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Lingua italiana ed educazione linguistica - riassunto completo, Schemi e mappe concettuali di Sociolinguistica

Lingua italiana ed educazione linguistica di Lo Duca - riassunto completo

Tipologia: Schemi e mappe concettuali

2021/2022

Caricato il 29/08/2022

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Scarica Lingua italiana ed educazione linguistica - riassunto completo e più Schemi e mappe concettuali in PDF di Sociolinguistica solo su Docsity! 1 LINGUA ITALIANA ED EDUCAZIONE LINGUISTICA Tra storia, ricerca e didattica MARIA G. LO DUCA 1. NASCITA DI UNA DISCIPLINA 1.1 Introduzione I primi spunti che portarono alla nascita di una riflessione sulle lingue e sul loro insegnamento risalgono alle discussioni nelle scuole filosofiche di Atene e alle prime manifestazioni del pensiero occidentale. La nozione di educazione linguistica assume un peculiare significato a partire dagli anni 70 del secolo scorso, quando si configurarono una serie di ipotesi teoriche e proposte didattiche incentrate sull’insegnamento della lingua madre. Il principale iniziatore fu Tullio De Mauro, che in un’intervista delinea la storia del movimento che portò a una nuova pedagogia linguistica. Ricorda che l’espressione “educazione linguistica” era già stata usata da figure come G.L. Radice nel 1913; Francesco Sabatini invece sposta al 1873 la data di prima attestazione dell’espressione, che comparirebbe in uno scritto di Francesco D’Ovidio relativo ai dibattiti linguistici e pedagogici dell’Italia unificata. Dai primi anni ’70, comunque, inizia a diffondersi un maggiore interesse per i temi dell’educazione linguistica, sia da parte di linguisti, sia di insegnanti di italiano. L’insegnamento tradizionale venne messo in discussione, anche grazie alle acquisizioni delle moderne scienze del linguaggio e al clima politico generale. 1.2 Inquadramento storico Fi dalla nascita del volgare le popolazioni della penisola italica hanno usato una pluralità di idiomi, chiamati dialetti. All’inizio le varie parlate locali erano tutte sullo stesso piano e non c’era la percezione del prestigio. Marazzini afferma infatti che nel periodo che va dalle origini al ‘400 non ha ancora senso parlare di dialetti, perché il dialetto esiste solo una volta che si è affermata la lingua. Prima del ‘400, dunque, si parla di volgari italiani. I dialetti italiani, quindi, sono serviti come veicolo linguistico di comunità ristrette e di aree geograficamente limitate. I dialetti però non sono idiomi “inferiori” → De Mauro ci dice che non c’è alcuna caratteristica interna che porti una parlata ad essere o meno lingua di cultura. È l’uso sociale che fa di un idioma una lingua nazionale. L’italiano è rimasto per secoli appannaggio della gente di lettere, tanto che nell’800 la borghesia conosceva meglio il francese che l’italiano, che era lingua straniera in patria. Dopo l’unificazione le cose cambiarono, grazie a centralizzazione amministrativa, leva obbligatoria, industrializzazione, mobilità interna, fenomeni migratori dalla campagna alla città, diffusione della scolarità e mezzi di comunicazione di massa; fattori che contribuirono a diffondere competenza nell’idioma nazionale. Per quanto riguarda la scuola, dopo l’unità si contrapposero due posizioni: - Manzoniani, che volevano sradicare la malerba dialettale e imporre il fiorentino - Ascoliani (+ d’Ovidio, De Sanctis), sfavorevoli a una lotta contro i dialetti, depositari di un ethos locale. A loro avviso i dialetti andavano confrontati con la lingua → metodo contrastivo. L’atteggiamento ufficiale delle autorità fu vicino alle posizioni dei manzoniani, ma lo scarso adempimento dell’obbligo scolastico e la scarsa efficienza delle scuole portarono a un quadro sconfortante, emerso dall’inchiesta Corradini di inizio ‘900. Ne emergono: - Gravi carenze linguistiche - Maestri che usano in classe il dialetto o un mix dialetto/lingua letteraria - Dialettofonia diffusa - Imposizione di un modello letterario di italiano Nel primo novecento si innesta la politica linguistica del fascimo, che persegue un ideale nazionale e purista (antidialettalismo, lotta alle lingue di minoranze e ai forestierismi). 2 Nel secondo dopoguerra il boom economico fu un potente fattore di mobilità interna, di incontro di lingue e di culture → aumenta l’incidenza della scuola, i livelli di scolarizzazione aumentano e a percentuale di analfabeti diminuisce, passando dal 75% del 1871 al 12% circa del 1961. Nel 1962, con l’introduzione della scuola media unica e l’obbligo a 14 anni, si affacciò sulla scuola un nuovo pubblico, composto dai figli delle classi operaie e contadine. La scuola, comunque, aveva cambiato volto: i maestri avevano smesso di parlare in dialetto, ma il modello di italiano usato in classe era arcaico, definito da De Mauro “antiparlato”. Il problema linguistico, però, restò centrale per i bambini dialettofoni, costretti dalla scuola a parlare e scrivere in una lingua “straniera” → le loro insufficienze vennero interpretate come frutto di disattenzione, scarsa applicazione allo studio e scarsa intelligenza, e il risultato fu un pesante abbandono scolastico. 1.3 I maestri Nel 1967 si colloca Lettera a una professoressa → il testo si pone come atto di nascita di una critica radicale alle modalità di insegnamento linguistico. Si tratta di un interessante libro collettivo scritto dagli allievi della scuola di Barbiana, scuola popolare allestita per fornire l’istruzione obbligatoria ai bambini di Barbiana, villaggio tagliato fuori da altre possibilità educative. Il testo si presenta come una lunga lettera che un ragazzo di Barbiana scrive a una professoressa innominata, simbolo delle ottusità delle arretratezze del sistema scolastico italiano. “Tutti i cittadini sono uguali senza distinzione di lingua”. L’ha detto la costituzione pensando a lui. Ma voi avete più in onore la grammatica che la Costituzione. Don Milani ritiene che i poveri, a causa del diverso retroterra linguistico, siano privati della possibilità di partecipare in modo attivo alla vita sociale e politica della comunità. Principali accuse alla scuola dell’epoca: - Scarsa considerazione per lingua e cultura dei poveri → conseguenza: emarginazione dei figli dei contadini e degli operai - Convinzione che gli strumenti linguistici delle classi subalterne siano limitati → non è abbassando il tiro che si fanno gli interessi dei poveri! Bisogna insegnare a tutti l’uso di uno strumento linguistico ricco Le cause del fallimento della scuola, dunque, sono da ricercare in una serie di fattori: - Modello di lingua proposto dalla scuola, lontano dalle abitudini delle classi povere e anacronistico - Lingua proposta è veccia e ipocrita - I richiami culturali proposti dalla scuola fanno tutti riferimento alla borghesia → no attenzione alla cultura del popolo - Assenza tra gli insegnamenti dell’”Arte dello scrivere”. A Barbiana si mette a punto un metodo pionieristico, modello di tanti futuri laboratori di scrittura. L’idea che sta alla base è che il processo di scrittura sia un fenomeno complesso e scomponibile → bisogna raccogliere le idee, riesaminarle, filtrarle, selezionarle sulla base del proprio progetto di scrittura, attuare poi una revisione. La Lettera dà anche indicazioni sul piano linguistico, affermando che lo stile di scrittura dovrebbe prevedere una sintassi breve e asciutta, lessico comune, aggettivazione essenziale, chiarezza e comprensibilità. → il tema di italiano viene sottoposto a critiche roventi. La Lettera ebbe un impatto enorme, suscitando sia simpatie che opposizioni. Altre figure esemplari di maestri: - Bruno CIARI: maestro e organizzatore culturale, interprete del pensiero educativo messo a punto in Francia da Freinet. Le innovazioni apportante riguardano un’atmosfera di classe serena e rilassata, la corrispondenza interscolastica e la tipografia scolastica. La pedagogia cooperativa di Freinet ebbe largo seguito; nel 1951 si costituì in Italia la Cooperativa della Tipografia a Scuola (CTS), che si trasformò poi in Movimento di Cooperazione Educativa (MCE) → fu una delle prime associazioni di insegnanti a porre in Italia il problema di una rinnovata educazione linguistica. Da qui scaturisce la tecnica del “testo libero orale”, che si rivela preziosa come stimolo all’uso orale del linguaggio, con l’obiettivo di dare voce ai propri pensieri conferendogli una forma scritta. Ciari rifiuta l’idea di una scrittura scolastica artificiosa, finalizzata solo alla valutazione → scrittura come trasposizione del pensiero, motivante. 5 prima volta nel 1975 ed ebbero il pregio di raccogliere le spinte innovatrici dei linguisti. È un documento in dieci punti, scritto con un linguaggio semplice e diretto. - 1-4: principi generali cui ogni insegnante deve rifarsi nella sua azione educativa. Centralità del linguaggio verbale nella vita di ogni essere umano, tanto che solo lo sviluppo equilibrato del corpo e dei rapporti affettivi e sociali può garantire un adeguato sviluppo delle capacità linguistiche. La pedagogia linguistica inoltre è efficace se è democratica: la scuola deve perseguire il rispetto e la tutela di tutte e varietà linguistiche. - 5-10: tesi dedicate all’analisi critica della pedagogia linguistica tradizionale, cui segue la proposta di una nuova pedagogia linguistica. Chiudono due tesi politiche sulla formazione degli insegnanti e sulle responsabilità della classe politica nel gestire l’opera di rinnovamento della scuola. Il fine è l’insegnamento a tutti dell’italiano comune, perché solo il suo pineo possesso consentirà a tutti i cittadini una vita sociale e personale attiva. Il percorso per raggiungere l’italiano comune, però, deve essere rispettoso del patrimonio linguistico e culturale di partenza degli allievi. Il mondo della scuola e della ricerca, comunque, reagì con interesse a questa sfida. 