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Linguistica applicata, Appunti di Linguistica

Linguistica applicata, laurea LM-37 Lingue e Culture per la Comunicazione Internazionale (UNITUS). Appunti dai libri "Un'introduzione alla linguistica applicata" di Rema Rossini Favretti e "Lessico ed educazione linguistica" di Federica Casadei e Grazia Basile

Tipologia: Appunti

2023/2024

Caricato il 02/07/2024

IonelaIzabelaNica
IonelaIzabelaNica 🇮🇹

2 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Linguistica applicata e più Appunti in PDF di Linguistica solo su Docsity! 19/02 Che cos’è la linguistica applicata e quali sono i rapporti tra questa disciplina e le altre materie affini, ad esempio didattica delle lingue, glottodidattica? La definizione è un po’ cambiata nel tempo e sotto quest’etichetta possono ricadere vari ambiti di studio, anche molto diversi tra loro. Come definizione generale, Rossini Favretti dice che si fa linguistica applicata in tuti i casi in cui si utilizzano conoscenze relative al linguaggio o alle lingue per risolvere dei problemi che hanno a che fare con il linguaggio e con le lingue; concetti e definizioni a pagina 10. Non è una linguistica teorica; quella teorica si occupa di elaborare una teoria generale del linguaggio o delle lingue. La linguistica applicata è invece una linguistica che usa le conoscenze che ci si è fatti sul linguaggio o sulle lingue per risolvere i problemi che hanno a che fare con il linguaggio o con le lingue. L’autrice dice che la linguistica applicata è una disciplina che media tra la teoria e la pratica. A pagina 12 si parla del linguista applicato come mediatore. Il problema è che sotto l’etichetta di problemi linguistici ci ricade tutto (problemi di comunicazione, disturbi del linguaggio, l’analisi stilistica, la traduzione, i linguaggi specialistici). In origine, l’etichetta di linguistica applicata coincideva con la glottodidattica o didattica delle lingue. Tradizionalmente si è parlato di linguistica applicata per indicare le applicazioni della linguistica all’insegnamento delle lingue (straniere). Il settore della linguistica che si occupa del lessico si chiama lessicologia o semantica lessicale. È il settore meno formalizzato. Nelle scienze umanistiche la storia della disciplina conta tanto. La nascita della linguistica scientifica si fa coincidere con Saussure. Dopo di lui si possono distinguere due grandi famiglie di teorie linguistiche: le teorie autonomiste e le teorie non autonomiste (pagina 18). Gli autonomisti sostengono che il linguaggio è un oggetto autonomo, che può essere studiato come oggetto autonomo, indipendentemente da altri fenomeni; rientrano in questa categoria la linguistica strutturale e quella generativa. Saussure e Chomsky hanno idee molto diverse sul linguaggio, ma li accomuna l’idea che il linguaggio può essere considerato come oggetto autonomo. L’approccio non autonomista dice che non si può studiare il linguaggio solo in quanto tale, perché le caratteristiche del linguaggio e delle lingue dipendono da fattori esterni al linguaggio e alle lingue. Rientrano qui vari paradigmi: contestualismo, pragmatica, sociolinguistica, linguistica cognitiva. I capitoli 2, 4, 7 e 8 sono importanti. Chomsky si domanda come sia possibile che si capiscano frasi che non si sono mai sentite prima? Se si riesce a produrre una frase mai prodotta prima e capire una frase in cui non ci si è mai imbattuti prima, significa che in testa c’è qualcosa che consente di capire anche cose nuove. Senza il lessico, il linguaggio non vive; senza la grammatica, sì. 21/02 La linguistica strutturale è quella immediatamente derivata dalle idee di Saussure. Il principio fondamentale è quello dell’arbitrarietà. Secondo Saussure, il pensiero di per sé è una massa amorfa. Saussure si pone questo problema, perché nella storia del pensiero filosofico al centro dell’attenzione del filosofo c’è sempre stato il cosiddetto triangolo maledetto: linguaggio, pensiero e realtà. Fuori di noi c’è un mondo e nella nostra testa noi abbiamo un pensiero e il linguaggio. Si tende a pensare che il pensiero che abbiamo in testa corrisponda a un qualcosa che esiste nel mondo. Non sempre, però, ciò che sta nella mia testa corrisponde a ciò che sta nel mondo; abbiamo anche idee e concetti astratti. Saussure dice che non ci sono concetti prima dei linguaggi. Per Saussure, la mente è come una grande nebulosa e in questa nebulosa è la lingua che introduce delle distinzioni. Saussure fa un disegno come di un mare; le onde sono il pensiero e le righe sono la lingua. Per lui, il linguaggio è come se fosse una rete che noi lanciamo sulla sabbia. Lanciando questa rete, si formano dei segni sulla sabbia che sarebbero i significati. Ogni lingua lancia la sua rete e crea in maniera indipendente e differente da tutte le altre lingue il suo sistema di significati. Questa di Saussure è un’idea radicalmente autonomista. È il linguaggio che crea il pensiero (esempio della parola dito in italiano e in inglese). Se nella mia lingua non c’è un segno che nomina un certo concetto, io quel concetto non ce l’ho. In latino, di nuovo, ci sono due termini per indicare il colore bianco: candidus e albus. Un parlante latino ha un concetto di bianco diverso dal mio, perché io non ho questa distinzione tra bianco opaco e bianco brillante in una sola parola. Saussure dice che il linguaggio è un’entità che crea il pensiero. Secondo Saussure, si scopre il significato di una parola soltanto mettendola in relazione con altre parole. Per Saussure, il linguaggio è un’entità assolutamente autonoma. Il linguista studia le lingue senza preoccuparsi della realtà fisica a cui il linguaggio fa riferimento e neanche di chiedersi da dove vengano i concetti. Saussure dice che i concetti li crea la lingua. Dal pensiero saussuriano deriverà una grande corrente linguistica che viene chiamata strutturalismo. Di questo fenomeno ci sono due filoni: lo strutturalismo europeo e lo strutturalismo americano. Dallo strutturalismo americano avrà origine anche la linguistica di Chomsky. Una prima caratteristica dello strutturalismo è il cosiddetto relativismo. Anche qui la questione è il rapporto tra linguaggio e cultura. L’idea secondo la quale è il linguaggio a determinare il pensiero è legata a due linguisti: Sapir e Whorf. Secondo loro non esistono concetti al di fuori del linguaggio. L’ipotesi deterministica dice che è il linguaggio a determinare come noi vediamo il mondo. Le idee non si producono in relazione al nostro rapporto con la natura, non sono un prodotto autonomo della mente, bensì sono un prodotto del linguaggio. Questa è un’ipotesi superata. Oggi sappiamo che il linguaggio non è totalmente autonomo nel produrre il nostro sistema concettuale. La seconda conseguenza di questa visione è quella che noi possiamo descrivere e capire come è fatta una lingua semplicemente guardando alla struttura di quella lingua. C'è una visione del linguaggio completamente sganciata dalla psicologia e che è completamente orientata allo studio delle relazioni tra gli elementi del sistema. Un esempio potrebbe essere il metodo distribuzionale (unità linguistiche minime). Questo metodo distribuzionale nasce nello strutturalismo americano. In America c’era il problema dello studio delle lingue native, assolutamente non imparentate con le lingue che gli studiosi occidentali conoscevano. L’analisi distribuzionale nasce per le esigenze di descrizione di lingue completamente ignote. Nello strutturalismo si fa semantica strutturale, ossia una semantica che è interessata ad analizzare le relazioni tra le parole, più che il contenuto delle singole parole. Il secondo grande modello autonomista è la linguistica generativa di Chomsky. All’inizio si parlava di linguistica generativo-trasformazionale. Lui parte da un’idea molto diversa da quella di Saussure. Chomsky dice che il linguaggio è parte della mente umana. Apparentemente parte da un’idea che non sembra essere autonomista. Chomsky dice che il linguaggio è una parte della mente. La mente umana è costituita da dei blocchi, e uno di questi blocchi è quello che governa il linguaggio. Saussure dice che non c’è mente senza linguaggio; Chomsky dice che il linguaggio è una parte della mente. In qualche modo anche Chomsky arriva ad un’ipotesi autonomista. Lui dice che la mente è organizzata in una serie di sottosistemi sostanzialmente indipendenti l’uno dall’altro. Aggiunge che bisogna tenere separata la facoltà di linguaggio. Per lui, il linguaggio è un organo. Lui dice che si deve tenere separata la descrizione del linguaggio da altre componenti della mente (percezione del mondo esterno, il modo in cui si formano i nostri concetti). Anche Chomsky, come Saussure, vuole tenere lontana la linguistica dalla psicologia. Anche lui ha in testa quest’idea di un linguaggio che può essere analizzato in quanto tale, senza tenere conto di tutto quello che è fuori dal linguaggio. Chomsky va ancora oltre e dice che i linguisti non devono occuparsi di tutte le cose esterne che, però, c’entrano con il linguaggio (la psicologia, gli aspetti sociali, gli aspetti pragmatici). Secondo lui, i linguisti si devono occupare solo di descrivere quello che è il cuore del funzionamento del linguaggio e di ogni lingua, cioè sostanzialmente la grammatica. Per Chomsky, la grammatica è un insieme di regole che sono in grado di produrre/generare tutte le frasi di una lingua. Lui prende in esempio i bambini che, nell’arco di poco tempo, sono già in grado di parlare più o meno bene una lingua. Perché questo possa avvenire, si deve pensare che una parte di queste conoscenze siano innate; non è possibile che sia tutto frutto dell’esperienza di quello che gli adulti insegnano. L’idea di Chomsky è quella del meccanismo chiamato pro drop nella grammatica universale innata. L’italiano, ad esempio, è una lingua pro drop per quanto riguarda il pronome soggetto (l’inglese non è pro drop). Per Chomsky, si nasce avendo questo parametro pro drop o non pro drop in testa in base al paese dove si nasce. Il cuore del lavoro del linguista è descrivere queste grandi regole universali (grammatica) e le particolarità delle singole lingue. Chomsky concepisce queste regole grammaticali come delle regole algebriche. Si possono produrre frasi che non si sono mai prodotte prima e si possono capire frasi in cui non ci si è mai imbattuti prima. Per lui, questa si chiama creatività governata da regole. Lui concepisce il linguaggio come un complesso algoritmo grazie al quale si possono produrre frasi ben formate in una lingua. La competenza linguistica ci dice quali frasi funzionano o meno in una determinata lingua; sarebbe la conoscenza che ciascuno di noi ha del linguaggio e che è costituita da una grammatica innata, universale e parametrata sulla mia lingua. Questo fu formalizzato come principio dell’indifferenza del hardware; si scoprirà più avanti che il servono a compire delle azioni e ad esercitare un’influenza sui nostri interlocutori; non sono tutte frasi dichiarative come nelle grammatiche scolastiche. Ogni atto linguistico ha sì una componente locutiva, ma ha anche una parte illocutiva che esprime lo scopo della mia comunicazione. C’è poi una terza componente che viene chiamata perlocutiva che è quella che esprime l’effetto dell’azione linguistica. Il massimo di questo agire linguistico si ha negli atti chiamati performativi. Sono casi in cui nell’atto stesso di pronunciare un enunciato si compie una certa azione. Gli enunciati performativi sono legati ai verbi performativi: promettere, proclamare, dichiarare, battezzare, dichiarare marito e moglie, chiedere scusa (scusarsi). Un filone di studio all’interno della teoria degli atti è lo studio degli atti linguistici indiretti; si chiamano indiretti perché la forma dell’enunciato non corrisponde a quello che in realtà l’enunciato vuol dire, ad esempio chiedere l’ora in modo indiretto (mi sa dire che ore sono?). Gli atti indiretti nascono per una questione di cortesia sociale. In italiano questi atti di cortesia possono essere espressi anche utilizzando l’imperfetto indicativo. Chomsky dice che non è questo lo scopo del linguista; il linguista deve descrivere la frase per ciò che sta strutturalmente significando. Chomsky teorizza che queste cose esistono, ma il linguista deve fregarsene. Non sempre, però, è possibile fare una distinzione tra il piano formale e il piano strutturale. Se la distinzione si può fare, si finisce, però, per non capire niente anche delle strutture linguistiche. Se ci si limita solo a descrivere la frase passiva senza descrivere la funzione che ha, non si riesce a capire a fondo la distinzione tra frase passiva e frase attiva. 