei casi simili si ricava la seguente regola di esperienza: “chi viene visto uscire di notte con un sacco sulle spalle da un condominio nel quale è stato commesso un furto e non da spiegazioni ragionevoli sulla sua presenza sul luogo del reato è l’autore del furto”. A questo punto la regola di esperienza viene applicata al fatto provato. Questo ragionamento non è sufficente per condannare perchè si senti dell’art 192 cm 2, non si puo’ accertare un fatto sulla base di un solo indizio. ES DI LEGGE SCIENTIFICA: Sempre all’esempio fatton prima, puo’ accadere che nell’appartamento svaligiato la polizia trovi una impranta digitale e la confronti con quella presa da Caio. In base ad una legge scientifica, se due impronte si riscontrano 16 punti simili (minuzie) e sono assenti difformità, le due impronte appartengono alla testessa persona. Confrontate le due impronte dal consulente tecnico, riscontra 17 punti simili, è possile applicare la legge scientifica al caso concreto. Da cio’ si ricava la prova di un ulteriore circostanza indiziante (fatto secondario): Caio è stato in quella abitazione. A sua volta, a questo fatto è applicabile una regola di esperienza ricavata da casi simili dai quali risulta che colui che ha lasciato le impronte digitali in un’abitazione svaligiata, e non ha saputo dare una spiegazione ragionevole di tale fatto, è l’autore del furto. Questo consente di affermare che molto probabilmente, caio ha commesso il furto in quella abitazione. La massima di esperienza. La massima di esperienza è una regola di comportamento che esprime quello che avviene nella maggior parte dei casi, più precisamente, essa è una regola che è ricavabile da casi simili al fatto noto (circostanza indiziante). L’esperienza può permettere di formulare un giudizio di relazione tra fatti; vi è una relazione quando si ricava che una categoria di fatti si accompagna ad un’altra determinata categoria di fatti. Si ragiona in base al principio: “in casi simili, vi è un identico comportamento”. La massima di esperienza è una “regola”, e cioè non appartiene al mondo dei fatti; dà luogo ad un giudizio di probabilità e non di certezza. La prova rappresentativa e l’indizio differiscono non per l’oggetto da provare, bensì per la struttura del procedimento logico. Occorre che il giurista abbia ben chiari gli aspetti di opinabilità del ragionamento indiziario. Il primo aspetto sta nello stabilire, tra più fatti storici umani non ripetibili, quali sono gli elementi “simili” e se tali elementi prevalgono, o meno, sugli elementi “dissimili”. Il secondo aspetto di opinabilità sta nel fatto che, se pure si può notare che il comportamento umano è condizionato in buona parte dagli istinti e dalle passioni, tuttavia non è detto che l’agire di un singolo uomo rispecchi sempre le regole formulate. Riteniamo che il meccanismo con cui è costruita la prova indiziaria (detta anche “critica”) debba essere configurato nel modo seguente. Il giudice applica un ragionamento di tipo induttivo quando esamina casi simili e formula una regola di esperienza; e cioè, da casi particolari ricava l’esistenza di una regola generale. Successivamente, il giudice svolge un ragionamento deduttivo, e cioè applica al caso in esame la regola generale che ha ricavato in precedenza. La bontà del ragionamento del giudice emerge dalla motivazione della sentenza nella quale, come precisa l’art 192 (Valutazione della prova), comma I si deve dare conto dei risultati acquisiti e dei “criteri” adottati. Nella prova indiziaria i criteri sono costituiti dalle massime di esperienza utilizzate dal giudice nel ragionamento inferenziale, che muove dalle risultanze processuali. La legge scientifica. In materie che richiedono specifiche competenze tecniche, il giudice deve affidarsi a persone che hanno conoscenze specialistiche in quella determinata disciplina (220). Da un lato, la legge scientifica dà maggior certezza, poiché è possibile conoscere esattamente in quanti ed in quali casi risulta attendibile. Da un altro lato, restano margini di opinabilità, poiché si tratta di: a. scegliere la legge scientifica che deve essere applicata al caso di specie; b. valutare in quale modo deve essere applicata; c. individuare i fatti ai quali applicarla. Caratteristiche delle leggi scientifiche e delle massime di esperienza. Le leggi scientifiche hanno la caratteristica della generalità, della sperimentabilità e della controllabilità. Sono sperimentabili perché il fenomeno scientifico deve essere riconducibile ad esperimenti misurabili quantitativamente: gli esperimenti sono ripetibili dagli scienziati mediante procedure che verificano la misura dei fenomeni e la validità della legge. Da ciò