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lineamenti di diritto pubblico per i servizi sociali ed. 2021, Dispense di Diritto Pubblico

pdf completo di tutti i capitoli del testo lineamenti di diritto pubblico per i servizi sociali, integrato alle slide del prof. esame garantito!

Tipologia: Dispense

2022/2023

In vendita dal 22/11/2022

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Scarica lineamenti di diritto pubblico per i servizi sociali ed. 2021 e più Dispense in PDF di Diritto Pubblico solo su Docsity! DIRITTO PUBBLICO CAPITOLO 1: LO STATO E GLI ENTI PUBBLICI 1. LO STATO. Definizione Stato è il nome dato ad una particolare forma storica di organizzazione del potere politico, che esercita il monopolio della forza legittima in un determinato territorio e si avvale di un apparato amministrativo. Lo Stato moderno nasce in Europa tra il XV e il XVII secolo e si differenzia dalle precedenti forme di organizzazione politica per la presenza di due caratteristiche: a) Una concentrazione del potere legittimo nell’ambito di un determinato territorio in capo a un’ unica autorità b) La presenza di un’organizzazione amministrativa in cui opera una burocrazia professionale. Caratteristica dello Stato è quella di “ SOVRANIT À”. La sovranità ha due aspetti : quello interno che consiste nel supremo potere di comando in un determinato territorio; quello esterno che consiste nell’indipendenza dello Stato nei confronti degli altri Stati. I due aspetti sono strettamente intrecciati. 2. SOVRANIT À E ORGANIZZAZIONE INTERNAZIONALE Tradizionalmente la sovranità “esterna” non riconosceva altri limiti se non quelli provenienti dagli accordi tra gli Stati (i Trattati). Dopo la Seconda Guerra Mondiale è cominciato un processo di limitazione della sovranità esterna di uno Stato, con la finalità di garantire pace e sicurezza e tutelare i diritti umani. Il processo è cominciato con l’istituzione dell’ Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), approvato il 26 giugno 1945, che ha come finalità principale quella di garantire la pace fra gli Stati e il rispetto dei diritti umani, grazie alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, approvata il 10 dicembre 1948. Però anche l’Onu non è inserita nelle questioni interne di ciascuno Stato. Le limitazioni si fanno più rigide con la creazione di Organizzazioni sovranazionali; ovvero con la costituzione della Comunità economica europea (CEE) nel 1957. 3. LA CITTADINANZA La cittadinanza è uno status cui la Costituzione riconnette una serie di DIRITTI e di DOVERI. La cittadinanza è l’elemento necessario per l’esercizio di particolari “diritti”, come l’elettorato “attivo” e “passivo”, ma è fondamento di alcuni doveri costituzionali , espressione della solidarietà che esiste tra i componenti di un unico popolo (es: dovere di difendere la patria). La Costituzione italiana afferma che nessuno può perdere la cittadinanza per motivi politici (art.22) ma i modi in cui la cittadinanza può essere acquistata, perduta e riacquistata sono disciplinati dalla legge91/1992 e ora modificati in senso restrittivo dalla legge 94/2009. COME SI ACQUISTA LA CITTADINANZA La cittadinanza italiana viene acquistata: A) Con la nascita per: - ius sanguinis,ossia acquista la cittadinanza il figlio, anche adottivo, di padre o madre in possesso di cittadinanza italiana, qualunque sia il luogo di nascita. - ius soli, ossia acquista la cittadinanza colui che è nato sul territorio italiano da genitori ignoti o apolidi, o che, nato in Italia da cittadini stranieri, non ottenga la cittadinanza dei genitori sulla base delle leggi degli Stati cui questi appartengono. B) Lo straniero nato in Italia , che vi abbia risieduto legalmente senza interruzioni fino al raggiungimento della maggiore età, diviene cittadino italiano se entro un anno dichiara di voler acquistare la cittadinanza. C) Su istanza dell’interessato, rivolta al sindaco del Comune di residenza, e in particolare: - dal coniuge straniero o apolide, di un cittadino o cittadina italiana qualora ricorrano alcune condizioni. (dopo il matrimonio si risieda in itali per almeno due anni…) - dallo straniero con un genitore o un parente in linea retta di secondo grado cittadino italiano per nascita. - Dallo straniero, maggiorenne, adottato da un cittadino italiano e residente nel territorio da almeno 5 anni. - Dallo straniero che ha prestato servizio per lo Stato per almeno 5 anni. - Dal cittadino di uno degli Stati membri dell’UE, dopo almeno 4 anni di residenza in Italia. - Dall’apolide dopo almeno 5 anni di residenza. - Dallo straniero dopo almeno 10 anni di residenza regolare. La stessa legge disciplina i casi in cui la cittadinanza viene persa , ciò avviene in due casi: -Per rinunzia (il caso del cittadino che acquista o riacquista la cittadinanza di un altro Paese -Automaticamente (caso dei cittadini che siano alle dipendenze di uno Stato estero e vogliano conservare il loro ruolo) 4. LA CITTADINANZA DELL’UE Il Trattato sull’UE ( noto come Trattato di Maastricht) del 1992ha introdotto la CITTADINANZA EUROPEA. Presupposti per la cittadinanza europea è quella di essere cittadini di uno Stato membro; la cittadinanza europea NON è sostitutiva di quella nazionale, ma la completa. I cittadini presentano numerosi diritti quali:soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, tutela da parte delle autorità diplomatiche e consolari di qualsiasi Stato membro,ecc. Ma l’aspetto più importante è dato dall’attribuzione al cittadino dell’ ELETTORATO ATTIVO E PASSIVO alle elezioni comunali e del parlamento europeo dello Stato membro in cui risiede. Inoltre l’UE si impegna a rispettare i diritti fondamentali sanciti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e del cittadino. 5. LO STATO COME APPARATO Lo Stato si differenzia da altre organizzazioni politiche che pure hanno realizzato il monopolio della forza legittima in un determinato territorio (come i Comuni) per la presenza di un apparato organizzativo servito da una burocrazia professionale. L’organizzazione è stabile nel tempo e ha carattere impersonale perché funziona in base a regole predefinite. L’attività all’interno dell’apparato statale è scomposta in numerosi compiti minori, eseguiti da strutture minori; in questo modo l’organizzazione statale possiede la più grande divisione del lavoro. L’esistenza dell’apparato prescinde dalle persone fisiche, infatti le persone possono essere sostituite purché abbiano l’addestramento adatto per poter adempiere ai compiti, infatti lo Stato ha carattere impersonale. Il funzionamento dello Stato presuppone la presenza di una BUROCRAZIA PROFESSIONALE, infatti nello Stato assoluto le funzioni pubbliche si concentravano nella corona, invece nel nostro Stato le funzioni pubbliche sono divise fra più organi; ecco perché alla burocrazia statale si sono aggiunte altre burocrazie (come i Comuni) che aiutano lo Stato. STATO FEDERALE: i caratteri tipici dello Stato federale sono: a) l’esistenza di un ordinamento statale federale, dotato di una Costituzione scritta e rigida, e di alcuni enti politici territoriali dotati di proprie Costituzioni. b) la previsioni da parte della Costituzione federale di una ripartizione di competenze tra Stato centrale e Stati membri con riguardo alle tre tradizionali funzioni (legislativa, esecutiva, giurisdizionale) c) l’esistenza di un Parlamento bicamerale, in cui cioè esiste una Camera rappresentativa degli Stati membri d) la partecipazione degli Stati membri al procedimento di revisione costituzionale, che può essere diretta o indiretta tramite la partecipazione allo stesso procedimento della seconda Camera; la presenza di una Corte costituzionale in grado di risolvere i conflitti tra Stato federale e Stati membri. Gli esempi storici più importanti di Stati federali sono nati da un processo di associazione di Stati inizialmente indipendenti. Il primo passo è costituito dalla nascita di una Confederazione di Stati, per far fronte a comuni esigenze di carattere militare ed economico, la quale non da vita ad uno Stato nuovo. Come si osservava, in molti casi la Confederazione di Stati si è trasformato in Stato federale. STATO REGIONALE: è distinto da quello federale per i seguenti caratteri: a) la presenza di una Costituzione statale che riconosce e garantisce l’esistenza di enti pubblici territoriali dotati di autonomia politica, nei limiti posti dalla Costituzione e dotati di propri statuti. b) l’attribuzione costituzionale alle Regioni di competenze legislative e amministrative; una partecipazione limitata all’esercizio di funzioni statali ed in particolare a quella di revisione costituzionale. In realtà, la distinzione tra Stato federale e regionale è molto difficile da tracciare, ecco perché una distinzione fondamentale è quella fra Stato unitario e Stato composto e quella fra Stati a forte decentramento politico e Stati a decentramento politico limitato. Un’altra differenza è quella fra FEDERALISMO DUALE (forte divisione tra Stato federale e Stati membri, per cui operano senza interferenze da parte dell’altro) e FEDERALISMO COOPERATIVO ( presenza di interventi congiunti e coordinati da parte dello Stato centrale e degli Stati membri) 10. LA POTESTÀ PUBBLICA Lo Stato e gli enti pubblici sono collocati, dalla legge, in una posizione di supremazia rispetto ai soggetti privati; infatti le leggi, i provvedimenti e le sentenze producono effetti nei confronti dei destinatari, anche se questi non hanno prestato consenso. Questo potere di determinare unilateralmente effetti giuridici nella sfera dei destinatari dell’atto, indipendentemente dal loro consenso, prende il nome di POTESTÀ PUBBLICA. le potestà pubbliche devono essere attribuite dalla legge ed essere esercitate legalmente. Diversa è la posizione dei soggetti privati che sono collocati su un piano di parità giuridica e possono provvedere liberamente a disciplinare i rapporti, nel rispetto dei limiti stabiliti dalla legge (principio di autonomia privata). Attualmente lo Stato e gli altri enti pubblici utilizzano, sempre più frequentemente, istituti privati per soddisfare interessi pubblici, con la conseguenza che i rapporti instaurati con altri soggetti si svolgono su un piano paritario (ciò avviene quando un Comune , al posto di espropriare un immobile, lo acquista con un contratto). La tendenza a rendere sempre più sottile la differenza fra soggetti pubblici e soggetti privati è accentuata dall’influenza del diritto comunitario. Quest’ultimo non riconosce la distinzione tra i due soggetti , ma ha elaborato la nozione di ORGANISMO DI DIRITTO PUBBLICO. L’obiettivo del diritto comunitario è di evitare che il denaro pubblico finisca nelle casse di operatori privati senza che sia assicurata una gara pubblica e trasparente a cui le imprese di tutti i paesi comunitari possano partecipare su piano di parità. 11. UFFICI ED ORGANI Ognuno degli apparati minori in cui si articola l’organizzazione dello Stato e degli altri enti pubblici può essere configurato come una “macchina organizzativa” creata per soddisfare gli interessi pubblici, perciò opera secondo regole prestabilite che delineano un disegno organizzativo. L’unità strutturale elementare dell’organizzazione si chiama ufficio. Il disegno organizzativo prefigura l’ufficio come un servizio prestato da persone, ma esso è considerato in astratto, poiché prescinde dalle persone fisiche; infatti può capitare che un ufficio possa essere momentaneamente vacante (si parla di “vacanza” di ufficio). Ciascun apparato, per svolgere i suoi compiti, deve instaurare rapporti giuridici con altri soggetti , ecco perché, per farlo, l’apparato deve servirsi di una particolare categoria di uffici che prendono il nome di: ORGANI: è un ufficio particolarmente qualificato da una norma come idoneo ad esprimere la volontà della persona giuridica e ad imputarle l’atto e i relativi effetti. La persona giuridica (l’ente) può avere parecchi uffici , di cui però colo alcuni (gli organi) hanno la capacità giuridica di compiere atti giuridici. L’organo fa parte dell’organizzazione, mentre la singola persona fisica che vi è proposta ha con la persona giuridica un rapporto che si chiama rapporto di servizio, da cui scaturiscono diritti e doveri reciproci. Degli organi si possono fare molte classificazione. Una prima avviene fra gli: organi rappresentativi: i cui titolari sono eletti direttamente dal corpo elettorale o che sono collegati ad organi elettivi (Parlamento). organi burocratici: sono preposte persone che professionalmente prestano la loro attività in modo esclusivo a favore dello Stato o di altri enti pubblici, senza alcun rapporto con il corpo elettorale. Una seconda distinzione avviene tra: organi attivi: decidono per l’apparato di cui sono parte organi consultivi: danno consigli (“pareri”) ai primi. I pareri possono essere, a loro volta, divisi fra: a) Parere facoltativo, se l’organo ha la facoltà di richiederlo, ma non l’obbligo. b) Parere obbligatorio, se essi devono essere obbligatoriamente richiesti. c) Parere vincolante, che deve essere obbligatoriamente seguito dall’organo che decide. organi di controllo: verificano la conformità alle norme di atti compiuti da altri organi. 12. ORGANI COSTITUZIONALI Tra gli organi più rilevanti troviamo gli ORGANI COSTITUZIONALI. Questa categoria comprende gli organi dotati di determinate categorie: - sono elementi necessari dello Stato, la mancanza di uno di essi determinerebbe l’arresto dell’intera attività statale. - sono elementi indefettibili dello Stato, nel senso che non si può avere la loro soppressione o la sostituzione con altri organi senza causare un mutamento dello Stato. - la loro struttura di base è interamente dettata dalla Costituzione. - ciascuno di essi si trova in condizione di parità giuridica con gli altri organi costituzionali. - solo essi individuano lo Stato in un determinato momento storico. 13. L’AMMINISTRAZIONE PUBBLICA. Servizi e funzioni L’attività amministrativa si distingue in: FUNZIONE PUBBLICA: i poteri autoritativi si esercitano unilateralmente e producono conseguenze giuridiche nella sfera del destinatario, indipendentemente dal suo consenso (multa per divieto di sosta). SERVIZIO PUBBLICO: si svolge senza l’utilizzo di poteri autoritativi, anche se il relativo comportamento è adempimento di un obbligo imposto da una legge a tutela di interessi generali (la cura dei malati da parte delle Aziende sanitarie locali). Il concetto di “servizio pubblico” è molto complesso, ecco perché ha avuto numerose interpretazioni, sia basate su concezioni soggettive, che su concezioni oggettive, senza però arrivare a risultati soddisfacenti. I servizi pubblici sembrano attività scomponibili in tre momenti: 1. in una prima battuta occorre che le attività siano attribuite all’amministrazione direttamente dalla legge, o in base ad atti che la legge disciplina; 2. l’erogazione delle attività è poi “programmata2, nell’intento di giungere ad una definizione puntuale dei destinatari, delle condizioni e dei costi di erogazione delle prestazioni; si definisce anche la forma di erogazione delle prestazioni; 3. infine, vi è la fase dell’erogazione vera e propria che potrà essere posta direttamente in carico all’amministrazione pubblica, oppure affidata a soggetti esterni ad essa. obbligatoriamente, su richiesta delle istituzioni comunitarie o di propria iniziativa. h) Il Comitato delle Regioni è anch’esso un organo consultivo delle istituzioni europee. È composto dai rappresentanti delle collettività regionali e locali. Il Comitato è consultato obbligatoriamente, su richiesta o su propria iniziativa. 4. IL MERCATO, TRA STATO E UNIONE EUROPEA Nel moderno Stato sociale, la libertà del mercato e dei suoi operatori (le imprese, le banche, ecc.) incontrano limiti necessari per contrastare le crisi economiche, dando luogo ad un’economia mista, in cui il ruolo dello Stato si è progressivamente esteso attraverso l’utilizzo di vari strumenti : sono sorte imprese pubbliche ed enti pubblici economici. I Trattati istitutivi della Comunità europea ponevano al centro degli obiettivi l’ instaurazione di un mercato comune, un mercato interno caratterizzato dall’eliminazione, fra gli Stati membri, degli ostacoli alla libera circolazione delle persone, dei servizi, dei capitali e delle merci. Il raggiungimento di questo obiettivo comportava l’adozione di una politica economica fondata sullo stretto coordinamento delle politiche degli Stati membri. (Questi principi vengono ribaditi del TUE art.3.3 e dal TFUE art. 119.1). Anche se non mancano delle teorie che configurano il mercato come ordine spontaneo, la concezione prevalente è quella che il mercato ha bisogno di regole, di norme ordinatrici che strutturano i rapporti economici; quindi economia di mercato e libera concorrenza sono il risultato di istituti giuridici. Alla creazione di un mercato unico europeo si è giunti utilizzando tre strumenti previsti dai Trattati: -libera circolazione delle merci, dei lavoratori, dei servizi e dei capitali; -il divieto degli aiuti finanziari; -la disciplina della concorrenza, e sotto qualsiasi forma, dello Stato alle imprese, salve alcune eccezioni. Gli Stati non possono impedire la creazione di un mercato comune limitando la circolazione delle merci e dei fattori produttivi (ad esempio, l’introduzione di dogane), oppure privilegiando le proprie aziende nazionali , erogando aiuti finanziari che ostacolano le aziende straniere. I primi due punti mirano ad evitare questi comportamenti da parte degli Stati, invece il terzo punto si rivolge direttamente alle imprese che operano nel mercato, per sanzionare i comportamenti che falsano la concorrenza. Perciò disciplina in modo approfondito la concorrenza e affida alla Commissione il ruolo di assicurarne l’osservanza da parte delle imprese . Ma il diritto comunitario non vuole, solo, garantire un mercato unico, e perciò vietare gli interventi statali che alterano la concorrenza,ma ha posto le premesse per la riduzione e l’eliminazione dei monopoli pubblici (ovvero le attività configurate come servizi pubblici devono essere sottoposti alle regole della concorrenza). 5. L’UNIONE MONETARIA E I PARAMETRI DI MAASTRICHT Il mercato unico è stato completato con l’introduzione di una moneta unica: l’EURO, nonché dalla conduzione di una politica monetaria e di una politica del cambio uniche, gestite dal Sistema europeo di banche centrali (SEBC), indipendente sia dalle istituzioni nazionali che da quelle comunitarie. Tra le finalità principali dell’UE vi è quella di garantire la stabilità dei prezzi (art.3.2 TUE).la politica monetaria e la politica del cambio comuni devono avere un obiettivo prioritario: la stabilità dei prezzi e la lotta all’inflazione (che consiste nell’innalzamento del livello dei prezzi). Solo dopo aver assicurato questi obiettivi, possono servire a sostenere le altre politiche della Comunità , conformandosi ad un altro principio, quello della libertà di concorrenza. Per questo esiste una stretta correlazione tra mercato aperto basato sulla libera concorrenza, moneta unica e stabilità dei prezzi. La moneta unica e la politica monetaria e del cambio comuni consolidano il mercato comune, perché così si eliminano i residui strumenti attraverso i quali gli Stati potevano proteggere le rispettive economie nazionali riducendo l’integrazione ad un unico mercato comune. Ma l’instaurazione di una moneta unica impone un certo grado di convergenza tra le economie degli Stati partecipanti all’Unione; poiché in un mercato unico e aperto l’inflazione può essere esportata dai paesi con economie più deboli ai paesi con economie più solide. Da qui deriva la condizione per cui i Paesi che aderiscono all’UE abbiano condizioni finanziarie interne tali da ridurre i pericoli di inflazione. l’Unione monetaria europea stabilisce una serie di vincoli alle politiche di bilancio dei Paesi membri, noti come “i parametri di Maastricht” , ad eccezione Regno Unito, Danimarca e Svezia, che hanno scelto di restare dall’Euro, e dalla Grecia, che ha potuto fare ritorno nei parametri solo in un secondo tempo. Agli Stati nazionali viene imposto il rispetto di “finanze pubbliche sane” e il Trattato prevede che due volte l’anno gli Stati membri sottopongano i loro bilanci, quello in corso e quello previsto, ad una procedura d’esame per evitare i disavanzi eccessivi. Secondo il Trattato di CE e il Protocollo aggiuntivo un disavanzo è ritenuto aggiuntivo se : - il disavanzo supera la soglia del 3% del Prodotto Interno Lordo (PIL); - il debito pubblico supera la soglia del 60% del PIL. Qualora in un Paese membro, il disavanzo risulti eccessivo, la Commissione europea deve preparare un rapporto al Consiglio, che può fare delle raccomandazioni al paese in questione; se queste non vengono prese in considerazione, possono essere emesse delle sanzioni pecuniarie. Questa disciplina è stata completata dal cosiddetto Patto di stabilità e crescita, concordato nel 1997 al Consiglio europeo tenutosi ad Amsterdam; i paesi aderenti si impegnano a porsi un obiettivo di bilancio pubblico in pareggio del medio termine. Ciò ha imposto, ai Paesi aderenti, un’opera di risanamento finanziario. L’unione economica e monetaria comporta una moneta ed una politica monetaria unica gestite dal Sistema europeo di Banche centrali nazionali e, in posizione sovraordinata, dalla Banca Centrale Europea (BCE). Nel SEBC, le Banche centrali (in Italia si chiama Banca d’Italia)svolgono fondamentalmente due compiti: concorrere, tramite il proprio vertice istituzionale (ovvero il Governatore), a determinare le decisioni del Consiglio direttivo della BCE e dare attuazione a tali decisioni entro il confine del proprio Paese. La vigilanza del mercato di credito è rimasta alle Banche centrali, ma i controlli sono solo di natura tecnica. 6. LA CRISI FINANZIARIA IN EUROPA E LA NUOVA GOVERNANCE ECONOMICA Secondo il meccanismo introdotto con il Trattato di Maastricht e confermato dalla TFUE, la politica monetaria doveva essere condotta a livello sovranazionale,dalla BCE, mentre le politiche di bilancio erano competenza dei singoli Stati. I fatti, però, hanno dimostrato che questo meccanismo non è riuscito ad imporre la riduzione del debito pubblico e del disavanzo di bilancio in modo da assicurare il rispetto dei parametri di Maastricht, né è riuscito ad impedire che gli squilibri di alcuni Paesi si riflettessero sulla stabilità finanziaria di tutta l’Eurozona. Nel 2010 il debito pubblico della Grecia era pari al 140,2% del PIL, dell’Italia al 118%, del Portogallo al 93%. In questo contesto è aumentato il rischio, che alcuni Stati non fossero più in grado di pagare i propri debiti, allora una conseguenza è stata l’aumento notevole degli interessi che questi Stati hanno dovuto pagare; in questo modo si innesca un circolo vizioso: l’elevato debito pubblico fa aumentare gli interessi, ma l’aumento di interessi significa aumento della spesa dello Stato, che è finanziata con altro debito pubblico. In questo modo si evidenziano alcuni limiti istituzionali dell’Unione economica e monetaria, poiché gli Stati non avevano previsto alcun meccanismo che in caso di crisi assicurasse il pagamento del debito pubblico Per affrontare la grave crisi delle finanze degli Stati dell’Eurozona, sono state introdotte importanti riforme: la nuova governance economica europea, introdotta tra il 2010 e il 2012, ha rafforzato il coordinamento a livello europeo delle politiche economiche nazionali e ha reso più efficace il controllo delle politiche di bilancio degli Stati membri dell’Eurozona. Essa ha come conseguenza la limitazione dell’autonomia decisionale degli Stati, soprattutto quelli che avevano un elevato livello di debito pubblico, i quali sono tenuti a seguire le politiche economiche determinate in sede europea e ad adottare le riforme dirette a ridurre il disavanzo di bilancio e il debito pubblico (le cosiddette “riforme strutturali”). Le principali innovazioni sono: a) Il semestre europeo, che consiste in una procedura finalizzata al coordinamento delle politiche economiche e di bilancio degli Stati membri. Il calendario del semestre europeo è articolato: - gennaio: la Commissione elabora l’analisi annuale sulla crescita in cui indica le prospettive economiche ed elabora le proposte strategiche per l’economia europea. - marzo: la Commissione predispone un rapporto sulla base del quale il Consiglio europeo indica i principali obiettivi di politica economica per l’UE e le possibili strategie di riforma per conseguire tali obiettivi. - aprile: gli Stati membri , tenuto conto delle indicazioni, comunicano alla Commissione i propri obiettivi e le principali azioni di riforma che intendono adottare e che sono contenuti nei programmi di stabilità e nei Programmi nazionali di riforma. - giugno/ luglio: il Consiglio europeo e il Consiglio dei ministri finanziari, sulla base delle valutazioni dei programmi, forniscono indicazioni specifiche per ciascun Paese. - mesi successivi: ciascuno Stato predispone il bilancio e le misure di politica economica finalizzate al loro conseguimento. b) La nuova sorveglianza macroeconomica e finanziaria, introdotta con il six pack (ossia un insieme di sei regolamenti comunitari): è stato introdotto un meccanismo di sorveglianza sui dati macroeconomici di ciascun Paese, per cui se la Commissione ritiene che vi siano degli squilibri può chiedere allo Stato di adottare misure di politica economica dirette alla loro eliminazione. c) Il Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance dell’Ue, firmato il 2 marzo 2012. Il nuovo Trattato si caratterizza per l’introduzione di due regole: 1. L’introduzione del pareggio di bilancio, o meglio del divieto di deficit struttura ledi superare lo 0,5% del PIL. 2. L’individuazione di un percorso di riduzione del debito pubblico, in rapporto al PIL (il rapporto debito/ PIL deve diminuire ogni anno di 1/20 della distanza tra il suo livello effettivo e la soglia del 60%). d) L’introduzione di un meccanismo di solidarietà diretto ad aiutare gli Stati in difficoltà finanziarie. Nel corso del 2010, è stato introdotto l’European Financial Stability Facility (EFSF), dotato di risorse finanziarie messe a disposizione da parte degli Stati membri per aiutare i Paesi in difficoltà. Sulla base di questo meccanismo sono stati erogati ingenti aiuti finanziari alla Grecia, al Portogallo e all’Irlanda. La durata dell’EFSF veniva limitata a soli 3 anni, ecco perché, successivamente, è stato istituito un meccanismo permanente di intervento diretto ad assicurare la stabilità finanziaria nell’area euro: il Meccanismo europeo di stabilità (MES), destinato ad assumere le funzioni dell’EFSF. Al momento della sua istituzione il MES è stato dotato di un capitale di 700 miliardi di euro e di una capacità di prestito fino a 500 miliardi. Con successivi accordi si è provveduto ad aumentare la capacità di intervento. e) La creazione di un’Unione Bancaria, diretta ad evitare i rischi di “contagio” tra sistema finanziario privato e finanza pubblica degli Stati. Oltre all’ineleggibilità, troviamo l’incompatibilità, in cui si vuole assicurare che l’imparziale esercizio delle funzioni elettive, non venga minacciato da conflitti di interessi o da motivi di ordine funzionale. Le cause di incompatibilità parlamentare, a parte quelle direttamente previste dalla Costituzione, sono previste nella legge 60/1953, che prevede l’incompatibilità con la titolarità di uffici pubblici o privati derivanti da nomina governativa (art.1), con cariche in enti o associazioni che gestiscono servizi per conto dello Stato (art.2) e infine per le cariche direttive ricoperte da banche o società per azioni con esercizio finanziario (art.3). All’ineleggibilità e all’incompatibilità si aggiunge anche l’incandidabilità, che colpisce coloro che hanno subito condanne per determinati reati ( stampo mafioso, traffico di droga e armi). 