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Linguistica italiana, Sintesi del corso di Linguistica

manuale di grammatica con nozioni inerenti al lessico, fonologia e sintassi

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

Caricato il 23/07/2019

americo
americo 🇮🇹

4.1

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Scarica Linguistica italiana e più Sintesi del corso in PDF di Linguistica solo su Docsity! FRASE ED ENUNCIATO La frase è una espressione costruita secondo le regole generali della lingua, un’espressione che si regge da sola anche senza collegamenti ad altre frasi e senza riferimenti ad una situazione comunicativa. L’enunciato è un’espressione linguistica compresa tra due stacchi forti (fonici o grafici), che sia parte di un testo e che abbia senso compiuto perché collegata ad altri enunciati, o legata ad una determinata situazione comunicativa. È un’espressione dunque incompleta linguisticamente, che diventa significativa quando si integra con le altre espressioni vicine o anche con il solo contesto di cose e fatti presenti nell’ambiente. Es se devo entrare in una stanza busso, l’altra persona che è situata all’interno dice “Avanti!” (avanti è l’enunciato), l’enunciato collegato ai colpetti del bussare si trasforma in un dialogo completo. La lingua verbale è costituita da tanti “pezzi” che si combinano e agganciano tra loro formando un sistema. Tra i pezzi minimi vi sono i fonemi, che formano le parole. Quest’ultime si legano tra loro per formare delle frasi. Es il mio cane segue il tuo gatto Possiamo capire il significato della frase poiché conosciamo tutte le parole al suo interno. Osservando bene possiamo notare che tali parole sono collegate tra di loro da tre elementi: • Significato: insieme al verbo inseguire dobbiamo nominare gli esseri animati che compiono l’inseguimento, infatti tale verbo è seguito da due nomi: cane e gatto. L’indicazione dei due animali è affiancata poi dalle parole il, che li determina, e mio e tuo, che invece precisano l’appartenenza del gatto a qualcuno. • Forma: la forma verbale inseguire è terza persona singolare e deve accoppiarsi con un nome che indichi una terza persona singolare. • Funzione: il verbo inseguire specifica che debbano essere indicati l’inseguitore e l’inseguito e stabilire chi insegue chi. Per poterlo stabilire bisogna seguire la regola generale della nostra lingua: il nome che precede il verbo è di solito quello che gli da forma, perché svolge la funzione grammaticale di soggetto. Il vergo inseguire per il suo stesso significato richiede anche un secondo nome che indichi l’inseguito e quindi esprima la funzione grammaticale di oggetto. Le frasi o ogni altra categoria linguistica di cui ci serviamo sono costituite di parole che appartengono a una delle otto categorie o parti del discorso: verbi, nomi, articoli, pronomi, avverbi, congiunzioni. È importante capire tuttavia che dentro un testo vi sono più elementi da considerare non isolatamente ma per la loro funzione: ovvero per il contributo che ogni parola da ad una frase. Che cos’è la sintassi?: abbiamo compreso che parlando di funzione tra le parole ci riferiamo al rapporto delle parole che si collegano per formare degli insiemi. Tale collegamento tra le parole prende il nome di sintassi, ovvero: il collegamento tra le parole di un discorso, sia breve che a lingua distanza, per formare delle frasi. Quest’ultima mette in gioco: forma, significato e funzione delle parole. L’origine delle parole sintassi: deriva dal greco ed è formata dalla preposizione syn che vuol dire “insieme con “e dal nome taxìs “ordinamento”. Significa dunque “ordine dato alle cose che stanno insieme”. LESSICO Lessico: è l’insieme delle parole della nostra lingua organizzato secondo relazioni di significato. Sintassi e lessico sono due ambiti strettamente collegati. Studiando la frase semplice, ci siamo resi conto come la valenza dipenda dal significato del verbo: la scelta delle parole è influenzata dalla costruzione grammaticale della frase che a sua volta la influenza. A differenza della sintassi che è un sistema chiuso, caratterizzato da un numero finito di regole e combinazioni che ci permettono di costruire le frasi, il lessico è un insieme aperto, che si arricchisce continuamente di parole nuove. Nela nostra mente le parole convivono raggruppate in famiglie, all’interno di quest’ultime vi sono parole che che fanno da guida alle altre che potremmo chiamare: parole-guida. Es Albero: • Parenti per significato: ovvero vicini alla nostra idea di albero (tronco, rami, foglie, campagna, erba, verde e natura…) • Parenti per significato e forma: accanto ad albero mettiamo tutti i derivati (alberetto, alberello, alberatura, poi anche albero di Natale, albero della nave etc… • Parenti per forma: sono quelle parole che hanno soltanto una somiglianza con le parole guida, ad esempio quelle che iniziano con -alb (albicocca, alba, albeggiare, albo, albino…) Da queste prime osservazioni si ricava chiaramente il concetto che il lessico è tenuto insieme da una fitta rete di legami. I campi semantici: nella nostra mente i significati che intercorrono dalla formazione delle famiglie sono importanti. I significati, agganciati l’uno all’altro formano degli intrecci chiamati campi semantici ovvero aree di significato collegate tra loro. Il campo semantico raccoglie solo i primi due tipi di parenti, che stabiliscono tra di loro relazioni di significato. Il significato di una parola è delimitato da quelli delle parole vicine. Es casa, è delimitato e quindi definito dai significati di capanna, casolare, villa, palazzo, reggia… 1 palazzoc pannaAbit ione c struita dagli uomini reggiavill dell’iponimìa e iperonimìa) e sia di tipo paritario come nel caso di sinonimìa e opposizione. I rapporti di solidarietà lessicale prendono il nome di sintagmatici, si stabiliscono tra parole contemporaneamente presenti. Si creano quindi delle combinazioni lessicali più o meno fisse. Il lessico si apprende non come un elenco di parole