28/02 Un altro filone di studio della pragmatica oltre all’analisi degli atti linguistici è quello delle implicature conversazionali. È un filone di indagine all’interno della pragmatica sviluppato a partire dalle idee di un linguista e filosofo che si chiamava Grice. Lui sviluppa questo tema di ciò che è non esplicitamente detto, ma implicato nel discorso quando si parla. Sarebbe l’insieme di ciò che, pur senza essere detto, è comunque fatto intendere. Lui parte dal concetto di intenzione comunicativa. Lui dice che quando qualcuno parla, fa in modo che il ricevente riconosca le sue intenzioni comunicative. Grice ritiene che questo meccanismo sia regolato da una serie di principi che lui chiama “massime conversazionali”; sono appunto delle macro-regole attraverso le quali si partecipa al buon andamento degli scambi comunicativi. Grice parte da una posizione di fiducia nei confronti della comunicazione, ossia che i due interlocutori cooperano per la buona riuscita della comunicazione. La prima delle sue quattro massime è la massima della quantità; significa, sostanzialmente, non dire né troppo e né troppo poco. La seconda è la massima della qualità e riguarda la veridicità di ciò che viene detto. Ci si aspetta che l’interlocutore dica ciò che è vero. La terza è la massima della relazione e riguarda la pertinenza di ciò che viene detto; ci si aspetta che il tema della conversazione venga rispettato. La quarta e ultima massima è la massima del modo; riguarda appunto il modo in cui si comunica e la chiarezza della comunicazione. Secondo Grice, la cooperazione tra i parlanti si basa sul rispetto di queste quattro massime. Si può anche usare qualcosa che non è vero per esprimere qualcos’altro: è l’esempio dell’ironia. In questo caso non si inganna l’interlocutore, perché si deve capire che la frase è ironica. Bisogna, quindi, saper distinguere tra sentence meaning e speaker’s meaning. È proprio all’interno della pragmatica che si afferma, per la prima volta e con così tanta importanza, l’idea che usare il linguaggio in modo non letterale è un aspetto centrale del funzionamento del linguaggio. Tecnicamente si dice che il significato letterale che un enunciato può avere è quello che corrisponde e che si può calcolare e dedurre sulla base principio di composizionalità, esempio “Mario ha vuotato il sacco”. Si continua a dire, però, che l’unico significato che può essere ricavato in modo regolare è quello letterale. Per interpretare eventualmente i significati non letterali servono ulteriori conoscenze, ad esempio servono conoscenze di tipo pragmatico. Uno dei grandi contributi della pragmatica alla storia delle idee linguistiche è aver detto che il linguaggio non è un calcolo, non è un algoritmo, ma è uno strumento di azione ed interazione nel quale le regole sono molto più complesse rispetto a quelle che ci consegna la grammatica generativa. Sarà proprio all’interno della pragmatica e della sociolinguistica che si svilupperà una nozione di competenza comunicativa in antitesi alla nozione chomskiana di competenza linguistica. Secondo Chomsky, la competenza è quello che si deve sapere; l’esecuzione è proprio ciò che concretamente si fa quando si parla una lingua. Il linguista, ovviamente, deve occuparsi della competenza, cioè deve descrivere le regole e i principi che costituiscono questa competenza. La competenza significa, secondo Chomsky, conoscere la grammatica, ossia tutto quell’insieme di regole che presiedono la generazione del linguaggio. La competenza comunicativa, che si sviluppa nell’ambito della pragmatica e della sociolinguistica, viene considerata come molto più che conoscere la grammatica. Si devono avere competenze non solo linguistiche, ma anche comunicative. Conoscere una lingua non significa soltanto produrre delle frasi ben formate, ma saperle usare in modo appropriato nelle diverse situazioni comunicative per realizzare specifiche azioni di interazione. La critica che la pragmatica muove agli approcci autonomisti è di occuparsi e descrive solo un pezzo del linguaggio, quello che coincide con le competenze linguistiche in senso stretto. In realtà, parlare una lingua significa avere molte altre conoscenze. Il linguista pragmatista Searle dice che persino una frase banale come “il gatto è sullo zerbino” richiede delle conoscenze extralinguistiche per una totale comprensione. Anche la sociolinguistica ha come punto di partenza e come idea fondamentale un’idea non autonomista del linguaggio. Il linguaggio è, quindi, qualcosa che si può comprendere guardando non solo alle regole linguistiche in senso stretto, ma anche al modo in cui funzionano le interazioni sociali. Il sociolinguista Labov scopre che i diversi modi per pronunciare il fonema /r/ correlano con la classe sociale del parlante. La sociolinguistica si occupa della distribuzione sociale della variazione linguistica. La prospettiva sociolinguistica ha un’importanza fondamentale nel cambiare la prospettiva glottodidattica. Non a caso, la miglior glottodidattica italiana ha sempre detto e scritto che gli aspetti sociolinguistici devono essere centrali nell’insegnamento. Chiunque insegni una lingua deve chiedere che varietà di lingua deve insegnare. La storia dell’insegnamento linguistico ci consegna l’idea che esista una varietà migliore delle altre, tipicamente quella descritta dalle grammatiche. Per l’italiano è la varietà tipicamente scritta; questo però non avviene mai. Chi usa il pronome di terza persona singolare “ella/egli”? Non si usa neanche nello scritto, eccetto casi formali accademici. Bisogna avere una competenza comunicativa per poter cambiare registro linguistico in base alla situazione in cui ci si trova. 01/03 Si deve proprio alla linguistica cognitiva lo sviluppo della teoria della metafora. La TCM è la teoria cognitivista della metafora. È l’ultimo in ordine cronologico degli approcci non autonomisti. Sembrerebbe anche difficile dire che sia un approccio; sarebbe meglio definirlo un insieme di filoni di studiosi anche di formazione diversificata. Confluisce in una visione condivisa che va sotto il nome di cognitivismo. Si parla di cognitivismo per fare riferimento a tutte le teorie del linguaggio che partono dal presupposto che il linguaggio sia una facoltà mentale. A seconda di che teoria si abbia della mente, esistono due tipi di cognitivismo. Il cognitivismo classico, al quale si rifà anche Chomsky, esprime accordo sul fatto che il linguaggio abbia a che fare con la mente, ma dice anche che comunque la mente ha delle caratteristiche di tipo meccanico-computazionale. Il cognitivismo classico adotta una visione che tiene separato il funzionamento della mente dal funzionamento del corpo. C’è un dualismo mente- corpo. Il cognitivismo classico concepisce la mente, dunque anche il linguaggio, come una sorta di software che gira sul hardware corporeo, ma i principi di funzionamento del software sono indipendenti da come è fatto il hardware. Il cognitivismo classico assume che più o meno lo stesso valga nel rapporto tra mente, processi mentali e corpo. Proprio questo principio ispirerà tutti i primi decenni di studi sull’intelligenza artificiale. Il cognitivismo che va sotto il nome di linguistica cognitiva la pensa in maniera esattamente contraria. Pensa che ci sia una relazione fortissima tra linguaggio e altri aspetti del funzionamento della nostra mente, ma ancora di più sostiene che la natura della mente e il linguaggio sono indissolubilmente legate e, anzi, dipendono dalla nostra biologia. I primi cognitivisti sono in realtà chomskiani. Siamo intorno agli anni Settanta negli USA. All’interno della linguistica generativa iniziano a spuntare delle posizioni divergenti. George Lakoff nasce come generativista poi diventa cognitivista. Contemporaneamente all’idea di Chomsky che le caratteristiche del linguaggio non richiedano altro che principi di tipo sintattico, iniziano ad emergere alcuni fenomeni che sembrano mettere in crisi questo approccio. I generativisti lavoravano molto sui fenomeni di anafora. Questo è un meccanismo complesso sia dal punto di vista sintattico e sia dal punto di vista dei meccanismi concettuali. Si era introdotto molto il concetto di isola anaforica; un pronome può fare riferimento anche a qualcosa di più lungo di una parola. Si pensava che l’unità minima dell’anafora fosse la parola. C’è un meccanismo anaforico che supera l’isola della parola; si entra nella parola, addirittura nella semantica della parola. Questo significa che l’idea di Chomsky che prima si costruisce la sintassi della frase e solo dopo interviene il componente lessicale a riempire la frase, non può funzionare. La sua idea è quella che il linguaggio funziona come una specie di meccanismo computazionale astratto. Questa corrente critica del generativismo si amplierà e si creerà la linguistica cognitiva. Essa dice che ciò che è assolutamente fondamentale per comprendere il funzionamento del linguaggio è guardare a come funziona la mente umana (come si formano i concetti, come si forma la conoscenza dell’ambiente in cui si vive). Se si vuole capire il sistema mentale del linguaggio, bisogna guardare a come funziona il sistema mentale nel complesso. Chomsky dice che si ha il concetto di libro, perché nella propria lingua esiste la parola libro. Per lui, non c’è pensiero senza linguaggio. La linguistica cognitiva, invece, dirà che c’è tanto pensiero anche senza linguaggio. Diranno che il linguaggio si sviluppa e si appoggia proprio su strutture mentali precedenti al linguaggio. C’è pensiero prima del linguaggio, poiché noi siamo creature biologiche. Il termine in inglese è embodiment, ossia la mente non è separata dal corpo. La mente non è separata dal corpo, non funziona in modo autonomo. Lakoff parla proprio di esperienzialismo, ossia di una linguistica che tiene conto delle esperienze che si hanno come specie. Ci sono molti usi del linguaggio che sembrano fare riferimento più o meno metaforico al dentro e fuori, per esempio entrare o uscire da un periodo brutto, essere in un brutto periodo, venire fuori da un brutto periodo; esempio: John went out of the room. Il soggetto, John, esce fisicamente dall’area della stanza. Questa preposizione out si può usare anche in senso metaforico, senza il bisogno che qualcosa esca fisicamente fuori; roll out the carpet non significa che il tappeto esce fuori fisicamente da un’area, ma si srotola, si espande. Ancora, si può dire che the rain started out from NY per indicare che il luogo non è una porzione di spazio definita. Questi esempi si usano per rappresentare determinate situazioni come dei luoghi da cui si esce. È come se si avesse alla base un concetto di contenitore nel quale entrare o dal quale uscire. Questo concetto di contenitore può essere applicato metaforicamente anche ad entità astratte. Johnson dice che questo concetto di contenitore ci viene dall’esperienza corporea. Il cognitivismo nella linguistica cognitiva crea l’idea che si possono spiegare determinati fenomeni linguistici facendo riferimento a dei processi mentali sottostanti, i quali, a loro volta, traggono fondamento dall’esperienza fisica e percettiva. Tramite lo studio della linguistica cognitiva, si possono spiegare molte regole grammaticali. La linguistica cognitiva è figlia della linguistica chomskiana. Il linguaggio è governato da