1.5 Dopo le Dieci Tesi Dopo la loro pubblicazione fiorirono iniziative di formazione per insegnanti e gruppi di studio volti al rinnovamento linguistico. Uno degli effetti fu la sfiducia nei confronti delle pratiche didattiche tradizionali, ormai considerate inadeguate a rispondere ai bisogni linguistici di una scuola di massa. Nel Veneto per esempio si costituì un gruppo GISCEL molto attivo, dove furono tenuti decine di corsi di aggiornamento per docenti. → incontri → per la prima volta gruppi di insegnanti iniziarono a chiedersi cosa la linguistica moderna potesse dire all’insegnamento delle lingue. Dopo la pubblicazione, quindi, sorse un comune terreno di interesse tra linguisti e docenti, testimoniato da decine di pubblicazioni e saggi che videro la luce a partire dal ’75. Va menzionata l’attività di Monica Berretta, che ebbe il merito di coniugare preparazione linguistica e costante tensione didattica, essendo poi chiamata a contribuire alla riforma della scuola media realizzata negli anni 70. In questo quadro di rinnovamento si collocano anche molti libretti ricchi di suggerimenti, scritti da insegnanti ma che ebbero solo circolazione locale. Questo interesse verso l’insegnamento delle lingue rinvigorì con l’uscita dei nuovi programmi per la scuola media (79) e per la scuola elementare (85). Nel 1982 il GISCEL organizzò il suo primo convegno nazionale e da allora ogni due anni un gruppo regionale a turno organizza un convegno su un tema di educazione linguistica. Gli atti sono una preziosa fonte di documentazione. Questo fermento attorno all’educazione linguistica, però, non ha mai riguardato la totalità della scuola italiana → indolenza delle istituzioni che è legata a un’opposizione al rinnovamento di contenuti e metodi. 2. LA VARIABILITÀ LINGUISTICA 2.1 La “scoperta” del plurilinguismo Uno dei temi ricorrenti della nuova educazione linguistica fu la scoperta del plurilinguismo, termine con cui si intende la compresenza sia di linguaggi di tipo diverso (verbale, gestuale, iconico ecc), sia di idiomi diversi, sia di diverse forme di realizzazione di uno stesso idioma. Quindi il plurilinguismo comprende: - Diversi tipi d linguaggio di cui dispone la specie umana - Diverse lingue di cui ogni comunità umana può disporre - Diverse varietà che una lingua può presentare Ciascun parlante è di solito in grado di padroneggiare più linguaggi e più idiomi diversi. Nella scuola pre anni 70 dominava la vocazione al monolinguismo, denunciata dalla Lettera e dalle 10 Tesi, in cui si afferma che la scuola tradizionale trascura il retroterra linguistico del discente, trasformando la diversità in svantaggio. 6 La scuola quindi dovrebbe partire dal retroterra linguistico e culturale, operando su esso ampliamenti e aggiunte. L’obiettivo quindi è quello di educare i giovani al rispetto della varietà linguistica. In questi anni gli insegnanti iniziarono a confrontarsi col tema della variabilità linguistica (dialetti varietà regionali, italiano popolare, registri ecc). 2.2 Il “repertorio linguistico degli italiani”: lingua unitaria e dialetto/dialetti Un insegnante di italiano deve conoscere il plurilinguismo della società italiana per poter decidere con cognizione di causa quali interventi attuare. Uno dei crucci dei docenti di italiano infatti è quello di individuare la norma linguistica cui riferirsi nell’insegnamento, cosa fare degli errori di lingua ecc. Repertorio linguistico degli italiani = insieme delle varietà di lingua a disposizione della comunità italofona. I due sistemi fondamentali del repertorio sono la lingua nazionale e i dialetti; la differenza tra lingua e dialetto non ha ragioni linguistiche, perché anche il dialetto possiede un suo sistema fonetico/fonematico, regole morfologiche e sintattiche precise ecc. → La differenza è di ordine funzionale e si basa sulle vicende storiche della società. Una lingua gode di uno statuto riconosciuto da un ordinamento statale, di una codificazione riconosciuta, ha una tradizione letteraria ed è il mezzo di comunicazione interregionale. I dialetti invece sono legati ad aree circoscritte e ad ambiti limitati, soprattutto orali. La contemporanea presenza di lingua nazionale e dialetti è stata definita da qualcuno come “diglossia”, termine che indica la contemporanea presenza di una varietà linguistica alta (usi scritti e formali) e una varietà bassa (usi parlati informali). La situazione italiana, però, è più complessa, perché lingua nazionale e dialetto non sono due varietà di una stessa lingua. Si parlerà quindi di “bilinguismo”, anche se la distanza tra lingua e dialetto è minore rispetto ai classici repertori bilingui. Berruto dunque definisce il repertorio linguistico degli italiani come “bilinguismo a bassa distanza strutturale”, dove il rapporto italiano/dialetto è definito come “dilalia”, che presuppone l’impiego di entrambe le varietà nella conversazione quotidiana, con possibilità di sovrapposizione. Anche il dialetto va considerato come un insieme di varietà: ne troviamo di più basse (dialetti locali) e di più alte (koinè dialettale, ovvero un dialetto depurato dai tratti locali più vistosi e che accoglie suoni e forme di grandi centri regionali). In tutti i dialetti italiani cmq sono in atto processi di italianizzazione, sia a livello fonologico che lessicale - Qual è la consistenza numerica dei parlanti dialettofoni nella comunità nazionale? Istat fa dei rilevamenti periodici → pag 68, tabella che documenta – per il periodo 1987/2006 – l’aumento nell’uso dell’italiano e la regressione nell’uso del dialetto, pur con differenze tra le varie aree geografiche e le varie fasce d’età. Si conferma la tendenza dell’aumento di un comportamento bilingue. Indagini mirate mostrano la presenza diffusa e persistente del dialetto anche nelle fasce giovanili, quindi in rete, negli scambi tra giovani e nei messaggi (obiettivo: maggior coloritura). In molti casi (es. messaggi) siamo di fronte a impieghi nuovi del dialetto, perlopiù in forma scritta e difficili da immaginare qualche anno fa, quando il dialetto era usato perlopiù in conversazioni orali. Berruto si chiede “dove va il dialetto?” → la tendenza non è quella della “morte dei dialetti”! oggi sapere un dialetto è una possibilità in più nel repertorio comunicativo individuale. Lo scenario che si ha è quello di una pacifica convivenza tra italiano e dialetto, ognuno consolidato nei propri domini ma cmq con possibilità di sovrapposizione nei domini di mezzo. Italiano e dialetto quindi non devono apparirci come domini contrapposti, bensì come varietà interne a un continuum unitario (De Mauro). 2.2.1 Dialetto e scuola Negli anni 70 i dialetti erano ancora molto diffusi, tanto che nel 1974 il 51% degli intervistati dichiarava di parlare in casa sempre il dialetto. Il dialetto dunque era la L1 di questi parlanti e l’italiano si configurava come L2, da apprendere a scuola (e per la scuola). Molti videro in ciò la causa dei tanti abbandoni scolatici. 7 La formula proposta dalle 10 tesi sarà quella di educare al plurilinguismo. Alberto Mioni ci dice che secondo i principi UNESCO ogni bambino ha diritto di imparare a leggere e scrivere nella sua madrelingua, ma come fare se questa è il dialetto? E soprattutto, quale dialetto usare? Quello della singola località o di un grande centro? Ciò crea ovviamente problemi per i bambini di altra provenienza regionale. Per Paola Benincà, per esempio, il dialetto deve essere usato al massimo come primo oggetto di riflessione linguistica, messo a confronto con l’italiano → su queste posizioni si mantennero i fautori dei programmi per la scuola media varati nel 1979, che riconoscevano la necessità di un’educazione plurilingue. Francesco Sabatini, ad esempio, ammette l’uso del dialetto in classe come modalità provvisoria di comunicazione, soprattutto in ambienti di forte dialettofonia → sfruttare il dialetto come base su cui innestare un uso sempre più sicuro della lingua italiana. La nuova educazione linguistica, infatti, ritiene che l’uso concreto degli idiomi locali non pregiudichi affatto l’assimilazione dell’italiano. L’esigenza di un’educazione plurilingue viene realizzata dalla scuola attraverso tre filoni: - Uso del dialetto per la narrazione di fatti di vita locale e per forme di drammatizzazione - Ricerca e recupero del dialetto attraverso interviste a parlanti anziani - Riflessione contrastiva italiano/dialetto anche in direzione storico-comparativa. Si tratta cmq di esperienze esemplari che hanno interessato fasce ristrette di docenti - Indagine IEA 1990-92, che misura i livelli di alfabetizzazione in studenti tra 9 e 14 anni. Ne emerge che la presenza di più idiomi sembra incidere positivamente sul profitto, creando attorno al bambino un ambiente linguistico più ricco e stimolante. È probabile però che, in assenza di una preparazione sociolinguistica e dialettologica dei docenti, molti abbiano preferito espellere del tutto dalla scuola l’uso del dialetto. È necessario però un atteggiamento diverso: la rivalutazione della cultura e della lingua dei ragazzi passa attraverso le analisi contrastive tra lingua e dialetto, operazione che agisce su due piani → restituisce dignità al dialetto e aiuta un passaggio guidato e consapevole verso l’italiano. La scuola dovrebbe far sì che tutto possiedano la lingua nazionale e il dialetto locale e che li sappiano usare in maniera funzionalmente differenziata (Berruto). - Proposta di insegnamento del dialetto. Sabatini: parlare di “insegnamento del dialetto” non ha senso: il dialetto si può solo imparare direttamente da chi lo usa davvero per scopi pratici. 