1.2 Modelli di sistema elettorale Il sistema elettorale è il meccanismo attraverso cui i voti espressi dagli elettori si trasformano in seggi. Il sistema elettorale si compone di tre parti: 1) il tipo di scelta che spetta all’elettore; 2) la dimensione del collegio che è l’ambito che prendiamo in considerazione per la ripartizione dei seggi in base ai voti (circoscrizione elettorale, se l’ambito è territoriale). Si distingue: - collegio unico, che si ha quando esiste un solo collegio che serve a ripartire tra i candidati tutti i seggi in palio. - più collegi, ciascuno dei quali eleggerà un certo numero di parlamentari. Quando ci sono più collegi bisogna distinguere a seconda delle dimensioni del collegio (il numero dei parlamentari che vengono eletti nel collegio). Sotto questo profilo possiamo dividere fra collegio uninominale ( eletto un solo candidato, solo i più grandi partiti avranno possibilità di accesso al Parlamento poiché i seggi disponibili sono pochi) e collegio plurinominale ( eletti due o più candidati, c’è un elevato numero di seggi e anche i partiti più piccoli hanno la possibilità di ottenerne qualcuno); 3) la formula elettorale che è il meccanismo attraverso cui si procede alla ripartizione dei seggi che hanno partecipato alla competizione elettorale. I sistemi elettorali si distinguono in: SISTEMI ELETTORALI MAGGIORITARI: il seggio in palio è attribuito a chi ottiene la maggioranza dei voti. Nell’ambito dei sistemi maggioritari occorre distinguere due ipotesi: A) se è richiesta la maggioranza assoluta: in questo caso, per essere eletti, occorre aver ottenuto almeno la metà più uno dei voti validi. Se nessun candidato la raggiunge, le discipline elettorali prevedono un secondo turno di votazione. Al secondo turno accedono i due candidati più votati al primo turno e, al secondo turno, verrà eletto chi otterrà più voti. B) se è richiesta la maggioranza relativa: in questo caso è eletto semplicemente chi ottiene più voti, anche se questi non raggiungono la metà più uno dei voti validi. SISTEMI ELETTORALI PROPORZIONALI: i seggi in palio vengono distribuiti a seconda della quota di voti ottenuta da ciascuna lista in competizione. A differenza di quelli maggioritari, si tiene conto di tutte le liste che abbiano ottenuto una quantità di voti almeno pari ad una percentuale minima ( quoziente elettorale). Tutte le liste che raggiungono questo livello minimo partecipano alla ripartizione dei seggi in rapporto al numero di voti ottenuto da ciascuna. Una volta attribuiti i seggi si passa a vedere quali sono i candidati eletti per ciascuna lista e possono essere usati due metodi: 1- se l’elettore può esprimere una o più preferenze per i candidati di una lista, sono eletti i candidati con numero di preferenze più elevato. 2- se manca la possibilità di esprimere preferenze, i seggi sono attribuiti seguendo l’ordine dei candidati nella lista ( lista bloccata, che attribuisce maggiore potere ai dirigenti di partito) Un sistema maggioritario ha un effetto selettivo, poiché l’accesso al Parlamento viene consentito solo a chi ottiene più voti nei collegi, e quindi solo alle forze politiche maggiori. Tutte le forze minori, pur ottenendo percentuali significative di voti, non avranno rappresentanza parlamentare; i sistemi proporzionali, invece, garantiscono l’accesso in Parlamento anche alle minoranze politiche, poiché vogliono fotografare la realtà del Paese. In alcuni sistemi, pure proporzionali, la selettività è data dalla presenza di una CLAUSOLA DI SBARRAMENTO, in cui possono accedere ai seggi solo le liste che a livello nazionale abbiano conseguito una percentuale significativa di voti. 1.3 Il sistema di elezione del Parlamento in Italia Sino al 1993 in Italia le due Camere del Parlamento erano elette con un sistema proporzionale, poiché si trattava di un Paese con delle fratture e con l’esigenza di favorire la ricerca dell’accordo fra le forze politiche; infatti la legge elettorale garantiva a tutte le forze politiche la sopravvivenza e incentivava, in un Parlamento in cui nessun partito aveva la maggioranza assoluta, la ricerca dell’accordo e della mediazione. Il sistema elettorale proporzionale, perciò, è stato una componente importante del parlamentarismo compromissorio, che ha caratterizzato la democrazia italiana: un sistema basato su accordi tra maggioranza di governo e partiti di opposizione. Le trasformazioni della società italiana hanno prodotto una spinta verso una democrazia maggioritaria, avvenuta con il referendum elettorale del 1993. Questo referendum riguardava l’abrogazione di alcune norme della legge elettorale del Senato; ciò ha lasciato che il sistema si trasformasse in senso maggioritario- uninominale che ha favorito il bipolarismo. Tuttavia, nel 2005, il sistema elettorale maggioritario è stato abbandonato. Al suo posto è stato introdotto un sistema elettorale proporzionale (legge 270/2005) che ha reso molto difficile la creazione di coalizioni politiche stabili. Il sistema elettorale che risulta dai tagli apportati dalle decisioni della Corte è un sistema proporzionale con voto di preferenza ed un premio di maggioranza alla Camera per la lista che ottenga il 40% dei voti. La corte ha ribadito che la Costituzione non delimita un certo sistema elettorale, ma bisogna assicurarsi che vi sia un bilanciamento degli interessi costituzionalmente protetti e che vi sia una proporzione fra i mezzi scelti e gli obiettivi perseguiti. 2. LA FORMA DI GOVERNO ITALIANA La forma di governo è il complesso dei rapporti che legano gli organi costituzionali politici, cioè il Presidente della Repubblica, il Parlamento e il Governo. La forma di governo italiana è una forma di governo parlamentare, basata sul rapporto di fiducia tra Governo e Parlamento. A)per quanto riguarda la sua formazione, la disciplina è contenuta negli artt. 92.2, 93 e 94 Cost. Essi consacrano le seguenti regole: 1. Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio (art.92.2) 2. I ministri sono nominati dal Presidente della Repubblica su proposta del Presidente del Consiglio 3. I membri del Governo devono giurare nelle mani del Capo dello Stato (art.93) 4. Entro dieci giorni dalla sua formazione il Governo deve presentarsi alle Camere e ottenere la fiducia (art.94.3) 5. La fiducia è accordata e revocata mediante mozione motivata votata per appello nominale (art. 94.2) B) per quanto riguarda la cessazione del Governo, la Costituzione prevede la mozione di sfiducia, che è l’atto con cui il Parlamento interrompe il rapporto di fiducia con il governo, obbligandolo alle dimissioni. 1. La mozione di sfiducia, al pari di quella di fiducia, deve essere motivata e votata per appello nominale. 2. La mozione di sfiducia deve essere firmata da almeno un decimo dei componenti della Camera. 3. La mozione non può essere messa in discussione prima di tre giorni dalla sua presentazione. 4. Il voto contrario di una o di entrambe le Camere su una proposta del Governo non comporta l’obbligo di dimissioni (art.94.4). 5. Se la mozione di sfiducia è approvata anche solo da una Camera, il Governo è obbligato a dimettersi. Il voto per appello nominale significa che ogni membro della Camera viene chiamato ad esprimere pubblicamente il suo voto. Ciò comporta un’assunzione di responsabilità politica da parete di chi fa cadere il Governo nei confronti degli elettori e dei partiti. Però per quanto riguarda questa disciplina della fiducia, essa non ha mai operato perché la maggior parte delle crisi di governo sono nate, non da mozioni di sfiducia, ma dalla rottura della coalizione di maggioranza del Governo. In queste fasi di crisi si è fatto ricorso a governi aventi una funzione transitoria, in attesa che maturassero gli accordi fra le forze politiche (Governi ponte, Governi tecnici). Non è direttamente prevista dalla Costituzione la questione della FIDUCIA, che può essere posta dal Governo su sua iniziativa che richiede l’approvazione parlamentare (per esempio, un disegno di legge). In questo caso il Governo dichiara che, se la proposta non dovesse essere accettata dal parlamento, la fiducia verrà meno e il Governo rassegnerà le sue dimissioni. La fiducia è uno strumento che il Governo usa per rivendicare la sua responsabilità e come mezzo di pressione sulla maggioranza, affinché resti compatta e coerente con gli scopi prefissati. 3. IL GOVERNO Il Governo è un organo costituzionale complesso, formato dal Presidente del Consiglio, dai ministri e l’unione dei due forma il Consiglio dei ministri. Il Governo ha forti poteri sia nella funzione esecutiva che normativa, ma la dimensione effettiva del suo potere dipende dagli equilibri della complessiva forma di Governo e dal grado di attuazione dei principi di decentramento politico e dell’economia di mercato. Per quanto riguarda la struttura, l’art.92.1 Cost. si limita a citare quali sono gli organi governativi necessari, ma non esclude la possibilità di avere altri organi (Vice-presidente del Consiglio), purché rispettino le competenze dei primi; si parla di organi governativi non necessari. Rilievo assumono i Comitati interministeriali, che hanno competenze a deliberare in via definitiva su determinati oggetti, il più importante è il CIPE (Comitato interministeriale per la programmazione economica) che possiede competenze nella politica economica. Per quanto riguarda il funzionamento, l’art.95 Cost. rimanda alla legge sull’ordinamento della Presidenza del Consiglio dei ministri (legge 400/1988)per una più puntuale regolazione. I principi che presiedono al riparto delle funzioni tra gli organi che compongono il Governo sono: 1. Il principio della responsabilità politica di ciascun ministro, che comporta il riconoscimento dell’autonomia a ciascun ministro nella direzione del suo ministero. 2. Il principio della responsabilità politica collegiale, incentrata sul Consiglio dei ministri, che è l’organo che assume tutte le decisioni rilevanti per l’indirizzo politico generale del Governo. 3. Il principio della direzione politica monocratica, basata sui poteri del presidente del Consiglio. Egli ha il potere di indirizzare direttive politiche e amministrative ai ministri; consiste nell’individuazione di fini politici o di principi di azione che lasciano spazio all’autonomia dei ministri in ordine alle modalità di attuazione. Il REGOLAMENTO INTERNO DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI ha previsto che: - il ministro che intende proporre un provvedimento da inserire all’ordine del giorno del Consiglio ne deve fare richiesta al Presidente del Consiglio . Per quanto riguarda il VOTO, la regola generale è il VOTO PALESE, mentre l’eccezione è il voto segreto, a cui si fa ricorso tutte le volte in cui le deliberazioni riguardano le persone, per le leggi che riguardino principi e diritti di libertà costituzionali,i diritti della famiglia o i diritti della persona. Il voto può essere espresso per: alzata di mano, appello nominale, procedimento elettronico o per schede. Per regola generale le sedute delle Camere sono PUBBLICHE per il principio della pubblicità dei lavori parlamentari e i regolamenti di Camera e Senato stabiliscono preventivamente il tempo disponibile per la discussione, in cui a tutti i gruppi spetta lo stesso tempo di esposizione, ma ai gruppi di opposizione spetta una quota di tempo maggiore. 4.4 La funzione legislativa del Parlamento. Il procedimento legislativo Il procedimento è una serie coordinata di atti rivolti ad uno stesso risultato finale: la legge formale. Gli atti di cui si compone il procedimento legislativo sono 3: A) L’INIZIATIVA LEGISLATIVA: presentazione di un progetto di legge alla Camera (nel linguaggio tecnico si chiamano disegni di legge se presentati dal Governo e proposte di legge in tutti gli altri casi) che conta due parti: - il testo dell’articolo che si sottopone alla Camera nella speranza che venga trasformato in legge; - la relazione che accompagna l’articolo e ne illustra le caratteristiche. L’iniziativa legislativa è riservata ad alcuni soggetti indicati dalla Costituzione:  Iniziativa governativa: il Governo (art.71.1) è l’unico soggetto che ha potere di iniziativa su tutte le materie  Iniziativa parlamentare: ogni deputato o senatore può presentare progetti di legge alla Camera a cui appartiene  Iniziativa popolare: l’art.71.2 della Costituzione prevede che il progetto di legge possa essere presentato da 50000 elettori, attraverso la raccolta delle firme, entro 6 mesi  Iniziativa regionale: l’art 121.2 Cost. afferma che anche le Regioni hanno il potere di presentare un progetto di legge alle Camere  Iniziativa del CNEL: al CNEL è l’art.99 Cost. attribuisce l’iniziativa legislativa senza stabilire limiti precisi L’iniziativa legislativa non crea mai un obbligo per le Camere di deliberare e che la discussione di un progetto di legge sia inserita nei programmi di lavoro della Camera dipende dalla valutazione politica della Conferenza dei capigruppo. B) L’APPROVAZIONE DELLE LEGGI spetta a ciascuna Camera. L’art.72.1 Cost. vieta che un disegno di legge sia direttamente discusso dalla Camera: prima deve essere esaminato dalla commissione permanente competente; ma le funzioni che la commissione è chiamata a svolgere sono diverse in base alla sede in cui è chiamata ad esaminare. Possiamo distinguere 3 procedimenti principali: 1. Procedimento ordinario: spetta al Presidente della Camera individuare la commissione competente per materia. Il presidente della commissione espone le linee generali della proposta di legge (prima lettura), provocando una discussione sulla stessa; successivamente si passa alla lettura articolo per articolo e alla votazione degli eventuali emendamenti (seconda lettura). In aula la discussione procede per tre letture. 2. Procedimento per commissione deliberante: è una particolarità del nostro ordinamento, ereditata dal fascismo. Essa consente alla commissione di assorbire tutte le fasi del procedimento di approvazione, sostituendo l’aula: la commissione esaurisce tutte e tre le letture senza che il progetto di legge venga votato dall’assemblea. Ma ci sono delle limitazioni per quanto riguarda alcune materie e in qualsiasi momento, il progetto di legge può essere “rimesso” all’assemblea quando ne facciano richiesta il Governo, minoranze politiche della Camera o la commissione stessa. 3. Procedimento per commissione redigente: è una via di mezzo tra i procedimenti precedenti, non è previsto dalla Costituzione ma dai regolamenti parlamentari. Questo procedimento serve a sgravare l’assemblea dalla discussione e approvazione degli emendamenti ,decentrandoli in commissione e riservando all’aula l’approvazione finale. C) LA PROMULGAZIONE fa diventare la legge efficace. Spetta al Presidente della Repubblica promulgare le leggi entro trenta giorni dalla presentazione della stessa da parte del Governo. Il Presidente della Repubblica svolge un controllo formale ( il testo delle due Camere deve essere identico) e sostanziale, infatti egli ha il potere di rinviare la legge alle Camere con un messaggio motivato (merito costituzionale). Alla promulgazione segue la pubblicazione della legge sulla Gazzetta ufficiale e l’entrata in vigore. 4.6 Le altre funzioni del Parlamento Oltre alla funzione legislativa, il Parlamento svolge altre funzioni, la più importante è la funzione parlamentare di controllo politico, che si concretizza in singoli istituti di diritto parlamentare il cui comune denominatore è quello di essere diretti a far valere la responsabilità politica del Governo nei confronti del Parlamento. Gli istituti sono: a)l’interrogazione è una domanda che un parlamentare rivolge, per iscritto, al Governo avente ad oggetto la veridicità o meno di un determinato fatto. Il Governo può dichiarare di non voler rispondere alla domanda, esplicandone i motivi, o che preferisce differire dalla risposta indicandone la data per la quale si avrà la sua risposta. b)l’interpellanza, in cui l’interpellante chiede, per iscritto, quale sia l’intenzione politica del Governo, in riferimento ad una determinata situazione. c)la mozione può essere presentata da un presidente di un gruppo parlamentare o da dieci deputati della Camera o da otto senatori. il fine per il quale si presenta una mozione è quello di determinare una discussione e la deliberazione della Camera su questioni che incidono sull’attività del Governo: il Governo può porre la questione di fiducia. d) la risoluzione ha come fine quello di manifestare un orientamento o definire un indirizzo. La risoluzione alla pari della mozione condiziona l’indirizzo governativo. e) l’ordine del giorno è un atto d’indirizzo rivolto al Governo che ha carattere accessorio: serve a dettare direttive su come deve essere applicata una legge. Il Governo può accettarlo o meno, ma resta un atto politico che non produce effetti al di fuori dei rapporti tra Governo e Camera. La Costituzione attribuisce a ciascuna Camera la facoltà di istituire commissioni d’inchiesta su materie di pubblico interesse, con i poteri e i limiti dell’autorità giudiziaria (art.82). Si tratta di un potere monocamerale (esistono, nella prassi, anche commissioni bicamerali d’inchiesta) e l’oggetto dell’inchiesta deve riguardare una “materia di pubblico interesse”. Inoltre, la commissione d’inchiesta è formata in modo da rispecchiare la proporzione dei gruppi parlamentari. 5. IL PROCESSO DI BILANCIO TRA GOVERNO E PARLAMENTO La disciplina delle entrate e quella della spesa costituiscono due aspetti della finanza pubblica. per quanto concerne le entrate, sono stabiliti due principi fondamentali: il primo è quello secondo cui tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva (art.53). L’imposizione fiscale, però, non è proporzionale, bensì è ispirata al principio di progressività (la percentuale di reddito prelevata dal fisco cresce al crescere del livello del reddito). L’altro principio è quello della riserva di legge secondo cui nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge (art.23). In materia di entrate e di spesa, si fa riferimento all’art.81, modificato per rafforzare il principio del pareggio di bilancio. L’art.81.3 impone l’obbligo di copertura di spesa, cioè ogni nuova spesa deve essere coperta con un’entrata tributaria o con una riduzione delle spese previste; visto che lo Stato deve assicurare l’equilibrio tra le entrate e le spese, si parla, allora, di “equilibrio di bilancio”. Il principio non si applica solo allo Stato, ma a tutte le pubbliche amministrazioni (Regioni e enti locali). La legge sulle nuove norme di bilancio è stata approvata a maggioranza assoluta dai componenti di ciascuna Camera; inoltre la legge ha istituito l’Ufficio parlamentare di bilancio, che è un organismo indipendente per l’analisi e la verifica degli andamenti di finanza pubblica e per la valutazione dell’osservanza delle regole di bilancio. Il ciclo di bilancio si articola in una serie di passaggi procedurali, ciascuno dei quali vede come protagonista un documento di programmazione finanziaria. Gli strumenti sono: A) il Documento di economia e finanza (DEF) da presentare alle Camere entro il 10 aprile di ogni anno. Il DEF presenta il Programma di stabilità e gli elementi richiesti dall’UE, con riferimento agli obiettivi da conseguire; poi presenta informazioni sull’andamento della spesa pubblica e le previsioni dei flussi di entrata e spesa; infine, la terza parte, contiene lo schema del Programma nazionale di riforma, in cui è descritto l’avanzamento delle riforme richieste dall’UE per rispettare i parametri finanziari. B) la Nota di aggiornamento del DEF da presentare entro il 27 settembre. C) il disegno di legge di bilancio da presentare alle Camere entro il 20 ottobre. D) il disegno di legge di assestamento da presentare entro il 30 giugno. E) gli eventuali disegni di legge collegati alla manovra di finanza pubblica da presentare alle Camere entro il mese di gennaio. La legge di bilancio contiene il BILANCIO DI PREVISIONE, che costituisce la base per la gestione finanziaria dello Stato ed è diviso in due sezioni: 1. La prima sezione contiene, per il periodo compreso nel triennio di riferimento, le disposizioni in materia di entrata e di spesa, con effetti finanziari compresi nel triennio considerato dal bilancio. 2. La seconda sezione contiene le previsioni di entrata e di spesa, espresse sia in termini di cassa che di competenza, apportando a tali previsioni le variazioni determinate dalla prima sezione della legge. Bisogna precisare la distinzione tra bilancio di previsione (quantifica l’entità prevista delle entrate che le amministrazioni statali acquisiranno il diritto di percepire) e bilancio di cassa ( quantifica l’entità delle entrate che saranno effettivamente incassate e delle spese che saranno effettivamente sostenute). 6. IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA Nei sistemi parlamentari il CAPO DELLO STATO è un organo di non facile definizione: la Costituzione italiana ha previsto un Presidente della Repubblica, distinto dal Governo, dotato di poteri propri, che è il Capo dello Stato e rappresenta l’unità nazionale (art.87.1), ma la Costituzione non dice quale deve essere il complessivo ruolo del Presidente della Repubblica, ma si limita: - a fissare alcune caratteristiche dell’organo, cioè l’ampia rappresentatività che deriva dalle modalità di elezione che lo sganciano dalla maggioranza; - ad attribuirgli alcuni poteri:nominare il Presidente del Consiglio, sciogliere anticipatamente il Parlamento, nominare alcune alte cariche; - a porre alcuni limiti all’esercizio degli stessi poteri, che consistono principalmente nell’obbligo che i suoi atti siano controfirmati dal Governo (art.89) e nella necessità che il Governo, dopo la sua nomina, si presenti in Parlamento per ottenere la fiducia (art.94), imponendo la formazione di Governi presidenziali; - a sancire e garantire la sua irresponsabilità politica (art.89). CAPITOLO 4:L’ORGANIZZAZIONE REGIONALE E DEL GOVERNO LOCALE 1. LO STATO REGIONALE L’organizzazione costituzionale italiana prevede un complesso sistema di autonomie regionali e locali. La Costituzione prevede uno Stato regionale e autonomista, basato su Regioni dotate di: autonomia politica (art.114),autonomia legislativa (art.117), autonomia amministrativa (art.118) e autonomia finanziaria (art.119). Le Regioni, cui si applicare la disciplina prevista dalla Costituzione, sono 15; ad esse si aggiungono 5 Regioni (Sicilia, Sardegna, Friuli Venezia Giulia, Trentino Alto Adige e Valle d’Aosta) dotate di un’autonomia più ampia rispetto alle altre. Esse sono denominate REGIONI A STATUTO SPECIALE, ad esse si affiancano anche le Province autonome di Trento e Bolzano. Le regioni ordinarie sono state istituite nel 1970, e nel 2001, il Parlamento ha approvato una legge costituzionale (legge cost. 3/2001) che ha realizzato un forte decentramento politico, disegnando una Repubblica delle autonomie, articolata su più livelli territoriali (Comuni, Città metropolitane,Province e Regioni), ciascuno dotato di autonomia politica. 2. LA RIPARTIZIONE DELLE COMPETENZE TRA STATO, REGIONI ED ENTI LOCALI La Costituzione ha previsto che la Repubblica sia articolata in Comuni, Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, tutti costituzionalmente dotati di autonomia, infatti il nuovo testo dell’art.114 pone sullo stesso piano lo Stato e gli altri enti territoriali minori. La scelta a favore di una “Repubblica delle autonomie” presenta delle conseguenze su come vengono ripartite le competenze tra lo Stato e gli enti territoriali: in un sistema in cui è prevista la parità di rango degli enti territoriali, la legge statale e la legge regionale sono PARIORDINATE, e la prima ha perduto la posizione di prevalenza che aveva nel precedente sistema. Quindi, lo Stato ha perso la potestà legislativa generale, salvo nelle materie individuate dalla Costituzione e espressamente a lui riservate. Inoltre la legge statale e la legge regionale, sono sottoposte agli stessi limiti: rispetto dei principi della Costituzione, dei vincoli dell’ordinamento europeo, ecc. Lo Stato ha perso, anche, la potestà regolamentare, poiché la competenza dello Stato è limitata alle materie di competenza legislativa esclusiva, mentre in ogni altra materia, la potestà regolamentare è riservata alle Regioni. Con la “legge Bassanini” del 1997 e con la riforma costituzionale, si è attribuito ai Comuni la generalità delle funzioni amministrative, con la sola eccezione di quelle che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite alle Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei principi di sussidiarietà ( il livello di governo superiore interviene solo quando l’amministrazione più vicina ai cittadini non possa da sola assolvere il compito), di differenziazione (enti dello stesso livello di governo possono avere competenze diverse) e di adeguatezza (le funzioni devono essere affidate ad enti che abbiano requisiti sufficienti di efficienza). Pertanto, a seguito della riforma costituzionale, tutte le funzioni di amministrazione pubblica dovrebbero essere assegnate ad una amministrazione locale, salvo che non vi sia l’esigenza di unificarne l’esercizio. Il nuovo testo costituzionale ha mantenuto le cinque Regioni a statuto speciale (il cui ordinamento e le cui funzioni sono stabilite dai rispettivi ordinamenti), a cui si sono applicate le nuove disposizioni costituzionali. Inoltre, le stesse Regioni ordinarie potrebbero ottenere nuove forme di autonomia rispetto a quelle previste dalla disciplina costituzionale. 