regole, altrimenti ci sarebbe confusione e il linguaggio sarebbe incomprensibile; anche le metafore hanno delle regole, altrimenti sarebbero frasi prive di senso. Chomsky porta come esempio la frase colorless green ideas sleep furiously proprio per dire che il piano grammaticale e il piano del significato sono separati. La frase è costruita perfettamente dal punto di vista della grammatica, ma non ha senso dal punto di vista del significato. Le metafore hanno senso, hanno un significato metaforico; non sono frasi senza senso. Esistono anche falsi amici metaforici, quindi non bisogna incorrere nell’errore di pensare che le descrizioni di una lingua valgano anche per altre. La linguistica cognitiva ha avuto, dal punto di vista della storia della linguistica, il grande merito di aver portato alla ribalta dell’interesse dei linguisti tutta una serie di fenomeni che erano ritenuti immaginarie anomalie ed eccezioni alla regola inspiegabili. L’altra importante ricaduta di questo approccio è che mette al centro dell’interesse del linguista il piano semantico, che era sempre l’ultimo a comparire. La linguistica cognitiva ribalta questa prospettiva; dice che il linguaggio nasce in funzione della semantica. La linguistica cognitiva afferma che è la semantica il motore del linguaggio. Si arriva addirittura a dire che nella linguistica cognitiva non c’è differenza tra linguistica e semantica; la linguistica cognitiva è la semantica cognitiva. Per Chomsky, prima viene la sintassi e il modo in cui si dispongono i pezzi. Successivamente, questa struttura viene riempita dal lessico. La linguistica cognitiva dice esattamente il contrario: prima vengono le parole, la semantica e poi si costruisce tutto il resto. Questo ha una conseguenza anche dal punto di vista didattico. L’idea è che si deve partire dal lessico; è dal livello lessicale che nasce la capacità di utilizzare una lingua; poi dopo si innesta tutto il resto (morfologia, fonologia, grammatica). Il cuore di una lingua e del suo apprendimento è il piano lessicale e il piano semantico, piuttosto che il piano grammaticale. 04/03 Nella prospettiva della linguistica applicata e dell’insegnamento delle lingue, il lessico è stato a lungo ritenuto secondario rispetto a ciò che veniva considerato il cuore dell’insegnamento di una lingua, ossia Quando si introduce il verbo, si introduce una predicazione. La semplice nominazione non è soggetta a giudizio di verità o falsità. Ci si può chiedere se una affermazione sia vera o falsa soltanto se ha la forma di una predicazione. L’obiettivo di Aristotele è una teoria della verità, non un’analisi grammaticale. Per Aristotele, il sostantivo nomina e il verbo predica, chiamato anche predicato. L’unica distinzione che sembra essere universale in tutte le lingue e quella tra nomi e verbi; 2. la seconda è una classificazione di tipo etimologico. Nel lessico dell’italiano, come in quello delle grandi lingue, si possono individuare diversi strati di parole, a seconda della loro origine. Fanno parte del lessico italiano moltissime parole ereditate dal latino. Dal punto di vista etimologico ci sono tre grandi classi di parole: le parole ereditate dal latino, le parole prese da altre lingue e infine le parole che si sono formate in italiano. Queste parole che ci arrivano direttamente dal latino vengono chiamate parole ereditate o patrimoniali. L’altra possibilità, ossia quella della tradizione indiretta, riguarda le parole che c’erano già in latino, ma sono state ripescate dal latino in epoche successive. I cultismi hanno la forma più simile a quella latina: fiume e fluviale; fluviale è un cultismo, poiché mantiene la forma simile a fluvialem. Per quanto riguarda le parole prese da altre lingue, abbiamo ad esempio la parola bistecca, ormai irriconoscibile che venga da un’altra lingua. I prestiti più antichi hanno subito questo processo di adattamento e sono ormai pienamente integrati sia nella fonetica che nella morfologia della lingua d’arrivo; 3. l’ultima grande categoria riguarda gli aspetti statistici (la stratificazione degli usi). Una delle differenze più grandi che c’è tra le parole riguarda il loro diverso uso, la diversa frequenza d’uso. In poche parole, ci sono parole molto più usate di altre e parole molto meno conosciute e, di conseguenza, molto meno usate di altre. La linguistica statistica rappresenta un intero settore degli studi linguistici; l’analisi quantitativa dei fatti linguistici è un settore autonomo e sempre più fiorente, incluso il fatto che grazie agli strumenti informatici abbiamo a disposizione i corpora, raccolte di testi per tantissime lingue. Si parla proprio di linguistica dei corpora per indicare questo settore dello studio del linguaggio che utilizza i corpora e si basa sulla loro analisi. La linguistica statistica inizia a fine Ottocento, quando ancora la linguistica generale non si è perfettamente formata e nasce nell’ambito della stenografia (scrittura abbreviata/veloce). Nella stenografia di fine Ottocento nascono questi studi sulla frequenza. Nel 1898 esce a Berlino un elenco delle parole più frequenti del tedesco a uso degli stenografi. È un elenco che rappresenta storicamente una delle prime liste di frequenza. Negli USA, agli inizi del Novecento, molte comunicazioni pubblicitarie sfruttavano le liste di frequenza in modo da arrivare anche agli strati della popolazione meno colti. Intorno agli anni 1950/1960 negli USA c’è un grande boom della linguistica statistica. Uno dei nomi più importanti da ricordare è quello di George Zipf. Lui scopre che le parole più frequenti sono più brevi, per una questione di economicità della lingua, e che le parole più nominate hanno più significati (parole polisemiche). Lui scopre che c’è una proporzione regolare tra quanto è frequente una parola e quanti significati ha. Da questi studi emerge l’idea che le parole non sono tutte uguali; non sono uguali né per frequenza e né per il tipo di informazione; ci sono parole più importanti dal punto di vista dell’uso; emerge un fenomeno che oggi è dato per scontato dai linguisti, cioè che i dati di frequenza giocano un ruolo molto importante nell’architettura di una lingua; questo significa che la lingua è un codice progettato anche tenendo conto del suo uso. In questo codice agiscono dei principi generali, ma agiscono anche dei fenomeni che hanno a che fare con le caratteristiche di noi utilizzatori di quel codice. Il fatto che le parole più frequenti siano più corte significa che questo codice si è evoluto insieme ai suoi utilizzatori; il linguaggio verbale non è un software creato in laboratorio e le cui caratteristiche sono indipendenti da chi le deve utilizzare. 11/03 Nel 1971 viene elaborato il LIF, lessico italiano di frequenza. È una lista di 5.000 lemmi italiani ricavati da un corpus di circa 500.000 parole. Le prime cinque parole più frequenti sono: “il”, “di”, “egli”, “a” ed “essere”; si tratta di lessemi; quando il LIF elenca “egli”, sotto sono contate non solo le singole occorrenze di “egli”, ma sono ricondotte a questo lessema anche tutte le occorrenze di “gli”. Addirittura, i pronomi clitici valgono per “egli”: andarsene. Questa procedura viene chiamata lemmatizzazione; a partire da una serie di forme che si trovano nei testi, bisogna decidere a quale lessema/lemma queste forme vanno ricondotte. Il LIF considera “lui” come una forma del lessema “egli”. Il Vocabolario di base fu voluto da Tullio De Mauro. Esso uscì per la prima volta come appendice ad un libretto di De Mauro, che si intitola Guida all’uso delle parole. Questo Vocabolario di base conteneva circa le 7.000 parole più frequenti dell’italiano, suddivise in tre fasce. Il vocabolario fondamentale è costituito da circa 2.000 parole di massima frequenza. Queste parole possono essere considerate il cuore del lessico italiano. Si può dedurre che una percentuale tra l’80 e il 90% di qualunque testo italiano sia formato dal vocabolario fondamentale. La fascia successiva viene chiamata di alto uso e contiene circa 3.000 lessemi. Se si mette insieme il vocabolario fondamentale con quello di alto uso si avranno in tutto 5.000 parole che sono il cuore della nostra lingua. La terza fascia è costituita dal lessico di alta disponibilità. È una nozione più psicolinguistica più che linguistica. Si tratta di vocaboli disponibili ai parlanti, ossia presenti nel lessico mentale, ma risultano avere bassa frequenza, perché sono vocaboli che raramente ci capita di scrivere. Questa terza fascia dei vocaboli di alta disponibilità/famigliarità non è ricavata dallo spoglio dei testi, ma da interviste. Per ogni parola e per ogni accezione del dizionario GRADIT viene data una marca d’uso, cioè viene indicato se è una parola del vocabolario fondamentale o di quello d’alto uso. L’anello fuori dal Vocabolario di base è quello che viene chiamato vocabolario comune, lessico comune; è una fascia molto ampia di parole, intorno a 40.000/ 50.000 parole, che non sono di base, ma non sono neanche iperspecialistiche; si presume che siano note a chiunque abbia un’istruzione superiore. Un’altra caratteristica del Vocabolario di base è che le analisi fatte per realizzare questo elenco correlano le tre fasce ai livelli di scolarizzazione; il vocabolario fondamentale dovrebbe risultare comprensibile a chiunque abbia almeno la licenza elementare, mentre il vocabolario di alto uso corrisponderebbe alla licenza media inferiore. Non è nel vocabolario comune vocabolo come “epatosplenomegalia”, poiché è conosciuto ai medici e al campo medico-scientifico. Ci sono anche i vocaboli obsoleti, ossia parole che furono usate in altri tempi, ma oggi non si usano più. Altra categoria è quella dei dialettalismi e i regionalismi, parole che hanno un uso limitato e confinato a determinate aree del paese (attripparsi, abbiocco, bischerata). Perché esistono le liste di frequenza? Questi materiali hanno tantissime applicazioni in vari campi, ad esempio in Italia il Vocabolario di base è stato usato per controllare il livello di leggibilità dei testi. Negli stessi anni all’Università La Sapienza di Roma, dove insegnava Tullio De Mauro, venne avviato un progetto di un mensile ad alta leggibilità, rivolto sia a stranieri e sia a persone con problemi cognitivi. Era un mensile in cui uscivano articoli di politica in una versione ad altissima leggibilità e comprensibilità. Il Vocabolario di base fu assunto nel 1992 come punto di riferimento della grandissima innovazione che ci fu in quell’anno, cioè il codice di stile delle comunicazioni scritte ad uso delle amministrazioni pubbliche voluto dall’allora ministro Sabino Cassese. Queste liste di frequenza hanno molta importanza nell’ambito glottodidattico, perché ci dicono sia quante e sia quali parole un apprendente è bene che conosca e, quindi, l’insegnante è bene che insegni. L’apprendimento del lessico ha una componente quantitativa, ma anche una componente qualitativa. In una classe delle elementari non si dovrebbe privilegiare il bambino che sa usare il verbo “recarsi”, ma si dovrebbe porre l’attenzione sul bambino che non sa neanche una parola base come “andare”. La linguistica dei corpora va oltre l’analisi statistica della lingua; va a studiare la manifestazione di determinati fenomeni linguistici all’interno di testi autentici. L’analisi dei dati concreti porta spesso a fare emergere qualcosa a cui il linguista non sarebbe arrivato solo con la sua introspezione. Emergono delle regolarità e degli schemi ai quali uno non penserebbe e che invece si rivelano nell’uso dei parlanti. Alcune strutture si scoprono solo analizzando i corpora; sono esempi che mai ci verrebbero in mente o che non verrebbe naturale spiegare soltanto con gli esempi che possono venire in mente. 