isolate, ma in particolare come rete di parole connesse tra di loro da un punto di vista del significato. Le parole indispensabili: Le parole più importanti nella nostra lingua sono circa 7000, quest’ultime vennero individuate da Tullio De Mauro insieme ad un gruppo di ricercatori. L’insieme di queste parole forma il cosiddetto lessico o vocabolario di base, articolato in: • Vocabolario fondamentale: che comprende 2000 parole frequentissime (basta, bene, bello, casa, vivere) che tutti conosciamo e sappiamo usare. Sole queste parole costituiscono più del 90% dei nostri discorsi quotidiani. • Vocabolario di alta disponibilità: che comprende oltre 2500 parole. Si tratta di parole che usiamo meno spesso quando parliamo e ancor meno quando scriviamo. Tuttavia tutti le conosciamo perché fanno riferimento a oggetti e azioni elementari (grazie, acerbo, dispari, aceto, autobus, barbiere, forfora etc…) • Lessico ad alto uso: che comprende 3000 parole circa, che dobbiamo conoscere per poter andare al di la di un livello elementare della comunicazione, e di fatto usiamo con una certa frequenza (benchè, tranne, talvolta, ovvero, arrivederci, esclamare etc...). Il lessico di base è l’insieme delle parole abitualmente usate e comprese senza difficoltà dalla maggioranza degli italiani che abbiano frequentato le scuole dell’obbligo. La conoscenza del nostro lessico di base può aiutarci a comprendere la leggibilità dei nostri testi ovvero il grado di comprensibilità. Sullo sfondo rimangono parole di frequenza minore che formano il cosiddetto lessico colto, che comprende decine di migliaia di parole. Un altro strato periferico è costituito da lessici settoriali o tecnici: si tratta di parole utilizzata solo da coloro che lavorano in un settore o ha attuato stufi specialistici ( medici, giudici, informatici etc…) Rapporti paradigmaticisint gmatic unità polirematiche Il vocabolario si differenzia dal lessico generale di una lingua e anche dal dizionario, che è il suo strumento di descrizione. LA FONOLOGIA Lo studio fisico dei suoni si chiama fonetica invece lo studio della funzione che hanno i suoni si chiama fonologia. L’insieme delle regole che governano il corretto uso scritto della lingua è materia dell’ortografia. Quest’ultima non è altro che l’insieme delle regole che governano l’uso scritto. L’apparato fonatorio produce i suoni I suoni di una lingua vengono prodotti dall’urto dell’aria contro i vari ostacoli che si incontrano nel percorso della laringe fino ad uscire dalla bocca. La fonetica descrive i suoni dal punto di vista fisico: come essi sono prodotti. Possiamo distingue nell’apparato fonatorio: • Fonetica articolatoria (come sono prodotti) • Fonetica acustica (come si propagano) • Fonetica uditiva (come vengono percepiti dall’orecchio) Distinguiamo due grandi categorie di suoni: • VOCALI (suoni puri): prodotti dall’aria quando nel canale orale non si creano ostacoli resistenti. • CONSONANTI (o rumori): prodotti dall’aria quando nel canale si creano ostacoli resistenti. A questi si aggiungono i suoni intermedi tra vocali e consonanti: semivocali e semiconsonanti. Durante il passaggio dell’aria si possono verificare altri fenomeni importanti: • Le corde vocali: possono essere rilassate o tese. Se sono rilassate producono solo deboli vibrazioni, quindi suoni sordi (consonanti sorde) come: p, t, k, f; se sono tese danno origine a suoni sonori (tutte le vocali e le consonanti sonore) come: b, d, g, v. • L’aria può passare solo attraverso la bocca o attraverso bocca e naso: nel primo caso si hanno suoni orali es b e d, nel secondo i suoni nasali es m e n • Anche la durata dei suoni può variare perché i suoni possono essere pronunciati in un tempo breve o lungo. Si hanno così quindi le vocali brevi o lunghe che vengono distinte solo nella grammatica del latino es ē, ī etc… e le consonanti brevi o lunghe sono senza distinte in base alle doppie (rr, ll , bb). Nella descrizione scientifica dei suoni bisogna tener conto di: • Il luogo di articolazione ovvero l’apparato fonatorio • Il modo di articolazione ovvero il modo in cui viene prodotto il suono • L’impressione uditiva ovvero il suono che riceve il nostro orecchio. I suoni articolati che vengono utilizzati e percepiti dall’orecchio come distinti in ciascuna lingua si chiamano fonemi. I fonemi e la loro rappresentazione: i fonemi si riconoscono attraverso un processo molto semplice: ogni suono, che in una data lingua, viene inserito al posto di un altro da origine ad una parola di 1 significato diverso, costituendo a sua volta un altro fonema della stessa lingua. Ad esempio se alla parola mare sostituiamo la m con la p diventa pare, oppure la f con la p abbiamo fare etc… per rappresentare graficamente in modo preciso i suoni della lingua non possiamo attenerci solo ai segni alfabetici, detti grafemi i quali possono variare anche all’interno di una stessa lingua ad esempio il fonema /k/ in cane e il fonema /ts/ in cena. Si usano invece degli alfabeti convenzionali che permette di rappresentare i suoni delle più importanti lingue del mondo. I fonemi della lingua italiana Nella lingua italiana si hanno in tutto 30 fonemi ovvero sette vocali + due semiconsonanti + 21 consonanti se non contiamo le differenze di durata dei suoni consonantici. Se teniamo conto delle differenze di durata delle consonanti che valgono per 15 consonanti il numero dei fonemi dell’italiano sale a 45. Le vocali: Come abbiamo detto le vocali sono suoni linguistici prodotti dall’aria attraverso il canale fonatorio senza l’incontro di ostacoli particolarmente rilevanti nella produzione delle vocali entrano in gioco quattro fattori. • La vibrazione delle corde vocali • La posizione bassa o alta del dorso della lingua rispetto al parlato, conseguente apertura o chiusura dell’apparato fonatorio • Il luogo di articolazione, dato dallo spostamento del dorso della lingua nella cavità orale • L’eventuale arrotondamento in avanti delle labbra Nella lingua italiana standard si distinguono sette vocali che vengono