3. I RACCORDI TRA I DIVERSI LIVELLI TERRITORIALI DI GOVERNO Negli Stati federali si pone il problema dei raccordi (ovvero gli strumenti di collegamento e di coordinamento) tra i diversi livelli territoriali di governo. Le materie sono sempre interconnesse e qualsiasi problema complesso richiede il coordinamento di tutti i centri di potere pubblico, anche per questo, alcune competenze statali sono di tipo “trasversale”, ovvero tagliano più materie. Il “SISTEMA DELLE CONFERENZE”è stato creato già prima della riforma costituzionale del 2001 e costituisce ancora oggi il principale strumento con cui si svolge la “leale collaborazione” tra Stato, Regioni ed autonomie locali. Il nucleo fondamentale è la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano (la “CONFERENZA STATO- REGIONI”), a cui è affiancata la CONFERENZA STATO, CITTÀ E AUTONOMIE LOCALI, e per materie di interesse comune le due Conferenze sono unite nella Conferenza unificata. Queste Conferenze, disciplinate dal decreto legislativo 281/1997, sono presiedute dal Presidente del Consiglio e sono formate da alcuni ministri e dai Presidenti delle Regioni (la Conferenza Stato- Regioni) o dai rappresentanti degli enti locali (Conferenza delle autonomie locali). Sono le sedi in cui c’è un confronto tra il Governo e le Regioni sul contenuto di atti che incidono sugli interessi e sulle competenze delle Regioni, il più delle volte ciò avviene per atti del Governo che necessitano del PARERE di una di tali Conferenze; si tratta di un parere politicamente forte, poiché se le Regioni riescono ad esprimerlo in modo unitario, è molto probabile che il Governo lo ascolti. In altri casi, dove lo Stato svolge funzioni di raccordo di attività ricadenti nelle competenze regionali, è previsto lo strumento dell’intesa, ossia del consenso delle Regioni, che sono chiamate alla codecisione dell’ atto. 4. IL PRINCIPIO DI LEALE COLLABORAZIONE La giurisprudenza della Corte costituzionale da tempo ritiene che il principio di leale collaborazione “deve governare i rapporti tra lo Stato e le Regioni nelle materie in relazione alle attività in cui le rispettive competenze concorrono o si intersechino ponendo un contemperamento dei rispettivi interessi” (sent. 242/1997). Le leggi statali hanno stabilito numerose forme di collaborazione: determinati atti devono essere adottati dallo Stato, previa intesa con la Regione, richiesta dei pareri, scambio di informazioni, ecc. Il bisogno di cooperazione si fa sentire ancora di più in seguito alla riforma costituzionale del 2001, poiché il livellamento tra gli enti ha tolto allo Stato la posizione di supremazia. Nella Costituzione del 1948, lo Stato prevedeva che le leggi regionali incontrassero un “limite politico” nell’interesse nazionale: il Governo poteva bloccarle e godeva di una posizione di supremazia rispetto alle Regioni. L’eliminazione, nel 2001, della possibilità di bloccare le leggi regionali per l’interesse nazionale e l’imporsi di un rapporto, fra i vari livelli di governo, orizzontale ha portato ad un rafforzamento del bisogno di cooperazione. N.B: le competenze trasversali dello Stato, che “tagliano” più materie attribuite alle Regioni, nel senso che lo Stato può intervenire nelle questioni regionali, ma non agendo unilateralmente, ma attraverso procedure di collaborazione con le Regioni. Un’altra esigenza riguarda l’esercizio del potere estero delle Regioni e i rapporti con l’UE. Lo Stato conserva la potestà legislativa esclusiva per quanto riguarda la politica estera, ma nelle materie di sua competenza la Regione può concludere accordi con Stati e intese con enti territoriali interni ad altro Stato. Ciò può avvenire solo nei casi disciplinati da leggi dello Stato (art.117.9 Cost.). inoltre, è previsto che le Province autonome di Treno e Bolzano, nelle materie di loro competenza, possano partecipare alle decisioni dirette alla formazione degli atti normativi dell’UE, ma anche in questo caso la loro presenza deve essere legittimata dallo Stato (art. 117.5 Cost.). Infine, va evidenziato che il Governo può esercitare il potere sostitutivo nei confronti degli organi delle Regioni, delle Città metropolitane, delle Province e dei Comuni, in caso di mancato rispetto di norme e trattati internazionali o della normativa europea o di pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica (art. 120.2). il Governo può surrogarsi , emanando l’atto necessario direttamente o attraverso un commissario ad acta. 5. I RAPPORTI TRA LE REGIONI E GLI ENTI LOCALI Un problema che ha accompagnato l’evoluzione dello “Stato regionale” è stato quello dei rapporti tra Stato e Regioni, da una parte, e enti locali dall’altra. Il cambiamento si è avuto grazie alla legge 142/1990, alla riforma del 1993 che ha introdotto l’elezione diretta del Presidente della Provincia del Sindaco, al decreto legislativo 267/2000 e alla legge Delrio 56/2014 in cui si è rivisto l’ordinamento dell’ENTE INTERMEDIO (quello che si colloca tra Comune e Regione). Il sistema degli enti locali si basa su: 1. Comune, ente locale rappresentativo della propria comunità, di cui cura gli interessi e promuove lo sviluppo, dotato di autonomia statuaria, normativa, organizzativa e amministrativa, nonché di autonomia impositiva e finanziaria nell’ambito della finanza pubblica; i suoi organi (sindaco e consiglio) sono eletti direttamente dai cittadini. 2. Provincia, ente intermedio fra Comune e Regione, i cui organi (presidente e consiglio) sono eletti dai sindaci e dai consiglieri dei Comuni ricompresi. Un terzo organo,l’assemblea,riunisce tutti i sindaci. La Provincia ha funzione “di area vasta”, di coordinamento (urbanistica, ambiente) e di gestione(strade, trasporti). 3. Città metropolitana, istituita dopo il 2014 soltanto nelle città maggiori (Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Napoli, Reggio Calabria e Roma Capitale). Si sostituisce alla provincia ed è governata da un sindaco metropolitano (di regola è il Sindaco del capoluogo), da un consiglio eletto dai sindaci e dai consiglieri dei Comuni compresi nella sua area e dalla conferenza metropolitana che riunisce tutti i sindaci. Si occupa dei piani territoriali, del coordinamento dei servizi e della mobilità. 4. Unioni di Comuni, enti locali costituiti da due o più Comuni per l’esercizio associato di funzioni e servizi di competenza. Con la legge cost. 3/2001 la condizione degli enti locali è cambiata profondamente, poiché è garantita più garanzia di autonomia ai vari enti, infatti essi possono darsi un proprio statuto, che stabilisca le norme fondamentali dell’organizzazione dell’ente. Ma l’innovazione più importante consiste nella previsione costituzionale secondo cui l’amministrazione pubblica deve essere un’amministrazione locale. Infatti, l’art.118 Cost. stabilisce che le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni, inoltre stabilisce che i Comuni, le Province e le Città metropolitane sono titolari di funzioni proprie, oltre a quelle loro conferite con la legge statale o regionale. Lo Stato, però, conserva la “potestà legislativa esclusiva” per quanto riguarda la legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane. Per quanto riguarda i raccordi tra la Regione e gli enti locali, la Costituzione prevede che, in ogni Regione, lo statuto deve disciplinare il Consiglio delle autonomie locali, in cui siedono rappresentanti degli enti locali; esso deve funzionare come organo con funzioni consultive (art.123.4). 6. FINANZA REGIONALE E FINANZA LOCALE Nei sistemi federali, l’autonomia degli enti territoriali riguarda anche il versante finanziario (federalismo fiscale), infatti lo Stato riconosce l’autonomia finanziaria degli enti territoriali (Stati membri o Regioni) e l’esistenza di interventi finanziari centrali, sottoforma di trasferimenti, con cui realizzare obiettivi di politica economica e sociale non tutelati dagli enti territoriali. L’art.119 Cost. (recentemente modificato dalla legge 8. LA FORMA DI GOVERNO DEGLI ENTI LOCALI La forma di governo del Comune e della Provincia è stata modellata dalla legge 81/1993, modificata dalla legge265/1999. Dopo la riforma Delrio, gli organi della Provincia non sono più eletti dai cittadini e anche i rapporti tra gli organi hanno perso “politicità”, per cui occorre occuparsi solo dei Comuni. La forma di governo dei COMUNI si basa sull’elezione popolare diretta del Sindaco, che dura in carica 5 anni e non può ricoprire più di due mandati consecutivi (salvo che uno dei due mandati abbia avuto una durata inferiore a due anni) Per quanto riguarda l’elezione dei CONSIGLI COMUNALI è prevista una combinazione di elementi del maggioritario e del proporzionale, che si realizza secondo modalità diverse per i Comuni con popolazione fino a 15.000 abitanti e per i Comuni con oltre 15.000 abitanti. CAPITOLO 5: L’AMMINISTRAZIONE PUBBLICA 1. PLURALISMO AMMINISTRATIVO E MOLTEPLICITÀ DEI MODELLI AMMINISTRATIVI Durante lo Stato liberale, in Europa si era diffuso il modello ministeriale di derivazione francese, in cui l’amministrazione si identificava con l’amministrazione statale articolata in organismi strutturati gerarchicamente: al vertice della gerarchia amministrativa c’era un organo chiamato MINISTRO che poteva impartire ordini ai funzionari addetti ai diversi uffici in cui si organizzava il ministero, poiché era a capo dell’amministrazione. Il Ministero era l’unico ufficio che poteva manifestare all’esterno la sua volontà. I ministri, in quanto parte del Governo, riconducevano tutti i ministeri all’unitaria politica del Governo, da cui l’amministrazione dipendeva. In questo sistema non c’era spazio per l’autonomia degli enti locali, che venivano definiti enti autarchici (Comuni e Province potevano inseguire interessi propri, poiché coincidevano con quelli Stato); essi diventavano strumento dello Stato centrale e subivano molti controlli. Nell’odierno Stato di democrazia pluralista l’uniformità dell’amministrazione è stata abbandonata a favore di un sistema in cui sono seguiti diversi schemi di organizzazione. Da una parte, l’amministrazione è diventata pluralistica, cioè si è articolata in tante strutture tra di loro autonome e con indirizzi differenti, e dall’altra, anche a livello di amministrazione statale, il pluralismo sociale comporta l’attribuzione del compito di curare interessi diversi e conflittuali. Le amministrazioni hanno perduto uniformità organizzativa e seguono modelli diversi: ai ministeri, molto spesso, si affiancano altre figure come gli enti pubblici di vario tipo, le agenzie, ecc. 2. IL GOVERNO E LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE Ciascun ministro è, di regola, preposto ad uno dei grandi rami dell’amministrazione statale che prende il nome di MINISTERO, perciò il ministro ha una doppia veste istituzionale: da una parte, partecipa alla formazione dell’indirizzo politico in quanto membro del Consiglio dei ministri, e dall’altra, costituisce il vertice amministrativo di un ministero. L’amministrazione per ministeri è nata in Francia ed è stata fondamentale in molti Paesi dell’Europa. Ciascun ministero si configurava in una struttura verticistica e gerarchizzata che si esprimeva all’esterno attraverso il ministro (l’organo che manifesta la volontà del ministero), quest’ultimo si serviva di una molteplicità di uffici a lui legati da un rapporto di gerarchia, ma questo modello è stato abbandonato in Italia nel 1993. L’organizzazione dei ministri, attualmente, è basata sul PRINCIPIO DI SEPARAZIONE TRA POLITICA E AMMINISTRAZIONE: agli organi di governo (Consiglio dei ministri) spetta l’esercizio della funzione di indirizzo politico e amministrativo  determinazione degli obiettivi e dei programmi da attuare , nonché la verifica dei risultati dell’attività amministrativa.; ai dirigenti amministrativi spetta l’adozione degli atti e dei provvedimenti amministrativi che impegnano l’amministrazione l’esterno, la gestione finanziaria, tecnica e amministrativa, mediante l’adozione di atti di spesa, di organizzazione e dei mezzi strumentali di cui l’amministrazione si serve. Il ministro, periodicamente e comunque non oltre i 10 giorni dall’entrata in vigore del bilancio, definisce OBIETTIVI, PRIORITÀ, PIANI e PROGRAMMI da attuare, ed emana le conseguenti direttive generali (indicano gli obiettivi, le modalità di azione e gli standard da rispettare) cui dovranno conformarsi i dirigenti. Inoltre, il ministro assegna a ciascun ufficio di livello dirigenziale generale le risorse umane, materiali ed economico finanziarie necessarie per la realizzazione degli obiettivi.  In passato i ministeri sono stati sempre numerosi e, poiché ciascun ministro fa parte del Consiglio dei ministri, l’assemblea era composto da un numero molto alto di membri che ne pregiudicavano il buon funzionamento. La soluzione è arrivata con la legge 300/1999 che diminuiva il numero dei ministeri, ma per problemi legati alla rappresentanza delle coalizioni politiche, nel 2001, il numero dei ministeri è tornato a crescere. Inoltre la legge 300/1999 afferma che accanto ai ministeri operano le AGENZIE (strutture amministrative, dotate di autonomia, che svolgono attività di carattere tecnico- operativo). 3. I PRINCIPI COSTITUZIONALI SULL’AMMINISTRAZIONE Esistono dei principi costituzionali comuni a tutte le amministrazioni e sono i seguenti: a) legalità della pubblica amministrazione e la riserva di legge in materia di organizzazione. – il principio di legalità può definirsi come la sottoposizione dell’amministrazione alla legge, nel senso che l’amministrazione può fare solo quello che è previsto dalla legge e nel modo da essa indicato (differenza con il privato: anche se è sottoposto alla legge, nei suo ambito, seguendo i limiti della legge, può agire come crede). Ciò non significa che la l’amministrazione sia completamente vincolata, ma il più delle volte, effettua delle scelte fra le diverse possibilità di azione. – per quanto riguarda l’organizzazione degli uffici pubblici, la Costituzione una riserva di legge relativa, poiché la tendenza recente è quella di ridurre il campo di intervento legislativo nella materia dell’organizzazione amministrativa e rinviare le scelte più puntuali a regolamenti di organizzazione. b) l’imparzialità della pubblica amministrazione (art.97), che vieta di effettuare discriminazioni tra soggetti non sorrette da alcun fondamento razionale, e perciò arbitrarie. L’imparzialità è la traduzione sul piano amministrativo del principio di eguaglianza. c) il buon andamento della pubblica amministrazione (art.97), che richiede un’attività amministrativa che risponda ai canoni dell’efficienza (sia in grado di realizzare il miglior rapporto tra mezzi impiegati e risultati). d) il principio del concorso pubblico per l’accesso al rapporto di lavoro con le pubbliche amministrazioni, per cui, salvo i casi stabiliti dalla legge, agli impieghi con le amministrazioni pubbliche si accede mediante concorso (art. 97.3), i concorrenti al concorso pubblico devono essere valutati da commissioni composte da esperti. Non sono ammessi passaggi e promozioni da una qualifica all’altra non precedute da idonee modalità concorsuali. e)il dovere di fedeltà, che si specifica nel dovere di compiere le pubbliche funzioni con disciplina e onore, prestando giuramento nei casi previsti dalla legge (art.54). Ciò che si vuole assicurare è un’amministrazione che non sia influenzata a da legami di dipendenti pubblici con gruppi, associazioni e partiti, per questo la Costituzione inserisce dei limiti al diritto di iscrizione politica a partiti per i magistrati, i militari, gli agenti di polizia e i rappresentanti italiani e consolari all’Estero (art.98.3). f) il principio di separazione politica e amministrativa, secondo cui gli organi di governo determinano obiettivi e programmi, mentre gli organi burocratici hanno la titolarità dei poteri di gestione amministrativa. La Costituzione non formula espressamente tale principio, ma afferma che “nell’ordinamento degli uffici sono determinate le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità proprie dei funzionari”. Questa disposizione fa intendere che esistono funzionari dotati di poteri propri e di responsabilità, realizzando una separazione tra la sfera dell’indirizzo politico- amministrativo e quella della gestione amministrativa ; separazione che non comporta la totale autonomia nella burocrazia e la sua indifferenza rispetto alle decisioni della sfera politica. Il rapporto tra organi di governo e amministrazione pubblica non è né di totale immedesimazione, né di totale indipendenza. g) la responsabilità personale dei pubblici dipendenti, che esclude ogni forma di immunità per gli atti da loro compiuti in violazione dei diritti (art. 28). Si tratta di una responsabilità diretta che il dipendente ha solidamente con lo Stato o con l’ente pubblico da cui dipende. L’attività contrattuale dell’amministrazione pubblica è sottoposta a delle regole speciali, soprattutto per quanto riguarda la modalità di scelta del privato contraente, che avviene al termine di particolari procedimenti amministrativi, che sono stati disciplinati con il fine di assicurare che l’interesse pubblico sia perseguito e che l’amministrazione non cerchi di avvantaggiare un imprenditore a scapito di un altro; tutto ciò avviene assicurando la concorrenza tra i soggetti privati, per il principio di imparzialità amministrativa, che intendono stipulare contratti con l’amministrazione. Le procedure di scelta sono chiamate procedimenti ad evidenza pubblica. la disciplina è contenuta nel d.lgs. 50/2016, anche se l’UE si è interessata in questa materia. Di regola, la formazione del contratto è preceduta da una DELIBERAZIONE DI CONTRATTARE, con la quale si decide che l’amministrazione stipulerà un determinato contratto, di cui viene determinato lo scopo, l’oggetto, le clausole e le modalità di scelta del privato contraente. Successivamente comincia il PROCEDIMENTO VERO E PROPRIO DI SCELTA DEL CONTRAENTE. Le procedure di scelta possono essere di vario tipo: 1. Si parla di procedura aperta quando qualsiasi soggetto privato, che abbia i requisiti richiesti, può partecipare alla gara per aggiudicarsi il contratto. Per assicurare la massima partecipazione degli operatori economici, l’amministrazione assicura un’ampia pubblicità al BANDO DI GARA. Quest’ultimo descrive i requisiti di idoneità tecnica, finanziaria ed economica, inoltre contiene gli elementi fondamentali del contratto. Nelle modalità di presentazione dell’offerta, l’amministrazione deve tenere conto di un solo valore: il prezzo. 2. La procedura ristretta si caratterizza per la preventiva limitazione dei concorrenti alla gara, che viene effettuata dall’amministrazione attraverso la formulazione di un invito a gareggiare, rivolto solo a determinati soggetti. Vi è la pubblicazione del bando a partecipare, che indica i requisiti di partecipazione; i candidati presentano la richiesta di invito e l’amministrazione individua quelli con i requisiti necessari e invita loro a fare un’offerta. 3. Infine vi è la procedura negoziata, in cui l’amministrazione consulta operatori economici appositamente scelti e negoziano con essi le condizioni dell’appalto. È una procedura a cui si ricorre in casi specifici e può essere avviata anche senza la pubblicazione del bando. Il DIALOGO COMPETITIVO è una procedura usata in caso di appalti complessi, in cui si avvia un dialogo con i candidati al fine di trovare soluzioni soddisfacenti sia per il privato che per l’amministrazione. I procedimenti terminano con l’AGGIUDICAZIONE, che è l’atto attraverso cui viene individuato il soggetto con il quale concludere il contratto. Successivamente segue la STIPULZIONE del medesimo. 6. I SERVIZI PUBBLICI L’attività amministrativa diversa da quella che utilizza gli strumenti del diritto privato, si distingue in funzione pubblica e servizio pubblico. I SERVIZI PUBBLICI sono una categoria composita perché si occupano di molte leggi , con la conseguenza che la loro disciplina è molto incerta. I servizi pubblici fanno riferimento ad una prestazione diretta a soddisfare interessi della collettività nel suo complesso (servizio antincendi) o dei suoi singoli componenti (servizi sanitari). In passato i servizi pubblici erano riservati al monopolio dell’amministrazione pubblica, così sono sorti enti previdenziali come l’INPS e l’INAIL, ma spesso i servizi pubblici necessitano di una gestione decentrata, come nel caso dell’assistenza sanitaria. Infatti, soprattutto per l’influenza del diritto europeo, molti servizi pubblici sono stati privatizzati (come il servizio aereo). Un’importante distinzione va tracciata tra servizi di rilevanza economica e i servizi privi di rilevanza economica. I primi hanno la caratteristica di essere forniti secondo condizioni di mercato, così da bilanciare costi e ricavi, e consistono in prestazioni omogenee. Per queste loro caratteristiche, questi servizi sono soggetti all’attenzione dell’UE, che mira a garantire condizioni di concorrenza e di mercato nel loro affidamento. Essi possono essere sostenuti dal finanziamento pubblico, come nel caso dei servizi universali:servizi di pubblica utilità (trasporto ferroviario) che devono essere garantiti alla collettività. I secondi sono, invece, sottratti alle norme sulla concorrenza, esempi più importanti sono: la sanità, la previdenza sociale, ecc. Essi possono essere gestiti sia da operatori pubblici che privati. Un particolare regime è previsto per i servizi pubblici locali, che sono quelli diretti a soddisfare i bisogni di una comunità locale e la cui fornitura rientra nei compiti del Comune (la distribuzione dell’acqua potabile). Questi servizi hanno una disciplina generale dettata dalla legge e sono organizzati dall’ente locale utilizzando numerosi strumenti e affidando la gestione ad altri soggetti sia pubblici che privati. CAPITOLO 6: FONTI DEL DIRITTO: NOZIONI GENERALI 1. FONTI DI PRODUZIONE la parola “fonte” indica gli strumenti di produzione del diritto, la definizione tradizionale è la seguente: dicasi fonte del diritto l’atto o il fatto abilitato dall’ordinamento giuridico a produrre norme giuridiche,cioè a innovare l’ordinamento giuridico stesso. È una definizione che indica che è l’ordinamento giuridico stesso ad indicare i modi in cui si forma e si rinnova. Gli ordinamenti moderni si istituiscono attraverso un processo costituente, ovvero che è la stessa Costituzione ad indicare gli atti che possono produrre il diritto. Possiamo dividere fra fonti primarie (poste immediatamente al di sotto della Costituzione) e fonti secondarie (fonti inferiori, regolate dalle fonti primarie); le fonti primarie sono regolate dalla Costituzione e perciò gli artt.70- 81 della Costituzione italiana se ne occupano. Le norme di un ordinamento giuridico che indicano le fonti abilitate a innovare l’ordinamento stesso si chiamano norme di riconoscimento o FONTI SULLA PRODUZIONE DELLE NORME. 2. PUBBLICAZIONE “UFFICIALE” E ENTRATA IN VIGORE DEGLI ATTI NORMATIVI Le fonti di produzione (e sulla produzione) delle norme del diritto vanno distinte dalle fonti di cognizione (strumenti attraverso i quali si vengono a conoscere le fonti di produzione), esistono fonti di cognizione ufficiali e private; un esempio di fonte ufficiale è la Gazzetta ufficiale, importante perché il testo in esse pubblicato è quello che “entra in vigore”, ovvero diviene obbligatorio per tutti. Tutti gli atti normativi devono essere pubblicati su una fonte ufficiale per far si che i cittadini e gli organi preposti all’applicazione del diritto lo possano conoscere, e per favorirne la conoscenza, gli atti non entrano in vigore immediatamente, ma deve trascorrere un periodo di 15 giorni tra la pubblicazione dell’atto e la sua entrata in vigore; oltre questo limite la legge diventa obbligatoria. 