15/03 Anthony Mollica-Ludolinguistica. Uno dei meriti della linguistica strutturale di derivazione saussuriana è quello di aver introdotto per la prima volta nella linguistica l’idea che il lessico non sia semplicemente una massa informe di parole, ma è un insieme organizzato e strutturato. Possiamo individuare all’interno del lessico dei principi di organizzazione. L’idea di Saussure è quella di lingua come sistema; all’interno del sistema linguistico le unità di qualunque genere, ma a iniziare da quelle lessicali, definiscono il loro valore in rapporto a tutte le altre (metafora degli scacchi). Quest’idea saussuriana è una conseguenza diretta del principio dell’arbitrarietà. Se la lingua non fosse arbitraria, la parola bianco avrebbe un significato determinato da qualcosa; siccome la lingua è arbitraria, per capire il significato di una parola, si deve guardare all’insieme delle parole in cui questa si colloca. Saussure introduce una distinzione tra due grandi tipi di rapporti che si possono creare tra le parole: rapporti sintagmatici e rapporti associativi. I rapporti associativi saranno poi chiamati paradigmatici. I rapporti sintagmatici sono quelli che si creano nella prospettiva della combinatoria delle parole; rientra qui tutto il tema della combinatoria lessicale e anche dei diversi tipi di combinatoria. Nel lessico dell’italiano si verifica che l’aggettivo “madornale” ha una combinatoria ristretta (errore madornale); per “miagolare”, la combinatoria è ristretta per via del significato stesso della parola. Ci sono anche altre relazioni che non sono in presenza, bensì in absentia; sono le relazioni che ogni parola intrattiene con tutte le altre a cui può essere associata. I rapporti associativi non si creano nel discorso, ma si creano nella mente del parlante. Saussure dice che le associazioni sono di due tipi: quelle che dipendono dalla psicologia del singolo individuo e quelle che nella lingua sono consolidate e non sono di un singolo parlante. Le associazioni non soggettive possono essere oggetto di indagine linguistica; quelle soggettive di indagine psicologica. Le principali relazioni sono quattro: sinonimia, opposizione, iponimia e meronimia. I primi due sono chiamati anche rapporti orizzontali, perché si verificano tra lessemi che non sono in una relazione gerarchica, sono sullo stesso piano. Iponimia e meronimia, invece, sono relazioni di tipo gerarchico e sono dette anche relazioni verticali. La definizione comune di sinonimia è che sono sinonime due parole che hanno lo stesso significato. Questo è falso, è pressoché impossibile. Esiste la sinonimia parziale, non la sinonimia completa. L’analisi dei contesti ci dice che possono sostituirsi l’uno all’altro nello stesso contesto lessemi che non avremmo detto essere sinonimi, ad esempio comprare e prendere. Questo ci dice che la questione cruciale è il contesto. La sinonimia intesa come identità di significato non esiste; esiste una sinonimia più o meno ampia o parziale che è determinata dal contesto. Ci sono anche altre variabili che pesano: la più importante è la variabile sociolinguistica (diafasia). La differenza di registro determina quella che in semantica viene chiamata una differenza di connotazione. Le lingue sono progettate in maniera efficiente, non avrebbe senso che ci fossero così tante parole con lo stesso significato. Ciò che troviamo è un grado più o meno elevato di somiglianza che prevede una serie di gradazioni. Dal punto di vista didattico, la semantica lessicale ci dice che è proprio su questo che si dovrebbe lavorare in sede di didattica delle lingue. Analisi materiali didattici sulla sinonimia: sono liste di parole completamente fuori contesto. La sinonimia è una relazione che esiste solo relativamente ai contesti; noi non possiamo dire in assoluto se due parole siano o meno sinonimi. Queste liste non tengono conto di tutte le dimensioni di variazioni linguistiche. Nella sezione vecchio: vetusto, anziano, attempato e antico c’è un errore descrittivo, cioè gli aggettivi di età presentano sempre una serie di peculiarità: non tutti possono essere riferiti a tutto. Vecchio può essere riferito sia ad un oggetto animato che ad un oggetto inanimato, mentre attempato si può riferire solo a persone. Come dice Saussure, le associazioni dipendono sia da associazioni mentali e sia da associazioni nei contesti sintagmatici. Alcuni di questi esempi chiamano in causa il tema dei campi lessicali. Un campo lessicale è l’insieme dei lessemi che si riferiscono a uno stesso concetto/ambito. Il campo lessicale dei colori include tutte le parole che in una lingua si riferiscono ai nomi dei colori; il campo lessicale della parentela include tutti i termini di parentela. All’interno dei campi lessicali le parole intrattengono relazioni semantiche. Ad esempio, nel campo lessicale degli aggettivi di età, vecchio e anziano sono in una relazione di sinonimia più o meno totale, mentre vecchio e giovane sono in una relazione di opposizione. Qui vengono dati come sinonimi dei vocaboli che in realtà non sono sinonimi, semplicemente appartengono allo stesso campo lessicale. Questi errori si trovano spesso anche in materiali relativi alle L2. Si prendono tutti i verba dicendi (parlare, dire, sussurrare, bisbigliare, urlare) e si danno come sinonimi. Sussurrare e urlare non sono assolutamente sinonimi; sono verbi dello stesso campo lessicale. Nell’ambito di didattica linguistica Questo succede anche nell’altra relazione verticale, ossia quella di olonimia e meronimia. È anch’essa una relazione gerarchica che si instaura tra un lessema che indica un tutto e un altro che indica parti di questo tutto. Mentre iperonimia/iponimia risponde al test “è un”, la relazione di olonimia/meronimia risponde al test “è parte di”. Il braccio è parte del corpo. Anche per quanto riguarda la meronimia vediamo accadere alcune delle complesse faccende linguistiche e cognitive che abbiamo visto accadere nell’iponimia. Sono spesso fattori extralinguistici che ci guidano nello stabilire se tra due vocaboli c’è un rapporto di olonimia/meronimia. Tendiamo a creare meronimi per le parti che da un punto di vista funzionale o percettivo spiccano come parti. Anche la relazione di meronimia risponde a dei criteri extralinguistici. La porta ha una maniglia, la porta è parte dell’aula, diremmo che l’aula ha una maniglia? No, perché la maniglia è un oggetto che ha importanza rispetto alla porta e non rispetto all’aula. Non percepiamo la maniglia come una parte significativa dell’aula, ma della porta. In ambito didattico, bisogna introdurre che l’uso di queste relazioni lessicali chiama in causa fattori cognitivi e psicologici. Con bambini molto piccoli delle elementari questo discorso non si può fare, perché usano delle categorizzazioni diverse da quelle degli adulti; le loro categorizzazioni sono più percettive; metterebbero nella stessa categoria gli occhiali e le biciclette per via della forma tonda oppure creano delle categorie di tipo funzionale a cui noi non penseremo mai; un esempio a riguardo è il brano di Borges nel quale lui spiega che secondo un’enciclopedia cinese, gli animali si dividono in delle categorie che noi non useremo mai; ad esempio; animali appartenenti all’imperatore, imbalsamati, addomesticati. Sono categorizzazioni fantasiose che non potrebbero esistere cognitivamente, però i bambini molto piccoli fanno cose del genere. Di un cane direbbero che abbaia e muove la coda e non che è quadrupede. Prevale in qualche modo la funzione percettiva: la palla rotola, il coltello taglia, il cane abbaia. Nella semantica strutturale si provò ad applicare al significato delle parole una descrizione come quella usata dalla fonologia che usava i tratti articolatori per descrivere i fonemi. Si pensò di usare un modello analogo per descrivere i significati delle parole. Donna e ragazza si distinguerebbero per il tratto più o meno adulta. In realtà, questa definizione da dizionario del significato delle parole salta ogni giorno. Succede nella lingua che le parole possono cambiare di significato, possono acquisire dei significati nuovi, si possono estendere i significati per includere dei casi che prima non si verificavano. Lakoff propone un’analisi del significato della parola mother. Chi è la madre? Quella che partorisce? Quella biologica? Quella adottiva? Quella che porta avanti la gestazione? Polisemia e omonimia Il potenziale di ambiguità è una delle caratteristiche più importanti delle unità lessicali. Può succedere che una stessa forma abbia più significati; in questi casi parliamo di polisemia. L’altra forma è quella dell’omonimia che si verifica quando due parole hanno significati completamente diversi, ma che casualmente coincidono nella forma. Ci sono vari tipi di ambiguità: ambiguità sintattica: ho visto un uomo con il binocolo; ambiguità fonologica: luna (sostantivo) o l’una; ambiguità lessicale: ho picchiato il capo. L’ambiguità lessicale è quella che più ha destato interesse sin dalla retorica antica. Quintiliano propone una trattazione dell’ambiguità molto moderna. In particolare, l’omonimia è sempre stata definita come il risultato di accidenti diacronici che capitano e se non capitassero, sarebbe meglio. Ullmann dice che una lingua senza omonimia sarebbe più facile. La linguistica ci dice che l’ambiguità è una proprietà utile del linguaggio; esso è ambiguo perché questo porta una semplificazione nel suo uso. Non si può avere una parola diversa per ogni sfumatura di significato. 22/03 La polisemia è la compresenza di più significati in una stessa parola. Cosa si intende per significati diversi e quando devono essere diversi per considerarli diversi? Esistono due tipi di polisemie: la polisemia orizzontale e la polisemia verticale. La polisemia verticale viene detta anche lineare, mentre quella orizzontale viene detta non lineare. Si parla di polisemia verticale quando i diversi significati che noi possiamo riconoscere all’interno di una parola si trovano in una situazione gerarchica; quella orizzontale, invece, non prevede un rapporto di specializzazione. La polisemia verticale richiama in qualche modo la relazione di iperonimia/iponimia con la differenza che qui non si tratta di due parole differenti, ma di due significati di una stessa parola. Per questo si parla anche di autoiponimia, come se il lessema fosse iponimo di se stesso. Esempio: “bere” significa “ingerire liquidi”, ma significa anche più precisamente “bere alcolici”. Di questi aspetti si occupa la semantica diacronica. Bréal individua due tipi di cambiamenti semantici: dal generico allo specifico e viceversa. Si parla di autoiponimia dovuta restringimento di senso, oppure di autoiponimia dovuta ad ampliamento di senso. L’esempio di “bere” è considerato un caso di autoiponimia dovuta a restringimento di senso. Ci sono delle forme di autoiponimia da restringimento del senso regolari nei casi in cui un lessema può significare sia uno solo e sia entrambi i membri di una categoria. Ad esempio; la parola “cane” è maschile, ma significa anche “cane femmina”; “lines” per “assorbente”. Ci sono dei casi in cui possiamo trattare come polisemia verticale casi di automeronimia. Ad esempio; “chiudi la finestra” significa “chiudere una parte della finestra”. Di questa semantica lessicale si è occupato Cruse. Molto più complicata è la polisemia orizzontale/non lineare. I due significati non sono in una relazione gerarchica, come abbiamo visto per la polisemia verticale, ma si trovano sulla stessa linea. Ad esempio; “capo” come “testa” e “capo” come “dirigente” sono due concetti diversi. L’idea è che le forme di polisemia orizzontale non sono descrivibili sulla base di regolarità, mentre quelle di polisemia verticale sì. Il problema di questa distinzione è che lascia fuori tantissime forme di polisemia che non rientrano né nell’uno e né nell’altro caso. Non è chiaro dove collocare quella che la retorica chiama metonimia (“leggere Dante”, “una dichiarazione di Palazzo Chigi”). Esistono anche altri tipi di polisemia che non rientrano nella distinzione orizzontale/verticale. Sono le parole che indicano partizioni di tempo che hanno un doppio significato, che viene detto calendariale e non calendariale. “Mese” ha il significato calendariale di 30/31 giorni; ma se dico “ho l’appuntamento