rappresentate nello scritto con cinque grafemi. + schema Le consonanti Oltre al modo di articolazione E al luogo di articolazione nella classificazione delle consonanti convergono anche parametri di sordità e di sonorità della nazionalità il seguente schema riparte suoni consonantici dell’italiano. + schema Secondo il modo di articolazione le consonanti possono essere distinte in: • Occlusive • Fricative • Affricate • Liquide (laterali e vibranti) Secondo luogo di articolazione possiamo avere suoni consonanti: -Bilabiali –Labiodentali -Dentali -Alveolari -Prepalatali -Palatali -Sei il gruppo nell’insieme non ricorre all’inizio di una parola italiana le consonanti vengono divise tra le sillabe per esempio: on-da, ar-co etc… • Le consonanti o gruppi di consonanti infine parola fanno da sillaba con la vocale precedente ad esempio sport È una parola di una sillaba, re-cord È una parola di due. • Ovviamente i digrammi e trigrammi (ch,gh,gn,gli) non si dividono mai tra le diverse sillabe. Infine notiamo: • Le sillabe che finiscono in vocale (cioè non hanno la coda come: la-go) si dicono aperte o libere, quelle che finiscono in consonante (ovvero hanno la coda, come lat-te) si dicono chiuse • Le parole di una sola sillaba anche se di una vocale si chiamano monosillabi, quelli di più sillabe polisillabi tra cui distinguiamo bisillabi, trisillabi e quadrisillabi. L’ACCENTO FONICO E L’ACCENTO GRAFICO Le vocali oltre ad essere il perno su cui poggia l’intera sillaba sono anche portatrici dell’accento. Ci riferiamo qui all’accento che si avverte comunque nella pronuncia delle parole si chiama accento fonico e non al segno grafico che si mette solo in alcuni casi che si chiama accento grafico. Descriviamo l’accento fonico dapprima a proposito delle parole polisillabiche. Nella lingua italiana le parole che comprendono più di una sillaba hanno una voce più forti degli altri su questa si poggia l’accento che consiste in un’espirazione di aria fatta con più forza. Ad esempio nella parola volare lo sforzo maggiore della voce è sulla a, nella parola pecora è sulla e. La vocale su cui cade l’accento si chiama vocale tonica. Le altre vocali della stessa parola si chiamano àtone, ovvero senza accento. Ciò che riguarda la vocale riguarda anche l’intera sillaba E perciò diciamo che nelle parole polisillabiche esistono sillabe toniche e sillabe àtone. Nelle parole polisillabiche l’accento tonico può trovarsi: • Sull’ultima vocale e sillaba Ad esempio città, caffè ,perché, partì, portò ( parole troche) • Sulla penultima vocale sillaba ad esempio vedo, cavallo, ascensore, appartamentino (parola piana) • Sulla terzultima vocale sillaba es semplice, vengono, albero etc.. (parole sdrucciole) • Sulla quart’ultima vocale sillaba es consideriamo, stimoliamo etc ( bisdrucciole) Nella pronuncia di parole lungo composte si può ravvisare un accento primario e uno secondario ad esempio: prècipitóso etc… In italiano l’accento a funzione fonematica o distintiva serve a distinguere le parole ad esempio la triade composta da: càpitano, capitàno e capitanó. La prima parola con accento sulla quartultima la terza persona plurale del presente indicativo del verbo capitare, la seconda parola con accento sulla penultima sillaba è un nome, la terza parola è la terza persona singolare del passato remoto del verbo capitanare. 1 Per quanto riguarda la scrittura normale nella lingua italiana l’accento grafico distinto in acuto solo per le “e” ed “o” chiuse, e grave per tutti gli altri casi. Si segna obbligatoriamente solo sulle parole tronchi, è utile segnalarlo anche in casi in cui può esserci confusione tra una parola sdrucciola è una piana ad esempio sèguito/seguìto, cómpito/compíto , àncora/ancóra. Le parole monosillabiche possono essere di due tipi: • Alcune hanno il proprio accento fonico E quindi sono monosillabi citofonici E molti di essi hanno anche l’accento grafico (è, sì, né ) • Altre non hanno un proprio accento fonico E quindi sono monosillabi Anthony. Questi nella pronuncia si appoggiano a parole che li precedono ad esempio le particelle pronominali mi, gli, me+lo ad esempio in sentirmi, scrivigli etc… L’edizione, il troncamento e il raddoppiamento Nel parlare lo stacchiamo le parole in una all’altra ma li pronunciamo in gruppi compatti e dando rilievo gli accenti di alcune parole più significative. Il fenomeno dell’elisione: Si chiama elisione della caduta di una vocale atona finale di una parola davanti la vocale iniziale della parola successiva Nella scrittura divisione si indica con l’apostrofo. E’ obbligatorio con negli articoli lo e la, con quello e una. Si chiama troncamento la caduta di una vocale atona finale, o di una sillaba atona finale di una parola, non davanti a una vocale successiva, ma per un fenomeno di snellimento della giuntura con la parola successiva Il troncamento si verifica soltanto se la vocale che cade è una “e” o una “o”, Se preceduta da l,r,m. Anche il troncamento come l’elisione riguarda soprattutto gli aggettivi , le preposizioni articolate, gli aggettivi indefiniti, leggi attivo dimostrativo quello, e anche “tale” e “quindi”. Per esempio del pane, un amico, un bicchiere, alcun dovere, nessun paese, quel ragazzo, dal personaggio, nel qual caso. Presentano ancora un troncamento le parole male, amore, , fino, fine e bene per esempio mal di mare, mal di testa, amor proprio… Quanto riguarda invece il fenomeno del raddoppiamento: Il raddoppiamento o anche rafforzamento iniziale È il fenomeno per cui la consonante iniziale di una parola può essere raddoppiata quando è preceduta da determinate parole uscenti vocale. Il raddoppiamento che avviene nella pronuncia ma non viene registrato nella scrittura è provocato dalla fine della parola precedente quando questa è: • Una parola tronca ad esempio perché ridi? Si preannuncia come per’ke rridi? • Un monosillabo tonico es è lui? Si pronuncia come È’llui? • Alcuni monosillabi atoni (a, e ,ma, se, tra , fra …) a Roma a’Rroma. La scrittura normale non tiene conto di questo fenomeno