3. FONTI-FATTO E FONTI-ATTO Le fonti di produzione si distinguono in due categorie: le FONTI-FATTO (o fatti normativi) e le FONTI-ATTO (o atti normativi). Le fonti-atto sono parte degli atti giuridici, che potremmo definire come i comportamenti consapevoli e volontari che danno luogo a effetti giuridici. Gli atti normativi hanno due caratteristiche: a) quanto agli effetti giuridici, gli atti normativi hanno la capacità di porre norme vincolanti per tutti (sono “fonti del diritto”); b) quanto ai comportamenti, questi devono essere imputabili a soggetti cui lo stesso ordinamento riconosce il potere di porre in essere tali atti, infatti implicano l’agire volontario di un organo a ciò abilitato dall’ordinamento giuridico. Perché la volontà del soggetto possa produrre effetti normativi bisogna che essa sia riconoscibile, da qui nasce l’esigenza che ogni atto normativo si manifesti esteriormente nei modi che lo stesso ordinamento determina per ciascun tipo di fonte. Ogni tipo di fonte ha una sua forma essenziale, che i singoli atti devono rispettare per essere riconoscibili come appartenenti a quella fonte; la forma tipica dell’atto è data da alcuni elementi quali l’intestazione all’autorità emanante, il nome dell’atto e il procedimento di formazione dell’atto stesso. Per procedimento si intende quella sequenza di atti preordinata al risultato finale: per le fonti-atto, il risultato finale del procedimento è l’emanazione dell’atto normativo. Nell’ordinamento italiano i procedimenti per la formazione delle fonti-atto variano a seconda del tipo di fonte e se il procedimento non viene rispettato, esso ha un vizio di forma. Le fonti-fatto sono una categoria residuale, sono tutte le altre fonti che l’ordinamento riconosce e di cui 5. RISERVE DI LEGGE E PRINCIPIO DI LEGALITÀ La RISERVA DI LEGGE è lo strumento attraverso il quale la Costituzione il concorso delle fonti nella disciplina di una determinata materia. L’obiettivo è quello di evitare che, a materie particolarmente delicate, manchi una disciplina legislativa capace di vincolare il comportamento degli organi al potere esecutivo, infatti prevede che una determinata materia sia regolata soltanto dalla legge primaria e non da fonti di tipo secondario. Il PRINCIPIO DI LEGALITÀ ha diverso significato , poiché prescrive che l’esercizio di qualsiasi potere pubblico si fondi su una previa norma attributiva della competenza. L’obiettivo è quello di assicurare un uso regolato e controllato del potere. Ci sono due diversi tipi di legalità: il principio di legalità formale richiede soltanto che l’esercizio di un potere pubblico si basi su una previa norma di attribuzione della competenza. il principio di legalità sostanziale richiede, invece, che l’esercizio del potere pubblico sia limitato e diretto da specifiche norme di legge, tali da restringere la discrezionalità dell’autorità agente. L’introduzione della Costituzione rigida ha comportato l’applicazione del principio di legalità anche a quelle attività che erano considerate “libere”, infatti la funzione legislativa è sotto posta al principio di legalità: essa è attribuita, regolata e limitata dalla Costituzione. La riserva di legge è una delle regole limitative del potere legislativo poste dalla Costituzione. Di riserve di legge vi sono diversi tipi: A) la RISERVA DI LEGGE FORMALE ordinaria impone che sulla materia intervenga il solo atto legislativo prodotto attraverso il procedimento parlamentare, con esclusione degli altri atti: sono riservate all’approvazione parlamentare tutte quelle leggi che rappresentano strumenti attraverso i quali il Parlamento controlla l’operato del Governo. Siccome gli atti equiparati alla legge formale (atti con forza di legge) sono tutti atti del Governo, se non vi fosse una riserva di legge formale, il Governo approverebbe con un suo atto il suo stesso operato. B) le SEMPLICI RISERVE DI LEGGE prescrivono che la materia da esse considerata sia disciplinata dalla legge ordinaria, escludendo l’intervento di atti di livello gerarchico inferiore alla legge. L’obiettivo della riserva di legge è di assicurare che la disciplina di materie particolarmente delicate venga decisa con la garanzia tipica insita nel procedimento parlamentare. A seconda dei rapporti di legge e regolamento si distinguono due tipi di riserve di legge: – la riserva di legge assoluta esclude qualsiasi intervento di fonti sub-legislative dalla disciplina della materia ,che dovrà essere integralmente regolata dalla legge formale ordinaria o da atti ad essa equiparati. Riserve di questo tipo si trovano soprattutto nella parte della Costituzione dedicata alle libertà fondamentali (molto spesso per regolamentare le libertà fondamentali ancora meglio, alla riserva di legge, si aggiunge la riserva di giurisdizione  ogni atto non deve essere previsto solo “in astratto” ma deve essere autorizzato anche “in concreto” dal giudice). – la riserva di legge relativa non esclude che dalla disciplina della materia concorra anche il regolamento amministrativo, ma richiede che la legge disciplini preventivamente almeno i principi a cui il regolamento deve attenersi. C) in alcuni casi la Costituzione dispone che per disciplinare una certa materia non solo occorre una legge formale, ma che questa sia approvata attraverso un PROCEDIMENTO RINFORZATO, l’esempio più importante è l’art.7. art.7 :esso prevede che i rapporti tra Stato e Chiesa cattolica, già regolati dal “Concordato”, possano essere modificati solo previo accordo tra le due parti. Nel procedimento di formazione della legge, avremo perciò un “aggravamento”, nel senso che l’iniziativa legislativa sarà anticipata da un accordo stipulato tra il Governo e la Santa sede, e il Parlamento non potrà procedere a emendamenti senza che sia prima raggiunto l’accordo su di essi. L’obiettivo di queste leggi è quello di limitare il potere della maggioranza politica nei confronti delle minoranze: la maggioranza può fare la legge solo se ottiene il consenso dei soggetti che rappresentano la comunità minoritaria interessata. CAPITOLO 7: LE FONTI DELL’ORDINAMENTO ITALIANO 1. COSTITUZIONE E LEGGI COSTITUZIONALI La Costituzione rappresenta il vertice della gerarchia delle fonti. Essa è il fondamento di tutte le fonti del diritto: in particolare, disciplina analiticamente le fonti primarie. La Costituzione italiana entrò in vigore il 1° Gennaio del 1948 e fu approvata dall’Assemblea Costituente, eletta nel Giugno 1946 contemporaneamente al referendum istituzionale, con cui si scelse tra monarchia e repubblica (furono le prime elezioni a suffragio universale sia maschile che femminile in Italia). I lavori per la Costituzione furono lunghi e complessi , ma alla fine fu approvata dal 90% dei membri dell’Assemblea Costituente. Ha tre caratteristiche fondamentali: – è lunga, perché per ottenere un consenso così ampio, ha dovuto sommare i valori e gli interessi delle diverse componenti politiche, anche molto diverse fra loro. – è aperta, perché non vuole trovare un punto d’incontro tra i diversi interessi, ma si limita ad elencarli, lasciando alla legislazione il compito di trovare il punto di bilanciamento. – è rigida, perché il suo mutamento (revisione costituzionale) è soggetto ad un mutamento particolare. Con lo stesso procedimento sono approvate anche le “altre” leggi costituzionali che la Costituzione stessa prevede per la sua integrazione. Il procedimento di formazione della legge costituzionale è una variazione del procedimento legislativo ordinario ( questo prevede una sola deliberazione per ciascuna Camera e voto espresso a maggioranza relativa) ed è disciplinato dall’art.138 Cost. Esso prevede due deliberazioni per ciascuna Camera: in totale quattro deliberazioni sul medesimo testo. La PRIMA deliberazione è a maggioranza relativa (basata sui SI che superano i NO), invece la seconda deliberazione, può avvenire solo dopo tre mesi dalla prima e si aprono due strade alternative: 1. Se il consenso sulla riforma è così ampio che nella votazione di ciascuna Camera si esprime a favore la maggioranza qualificata dei 2/3 dei membri di essa, la legge è fatta e viene promulgata dal Presidente della Repubblica, entrando in vigore. 2. Se ciò non avviene, basta che la legge sia approvata con la maggioranza assoluta (metà più uno dei componenti di ciascuna Camera), successivamente il testo viene approvato dal Parlamento e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale. Entro tre mesi dalla pubblicazione può essere chiesto un referendum popolare, in modo da sottoporre il testo ad approvazione popolare; questo referendum non chiede un quorum minimo di votanti e se i consensi superano i voti favorevoli la legge viene promulgata ed entra in vigore, al contrario la proposta della maggioranza parlamentare viene eliminata. Il referendum può essere chiesto: dal corpo elettorale, attraverso la raccolta di almeno 500.000 firme, dall’opposizione di almeno 5 consigli regionali o dalle minoranze politiche che raccolgano le firme di almeno 1/5 dei membri di una Camera. Il doppio binario tracciato dall’art.138 Cost. è frutto di grande saggezza e per non regalare alle minoranze parlamentari il diritto di veto, si è prevista la possibilità che la modificazione della Costituzione sia voluta e decisa dalla sola maggioranza di governo, salvo la possibilità delle opposizioni di ricorrere agli elettori. Inoltre, sia le piccole modifiche che le grandi riforme della Costituzione, sono sottoposte allo stesso procedimento. Bisogna sottolineare che non tutta la Costituzione è revisionabile: vi è un “limite esplicito” alla revisione del testo costituzionale, posto dall’art.139 “la forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale”. Per “forma repubblicana” si intende il carattere DEMOCRATICO della Repubblica, in questo modo il limite esplicito si amplia a tutti quei principi di libertà e uguaglianza che sono fondamentali per mantenere il carattere democratico di un ordinamento politico.  La legge di sanatoria degli effetti del decreto-legge deceduto. Si tratta di una legge riservata alle Camere con cui si possono regolare i rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti non convertiti (art.77.3). Ovviamente è il Parlamento che si occupa di risolvere il nostro problema, però vanno considerati due aspetti: - quando il Parlamento decide di non convertire il decreto-legge, non è affatto tenuto ad approvare la legge di sanatoria. Si tratta di una decisione politica, e come tale libera e non affatto indipendente dalla scelta, politica anch’essa, di coprire o meno la responsabilità del Governo; - non è una soluzione tecnicamente praticabile sempre e comunque; il Parlamento può regolare i rapporti giuridici sorti, ma nel rispetto dei principi costituzionali e del principio di eguaglianza (cioè trattare situazioni eguali in maniera diversa e situazioni diverse in maniera eguale.  L’altro strumento è individuabile in questo inciso dell’art.77.2 “il Governo adotta, sotto sua responsabilità, provvedimenti provvisori”. La responsabilità di cui si parla non è solo politica, ma si tratta di responsabilità giuridica nei suoi vari tipi: -responsabilità penale : i ministri rispondono singolarmente degli eventuali reati commessi con l’emanazione del decreto-legge; - responsabilità civile: i ministri rispondono solidamente degli eventuali danni prodotti ai terzi ex art.2043 cod. civ.: “qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno”; -responsabilità amministrativo-contabile : i ministri che hanno espresso voto favorevole al decreto- legge rispondono degli eventuali danni prodotti allo Stato danno erariale; se lo Stato ha dovuto risarcire il danno subito dal terzo, per la responsabilità civile solidale di cui si è appena detto, si deve rivalere sui ministri. 5. ALTRI ATTI CON FORZA DI LEGGE Il decreto-legge e il decreto legislativo delegato sono i due principali atti con forza di legge, ma nel nostro ordinamento esistono altri decreti: a) Decreti emanati dal governo in caso di legge. L’art.78 Cost. dispone che “le Camere deliberano lo stato di guerra e conferiscono al Governo i poteri necessari”. Si ritiene che tra i poteri conferiti all’esecutivo vi possa essere anche una delega anomala al Governo, cui deve essere concesso il potere di emanare norme con forza di legge (si tratta di atti extra ordinem). Fortunatamente non vi sono state ancora applicazioni concrete. b) Decreti legislativi di attuazione degli Statuti speciali. Gli Statuti delle Regioni speciali prevedono il trasferimento delle funzioni, degli uffici e del personale dallo Stato alla Regione: si tratta di un decreto legislativo, emanato dal Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, su proposta di un’apposita commissione formata da membri designati in parti uguali del Governo e dell’assemblea regionale. c) Il referendum abrogativo. Il REFERNDUM è la richiesta fatta al corpo elettorale di esprimersi direttamente su una determinata questione, ed è uno strumento di democrazia diretta. Il referendum abrogativo è lo strumento con cui il corpo elettorale può incidere sull’ordinamento giuridico attraverso l’abrogazione di leggi o atti con forza di legge dello Stato, oppure su singole disposizioni in esse contenute. Esso è un atto-fonte dell’ordinamento dello stesso rango della legge ordinaria. 6. LE FONTI SECONDARIE: I REGOLAMENTI Con il termine “regolamento” si designano atti normativi difficilmente riconducibili a tipologie unitarie. I Regolamenti sono emanati da un’infinità di organismi pubblici e privati e il termine è impiegato per indicare le più svariate tipologie di atto normativo, ma in alcuni casi, il termine regolamento designa atti tipici, fonti dell’ordinamento giuridico generale: è il caso dei regolamenti amministrativi (regolamenti dell’esecutivo, regionali e degli enti locali). I regolamenti amministrativi sono atti sostanzialmente legislativi ma formalmente amministrativi, infatti non si distinguono dalle leggi ordinarie per contenuto o importanza poiché esistono leggi di scarsa importanza e regolamenti che disciplinano aree importantissime. La legge decide quale spazio normativo può occupare il regolamento perché quest’ultimo è una fonte secondaria sottoposta, dalla gerarchia, alle fonti primarie. I regolamenti più importanti sono i REGOLAMENTI DELL’ESECUTIVO, emanati dagli organi dell’esecutivo attraverso un procedimento che non ha le garanzie di controllo parlamentare che caratterizzano le leggi e gli atti con forza di legge. La Costituzione non disciplina i regolamenti dell’esecutivo: essa si limita a disciplinare la formazione della legge formale e gli atti ad essa equiparati. Tuttavia la riforma costituzionale del Titolo V ha introdotto un’importante innovazione: il principio di “parallelismo” tra funzioni legislative e funzioni regolamentari, limitando la potestà del Governo di emanare regolamenti alle sole materie sulle quali lo Stato ha potestà legislativa esclusiva e riservando alle Regioni il potere di regolamentare tutte le altre materie, perciò i regolamenti del Governo sono fonti a competenza limitata dalla Costituzione. Sono disciplinati dall’art.17 della legge 400/1988, che distingue tra i regolamenti del Governo e i regolamenti di altre autorità dell’esecutivo, cioè i ministri e le autorità sottordinate al ministro. Mentre per i regolamenti governativi il fondamento del potere normativo è costituito dallo stesso art.17, che assolve la funzione di norma attributiva del potere stesso, per i regolamenti ministeriali occorre che il potere di emanare l’atto sia espressamente conferito dalle singole leggi ordinarie. In secondo luogo, i regolamenti ministeriali non possono dettare norme contrarie a quelle dei regolamenti governativi. I RGOLAMENTI GOVERNATIVI sono deliberati dal Consiglio dei ministri, previo parere del Consiglio di Stato; si tratta di un parere obbligatorio ma non vincolante, per cui il Governo può discostarsene indicando i motivi nella relazione che il ministro presenta al Consiglio dei ministri (talvolta alcune leggi prescrivono al Governo di raccogliere pareri di altri organi). Il regolamento viene poi emanato con decreto del Presidente della Repubblica con proprio decreto (d.P.R.); l’atto è perfetto ma non ancora efficace: deve passare il controllo di legittimità della Corte dei conti, la quale provvede alla registrazione; successivamente viene pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale. I REGOLAMENTI MINISTERIALI sono emanati dal ministro (hanno la forma di decreto ministeriale: d.m.), sempre previo parere del Consiglio di Stato; con lo stesso procedimento, ma con decreto interministeriale sono emanati i regolamenti che riguardano materie di competenza di più ministri. Prima dell’emanazione devono essere comunicati al Presidente del Consiglio dei ministri, che può sospendere la deliberazione dell’atto e provocare una deliberazione del Consiglio dei ministri (art.5.2 lett. C, della legge 400/1988). Sono soggetti al controllo da parte della Corte dei conti e sono pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale. Infine, tutti i regolamenti devono avere nel titolo di denominazione la dicitura “regolamento” perché è importante tipizzare la fonte regolamentare. L’art.17.1 della legge 400/1988 distingue diverse tipologie di regolamento governativo: a) regolamenti di esecuzione delle leggi. Sono regolamenti che il Governo adotta anche senza una specifica autorizzazione legislativa quando avverta la necessità di emanare norme che assicurino l’operatività della legge, dei decreti con forza di legge e dei regolamenti UE. Possono avere una funzione interpretativa (applicativa della legge oppure di disciplinare le modalità procedurali per l’applicazione di essa). b) regolamenti d’attuazione. Sono emanati per l’attuazione e l’integrazione delle leggi e dei decreti legislativi recanti norme di principio, esclusi quelli relativi a materie riservate alla competenza regionale. c) regolamenti indipendenti. Sono emanati nelle materie in cui manchi la disciplina da parte di leggi o atti con forza di legge, sempre che non si tratti di materie comunque riservate alla legge. d) regolamenti di organizzazione. Sono un residuo storico, risalente all’epoca pre-repubblicana, quando l’esecutivo aveva una riserva di competenza sull’organizzazione dei pubblici uffici. Per i regolamenti ministeriali non c’è il problema della classificazione poiché essi possono essere emanati solo se una legge conferisce loro tale potere, però talvolta accade che non sia una legge ma un regolamento governativo a prevederli: è parte della generale tendenza del Governo ad abusare dei poteri normativi. Ecco perché, il controllo preventivo di legittimità esercitato dalla Corte dei conti e l’impugnazione dei regolamenti davanti al giudice amministrativo sono gli strumenti disponibili per ripristinare la legalità. L’art.17.2 della legge 400/1988 disciplina il fenomeno dei regolamenti “delegati” o “autorizzati”, la particolarità di questi regolamenti è di provocare un apparente effetto abrogativo delle leggi precedenti. La loro funzione è di produrre la DELEGIFICAZIONE, cioè sostituendo la precedente disciplina di livello legislativo con una nuova disciplina di livello regolamentare. Per fare questo sono preceduti da una legge (detta "di autorizzazione" o "di delega") che li prevede e abroga le precedenti leggi. La gerarchia delle fonti viene rispettata perché è la legge di autorizzazione/di delega che abroga le precedenti. DELEGIFICAZIONE: abbassamento del livello della disciplina normativa sostituendo la legge con il regolamento. DEREGOLAMENTAZIONE: drastica riduzione dell’insieme delle regole che imbrigliano l’attività dei privati in un certo settore. SEMPLIFICAZIONE: eliminare il peso e i costi dei procedimenti burocratici, che opprimono la vita dei privati e delle imprese. 7. LE FONTI DELL’UNIONE EUROPEA La distinzione fondamentale da cui partire è tra diritto convenzionale (i trattati con cui l’UE è stata istituita, modificata e sviluppata) e diritto derivato (gli organi dell’Ue e i loro poteri normativi si esprimono attraverso atti normativi che istituiscono il diritto derivato). Le fonti del diritto derivato si distinguono in: -non vincolanti, come le raccomandazioni UE e i pareri che ogni organo dell’UE può emanare e svolgono la funzione di guida per l’interprete . – vincolanti: sono pienamente atti normativi e si distinguono in tre tipologie diverse: I. REGOLAMENTI UE: hanno le caratteristiche tipiche, all’interno del nostro ordinamento, della legge. Hanno portata generale, nel senso che pongono norme generali e astratte, e sono obbligatori in tutti i loro elementi nei singoli Stati. Il regolamento UE è direttamente applicabile in ciascuno degli Stati membri, nel senso che non è necessario un atto dello Stato che ne ordini l’esecuzione, perché il regolamento si impone per forza propria e la sua applicazione è obbligatoria per tutti. II. DIRETTIVE UE: sono atti normativi che hanno come destinatario gli Stati membri e li vincolano “per quanto riguarda il risultato da raggiungere, salva restando la competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi”. Lo Stato ha l’obbligo di raggiungere un determinato obiettivo, ma può scegliere come dare attuazione alla direttiva. Anche singole norme contenute nelle direttive possono avere effetto diretto senza l’intermediazione dell’atto normativo statale. decisioni. REGOLAMENTI REGIONALI Spetta agli Statuti regionali disciplinare la titolarità e i modi di esercizio della potestà regolamentare: essi sono regolati in modo diverso, per lo più riconoscendo però che i regolamenti sono competenza dell’esecutivo, anche se si è cercato di mantenere in capo al Consiglio regionale qualche potere di controllo o interferenza. La riforma costituzionale del Titolo V ha introdotto il principio di “parallelismo” tra funzioni legislative e funzioni regolamentari, limitando la potestà del Governo di emanare regolamenti alle sole materie sulle quali lo Stato ha potestà legislativa esclusiva e riservando alle Regioni il potere regolamentare in tutte le altre materie. I regolamenti sono sottoposti alle leggi, ma queste sono sottoposte allo Statuto, spetta a quest’ultimo decidere se le leggi possano liberamente disporre della funzione regolamentare (cioè stabilire se, quando e chi possa emanare regolamenti amministrativi) o se vi siano oggetti che sono di competenza riservata ai regolamenti, oppure ancora, se l’esecutivo possa dare attuazione direttamente con regolamento alle leggi dello Stato o alle norme UE. Come si vede, buona parte della disciplina della potestà regionale dipende dallo Statuto regionale e può differenziarsi molto da Regione a Regione. 9. LE FONTI DELLE AUTONOMIE LOCALI La riforma del Titolo V ha modificato la posizione costituzionale degli enti locali delle loro fonti normative. L’art.114.2 attribuisce rilevanza agli Statuti degli enti locali, mentre l’art.117.6 riconosce ad essi la potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite. Se, dunque, è nella Costituzione che gli enti locali trovano il fondamento della loro autonomia, è però la legge a determinarne le competenze e le modalità di esercizio. L’autonomia normativa degli enti locali si svolge con atti subordinati alla legge statale o regionale, spetta poi alla legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze, conferire agli enti locali le altre funzioni, secondo i principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza. A) Statuti. La legge 142/1990 prevede che Comuni e Province si dotino di uno Statuto, approvato dal Consiglio con maggioranze particolari (voto favorevole di 2/3 dei consiglieri assegnati, in prima votazione,o in seguito con doppia votazione a maggioranza assoluta), che deve dettare le norme fondamentali all’organizzazione dell’ente (rapporti tra gli organi, collaborazioni con altri enti, ecc.). B) Regolamenti. Art.7 T.U. Il regolamento è lo strumento normativo tipico degli enti locali. Serve non soltanto all’organizzazione dell’ente ma anche a disciplinare le materie che sono di sua competenza. Benché sia una fonte secondaria, esso è fortemente percepito dai cittadini, perché regola aspetti assai importanti della loro vita quotidiana (esempio: il commercio, il traffico, ecc.). Il nuovo art.117.6 concede un inedito riconoscimento costituzionale all’autonomia regolamentare degli enti locali. L’innovazione è di difficile interpretazione perché, se è vero che la riforma sembra voler “riservare” uno spazio di autonomia agli enti locali per ciò che riguarda la propria organizzazione, è pur sempre vero che i regolamenti amministrativi sono fonti subordinate alle leggi, sia dello Stato che delle Regioni. CAPITOLO 8: GLI ATTI E I PROVVEDIMENTI AMMINISTRATIVI 1. ATTI NORMATIVI, ATTI AMMINISTRATIVI, PROVVEDIMENTI Le fonti del diritto, e in particolare gli atti normativi, pongono regole generali (si rivolgono all’intera collettività) e astratte (valgono in qualsiasi tempo e circostanza), invece gli individui e i loro comportamenti sono particolari e concreti. È compito dei soggetti che si occupano dell’applicazione del diritto applicare le norme giuridiche ai casi particolari. La pubblica amministrazione agisce attraverso atti amministrativi; sono “atti giuridici”in quanto “comportamenti consapevoli e volontari che danno luogo a effetti giuridici”. Attraverso essi la pubblica amministrazione esercita i particolari poteri attribuiti dalla legge e si giustificano con la prevalenza dell’interesse pubblico su quello privato. La categoria degli atti amministrativi è molto generica, in essa rientrano: gli atti normativi (quindi generali e astratti), atti di programmazione (piani e programmi che determinano gli obiettivi dell’azione di una o più amministrazioni), direttive amministrative (atti di indirizzo con cui un organo orienta il comportamento di altri organi amministrativi) o anche meri atti amministrativi (atti che non hanno rilevanza esterna). Gli atti amministrativi che producono effetti esterni, e quindi influiscono sulle situazioni giuridiche dei soggetti cui sono destinati, creando nuovi diritti o doveri, si chiamano PROVVEDIMENTI AMMINISTRATIVI: il provvedimento amministrativo è l’atto finale di un procedimento amministrativo che, articolandosi in diverse fasi, nelle quali vengono prodotti diversi atti amministrativi privi di rilevanza autonoma, culmina appunto con il “provvedimento”. 2. CARATTERI DEL PROVVEDIEMNTO AMMINISTRATIVO Con il provvedimento amministrativo l’autorità amministrativa fa valere la prevalenza dell’interesse pubblico su quello privato. Lo si può fare SOLO se la legge le conferisce il potere (principio di legalità) e se questo è esercitato nelle forme previste dalla legge stessa. a queste condizioni, l’amministrazione pubblica, può agire unilateralmente, cioè provocare modificazioni nella sfere giuridica di un privato senza il suo consenso. I provvedimenti amministrativi hanno in comune alcun caratteristiche: A) unilateralità e autoritarietà. L’autorità amministrativa agisce unilateralmente perché non è condizionata dal consenso del destinatario, e autoritariamente per la prevalenza dell’interesse pubblico che persegue. Non sempre il provvedimento amministrativo conduce a degli effetti sfavorevoli per il privato (anzi, molte volte è lo stesso privato a chiedere il provvedimento amministrativo), in questi casi, l’unilateralità e l’autoritarietà sono meno percettibili; invece quando il provvedimento provoca effetti sfavorevoli per il privato queste caratteristiche sono ben visibili. Gli atti sfavorevoli manifestano il carattere dell’IMPERATIVITÀ (capacità di imporre la volontà dell’amministrazione su quella del privato). B) tipicità. L’amministrazione può esercitare poteri autoritari solo se la legge le conferisce la competenza: la legge deve precisare: il tipo di provvedimento che l’amministrazione può emanare, quale interesse pubblico lo giustifichi, i presupposti per la sua emanazione, il procedimento e gli effetti prodotti. (principio di legalità). C) esecutività ed esecutorietà. L’idoneità dei provvedimenti amministrativi ad essere direttamente esecutivi, senza la necessità di un preventivo intervento del giudice (esecutività), e la capacità che la legge riconosce all’amministrazione di portare direttamente in esecuzione coattiva determinati provvedimenti (esecutorietà). Ciò non significa che il cittadini resti privo di tutela. N.B. l’amministrazione pubblica non procede soltanto autoritariamente attraverso provvedimenti, ma la legislazione più recente favorisce l’impiego di strumenti non autoritativi, quali gli accordi amministrativi tra amministrazioni e tra amministrazioni e privati. In questo modo l’amministrazione persegue la soddisfazione dell’interesse pubblico non unilateralmente, ma bilateralmente, ottenendo il consenso e la collaborazione del privato. 