dal dentista tra un mese”, significa “30 giorni da quel giorno”, che non sempre corrisponde dal 1º al 30/31. Rientrano qui anche i casi di enantiosemia. “Spolverare” significa sia “levare la polvere”, ma anche “mettere qualcosa sopra” (“spolverata di zucchero a velo”). Dovrebbe, però, interessarci distinguere tra forme regolari di polisemia e forme di polisemia relativa. Per polisemia regolare si intende quella che riguarda non singole parole, ma diverse parole dello stesso genere; in numerose lingue, le parole che indicano un frutto hanno anche come significato un certo colore. Queste sono forme di polisemia regolare. Il colore significa sia un frutto che un colore: albicocca, cedro, fragola, pesca, prugna. In alcuni di questi casi si potrebbe sostenere che la relazione tra i due significati è di tipo metonimico, ma ci sono anche forme di polisemia regolare di tipo non metonimico. Come si colloca la metafora rispetto a queste forme di polisemia regolare? La risposta tradizionale è che la metafora non è una forma di polisemia regolare. Nell’ambito della linguistica cognitiva si è dimostrato che la metafora ha delle forme di regolarità. Come infiliamo in questo discorso sulla polisemia i casi in cui una parola può assumere un significato diverso, senza che però si senta che quello è un significato diverso? Quanto devono essere distinti due significati per poter dire che sono due? A volte una parola la si usa con una sfumatura di significato, ma non diremmo che è proprio un significato diverso. L’esempio che si fa sul libro è quello di “leggero”. In linguistica non c’è una soluzione definitiva; spesso vale il principio del continuum; tra “capo” come “parte del corpo” e “capo” come “dirigente”, certamente c’è polisemia. In molti altri casi, la distinzione è meno netta. Il caso di “leggero” probabilmente molti linguisti lo descriverebbero come estensione di un unico lessema monosemico. Il lessico di una lingua è una creatura molto dinamica, che non è assolutamente rappresentata nei dizionari. 25/03 La polisemia si verifica quando più significati sono riconducibili ad un unico lessema (capo), mentre l’omonimia si verifica quando ci sono due lessemi diversi con significati diversi e che non riconduciamo ad un unico lessema, ma a due forme diverse. Bisogna fare una distinzione tra omonimia perfetta e omofonia/omografia. Si chiamano omofoni due lessemi che si pronunciano allo stesso modo, mentre si chiamano omografi due lessemi che si scrivono allo stesso modo. Ci sono omografi non omofoni (àncora e ancòra) e omofoni non omografi (anno/hanno, cieco/ceco). In semantica lessicale, quando si parla di omonimi si intendono sia quelli che sono omografi che omonimi (omonimi perfetti). Non sempre è così; in ambito di insegnamento delle lingue questa categoria di omonimia viene stesa anche ad altri casi, perché interessano anche delle fattispecie di casi che dal punto di vista teorico non hanno particolare rilievo, ma che vengono assimilati a questa categoria. La glottodidatta Batia Laufer, già negli anni Ottanta, ha individuato quelle che verranno chiamate le synforms. Sono forme che, per la loro somiglianza fonetica, sono tipicamente fonte di errori lessicali nell’apprendimento di una lingua straniera; lei lavora sull’inglese. Porta l’esempio di price e prize. Il fatto che si pronuncino in maniera simile può indurre in un errore di interpretazione. Il fatto che queste forme inducano errore nell’apprendimento di una L2, ne giustifica uno studio separato, diverso rispetto ad altri casi simili di cui la letteratura si è già occupata, ma che si verificano nel parlante nativo; quelli che la retorica classica chiama paronomasie, ossia gli scambi o gli errori a volte intenzionali a volte meno. Un artificio retorico che va sotto il nome di paronomasia è l’accostamento di parole simili (fischi/fiaschi, risica/rosica). C’è poi tutto il filone degli errori involontari dovuti a scarsa competenza lessicale, detti solecismi (patè per patema). I lapsus, invece, sono meccanismi di errori inconsapevoli per cui si scambia una parola per un’altra in maniera inconsapevole. In ambito glottodidattico, oltre all’omonimia vera e propria, interessano anche casi di non assoluta identità, ma di somiglianza. Un altro fenomeno è quello che viene chiamato mondegreen, ossia si tratta di quel fenomeno per cui ascoltando una frase, noi la scambiamo per un’altra che ha una pronuncia simile. Questo meccanismo di interpretazione di una frase può essere anche volontario nella cosiddetta traduzione omofonica. Non si traduce il significato, ma la veste fonetica. In inglese esiste il fenomeno dei capitonyms, ossia omonimi che si distinguono per il fatto che una ha l’iniziale maiuscola e l’altra no. In inglese “March” e “march”. Va tenuta separata da questi fenomeni l’ambiguità interlinguistica, ossia una stessa forma presente in due lingue diverse (spagnolo burro; italiano burro). Questi casi sono la forma estrema di quelli che si conoscono con il nome di falsi amici del traduttore. Si chiamano “cognati” parole che in lingue diverse sono, però, imparentate, hanno un’etimologia comune (notte, night, nuit). A volte, però, due parole in lingue diverse sembrano imparentate, ma non lo sono. Ad esempio; much e mucho non sono imparentate; sono detti falsi affini o pseudocognati. Un grandissimo studioso di semantica, John Lyons, dice che il problema del criterio etimologico può avere un senso per i linguisti, ma non certo per il parlante. Il parlante usa le parole, ignorandone la storia; non si possono, quindi, basare distinzioni significative sul dato etimologico. Nella pratica concreta dell’apprendimento e dell’insegnamento delle lingue, quello che conta è quanto la somiglianza tra due parole possa indurre in errore. Un aspetto che interessa molto ai linguisti è la distinzione tra omonimia assoluta e omonimia parziale. Abbiamo detto che la semantica lessicale considera omonimi solo i casi in cui c’è perfetta coincidenza di grafia e pronuncia. C’è chi dice che le due forme debbano anche appartenere alla stessa categoria lessicale. Sarebbero omonimi assoluti casi come “canto”, perché sono entrambi sostantivi; mentre sarebbero omonimi parziali quelli che appartengono a parti del discorso diverse, come “faccia” verbo e “faccia” sostantivo. Si può aggiungere un requisito ancora più stretto: richiedere che non solo appartengano alla stessa categoria lessicale, ma che siano identici in tutte le forme del loro paradigma; rientrerebbero in questa definizione di omonimi assoluti i due “canto”, poiché uguali sia al singolare che al plurale; mentre i due “sale” (maschile singolare e plurale di sala) sono entrambi sostantivi, ma non coincidono in tutte le forme del loro paradigma. Per Lyons non basta nemmeno questo; devono coincidere pure in tutti i sulla pianta del piede chi si arrampicherà? Non porta scarpe il tavolo, su quattro piedi sta: il treno non scodinzola ma la coda ce l’ha. Anche il chiodo ha una testa, però non ci ragiona: la stessa cosa capita a più d’una persona. A volte pure gli insegnanti confondono omonimia e polisemia. Ci importa qualcosa distinguere omonimia e polisemia? No, l’importante è capire quanto può essere ampia la distanza semantica. La cosa interessante da far emergere è 1) far vedere che alcune parole possono significare più di una cosa e 2) ci sarà un legame tra la nostra testa e la testa del chiodo? Perché la coda del treno si chiama coda? Parent dice che se uno studente vede un collegamento tra due significati, va bene. Non deve essere corretto dall’insegnante, perché tutti gli studi psicolinguistici ci dicono che, quando uno studente percepisce due significati come collegati, essi si depositano meglio nella memoria lessicale. Dal punto di vista didattico, ci dovrebbe interessare che l’apprendente gestisca in qualche modo il fatto che la gran parte delle forme è associata a più significati che a volte hanno un legame e altre volte no. Si potrebbero scegliere esempi di parole di altissima frequenza che hanno vari significati e, soprattutto, distinguere casi in cui questi significati non hanno nulla a che fare l’uno con l’altro; in questo caso bisogna solo imparare a memoria. Diverso è il caso in cui qualche legame c’è, poiché qui non si dovrà imparare a memoria, c’è il potente strumento della metafora che può aiutare a trovare un ponte tra questi significati. Può essere interessante mettere a confronto come dizionari diversi ritagliano differentemente le varie accezioni di un lessema polisemico. È anche interessante analizzare il diverso trattamento delle accezioni che coincidono solo in parte. L’obiettivo di queste attività non è soltanto quello di insegnare parole, ma fare in modo che l’apprendente sia il più possibile consapevole che, quando trova una forma, non deve dare per scontato che ci sia dietro un solo significato. La grande variabilità è se tra questi significati c’è un nesso e se io parlante lo trovo, lo percepisco. Dove non c’è o non lo si percepisce, si deve procedere a memoria. A creare i nessi polisemici è perlopiù un meccanismo metaforico. 03/04 La linguistica cognitivista è considerata la teoria della metafora, lo strumento più importante per la descrizione del linguaggio metaforico. La definizione classica è che la metafora è una figura retorica che consiste nell’esprimere un concetto indicandolo non con un termine proprio, ma con un altro termine legato a quel concetto da un rapporto di analogia o di somiglianza; “Maria è veloce”; “Maria è un fulmine”. La metafora consisterebbe proprio in una sostituzione di parole; etimologicamente significa proprio questo il termine: trasferimento, spostamento (dal greco metaphérein). Umberto Eco definisce la metafora come “quell’artificio che permette di parlare metaforicamente”. La metafora non riguarda soltanto singole parole, ma può riferirsi a intere frasi o a un intero testo. Con la questione di proprio e improprio si esprime quella che è stata per secoli la visione della metafora, ossia che esiste un linguaggio letterale che è quello proprio rispetto al quale il linguaggio metaforico è improprio. Ci sono molti casi di frasi che possono essere letterali o metaforiche, a seconda dell’interpretazione (alla fine la vecchia roccia è crollata). Noi capiamo quando siamo in presenza di una metafora e la distinguiamo da una frase priva di senso. Come facciamo? Ci deve pur essere un principio/una regola in base a cui noi possiamo produrre e comprendere le metafore. Perché esiste la metafora? A quale funzione risponde? Perché i parlanti di tutte le lingue dovrebbero usare metafore? La risposta è che la metafora è un ornamento del discorso. Questa viene chiamata la teoria classica della metafora e si riconduce ad Aristotele. Si consolida nel pensiero classico un’idea della metafora come una forma artificiosa riservata ai retori e ai letterati, ossia a chi non ha come scopo il dire le cose come stanno, ma il trovare modi gradevoli di esprimersi. Per Aristotele, è bravo colui che sa inventarne di nuove da suscitare attenzione, ma non troppo strane da risultare incomprensibili. La metafora è, quindi, concepita come legata ad una forma di creatività poetica. Il fulcro della concezione classica è che la metafora si basa su una qualche forma di somiglianza tra i due termini in questione; “Mario è furbo”; “le volpi sono furbe”; “Mario è una volpe”. Quintiliano scrive che la metafora è una specie di similitudine abbreviata in cui si cancella la parola “come”. Aristotele scrive che la qualità di chi fa buone metafore è saper vedere il simile nel dissimile; saper cogliere l’elemento di somiglianza tra cose diverse. Se diciamo che Maria è una volpe, non intendiamo più rappresentare una caratteristica percettiva, ma una caratteristica del comportamento, una caratteristica che noi attribuiamo alle volpi. Basso ha studiato nel 1991 l’uso delle metafore presso gli apache, registrando metafore traducibili in italiano come “le vedove sono corvi”, “le ragazze sono farfalle”. Saremo portati