in tal caso il raddoppiamento si trova incorporato come i soprattutto soprammobile, cosiddetto, contraddire etc … Il raddoppiamento iniziale è ormai normale in tutta Italia centro-meridionale ed esteso in Toscana dove siamo pure dopo (da,dove,come). Manca invece nella pronuncia tipica dell’Italia settentrionale caratterizzata da una mancanza di consonanti doppie. LA PROPOSIZIONE COORDINATA Che cos’è la proposizione coordinata? Consideriamo il seguente periodo: Il ragazzo si alza di scatto ----e ----- si precipitò fuori dalla stanza Proposizione principale Proposizione coordinata alla principale Questo periodo è costituito da due proposizioni una principale e una coordinata alla principale mediante la congiunzione coordinante e. In ogni periodo c’è sempre una proposizione principale che costituisce l’elemento portante del periodo stesso, tutte le altre proposizioni si collegano la principale o tra loro per coordinazione (ovvero mediante rapporti di assoluta parità) o per subordinazione (ovvero mediante rapporto di dipendenza l’una all’altra). Le preposizioni collegate per coordinazione si chiamano proposizioni coordinate. Esse si dispongono sullo stesso piano e hanno la stessa funzione sintattica della proposizione cui sono coordinate. La coordinazione che consiste nel collocare le proposizioni l’una accanto all’altra sullo stesso piano, si chiama PARATASSI, dal greco accanto,collocazione. La coordinazione tra due o più proposizioni può avvenire • Per mezzo di una congiunzione coordinante (e, ma, però, tuttavia, infatti…) per esempio lavoro molto e dormo poco • Per mezzo di un segno di punteggiatura debole (virgola, punto e virgola, due punti. Per esempio vide il figlio, gli corse incontro, lo braccio. 1 Infatti nell’esempio sopra riportato la proposizione subordinata perché ha sentito dei rumori, non può stare da sola, in quanto non è autonoma nel sul piano sintattico nel sul piano del significato. La subordinazione che consiste nel collocare le proposizioni l’una sotto l’altra cioè l’una in dipendenza dell’altra, si chiama IPOTASSI (dal greco, sotto, collocazione). I gradi della proposizione subordinata: • Proposizione principale reggente della proposizione subordinata di primo grado reggente della proposizione subordinata di secondo grado reggente della proposizione subordinata di terzo grado. SUBORDINATE ESPLICITE ED IMPLICITE: Le proposizioni subordinate pertanto a seconda del modo verbale del predicato si distinguono in: • Esplicite: quando hanno il predicato costituito da un verbo di modo finito (indicativo, congiuntivo E condizionale. • Implicite: quando hanno predicato costituito da un verbo di modo indefinito (infinito, participio e gerundio). • Le proposizioni subordinate esplicite possono essere introdotte: • Da una congiunzione subordinante: causare, finale e temporale: per esempio torno a casa perché tardi. • Da un pronome o un avverbio relativo: il cappotto che mi hai regalato è bellissimo • Da un pronome, un aggettivo ho un avverbio interrogativo: dimmi chi ha rotto questo vaso. Le proposizioni subordinate implicite possono essere introdotte: • Possono essere introdotte da una preposizione seguita da un verbo all’infinito: mio padre mi ha raccomandato di tornare presto. • Possono collegarsi direttamente alla proposizione reggente se il verbo è un gerundio o participio: stando così le cose non posso far nulla per te. Ricorda inoltre che: le subordinate esplicite implicite si equivalgono dal punto di vista il significato Non sempre ma molto spesso le subordinate esplicite possono essere trasformate in implicite e viceversa. Occorre tener conto che una subordinata esplicita queste trasformazioni implicita quando dello stesso soggetto della principale. In diversi tipi di proposizione subordinata: le proposizioni subordinate a seconda della funzione che svolgono nel periodo si distinguono in subordinati sostantive relative, complementari indirette: • Le subordinate sostantive : svolgono nel periodo la stessa funzione che il soggetto e il complemento oggetto hanno nella proposizione. Esse comprendono le proposizioni subordinate soggettive, dichiarative e interrogative indirette. Per esempio: È importante che tu sia onesto che tu sia onesto la subordinata soggettiva; la tua onestà è il soggetto • Subordinate relative: svolgono nel periodo la stessa funzione dell’attributo e l’apposizione hanno nella proposizione. Esse comprendono le proposizioni subordinate relative proprie: Marta indossa abiti che costano molto che costano molto è la proposizione subordinata relativa. Costosi è l’attributo. • Subordinate complementari indirette: svolgono nel periodo la stessa funzione che i complementi indiretti hanno nella proposizione. Esse comprendono le proposizioni finali, causali, consecutive, temporali… Per esempio oggi non esco perché piove. Perché piove è la proposizione subordinata causale. Per la pioggia è il complemento di causa. • Redazione • Termini e Condizioni generali • Condizioni di utilizzo dei Servizi • Informazioni sui Cookie • Trattamento dei dati personali DAL LATINO ALLE LINGUE NEOLATINE: 1. L’ITALIA PRE-ROMANA L’Italia con tutte le isole che la circondano è un territorio di tre continenti Europa, Africa e le regioni più occidentali dell’Asia. Domani sono sempre stati luoghi aperti e vie di accesso, le Alpi invece hanno rappresentato una barriera maggiore sippure non insormontabile. Per millenni popolazioni di diverso cippo sono arrivati delle più diverse direzioni si sono integrati nella penisola italiana e nelle sue isole. Molti di questi popoli parlavano lingue derivate dall’antico ceppo comune: l’ideoeuropeo. E sono giunti sul nostro territorio attorno al 1500 a.C.. I siculi, il vasto gruppo degli osco-umbri, i greci, i messapi, gli iàpigi, gli ausoni, i latini, i veneti e i celti. Appartenevano, invece, ad uno strato etnico precedente, quello dei cosiddetti mediterranei: i sicani, i sardi, gli etruschi, i piceni, i reti e i liguri. Infine i punici, della grande famiglia semitica preveniente dall’Africa settentrionale avevano occupato lembi della Sicilia e della Sardegna. I greci insediati soprattutto lungo le coste, dove avevano fiorentissime città (Siracusa, Selinunte, Reggio, Crotone, Taranto, Metaponto, Elea, Napoli e Ancona) , diffusero arte, scienza, filosofia e fecero conoscere l’alfabeto anche agli altri popoli d’Italia. . l’altro popolo dotato di una vivace cultura erano gli etruschi, presenti dalle Prealpi lombarde alle rive del Tevere con propaggini in Campania. 