3. TIPOLOGIA DEI PROVVEDIMENTI AMMINISTRATIVI I provvedimenti amministrativi si dividono in: provvedimenti favorevoli e provvedimenti sfavorevoli. a) PROVVEDIMENTI FAVOREVOLI. Questi ampliano la sfera giuridica del privato, sono detti anche provvedimenti ampliativi. Alcuni tipi sono: autorizzazione (la rimozione di ostacoli che limitano l’esercizio di poteri), concessione (attribuzione di nuove posizioni giuridiche al privato), ammissioni (ad una scuola o Facoltà), esoneri (dalle tasse universitarie) e incentivi (finanziamenti concessi dalle autorità per il raggiungimento di determinati obiettivi). L’iniziativa del procedimento che porta al provvedimento favorevole è esercitata dal privato interessato, che ne deve fare domanda. b) PROVVEDIMENTI SFAVOREVOLI. Sono quelli che incidono negativamente nella sfera giuridica del privato, comportando la privazione dell’esercizio di un diritto (sono detti provvedimenti ablatori o privativi). Essi possono riflettersi sui diritti fondamentali, come nel caso degli ordini o dei divieti che l’amministrazione rivolge ai cittadini, per esempio, per limitare la circolazione dei veicoli. Possono riflettersi anche sui diritti reali ,per esempio la proprietà, come nell’espropriazione (provvedimento con cui l’amministrazione trasferisce la proprietà di un immobile dal privato proprietario a sé stessa), nella requisizione (motivata) o l’occupazione temporanea di un determinato suolo. Possono infine riflettersi sui diritti di credito, come nel caso delle sanzioni amministrative, che fanno sorgere in capo al privato l’obbligo di prestazioni pecuniarie (la contravvenzione) o non pecuniarie (demolire l’edificio abusivo). Non tutti i provvedimenti dell’amministrazione pubblica possono essere classificati in termini di favorevole- sfavorevole.; vi sono atti che non sono rivolti ai singoli, ma all’intera collettività o ad un numero non determinabile di soggetti. Sono provvedimenti amministrativi generali, quali quelli che fissano determinate tariffe o determinano la localizzazione di una serie di impianti. Particolarmente importanti sono i provvedimenti generali, che hanno effetti conformativi della proprietà, quali i piani urbanistici o i piani regolatori generali (sono gli strumenti tradizionali che definiscono l’utilizzazione dei suoli nel territorio di un Comune). 4. DISCREZIONALITÀ AMMINISTRATIVA L’attività di applicazione delle leggi da parte dell’amministrazione pubblica è solo raramente un’attività di semplice esecuzione della legge, dall’altra parte, l’attività della pubblica amministrazione non è mai un’attività interamente libera. La legge conferisce all’amministrazione pubblica il potere-dovere di realizzare un determinato interesse pubblico. Lo spazio di scelta che la legge attribuisce all’amministrazione, perché questa realizzi l’interesse pubblico, si chiama DISCREZIONALITÀ AMMINISTRATIVA. La scelta discrezionale può riguardare l’opportunità o meno di provvedere, il momento in cui farlo, la misura o il contenuto del provvedimento e gli strumenti; inoltre, il più delle volte all’amministrazione non è attribuita soltanto la scelta dei mezzi con cui raggiungere un determinato obiettivo, ma la valutazione di come, in relazione all’oggetto concreto, bilanciare interessi pubblici o pubblici e privati concorrenti. In genere è la stessa legge a identificare gli interessi che devono essere tenuti presenti nella decisione e, perciò, l’amministrazione che agisce deve rispettare le prescrizioni della legge, svolgendo adeguata attività istruttoria (la fase del procedimento in cui vengono acquisiti gli elementi di fatto, le informazioni tecniche, i pareri, ecc.), successivamente dovrà procedere alla valutazione complessiva degli interessi in gioco e al loro bilanciamento. Il criterio che presiede questa valutazione è il principio di proporzionalità che significa: all’annullamento entro un termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei contro interessati. È discrezionale anche un altro provvedimento “di secondo grado”, la revoca di un provvedimento: essa non riguarda provvedimenti viziati, ma toglie efficacia ad un provvedimento in vigore per ragioni connesse al mutamento dell’interesse pubblico o della situazione di fatto. La revoca del provvedimento è sempre possibile, ma fa sorgere in capo all’amministrazione l’onere di indennizzare il pregiudizio che ne derivi ai privati interessati al provvedimento revocato. Infine, il Governo dispone di un potere di annullamento d’ufficio di ogni atto amministrativo emanato da qualsiasi autorità amministrativa, sempre per motivi di illegittimità e in nome di uno specifico interesse pubblico. È un potere riconosciuto dalla legge “a tutela dell’unità dell’ordinamento”, ovviamente a carattere straordinario. Solo gli atti amministrativi delle Regioni ne sono immuni, grazie alla sentenza 229/1989. 6. TUTELA NEI CONFRONTI DEI PROVVEDIMENTI AMMINISTRATIVI Tutta la teoria del provvedimento amministrativo è finalizzata ad un unico obiettivo: garantire al cittadino la tutela dei propri interessi, pur mantenendo fermo il principio che l’interesse pubblico prevale su quello privato a condizione che l’amministrazione abbia agito correttamente. La tutela degli interessi del privato può giovarsi in due strade: il ricorso amministrativo e il ricorso giurisdizionale. – il ricorso amministrativo è un’istanza che il privato rivolge all’amministrazione per chiedere l’annullamento o la revoca di un provvedimento illegittimo o inopportuno. – il ricorso giurisdizionale è lo strumento con cui il privato impugna il provvedimento illegittimo di fronte al giudice, rivolgendosi ad un organo “terzo”. Vi sono 4 tipi di RICORSO AMMINISTRATIVO: A) il ricorso gerarchico proprio è un rimedio in via generale (salvo che la specifica legge non lo escluda), attraverso il quale il privato può chiedere all’organo gerarchicamente superiore a quello che ha emanato l’atto di annullare, revocare o riformare l’atto amministrativo che lo riguarda, invocando sia motivi di legittimità che di merito. Il ricorso va presentato entro 30 giorni dal giorno in cui l’atto è stato notificato ed è considerato respinto se entro 90 giorni l’amministrazione non risponde. B) il ricorso gerarchico improprio è un rimedio di carattere eccezionale(è proponibile solo se previsto dalla legge) e consiste nell’istanza rivolta ad un organo diverso dal superiore gerarchico e che deve essere individuato dalla legge. C) il ricorso in opposizione è un rimedio di carattere eccezionale; esso va ricolto allo stesso organo che ha emanato l’atto nel tentativo di fargli cambiare idea. Rispetto ad un semplice reclamo ha il vantaggio di obbligare sempre l’amministrazione a rispondere e di sospendere i termini di decadenza dal ricorso giurisdizionale. D) il ricorso straordinario al Capo dello Stato è uno strumento generale che ha due caratteristiche particolari: può essere proposto solo se non ci sono altri ricorsi amministrativi disponibili, ed è alternativo al ricorso giurisdizionale. Come il ricorso giurisdizionale, può essere proposto solo per motivi di legittimità: ha il vantaggio di essere proponibile entro 120 giorni dalla notificazione (mentre il ricorso giurisdizionale è proponibile entro 60 giorni). La decisione del ricorso, solo formalmente imputabile al Presidente della Repubblica, è determinata dal parere che obbligatoriamente esprime il Consiglio di Stato. Per il ricorso giurisdizionale, l'interesse a ricorrere consiste nella possibilità per il ricorrente di avere un qualche beneficio dall'accoglimento del ricorso. Per questo motivo l'essere titolari di una posizione giuridica soggettiva tutelata, ed essere quindi legittimati a ricorrere non comporta di per sé l'automatica ammissibilità del ricorso poiché occorre come detto avere anche interesse. L'interesse a ricorrere (così come la legittimazione a ricorrere) è un presupposto di ammissibilità del ricorso, è cioè un presupposto che condiziona la possibilità che il giudice si pronunci nel merito del ricorso. Oltre ad avere interesse a ricorrere, colui che voglia proporre un ricorso davanti al giudice amministrativo deve essere legittimato. La legittimazione consiste nell'essere titolare di una situazione giuridica legittimante e cioè essere titolari di un diritto soggettivo o di un interesse legittimo. Si ha un diritto soggettivo quando un determinato bene o vantaggio è garantito dall’ordinamento giuridico. L’interesse legittimo è la situazione di vantaggio che si possiede di fronte al potere dell’amministrazione e che si sostanzia nella garanzia della legittimità dell’atto amministrativo. CAPITOLO 9: LA TUTELA DEI DIRITTI: GIUDICE E CORTE COSTITUZIONALE 1. GIUDICI ORDINARI E GIUDICI SPECIALI Il sistema giudiziario italiano si caratterizza per la contestuale presenza di più giurisdizioni: sono istituiti i giudici ordinari, amministrativi, contabili, tributari e militari. La competenza dei giudici è stabilita dalla legge secondo criteri differenti che tengono conto della materia su cui la giurisdizione va esercitata. I giudici ordinari amministrano la giustizia civile e la giustizia penale attraverso organi giudicanti e organi requirenti. Gli organi giudicanti civili si dividono in organi di primo grado (giudice di pace e tribunale) e in organi di secondo grado (Corte d’appello). Le decisioni assunte dal tribunale di primo grado possono essere impugnate dalla Corte d’appello. Gli organi giudicanti penali sono organizzati in organi di primo grado (il giudice di pace, il tribunale e la Corte d’assise) e organi di secondo grado (la Corte d’appello, la Corte d’assise d’appello e il tribunale della libertà). Gli organi requirenti sono i Pubblici Ministeri che esercitano l’azione penale e agiscono nel processo a cura di interessi pubblici; perciò il PM attiva, attraverso l’esercizio dell’azione penale, la giurisdizione penale per l’accertamento di eventuali reati e la condanna dei loro autori. Inoltre, agisce anche nel processo civile, nei casi stabiliti dalla legge a tutela di interessi pubblici. Il ruolo del PM nei processi civili è completamente rimesso alla legge, invece, nel campo penale, nessuna legge può cancellare o modificare l’obbligo per il PM di esercitare l’azione penale, in quanto tale obbligo è previsto dalla Costituzione. Obbligo dell’azione penale significa che il PM non può scegliere se avviare o meno l’azione penale in relazione al tipo di reato, ma è tenuto ad intraprenderlo sempre e comunque, in presenza di un reato. Gli uffici del PM si rinvengono presso i tribunali (sia quelli ordinari che quelli per i minorenni), presso la Corte d’appello e presso la Corte di cassazione. Presso quest’ultima è istituita anche la Direzione nazionale antimafia (che affianca la Direzione investigativa antimafia). La funzione giurisdizionale di primo grado nelle controversie in cui sono coinvolti soggetti con età inferiore ai 18 anni è esercitata dal Tribunale per i minorenni, organo collegiale formato da due magistrati professionisti e due esperti; in sede penale esso si configura come giudice unico di prima istanza nei confronti di tutti i soggetti che al momento della commissione del reato non avevano compiuto ancora i diciotto anni. In sede civile, il Tribunale per i minorenni è competente a giudicare in una serie di casi indicati dalla legge in cui il giudice interviene nell’interesse del minore. I giudici amministrativi sono i tribunali amministrativi regionali, istituiti uno in ciascuna Regione e articolati in sezioni, e il Consiglio di Stato. Alla giurisdizione amministrativa è affidata la tutela giurisdizionale degli interessi legittimi, che prevede la possibilità che siano annullati gli atti della pubblica amministrazione. Per distinguere tra la giurisdizione dei giudici ordinari e quella dei giudici amministrativi, bisogna considerare che al giudice ordinario spettano le controversie in materia di diritti soggettivi, mentre a quello amministrativo spettano le controversie in materia di interessi legittimi. Il Consiglio di Stato, oltre ai poteri giurisdizionali (è giudice d’appello dei tribunali amministrativi regionali), possiede anche poteri consultivi che possono essere attivati dal Governo poiché è un organo ausiliario del governo stesso. La Corte dei conti opera attraverso sezioni regionali (primo grado) e sezioni centrali (secondo grado). La Corte dei conti esercita la giurisdizione in tema di responsabilità dei pubblici amministratori qualora abbiano recato un danno economico ai soggetti pubblici dai quali dipendono. I giudici tributari esercitano la giurisdizione nelle controversie fra i cittadini e l’amministrazione finanziaria A) nel giudizio principale promosso con ricorso dello Stato (contro una legge regionale) o della Regione (contro una legge dello Stato o di un’altra Regione) entro 60 giorni dalla pubblicazione dell’atto impugnato. L’impugnazione deve essere decisa dall’organo politico di vertice:il Consiglio dei ministri per lo Stato e la Giunta regionale per la Regione e nel giudizio, davanti alla Corte costituzionale, le parti potranno essere solo il Presidente del Consiglio dei ministri e il Presidente della Regione. B) nel giudizio incidentale, sollevato da un giudice durante un qualsiasi giudizio. Se il giudice, se si persuade che la legge che sta applicando è in contrasto con una norma della Costituzione e se ritiene che il giudizio non possa andare avanti senza applicare quella legge,sospende il giudizio ed emana un’ordinanza motivata con cui investe la Corte costituzionale della questione di legittimità costituzionale. La Corte costituzionale deve decidere della questione così come essa viene prospettata; può dichiararla inammissibile o deciderla nel merito, con una sentenza di rigetto o d’accoglimento. A) RIGETTO: la sentenza di rigetto dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale, ovvero che il dubbio di illegittimità non è fondato. Qualsiasi altro giudice può sollevare in seguito la stessa questione: l’unico effetto della decisione di rigetto è che impedisce al giudice che l’ha sollevata di proporla di nuovo. Dovrà chiudere il suo processo applicando la legge o impugnarla di nuovo ma per motivi diversi. B) ACCOGLIMENTO: la sentenza d’accoglimento dichiara l’illegittimità costituzionale della disposizione impugnata; la conseguenza è il suo annullamento: quella disposizione non potrà più essere utilizzata né dal giudice né dall’amministrazione pubblica. per cui la sentenza di accoglimento fa sentire i suoi effetti anche su tutti i rapporti giuridici precedenti alla sua emanazione, ai quali la legge incostituzionale non dovrà essere applicata (questi effetti possono interessare solo i rapporti giuridici ancora “aperti”). Con l’espressione giustizia politi casi fa riferimento a quelle funzioni che la Corte costituzionale esercita quando giudica sulle accuse promosse contro il Presidente della Repubblica. L’art.134 prevede che la Corte costituzionale possa essere attivata per giudicare dei reati di alto tradimento e attentato alla Costituzione (essi sono gli unici reati per cui il Presidente della Repubblica possa essere imputato). In questo caso è messo in stato d’accusa dal Parlamento in seduta comune a maggioranza assoluta dei suoi membri e giudicato dalla Corte costituzionale in composizione integrata da sedici membri tratti a sorte da un elenco di cittadini aventi i requisiti per l’eleggibilità a senatore che il Parlamento compila ogni nove anni. La messa in stato d’accusa del Presidente della Repubblica viene anche chiamata inpeachment. Prima della modifica intervenuta con la legge costituzionale 1/1989, anche i reati ministeriali rientravano nella giustizia politica; oggi invece, i reati ministeriali rientrano nella magistratura ordinaria. Competente a svolgere le indagini sui reati in oggetto è uno speciale collegio giudiziario, chiamato Tribunale dei ministri, istituito presso il tribunale del capoluogo del distretto di Corte d’appello competente per territorio e composto da tre magistrati sorteggiati fra quelli dei tribunali del distretto. CAPITOLO 10: DIRITTI COSTITUZIONALI 1. LIBERTÀ E DIRITTI COSTITUZIONALMENTE GARANTITI Una delle componenti essenziali, presenti in tutte le costituzioni moderne, è la disciplina dei diritti e delle libertà. Essa ha fortemente risentito delle trasformazioni delle concezioni dello Stato, dando luogo ad un processo di sovrapposizione delle discipline più recenti su quelle più antiche, che rende difficile orientarsi. Difficoltà che nasce dal fatto che la terminologia e le classificazioni non sono stabilizzate e variano da autore a autore. Ci sono alcune nozioni fondamentali: A) situazioni giuridiche soggettive: indicano sia le posizioni attive o di vantaggio (libertà e diritti) e sia le posizioni passive o di svantaggio (doveri e obblighi). Le posizioni giuridiche attive si distinguono generalmente in LIBERTÀ e DIRITTI; ma la distinzione è poco precisa: il termine “libertà” sottolinea l’aspetto negativo, di non costrizione; il termine “diritto” privilegia l’aspetto positivo, di pretesa. Ma, l’aspetto negativo (richiesta di non essere costretto) e l’aspetto positivo (richiesta di strumenti per realizzare i propri obiettivi) sono sempre presenti in ogni “libertà” e in ogni “diritto” sancito dalla Costituzione. Va considerato un secondo aspetto su cui si accumulano spesso equivoci: il problema dell’intervento dell’autorità pubblica. Gli equivoci nascono dalla convinzione che, mentre per le libertà ciò che si chiede allo Stato è l’astensione da qualsiasi intervento (la loro tutela non ha “costi” per la finanza pubblica), per i diritti è indispensabile l’intervento pubblico (essi sono “costosi”); però questa convinzione è priva di fondamento, poiché ci sono libertà “costose” (la libertà di domicilio necessita di interventi pubblici). Tutti i diritti e le libertà necessitano di un’organizzazione pubblica, e quindi sono “costosi”. sono gli organi pubblici a dover decidere come impiegare le risorse finanziarie. B) distinzione tra diritti assoluti e diritti relativi. “Assoluti” non vuol dire illimitati, poiché nessun diritto è illimitato, ma significa che essi si possono far valere nei confronti di tutti. Essi possono essere i diritti della persona (per esempio, la libertà personale) o diritti reali (per esempio, la libertà), ma il fondamento comune è che hanno per contenuto una libertà il cui esercizio non richiede prestazioni da parte di terzi. Di contro, “relativi” sono i diritti che possono essere fatti valere solo nei confronti di soggetti determinati, ai quali si chiede una prestazione. Essi possono essere il diritto del lavoratore ad una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del suo lavoro o tutti i diritti sociali che si possono vantare nei confronti dello Stato. Tutti i diritti hanno bisogno di una DISCIPLINA NORMATIVA: anche quelli assoluti necessitano di regole con cui possono essere limitati. C) distinzione tra diritti individuali e diritti funzionali. I primi sono attribuiti alla persona in quanto tale, per un suo vantaggio personale e per le finalità che il singolo è libero di scegliere, indipendentemente dai vantaggi o svantaggi che ne possano derivare per la collettività ( esempi sono: libertà di domicilio, libertà personale); mentre i secondi sono attribuiti al singolo per il perseguimento di finalità predeterminate a vantaggio della comunità, e non liberamente scelte dall’individuo ( esempi sono: il diritto di proprietà, le potestà familiari, ecc.). Questa distinzione oggi ha perso utilità, poiché tutti i diritti, sia individuali che funzionali, subiscono la concorrenza di altri diritti con cui devono conciliarsi: il “bilanciamento degli interessi” è la regola dell’applicazione di ogni diritto di cui fissa il limite “negativo”. D) distinzione tra diritti soggettivi e interessi legittimi. Diritti soggettivi, posizione giuridica soggettiva di vantaggio che l’ordinamento attribuisce ad un soggetto, riconoscendogli determinate utilità in ordine ad un bene, nonché tutela degli interessi afferenti al bene stesso in modo pieno ed immediato. Interesse legittimo, situazione giuridica di vantaggio, costituita dalla protezione giuridica di interessi finali che si attua non direttamente e autonomamente, ma attraverso la protezione indissolubile e intermediata di un altro interesse del soggetto, meramente strumentale, alla legittimità dell’atto amministrativo e soltanto nei limiti della realizzazione di tale interesse strumentale. Questa distinzione è diversa dalle precedenti perché guarda alla tutela giurisdizionale dei diritti, cioè al loro aspetto processuale. La distinzione tra diritti soggettivi e interessi legittimi può avere rilievo a proposito dei diritti fondamentali, nel senso che in certe situazioni i diritti soggettivi possono “degradare” ad interesse legittimo. 2. STRUMENTI DI TUTELA La vera novità delle costituzioni moderne sta, non solo nell’aver allargato il catalogo delle libertà e dei diritti alle esigenze proprie dello Stato sociale, ma nell’aver potenziato gli strumenti di garanzia anche dei “vecchi” diritti, e la Costituzione ha introdotto alcuni strumenti specificamente orientati a questo obiettivo. I congegni di protezione dei diritti e delle libertà sono ovviamente diversi e diversi cono i piani su cui operano . Eccone i principali: a) la riserva di legge. Alla legge è riservata la disciplina dei casi e dei modi con cui le libertà possono essere limitate. b) la riserva di giurisdizione. È un meccanismo che rafforza la riserva di legge, perché serve a ridurre ulteriormente lo spazio di valutazione discrezionale lasciato all’autorità pubblica. Essa condiziona ogni provvedimento restrittivo delle libertà individuali ad una previa autorizzazione da parte del giudice. c) la tutela giurisdizionale. “ Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi”. Questa disposizione garantisce la possibilità di ricorrere al giudice per violazione dei propri diritti, sia perpetrata dagli apparati pubblici che privati. Il diritto alla difesa è un completamento indispensabile delle norme costituzionali che riconoscono i diritti e le libertà, che, senza di quello, risulterebbero svuotate di significato giuridico. d) la responsabilità del funzionario. L’art.28 Cost. stabilisce il principio della responsabilità diretta dei funzionari e dei dipendenti pubblici per gli “atti compiuti in violazione dei diritti”. La responsabilità penale e amministrativa a carico dei funzionari pubblici e la responsabilità civile e solidale dello Stato costituiscono una garanzia dei diritti soggettivi. e) il sindacato di legittimità costituzionale. La Corte costituzionale è chiamata a controllare che la legislazione ordinaria, che ha il compito di attuare i principi costituzionali in tema di diritti, non travalichi e comprima le garanzie sino ad annullarle. 3. IL PRINCIPIO DI EGUAGLIANZA L’art.3 Cost. enuncia il principio di eguaglianza e ne dà una formulazione complessa. Nel primo comma, esso esprime il principio di eguaglianza formale, nonché una serie di specifici divieti di discriminazione (nucleo forte dell’uguaglianza); nel secondo comma, esprime il principio di eguaglianza sostanziale. I. La formulazione tradizionale del principio di eguaglianza formale prescrive che si devono trattare in modo uguale situazioni uguali e in modo diverso situazioni diverse. Questo principio si dice formale perché è enunciato come una formula astratta. Questa prescrizione si rivolge al LEGISLATORE, cui l’art.3.1vieta di creare privilegi o discriminazioni ingiustificate. II. Il nucleo forte del principio di eguaglianza vieta distinzioni “di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”, ovvero vieta le discriminazioni. Il “nucleo forte” non comporta un divieto assoluto al legislatore di introdurre differenziazioni basate sui fattori indicati (favorire l’occupazione femminile o il lavoro giovanile), ma vieta di farne il motivo di una discriminazione nel godimento dei diritti e delle libertà. Accanto all’art.3 Cost. si è sviluppata, nella recente legislazione, la tutela antidiscriminatoria, che ha l’obiettivo di combattere gli effetti di pratiche discriminatorie provenienti da soggetti pubblici o privati . III. Il principio di eguaglianza sostanziale punta a questo: “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale” che impediscono l’eguale godimento dei diritti e delle libertà. È un programma di intervento quello che la Costituzione indica al legislatore, che ha il compito di eliminare gli handicap sociali; ma questo compito può essere assolto solo derogando al principio di eguaglianza formale. Mentre il principio di eguaglianza formale sembra promettere leggi più generali e astratte possibili, il 7. I “NUOVI DIRITTI” La tecnica del bilanciamento degli interessi consente alla Corte costituzionale di prendere in considerazione anche interessi che non hanno uno specifico riconoscimento in Costituzione; essi vengono chiamati “nuovi diritti”, per indicare l’assenza di una specifica disciplina costituzionale (diritto fondamentale all’abitazione, il diritto all’identità sessuale, il diritto alla vita e la libertà di coscienza non hanno uno specifico “ancoraggio” nella Costituzione). Il diritto alla procreazione è entrato a far parte dei nuovi diritti, poiché il progresso della medicina ha sperimentato nuove tecniche per superare i problemi di infertilità delle coppie; però il tema della riproduzione medicalmente assistita è stato molto dibattuto e i timori hanno prevalso portando ad una disciplina molto restrittiva per quanto riguarda questa pratica e assolutamente restrittiva per quanto riguarda l’uso delle cellule staminali. Parte della dottrina hanno ritenuto che questi diritti abbiano fondamento nell’art.2 Cost. La disposizione “la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo” è letta come un catalogo aperto dei diritti, ovvero come una formula in bianco che consente di “importare” nel sistema dei diritti tutelati dalla nostra Costituzione tutti gli interessi che l’evoluzione della coscienza sociale porta ad accreditare. Oggi, i nuovi diritti elaborati dalla bioetica si affacciano con l’intento di contrastare le “vecchie” libertà. La Corte costituzionale, però, in passato ha negato la lettura “aperta” dell’art.2, ritenendo che i “diritti inviolabili” di cui quella disposizione parla non siano altro che gli stessi diritti di cui gli articoli successivi trattano in modo distinto (teoria del catalogo chiuso dei diritti). Questo non le ha impedito di introdurre nel bilanciamento anche i “nuovi” interessi degni di considerazione. Ciò non toglie che la Corte abbia, in alcuni casi, tratto il riconoscimento del “nuovo diritto” dall’art.2, ma non sembra che ciò abbia comportato un’adesione della Corte alla teoria del “catalogo” aperto. Il richiamo all’art.2 è servito, piuttosto, come argomentazione aggiuntiva per giustificare un sempre più normale bilanciamento degli interessi. 