2.3 Le parlate alloglotte Oltre ai dialetti, sul territorio nazionale troviamo le parlate alloglotte, cioè lingue parlate da piccole minoranze. Secondo Francescato sono circa 15 e interessano circa il 4,8% della popolazione italiana. Si tratta di minoranze che hanno come L1 una lingua diversa da quella nazionale; siccome devono imparare anche la lingua della nazione, però, si instaura tra le due lingue una situazione di bilinguismo. Si tratta di una serie di aree geografiche di antico insediamento, alcune di confine, altre isole linguistiche di piccola dimensione. Sul piano della tutela e della vitalità delle lingue minoritarie bisogna distinguere tra: - Lingue delle aree di confine, che a partire dal secondo dopoguerra godono di una speciale politica di tutela - Isole linguistiche, oggetto di un intervento legislativo varato nel ’99. Legge 482/99 con cui lo stato italiano riconosce le realtà alloglotte, stanziando fondi per promuovere la protezione delle lingue e delle culture locali. A 10 anni dalla legge è stata fatta un’inchiesta conoscitiva da parte del MIUR: ne emerge un quadro variegato con alcuni punti di forza e molti punti di debolezza. Emerge inoltre l’avanzata dell’italofonia esclusiva nelle nuove generazioni, laddove la lingua minoritaria non sia più presente nel contesto familiare. La legge, inoltre, riguarda le minoranze linguistiche storiche → non contempla le minoranze recenti, spesso addensate in piccole comunità linguisticamente omogenee. 10 Tra i due estremi troviamo una vasta gamma di situazioni che passano da un livello di formalità all’altro, senza che ci siano linee nette di demarcazione tra l’uno e l’altro. Berruto riporta un esempio basato sul vb morire. Il registro molto formale coincide quasi del tutto con l’italiano scritto formale. I tratti linguistici tipici del registro alto sono: - A livello fonologico: bassa velocità d’eloquio e pronuncia accurata - A livello morfosintattico e testuale: max esplicitezza verbale e scarso ricorso all’implicito, pianificazione del testo, uso frequente di connettivi, sintassi elaborata, scarsi riferimenti al contesto - A livello lessicale: variazione spinta, tendenza alla verbosità, preferenza per termini specifici, alto impiego di parole complesse e cumulo di morfemi derivativi. Molto spesso però questi registri hanno tratti che li rendono difficilmente comprensibili a parlanti con bassa o media scolarizzazione. I registri informali sono invece caratterizzati da: - A livello fonologico: alta velocità di eloquio e scarsa accuratezza nella pronuncia, semplificazione di nessi difficili, realizzazioni a marca regionale, uso accentuato di prosodia e tratti paralinguistici - A livello morfosintattico e testuale: ricorso all’implicito a causa della condivisione col destinatario del medesimo contesto comunicativo, scarsa pianificazione del testo, sintassi spezzata e frasi brevi. - A livello lessicale: scarsa variazione, alto tasso di ripetizioni, di parole generali e lessico colloquiale. Lo stesso contenuto, quindi, può essere espresso secondo una scala che va dalla minima alla massima formalità. Troviamo poi i sottocodici, cioè varietà caratterizzate da un lessico particolare, legato a particolari attività professionali o ambiti di studio. Per Sobrero una lingua specialistica deve rispondere a criteri quali: precisione, economia e neutralità emotiva. Il maggior settore di differenziazione rispetto a una lingua comune è il lessico. Dal punto di vista morfosintattico troviamo largo uso dello stile nominale, del passivo e delle forme impersonali, mentre sul piano testuale troviamo uno schema compositivo ben organizzato, preferenza di anafore trasparenti e uso di connettivi meta-testuali (come abbiamo già visto, come si vedrà ecc) utili per connettere i diversi pezzi di cui si compone il testo. Berruto parla anche del notiziario radio-televisivo, genere testuale particolarmente complesso. Usa un registro sostanzialmente formale e un sottocodice burocratico. La sua natura ambigua di testo scritto/orale consente commistioni di registri e sottocodici diversi, con intrusioni di parlato informale o di tecnicismi esasperati. 2.4.5 La variazione diamesica Concerne il mezzo o canale di trasmissione del messaggio, che può essere affidato all’oralità o alla scrittura. La differenza scritto/parlato è da legare alla differente natura del mezzo di trasmissione, che impone scelte diverse. Nello scritto c’è possibilità massima di pianificare il discorso, che può essere anche ritoccato e corretto. Nello scritto inoltre non possono essere trasferiti tratti propri del parlato come intonazione, enfasi ecc. Il parlato invece è ricco di correzioni, esitazioni e cambi di prospettive, quindi lo stile risulterà meno elaborato. Ovviamente anche qui parlato e scritto sono solo i due estremi di una scala che presenta una vasta gamma di varietà intermedie. - Tratti tipici del parlato-parlato: conversazione faccia a faccia che prevede la presenza degli interlocutori, l’uso di mezzi paralinguistici, cinesici e prossemici, compresenza di parlante e destinatario, ricorso al non detto, uso di pause e silenzi informativi (vuoto fonico ≠ vuoto semantico). Presenza di cambiamenti di programma nella pianificazione, con autocorrezioni, sintassi spezzata e scarsa variazione lessicale. - Tratti tipici dello scritto: si va da varie forme di parlato sorvegliato e monologico a varie forme di parlato-scritto (es. parlato di una conferenza o di una lezione accademica). La descrizione dello scritto 11 coincide con la descrizione dell’italiano standard, almeno in prospettiva tradizionale; oggi però le grammatiche si basano non solo su una lingua di cultura, bensì sull’italiano dell’uso. Anche il parlato comunque possiede una sua struttura interna complessa, solo che è una struttura diversa da quella dello scritto. Ovviamente nelle sue realizzazioni parlate la lingua appare meno controllata e controllabile, più esposta al cambiamento. È necessario in quest’ottica arricchire le banche dati sul parlato, che ci consentono di studiare una serie di fenomeni linguistici. Lorenzo Renzi ha pubblicato nel 2012 un volumetto in cui tenta una descrizione dei cambiamenti in atto nella lingua italiana, tra cui troviamo per il parlato: - Testualità: frammentarietà sintattica, enunciati brevi accostati senza essere gerarchicamente organizzati. Presenza di pause di esitazione, auto interruzioni, cambi di programma, false partenze, pause, ricorso all’implicito, presenza di segnali discorsivi (eh, insomma, così) - Sintassi: paratassi preferita all’ipotassi, subordinazione esplicita, coordinazione, uso del che polivalente e del che come connettivo generico. Così usato come introduttore di frase, presenza di dislocazioni a dx e sx, frasi con tema libero, anacoluti, frequenza di forme interrogative e frasi scisse. - Morfologia: sistema verbale semplificato e ridotto, con sottoutilizzazione di alcuni tempi e assegnazione di un maggior carico funzionale ad alcuni tempi e modi, soprattutto dell’indicativo. I pronomi personali soggetto vengono usati con maggiore frequenza rispetto allo scritto per dare più enfasi al discorso; troviamo poi ridondanza pronominale, clitico maschile gli usato anche per il femminile, che usato a posto di il/la quale, verbi pronominali, concordanze a senso tra soggetto e verbo, caduta di sillabe non accentate, apocopi e aferesi. - Lessico: scelte legate all’esigenza di comunicare in modo efficace e al tempo stesso veloce. La mancanza ddi pianificazione e la velocità di eloquio portano a una minor diversificazione nella scelta delle parole, ripetizione della stessa unità lessicale, superutilizzazione di parole dal significato generico. Troviamo poi uso di superlativi e formule di enfasi/accrescimento, iterazione del lessema (casa piccola piccola), rafforzamento della negazione, uso di diminutivi in -ino, uso del lessico interdetto. 3. MODELLO (O MODELLI?) DI LINGUA E NORMA 3.1 L’italiano standard e neo-standard La situazione della variabilità chiama in causa il problema del rapporto tra le diverse varietà in relazione alla definizione di lingua standard. Concezione ingenua di lingua standard, secondo cui una lingua assumerebbe la posizione di standard perché dotata, sin dall’inizio, di caratteristiche che le altre forme di lingua non hanno. In realtà, però, le cose stanno diversamente. La definizione di lingua standard è di natura extralinguistica: una lingua standard è quella varietà che in una comunità linguistica viene presa come lingua franca per la comunicazione tra parlanti di regioni o gruppi sociali diversi. Ciò che fa di una lingua una lingua standard sono ragioni storiche, che hanno a che fare con le vicende della comunità. Per quanto riguarda l’italiano, la storia è nota. Il toscano del 300 delle classi colte diventa lingua nazionale per adesione volontaria al toscano da parte delle élite intellettuali → questo non perché il toscano fosse “migliore”, ma perché fu apprezzato come lingua delle tre corone. Questa lingua è stata quindi presa a modello dalle classi colte delle altre regioni italiane → nella sua espansione il toscano ha incontrato le parlate locali e vi è stato un libero consenso da parte delle altre regioni, che hanno adottato la lingua compendo compromessi tra il toscano stesso e i dialetti. 