deriva che sono generali, in quanto non ammettono eccezioni o, comunque, il margine di errore è esattamente conosciuto. Infine, le leggi scientifiche sono controllabili, perché la loro formulazione è sottoposta alla critica della comunità degli esperti. Le regole di esperienza sembrano essere carenti dei predetti caratteri. Non sono sperimentabili in quanto il fatto umano per sua natura non è producibile a comando. Non è controllabile perchè non ci sono tecnici del diritto in grado di seguire, con procedure comunemente accettate, il grado di esperienza e il suo livello di generalità. Non è generale perchè le regole del compotamento umano ammettono eccezioni. La regola di valutazione degli indizi. L’indizio non è una prova “minore”, bensì una prova che deve essere verificata. Esso è idoneo ad accertare l’esistenza di un fatto storico di reato solo quando sono presenti altre prove che escludono una diversa ricostruzione dell’accaduto. Il principio è formulato nell’art 192.2: «L’esistenza di un fatto non può essere desunta da indizi a meno che questi siano gravi, precisi e concordanti». Da ciò si ricava che un solo indizio non è mai sufficiente. {Per una Il diritto alla prova contraria. Il codice prevede espressamente il “diritto alla prova contraria”. Ove siano stati ammessi i mezzi di prova richiesti dall’accusa, l’imputato ha diritto all’ammissione delle «prove indicate a discarico sui fatti costituenti oggetto delle prove a carico» (495 comma II). Il medesimo diritto spetta al p.m. «in ordine alle prove a carico dell’imputato sui fatti costituenti oggetto delle prove a discarico». In base a tale disposizione, la parte avversa ha diritto all’ammissione della prova che ha per oggetto il medesimo fatto ed è finalizzata a dimostrare che non è avvenuto o che si è verificato con una differente modalità. La garanzia costituzionale. Anche nella Costituzione vi è il riconoscimento del diritto alla prova contraria: si tratta del 111, comma III Cost., che, con riferimento al solo imputato, proclama il diritto di «ottenere la convocazione e l’interrogatorio di persone a sua difesa nelle stesse condizioni dell’accusa e l’acquisizione di ogni altro mezzo di prova a suo favore». Un’interpretazione ispirata al principio di ragionevolezza e di parità delle parti deve indurre a ritenere che anche le prove richieste dall’imputato debbano superare il vaglio giudiziale di ammissibilità. Limiti al diritto alla ammissione della prova. Il diritto ad ottenere l’ammissione della prova di tipo dichiarativo è stato limitato nelle ipotesi di imputazione avente ad oggetto il delitto di associazione mafiosa (416 bis c.p.), i delitti ad esso collegati od alcuni reati in materia di violenza sessuale e di pedofilia (190 bis: Requisiti della prova in casi particolari). Se la persona che una parte vuole sentire in dibattimento ha già reso dichiarazioni in sede di incidente probatorio (o le sue dichiarazioni provenienti da altro procedimento sono state acquisite in base al 238 [Verbali di prove di altri procedimenti]), l’esame è ammesso solo in due casi: a. se riguarda fatti o circostanze diversi da quelli oggetto delle precedenti dichiarazioni; b. se il giudice o una delle parti lo ritengono necessario sulla base di specifiche esigenze (190 bis). Lo scopo è quello di impedire la cd. Usura delle fonti di prova, cioè di evitare che il dichiarante debba presentarsi a piu’ udienze in vari processi e vada incontro inutilmente a rischi di intimidazione o di sicurezza per la sua persona. I poteri di iniziativa probatoria del giudice. Nella fase dell’ammissione della prova il giudice, di regola, ha solo il potere di decidere se ammettere o meno il mezzo di prova chiesto da una delle parti. Egli di regola non può assumere un mezzo di prova senza una richiesta di parte, e cioè d’ufficio (190). In dibattimento, in via eccezionale, il giudice può assumere una prova quando questa sia assolutamente necessaria. Tale potere è giustificato dal fatto che l’esito dell’accertamento in un processo penale incide sulla libertà personale che è un bene indisponibile dalla persona umana e che è dichiarato inviolabile dalla Costituzione (13 Cost.). La assunzione della prova L’assunzione della prova avviene, se si tratta di dichiarazioni rese in dibattimento, col metodo dell’esame incrociato. Rientra nel “diritto alla prova” la partecipazione delle parti all’assunzione del mezzo di prova attraverso la formulazione diretta delle domande al dichiarante. Il nuovo comma III del 111 Cost. riconosce solo all’imputato il diritto di «interrogare o di far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico». L’esame incrociato. È comunemente ritenuto il miglior strumento