8. I DIRITTI NELLA SFERA INDIVIDUALE La tecnica usata dalla Costituzione per scrivere le garanzie dei diritti procede secondo una logica precisa, che presuppone uno schema di classificazione: 1. Art.13-16, diritti legati all’individuo. 2. Art.17-21, diritti che toccano l’attività pubblica degli individui. 3. Art.29-34, si occupa delle prestazioni pubbliche volte a rimuovere le disuguaglianze sociali. 4. Art.35-47, definiscono le libertà economiche. 5. Art.48-51, si occupano delle libertà politiche. I diritti legati alla sfera individuale sono, a loro volta, costruiti con una tecnica a spirale che inizia con la libertà della persona fisica, poi allarga all’ambito spaziale immediatamente circostante all’individuo: il domicilio e infine si estende alla comunicazione tra persone e alla circolazione. Ciò crea una continuità nella tutela della sfera individuale che ha portato la libertà personale a saldarsi con altri diritti (la libertà di domicilio, di circolazione, ecc.). L’intensità della tutela varia da una libertà all’altra, attenuandosi , man mano che ci si allontana dal nucleo fondamentale della libertà personale, perciò è indispensabile capire sotto quale articolo ricade una determinata situazione. I limiti che incontrano queste libertà fondamentali sono sempre quelli legati alle esigenze individuali di tutela dei propri diritti dalle aggressioni portate da altri individui, e l’esigenza collettiva che sia assicurato l’ordine pubblico e la repressione dei reati. La tutela è affidata alle forze di polizia: però anch’esse possono oltrepassare i limiti e violare i nostri beni; per cui la Costituzione è molto attenta nell’assicurare l’intervento dei giudici a limitare i poteri della polizia. Una particolare rilevanza ha assunto oggi la tutela dei dati personali. Di fronte al potenziamento delle tecnologie, il problema di proteggere la sfera dell’intimità personale dalla raccolta e dal trattamento di dati che riguardano la singola persona è stato approfondito sia il legislatore europeo che quello nazionale, che hanno sottoposto a disciplina e a controllo ogni attività, pubblica o privata, di raccolta e di trattamento dei dati personali. La legge 675/1996 “Tutela delle persone e di altri soggetti rispetto al trattamento dei dati personali” ha istituito un’Autorità garante chiamata a vigilare sull’uso dei dati, ponendo sotto una disciplina molto restrittiva i dati sensibili, cioè “i dati personali idonei a rivelare l’origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose o di altro genere, le opinioni politiche, l’adesione a partiti, sindacati, associazioni o organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o sindacale, nonché i dati personali idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale”. La complessa disciplina della protezione dei dati è raccolta nel Codice in materia di protezione dei dati personali, la cui applicazione è poi regolata dal Garante. Anche la tutela della salute pubblica può giustificare limitazioni alle libertà fondamentali dell’individuo. I provvedimenti tipici che rientrano nelle limitazioni consentite dall’art.16 sono i “cordoni sanitari”, istituiti per evitare il propagarsi di un’epidemia o per prevenire il contagio in zone dove si sono verificati gravi incidenti ambientali. 9. I DIRITTI NELLA SFERA PUBBLICA I diritti che attengono alla sfera pubblica dell’individuo sono posti a tutela della dimensione sociale della persona; essa si esprime in due direzioni: da un lato, nella libertà di espressione del proprio pensiero (art.21 Cost.), con tutto ciò che comporta l’uso degli strumenti di diffusione delle idee (stampa, televisione); e dall’altro, nella libertà di riunirsi e associarsi (art. 17-18 Cost.), dando luogo alle formazioni sociali in cui si svolge la personalità dell’individuo. FORMAZIONE SOCIALE  ogni tipo di organizzazione o di comunità che si frappone tra l’individuo e lo Stato (minoranze linguistiche, partiti politici, associazioni, confessioni religiose, ecc.). La tutela di queste libertà ha il doppio significato di garantire la sfera di interessi “sociali” dei cittadini e di garantire il buon funzionamento del dibattito democratico. Proprio per quest’ultima ragione, la legislazione fascista, era fortemente restrittiva nei confronti dell’esercizio di questo diritto, e siccome il codice penale e il “testo unico” sono rimasti in vigore, toccava alla Corte costituzionale eliminare tali repressioni. Bisogna sottolineare che i meccanismi repressivi dell’esercizio delle libertà della sfera pubblica spesso servono a proteggere altri interessi collettivi: taluni di questi meccanismi sopravvivono se proteggono altri interessi sociali. La Costituzione, infatti, utilizza delle clausole limitative per proteggere interessi sociali (la protezione dell’ordine pubblico). Un problema particolare è legato alla libertà di coscienza, cioè alla libertà di coltivare profonde convinzioni interiori e di agire di conseguenza. Essa non ha un esplicito riconoscimento in Costituzione, così come la libertà di pensiero o di fede religiosa. Queste sono tutelate attraverso: – il divieto di discriminazione. – l’eguaglianza tra le confessioni religiose, i rapporti delle quali con lo Stato sono regolati dal concordato (per la religione cattolica) e dalle intese con le confessioni non cattoliche. – la libertà di culto. L’art.19 Cost. garantisce a tutti il diritto di professare liberamente la propria fede: tutela sia l’aspetto individuale della libertà religiosa e sia l’aspetto istituzionale (la confessione). La libertà di culto si estende a tutte le attività generalmente collegate ad esso, dal proselitismo a rituali. Invece, il diritto di agire “secondo coscienza” è implicito in tutti i diritti di libertà e incontra, in quanto tali, i limiti posti dalle leggi. Ma, in certi casi, il diritto stesso consente all’individuo di superare il limite posto dalla legge e seguire la propria idea: sono i casi di “obiezione di coscienza”; il rifiuto da parte dell’individuo di compiere atti, prescritti dall’ordinamento, ma contrarie alle proprie convinzioni. Il caso più noto è l’obiezione consentita al personale sanitario dalla legge sull’aborto, o coloro che non vogliono prendere parte alla sperimentazione sugli animali. Tutte le dichiarazioni relative all’obiezione di coscienza rientrano tra i “dati sensibili”. 10. I DIRITTI “SOCIALI” Per “diritti sociali” s’intendono i diritti dei cittadini a ricevere determinate “prestazioni” dagli apparati pubblici. I “diritti sociali” sono espressi in Costituzione come programmi la cui attuazione è rinviata all’attività successiva degli organi pubblici. L’art.30.2, parlando del mantenimento e dell’educazione dei figli, afferma che “nei casi di incapacità dei genitori, la legge provvede a che siano assolti i loro compiti”. Nei primi anni di applicazione della Costituzione queste disposizioni venivano interpretate come “norme programmatiche”, ossia come programmi assegnati al legislatore futuro: impegnativi sul piano politico ma privi di applicabilità diretta e, quindi, incapaci di fondare un’azione davanti al giudice per ottenere tali prestazioni. Successivamente, però, la prassi dell’applicazione giurisprudenziale ha mostrato che questi diritti sono in realtà direttamente applicabili. I diritti sociali sono pur sempre diritti: non sono comprimibili a piacere e godono di una difesa giurisprudenziale. La Costituzione non predispone particolari strumenti di tutela per i “diritti sociali”. È attraverso la legislazione ordinaria che questi diritti vengono organizzati in prestazione e in servizi: gli strumenti di tutela di cui dispone il cittadino sono quelli comuni apprestati dall’ordinamento. 11. I SERVIZI SOCIALI Lo strumento con cui i diritti sociali sono resi concreti è costituito dalla rete dei SERVIZI SOCIALI: un complesso di servizi, alcuni riservati ai soli lavoratori e i loro familiari e altri all’intera comunità. I principali meccanismi attraverso cui si svolge la protezione della sicurezza sociale sono i seguenti: LA PREVIDENZA SOCIALE. L’art.38 Cost. riconosce i diritti all’assistenza, alla previdenza, alla salute e all’istruzione. L’obiettivo è garantire condizioni adeguate di vita ai cittadini che versano in condizioni di debolezza economica o di disagio sociale, per liberarli da quello stato di bisogno che impedisce il pieno godimento dei diritti civili e politici. L’art.38 ha un doppio obiettivo: da un lato tutela degli inabili al lavoro e gli indigenti, garantendo loro il mantenimento e l’assistenza sociale a carico del bilancio pubblico, rispettando un principio di solidarietà; mentre dall’altro lato tutela i lavoratori garantendo loro “i mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia e disoccupazione involontaria”, ciò a fronte di una contribuzione obbligatoria da parte del lavoratore lungo tutto l’arco della vita lavorativa e proporzionata alla retribuzione percepita. Si tratta di una assicurazione obbligatoria, che fa capo ad alcuni enti pubblici (INPS). I diritti previdenziali dei lavoratori sono garantiti da un principio di automaticità delle prestazioni obbligatorie, in modo da metterli al riparo da eventuali “dimenticanze” da parte del datore di lavoro che non abbia versato i contributi obbligatori (garantiti anche a livello europeo). Il sistema previdenziale è caratterizzato da un rapporto di reciprocità tra prestazione lavorativa e trattamento pensionistico, ma è un rapporto non definito dalla Costituzione, e quindi lascia libera la scelta del tipo di sistema. Esso può essere mutualistico (dominato da una proporzionalità tra contributi versati durante la vita lavorativa e provvidenze erogate a titolo di pensione) e di tipo solidaristico (le provvidenze erogate al lavoratore in pensione sono rapportate ai suoi bisogni più che ai contributi versati). Il complesso delle principali prestazioni previdenziali si può riassumere così: 14. I DOVERI COSTITUZIONALI I “doveri” costituzionali si riducono essenzialmente a due: il “sacro” dovere di difesa della patria (art.52.1) e il dovere di pagare le tasse (art. 53.1). Al primo corrisponde l’obbligo del servizio militare (che dal 2005 è sospeso), invece al secondo l’obbligo per lo Stato di costruire un sistema tributario “informato a criteri di progressività”: la regola che proporziona i tributi alla capacità contributiva rispecchia il principio di eguaglianza formale, mentre la regola della progressività è ispirata da esigenze di eguaglianza sostanziale. Dei complessi problemi che caratterizzano le imposte e i tributi si occupa il Diritto tributario. 15. LE PRESTAZIONI IMPOSTE L’art.23 Cost. detta una disciplina generale degli obblighi e dei doveri specifici di prestazione personale o patrimoniale. In realtà la disciplina si risolve in una riserva di legge che è considerata solo RELATIVA. Oggi la sua applicazione tende a confondersi con le prestazioni tributarie, perché i tributi costituiscono la categoria principale delle prestazioni disciplinate dall’art.23. CAPITOLO 11: ORIGINI E SVILUPPO DEI SISTEMI DI WELFARE 1. LE ORIGINI DEL WELFARE STATE E LE RIPERCUSSIONI SUI SISTEMI COSTITUZIONALI Le carte fondamentali sono state diffuse per favorire la crescita della borghesia (commercianti e artigiani), e ciò avviene in Europa e America del nord attraverso le migrazioni dalle campagne alle città, lavorando nelle fabbriche; nasce così una nuova classe di stipendiati (il proletariato). I proletari erano spesso incapaci di provvedere ad alcuni bisogni essenziali della loro esistenza e traducono queste necessità nella pretesa di garanzie. Si ritiene che le prime politiche volte a un contrasto strutturale delle disuguaglianze, ascrivibili al modello del Welfare State, siano quelle adottate nel secondo dopoguerra in Inghilterra (dove erano già presenti la Poor Law per il sostegno alle famiglie non in grado di sostenersi , e l’esperimento delle workhouse, come luoghi di lavoro e accoglienza per i disoccupati). Proprio in Inghilterra, nel 1942, fu redatto il Rapporto Beveridge, in cui si suggeriva l’adozione di alcune misure “sociali” (quali l’introduzione della prima forma di assistenza sanitaria pubblica e di un fondo per il pensionamento) che furono accolte dal governo laburista di Attelle, successore di Churchill. In altri Paesi europei, tra cui l’Italia, l’evoluzione si registra a partire dalla redazione della Costituzione, indispensabile dopo la fine della seconda guerra mondiale. È in questa fase che si registra il passaggio da una forma di Stato liberal-democratica ad una forma di Stato democratico- sociale, secondo una formula che vuole coniugare i diritti di liberà “tradizionali” (diritti negativi) con i “nuovi” diritti a carattere sociale (diritti positivi). Ciò avviene in diversi modi: o attraverso una dichiarazione esplicita, come nella Costituzione tedesca, o implicitamente attraverso il principio di eguaglianza e ai diritti sociali, come avviene in Italia. In realtà, secondo alcuni, si dovrebbe considerare come primo esempio di Costituzione attenta alla promozione dell’eguaglianza quella di Weimar (1919). Questa Carta rappresenta un tentativo di innovazione della Germania seguendo gli ideali democratici. Essa stabilì la forma repubblicana in Germania e i primi diritti di ispirazione sociale per i malati, per gli anziani, ecc. 2. IL FONDAMENTO DELLO STATO DEMOCRATICO SOCIALE IN ITALIA. LIBERTÀ SOCIALMENTE RILEVANTI E DIRITTI A PRESTAZIONE Il riferimento essenziale nella nostra Costituzione è quello dell’art.3 dedicato al principio di eguaglianza, il quale nei suoi due commi illustra il passaggio dal concetto liberale (fondato sulla lotta alla discriminazione) a quello più sociale (la Repubblica si impegna a contrastare le disparità che impediscono agli individui di sviluppare la propria personalità e di partecipare alla vita politica, sociale, ecc.). Seguendo questa impostazione, lo Stato promuove “la sintesi dei principi di libertà e eguaglianza”, assumendo un ruolo di arbitro nella ripartizione dei benefici e dei sacrifici e vigilando per garantire uno svolgimento equilibrato e corretto delle relazioni sociali ed economiche , secondo il mutare delle condizioni, della sensibilità e degli orientamenti. In seno alla categoria generale dei diritti sociali, prende corpo la distinzione tra: - libertà “socialmente rilevanti”, si tratta di libertà in negativo che si manifestano e si realizzano in spazi sociali, infatti, pur essendo proprie della persona in quanto tale, sono visibili solo nel momento in cui questa si venga a porre in un contesto più ampio come la famiglia, il luogo di studio o lavoro; - diritti sociali “a prestazione”, sono vere e proprie pretese di prestazioni che vanno a configurarsi in modo diverso in base alla tipologia dei bisogni. Questi diritti, che incarnano le libertà positive, se osservati dal punto di vista del cittadini, si manifestano come posizioni giuridiche di vantaggio, ma di natura variabile; invece se osservati dal punto di vista delle istituzioni pubbliche, gli stessi diritti ci appaiono come linee guida essenziali rivolte al legislatore per la costruzione dei servizi alla persona. 3. L’ESTENSIONE DELLA TUTELA COSTITUZIONALE PER AMBITI DI SOCIALIZZAZIONE Possiamo passare ad esaminare quali siano questi diritti nel nostro testo costituzionale e a quali profili si riferiscano; sono 3: LA FAMIGLIA (luogo di socializzazione primaria) I diritti relativi all’ambito familiare, inteso come primo fondamentale spazio di realizzazione della persona in cui la dignità del singolo va affermata e tutelata, si ritrovano negli articoli dal 29 al 31, e comprendono: - i diritti relativi al matrimonio e alla vita coniugale, e precisamente la libertà di contrarre matrimonio, cui si connette il diritto all’assistenza morale e materiale tra coniugi, e il diritto all’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi; - i diritti relativi alla genitorialità, e in particolare il diritto alla procreazione, alla tutela della maternità e il diritto/dovere al mantenimento dei figli; - i diritti della condizione filiale (legittima e naturale), che consistono nel diritto al mantenimento e all’educazione da parte dei genitori , nella tutela dei figli nati fuori dal matrimonio. Si tratta di diritti che possono realizzarsi solo con una coerente attività normativa del legislatore mirata a garantire uno sviluppo coerente anche con il coerente mutare sociale. Possiamo affermare che , per la prossimità con la sfera più intima degli individui, la scelta dei nostri costituenti è stata quella di intervenire attraverso l’affermazione di prerogative individuali che escludono ogni forma di intervento da parte dei pubblici poteri; ma in senso diverso si muove il contenuto dell’art. 31, che introduce alla previsione di un impegno della Repubblica a: A: agevolare la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi, specialmente per le famiglie numerose; B: proteggere la maternità, l’infanzia e la gioventù. Ciò avviene attraverso il riferimento a misure di natura economica (fiscali, tariffarie, stipendiali) per la prima azione; mentre per la seconda si esplicita la possibilità di intervenire favorendo “istituti necessari a tale scopo”, espressione che lascia intendere la possibilità di intervento diretto di amministrazioni pubbliche. La legge 328/2000 riprenderà questo tema. LA SCUOLA (luogo di socializzazione secondaria) Per ciò che concerne la scuola, le disposizioni costituzionali si concentrano in sole due disposizioni: gli articoli 33 e 34. In essi vengono espressi la libertà di ricerca e di insegnamento dei docenti e, in parallelo, la libertà del discente di esprimere le proprie opinioni. Hanno diverso valore le norme iscritte sotto il generale DIRITTO ALLO STUDIO, ovvero il diritto universale di accesso all’istruzione scolastica, il diritto a scegliere la scuola, il diritto/obbligo all’istruzione gratuita per i primi 8 anni di scuola, ed infine il diritto per i più meritevoli di raggiungere i gradi più alti di studio attraverso borse di studio. Le ricadute sotto il profilo più propriamente amministrativo si prefigurano come prescrizioni a carico della Repubblica, tra le quali: il dovere di istituire e gestire scuole pubbliche, l’organizzazione del sistema basata sul libero accesso per cittadini e non, la strutturazione degli studi in cicli (tra cui i primi: elementare e secondaria gratuiti) e l’obbligo di prevedere un esame di Stato per l’ammissione ai vari ordini e gradi di scuole. CAPITOLO 12: IL DIRITTO ALLA SALUTE E IL SISTEMA SANITARIO IL DIRITTO ALLA SALUTE COME DIRITTO FONDAMENTALE, COMPLESSO E IN COSTANTE EVOLUZIONE Nell’affrontare lo studio dei diritti e dei servizi sociali, non si può che partire da quel diritto che la Costituzione espressamente qualifica come «fondamentale»: il «diritto alla salute», che impegna «la Repubblica» a tutelarlo come «diritto dell’individuo e interesse della collettività», garantendo «cure gratuite agli indigenti» (art. 32, comma 1, Cost.). La Carta del ’48 è stata la prima Costituzione del secondo dopoguerra a prevedere la tutela di tale diritto (segue la Grecia nel 1975, il Portogallo nel 1976 e la Spagna 1978). La «salute» rappresenta un concetto dinamico, che segue l’evolversi della società in relazione al progresso scientifico e tecnologico. L’art. 32 Cost. è, pertanto, suscettibile di molte letture, dando vita ad una pluralità di situazioni giuridiche. Innanzitutto, il diritto alla salute ha natura di vera e propria libertà negativa nella sua declinazione di diritto all’integrità psico-fisica, imponendo a chiunque di astenersi dal porre in essere comportamenti lesivi della salute altrui, compromettendo lo stato di benessere fisico e psichico della persona umana. In questo caso ci troviamo davanti ad un diritto soggettivo: - assoluto, in quanto affermato senza alcuna limitazione nei confronti di tutti e azionabile sia nei rapporti tra privati che con i pubblici poteri; - non degradabile ad interesse legittimo in ragione di quanto si è appena visto a proposito del limite all’azione delle amministrazioni; - immediatamente percettivo, in ragione del fatto che consiste nell’obbligo di astenersi da determinati comportamenti. In questo senso la prescrizione si estende fino ad impedire anche le azioni che potrebbero costituire un pericolo per la salute individuale. Nel «diritto all’integrità psico-fisica» è però rinvenibile un altro aspetto che, nel nostro ordinamento, porta a strutturarlo in termini di libertà positiva: quello della libertà di decidere se e come intervenire sul proprio corpo, a fronte dell’obbligo delle strutture sanitarie pubbliche (ma anche private convenzionate/accreditate) di prestare ogni cura necessarie alla salvaguardia della salute dei consociati. Anche le strutture private sono tenute ad offrire prestazioni sanitarie, ove queste siano le sole a disporre delle attrezzature tecnologiche necessarie per prestazioni diagnostiche di costo elevato, e le analisi in questione risultino indispensabili per l’intervento terapeutico (Corte cost., sent. n. 992 del 1988). DIRITTO ALLA SALUBRITÀ DELL’AMBIENTE. Corollario del diritto alla salute è il «diritto all’ambiente salubre», di cui però la Costituzione non parla esplicitamente. Non si tratta di “insensibilità” dei Padri costituenti, dacché, a quei tempi, la questione degli inquinamenti, della deforestazione, della cementificazione e del degrado del territorio naturale non era avvertito nella stessa misura in cui lo è oggi. Tuttavia, un’allusione a questi problemi può vedersi nell’art. 9, comma 2, Cost., che attribuisce alla Repubblica il compito di «tutela del paesaggio», inteso in senso non solo estetico, ma anche come ambiente conforme alle esigenze vitali della popolazione. Del resto, bisogna purtroppo prende atto del fatto che, nella cultura occidentale, prevale ancora oggi una visione «antropocentrica» del mondo (l’uomo e i suoi interessi non solo al centro di tutto, ma su tutto), faticando le società neoliberiste a rinunciare agli interessi economici, al fine di salvaguardare gli equilibri ecosistemici (basti pensare alle scelte politiche di Donald Trump, tese a rimuovere ogni regola anti-inquinamento, o a quelle di Bolsonaro in merito alla deforestazione dell’Amazzonia). Ad ogni modo, «diritto all’ambiente salubre» è una formulazione sintetica di un tipico diritto a struttura complessa. È un «diritto positivo»: anche a seguito dell’introduzione in Costituzione dell’endiadi «ambiente ed ecosistema» (art. 117, comma 2, lett. s), Cost., modificato dalla l. cost. n. 3/2001), esso infatti richiede politiche di varia natura, riguardanti il controllo e la pianificazione territoriale, le bonifiche, il controllo delle emissioni tossiche, la sicurezza nei luoghi di lavoro e di studio, la sanità dei cibi e delle bevande etc. Beni e situazioni diverse, queste, che il diritto dell’ambiente richiede che siano coordinate al fine comune. Ma è anche un «diritto negativo» che può essere fatto valere davanti al giudice, pretendendo che non si pregiudichino con atti nocivi i beni che fanno dell’ambiente un luogo vivibile, salubre. CHI È IL TITOLARE DEL DIRITTO ALLA SALUTE? È importante una precisazione: nonostante la Costituzione stabilisca che la salute sia un interesse anche collettivo, il titolare del diritto alla salute resta l’individuo, non la collettività o la società. Il fondamento costituzionale di tale profilo è rafforzato dal secondo comma dell’art. 32 Cost., ove si legge che «nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge» (è il caso, ad es., del TSO). Trattamento che, in ogni caso, «non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». Sottolineare questo punto è necessario. Invero, se il titolare fosse la collettività, la sanità pubblica potrebbe giustificare la soppressione del diritto individuale. Sarebbero possibili le politiche eugenetiche che, in passato, non solo i regimi totalitari, ma anche regimi ispirati al darwinismo sociale, misero in atto per promuovere il «miglioramento della razza» (soppressione o sterilizzazione dei portatori di malattie ereditarie, minorati mentali, uso di corpi umani viventi per sperimentazioni mediche, programmi di massa per l’accoppiamento sessuale di individui geneticamente superdotati etc.). Tali aberrazioni si resero possibili allora, in nome di un olismo sociale spietato. Oggi, non sarebbero possibili secondo la Costituzione: l’individuo viene prima della società e quindi, anche nei casi in cui s’impongono trattamenti medicali, ciò deve avvenire senza violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana. IL DIRITTO ALL’AUTODETERMINAZIONE TERAPEUTICA Si fa spazio, così, una lettura in grado di costituzionalizzare il «diritto all’autodeterminazione terapeutica» nei confronti dei possibili interventi della medicina e della biologia. Diritto che, in tempi recenti, attraverso la lettura degli artt. 2 (principio personalistico) e 13 (libertà personale) Cost., ha portato all’inclusione di qualsiasi aspetto della sfera individuale nella piena tutela costituzionale. Ne discende l’importanza per la persona (recte: il paziente) di essere debitamente informata dal medico circa tutti i trattamenti diagnostici e sanitari a cui la si vuole sottoporre. Centrale, in merito, è la l. n. 219/2017 (“Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”), la quale impone il rispetto del principio di massima trasparenza tra medico e paziente (c.d. «consenso informato»), al fine di assicurare il diritto della persona di decidere del proprio destino terapeutico (il paziente è libero anche di «scegliere di non sapere», ossia di non ricevere informazioni al fine del rilascio del consenso, indicando una persona di fiducia al suo posto). Il paziente, inoltre, è libero di rifiutare terapie anche fondamentali per la vita, potendo scegliere di ricorrere anche alla sedazione palliativa profonda continua. Ad ogni modo, anche quando il paziente dovesse rifiutare di essere curato, è garantita un’appropriata terapia del dolore al fine di evitargli eccessive sofferenze (l. n. 