12 La storia della diffusione del toscano ci mostra come l’italiano standard sia il frutto di una secolare opera di “contaminazione” del toscano da parte delle altre parlate locali, una specie di “fiorentino emendato”. Ma dove risiede oggi l’italiano standard? → Sobrero distingue: - Standard alto di base letteraria, diffuso nelle classi colte e nelle situazioni formali, e realizzato nello scritto più che nel parlato. Sobrero vede realizzata questa varietà negli scrittori contemporanei che hanno a cuore l’accuratezza della scrittura. È una lingua quindi generalmente scritta, usata dagli studiosi, dai giornalisti ecc e che segue la descrizione delle grammatiche normative - Standard basso, cioè l’italiano dell’uso medio. È la varietà “neo-standard” di cui aveva parlato Francesco Sabatini → italiano deputato a suo avviso a diventare l’italiano di domani, frutto di una ristrutturazione dello standard il neo-standard potrebbe coincidere con l’italiano parlato, dato che vi si ritrovano molti dei suoi tratti, presenti a pag. 119. Questi tratti prefigurano una varietà panitaliana, cioè una varietà di italiano normalmente usata da parlanti di ogni età e di ogni ceto o livello di istruzione. Parte dei tratti di questo italiano dell’uso medio era già presente nel sistema dell’italiano dei secoli scorsi, anche se respinta ai margini e interdetta dalla normalizzazione grammaticale cinquecentesca. Attualmente il neo-standard è la varietà posta al baricentro del sistema linguistico italiano. Sabatini indica l’italiano standard e l’italiano dell’uso medio come le uniche due varietà nazionali dell’italiano contemporaneo. A sua volta Lorenzo Renzi individua 30 tratti di innovazione, che divide in due gruppi: - Fenomeni di ordine linguistico superiore, che riguardano la struttura della frase - Fenomeni di ordine più basso, che non scalfiscono l’organizzazione linguistica. Es. dislocazioni, verbo avere preceduto da ci, verbo entrare preceduto da ci, dai come interiezione di meraviglia ecc. Fatti fonetici e fonologici dell’italiano contemporaneo: l’italiano è stata una lingua solo scritta per molti secoli; quando poi si è imposta l’esigenza di una lingua unitaria nazionale anche nell’oralità, si formò inevitabilmente una pronuncia caratterizzata da una forte interferenza della fonologia dlela parlata locale → è difficile definire una sola fonologia dell’italiano! Nessuna pronuncia regionale, dunque, è riuscita a diventare l’effettivo modello nazionale. Nella scelta di un modello di corretta pronuncia, i manuali di ortoepia, i dizionari ecc hanno adottato una varietà un po’ artificiale, che prende come base il toscano e lo depura dalle particolarità più strettamente locali. Di fatto – soprattutto al nord – si è diffusa una pronuncia basata sulla grafia, che tende a non attuare quelle distinzioni non rappresentate graficamente (es realizzazione aperta o chiusa di e ed o). Ma → anche movimenti di segno opposto: oggi si assiste infatti a un costante processo di standardizzazione, con eliminazione o sottoutilizzazione dei tratti più marcati a livello locale. Ipotesi di pronuncia: - Nora Galli de’ Paratesi: secondo lei si sarebbe imposto in Italia un tipo di pronuncia basato sul modello toscano, emendato dei tratti più locali e reinterpretato a nord-ovest (Milano) → forza di una comunità egemone dal pv economico e culturale che si va espandendo in Italia - Berruto: ribadisce la presenza di diversi accenti standard regionali, poi traccia una lista di tratti fonologici che si sono imposti a livello nazionale e ritiene che questo tipo potrebbe essere esemplato dalla pronuncia dei ceti colti settentrionali. - Canepari: nel suo Dizionario di pronuncia italiana inserisce ben sette varietà di pronuncia Nello studio di una lingua ovviamente è fondamentale anche il riferimento alla prosodia, cioè ad elementi come schema intonativo, accento, quantità, tono ecc che definiscono il tono della lingua. 15 3.4 Criteri normativi Un primo criterio di giudizio in fatto di norma è quello “razionalistico-logicizzante”, secondo cui sarebbe illogica la forma suicidarsi (sui-si → il latino sui però è diventato opaco alla coscienza linguistica dei parlanti che hanno nuovamente riflessivizzato il pronome personale) ma anche la doppia negazione. Almeno a giudicare dai quesiti posti a “La Crusca per voi” dai lettori, le preoccupazioni logicizzanti risultano abbastanza diffuse tra i parlanti e, soprattutto, tra gli insegnanti. Come afferma Nencioni, però, questo logicismo non si adatta affatto alla natura delle lingue naturali, che sono il prodotto di una lenta sedimentazione storica e in cui convivono forme antiquate e moderne ecc. Un altro criterio è quello “letterario”, che ha goduto per secoli di un’adesione incondizionata. Ora però, come ritengono tutti i maggiori linguisti, la letteratura non è più la sola bussola cui affidarsi. Serianni ad esempio esprime forte perplessità circa la validità del criterio letterario → non ritiene accettabile l’uso letterario arcaico. Ritiene che sia necessario rifarsi all’uso sociolinguisticamente più prestigioso e si affida alla “personale sensibilità del docente”, che saprà addestrare i suoi allievi all’uso dei registri richiesti dalle diverse situazioni comunicative. Per Serianni, inoltre, vanno considerati “errori” quelle forme che contrassegnano un tipo di italiano colloquiale connotato geograficamente e che possono suscitare reazioni sfavorevoli in altre regioni. Ognuno di noi pronuncia i suoni dell’italiano con una più o meno forte coloritura regionale, quindi ne consegue che in certe situazioni le pronunce più connotate regionalmente possono essere notate e giudicate negativamente dagli altri parlanti. La bussola, in questo caso è l’educazione alla consapevolezza e al rispetto delle varietà. Sobrero ricorda che ci sono realizzazioni normali di diverse varietà di lingua, e di volta in volta il parlante dovrebbe scegliere la varietà sulla base dell’adeguatezza al quadro sociolinguistico. La nuova pedagogia linguistica inaugurata dalle 10 tesi ha come regola principale la funzionalità comunicativa. La scuola dunque – secondo Serianni – dovrà educare al riconoscimento e all’uso di tutte le varietà in rapporto alle diverse situazioni comunicative, puntando quindi allo sviluppo armonico di tutte le abilità. 3.5 Norma e grammatiche scolastiche Qual è l’atteggiamento prevalente nei manuali scolastici rispetto al problema della norma? Nel 1970 Simone e Cardona analizzarono un campione di grammatiche in uso nella scuola dell’obbligo e presentarono i risultati in un saggio breve che, prima delle dieci tesi, segnalava ostilità nei confronti dell’insegnamento grammaticale tradizionale. 1997 → ricerca di Giuliana Fiorentino su una serie di testi in uso nella scuola media inferiore e nel biennio superiore. - Simone e Cardona: la concezione dominante nelle grammatiche analizzate è che la lngua è una e unica. Non vengono riconosciute varietà dialettali o regionali, né si fa parola di varietà sociali o di classe. Non si parla di registri di lingua nè della distinzione sincronia-diacronia. Si tratta quindi di una norma acronica e astratta, che però il ragazzo è costretto a studiare. - Fiorentino: il tema della variabilità non è pienamente sfruttato e le parti dedicate alla variabilità restano slegate tra loro Serianni → analizza 29 manuali in uso nella scuola secondaria di I grado e nel biennio delle superiori negli anni 1998-2009. Nota un miglioramento nella qualità delle opere, ma sottolinea che moli testi ignorano alcuni fenomeni tipici degli usi parlati della lingua → spia di una certa prudenza e del permanere di comportamenti sanzionatori. Le grammatiche scolastiche quindi continuano a proporre un modello di lingua che corrisponde solo in parte all’italiano comunemente usato → causa è anche la scarsa qualificazione del corpo docente, su cui bisogna investire. 16 4. LA GRAMMATICA NELL’EDUCAZIONE LINGUISTICA 4.1 La grammatica sotto accusa Nel 1971 Simone e Cardona pubblicarono un saggio che suonava come critica severa nei confronti delle grammatiche scolastiche allora in circolazione. Dopo di loro molti linguisti e grammatici tornarono sull’argomento, concordi sulla critica più o meno radicale all’insegnamento grammaticale tradizionale. Due le accuse principali: - Inaffidabilità scientifica dei contenuti proposti - Inefficacia rispetto agli obiettivi che si credeva di poter raggiungere I primi a cadere furono i contenuti grammaticali in senso stretto, le definizioni adottate, le classificazioni proposte ecc. Tra le convinzioni allora in voga troviamo: - Italiano come sistema perfettamente unitario, con lessico, morfologia, sintassi e fonologia stabiliti una volta per tutti - Sistema dell’italiano basato sul toscano, anzi sul fiorentino colto, codificato dall’uso di autori canonici e dagli studi di grammatici e lessicografi - Dialetti italiani visti come rozze degenerazioni della lingua italiana - Le deviazioni dal canone prestabilito, come neologismi, frammatica semplificata dell’italiano popolare, pronunce regionali ecc sono viste come deviazioni da estirpar Tutto ciò che non era riconducibile a quel sistema astratto codificato dalla tradizione grammaticale era considerato deviazione, errore e abuso. Nell’approccio tradizionale era completamente assente un’attenzione di tipo