a interpretarle basandoci sulla comparazione dell’abbigliamento: le vedove sono come corvi, perché si vestono di nero; le ragazze usano vestiti colorati e sono leggiadre come le farfalle. In realtà, gli apache basano queste metafore su presupposti comparativi diversi, cioè non sull’aspetto di vedove e di ragazze, ma su ciò che fanno; le ragazze sono farfalle, perché talvolta agiscono sventatamente; le vedove sono corvi, perché corvi e vedove sono poveri e non trovano nessuno che trovi il cibo per loro. Qui c’entrano dati culturali. A volte, più che esserci una somiglianza tra due entità, sembrerebbe che siamo noi a creare una somiglianza. Da queste riflessioni ha origine la teoria interattiva della metafora. Black si avvicina un po’ a quella che sarà la visione cognitivista. Lui dice che la metafora è uno strumento con cui noi creiamo delle rappresentazioni. Non si tratta semplicemente di prendere delle somiglianze che oggettivamente esistono nel mondo e trasferirle nelle metafore; la metafora crea somiglianza, non si basa su essa. È uno strumento creativo che ci aiuta a vedere il mondo in modo diverso. Con Black, per la prima volta, la metafora smette di essere vista come un semplice artificio retorico della lingua; si affaccia l’idea che sia una forma di pensiero. Il vero salto verso la concezione cognitivista della metafora si avrà negli anni Ottanta con il libro scritto da George Lakoff e Mark Johnson, intitolato Metaphors We Live By. Primo assunto: il primo assunto da cui partono Lakoff e Johnson è che la metafora ha una natura concettuale; prima ancora di essere un fenomeno linguistico, è un fenomeno cognitivo; è proprio la mente che funziona in modo metaforico. Che cos’è una metafora concettuale? È un meccanismo mentale che mette in relazione due concetti, creando un mapping tra questi due concetti; uno chiamato dominio origine e l’altro chiamato dominio oggetto. In un documento abbiamo come dominio origine il vedere, la vista; come dominio oggetto il conoscere, la conoscenza. Una metafora concettuale consiste in un mapping tra gli elementi di un dominio e gli elementi dell’altro. Vedere bene corrisponde metaforicamente a conoscere bene; vedere male corrisponde metaforicamente a non conoscere, ignorare; aiutare qualcuno a vedere significa metaforicamente aiutare a sapere. Lakoff e Johnson dicono che quando parliamo di metafore non dobbiamo riferirci a singole espressioni, ma dobbiamo andare ad analizzare il meccanismo concetto che c’è dietro e che lega questi due domini. Secondo assunto: come secondo assunto c’è l’interrogativo di quale sia la funzione della metafora. Lakoff e Johnson dicono che se la metaforicità è un fatto mentale è ovvio che devono avere una funzione concettuale/cognitiva. L’esistenza delle metafore deve essere legata al modo in cui funziona la mente. L’ipotesi che loro due fanno è che la funzione delle metafore concettuali sia quella di consentirci di esprimere dei concetti astratti nei termini di concetti più concreti. Terzo assunto: il terzo e ultimo assunto sostiene che le metafore concettuali non sono casuali, ma sono motivate; hanno una ragione. In particolare, sono motivate dai contenuti della nostra esperienza extralinguistica, ossia la nostra esperienza fisico-percettiva. Qui entra in gioco il tema dell’embodiment. Il meccanismo della metaforicità rientra nel fatto che la nostra mente usa dei concetti e delle conoscenze prelinguistici e se ne serve per elaborare concetti astratti. 05/04 Secondo la teoria cognitivista, le metafore servono ad esprimere concetti astratti ancorandoli a concetti che invece sono più concreti e, in particolare, emergono dall’esperienza corporea. Secondo Lakoff e Johnson la metafora non è una questione linguistica, ma concettuale. Secondo questo modello, una metafora consiste in un mapping/proiezione tra due domini concettuali (dominio origine e dominio oggetto) tale che il dominio oggetto viene espresso nei termini del dominio origine. L’idea di Lakoff e Johnson è che la metafora non è un fatto essenzialmente linguistico, bensì mentale; c’è un ribaltamento dell’idea che la metafora possa avere una qualche funzione concettuale. Loro dicono che c’è il pensiero metaforico prima ancora del linguaggio. Le metafore concettuali, secondo Lakoff e Johnson, si trovano anche al di fuori del linguaggio. L’idea di questa teoria è che le metafore non sono un fenomeno solo linguistico. La metaforicità è essenzialmente un fenomeno mentale. L’altro aspetto interessante di questa teoria (deriva dal fatto che Lakoff nasce come generativista) è che Lakoff fa suo il principio della creatività governata da regole. Lui estende questo principio anche a questo ambito del linguaggio figurato, che è sempre stato considerato tradizionalmente come un’anomalia; nei confronti di tutti i fenomeni non letterali, i generativisti hanno sempre detto che sarebbero dovuti essere dei principi aggiuntivi di cui occuparsene in seguito. Lakoff insiste sull’importanza del fenomeno della metafora all’interno del linguaggio; dice che è un fenomeno importantissimo della mente prima ancora che del linguaggio. La metafora deve essere dotata di una sua logica, di una sua regolarità. Il pregio maggiore di questa teoria è che ci offre un meccanismo di analisi del linguaggio metaforico che consente di trovare delle regolarità in un ambito che per secoli è rimasto sostanzialmente inspiegato. I vari significati metaforici si possono spiegare riconducendoli a delle regole. Si dice che esiste una certa struttura metaforica che mette in relazione la conoscenza con il vedere, e da ciò si spiegano tutte le varie espressioni. Un po’ come dice Chomsky per le regole sintattiche, noi possiamo anche descrivere l’esistente, ma anche ciò che potrebbe esistere. Supponiamo che esista in italiano il modo di dire “fare le cose con gli occhi cuciti”; possiamo da subito capire il significato. Questo modello può descrivere non solo quello che c’è, ma anche la differenza tra quello che potrebbe esserci e quello che potrebbe non esserci. Infine, si può provare a dare un’ipotesi di spiegazione del perché è così, tornando sul fenomeno dell’embodiment. L’embodiment è quell’idea secondo la quale i processi mentali siano collegati ai processi corporei. Lakoff parla di radicamento esperienziale delle metafore; lui dice che le metafore concettuali (conoscere e vedere) sono legate alla nostra esperienza extralinguistica e, in realtà, è da lì che hanno origine. L’idea complessiva della linguistica cognitiva è che tutto il nostro sistema concettuale, anche nelle sue parti più astratte e simboliche, sia in realtà radicato alle nostre esperienze primarie (esperienze corporee, fisiche, percettive). L’idea fondamentale è che esistano nella nostra mente dei pacchetti di conoscenze basiche che sono conoscenze prelinguistiche. Nella linguistica cognitiva vanno sotto il nome di “image schemas”; come una sorta di immagini mentali relative alle nostre esperienze più salienti. Queste esperienze sono legate al corpo nello spazio, ossia alle dimensioni dell’orientamento spaziale. La metafora del conoscere e vedere nella teoria cognitivista si chiama metafora strutturale; esse sono metafore che strutturano un concetto nei termini di un altro. Esiste poi un pacchetto di metafore che Lakoff e Johnson chiamano metafore di orientamento. Qui non c’è un concetto rappresentato nei termini di un altro, bensì è associato metaforicamente a una qualche dimensione spaziale. Ad esempio: “più” significa “su”. Quando si dice “salire”, “crescere”, “andare su”, “i prezzi vanno su”, vuol dire “aumentare”; mentre “andare giù” significa “diminuire”; in questi casi stiamo utilizzando delle metafore di orientamento. Si esprime la quantità in termini di verticalità; quello che è “su”, è di più di quello che è “giù”. Questa metafora è diversa da quella di conoscere e vedere; quella di conoscere e vedere è detta metafora strutturale, perché si ha un intero concetto della conoscenza che è metaforizzato nei termini di un altro. Qui è come se ci fosse un abbinamento tra una dimensione spaziale e un qualche concetto. Queste metafore di orientamento sono un sottosettore sul quale la teoria cognitivista ha lavorato, perché si è visto che le dimensioni dell’orientamento spaziale sono alla base di molti schemi metaforici. Testi per l’analisi letteraria (metafora del viaggio): contiene due canzoni e una poesia. In aula si può fare letteratura straniera in maniera più curiosa e interessante, utilizzando canzoni o poesie; si può agganciare l’analisi delle metafore all’analisi del linguaggio; questo può essere molto utile nell’insegnamento di una lingua straniera; si può prendere una canzone e far vedere quante parole hanno questo doppio senso. Un altro ambito in cui è stato usatissimo questo modello è l’ambito della comunicazione politica; lo stesso Lakoff ha dedicato moltissime attività a questo; lui è molto impegnato in politica; risale al 1996 un suo libro intitolato Moral Politics dedicato all’analisi di come conservatori e liberali usino metafore diverse per rappresentarsi alle elezioni. Entrambi usano la metafora della famiglia, ma sono due famiglie diverse; la metafora che usano i conservatori è quella del modello dello strict father; questa famiglia è strutturata intorno a un padre dominante (metaforicamente il governo), il quale deve esercitare una forte disciplina sui figli (metaforicamente i cittadini) per metterli in condizioni di affrontare la vita; finché il cittadino americano rispetta la legge, deve essere libero; per libero si intende che non ci deve essere nessun rapporto con lo Stato, neanche di tutela; il governo deve restare fuori dagli affari dei cittadini. I liberali, invece, usano la metafora del genitore protettivo (nurturant parent); è una famiglia in cui non c’è solo un padre autorevole, ma ci sono due genitori, un padre e una madre che collaborano, affinché i figli crescano bene. Questo è un governo liberale che si preoccupa dell’inquinamento, della povertà, si preoccupa di cose che possono avere un impatto negativo sui suoi cittadini. In questo secondo modello il governo non deve disinteressarsi dei cittadini, ma deve essere un genitore premuroso. 12/04 Applicazione della teoria cognitivista della metafora all’analisi letteraria→Lakoff si è occupato anche di questo, proponendo una serie di analisi del linguaggio metaforico che troviamo anche nel Vangelo secondo Giovanni. Nella poesia di Pascoli, lui sta applicando lo schema della giornata all’intera vita; la sera è il momento finale della giornata. Su questa metafora si innesta un’altra che potremmo definire degli eventi meteo; è una rappresentazione di eventi non fisici in termini di eventi meteo; il temporale/la burrasca rappresentano venti negativi, mentre le condizioni meteo favorevoli rappresentano una condizione positiva. Questa è una metaforizzazione legata anch’essa al tema del percorso; un evento meteo avverso impedisce il percorso. Applicazione della teoria cognitivista della metafora alla comunicazione politica→Renzi utilizzò quest’idea della rottamazione per muovere critiche durissime alla dirigenza del centro sinistra. Renzi gioca su due idee: una giovane-vecchio e poi distruggere per innovare. Qui la comunicazione politica è tutta giocata sull’idea che il vecchio è qualcosa da buttare, mentre bisogna puntare sul nuovo/giovane. Obama, invece, nel discorso del 2009 di inaugurazione della presidenza fa un discorso tutto incentrato sul tema della continuità. Applicazione della teoria cognitivista della metafora alla comunicazione sociale (ambiente)→anche di questo si è occupato e ha scritto molto Lakoff. Lui fa un’analisi della comunicazione relativa all’ambiente in cui dice che i conservatori sostengono, portano avanti e usano da sempre una metafora di tipo economico per parlare dell’ambiente; per loro l’ambiente è una risorsa. Lakoff dice che questa rappresentazione si basa, in realtà, su una metafora ancora più profonda, ossia una rappresentazione nella quale