2. L’ITALIA UNIFICATA DAI ROMANI: IL LATINO In questo quadro di genti diverse si affermò via via la potenza di quel nucleo di latini che aveva fondato nell’VIII secolo, la città di Roma, sulla sponda sinistra del Tevere, in un territorio condiviso con gli etruschi. Grazie ad una particolare evoluzione giuridica e politica, al dinamismo commerciale e a una potente organizzazione militare, Roma divenne già nel III secolo a.C. il centro più importante della penisola, specialmente dopo aver sconfitto la rivale Cartagine e associato a sé gli altri popoli italici. La lingua di questa città, il latino di Roma, 1 era la lingua più ricca tra quelle dei popoli d’Italia e quella più regolarizzata dagli scrittori e dai grammatici. Attraverso l’opera di una foltissima schiera di scrittori (Orazio, Catullo, Marziale, Tacito, Ovidio, Giovenale etc…) il latino divenne una lingua di altissime potenzialità culturali, fissata nell’uso scritto e perciò detto latino classico. Naturalmente questo latino era diverso da quello comunemente parato, detto anche latino volgare, che era utilizzato da tutti nello svolgimento delle attività quotidiane ed era diffuso in tutte le province dell’impero romano. 3. IL LATINO CLASSICO E IL LATINO PARLATO DOPO LA FINE DELL’IMPERO ROMANO Entrambi i rimi del latino, quello classico e quello parlato, hanno lasciato una eredità imponente nel continente europeo. Il latino classico, superata una scarsa conoscenza nell’alto medioevo, diventò la lingua principale: lingua di cultura di tutta l’Europa centro-occidentale e settentrionale. Ristudiato a fondo dall’epoca dell’Umanesimo, insieme al greco ha fornito a tutte le lingue europee migliaia di termini e anche modelli di costruzione sintattica per la lingua moderna: non solo letteraria ma delle discipline tecnico-scientifiche, mediche, filosofiche, giuridiche etc… Il latino volgare ha avuto un destino non meno importante. Continuò a trasformarsi in molte maniere, da luogo a luogo dando origine ad una grande quantità di idiomi locali ( dialetti) alcuni dei quali attraverso l’uso, ci hanno dato nel tempo le lingue neolatine: quelle che oggi conosciamo come l’italiano, il francese, lo spagnolo, il portoghese, il catalano e il ladino. A voler essere più precisi bisogna indicare anche alcuni idiomi che hanno dato origine a forme scritte come il provenzale (ricco di una importanza tradizionale medioevale) e il franco-provenzale e il sardo, che si differenzia molto dai dialetti italiani. Tali idiomi non sono stati però espressione di una costante vita sociale e politica autonoma, al punto da diventare delle vere e proprie lingue nazionali. 4. LE TRASFORMAZIONI CHE RIVELANO I MUTAMENTI DELLA SOCIETA’ Molte sono le cause di trasformazione del latino parlato ad esempio le diverse condizioni di vita di parlanti distribuiti nel territorio così ampio. L’azione svolta soprattutto tra i ceti popolari della Nuova religione, il cristianesimo, il quale introdusse molte parole greche cariche di significati non espressi dal latino. Secondo il corso dell’evoluzione del latino parlato verso gli idiomi neolatini si osserva la trasformazione chi investe la struttura della lingua: fonologia, morfologia, lessico e significato delle parole. È evidente di cambiamenti così profondi nella lingua si sono verificati nel corso di alcuni secoli diversi luoghi ma di fatto queste trasformazioni si sono definitivamente affermate sta a dimostrare che l’intera struttura sociale politica e culturale dell’impero romano d’Occidente stava andando in crisi a partire dal terzo secolo d.C.. infatti crollo nel quinto secolo. Passiamo in rassegna le principali trasformazioni intervenute nel passaggio dal latino volgare nella fonologia, morfologia, sintassi, nel lessico e significati delle parole: 1. Fonologia: • Il dittongo ae si preannuncia e, il dittongo au si pronuncia o. • L’h non si pronuncia più (hora diventa ora) • La b tra due vocali diventa v ( faba fava) • Le m , le s e le t in fine parola non si pronunciano più (paucum pocu) • I gruppi di consonanti fl,pl e cl si pronunciano pj,pj,kj aree molto più ristrette certamente più piccoli delle singole regioni. Ad esempio i dialetti sardi di comprendono varietà molto differenziate: quella settentrionale è fortemente toscanizzata, mentre quella centro-meridionale bisogna distinguere il logudorese che conserva i tratti più conservativi vicina latino antico e il campidanese. Il ramo di dialetti ladini presenta difficoltà di definizione: il friulano a maggiore affinità con i dialetti veneti mentre i dialetti ladini dell’aria dolomitica sembrano essere più affini a quelli grigionesi, presenti in svizzera. I DIALETTI D’ABRUZZO: 1 Carta delle lingue e dei dialetti d'Italia Lingue romanze [EDI] Francoprovenzile FP [ET] occitano provenzale) PR BEBE Peronice ni BM sore ù BD Lombardo to E Eritano Romagnolo ER E caro-taico a Basicata Ge [E] caro.taicoasiciia | 6S EE] verso ve Mc CI [TI toscano To BEBE iaiarocnte ci REID ttaiano meridionale — sit ME scio si RE sassarese Gallese CO MI sro SA BD Lino n I Frivano su Lingue germaniche HE ica citi Sudtirolese ‘8. Bavarese centrale Cimbro 10 Mòcheno @ WA Walser Lingue slave Bi sono Mico Altre lingue MI re A ME ceo = cc Dialetti d'Abruzzo Abbruzzése, Abbrezzése, Abbruzzàse, Abbruzzòse, Abbruzzàise, Abbruzzòise, Abbruzzòese Parlato in Italia e comunità di emigranti Regioni Abruzzo, Marche (provincia di Ascoli Piceno), Lazio ( provincia di Rieti), Molise ( provincia di Isernia) Filogenes i Indoeuropee Italiche Romanze Italiano centrale/Italiano