che permette di valutare se il dichiarante risponde secondo verità. Esso consete di smascherare la persona che dice il falso in modo intenzionale o anche soltanto inconsciamente, a causa di defetti nella percezione o nella memoria. Nel controesame la parte può porre domande-suggerimento per saggiare l’attendibilità della dichiarazione. Si ritiene credibile quel dichiarante che sa resistere alle contestazioni che gli sono poste. Il codice attribuisce al presidente il potere di porre domande solo dopo che le parti hanno concluso l’esame incrociato (506, comma II); successivamente alle domande poste dal giudice, le parti possono riprendere l’esame. La tutela della libertà morale del dichiarante. Un generale divieto probatorio, che concerne le modalità di assunzione della prova dichiarativa, è previsto dal 188 [Poteri del presidente in ordine all’esame dei testimoni e delle parti private]: «Non possono essere utilizzati, neppure con il consenso della persona interessata, metodi o tecniche idonei a influire sulla libertà di autodeterminazione o ad alterare la capacità di ricordare e di valutare i fatti». Analogo divieto è contenuto nel 64 [Regole generali per l’interrogatorio], comma II in relazione all’interrogatorio dell’indagato. La “acquisizione” della prova. Il termine acquisizione, riferito alla prova, è utilizzato dal codice in almeno due significati: in senso stretto, il termine acquisizione indica l’ammissione della prova “precostituita”, e cioè formata prima o fuori del dibattimento; in senso lato, è utilizzato per ricomprendere anche l’ammissione della prova “non precostituita” quale è la dichiarazione. La valutazione della prova Le parti hanno il diritto di offrire al giudice la valutazione degli elementi di prova. Si tratta del potere di “argomentare” sulla base dei risultati che siano stati acquisiti. In dibattimento ciò avviene al momento della discussione finale in cui le parti illustrano le proprie conclusioni (523). Il presidente dell’organo collegiale dirige la discussione ed impedisce ogni divagazione, ripetizione ed interruzione (523, comma III). Al diritto delle parti corrisponde il dovere del giudice di dare una valutazione logica dell’elemento di prova raccolto (192 comma I): Egli valuta la prova dando conto nella motivazione dei risultati acquisiti e dei criteri adottati e cioè delle regole di esperienza e delle leggi scientifiche che ha utilizzato. L’obbligo della motivazione ha una fonte costituzionale art 111 cm6, il giudice nella motivazione non puo’ trascurare di esaminare i risultati di una prova che appaia pertinente e rilevante. In particolare, per rendere effettivo il diritto alla valutazione della prova il codice prescrive che nella sentenza il giudice debba indicare le prove poste a base della decisione e le «ragioni per le quali il giudice ritiene non attendibili le prove contrarie» (546 comma I). Il libero convincimento. Il giudice è “libero” di convincersi in relazione all’attendibilità degli elementi di prova ed alla credibilità delle fonti, nonché in merito della idoneità di una massima di esperienza o di una legge scientifica a sostenere l’inferenza sulla quale si basano le ricostruzioni dell’accusa o della difesa. Il principio del “libero convincimento” non consiste nel riconoscere al giudice un potere senza limiti: tale principio deve passare attraverso le norme che disciplinano la valutazione delle prove (192: Valutazione della prova) e la motivazione della sentenza (546, comma I). Da tale griglia legale si desume che il convincimento del giudice deve consistere in una valutazione razionale delle prove e in una ricostruzione del fatto conforme ai canoni della logica ed aderente alle risultanze processuali. Se si tratta di una sentenza di condanna, il giudice deve motivare perché le prove d’accusa sono risultate idonee ad eliminare ogni ragionevole dubbio sulla ricostruzione alternativa prospettata dalla difesa (533 [Condanna dell’imputato], comma I). Se si tratta di una sentenza di assoluzione, il giudice deve fornire una spiegazione razionale sul perché persiste un dubbio sulla ricostruzione dell’accusa. La non configurabilità della prova legale. Nel processo penale, a differenza di quanto avviene nel processo civile, non esiste l’istituto della prova legale. Nel processo civile si ha prova legale in tutte quelle ipotesi nelle quali la legge si sostituisce al libero convincimento del giudice nella valutazione di un determinato elemento di prova. Un esempio di prova legale nel processo civile è la confessione: ai sensi del 2733 c.c. (Confessione giudiziale), comma II, la confessione resa in giudizio «forma piena prova contro colui che l’ha fatta, purché non