contrastivo, quindi di confronto tra sistemi linguistici (anche in rapporto ai dialetti). L’ovvia conseguenza è il carattere prescrittivo proprio delle grammatiche scolastiche del tempo. Chi intervenne nel dibattito linguistico degli anni ’70 denunciò un pesante disordine soprattutto nell’ambito della morfologia e della sintassi. Gli allievi infatti venivano perlopiù addestrati a riconoscere le diverse categorie e sottocategorie di cui si compone la lingua, attraverso pratiche tradizionali come analisi logica, analisi grammaticale e del periodo. I difetti principali riconosciuti alla grammatica tradizionale riguardarono: - Identificazione delle categorie morfologiche e sintattiche, per cui vengono proposti criteri diversi: il criterio formale, quello nozionale-semantico, quello distribuzionale e quello funzionale. La critica riguarda soprattutto il criterio nozionale-semantico, il preferito dalle grammatiche tradizionali ma tuttavia pieno di incongruenze - Alcune nozioni grammaticali considerate universali hanno in realtà realizzazioni diversissime da lingua a lingua. Ci sono lingue tipologicamente lontane per le quali diventa difficile persino parlare di verbo o di nome - Il criterio nozionale-semantico può portare a un’inutile proliferazione di categorie e sottocategorie - Il tenace attaccamento al modello tradizionale è in parte determinato dalla presenza del latino. Analisi logica e grammaticale infatti servono perlopiù a insegnare la morfologia latina, ma abolito l’insegnamento del latino dalla scuola dell’obbligo, la grammatica tradizionale ha iniziato a sembrare “inutile”. - Assenza di speciale considerazione per il lessico, assenza di distinzione tra complementi necessari e facoltativi (introdotta poi dalla grammatica valenziale), disattenzione per le funzioni della lingua, assunzione di un modello di lingua scritto e formale. Da qui si deduce quindi la fragilità delle basi teoriche proprie della grammatica tradizionale. Un’altra accusa rivolta al modello tradizionale è l’incapacità di garantire a tutti gli allievi, soprattutto quelli provenienti da classi inferiori, il possesso della lingua italiana e il suo corretto uso nel parlare e nello scrivere. 17 È infatti necessario creare le condizioni adatte per lo sviluppo delle capacità linguistiche di base e l’insegnamento della grammatica secondo il modello tradizionale non appare il mezzo più appropriato per raggiungere questo scopo. → cercare altrove i mezzi per far imparare la lingua al ragazzo. Maria Luisa Altieri Biagi commenta sottolineando la necessità di attivare in classe “processi comunicativi reali”, dato che a comunicare si impara comunicando. Monica Berretta sottolinea invece la necessità di adattare gli interventi sulla base dell’età degli studenti e sulla base degli studi relativi a tempi e modalità di acquisizione della lingua materna. 4.2 Le risposte: dal rifiuto della grammatica alla ricerca di “altre” grammatiche Le risposte a queste critiche furono svariate. Molti docenti, disorientati, più che insegnare nozioni anacronistiche arrivarono a tralasciare – del tutto o in parte – l’insegnamento della grammatica. Questo processo di “messa in soffitta della grammatica” è la logica conseguenza del radicale ripensamento sulla validità del modello tradizionale. ➔ Ricerca di un nuovo modello da contrapporre al modello analitico della grammatica tradizionale. In questa ricerca ebbe un ruolo chiave il linguista Raffaele Simone, che al modello tradizionale preferisce un modello generativo, che parte da un insieme finito di entità iniziali e produce tutte le entità terminali facenti parte della lingua data. → per lui l’optimum sarebbe di inserire tecniche generative nella didattica delle lingue. Visto che l’orientamento esplicito nell’insegnamento della lingua ha portato a presentare non materiali linguistici ma nozioni teoriche mediante cui incasellare quei materiali, si preferisce un orientamento implicito, maggiormente in grado di sviluppare la competenza linguistica degli allievi. Simone dunque preferiva che si rinunciasse alla grammatica a favore di un’esposizione ricca e controllata alla lingua → il cervello umano avrebbe poi ricavato dall’input i meccanismi generativi tramite cui produrre frasi e interpretare quelle ricevute. Simone non era però soddisfatto della soluzione cui era pervenuto, tanto che continuò a riflettere insistentemente su questi temi, fino a mettere mano a un testo di grammatica destinato alla scuola dell’obbligo. Simone provò a tradurre le sue idee in un libro che non chiamò “grammatica”, ma Libro d’italiano (1973) e con il quale si proponeva di “risvegliare il meccanismo che produce il desiderio di creare significati e di dargli forma”. Il suo tentativo quindi fu quello di cercare contenuti in grado di innescare la crescita linguistica, di ampliare il repertorio dei significati dando spazio a quella creatività che è alla base della capacità umana di comunicare. Il libro ebbe un discreto successo tra gli insegnanti di italiano, ma molti si sentirono anche autorizzati a una “degrammaticalizzazione” dell’insegnamento linguistico, di cui Simone si assume parte della responsabilità. Monica Berretta invece non ebbe mai dubbi sulla necessità di fare grammatica a scuola. La studiosa diresse la sua attenzione su alcuni dei modelli grammaticali presenti nel panorama linguistico internazionale del tempo, al fine di cercare un’alternativa plausibile al modello tradizionale (funzionalismo di Martinet, grammatica valenziale di Tesnière, strutturalismo americano di Bloomfield, grammatica generativo-trasformazionale di Chomsky, linguistica testuale ecc. Di ogni modello vengono presentati e discussi i nodi centrali, i punti di forza e di debolezza, ma anche le applicazioni in chiave didattica. Ne emerge un quadro stimolante ma problematico, dato che ogni modello presenta dei pregi e difetti grandi e piccoli. Le conclusioni invitano alla massima prudenza. Il gruppo che fa capo al CNR di Roma (Domenico Parisi e suoi collaboratori) entra con forza nel dibattito sull’educazione linguistica e sul modello grammaticale da assumere, facendosi promotore 20 Oltre che alla fonologia e alla morfosintassi, dunque, si dovrebbe far riferimento alla sociolinguistica, alla dialettologia, alla storia della lingua, alla psicolinguistica, alla pragmatica, alla linguistica del testo ecc. Una conseguenza pratica si ha nei libri di testo destinati alle scuole, soprattutto in riferimento alla loro mole. Libro di Italiano di R. Simone proponeva un discorso grammaticale in sole 281 pp, mentre nel 1991 lo stesso autore scrive un nuovo manuale che arriva a 655 pp. I contenuti di questi nuovi manuali potrebbero essere definiti come la realizzazione del programma di Renzi e delle Dieci Tesi → rivisitazione e ampliamento della grammatica tradizionale alla luce delle nuove acquisizioni dell’EL, cui si aggiungono i temi della variabilità e della funzione sociale, storica ecc della lingua. L’ampliamento dei confini della grammatica ha portato ance a una modifica degli obiettivi da raggiungere. Francesco Sabatini individua tre ordini di obiettivi: 1. Sviluppo delle capacità linguistiche 2. Potenziamento della formazione culturale. Ogni lingua, essendo strumento di una comunità, deve adattarsi a esprimerne tutte le esigenze di comunicazione. Le varietà linguistiche sono il risultato ella molteplicità delle relazioni umane dell’oggi, ma sono anche il prodotto storico di una civiltà. È quindi importante l’esplorazione dei dialetti e delle lingue locali, della lingua della tecnologia o della burocrazia ecc, con attenzione alla storia delle parole e al loro significato attuale. 3. Sviluppo cognitivo. La riflessione sulla lingua può avere un ruolo chiave nel migliorare le attività cognitive di base, attivando alcune capacità come osservazione, riconoscimento di analogie e differenze, ordinamento in categorie, istituzione di relazioni logiche, inferenze, generalizzazioni ecc che sono alla base dei processi di pensiero più maturi. Ciò ovviamente è possibile solo se alla base c’è una metodologia corretta, che parte dai dati per arrivare poi alle generalizzazioni. Sono in molti oggi a condividere questa impostazione, concentrandosi soprattutto sulla necessità di aiutare i ragazzi a pensare, anche perché la scuola dovrebbe essere la scuola della mente e della conoscenza, le quali non si esercitano a vuoto ma su specifiche forme di sapere, quindi anche sulla grammatica. Ai tre obiettivi di Sabatini ne va aggiunto un quarto, cioè che la riflessione sulla lingua materna fornisce un bagaglio di conoscenze e di tecniche di analisi spendibili in qualsiasi nuovo apprendimento linguistico. Sugli obiettivi indicati concordano oggi i documenti ufficiali, ad esempio le Indicazioni per il curriculo per la scuola dell’infanzia e per il primo ciclo di istruzione, che hanno sostituito i Programmi di italiano del 1979 (scuola media) e del 1985 (elementari). Anche il Quadro di Riferimento della prova di italiano messo a punto dall’INVALSI è un testo su cui sarebbe difficile non essere d’accordo. 4.3.2 Il dibattito attuale: punti fermi e nodi irrisolti Colombo ci dice che il vero punto debole resta la riflessione sulla lingua → l’ambito della morfosintassi resta ancorato in gran parte alla ripetizione acritica di vecchi stereotipi → quadro sconfortante con contenuti e pratiche obsolete. Le grandi grammatiche di riferimento sono uscite in ritardo e i contenuti di queste opere faticano ancora a raggiungere il mondo della scuola nel suo complesso. Riusciranno a raggiungerlo solo quando i futuri insegnanti li avranno studiati nelle aule universitarie, ponendosi dunque come motore di rinnovamento per i contenuti grammaticali in senso stretto. 