meridionale DIALETTI: (dialetto pescarese): (dialetto teramano): (dialetto adriatico meridionale): (dialetto dell'alto vastese): (dialetto aquilano): (dialetto marsicano): 1 • Teatino, con le suddivisioni: ■ Chietino occidentale (con isocronismo sillabico completo, tra San Giovanni Teatino, San Valentino in Abruzzo Citeriore, Guardiagrele e Fara San Martino) ■ Chietino orientale (tra Francavilla al mare, Ortona, Ripa Teatina, Miglianico, Bucchianico e Crecchio) • Lancianese (tra San Vito Chietino, Fossacesia e Casoli) • Vastese (tra Casalbordino, Carunchio e San Salvo), con isocronismo parziale; • marsicana, parlato a Celano ed Avezzano dove la somiglianza con il Napoletano è forte a causa degli scambi economici documentati tra le città durante il Regno di Napoli attraverso la via per Sora (es. giovane ad Avezzano vajiule, a Napoli guaglione), e parlato nella zona fucense della Marsica, nei paesi del Parco Nazionale d'Abruzzo ed estendendosi a settentrione fino all'Altopiano delle Rocche; • peligna, parlato nel circondario di Sulmona e nell'area pescarese appena ad est delle gole di Popoli (Tocco da Casauria), suddiviso, come si vedrà più tardi, in Peligno occidentale, che conserva la -a finale, e in Peligno orientale, che la indebolisce ad -e e presenta metafonesi di -a. Anche in questo dialetto è forte l'influenza napoletana con diversi lemmi praticamente identici (uaglione per "ragazzo", puparuole/peparuole per "peperone", ecc.); • teramano-ascolana, sistema di dialetti parlati al confine tra Marche ed Abruzzo, al confine fra le province di Teramo e Ascoli Piceno; formano il gruppo dei dialetti abruzzesi settentrionali.[4] L'ascolano presenta tratti in comune coi dialetti marchigiani centrali, appartenenti al sistema italiano- mediano; • vibratiana, una sottovariante di transizione tra ascolano e teramano contraddistinta da forti peculiarità fonetico-lessicali e limitata ai centri di Civitella del Tronto, Nereto, Corropoli e Colonnella; • area altosangrina, dialetto circoscritto nell'area compresa tra Castel di Sangro, Roccaraso, l'Altopiano delle Cinquemiglia, la Bassa Marsica e sconfina in Molise nella zona dell'Alto Volturno in provincia di Isernia. La caratteristica principale è la metafonesi della -e.[7] Numerose sono le aree di transizione, per lo più coincidenti con zone conservative e arcaicizzanti della provincia dell'Aquila come le aree attorno a Sulmona e Barisciano. Nella Valle Roveto penetrano forme linguistiche vicine ai dialetti campani, seppur con differenti strutture ed inflessioni. Fonetica Vocalismo Anteriore Central e Posteriore Alta i u Medio-alta e ə o Medio- ɛ ɔ bassa Bassa a ɑ Il sistema vocalico dei dialetti abruzzesi di tipo meridionale (salvo rare eccezioni) comprende nove fonemi: /i, e, ɛ, ə, a, ɑ, ɔ, o, u/, due in più di quello italiano. Questo sistema vocalico è pressoché compatto dalla Provincia di Teramo, dove tuttavia è più ampio il numero di eccezioni (a cominciare dallo stesso capoluogo), a quella di Chieti, passando per la Provincia di Pescara, nel cui capoluogo è tuttavia assente il suono /ɑ/, e per la parte meridionale della Provincia dell'Aquila. Nel dettaglio avremo: • Il grafema 〈a〉 indica nella maggior parte dei casi due differenti suoni (brevi o lunghi): /a/, comune all'italiano, ed /ɑ/ (talvolta anche /ɑ◌̃/), assente nella lingua italiana. In alcuni dialetti, specialmente quelli della provincia teramana, è presente un ulteriore suono /ɒ/. Il primo suono dell'area vasta si presenta a contatto con tutte le consonanti, tranne m ed n, dove tramuta in /ɑ/: si avrà allora cajole [ka'jo:lə] "gabbia", patte ['pattə] "patto"; con m ed n invece nate ['nɑ:tə] "nato", lambe ['lɑmbə] "lampo". Pertanto, se si avesse una a del primo tipo in inizio parola, come ache['ɣa:kə] "ago", se fosse presente l'articolo indeterminativo, questa diventerebbe del secondo tipo: n'ache ['nɑ:kə] "un ago". Per quanto riguarda le /ɑ◌̃, ɒ/, prendendo come esempio il dialetto di Carpineto della Nora avremo magnà [mɑɲ'ɲɑ◌̃] "mangiare" mentre in quello di Giulianova avremo frådde ['frɒddə] "freddo". • Il grafema 〈e〉 indica tre suoni distinti, due comuni alla maggior parte dei sistemi romanzi, /e, ɛ/ corrispondenti rispettivamente alle vocali italiane "é" ed "è", ed uno, tipico delle parlate del Meridione d'Italia, /ə/ noto come schwa o "e muta". In diversi dialetti, come quello teramano è presente un ulteriore suono, /ɜ/ simile ad uno schwa più marcato. Fornendo degli esempi: méte['me:tə] "mietere", ècche ['ɣɛkkə] "qui" per le vocali comuni ai dialetti abruzzesi, mentre per /ɜ/ avremo a Giulianova veve ['vɜ:və] "vivo" o a Castiglione Messer Marino, cuppeine [ku'ppɜjnə] "mestolo". • Il grafema 〈i〉 indica come in italiano standard il fono /i/ in gran parte delle parlate regionali. Alcuni dialetti tuttavia presentano anche il suono /ɪ/, così a Carpineto della Nora si avrà uine ['wɪnə] "vino" o a San Valentino in Abruzzo Citeriore si avrà cuçì [ku'ʃɪ] "così". • Il grafema 〈o〉 indica come in italiano i foni /o, ɔ/. • Il grafema 〈u〉 indica /u/, comunemente pronunciata come nell'italiano. Una eccezione è il dialetto di Loreto Aprutino, dove può essere anche /y/, come nel nome del paese stesso Luréte[ly're:tə]. Consonantismo[modifica | modifica wikitesto] Bilabial i Labio- dental i Dentali/ Alveolar i Post- alveola ri Palatal i Velari Nasali m n ɲ ŋ Occlusive p b t d c ɟ k ɡ Affricate t◌s͡ d◌z͡ t◌͡ʃ d◌͡ʒ Fricative f v s z ʃ ʒ ɣ Vibrante r Laterali l ʎ 1 Approssiman te j w Nei dialetti abruzzesi vigono le stesse regole della geminazione della lingua italiana. Un'eccezione è rappresentata dal suono /ʃ/ il quale, se intervocalico, non sempre è geminato: caçe ['ka:ʃə] "formaggio" contro casce ['kaʃʃə] "cassa". Tale suono inoltre rappresenta l'esito della consonante s davanti a t, d, al gruppo ch e talvolta davanti alla sola c velare: stracche ['ʃtrakkə] "stanco", sdejune (nel quale però /ʃ/ muta in /ʒ/) [ʒdə'ju:nə] "colazione, rottura del digiuno", schéfe ['ʃke:fə] "spicchio d'aglio", arescarà [ɣarəʃka'ra] "sciacquare". A differenza dell'italiano, l'abruzzese presenta un solo allofono della nasale /n/ ossia /ŋ/. Questa compare esclusivamente davanti alla consonante velare /g/ in quanto si ha sempre la sonorizzazione della /k/ davanti alla nasale / n/: manghe ['mɑŋgə] "manco". L'assenza dell'altro allofono italiano /ɱ/ è dovuto invece all'assimilazione dei gruppi nf ed nv rispettivamente in mb ed mm: "confine" passa a cumbine, "invidia" passa a 'mmidie; inoltre parole inizianti per f e v se precedute da n presentano lo stesso fenomeno: 'mbacce per "in faccia", 'mmocche per "in bocca" (vocche in dialetto). Ulteriore differenza tra italiano ed abruzzese è la presenza della fricativa velare / ɣ/. Questa è riscontrabile: in posizione intervocalica invece della occlusiva sonora /g/; davanti a parole inizianti per /g/ o per vocale; tra vocali non formanti un dittongo: fegure [fə'ɣu:rə] "figura", gatte ['ɣattə] "gatto" e ècche ['ɣɛkkə] "qui"; mahéstre [mɑ'ɣeʃtrə] "maestro". La s intervocalica, a differenza dell'italiano, è espressa esclusivamente mediante la sorda /s/: case ['ka:sə] "casa". Per quanto riguarda il suono /z/, esso compare solo davanti ad una consonante sonora (che non sia d): sbaje ['zba:jə] "sbaglio". Metafonesi[modifica | modifica wikitesto] Questo fenomeno colpisce le vocali toniche é, è, ó, ò (chiuse/aperte) del sistema romanzo comune, quando la vocale finale della parola originaria latina è i oppure u. In particolare, ciò avviene per i sostantivi e gli aggettivi maschili singolari (terminazione latina -um) e plurali (terminazione latina -i), rispetto ai corrispondenti femminili singolari e plurali (terminazioni -a, -ae). La metafonesi è tipica dell'Italia centro-meridionale, che include le Marche fino alla provincia di Macerata, l'Umbria al di qua del Tevere con Spoleto, Foligno, Terni, e la Sabina fino alle porte di Roma. Invece nel toscano, così come nell'italiano standard, la metafonesi non esiste. L'Abruzzo adriatico costituisce una zona a sé stante, in quanto vi si presenta solo la metafonesi da i finale. Gli esiti delle vocali alterate sono diversi a seconda della zona, tuttavia si può dire che dal punto di vista fonetico la metafonia abruzzese sintetizza i processi di elevazione linguale del tipo sardo e napoletano. Di norma, la é e la ó passano rispettivamente a i e u. Facendo qualche esempio tratto dalla parlata di Ortona (Chieti), si ha così: nìre "neri", ma nére "nero", e gelùse "gelosi", ma gelóse "geloso". Le vocali aperte è, ò possono invece avere due esiti differenti. Il primo tipo di metafonesi, talvolta detto "sabino" perché tipico - tra le altre zone - della Sabina ivi compresa L'Aquila, prevede la chiusura di dette vocali a é, ó. Così, all'Aquila si ha: bégliu 'bello', ma bèlla 'bella', e bónu 'buono', ma bòna 'buona'. L'altro tipo di metafonesi è quello "napoletano" o "sannita", tipico di larga parte dell'Italia centro-meridionale. Esso prevede la sono sempre ì per è, é e ù per ò, ó. Così si ha mòrte per "morto, -a" e mùrte per "morti" e bèlle per "bello, -a" e bìlle per "belli". Metafonesi verbale In tutto il dominio abruzzese la -i delle desinenze verbali della seconda persona provoca metafonia per tutte le vocali, tranne per -à nell'area aquilano-cicolano- carseolana, nella quale questa vocale non è soggetta a metafonesi. Così in base agli esiti delle vocali sottoposte a metafonia si possono individuare le seguenti aree: • Area aquilana: tu crìi "tu credi", ma ji créo " io credo", tu perduni "tu perdoni" ma issu perdóna "egli perdona" ecc. • Area peligna: tu mègne "tu mangi" ma je màgne "io mangio", tu mùove "tu muovi" ma je mòve "io muovo" ecc. • Area adriatica: tu mìgne "tu mangi" ma je màgne "io mangio", tu mùve "tu muovi" ma je mòve "io muovo" ecc. Anche la desinenza -as, che in Abruzzo dovette passare per tempo a -is, produce metafonia: ad esempio all'Aquila si ha issu èra per "egli era" ma tu iri per "tu eri", e così nel resto della regione je ère o ére "io ero" e tu ìre o ahìre "tu eri" a seconda dei luoghi. La desinenza -o della prima persona singolare non produce metafonia in alcuna zona, tuttavia in certi verbi si verifica un fenomeno che può apparentemente essere di natura metafonetica. In realtà si sta trattando di anafonesi, dovuto al nesso N+G: così a Sulmona si hanno le forme vìenghe, stìenghe e dìenghe per "vengo", "sto" e "do", le quali nel Teramano-Pescarese e nel Vastese suonano come vìnghe, stìnghe e dìnghe, e nel Lancianese vénghe, sténghe e dénghe. Diversamente nel dialetto di Chieti si ha solo stìnghe "sto"; mentre le altre due forme sono vènghe "vengo" e dènghe "do", senza dunque metafonesi. Isocronismo sillabico[ Buona parte del sistema vocalico romanzo comune è stato successivamente alterato, in alcune zone, da una corrente linguistica. Essa ha provocato l'apertura in è, ò delle vocali chiuse é, ó in sillaba complicata (sillaba terminante in consonante) e la contemporanea chiusura in é, ó delle vocali aperte è, ò in sillaba libera, ovvero nelle sillabe che terminano con la vocale stessa. Questo fenomeno può essere anche soltanto parziale, limitato cioè alla sola chiusura delle toniche aperte in sillaba libera. Alcuni esempi, tratti dal dialetto di Pettorano sul Gizio (L'Aquila) poiché presenta l'isocronismo sillabico in maniera completa, sono i seguenti: strèt-ta "stretta", ròs-cia "rossa" ma né-ra "nera", pé-dë "piede". Se si parte dalla considerazione che l'isocronismo fu un'innovazione delle zone centrali della Romània e se si tiene conto del carattere conservativo del vocalismo dell'area sabina, è da supporre che l'isocronismo deve aver subìto un duplice destino: le zone più conservative, come quella reatino-aquilana, in seguito alla maggiore coscienza delle qualità vocaliche d'origine, non hanno operato mutazione; mentre le aree periferiche, come quella adriatica, con minore sensibilità ai tipi vocalici del latino popolare di Roma e con l'incapacità di distinzione dei timbri, hanno operato dei conguagli indifferentemente, nel senso dell'apertura e della chiusura. 