verta su fatti relativi a diritti non disponibili». Viceversa, nel processo penale la confessione è sempre liberamente valutabile dal giudice, che può ritenerla non attendibile, perchè contrastante con le altre prove assunte nel processo, o non credibile perchè resa da un gregario che vuole attribuire su di se le colpe del capo dell’associazione a delinquere. L’onere della prova La presunzione di innocenza. Il 27, comma II Cost. dichiara che «l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva». L’Assemblea costituente con tale formula ha voluto soddisfare insieme due esigenze insopprimibili: da un lato, quella di prevedere la custodia cautelare prima della sentenza irrevocabile; dall’altro, l’esigenza di affermare la presunzione di innocenza. In un’unica formula si sono volute combinare una regola di trattamento ed una regola di giudizio. La regola di trattamento vuole che l’imputato non sia assimilato al colpevole sino al momento della condanna definitiva; e cioè impone il divieto di anticipare la pena, mentre consente l’applicazione di misure cautelari nei suoi confronti. La regola di giudizio vuole che l’imputato sia presunto innocente, e cioè vuole ottenere l’effetto previsto dal 2728 c.c. [Prova contro le presunzioni legali], comma I, secondo il quale «le presunzioni legali dispensano da qualunque prova coloro a favore dei quali esse sono stabilite». La regola probatoria è meglio precisata nell’art 6.2 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, secondo cui ogni persona accusata di un reato è presunta innocente sino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente accertata. La corte costituzionale con le sentenze 348 e 349 del 2007 ha sancito che il giudice italiano deve interpretare la norma nazionale in aderenza al dettato della Convenzione Europea. Allorchè un diritto fondamentale trovi protezione, sia in una norma costituzionale, sia in una norma della cedu, vi è una concorrenza di tutele che si traduce in un’integrazione di garanzie. Da cioè deriva che la disposizione costituzionale di cui art 27 cm2, cessa di essere ambigua ed afferma il principio della presunzione d’innocenza dell’imputato. In base all’impostazione data dalla Cedu e dalla corte di giustizia, la presunzione di innocenza ha una duplice rilevanza. Quella interna al processo si manifesta negli istituti dell’onere della prova e nel diritto dell’imputato a restare silenzioso. L’onere della prova. Il 2697 c.c. (Onere della prova), comma I afferma che «Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento». “Provare” significa convincere il giudice dell’esistenza di un fatto storico affermato da una parte. Ciò costituisce un “onere” in senso sostanziale per la parte, perché l’inosservanza dello stesso comporta la situazione svantaggiosa del rigetto della domanda da parte del giudice. L’aver soddisfatto l’onere comporta l’accoglimento della domanda. L’onere della prova costituisce una regola di giudizio, nel senso che “dinamica”, è disciplinato lo svolgimento del medesimo. Tale scansione lascia aperto il delicato interrogativo circa l’estensibilità delle norme sulla prova in relazione alle singole fasi del procedimento penale. In base ad un argomento sistematico, le norme sulle prove appaiono applicabili in tutto il procedimento penale a meno che non appaiano incompatibili (espressamente o implicitamente) con la regolamentazione del singolo atto da compiere in una determinata fase. Oralità, immediatezza e contraddittorio Il principio di oralità. In prima approssimazione al termine “oralità” si può attribuire il significato di “comunicazione del pensiero mediante la pronuncia di parole destinate ad essere udite”. Contrapposta all’oralità è la scrittura, intesa quale forma di comunicazione del pensiero mediante segni visibili, alfabetici o ideografici. Lo scritto può esser letto e, in tal modo, può essere espresso oralmente; come pure, una registrazione magnetofonica può essere riprodotta, ma si tratta di un’oralità fittizia: colui che ascolta può udire un monologo o un dialogo, ma non può “prendervi parte”. Si ha “oralità” in senso pieno solo quando le parti possono porre domande ed ottenere risposte a viva voce dal dichiarante nell’esame incrociato. In questo modo è assicurato il diritto dell’imputato a confrontarsi con il dichiarante, art 111 cm3 cost. Il principio di immediatezza. Il principio di immediatezza è attuato quando vi è un rapporto privo di intermediazioni tra l’assunzione della prova e la decisione finale sull’imputazione. Da un lato, si vuole che il giudice prenda direttamente contatto con la fonte di prova (art 526, 514), da un altro lato, si tende ad assicurare che vi sia identità