21 Un’altra questione di fondamentale importanza è quella relativa al curriculo, quindi alle modalità con cui distribuire conoscenze, competenze e abilità nei tre livelli in cui viene praticata la riflessione grammaticale (elementari, medie e biennio superiori). La situazione attuale è sconfortante, dato che si fanno dappertutto le stesse cose. Colombo suggerisce un curricolo plausibile che punta ad evitare la ripetizione di argomenti. Serianni, analizzando le grammatiche in uso nella scuola media sottolinea che gli argomenti sono gli stessi, presentati perlopiù nella stessa sequenza. In ogni ciclo si fa più o meno tutto, poi si ricomincia da capo nel ciclo successivo, senza attenzione particolare per la difficoltà di alcuni concetti né per il grado di maturazione degli allievi. Il risultato è un’ignoranza grammaticale generalizzata. Per avere successo qualunque insegnamento deve essere fondato su un curricolo ben motivato, alla cui definizione concorrono: - Selezione dei contenuti, che deriva dal fatto che non si può insegnare tutta la grammatica dell’italiano - Progressione dei contenuti, necessaria al fine di adattare la difficoltà dei contenuti proposti alle capacità linguistiche e cognitive degli allievi. Altieri Biagi → portare a galla il già saputo attraverso le risposte che il ragazzo dà a domande opportunamente formulate. → Idea secondo cui un programma di riflessione sulla lingua debba essere impostato come un percorso guidati di “scoperta” da parte dell’allievo, che va aiutato a “sollevare” a livello di consapevolezza esplicita quel sapere grammaticale inconsapevole che ha accumulato nel corso degli anni. Bisogna sempre tenere a mente che lo sviluppo linguistico del bambino è strettamente collegato al suo sviluppo cognitivo → se il bambino non è pronto a ricevere una certa forma e a individuarne la relativa funzione, non c’è strategia didattica che posa aggirare questo ostacolo. Certi fatti di lingua precocemente presentati (e in maniera semplicistica), infatti, si fissano in maniera indelebile nella testa dei bambini, arrivando talvolta a impedire la possibilità di un ripensamento critico più maturo. Ma quale rapporto deve esserci tra la riflessione sulla lingua e la pratica concreta dei testi? Francesco Sabatini ritiene che la riflessione vada fatta in momenti programmati e condotta su frammenti anche artificiali di lingua, quindi su modelli che consentano di isolare bene i fenomeni oggetto di studio. Maria Luisa Altieri Biagi invece insiste sull’importanza di una riflessione che parta dai testi e che permetta uno slittamento da una lettura superficiale a una lettura critica → il testo diventa la fonte originaria che fa sorgere una o più domande e che innesta ricerche e riflessioni. ➔ Probabilmente l’ideale sarebbe integrare le due diverse prospettive, con una riflessione sulla lingua che contempli anche le occasioni testuali. Un’altra domanda riguarda il quando iniziare e quando finire un percorso di riflessione sulla lingua. Nella sua proposta Colombo parte dagli ultimi anni della scuola elementare, mentre Morgese propone di fare attività ludiche e concrete sin dai primi anni delle elementari, così da potenziare le capacità osservative e classificatorie dei bambini. Si tratta quindi di proposte concordi sull’opportunità di una partenza precoce nella riflessione grammaticale, tanto che Berretta segnala la comparsa di capacità di riflessione sulla lingua già a partire dai due anni di età (autocorrezioni, giochi linguistici, domande fatte dal bambino ecc). L’attività metalinguistica quindi è un fatto naturale e spontaneo, che a scuola dovrebbe continuare a mantenere vivo. Come limite superiore si può condividere l’opinione di Sabatini, che ritiene che la riflessione sulla lingua debba coinvolgere anche il triennio delle superiori, dato che vi sono fenomeni linguistici legati alla sintassi superiore e alla testualità ormale che non sono comprensibili dagli allievi se non a livelli molto alti di scolarità. Inoltre il triennio delle superiori risulta un momento ottimale per 22 revisionare e sistematizzare tutto il sapere grammaticale acquisito negli anni → visione organica del complesso sistema – lingua. 5. LA DIMENSIONE TESTUALE 5.1 Introduzione Uno dei filoni più interessanti dell’EL che nasce dall’incontro tra la critica alle forme tradizionali e la cosiddetta linguistica del testo, che nasce nei primi anni 70 in Germania. In realtà una dimensione testuale è sempre stata presente nella scuola, dato che gli insegnanti di ita si confrontano da sempre con i testi, soprattutto testi “alti” di letteratura. Ora → ampliamento del concetto di testo a qualunque messaggio dotato di senso compiuto e autosufficiente, che sia scritto, orale, formale o informale. Uno dei campi favoriti dalla linguistica del testo è stato proprio il ritrovamento e la classificazione dei vari generi testuali; inoltre sono state studiate alcune regolarità di comportamento grammaticale e semantico che interessano tutti i tipi di testo → costituiscono la “tessitura testuale”. La linguistica testuale parte dall’assunto che sia il testo a costituire il dominio della grammatica, e non la frase. 5.2 Coesione e grammatica La coesione è l’insieme dei meccanismi grammaticali di cui ci serviamo per collegare assieme le varie parti di cui un testo si compone. Si tratta di meccanismi superficiali (realizzati linguisticamente) e dunque facilmente individuabili. 5.2.1 L’anafora È uno dei principali mezzi di cui le lingue dispongono per legare assieme porzioni di testo. Gli elementi, pur appartenendo a categorie diverse (sintagmi nominali, pronomi ecc) si riferiscono alla stessa entità, di cui si continua a parlare durante il testo → sono legati da un rapporto anaforico. Troviamo anche casi di ellissi e di anafora zero, cioè di omissione del soggetto. La grammatica del testo individua: - Antecedente, cioè la prima menzione di un individuo/oggetto in un testo - Ripresa anaforica, cioè la seconda menzione e tutte le successive - Catena anaforica, che si ha quando gli elementi di richiamo sono più di uno. - Coreferenza, che si ha quando l’antecedente e le sue riprese di riferiscono alla stessa entità. L’anafora quindi è quel meccanismo linguistico che instaura una relazione tra due o più elementi del testo, l’antecedente e tutte le espressioni attraverso cui questo viene richiamato nel testo. Nei casi di ellissi, l’assenza è solo apparente → la marca di accordo del verbo (es. 3 ps) funziona da segnale anaforico e rimanda all’unico antecedente presente nel testo. Possibili forme di ripresa anaforica in italiano, da un massimo a un minimo di trasparenza: - Sintagma nominale definito, con ripetizione dell’antecedente - Sintagma nominale definito, con sinonimo dell’antecedente ma anche con nome generale, perifrasi, sinonimo testuale - Pronomi tonici e atoni - Ellissi, con marca di accordo sul verbo - Anafora zero, senza marca di accordo dul verbo Tra tutte le forme di ripresa la più problematica è la perifrasi, che fa appello a conoscenze enciclopediche che si suppongono condivise tra parlante e destinatario. 25 Contemporaneamente queste acquisizioni sono fondamentali nella didattica della lingua, dato che sono queste reti di conoscenze a permetterci di elaborare le nostre esperienze e di codificare i testi. 5.4 Tipologie testuali Un campo di studi particolarmente proficuo per la didattica dell’italiano è la tipologia testuale, ovvero un ramo della linguistica del testo che si occupa di individuare e classificare i diversi tipi di testo che possono essere prodotti dai parlanti nelle diverse situazioni comunicative. In questo caso la linguistica del testo si apre a considerazioni pragmatiche, prendendo in esame il contesto e quindi l’insieme di condizioni relative alla produzione, ricezione e interpretazione di un testo, incontrandosi con discipline quali psicolinguistica e sociolinguistica. Centrale in questo ambito è il concetto di competenza comunicativa, che amplia il concetto di competenza linguistica. A seconda del criterio adottato per la classificazione dei testi sono state proposte tassonomie diverse → dal momento che un testo rappresenta un evento comunicativo complesso, infatti, i criteri possono essere di varia natura. - De Mauro privilegia il canale di trasmissione, distinguendo i testi in parlati e scritti. A loro volta i testi parlati possono essere distinti in monologici e dialogici sulla base del criterio della monodirezionalità o bidirezionalità del messaggio. - Hedge assume come tratti distintivi i destinatari e il contesto, distinguendo tra testi personali, testi pubblici e testi istituzionali. - Sabatini propone una tassonomia fondata sul patto comunicativo che lega emittente e destinatario, distinguendo i ytesti sulla base dei diversi gradi di rigidità introdotti nel patto comunicativo. A riscontrare maggior successo sono state le tassonomie di Beaugrande, Dressler (1984) e Werlich (1976) che distinguono i testi un base alla funzione, al soggetto di cui trattano e al modo in cui ne trattano. Beaugrande e Dressler propongono una tipologia tripartita → descrittivi, narrativi, argomentativi, poi Werlich aggiunge il tipo espositivo e quello regolativo. A questi può aggiungersi il tipo scenico. - Tipo descrittivo: realizzazione del macroatto del descrivere. Deriva dalla capacità cognitiva di cogliere differenze e interrelazioni relative a fenomeni, situazioni ecc. - Tipo narrativo: realizzazione del macroatto del narrare. Deriva dalla capacità di cogliere interrelazioni relative a eventi e azioni situati in un contesto temporale - Tipo argomentativo: correlato al macroatto dell’argomentare per dimostrare la validità di una tesi e comporta la capacità di selezionare gli argomenti più pertinenti rispetto allo scopo. Questi tipi si sono poi strutturati in generi testuali di numero molto più elevato. Il tipo narrativo si realizza in una molteplicità di generi → articolo di cronaca, barzelletta, biografia, favola, notiziario, poema epico, romanzo, manuale di storia. Ogni genere si articola poi in sottogeneri, differenziati per contenuto o mezzo di trasmissione. Es. Lettera → lettera d’amore, lettera commerciale, lettera familiare, lettera elettronica (e-mail) ecc. Bisogna sempre ricordare però che i testi reali non si lasciano incasellare tanto facilmente → molti testi reali sono testi misti. Sembra che il fenomeno si vada accentuando soprattutto nei media, che propongono testi in cui si mescolano forme tipiche del parlato e dello scritto, lessici specialistici e lessico comune → Sobrero: “caduta delle barriere testuali”. 