l’ambiente è fuori di noi. In realtà, noi non siamo separati dall’ambiente; noi siamo costitutivamente nell’ambiente. Qui lui si riallaccia anche a delle teorie di filosofia della percezione che vengono chiamate ecologiche, nel senso che si basano proprio sull’idea che è tutto un ecosistema e noi siamo parte dell’ambiente. Il primo testo riguarda la voce “risorse naturali” in Wikipedia. È un testo manifesto di questa metafora economica, ossia tutto quello che è nel nostro ambiente è qualcosa che, se opportunamente valorizzato, può produrre ricchezza; l’ambiente è visto come un bene, una fonte di ricchezza. Il secondo testo invece è di carattere ambientalista; quindi, cerca di capovolgere la metafora economica; questa metafora economica va rigirata per dire che l’ambiente vale. Applicazione della teoria cognitivista della metafora alla comunicazione sociale (migrazione)→nel 2015 il premier britannico Cameron paragonò i disperati che tentano di attraversare il tunnel sotto la Manica a insetti. Il fatto di pensare in termini metaforici non ha conseguenze solo nel modo in cui ci si esprime, ma anche nel modo in cui viene rappresentato un fenomeno. Rappresentare i migranti come insetti non solo significa utilizzare una similitudine deumanizzante, ma significa anche innescare tutta una serie di conseguenze legate a questa similitudine. Non è un caso che noi parliamo di migranti proprio utilizzando questo tipo di metafore animali o relative a eventi atmosferici che si accompagnano a un’idea di pericolo e di danneggiamento. Applicazione della teoria cognitivista della metafora alla comunicazione scientifica/filosofica (libro della natura)→consiste nel concepire il mondo fisico e il mondo naturale come un libro. La natura è un libro, leggendo il quale si scopre la parola di Dio. Anche questa metafora del libro della natura non è per niente innocua; innanzitutto se è un libro qualcuno lo avrà scritto, ma anche il fatto che un libro ha una logica, c’è la fiducia nel fatto che è un’opera razionale. 15/04 Applicazione della teoria cognitivista della metafora alla comunicazione medica (malattia come colpa)→anche di questo si è occupato Lakoff. Lui propone una serie di analisi relative al modo in cui, in particolare negli USA, si parla del sistema sanitario nazionale, dicendo che c’è una rappresentazione del sistema sanitario di tipo industriale; la sanità è un servizio, il paziente è un cliente e le strutture sanitarie sono erogatrici di servizi; c’è un linguaggio che converge su una rappresentazione di tipo industriale. Analizziamo la rappresentazione della malattia attraverso la metafora della retribuzione; la malattia è come un qualcosa che ti arriva come retribuzione per un qualcosa che hai fatto; è una concezione della malattia non come un evento biologico, ma come un evento morale; qualcosa che ti succede come esito di una colpa. In Italia, la parola “male” ha una doppia semantica, ossia qualcosa di eticamente sbagliato, ma anche come malattia/dolore. Questa metafora della retribuzione trova la sua massima espressione in particolare in due ambiti: quello della malattia mentale e quello delle malattie infettive. La malattia mentale è sempre stata connotata in modo simbolico; tradizionalmente, la malattia mentale/la follia è una malattia sacra; è qualcosa che ha a che fare con il divino, è l’irruzione del divino all’interno dell’uomo. Nella cultura popolare c’è un legame molto particolare tra malattia mentale e divino. Ancora di più sono così metaforizzate le malattie infettive. La Bibbia definisce immondi i lebbrosi e suggeriva di allontanarli dalla comunità; la lebbra era un qualcosa che se ce l’hai è perché sei stato punito per qualcosa di male che hai fatto. Tra tutte le malattie infettive, quelle che lasciavano segni fisici sono oggetto di queste metaforizzazioni; questi segni diventano un simbolo fisico di questa punizione morale. Il dio che punisce (dio morbo) è anche quello che cura (dio farmaco). L’azione sanitaria è affidata agli intermediari della divinità, ossia i sacerdoti. Anche per questo, forse, è controversa la figura del medico. Nella Bibbia, il medico non gode di buona fama, poiché tocca i corpi malati, contaminati, con il sangue e i cadaveri. Questo, però, dipende molto dall’influsso delle religioni; in Egitto, maneggiare cadaveri non era considerato spregevole, anzi era un’attività che aveva aumentato le conoscenze mediche; nelle religioni monoteiste, al contrario, questo toccare i malati e i cadaveri veniva sanzionato dal punto di vista religioso. Tra l’altro, i medici nel Medioevo non toccano i cadaveri; c’è una doppia distinzione tra medico (teorico e studioso di medicina) e quello che veniva chiamato cerusico (chirurgo, colui che fa praticamente le cose). La vera guarigione è quella operata dai sacerdoti. Dire che le malattie sono l’esito di un comportamento sbagliato significa la possibilità di un esorcismo; c’è la possibilità di evitare il male se ci si comporta moralmente bene e se non si commettono peccati. Galimberti parla di un uso dell’immaginario in funzione repressiva, cioè l’immaginario viene utilizzato in funzione repressiva; se agirete male, se non rispetterete i dettami morali, allora la collera di dio si abbatterà su di voi in queste forme. Nel secolo XIX cominciano a cambiare le cose, quando la scienza medica inizia a chiarire le cause delle malattie. A dispetto di ciò, malattia e colpa rimangono un binomio inscindibile. Di questo si è molto occupata una studiosa di nome Susan Sontag con un primo libro del 1977 intitolato Illness as metaphor e poi con un secondo del 1988 intitolato AIDS and its metaphor in cui analizza le metafore attraverso cui la società mistifica le malattie, assegnando loro un giudizio morale. Hai avuto l’infarto? Colpa tua, perché sei obeso e sedentario. Hai il cancro al polmone? È perché fumavi. Si arriva a costruire un rapporto persino tra cancro e colpa, con la teoria delle emozioni represse (il cancro colpisce la parte del tuo corpo che tendi a reprimere). Ma è probabilmente con l’avvento dell’AIDS, all’inizio degli anni Ottanta, che si costruisce il nesso più forte tra malattia e colpa: se hai l’HIV o l’AIDS, certamente sei un omosessuale, un drogato o un libertino. Il paziente sieropositivo viene confinato in un ghetto sociale e culturale, l’ammissione di malattia è automaticamente ammissione di colpa e accettazione del destino di emarginazione dalla comunità. Applicazione della teoria cognitivista della metafora alla comunicazione medica (malattia come guerra)→cancro, un nemico sempre più debole; quella contro il tumore è una guerra fatta di innumerevoli battaglie; vincere il nemico. In questa guerra la malattia è l’avversario, le terapie sono le armi, guarire corrisponde metaforicamente a vincere, mentre non guarire corrisponde a perdere. Uno dei problemi di questa metafora è chi combatte? A volte chi combatte è il paziente, ma in altri casi sono anche i medici e le terapie sono armi per i medici. In entrambi i casi c’è una conseguenza sgradevole di questa rappresentazione. Nel primo caso è che se non guarisci, la colpa è tua, perché non hai lottato abbastanza; ma anche quando sono i medici a combattere c’è un risvolto negativo, poiché a quel punto il malato diventa solo il campo di battaglia e il corpo del paziente diventa il luogo sul quale si combatte la guerra tra medici e malattia. Molti studiosi di comunicazione medica dicono che non è bene per i pazienti utilizzare questa metafora della guerra, dato che porta con sé troppe implicazioni negative, a iniziare dal crollo psicologico nel momento in cui la battaglia fosse persa. La canzone di Giorgio Gaber ha una rappresentazione quasi decolpevolizzante; il cancro non viene per colpa dei comportamenti sbagliati della persona, anche se resta comunque un nemico. Una rappresentazione metaforica non è solo un modo di parlare di qualcosa; è un modo di pensarlo. Questa teoria è uno strumento con tantissime possibilità applicative, anche al di là dell’idea tecnica di insegnamento linguistico. Questo modello, per la prima volta, ci consente di descrivere i fenomeni di polisemia in base a delle regole e dei principi di regolarità. Tolti i casi di polisemia regolare, le espressioni metaforiche sono metafore singole, ognuna è una metafora; una determinata parola assume nel suo percorso diacronico un particolare significato metaforico. La teoria cognitivista dice che noi possiamo analizzare più parole e più espressioni come correlate da una stessa metafora concettuale. Si fa avanti l’idea che c’è una coerenza e non si deve spiegare e imparare questi singoli significati metaforici ciascuno per conto suo, ma possiamo capirli, memorizzarli e apprenderli in quanto collegati gli uni agli altri. Per la prima volta si affaccia la possibilità di una didattica molto diversa da quella tradizionale. Qui si può riconoscere che per molte espressioni in modo coerente c’è un certo legame tra il significato letterario e quello figurato, soprattutto se quell’espressione esiste anche nella lingua materna. Il MacMillan English Dictionary for Advanced Learners è un dizionario per apprendenti; i dizionari per apprendenti sono dizionari pensati per chi sta imparando una lingua, di solito dal B2 in su, poiché sono dizionari monolingui, ma comunque semplificati. Il MacMillan era fatto bene, poiché c’era il trattamento delle metafore. La MacMillan aveva commissionato ad una linguista e lessicografa inglese, Rosamund Moon, di occuparsi dell’inserimento nel dizionario di quelle che poi verranno chiamate metaphor boxes progettati alla luce della teoria di Lakoff e Johnson. Accanto a una certa parola, per esempio quantity, compare un box che dà esempi di parole che esprimono un aumento o una diminuzione di quantità in termini di moving up or moving down. Rosamund Moon propone anche qualche attività che si può fare del tipo “riesci a pensare ad altre parole o espressioni che esprimono la stessa idea metaforica e riusciresti a parlare di quantità senza usare questa metafora”? Sono attività che in glottodidattica vanno sotto il nome di awareness raising (attività in cui non insegni il fenomeno, bensì insegni a ragionare su quel fenomeno). Nel suo articolo On specifying metaphor: an idea and its implementation, Rosamund Moon spiega quest’idea molto innovativa di introdurre questi box metaforici in questo dizionario. Negli USA si è capito subito il potenziale glottodidattico della teoria di Lakoff e Johnson per insegnare, imparare e ricordare insiemi di pay a visit (fare una visita). Lo stesso per quanto riguarda le formule convenzionali: can I help you? e help yourself; quest’ultima non significa “aiutati da solo”, bensì è il nostro equivalente di “serviti pure”. Ci sono poi le espressioni multi-parola che hanno una funzione comunicativa e pragmatica; ad esempio, le formule di saluto o di ringraziamento. Un altro pacchetto ha funzione di tipo strutturale-testuale (preposizioni, congiunzioni). C’è molto dibattito tra i glottodidatti su come inserire queste conoscenze nell’insegnamento delle lingue. La svolta lessicale che c’è stata negli ultimi decenni in glottodidattica è andata molto di pari passo con l’analisi di questo tipo di fenomeni; si è capito che una lingua è fatta più di espressioni multi- parola che di parole singole e che queste espressioni sono il luogo dove lessico e sintassi convergono. L’esistenza di queste espressioni ci dice che non solo la distinzione tra lessico e sintassi è molto più fluida di quanto avessimo pensato, ma ci dice addirittura che lessico e sintassi vanno insieme. Grazia alla linguistica dei corpora inizia a diventare sempre più chiaro alla glottodidattica che questo è il cuore della competenza linguistica. Il punto di svolta avviene con un articolo fondamentale di John Sinclair del 1991 intitolato Corpus, Concordance, Collocation. John Sinclair è ritenuto il padre della linguistica dei corpora, ma anche uno dei padri dello studio delle espressioni multi-parola, perché in questo