fisisca tra il giudice che assiste all’assunzione della prova e colui che prende la decisione di condanna o assoluzione (art 525 cm2). Tutto cio’ al fine di permettere una valutazione di prima mano sulla credibilità del testimone e sull’attendibilità delle sue dichiarazioni. Soltanto vedendo come il dichiarante si comporta il giudice è in grado di ricavare elementi che servono a valutare la credibilità del medesimo e l’attendibilità di quanto egli espone. Il principio del contraddittorio. Il principio del contraddittorio in senso forte comporta la partecipazione delle parti alla formazione della prova. Nella prova dichiarativa ciò avviene quando le parti pongono le domande e formulano le contestazioni. Occorre ricordare il 111, comma IV Cost., il quale inizia affermando che «Il processo penale è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova». Vi possono essere situazioni nelle quali è attuato il contraddittorio, ma non l’immediatezza: ciò avviene quando durante le indagini preliminari si svolge l’incidente probatorio. Il contraddittorio è assicurato in quanto l’escussione di una persona avviene mediante l’esame incrociato ad opera del p.m. e del difensore dell’indagato; tuttavia, se le dichiarazioni verbalizzate sono lette nel successivo dibattimento (511: Letture consentite), il principio di immediatezza non è rispettato. Le eccezioni al contraddittorio. I princìpi dell’oralità, dell’immediatezza e del contraddittorio non hanno valore in se stessi, bensì hanno un valore strumentale in quanto assicurano la correttezza del risultato. Si pone il problema di stabilire quando è ragionevole prevedere alcune eccezioni. Il 111, comma V Cost. ha tipizzato le situazioni eccezionali nelle quali è possibile derogare al principio del contraddittorio, dichiarando esso che «La legge regola i casi in cui la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio per consenso dell’imputato o per accertata impossibilità di natura oggettiva o per effetto di provata condotta illecita». Questioni pregiudiziali e limiti probatori Il giudice quando accerta se vi è corrispondenza tra un fatto storico e una norma di legge, a volte deve risolvere questioni civili o amministrative che rappresentano l’antecedente logico-giuridico della decisione penale. Una questione costituisce un antecedente, ed è chiamata “questione pregiudiziale”, quando dalla sua soluzione dipende o meno l’esistenza di un elemento costitutivo della fattispecie incriminatrice che deve essere applicata. Il codice di regola attribuisce al giudice penale il potere di risolvere «ogni questione da cui dipende la decisione» sia sull’esistenza del reato, sia sull’applicazione di una norma processuale (2 [Cognizione del giudice], comma I). Occorre però tracciare una distinzione fondamentale: a. quando la questione pregiudiziale ha per oggetto una controversia sullo stato di famiglia e di cittadinanza, il giudice penale è vincolato ai limiti di prova stabiliti dalle leggi civili (193); b. quando la questione pregiudiziale ha un qualsiasi altro oggetto, il giudice penale non è vincolato ai limiti di prova posti dalla relativa materia, bensì applica solo le regole probatorie del processo penale (ad es., la prova testimoniale dell’esistenza di un contratto può esser data senza i limiti posti dal 2721 [Ammissibilità: limiti di valore]). La prova del rapporto di causalita (Sul libro fai sentenza franzese p.181) Un aspetto applicativo: la prova del rapporto di causalità tra condotta ed evento Il 40 c.p. [Rapporto di causalità], comma I stabilisce che «Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l’evento dannoso o pericoloso, da cui dipende la esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione od omissione». Tale norma comporta che il giudice, nel processo penale, debba accertare l’esistenza del rapporto di causalità tra condotta ed evento. In materia di accertamento del nesso di causalità la dottrina penalistica ha escogitato innumerevoli e complesse teorie. La giurisprudenza quasi unanime ha da tempo accolto la più antica e semplice fra tutte le impostazioni: la teoria della condicio sine qua non. Una condotta è causa di un evento se eliminando mentalmente la condotta viene meno anche l’evento. Per affermare l’esistenza del nesso causale occorre rispondere alla domanda: se la condotta non ci fosse stata, l’evento si sarebbe verificato? I problemi sono dovuti al fatto che la condicio sine qua non è solo un procedimento logico e, per funzionare, richiede che si conosca la legge scientifica in base alla quale una determinata condotta provoca un determinato evento. Occorre tener presente che, con l’evoluzione tecnologica, si sono sviluppati settori