26 5.4.1 Il tipo narrativo È il più studiato sia in chiave descrittiva che in chiave didattica, anche perché nell’esperienza umana il narrare ricopre un ruolo chiave. Una discussione sul tipo narrativo ci permette anche di affrontare il discorso sugli studi relativi al sistema verbale dell’italiano. Maeder ritiene che un qualsiasi testo narrativo debba contenere almeno un narrativo minimo, cioè una trasformazione da uno stato A a uno stato B. questa trasformazione dev’essere operata da un attore e deve avvenire nel tempo, implicando quindi un prima e un dopo. Mortara Garavelli parla del testo narrativo come un testo dinamico, che ha il suo fulcro nella successione del tempo; si distingue quindi dal testo descrittivo, che è statico. Il tempo quindi svolge un ruolo centrale in qualsiasi testo o sequenza narrativa. → rappresentato con una retta orizzontale che va da sx a dx. Assumeremo che dietro ogni testo narrativo ci sia un narratore (N) dalle cui scelte dipendono decisioni importanti relative alla localizzazione dell’evento narrato, all’ordine di presentazione dei fatti e, quindi, alla selezione dei tempi. Sull’asse del tempo possiamo segnalare due momenti: - MA, ovvero il momento dell’avvenimento - ME, ovvero il momento dell’enunciazione Sulla base dell’esempio riportato a pag. 219: La funzione dell’imperfetto (IMP) è di tipo descrittivo e serve a rappresentare gli aventi di sfondo; attraverso esso si danno info sulle caratteristiche dei personaggi e degli ambienti, creando la scena in cui ha luogo l’azione. La funzione del passato remoto (PR) è quella di far avanzare la storia, rappresentando eventi cruciali, cioè ciò per cui la storia si racconta. Questo assetto deriva dalle caratteristiche aspettuali dei due tempi. L’IMP è un tempo imperfettivo, quindi si adatta bene a rappresentare processi che fanno da sfondo; il PR è un tempo perfettivo, rappresenta un processo verbale che si dà per compiuto e disegna nei testi narrativi i punti di svolta dell’azione. Analoga funzione ha il PP (passato prossimo) che in molte varietà regionali si presenta come tempo alternativo al PR. Un ruolo importante è svolto anche da altri segnalatori temporali, quali l’attacco del testo (es. quando ero piccolo) e i connettivi temporali utilizzati. L’alternanza di IMP, PR o PP è centrale in ogni testo narrativo. A essi si accompagnano altri due tempi, ovvero TP (trapassato prossimo, usato per segnalare eventi che precedono il MA → indica l’anteriorità relativa all’evento centrale) e il CC (condizionale composto, per segnalare eventi che seguono il MA → indica posteriorità relativa). Un’altra questione di fondamentale importanza è la distinzione tra tempo fisico e tempo grammaticale/linguistico. Il tempo linguistico (che Weinrich chiama tempus) è l’insieme delle relazioni temporali presenti in un testo. pur essendo determinate dal tempo fisico (cioè dal modo in cui gli eventi si sono avvicendati), dipendono anche dalle scelte del narratore. Quando la sequenza delle frasi non rispetta l’ordine cronologico dei fatti, il N sarà costretto a segnalare gli snodi della narrazione con connettivi di tempo e tempi verbali diversi, fornendo tutti gli indizi necessari affinché il ricevente possa ricostruire l’ordine esatto in cui si sono susseguiti i fatti. → ordine artificiale ha una doppia difficoltà, sia cognitiva che linguistica. L’ordine naturale è strutturalmente più semplice, tanto che le prime narrazioni prodotte dai bambini seguono un ferreo ordine cronologico, così come le prime narrazione in L2 da parte di apprendenti di altra madrelingua. 27 L’alternanza IMP/PR o PP va integrato con altre possibilità meno frequenti, come IMP/P (presente), P/P, IMP/IMP (tipico della prosa giornalistica). Tra i tempi verbali possiamo distinguere: - Tempi narrativi, tipici del mondo narrato. Vi troviamo IM, PR, TP, CC - Tempi commentativi, prevalenti nell’analisi critica e nel commento. Vi troviamo P, PP e futuro In realtà questo modello suggerito da Weinrich è stato messo in crisi dall’analisi di testi narrativi scritti e parlati, che ci mostrano come nella morfologia verbale dell’italiano non ci siano casi di perfetta biunivocità forma/funzione. → di fronte a un P inserito in un testo narrativo dovremo chiederci ogni volta se si tratta di un tipo di P narrativo, storico, commentativo o deittico (quando si riferisce al ME, dunque è tipico di narrazioni orali o di loro trascrizioni). ➔ Ma → negli esercizi scolastici la consegna è spesso ambigua. Quando si chiede un riassunto o una parafrasi di un testo si chiede di riprodurre il testo in formato più ridotto (narrativo) o di commentare un testo (descrittivo)? → selezione diversa dei tempi verbali! Necessità per l’insegnante di selezionare con molta attenzione il tipo di compito da proporre agli allievi, cui vanno esplicitate l’intenzione (narrativa o commentativa) e le regole dei tempi verbali che conseguono da tale scelta. Il tempo dei testi letterari → per questi testi qual è il punto di riferimento che ci consente di definire passati gli eventi narrati? Dove metteremo il ME sull’asse del tempo? → Bertinetto: “i tempi passati usati in un testo letterario non implicano mai un autentico riferimento al passato, ma sono da interpretarsi come segnali di tipo discorsivo che avvertono il lettore che ci si addentra in un universo fittizio”. 5.4.2 Tipologie testuali e abilità Il filone tipologico della linguistica del testo si è rivelato molto produttivo nell’educazione linguistica. Oggi insegnare a leggere, scrivere, parlare e ascoltare significa addestrare a produrre e a capire i testi, selezionandoli sulla base della loro frequenza e della loro utilità, ma anche sull’età e sui bisogni comunicativi degli allievi. Per secoli educare alla lettura ha significato leggere e commentare testi letterari, producendo poi testi che si ispirassero a quel modello → testi che prendevano la forma del “tema” di italiano, fortemente criticato. Si trattava quindi di una pedagogia del testo letterario e scritto che trascurava la dimensione dell’oralità e la varietà dei prodotti testuali. → si trascurano capacità utili come prendere appunti, schematizzare, sintetizzare, essere brevi, saper scegliere un vocabolario e un tipo di fraseggio adatti ecc. Dovettero però passare molti anni affinché si superasse l’idea che le abilità orali – in quanto già possedute dal bambino al suo ingresso a scuola – non necessitassero di addestramento. Infatti non esiste solo il parlare istintivo: esiste anche un’abilità del parlare, diversa da occasione a occasione e che come tale va curata. Esistono quindi vari tipi di testo, aventi funzioni sociali ben precise → devono essere tessuti secondo un arsenale di regole specifiche. La capacità di produrre testi di questo tipo non si acquisisce naturalmente ma ha bisogno di un addestramento ad hoc, di cui la scuola deve assumersi la responsabilità. → la scuola deve insegnare a produrre e capire testi scritti complessi, ad alta pianificazione. Per fare ciò la scuola dovrebbe misurarsi con testi reali, garantendo un rapporto realistico con ciò che avviene nell’universo comunicativo reale. Quali ricadute didattiche? Per quanto riguarda la lettura, sono parsi evidenti i limiti delle pratiche tradizionali fondate sulla lettura di testi letterari, quindi poco attente alla diversificazione testuale e alla reale comprensione di testi. Così come esistono diversi prodotti testuali esistono anche diversi scopi per cui si legge e 30 - Un quarto pubblico è costituito da colti e intellettuali che considerano l’italiano come lingua di cultura, di arte, di musica, di teatro e degli studi religiosi e letterari. 6.2 Suggerimenti dalla ricerca: la linguistica acquisizionale La linguistica acquisizionale tenta di capire come procede l’acquisizione di una lingua e può rilevarsi del massimo interesse per l’insegnante, che vi troverà un quadro teorico di riferimento e informazioni sulle modalità con cui la mente umana procede nel processo di acquisizione di una lingua. la linguistica acquisizionale può dunque fornire criteri in base a cui scegliere un manuale o approntare materiali. Ma quali sono i concetti fondamentali? 