articolo del 1991 usa i corpora proprio per analizzare le collocazioni. Lui dice che se noi guardiamo a come effettivamente funziona una lingua, vedremo che le parole hanno delle preferenze nelle loro compagnie; mostrano in qualche modo dei rapporti preferenziali. L’esempio che lui porta è quello di downturn (declino) è quasi sempre preceduta o da global (downturn) o da economic (downturn). L’idea delle collocazioni è quella che anche laddove una parola sarebbe libera in teoria di combinarsi con qualunque altra, si vede che in pratica tende a ridurre le parole con cui si accompagna. Sinclair formulerà questo concetto introducendo una distinzione tra quelli che lui chiama open-choice principale e idiom principale. Lui dice che molto poco del linguaggio funziona sulla base di una scelta completamente libera da parte del parlante (open-choice principale); la lingua ci mette a disposizione un gran numero di espressioni prefabbricate. Lui dice che si tratta di frasi/sintagmi precostruiti che il parlante utilizza come blocchi senza stare nemmeno ad analizzarli, sulla base del fatto che quello è il modo tipico di dire quella cosa. Nell’espressione “tragica scomparsa” non c’è nulla nella semantica di tragico e nella semantica di scomparsa che vincola queste due parole a comparire insieme. In altri casi c’è qualcosa di semantico: “cagliato” chiama la parola “latte”. Questa compagnia tra “tragica” e “scomparsa” si è consolidata e oggi rappresenta una combinazione preferenziale. Questa svolta lessicale, che ha coinciso con il salire alla ribalta del tema delle unità multi-parola, è stata alla base del nuovo corso di glottodidattica negli ultimi decenni. L’apprendimento e l’insegnamento di una lingua devono passare per questo genere di unità che sono i mattoni primordiali dell’uso del linguaggio e sono anche il punto dove si possono imparare contemporaneamente parole e regole grammaticali. La fraseodidattica è quel settore della didattica delle lingue che si occupa di fraseologia. Si è capito che questo genere di espressioni è una componente essenziale della competenza linguistica; dicono che siano espressioni depositate nella nostra memoria lessicale come unità singole. Non c’è dubbio che quest’area della multi-parola sia cruciale per l’apprendimento linguistico di una L2 per due ragioni essenziali: 1. la prima è che le unità multi-parola facilitano molto la fluenza proprio perché queste espressioni vengono recuperate dalla memoria come se fossero parole singole; 2. la seconda è che migliorano molto il grado di nativelikeness. Le collocazioni sono considerate uno dei fenomeni cruciali, poiché hanno la caratteristica di rappresentare una collocazione preferenziale di vocaboli in assenza di motivazioni semantiche; sono totalmente arbitrarie. Just the word è importante perché aiuta a capire le possibili collocazioni in inglese e la frequenza alta o bassa di determinate collocazioni. Per l’italiano esistono almeno tre dizionari di combinazioni. Uno è il Dizionario delle Combinazioni Lessicali di Francesco Urzì che, però, non dà nessuna indicazione sulla frequenza, così come il Dizionario Lo Cascio. Un altro è il Dizionario delle collocazioni della Zanichelli. Lewis dice che il metodo lessicale non vuol dire stravolgere completamente quello che si fa in classe, bensì cambiare il punto di vista. È l’idea che non si deve insegnare una regola grammaticale vuota a partire da zero, ma partire dalle parole che sono il luogo in cui la grammatica si manifesta e vive. Si dovrebbe partire con un metodo induttivo che parte dalle osservazioni e dalla memorizzazione per arrivare alle regole grammaticali. 22/04 Le espressioni idiomatiche sono state a lungo definite il cuore della fraseologia, in quanto fenomeno più studiato, più analizzato e più tenuto in considerazione nell’ambito delle unità multi-parola. Si tratta di quelle espressioni, soprattutto verbali, che hanno un significato tipicamente metaforico (piano semantico). Le espressioni idiomatiche si caratterizzano per il fatto che hanno un significato non composizionale diverso da quello composizionale. Proprio per questo motivo le espressioni idiomatiche sono state portate come esempio nell’ambito della linguistica chomskyana per il fatto che si tratta di unità che non possono essere prodotte e comprese secondo le normali regole linguistiche. Sono sempre state considerate al pari delle parole singole come unità listate nel lessico e che il parlante deve impararne a memoria il significato. La linguistica generativa non ha modo, per come è pensata, di gestire qualunque tipo di fenomeno non letterale, inclusi i fenomeni pragmatici (ironia, atti linguistici indiretti); tutti i casi in cui c’è una discrepanza tra ciò che un’espressione letteralmente significa e quale è, invece, la sua interpretazione corretta; tutti questi fenomeni, nella linguistica chomskyana, sono sempre stati ingestibili, perché non rispondono alle normali regole grammaticali e sintattiche; richiedono delle regole aggiuntive che all’interno di quel modello non sono mai state trovate. La regola fondamentale nella scienza e nella filosofia della scienza è che se tu trovi un fenomeno che contraddice la teoria, devi buttare la teoria e non il fenomeno. La grammatica generativa, invece, butta i fenomeni. Si osserva che pure rispetto al parametro della fissità, queste espressioni non sono tutte completamente fisse; spesso ammettono delle inserzioni come avverbi (ha tirato improvvisamente le cuoia). Per la prima volta, con questa teoria cognitivista della metafora, abbiamo avuto uno strumento descrittivo di come si produce il significato metaforico in questo tipo di espressioni. Per la prima volta si affaccia alla ribalta un modello descrittivo che consente di ricostruire una relazione motivata tra il significato letterale e il significato metaforico di queste espressioni. Motivato, però, non significa che sia predicibile, ossia che dato il significato non si può in tutti i casi ricavare l’interpretazione metaforica; anche laddove esista una qualche motivazione nel rapporto tra il segno e ciò che esso significa, questo non vuol dire che ci sia proprio un determinismo matematico. Questo si vede bene nel caso dei composti: Saussure diceva che “portacenere” è più trasparente e più motivato di “libro”. Nel caso della parola “libro” non c’è nulla nella forma e nell’espressione che dia un indizio su che cosa quella parola significhi; nel caso di “portacenere”, invece, nella forma dell’espressione c’è qualche cosa; può significare qualcosa o qualcuno che porta la cenere. Dire, però, che c’è qualcosa, vuol dire che a posteriori, una volta che si sa che cosa significa “portacenere”, si capisce il legame motivato; ma dalla sola forma della parola non si può dedurre matematicamente il significato. I falsi amici fraseologici sono, appunto, espressioni idiomatiche apparentemente identiche dal punto di vista linguistico che sembrerebbe abbiano esattamente lo stesso significato, ma in realtà hanno significati metaforici diversi. Quando si è affacciata alla ribalta la teoria cognitivista della metafora si è subito capito che era la chiave di volta per una nuova descrizione delle espressioni idiomatiche. Attraverso il meccanismo descrittivo delle metafore concettuali si può spiegare perché in un grandissimo numero di casi quelle espressioni idiomatiche hanno quel significato. Frank Boers si è molto occupato di questi fenomeni di non composizionalità semantica per la didattica, cercando di dimostrare come la teoria della metafora venga molto a favore dell’apprendimento di queste espressioni. Onestopenglish è gestito sempre dalla MacMillan ed è un sito di risorse per insegnanti. Ci sono degli esempi di unità didattiche che sfruttano le metafore concettuali a vario livello. È un modo per introdurre anche una variabile culturale in questo discorso. C’è tutto un filone di studi sull’insegnamento della metaforicità sia nella lingua materna e sia nella L2 tramite disegni/scenette/film. Tramite l’animazione, anche i bambini molto piccoli capiscono le metafore e contemporaneamente questi studi sono stati sfruttati in chiave didattica. Molti materiali didattici rivolti a bambini sulle metafore, sulle espressioni idiomatiche e sulle collocazioni utilizzano disegni e scenette, perché poter associare un’immagine a una espressione linguistica è un mezzo molto potente per ricordare quell’espressione. Anche tra lingue e culture affini possono esistere i cosiddetti falsi amici fraseologici. Ci possono essere casi di espressioni idiomatiche che sembrano identiche in due lingue invece hanno un significato diverso. Ad esempio, in italiano “portare qualcuno in palmo di mano” significa avere grande stima/ammirazione), ma in inglese “to have someone in the palm of one’s hand” significa controllarlo, avere il controllo; in italiano “tirare per la giacca” significa forzare, ma in inglese “to pull someone’s coat” significa avvisare. In alcuni casi queste espressioni rinviano a immagini mentali diverse e per questo motivo hanno due significati diversi nelle lingue in analisi. A volte, ancora più complicato, l’immagine è la stessa: italiano “dare un calcio” significa allontanare, ma in inglese “give a kick” significa dare un calcio per iniziare a far muovere qualcosa. I significati sono completamente diversi, ma con la stessa immagine mentale. Kövecses ha proposto di parlare di cognitive culture theory of metaphor. 24/04 Questi fenomeni di fraseologismi pragmatici hanno tanti nomi: idioms pragmatici, formule o cliché situazionali. È tutto un mondo di unità fraseologiche del quale non ci sono classificazioni. Anthony Mollica sostiene l’insegnamento delle lingue basato su attività di tipo ludico. L’idea è che si impara molto quando non si è concentrati sull’imparare. La ludolinguistica parte dall’idea che l’apprendimento si verifica quando non si pensa di star apprendendo. Il meccanismo ludolinguistico si basa su questo: si svolge un’attività divertente, ma in realtà si sta apprendendo. Mollica si è interessato all’approccio lessicale, perché c’è un punto d’unione tra la ludolinguistica e l’approccio lessicale. Molti sostenitori dell’approccio lessicale adottano una didattica ludolinguistica proprio per l’insegnamento dei chunks (unità multi-parola). Nell’articolo, Federica Casadei parla di Periphery of Phraseology per indicare quest’area delle espressioni di tipo formulare/pragmatico. Si dice che siano espressioni caratterizzate non tanto sul piano semantico, ma proprio da una funzione particolare. Molti di coloro che si occupano di fraseologia, le hanno trascurate; se ne sono occupati i sociolinguisti. Pablo Zamora Muñoz si è occupato molto di fraseologia anche italiana. Si devono a lui alcuni studi sugli idioms pragmatici in italiano. Casadei prova a proporre una prima tipologia di classificazione diversa da quella proposta da Lewis, poiché lui propone una piccola classificazione basata sul tipo di struttura sintattica; lui distingue tra: 1. espressioni corte (just a moment, please; not yet) che chiama hardly grammaticalised; 2. un secondo tipo sono quelli che chiama frames, ossia delle strutture che prevedono anche una parte aperta che può essere poi riempita in diversi modi; questo filone si chiama in linguistica costruzionismo o grammatica delle costruzioni; loro dicono che le unità di base della lingua sono costruzioni intese come abbinamenti più o meno complessi di una forma e di un significato. Una singola parola in questo approccio può essere una costruzione, ma anche strutture di questo genere, ossia un’entità lessico grammaticale che prevede delle posizioni aperte e delle posizioni fisse; riempiendo le posizioni aperte, quella struttura fa da frame per un numero aperto di frasi; 3. ci sono poi le full sentences. Lewis propone, quindi, una classificazione strutturale; Casadei propone una classificazione di tipo funzionale, distinguendo tre grandi classi di funzioni di espressioni:
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