38/2010, rubricata “Disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore”). Da ultimo, la legge pone limiti al c.d. «accanimento terapeutico» prevedendo che, nei casi di pazienti con prognosi infausta a breve termine o di imminenza di morte, il medico si debba astenere da ogni ostinazione irragionevole nella somministrazione delle cure e dal ricorso a trattamenti inutili o sproporzionati. LE D.A.T. La legge n. 219/2017 consente alla persona maggiorenne di anticipare la propria volontà per il futuro, ossia di esprimere le proprie convinzioni e preferenze in materia di trattamenti sanitari, accertamenti diagnostici e scelte terapeutiche, in previsione di una futura incapacità di autodeterminarsi. In che modo? Attraverso la formulazione delle «disposizioni anticipate di trattamento» (D.A.T.), redatte in atto pubblico, scrittura privata autenticata o scrittura privata consegnata personalmente all’Ufficiale dello Stato civile del Comune di residenza. In tal guisa, ciascuno può indicare un «fiduciario» legittimato a fare le nostre veci e a rappresentarci nelle relazioni con le strutture sanitarie e con il medico. Le D.A.T. possono sempre essere revocate, in caso di urgenza ed emergenza anche con dichiarazione verbale raccolta alla presenza di due testimoni o videoregistrazione. La stessa legge consente, inoltre, di pianificare con il medico le cure, attraverso l’accordo in merito all’evolversi di una patologia cronica invalidante o con prognosi infausta (art. 5). LA LEGITTIMITÀ DELL’AIUTO AL SUICIDIO: IL CASO CAPPATO In Italia, in cui sui temi sensibili non sempre appare chiara la distinzione tra ciò che è riservato alla «politica» e ciò che compete alle «morali», non è possibile scegliere di morire con “dignità”. Le pratiche eutanasiche sono vietate: qui il diritto all’autodeterminazione trova un limite persino nella legge penale, che punisce (con la reclusione da 6 a 15 anni) chiunque dà seguito alla volontà del paziente di porre fine alla propria esistenza ritenuta ormai “indegna” (anche l’operatore sanitario, dunque, verrebbe accusato di aver commesso «omicidio del consenziente», ex art. 579 c.p.). È possibile però accompagnare un proprio caro che, lucidamente, ha espresso la volontà di ricorrere all’eutanasia, in una struttura estera dove tali pratiche sono consentite? Soprattutto, è possibile farlo senza incorrere in sanzioni penali nel nostro Paese? Dopo la sent. n. 242 del 2019 della Corte cost., sì. Il giudice delle leggi, infatti, nella nota vicenda Cappato (Marco Cappato, esponente del partito dei Radicali Italiani e membro dell’Associazione Luca Coscioni ha accompagnato dj Fabo in una struttura svizzera per porre fine alla propria esistenza. Si è poi costituito all’autorità giudiziaria milanese per essere sottoposto a processo, in quanto il codice penale italiano punisce, ex art. 580, anche l’«ausilio al suicidio») ha stabilito che: «l’art. 580 cod. pen. deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge n. 219 del 2017 agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente». È appena il caso di precisare che, Fabiano Antoniani (dj Fabo), a seguito di un incidente automobilistico, era rimasto tetraplegico e affetto da cecità permanente, con gravissime e costanti sofferenze, anche per la completa perdita di autonomia nella respirazione, nell’alimentazione e nell’evacuazione. ULTERIORI LIMITI ALL’AUTODETERMINAZIONE Oltre al divieto di pratiche eutanasiche, il nostro ordinamento pone una serie di ulteriori limitazioni alla libertà di autodeterminazione sanitaria, giustificate da ragioni di «ordine e salute pubblica». - Bisogna ricordare, almeno, quanto disposto dall’art. 5 del codice civile, il quale sancisce il divieto di atti di disposizioni del proprio corpo «quando cagionino una diminuzione permanente della integrità fisica, o quando siano altrimenti contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume» (è dunque ammessa la L’espressione “diritto finanziariamente condizionato”, benché non usata esplicitamente, è connessa al modello di servizio a cui da vita la legge 833/1978, che istituiva il Servizio sanitario Nazionale (SSN). Essa qualifica la posizione giuridica delle persone in relazione alle prestazioni sanitarie in una prospettiva che mira: 1. Al progressivo superamento dell’interpretazione del diritto alla salute quale diritto sociale distinto dalla sua dimensione di libertà, nell’intento di giungere ad un’affermazione del suo valore complessivo. 2. Alla costruzione di un sistema d’insieme di tutela della salute quale “bene primario oggetto di un diritto fondamentale della persona” che sollecita una “piena ed esaustiva tutela sia in ambito pubblico che in quello dei rapporti privati”. 3. Alla realizzazione di un sistema di erogazione delle prestazioni sanitarie diffuso, ma in grado di assicurare le medesime prestazioni a tutti. Questo assetto del SSN porta all’affermazione, esplicitata nell’art.19.2, del diritto alla scelta del medico e del luogo di cura, che consegna a ciascuno la possibilità di preferire un professionista o un istituto ad altri, e che comporta anche il diritto ad ottenere le prestazioni di assistenza sanitaria sull’intero territorio nazionale. È un diritto diverso dagli altri, poiché non si concentra sull’aspetto oggettivo, ma su quello soggettivo del prestatore (l’operatore sanitario, la clinica, la città in cui si trovano). Questa è la prima e più evidente manifestazione di come il diritto in esame possa essere “condizionato”, dipendendo la sua specifica concretizzazione dalla situazione, in cui se ne chiede la soddisfazione. IL DIRITTO ALLE PRESTAZIONI SANITARIE “QUALE DIRITTO COSTUZIONALMENTE VINCOLATO” Sul finire degli anni Novanta e poi al principio del nuovo millennio, nella giurisprudenza costituzionale diviene però dominante il principio per cui, il bilanciamento tra diritto alla salute e criteri di economicità, non deve essere tuttavia tale da pregiudicare «il nucleo irriducibile del diritto alla salute» protetto dalla Costituzione come ambito inviolabile della dignità umana, il quale impone di impedire la costituzione di situazioni prive di tutela, che possano appunto pregiudicare l’attuazione di quel diritto» (Corte cost., sent. n. 509 del 2000). Divenendo così evidente che il diritto fondamentale dell’individuo alla salute, almeno nel suo «contenuto minimo essenziale», deve avere una precedenza nell’allocazione delle risorse, a fronte delle pur ragionevoli esigenze di contenimento della spesa. In altri termini, sussiste una soglia minima di interventi, sottratto a qualunque valutazione discrezionale da parte dell’organo di rappresentanza popolare, che le istituzioni devono garantire a prescindere dai costi, pena il vulnerare irrimediabilmente la sfera giuridica soggettiva che il disposto costituzionale ha voluto tutelare in riferimento al bene salute, essendo inammissibile, in ultima analisi, sostenere che un diritto esiste nella misura in cui chi è obbligato a rispettarlo ha i mezzi economici per adempiere alla propria obbligazione. Oggetto di sindacato da parte della Corte cost. diviene proprio l’accertamento del rispetto di quel nucleo e della predisposizione di mezzi organizzativi e finanziari adeguati a garantirlo, tant’è che ove le esigenze relative all’equilibrio della finanza pubblica o alla tutela di altri interessi, «nel bilanciamento dei valori costituzionali, avessero un peso assolutamente preponderante, tale da comprimere il nucleo essenziale del diritto alla salute connesso all’inviolabile dignità della persona umana, ci si troverebbe di fronte a un esercizio macroscopicamente irragionevole della discrezionalità legislativa» (Corte cost., sent. n. 432 del 2005). I LEAS Nonostante il tentativo di riportare in capo allo Stato alcune delle funzioni che potevano assicurare tratti di uniformità al SSN nel rispetto dell’autonomia regionale, il processo di decentramento e differenziazione non si arresta (a partire dall’art. 1, comma 2, d.lgs. n. 502/1992, come modificato dal d.lgs. n. 229/1999). Il processo di decentramento era già cominciato con le riforme Bassanini, e il concetto di intangibilità del livello essenziale delle prestazioni sanitarie è stato poi ripreso e costituzionalizzato dalla legge. cost. 3/2001 di riforma del Titolo V della Costituzione. Il legislatore di revisione costituzionale, infatti, nel ridisegnare l’assetto costituzionale dei rapporti Stato-Regioni e dei rispettivi limiti di competenza, da un lato ha inserito la materia «tutela della salute» fra quelle di competenza legislativa concorrente, consentendo la potenziale diversificazione organizzativa e funzionale dei modelli regionali, pur nel rispetto dei principi fondamentali tracciati dalli Stato (art. 117, comma 3, Cost.); infatti la riforma del 2001, ha stabilito quali siano le materie di competenza esclusiva dello Stato e quali quelle in cui si ha la “concorrenza”di norme statali e di norme regionali, lasciando tutto il resto (il non detto) alla competenza regionale. Inoltre, le materie assegnate all’intervento legislativo concorrente, presentano una relazione in cui le Regioni hanno potestà legislativa, salvo per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione statale. Dall’altro ha riservato alla legislazione esclusiva dello Stato proprio «la determinazione di livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale», in modo appropriato e uniforme (art. 117, comma 2, lett. m) Cost.). Dal che, è evidente, diviene fondamentale ai fini della tutela sostanziale del diritto alla salute la nozione di «livelli essenziali di assistenza sanitaria» (LEAS): misure necessarie ad assicurare alla persona umana bisognosa di cure, un’esistenza libera e dignitosa. E se è vero che è compito del legislatore nazionale individuare e tutelare i livelli essenziali di assistenza sanitaria da garantire uniformemente a tutti gli individui (cfr. il d.P.C.M. 12 gennaio 2017), è pur vero che, in caso di sua omissione, tali livelli possono essere garantiti direttamente dai giudici comuni, in quanto essenza del diritto alla salute costituzionalmente garantito (Corte cost., sent. n. 185 del 1998). La Corte costituzionale ha assunto un atteggiamento di interpretazione rigorosa sui LEAS, infatti nella sentenza 88/2003 sulla gestione dei servizi Sert, la Corte, da una parte prescrive che le scelte che si fondano sull’art.117.2, lett.m) debbano essere operate in base ad una legge, che intervenga sia nel merito che nel metodo. Dall’altra parte, proprio in riguardo al metodo, evoca l’esigenza di coinvolgere, nel processo di decisione, anche le Regioni. Per questo si afferma l’esistenza di una vera e propria RISERVA DI LEGGE per la determinazione dei LEA, che va esercitata nel rispetto del principio di “leale collaborazione”. Quali sono i LEAS? Il citato d.P.C.M. del 12 gennaio 2017, a seguito di un lavoro congiunto del Ministero della Salute, le Regioni e le società scientifiche, ha individuato tre livelli: 1) Prevenzione collettiva e sanità pubblica (prevenzione e controlll di malattie infettive, programmi vaccinali, tutela della salute e sicurezza sui posti di lavoro, salute animale e igiene urbana veterinaria, sicurezza alimentare, etc.); 2) Assistenza distrettuale (assistenza sanitaria di base, emergenza sanitaria territoriale, assistenza farmaceutica, etc.); 3) Assistenza ospedaliera (dal pronto soccorso al ricovero ordinario per acuti, day surgery e day hospital, riabilitazione, trasfusioni, etc.). È interessante notare che, a seguito del d.P.C.M., possono essere erogate in ambito ambulatoriale (dunque a carico del SSN) prestazioni come procreazione medicalmente assistita, consulenza genetica, indagini per la diagnosi di malattie metaboliche rare e esami aggiornati per la malattia celiaca. Inoltre, è stata istituita una Commissione nazionale per l’aggiornamento dei LEA e la promozione dell’appropriatezza del SSN. IL SISTEMA MULTILIVELLO DELLA SANITÀ Il sistema sanitario nazionale è strutturato su tre livelli (Stato, Regioni, ASL), in cui le Regioni svolgono un ruolo centrale, potenzialmente capace di diversificare non poco l’erogazione dei servizi sul territorio nazionale. Invero, è alle Regioni che spetta assicurare il rispetto dei livelli essenziali delle prestazioni attraverso il complesso di strutture, pubbliche e private, a ciò dedicate. Dunque, mentre lo Stato determina i livelli di prestazioni che devono essere assicurati, è la Regione, in piena autonomia organizzativa e finanziaria ad erogarle, attraverso le Aziende Sanitarie Locali (ASL) che operano in regime di autonomia manageriale e operativa. i modelli di governance regionale In virtù della centralità del ruolo che le Regioni “giocano” in ambito sanitario, possono distinguersi tre modelli di governance regionale: 1) modelli a forte caratterizzazione competitiva tra le organizzazioni sanitarie pubbliche e private (è il modello lombardo, in cui il legislatore regionale ha fortemente incentivato la concorrenza tra soggetti erogatori - pubblici e privati accreditati - fra i quali i pazienti hanno piena libertà di scelta. In tal modo, si tende a premiare i soggetti che sono in grado di attrarre il maggior numero di pazienti, remunerandoli sulla base delle prestazioni effettivamente rese ai cittadini); 2) modelli copertativi (è il modello emiliano, friulano, toscano, veneto, in cui le organizzazioni sanitarie pubbliche e private “negoziano” la programmazione dell’offerta sanitaria. In tale modello, ogni soggetto, pubblico o privato che sia, rappresenta un possibile punto di accesso al sistema sanitario e si pone in modo complementare rispetto agli altri); 3) modelli a forte caratterizzazione amministrativa (è il modello lucano, calabrese, campano, pugliese, in cui la struttura del sistema è non solo incentrata sulle strutture pubbliche, ma in gran parte è rimessa al tradizionale governo “burocratico” del sistema. Propone, cioè, modelli di tipo gerarchico tradizionali in cui, a fronte di meccanismi di programmazione negoziata e controllo manageriale assai deboli, assumono un ruolo molto forte le determinazioni della Regione, che agisce essenzialmente attraverso lo strumento del finanziamento diretto alle strutture pubbliche. A causa delle sue debolezze strutturali, in tale modello soggetti privati accreditati non integrati nel sistema, si pongono in competizione dall’ “esterno” con le strutture pubbliche, spesso preferite a queste ultime a causa del maggior grado di efficenza del servizio offerto). L’AZIENDA SANITARIA LOCALE SI tratta della struttura di base del sistema sanitario nazionale, precedentemente denominata Unità Sanitarie Locali (USL). Disciplinate dal d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502 (modificato dai dd.lgs. 19 giugno 1999, n. 229, e 28 luglio 2000, n. 254), le vecchie USL, per il perseguimento dei loro fini istituzionali, si sono costituite in aziende con personalità giuridica pubblica e autonomia imprenditoriale (ASL). La loro organizzazione e funzionamento sono disciplinati con atto aziendale di diritto privato (in cui in realtà è la Regione a determinare principi e criteri per la sua adozione), il quale individua le strutture operative dotate di autonomia gestionale o tecnico-professionale, soggette a rendicontazione analitica. Le ASL devono informare la loro attività a criteri di efficacia, efficienza ed economicità, sono tenute al rispetto del vincolo del bilancio, da realizzare attraverso il mantenimento dell'equilibrio di costi e ricavi, e agiscono mediante atti di diritto privato. Sono organi delle ASL il direttore generale e il collegio sindacale. Il direttore generale è il responsabile della gestione complessiva dell'azienda, nomina i responsabili delle strutture operative della stessa ed è coadiuvato nell'esercizio delle proprie funzioni dal direttore amministrativo e dal direttore sanitario. Sono cause di ineleggibilità a direttore generale delle ASL, tra le altre, il ricoprire la carica di membro dei consigli e delle assemblee delle Regioni e del Parlamento. Il rapporto di lavoro del direttore generale, del direttore amministrativo e del direttore sanitario è esclusivo, è regolato da un contratto di diritto privato, di durata da tre a cinque anni, ed è rinnovabile. sancisce i criteri di inclusione, e devono comprendere requisiti minimi strutturali, tecnologici e organizzativi. In ultimo, in merito al rilascio dell’autorizzazione da parte della Regione influisce anche l’attività di verifica del Comune all’interno del quale la struttura risiederà. 2. l’Accreditamento Step successivo all’autorizzazione è l’accreditamento con il SSN. Tale step è obbligatorio solo per quelle strutture che vogliano operare in convenzione con la sanità pubblica . Se si vogliono erogare prestazioni in regime privato, il percorso si ferma alla sola autorizzazione. L'accreditamento può essere concesso subordinatamente alla rispondenza con la programmazione sanitaria regionale e ad ulteriori requisiti di qualificazione stabiliti dalla Regione sulla base del d.lgs 59/97, dopo aver ascoltato i pareri di Agenas (Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari regionali) e del Consiglio Superiore della Sanità. Attraverso l’accreditamento la struttura può operare in nome e per conto del SSN, adoperando le stesse tariffe e percependo quindi quota parte del finanziamento sanitario regionale. L’accreditamento è seguito da un contratto, che tiene conto sia della programmazione che di un controllo regionale periodico delle prestazioni erogate. L’accreditamento, a seguito di verifica, può anche essere revocato qualora la struttura non soddisfi più i requisiti qualitativi che ne abbiano determinato la concessione. gli Accordi contrattuali Dal momento che l’accreditamento attribuisce la qualifica potenziale di gestore del servizio pubblico, occorrerà che le parti stipulino appositi accordi contrattuali che regolamentino il rapporto tra i due soggetti (pubblico e privato). L’accordo contrattuale rappresenta quindi un contratto di disciplina pubblicistica che lega la struttura privata alla pubblica amministrazione. In sostanza, il procedimento di accreditamento per conferire agli interessati il diritto ad esercitare l’attività in regime di convenzione consiste di due atti: il primo, unilaterale, emesso dalla pubblica amministrazione che conferisce lo stesso diritto alla struttura; il secondo, che rende operativo il primo, legandosi ad esso mediante l’accordo tra le parti. Le Regioni devono definire l’ambito di applicazione degli accordi nonché individuare i soggetti interessati, individuando le responsabilità della Regione e della ASL nella stipula degli accordi, nella formulazione dei programmi di attività, oltre che nella determinazione della remunerazione. 3. La remunerazione: Le strutture che erogano assistenza ospedaliera e ambulatoriale a carico del SSN, sono finanziate secondo un ammontare globale predefinito (tetti di spesa), indicato negli accordi contrattuali stipulati. I criteri di remunerazione sono stabiliti in maniera omogenea per tutto il territorio nazionale, e le tariffe massime remunerabili vengono calcolate su un campione rappresentativo di strutture accreditate, tenendo conto dei costi standard e dei tariffari regionali. L’ORGANIZZAZIONE INTERNA DELLE AZIENDE L’ASL e l’Ao differiscono per alcuni aspetti, ma si ritrovano per quanto riguarda la disciplina della loro struttura. Entrambe constano di un’organizzazione per dipartimenti, che la legge indica come “modello ordinario di gestione operativa”di tutte le loro attività, formato da una pluralità di organi e uffici. Ogni dipartimento è posto sotto la responsabilità di un direttore nominato dal direttore generale, con responsabilità sia in materia clinico-organizzativa e della prevenzione, che in materia gestionale, per quanto riguarda la gestione e la programmazione razionale delle risorse disponibili. Il direttore di dipartimento predispone, annualmente, il piano delle attività e dell’utilizzazione delle risorse disponibili. La programmazione delle attività dipartimentali, la loro realizzazione e il loro monitoraggio avvengono con la partecipazione di altri dirigenti e operatori assegnati al dipartimento. --Il DIRETTORE GENERALE costituisce l’organo di vertice delle strutture amministrative; è la figura che si presenta caratterizzata da responsabilità imprenditoriali (superando la visione tradizionale di sovra ordinazione rispetto all’apparato tecnico-amministrativo), poiché è stato messo in atto il tentativo di emancipare le strutture sanitarie e i loro vertici da compiti di tipo amministrativo, ponendo alla guida di esse una figura capace di operare nella dimensione imprenditoriale, infatti le aziende sono organizzate secondo la scissione tra politica della sanità e produzione di prestazioni sanitarie. Nell’atto di nomina, la Regione assegna al direttore generale gli obiettivi di funzionamento dei servizi, in relazione alle risorse, assicurando la sua piena autonomia imprenditoriale. Infatti al direttore generale compete:la verifica della corretta ed economica gestione delle risorse attribuite , l’imparzialità e il buon andamento dell’azione amministrativa. L’azione dei direttori generali è sottoposta a CONTROLLO, e i criteri di valutazione vengono decisi dalle Regioni e dalle Province autonome, che si fondano sul controllo della salute e del funzionamento dei servizi definiti durante la programmazione regionale. Trascorsi 18 mesi dalla nomina di ciascun direttore generale, s verifica che gli obiettivi siano stati raggiunti, e si procede o alla sua conferma entro tre mesi successivi alla scadenza del termine, o in casi gravi (gestione non adeguata o violazione di leggi), la Regione risolve il contratto, provvedendo alla sostituzione del direttore generale. -- Al direttore generale si affiancano il DIRETTORE AMMINISTRATIVO e il DIRETTORE SANITARIO, entrambi da lui nominati. Essi concorrono alla formulazione di proposte e di pareri, quindi al direttore generale spetta la responsabilità complessiva delle scelte di direzione, mentre al direttore sanitario e a quello amministrativo spetta la responsabilità diretta solo per le funzioni attribuite alla loro competenza. N.B. al direttore sanitario (laureato in medicina) spetta la direzione dei servizi sanitari ai fini organizzativi e igenico-sanitari , fornendo parere obbligatorio al direttore generale sugli atti relativi alle materie di competenza. Il direttore generale deve motivare i provvedimenti assunti in difformità dal parere del direttore sanitario e di quello amministrativo. In caso di assenza del direttore generale, di durata non superiore ai 6 mesi, le relative funzioni sono svolte dal direttore amministrativo o sanitario su delega del direttore generale, in caso di mancanza di delega, le funzioni sono attribuite al direttore più anziano per età. Il loro rapporto di lavoro è regolato da contratto di diritto privato, di durata non inferiore a tre e non superiore a cinque anni, rinnovabile. L’art. 3.1-quater del d.lgs.502/1992, nel prevedere la nomina necessaria dei direttori sanitario e amministrativo, afferma che oltre al direttore generale, sono organi dell’azienda il collegio di direzione e il collegio sindacale. -- il COLLEGIO DI DIREZIONE è istituito dalla Regione , a cui la norma assegna la possibilità di configurarne la composizione (con la sola condizione di garantire la partecipazione di tutte le figure professionali presenti nell’azienda o nell’ente) e disciplinarne le competenze e i criteri di funzionamento, nonché le relazioni con gli altri organi. Le funzioni del collegio di direzione sono: a. concorrere al governo delle attività cliniche; b. partecipazione alla pianificazione delle attività, incluse la ricerca, la didattica e i programmi di formazione; c. nelle aziende ospedaliero universitarie, partecipa alla pianificazione delle attività di ricerca e didattica nell’ambito di quanto definito dall’università; d. concorre allo sviluppo organizzativo e gestionale delle aziende, con particolare riferimento all’individuazione di indicatori di risultato clinico-assistenziale e di efficienza, nonché dei requisiti di appropriatezza e qualità delle prestazioni; e. partecipa alla valutazione interna dei risultati conseguiti in relazione agli obiettivi prefissati; f. è consultato obbligatoriamente dl direttore generale su tutte le questioni attinenti al governo delle attività cliniche. -- il COLLEGIO SINDACALE è composto da cinque membri, di cui due designati dalla Regione, uno designato dal Ministero del Tesoro, del Bilancio e della programmazione Economica (che abbiano esercitato per almeno 3 anni le funzioni di revisori di conti o di componenti dei collegi sindacali), per le aziende ospedaliere quest’ultimo componente è designato dall’organismo di rappresentanza dei Comuni. I componenti del collegio sindacale durano in carica 3 anni e le loro funzioni sono: a. la verifica dell’amministrazione dell’azienda sotto il profilo economico; b. la vigilanza sull’osservanza della legge; c. l’accertamento della regolare tenuta della contabilità e la conformità delle scritture contabili, effettuando periodicamente verifiche di cassa; d. la redazione di atti di rendiconto e cioè: una relazione almeno trimestrale alla Regione sui risultati del riscontro eseguito; la denuncia immediata dei fatti se vi è fondato sospetto di gravi irregolarità; la relazione periodica sull’andamento dell’attività nell’unità sanitaria locale o dell’azienda ospedaliera. N.B. Inoltre, i componenti del collegio sindacale possono procedere ad atti di ispezione e controllo, anche individualmente. CONSIGLIO DEI SANITARI La norma prevede anche il consiglio dei sanitari, quale organismo elettivo dell’ASL presieduto dal direttore sanitario con funzioni di consulenza tecnico-sanitaria. Ne fanno parte, in maggioranza, medici e altri operatori sanitari laureati, nonché una rappresentanza del personale infermieristico e del personale tecnico-sanitario; c’è anche un medico veterinario. Il consiglio dei sanitari fornisce un parere obbligatorio al direttore generale per le attività tecnico- sanitarie, anche sotto il profilo organizzativo per quanto riguarda gli investimenti. Inoltre il consiglio dei sanitari si esprime anche sulle attività di assistenza sanitaria. La Regione provvede a definire il numero dei componenti nonché a disciplinare le modalità di elezione, la composizione e il funzionamento del consiglio. ATTO AZIENDALE Il direttore generale, nell’ambito del perseguimento del fine istituzionale attribuito