6.2.1 Il concetto di interlingua È un termine usato da linguisti e glottodidatti per indicare la lingua posseduta da un discente alle prese con il difficile compito di imparare una L2. È dunque una lingua imperfettamente posseduta da chi sta tentando di impadronirsi di un nuovo sistema linguistico. Il concetto viene proposto ed elaborato nel 1972 da Larry Selinker. La lingua dell’apprendente cambia frequentemente, è un sistema dinamico, provvisorio, instabile e transitorio. Chomsky, fondatore del generativismo, propose una teoria dell’apprendimento linguistico che si opponeva al comportamentismo di Skinner. Secondo i comportamentisti, infatti, l’apprendimento di una lingua è il risultato della formazione di abitudini; Chomsky invece ritiene che il processo di acquisizione della lingua madre sia legato al patrimonio genetico della specie umana, la quale possiede un meccanismo mentale che consente al bambino di effettuare ipotesi sulla lingua (LAD). Troviamo poi la psicologia cognitiva, che vede l’apprendente come un agent attivo, alla ricerca di dati che confermino le ipotesi da lui autonomamente formulate. Si pone quindi l’accento sulle strategie usate dall’apprendente per ricostruire le regole proprie del sistema della lingua. Maria Chini distingue le proposte in quattro grandi gruppi: - Teorie innatiste (tra cui il modello chomskyano) - Modelli cognitivi di tipo induttivo - Modelli ambientalisti, che enfatizzano il ruolo del contesto d’apprendimento della L1/2 - Modelli integrati, che tengono conto delle varie dimensioni in gioco 6.2.2 La ricerca sull’interlingua: tappe e sequenze di apprendimento Gli studi sull’interlingua hanno preferito come oggetti di studio apprendenti che acquisiscono la L2 in contesti naturali → immigrati adulti, che si inseriscono in una nuova comunità nazionale per motivi lavorativi e che tentano di impadronirsi della lingua → spinta comunicativa e grande motivazione ad esprimersi. Gli studi acquisizionali hanno mostrato che il processo di acquisizione procede secondo tappe precise, che si ripetono regolarmente e che sono indipendenti dalle lingue materne di partenza. Le tappe attraverso cui procede l’acquisizione sono: - Varietà prebasica, o pragmatic mode. In questa fase si fa ricorso a varie strategie, come uso della gestualità, chiamata in causa del contesto, richiesta di cooperazione o di ripetizione all’interlocutore, segnali di partecipazione alla conversazione, commutazione di lingue ed enunciati mistilingue - Varietà basica, o syntactic mode. È una modalità più grammaticale in cui le frasi iniziano ad organizzarsi attorno a un verbo, spesso non flesso (all’infinito o al presente). Vi troviamo stile telegrafico, assenza di preposizioni e congiunzioni, presenza di paratassi. 31 - Varietà postbasiche. Ricorso sempre maggiore a strategie grammaticali, con progressivo avvicinamento alla lingua obiettivo. Vi troviamo frasi con verbo flesso, articoli, copule, ausiliari ecc. La ricerca acquisizionale ha descritto anche alcune sequenze di apprendimento relative a particolari tratti morfosintattici. Si tratta di un ordine implicazionale, dove a>b>c>d. Nel caso della morfologia verbale dell’italiano vediamo che l’ordine di comparsa è: a) presente indicativo, per lo più alla 3 ps, anche chiamata “forma basica”. b) participio passato c) imperfetto d) futuro, condizionale, congiuntivo. Le sequenze acquisizionali ricorrono con regolarità in apprendenti diversi e rivelano somiglianze con l’acquisizione di quella lingua come L1. 6.2.3 Strategie di apprendimento I risultati di cui sopra sono importanti e danno ragione a chi propende per una visione universalistica dell’apprendimento linguistico, che considerano basato su strategie generali e comuni a tutti gli esseri umani. Altri studiosi però hanno posto l’accento sull’aspetto comunicativo e sociale delle strategie di apprendimento. La ricerca sulle strategie di acquisizione può quindi avere due filoni: - Psicolinguistico, che tenta di identificare le strategie mentali messe in atto dal discente - Interazionale, che sottolinea l’aspetto sociale della comunicazione. Le strategie acquisizionali principali sono: - Strategie paralinguistiche o contestuali, tipiche delle varietà prebasiche. L’apprendente sfrutta al massimo la mimica e la gestualità, ma anche commenti, disegni estemporanei o segni vocali - Transfer, che consiste nel trasferir in L2 forme e strutture della L1. Bernini ci ricorda che il peso specifico della L1 varia in base a molti fattori, tra cui età e competenza dell’apprendente, livello linguistico e distanza tipologica tra L1 e L2. Anche la commutazione di codice può essere interpretata come effetto di interferenza con la L1. - Strategie analitiche, che descrivono significati grammaticali o lessicali con circonlocuzioni e giri di parole. La strategia analitica opera anche a livello lessicale, es. “fare fidanzato” per “fidanzarsi. È una strategia usata per sopperire alla carenza di lessico in L2. - Generalizzazione o estensione analogica. Si tratta di una sovraestensione di una regola imparata anche a casi che non la prevederebbero (es. l’interpretare come maschili tutti i nomi uscenti in o, ecc.). Solo in un secondo tempo il confronto con l’input standard e la correzione faranno rientrare tali sovraestensioni, fino a produrre la forma regolare. - Semplificazione o riduzione formale, che può interessare qualunque livello linguistico (fonologia, morfologia, sintassi ecc). A questa fase dovrebbe seguire un processo di graduale complessificazione, senza il quale siamo di fronte a casi di fossilizzazione. - Cooperazione con l’interlocutore, cui si segnala il bisogno di aiuto, di ripetizione ecc. Vi sono quindi alcune strategie orientate più sulla L1, altre sulla L2. Le strategie usate possono inoltre essere distinte in: - Strategie di riduzione, che rivelano il tentativo da parte dell’apprendente di aggirare il problema, rinunciando anche a parte dell’intento comunicativo - Strategie di conseguimento, che rivelano lo sforzo cognitivo di un apprendente che, pur di comunicare, tenta nuove strade. 32 Ovviamente le variabili che entrano in gioco sono molte: situazione di uso della L2, situazione sociale dell’apprendente, caratteristiche comportamentali, età, motivazione, stile cognitivo, personalità ecc. 6.2.4 Universalità e variabilità dei percorsi acquisizionali Nonostante l’importanza dei fattori universali, l’esperienza accumulata dalle ricerche ci avverte della necessità di considerare differenze nel percorso di apprendimento spontaneo, imputabili alla distanza tipologica tra L1 e L2. Questa distanza coinvolge le forme e le strutture linguistiche, ma anche categorie concettuali e strategie di apprendimento. Nell’apprendimento linguistico, quindi, giocano il loro ruolo sia fattori comuni e universali, sia fattori particolari. Bettoni → gli apprendenti di una L2 si differenziano rispetto a L1 di partenza, età, numero di lingue già conosciute, caratteristiche personali, quantità e qualità di input ricevuto, ambiente culturale, strategie di apprendimento messe in atto, ecc. 6.3 Dagli studi acquisizionali alla didattica della L2 Inizialmente la linguistica acquisizionale non si è posta il problema di tradurre i risultati delle ricerche in suggerimenti didattici, ma è ovvio che una tale conoscenza ha ricadute importanti anche dal pv didattico e potrebbe condizionare sua la selezione dei contenuti, sia la loro progressione. Attualmente è in corso un avvicinamento tra i due campi, quello della linguistica acquisizionale e dell’insegnamento L2 → nasce un nuovo filone di ricerca, quello della didattica acquisizionale. Gli studi condotti per l’italiano L2 hanno riguardato le varietà prebasiche e basiche, e in particolare: - Espressione delle relazioni temporali e sistema verbale italiano - Espressione della modalità - Morfologia nominale/flessiva - Settori lessicali come vb di moto e vb pronominali - Ordine delle parole e subordinazione - Procedure di produzione testuale e funzioni discorsive Pienemann, 1998 → Teoria della processabilità, con cui tenta di spiegare lo sviluppo delle sequenze acquisizionali. Egli ritiene che l’insegnamento di una l2 può avere successo solo se si uniforma all’ordine di acquisizione naturale → per recepire una nuova forma, l’apprendente deve essere pronto e aver maturato certi prerequisiti. In generale comunque tutti i linguisti acquisizionali concordano con l’idea che l’insegnamento debba uniformarsi all’ordine naturale di acquisizione, senza saltare fasi o proporre troppo prematuramente certe forme. Corder: “Gli insegnanti ed i materiali devono adattarsi allo studente e non viceversa. […] Quanto più si riesce ad avvicinare la didattica delle lingue all’apprendimento di una seconda lingua in ambiente informale tanto maggiore sarà il successo. L’ideale sarebbe quindi avere un sillabo in cui le forme e le strutture della lingua d’arrivo siano presentate nello stesso ordine in cui emergono nell’acquisizione spontanea. 6.3.1 L’errore di lingua Dagli studi acquisizionali deriva anche una mutata concezione dell’errore di lingua. L’insegnante deve infatti accettare che non è realistico attendersi in tempi brevi la riproduzione corretta delle forme e delle strutture previste → bisogna lasciare agli allievi il tempo di rielaborare il materiale linguistico. Gli errori infatti sono sì realizzazioni devianti, ma transitorie e non casuali. Studiando gli errori dei discenti l’insegnante può riuscire ad entrare nello stato di coscienza dell’allievo per capire quali strategie di apprendimento sta usando.
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