nei quali è più difficile accertare il nesso di causalità. Proprio lo sviluppo di questi nuovi settori di responsabilità ha reso i giudici consapevoli della necessità che il provvedimento logico di eliminazione mentale deve essere integrato dall’uso di leggi scientifiche denominate di “copertura”. La teoria della condicio sine qua non funziona solo se il giudice conosce la legge scientifica di copertura. La scienza è limitata e in continua evoluzione, pertanto il processo penale deve essere il luogo del contraddittorio e della dialettica anche sulla scienza da applicare nell’accertamento del nesso di causalità. In relazione al rapporto tra legge scientifica e accertamento del nesso causale si è registrato il formarsi di due orientamenti contrapposti. Un primo orientamento ha affermato che il rapporto di causalità deve essere ritenuto esistente se vi sono serie ed apprezzabili probabilità che l’evento sia conseguenza dell’azione. Un secondo orientamento ha affermato che il nesso causale esiste solo se la legge scientifica, che esprime il rapporto tra condotta (attiva od omissiva) ed evento, ha un coefficiente percentuale vicino al 100%, e cioè pari alla certezza. La Cassazione con la sentenza Franzese del 2002 ha operato una sorta di rivoluzione copernicana: le Sezioni unite sono partite dal rilievo che nel processo penale è possibile condannare solo se l’esistenza del fatto e la responsabilità dell’autore risultano provate oltre ogni ragionevole dubbio: poiché il rapporto di causalità è un elemento oggettivo del reato, occorre che anche in relazione alla sussistenza di tale nesso sia eliminato ogni dubbio ragionevole. Il giudice deve ritenere provato oltre ogni ragionevole dubbio che nel singolo caso concreto sottoposto alla sua attenzione esista un rapporto di causalità tra condotta ed evento. Tale giudizio non ha nulla a che vedere con l’astratta percentuale di validità statistica della legge scientifica. Occorre invece un giudizio che venga effettuato in concreto. Ciò comporta che il giudice utilizzi un concetto di probabilità che non è più quella statistica (dipendente quindi dalla percentuale della legge), bensì logica e formulata in relazione alle caratteristiche del caso concreto. Nel misurare la validità astratta di una legge gli scienziati devono dare per esistenti alcune leggi ignorate o meramente supposte (c.d. assunzioni tacite, indicate con la clausola coeteris paribus). Si può affermare che una legge funziona in una data percentuale di casi, ipotizzando che in quei casi non vi siano altri fattori condizionanti o non vi siano altre leggi sconosciute. Ebbene, nella valutazione della probabilità logica la clausola coeteris paribus deve essere riempita dai contenuti delle risultanze processuali ed impone di tener conto di tutte le peculiarità del caso concreto. La rivoluzione copernicana operata dalla sentenza Franzese è data dal fatto che il giudice può ritenere inesistente il nesso causale nonostante che la legge scientifica applicabile esprima una probabilità vicina alla certezza. Anche di fronte a leggi del genere la probabilità logica non è integrata qualora vi sia un ragionevole dubbio che nel caso concreto, date tutte le sue peculiarità, la legge non abbia operato e, viceversa, siano intervenuti fattori causali alternativi che hanno cagionato l’evento. Per contro, ma corrispondentemente, il giudice può ritenere che esista il rapporto di causalità fondato sulla probabilità logica anche qualora venga in gioco una legge scientifica a bassa predittività, purché in tali casi, sempre alla luce di tutte le risultanze, appaia provato oltre ogni ragionevole dubbio che esiste un rapporto causale. Il giudice deve escludere con certezza che l’evento sia causato da altri fattori (c.d. procedimento per esclusione). Il significato del concetto di probabilità logica può essere ricostruito come segue: alla luce delle risultanze processuali, occorre poter affermare che il caso è inquadrabile nell’area di funzionamento della legge di copertura o nel campo di validità della massima di esperienza. È una simile valutazione che ci dà la certezza oltre ogni ragionevole dubbio, a prescindere dalla validità statistica della legge scientifica o dalla controvertibilità della massima. Altro è la validità statistica astratta della legge, altro è l’esistenza in concreto del nesso causale oltre ogni ragionevole dubbio. Il rapporto di causalità è un elemento oggettivo del reato e, come tutti gli altri elementi, non si sottrae al quantum ed al quomodo dell’accertamento processuale, che esige l’esistenza di una probabilità logica dotata di alta credibilità razionale.
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