all’ASL e all’Azienda ospedaliera, adotta l’ATTO AZIENDALE, provvedimento che la norma (art.3.1-bis) afferma essere di “diritto privato”, pur se è rimessa alla disciplina delle Regioni (art.2.2- sexies, lett.b)) la determinazione dei principi e dei criteri per la sua adozione. L’atto aziendale ha dato vita ad un lungo confronto sulla sua natura: alcuni ritenevano che fosse un”regolamento” o, evidenziando la sua funzione di autogoverno, uno “statuto”. Altri ritengono l’atto aziendale come un atto di natura civilistica, pur strumentale a finalità pubblicistiche; poiché mettono in risalto il suo essere massima espressione dell’autonomia imprenditoriale. DA LEGGERE: LE COMPETENZE DEL MINISTERO DELLA SALUTE Più in specifico, il Ministero svolge le funzioni statali nelle seguenti aree funzionali: a) ordinamento sanitario, e precisamente: 1. Determinazione degli indirizzi generali e coordinamento in materia di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione delle malattie umane, comprese le malattie infettive e diffusive; 2. Prevenzione, diagnosi e cura delle affezioni animali, comprese le malattie infettive e diffusive e le zoonosi; 3. Programmazione tecnico-sanitaria di rilievo nazionale e indirizzo, coordinamento e monitoraggio delle attività tecniche sanitarie e regionali, di concreto con il Ministero dell’Economia e delle Finanze per tutti i profili attinenti al concorso dello Stato al finanziamento del Servizio sanitario nazionale, anche quanto ai L’estensione del diritto sul piano «soggettivo» Il diritto di accesso alla protezione sociale viene pertanto riconosciuto, dalla legge 328 del 2000, a: - i cittadini italiani; - i cittadini di Stati appartenenti all’Ue e i loro familiari; - gli stranieri titolari della carta di soggiorno o di permesso di soggiorno di durata non inferiore a un anno, nonché ai minori iscritti nella loro carta di soggiorno o nel loro permesso di soggiorno. Quanto ai profughi, gli altri stranieri e gli apolidi, vengono invece garantite le misure di prima assistenza limitatamente al periodo necessario alle operazioni di identificazione (ex art. 129, comma 1, lett. h), d.lgs. 112/1998). Il riferimento allo «stato di bisogno» non scompare, ma vale soltanto come condizione di accesso prioritario (per gli indigenti e gli inabili al lavoro) al sistema di assistenza sociale, intanto fattosi «universale». Cosicché, il sistema di protezione sociale deve considerarsi immanente lungo tutta l’esistenza degli individui, per manifestarsi più concretamente al verificarsi di eventi sfavorevoli o al peggioramento delle condizioni della persona. L’estensione del diritto sul piano «oggettivo» Premesso che l’espressione «diritto all’assistenza sociale» fa rifermento ad una categoria in costante evoluzione, è possibile individuare le materie in essa ricomprese in via «residuale», ossia per sottrazione rispetto alle altre possibili forme di protezione sociale che hanno fondamento in disposizioni costituzionali diverse e specifiche. E così, leggendo l’art. 22 del D.P.R. 616/1977 e l’art. 128 del d.lgs. 112/1998, vanno escluse dal novero dei servizi sociali le funzioni assicurate: - dal sistema previdenziale; - in sede di amministrazione della giustizia; - dal Servizio sanitario (per quanto, in tale ambito, assistenza sociale e sanitaria debbono oggi concepirsi come settori funzionali in progressiva integrazione). A voler fare un elenco sommario dei settori che compongono il sistema di sicurezza sociale, è possibile pertanto distinguere: I) l’integrazione sociale (supporto nelle condizioni di disagio individuale, sostegno al disagio familiare, il contrasto alle discriminazioni e all’emarginazione, la promozione della cittadinanza “sociale”); II) la promozione, nel lavoro e in ogni altra relazione sociale, della parità di genere; III) il supporto nelle situazioni derivanti da inadeguatezza di reddito, perdita del lavoro, incapacità di provvedere al sostentamento proprio e della famiglia; IV) il sostegno alle condizioni di non autonomia fisica o psichica (assistenza alle disabilità, assistenza ai malti cronici, supporto per le diverse forme di dipendenza, tutela e sostegno agli anziani, tutela e sostegno dell’infanzia, della minore età e dei giovani). I LIVEAS Come per l’assistenza sanitaria (LEAS), anche per i servizi sociali sono individuati i «Livelli Essenziali di Assistenza Sociale» (LIVEAS). L’elenco è contenuto nell’art. 22 l. 328/2000, ma presenta un grosso limite: non fissa il contenuto effettivo delle prestazioni, elencandole solamente e demandando alla pianificazione nazionale e regionale la determinazione dei requisiti specifici. Cosicché, mentre in materia sanitaria e sociosanitaria è stato rappresentato un quadro ben definito di prestazioni, giuridicamente definibili come livelli essenziali ed erogate dal SSN, a livello sociale, lo Stato non ha ancora provveduto alla determinazione legislativa dei livelli essenziali delle prestazioni a tutela dei diritti civili e sociali, permettendo, di fatto, alle Regioni di sopperire autonomamente (mettendo quindi in crisi il principio universale di uguaglianza) a tale inadempienza, individuando liberamente i LIVEAS. Pertanto, la strada da percorrere per un pieno riconoscimento di un diritto alle prestazioni sociali è, senza dubbio, ancora lunga. Se si escludono le pensioni sociali e le indennità di accompagnamento, le altre plurime ed eterogenee prestazioni sociali patiscono l’incertezza delle scelte politiche, non di rado scomposte e, nel complesso, prive di visione. le conseguenze derivanti dalla mancata determinazione dei LIVEAS La non puntuale attuazione legislativa della disposizione costituzionale che impone la determinazione dei LIVEAS (art. 117, comma 2, lett. m), può comportare numerose conseguenze negative: su tutte, quella del rischio di far fallire l'intento di creare un sistema uniforme su tutto il territorio nazionale, oltre che di rendere vana la previsione di ulteriori livelli regionali. Quali sono le ragioni di una tale inerzia legislativa? A riguardo possono profilarsi diverse ipotesi. La più nota, come accennato, ravvisa nella difficoltà a procedere a una standardizzazione delle prestazioni sociali, un pretesto dietro cui celare il problema rappresentato dalla penuria di risorse da destinare al sistema dei servizi sociali. Di qui il timore di non essere economicamente in grado di erogare le prestazioni individuate attraverso i livelli. Un’ulteriore, conseguente, ragione potrebbe rinvenirsi nel rapporto tra determinazione dei LIVEAS ed esigibilità dei diritti: in mancanza della definizione del contenuto, si svuota - di fatto - l'obbligo del soggetto pubblico di fornire le prestazioni, anche a prescindere dalla disponibilità di risorse. La mancata determinazione dei LIVEAS sarebbe dunque legata al permanere di quell'orientamento che interpreta come «finanziariamente condizionati» i diritti dei destinatari delle prestazioni socio- assistenziali. Ad ogni modo, l’inerzia del legislatore statale continua a rappresentare un serio problema. Infatti, le proclamazioni dei diritti dei destinatari dei servizi contenuti nei testi normativi emanati di volta in volta dalle Regioni, rischiano di restare mere enunciazioni formali, di scarso interesse e utilità per coloro (amministratori e operatori del privato sociale) che devono tradurle in prestazioni concretamente erogabili ed esigibili. Servirebbe, pertanto, un incisivo intervento dello Stato, che, attraverso l'individuazione dei LIVEAS, funga da collante per la realizzazione di un welfare omogeneo a livello nazionale, a tutela di una uniforme garanzia dei diritti sociali spettanti ai consociati. un esempio di LIVEAS Per riportare un esempio di che cosa potrebbe essere concretamente un livello essenziale, possiamo prendere in considerazione il diritto all'educazione e allo sviluppo cognitivo dei bambini e il diritto alle pari opportunità dei loro genitori. Determinando un LIVEAS a questo proposito si potrebbe stabilire che tutti i bambini fino a una determinata età (poniamo tre anni) i cui genitori rispondono a precisi requisiti (ad esempio: entrambi sono occupati nel lavoro oppure formano nuclei mono-genitoriali) abbiano il diritto di accedere a servizi socio-educativi (quali asili nido, nidi-famiglia, cure prestate da baby-sitter accreditate, erogazioni monetarie per accesso a servizi privati, ecc.) che rispondono a prefissati criteri di qualità; che i loro genitori partecipino ai costi del servizio in base a criteri prefissati in modo comunque da garantire loro effettivamente l'accessibilità del servizio; che siano informati sui servizi disponibili e sostenuti nelle procedure di scelta; che abbiano a disposizione precisi strumenti di tutela (ricorsi, sanzioni a carico degli enti responsabili, ecc.) per denunciare se tale diritto è loro negato. Questo sarebbe il livello essenziale. Naturalmente, nulla impedirebbe alle Regioni o agli altri enti locali di estendere il diritto o l'accesso a queste prestazioni anche a bambini che si trovino in altre condizioni. IL SISTEMA DEI SERVIZI SOCIALI DOPO LA RIFORMA DEL TITOLO V A seguito della l. cost. 3/2001, la materia «servizi sociali», non essendo ricompreso nei commi 2 e 3 dell’art. 117 Cost., passa alla piena competenza residuale della legislazione regionale. Cosicché, finché il legislatore regionale non si attivi a disciplinare la materia, in forza del «principio di continuità degli ordinamenti», permane la piena vigenza della l. 328/2000 (Corte cost., sent. n. 13 del 2004). Molte Regioni hanno provveduto a disciplinare la materia, tra cui la Puglia (cfr. Legge Regionale 10 luglio 2006, n. 19 “Disciplina del sistema integrato dei servizi sociali per la dignità e il benessere delle donne e degli uomini di Puglia”. In ogni caso, come ha stabilito la Consulta, poiché spetta allo Stato: A) la determinazione dei LIVEAS ex art. 117, comma 2, lett. m); B) la definizione delle funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città Metropolitane ex art. 117, comma 2, lett. p) (ossia degli enti territoriali che, nell’ambito dei servizi sociali, svolgono il ruolo amministrativo più rilevante); C) la competenza legislativa esclusiva in materia di concorrenza ex art. 117, comma 2, lett. e) (e molti servizi pubblici hanno rilevanza economica); D) nonché, da ultimo, la possibilità di destinare risorse aggiuntive e disporre di interventi speciali in favore di determinati enti per varie finalità, tra cui quella di favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona (art. 119, comma 5); non può essere negata, alla legislazione statale, la possibilità di ulteriori interventi in materia (cfr. Corte cost., sentt. n. 272 del 2004 e n.134 del 2006). IL RIPARTO DELLE FUNZIONI AMMINISTRATIVE La l. cost. n. 3/2001, come noto, ha riscritto anche l’art. 118 Cost., assumendo come proprio canone fondamentale il «principio di sussidiarietà». Si tratterà adesso di capire quali sono le conseguenze dell’applicazione di tale principio sull’assetto del sistema di protezione sociale, dapprima analizzandolo in senso «verticale» (il principio assegna la generalità delle funzione amministrativa ai Comuni, ossia al livello al livello più vicino possibile ai destinatari della funzione stessa, regola che poi viene contemperata con i criteri dell’«adeguatezza» e delle «differenziazione», che possono portare a spostare la competenza al livello superiore); successivamente in senso «orizzontale» (il principio riconosce la possibilità di costruire un sistema condiviso - pubblico/privato - di tutela degli interessi generali, già iniziato sul piano legislativo con la l. 59/1997). SERVIZI SOCIALI E SUSSIDIARIETÀ “VERTICALE” Il sistema dei servizi sociali vede coinvolti, a vario titolo, tutti i livelli di governo. Il complesso delle funzioni amministrative statali è oggi accentrato in capo al Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, le cui competenze sono desumibili dal combinato disposto dell’art. 129 del d.lgs. 112/1998 e dall’art. 9 l. 328/2000 (su tutte, assume rilievo la determinazione dei principi e degli obiettivi della politica sociale attraverso il Piano Nazionale degli interventi e dei servizi sociali ex art. 18 l. 328/2000. Purtroppo, l’ultimo piano approvato, è risalente agli anni 2001-2003 e, la previsione dell’art. 46 l. 289/2000, che impone al Governo, attraverso d.P.C.M., di stabilire i LIVEAS, risulta al momento inattuata). A livello regionale, è l’art. 8 della l. 328/2000 a stabilire il complesso di funzioni amministrative spettanti a tali enti di governo. Esse si possono ricondurre a tre categorie: a) funzioni di programmazione, coordinamento e indirizzo degli interventi sociali; b) funzioni di controllo, verifica e monitoraggio; c) funzioni relative all’integrazione dell’attività socio-sanitaria con quella sanitaria. Da parte loro, le Regioni, nell’esercizio delle loro funzioni amministrative, entro 120 giorni dall’adozione del Piano Nazionale adottano il Piano Regionale degli interventi e dei servizi sociali, provvedendo in particolare all’integrazione socio-sanitaria in coerenza con gli obiettivi del piano sanitario regionale, nonché al coordinamento con le d.P.C.M. 12 gennaio 2017). Le cure mirano a stabilizzare il quadro clinico, a limitare il declino funzionale e a migliorare la qualità della vita della persona nel proprio ambiente familiare, evitando, per quanto possibile, il ricorso al ricovero ospedaliero o in una struttura residenziale. In ogni caso la ASL assicura la continuità tra l’assistenza ospedaliera e l’assistenza territoriale a domicilio. La richiesta di attivazione delle cure domiciliari può essere presentata da chiunque (paziente, familiare, caregiver, medico, ecc.) agli uffici competenti della ASL, in genere situati presso il Distretto. Quando la persona non autosufficiente ha bisogno occasionalmente delle prestazioni professionali del medico, dell’infermiere o del terapista della riabilitazione, anche ripetute nel tempo, in risposta a un bisogno sanitario di bassa complessità, (ad esempio: prelievi di sangue, radiografia, elettrocardiogramma, ecc.), si parla di cure domiciliari di livello base. Se il paziente presenta una condizione di salute più complessa, il SSN garantisce un percorso assistenziale che prevede: - valutazione multidimensionale dei bisogni sotto il profilo clinico (bisogni sanitari), funzionale (bisogni di autonomia) e socio-familiare (bisogni relazionali, sociali ed economici), attraverso idonei strumenti e scale standardizzati e uniformi; - stesura di un “Progetto di assistenza individuale” (PAI) o di un “Progetto riabilitativo individuale” (PRI) che descrive le prestazioni necessarie, le modalità di esecuzione e la durata del trattamento. Il medico di medicina generale o il pediatra di libera scelta hanno la responsabilità clinica dei processi di cura, valorizzando e sostenendo il ruolo della famiglia; - presa in carico del paziente da parte dell’équipe multidisciplinare della ASL che si occupa dell’assistenza domiciliare ed erogazione delle prestazioni mediche, infermieristiche, assistenziali o riabilitative; la frequenza degli accessi al domicilio dei diversi operatori varia in relazione alla natura e alla complessità del quadro clinico; quando necessari, sono assicurati gli accertamenti diagnostici, la fornitura dei farmaci e dei dispositivi medici, nonché dei preparati per nutrizione artificiale. Le cure domiciliari sono integrate da prestazioni di aiuto infermieristico e assistenza tutelare professionale alla persona (ad es. cura e igiene della persona, aiuto nella deambulazione, supervisione assunzione terapia farmacologica). Tali prestazioni sono interamente a carico del SSN per i primi 30 giorni dopo la dimissione ospedaliera protetta, e per una quota pari al 50% nei giorni successivi, il restante 50% è a carico del Comune che ha facoltà di chiedere all'utente di coprire con risorse proprie parte della quota (su base ISEE), secondo quanto previsto dalla normativa regionale e comunale. Le cure domiciliari sono integrate dagli interventi sociali erogati dal Comune, in base al bisogno di assistenza della persona, emerso dalla valutazione multidimensionale. il Caregiver e L.R. pugliese n. 3 del 2020 Anche la Regione Puglia si è posta come finalità quella di promuovere e valorizzare la figura del «caregiver» familiare, ritenuto «componente informale delle rete di assistenza alla persona e risorsa del sistema integrato dei servizi sociali, socio-sanitari e sanitari». Per caregiver familiare si intende la persona che decide di assistere, prendendosene cura, dei seguenti soggetti: coniuge, dell’altra parte dell’unione civile tra persone dello stesso sesso o del convivente di fatto, di un familiare od affine entro il secondo grado oppure di un familiare entro il terzo grado, che a seguito di una malattia, infermità o disabilità anche croniche o degenerative non è più autosufficiente e non riesce a prendersi cura di se stesso. Tale soggetto deve, quindi, risultare invalido bisognoso di assistenza globale e continua di lunga durata, oppure essere titolare di indennità di accompagnamento. Al caregiver non spetta alcun compenso, poiché deve operare in modo volontario, gratuito ed anche responsabile all’interno del Progetto Assistenziale Individuale (PAI) in cui dovranno essere chiarite le attività che il caregiver deve svolgere, oltre ai contributi necessari ed i supporti che sia i servizi sociali che sanitari devono fornire per mettere il careviger nella miglior condizione possibile per svolgere il proprio ruolo. Per far si che la persona possa essere assistita al proprio domicilio, il caregiver deve partecipare in modo attivo al percorso di valutazione, definizione e realizzazione del Progetto Assistenziale Individuale (PAI), assumendosi gli impegni che con lo stesso PAI decide di prendere. Un aspetto importante è quello relativo all’accesso o al reinserimento lavorativo del caregiver. L’attività svolta come caregiver verrà riconosciuta ai fini di una formalizzazione o certificazione delle competenze per il riconoscimento della figura di assistente familiare, oppure tale attività verrà riconosciuta come credito formativo per accedere ai percorsi di formazione per ottenere la qualifica di operatore socio sanitario. Anche i comuni e le ASL, considerando le risorse a loro disposizione, devono riconoscere il caregiver familiare come elemento della rete del welfare locale assicurando il sostegno e l’affiancamento per sostenere la qualità del lavoro svolto nell’ambito dell’assistenza prestata. ASSISTENZA AGLI ANZIANI Quantificare il numero dei presidi residenziali socio-assistenziali e socio-sanitari per gli anziani in Italia è molto complesso, sia per la difformità dei dati disponibili, sia per le diversità definitorie, organizzative e gestionali delle regioni italiane. La nascita delle prime strutture di questo tipo può essere fatta risalire tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, quando numerose iniziative sociali per lo più di matrice religiosa diedero vita a istituti di ricovero per la cura di anziani soli, malati ed emarginati. Fino a circa la fine degli anni ’70 queste strutture erano caratterizzate da una prevalente componente sociale, quindi erano principalmente rivolte ad anziani autosufficienti. Con l’inizio degli anni ’80, invece, si è verificato un continuo e importante mutamento nella struttura organizzativa delle residenze, che si sono trasformate in luoghi di cura per anziani disabili gravi (non autosufficienti). Questo cambiamento ha portato faticosamente la maggioranza delle strutture a incrementare le proprie capacità assistenziali e a promuovere la presenza di personale e di attività più qualificate per questo tipo di utenza. Il primo atto formale emanato a livello nazionale per fornire alle Regioni indirizzi chiari per realizzare strutture sanitarie residenziali extra ospedaliere per anziani non autosufficienti è del 1989. Si tratta del d.P.C.M. del 22/12/1989 “Atto di indirizzo e coordinamento dell’attività amministrativa delle regioni e province autonome concernente la realizzazione di strutture sanitarie residenziali per anziani non autosufficienti non assistibili a domicilio o nei servizi semiresidenziali”. In questa sede le Residenze Sanitarie Assistenziali (RSA) sono definite come delle strutture extra ospedaliere finalizzate a fornire accoglienza, prestazioni sanitarie, assistenziali e di recupero a persone anziane prevalentemente non autosufficienti. Secondo il decreto il presupposto per la fruizione dei servizi garantiti dalle RSA è la comprovata assenza di un idoneo supporto familiare che consenta di erogare i trattamenti sanitari a domicilio. Con le linee guida dell’allora Ministero della Sanità “Indirizzi sugli aspetti organizzativi e gestionali delle Residenze Sanitarie Assistenziali”, nel 1994 viene introdotta la differenziazione tra RSA e RA (Residenze Assistenziali) e quindi, di fatto, la distinzione tra presidi residenziali socio-sanitari (i primi) e presidi residenziali socio-assistenziali (i secondi). Confermando le caratteristiche strutturali delle RSA contenute nel decreto del 1989, il Ministero stabilisce i criteri per la determinazione dei costi (suddivisi in costi totalmente sanitari, costi totalmente non sanitari e costi misti) e gli aspetti gestionali. Le RSA garantiscono un livello medio di assistenza sanitaria integrato da un livello alto di assistenza tutelare e alberghiera. Sono rivolte ad anziani non autosufficienti e ad altri soggetti non autosufficienti non assistibili a domicilio. Le RA (case di riposo, case albergo, comunità alloggio, ecc.), invece, sono al di fuori del Servizio Sanitario Nazionale e sono caratterizzate da diversi livelli di protezione sociale per anziani autosufficienti non bisognosi di assistenza sanitaria specifica. Le eventuali prestazioni mediche, infermieristiche e riabilitative sono assicurate dai servizi sanitari locali. Le Case albergo, le Case di riposo, le Comunità alloggio e le Residenze assistite sono strutture con camere (singole o doppie), suite o appartamenti autonomi con alcuni servizi in comune (sala da pranzo, sala riunioni, servizi igienici, servizi di lavanderia). Sono previsti alcuni servizi di assistenza ambulatoriale e servizi di base e un programma di attività ricreative e culturali. Gli utenti sono principalmente anziani pensionati, da soli o in coppia, che non necessitano di un’assistenza particolare, sono autonomi o parzialmente autonomi, ma gradiscono vivere in un ambiente comunitario. Queste strutture devono essere autorizzate dai Comuni e dalle aziende sanitarie, cioè devono rispettare standard di qualità e igienico- sanitari. I costi dell’ospitalità non sono a carico del Servizio Sanitario Nazionale e le rette sono determinate dalle singole strutture e prevedono una quota di partecipazione a carico degli utenti stabilita dai Comuni in base alla fascia reddituale dell’utente. Le Case famiglia sono delle comunità residenziali di tipo familiare in cui operatori specializzati coordinano le attività degli ospiti e collaborano alla gestione della casa. Generalmente gli ospiti sono bambini e adolescenti che non possono vivere con le loro famiglie, tuttavia alcune strutture si sono orientate verso l’aiuto a persone anziane sole con difficoltà, accolte in piccoli numeri. È interessante notare come invece le RSA siano organizzazioni estremamente complesse e stiano sviluppando al loro interno delle modalità gestionali di tipo manageriale, proprie del mondo aziendale, dal controllo di gestione ai sistemi di gestione della qualità, dal benchmarking all’impiego di sistemi informativi a supporto delle decisioni e del funzionamento aziendale. Inoltre sono sempre più frequenti le strategie di diversificazione dei servizi offerti: le RSA divengono spesso sedi di servizi polifunzionali in grado di rispondere a differenziate esigenze di cura, anche di tipo specialistico (Alzheimer, stati vegetativi, assistenza post-acuzie). CONTRASTO ALLA POVERTÀ: REDDITO DI CITTADINANZA E PENSIONE DI CITTADINANZA Il Reddito di Cittadinanza (RdC), introdotto con decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4 come misura di contrasto alla povertà, è un sostegno economico finalizzato al reinserimento nel mondo del lavoro e all’inclusione sociale. Qualora tutti i componenti del nucleo familiare abbiano età pari o superiore a 67 anni, assume la denominazione di Pensione di Cittadinanza (PdC). Il Reddito di Cittadinanza viene erogato ai nuclei familiari che, al momento della presentazione della domanda e per tutta la durata dell’erogazione del beneficio, risultano in possesso di determinati requisiti economici, di cittadinanza e di residenza. Il beneficio viene erogato attraverso una carta di pagamento elettronica, la Carta Reddito di Cittadinanza. È condizionato alla Dichiarazione di Immediata Disponibilità al lavoro (DID), resa dai componenti del nucleo familiare, e alla successiva sottoscrizione del Patto per il lavoro presso il Centro per l’impiego. Nel caso in cui nel nucleo non siano presenti componenti disoccupati da meno di due anni o in situazione similare è invece prevista la sottoscrizione del Patto per l’inclusione sociale. Quest’ultimo sostituisce il Patto per il lavoro anche nel caso di nuclei che abbiano già sottoscritto con i servizi del Comune un progetto personalizzato, ai sensi del decreto legislativo 147/2017, ovvero qualora i Centri per l’impiego ravvisino la presenza di particolari criticità per cui sia difficoltoso l’avvio di un percorso di inserimento lavorativo. Questi patti possono prevedere l’adesione a un percorso personalizzato di accompagnamento, inserimento lavorativo e inclusione sociale con attività al servizio della comunità, di riqualificazione professionale, completamento degli studi, nonché altri impegni individuati dai servizi competenti finalizzati all’inserimento del mercato del lavoro e dell’inclusione sociale. I maggiorenni di età pari o inferiore ai 29 anni sono comunque convocati dai Centri per l’impiego per la definizione del Patto per il lavoro, anche nel caso il loro nucleo familiare abbia sottoscritto un Patto per l’inclusione sociale. La Pensione di Cittadinanza può essere concessa anche nei casi in cui il componente o i componenti del nucleo familiare di età pari o superiore a 67 anni convivano esclusivamente con una o più persone in condizione di disabilità grave o di non autosufficienza di età inferiore ai 67 anni.
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