1 L'isocronismo è un fenomeno diffuso a partire dai centri montani vicino a Sulmona e sul versante adriatico dalla città di Chieti; inoltre esso non dovrebbe avere relazioni con le analoghe situazioni presenti in Puglia, giacché l'area isocronica, che continua quella abruzzese nel Basso Molise, si interrompe attorno al fiume Biferno per, poi, riprendere più a sud. Nelle zone di origine del fenomeno vige ancora la situazione isocronica completa. Nel Chietino, sono centri con isocronismo completo: Chieti, Casalincontrada, Pretoro, Guardiagrele, Orsogna, Giuliano Teatino, Canosa Sannita e la bassa valle del Pescara (Manoppello, Scafa, San Valentino in Abruzzo Citeriore fino a Caramanico Terme): in tali centri è parlato il cosiddetto chietino occidentale, che appare come area di saldatura fra l'abruzzese orientale-adriatico e quello occidentale. Verso nord, la linea di inizio dell'area isocronica completa è segnata grosso modo dal fiume Pescara, al di là del quale si estende fino alla Provincia di Teramo un'area non isocronica con vocali esclusivamente a timbro aperto, la quale tende a spostarsi più a sud man mano che si procede verso la costa: la città di Pescara risultava un tempo divisa in due centri urbani, di cui il primo (Castellammare Adriatico) era appartenente alla provincia di Teramo ed aveva pertanto una pronuncia aperta, mentre il secondo (Pescara) era parte della provincia di Chieti e pertanto seguiva le condizioni isocroniche dell'allora capoluogo. Attualmente la città di Pescara ha subito una forte urbanizzazione con l'afflusso di persone dalla più svariata provenienza, per cui la realtà linguistica attuale risulta notevolmente stravolta. L'area isocronica parziale invece include, ad esempio, i territori di Bucchianico, Fara Filiorum Petri, Rapino, Tollo, Vacri, Filetto (area orientale del Chietino), Lanciano, Ortona, Vasto, San Salvo e, più all'interno, Bussi sul Tirino e Tocco da Casauria, i quali risentono ancora di influssi peligni. La linea di demarcazione fra l'area isocronica totale e quella parziale parte dal promontorio ortonese, e passa poco al di là di Ripa Teatina, includendo completamente Bucchianico e Fara, ma escludendo Guardiagrele. Ad ogni modo, con un'analisi più approfondita, la situazione appare ancor più complessa e frammentata. Ciò in quanto alcuni centri interessati dal passaggio della suddetta linea si pongono in un'area intermedia: essi non sono soggetti a isocronismo sillabico totale, diversamente da quella chietina, e al contempo il loro timbro è più aperto rispetto ai dialetti frentani. Tali zone sono Miglianico, Villamagna e Roccamontepiano. Nel resto della Regione, l'isocronismo parziale riguarda la Valle Peligna orientale, l'Alto Sangro e la parte più a est della Marsica. In alcuni casi, gli effetti dell'isocronismo interagiscono con quelli dei frangimenti delle vocali toniche (vedi sotto). In altri casi, come nel Teramano, l'esito residuale di antichi frangimenti vocalici può essere percepito come equivalente all'isocronismo. Le vocali qui assumono infatti, come anche nel Pescarese- Pennese, seppur oramai quasi soltanto nella parlata delle persone più anziane e meno alfabetizzate, un unico suono aperto, a prescindere dall'apertura o chiusura delle sillabe. Così si ha: quèsse "quésto", sère "séra", strètte "strétto", nère "néro", sòtte "sótto", sòpr e "sópra", pède "piède", ròsce "rósso", ròse "ròsa" e così via. Frangimenti delle vocali toniche Questo fenomeno consiste nell'alterazione delle vocali toniche tanto nell'apertura quanto nel timbro, dando luogo a svariati esiti, dittonghi, palatalizzazioni ecc. Il risultato è quella "babele" linguistica che spesso porta a ritenere assolutamente diversi i dialetti di centri vicini che magari, ad un'analisi più scientifica, presentano invece caratteristiche del tutto simili. Inoltre, questo tratto dialettale è spesso avvertito dagli stessi parlanti come "arcaicizzante" e quindi sconveniente rispetto a parlate più regolari e perciò più "moderne". In alcuni centri, in cui pure si è manifestato in passato, è stato pertanto dapprima reso facoltativo, poi del tutto rimosso. È probabile che la causa genetica della grande varietà delle differenziazioni vocaliche abruzzesi debba essere ricercata nella forza di contrasto fra l'accento dinamico dell'italico e l'insensibilità dei parlanti alla quantità latina. Il sostrato italico, cioè, venuto a contatto con la quantità latina, non recepibile in un sistema fonologico qualitativo, per ragioni di difesa, poté aver rafforzato la sua natura esplosiva e aver dunque promosso il frangimento vocalico, allungando le vocali fuori posizione, predisponendone la chiusura, e abbreviando quelle in sillaba chiusa, avviandole al timbro aperto.[senza fonte] Il fattore primo e determinante del frangimento è da ricercarsi nella scissione delle vocali atone, che ha comportato la loro non funzionalità e, conseguentemente, la pronuncia intensa delle vocali toniche: così la disposizione degli abruzzesi tende a dare primaria importanza alla vocale tonica, che a sua volta condiziona ogni altro fonema, e fa sì che la sua estrema apertura determini il suo sconfinamento nelle vocali del grado successivo. Infatti un dato tipico delle vocali abruzzesi, e specialmente quelle della fascia adriatica, che ha recepito un diverso tipo di latinità non legato a quella popolare di Roma, è la scarsa compattezza, che si evince proprio dagli esiti a cui sono pervenute. Le diverse tipologie di frangimenti possono essere raggruppati in poche categorie. Un primo tipo di classificazione riguarda le sole vocali chiuse in sillaba libera, mentre una seconda categorizzazione concerne, incondizionatamente, tutte le toniche chiuse. Un esempio di sistema vocalico del primo tipo è quello di Roccascalegna (Chieti), nel quale le vocali é, ó, e anche ì, ù, in sillaba libera, vengono dittongate: nèire "nera", ma strétte "stretta"; gelàuse "gelosa", ma rósce "rossa"; fòile "filo", ma rìcche "ricco"; mèure "muro", ma brùtte "brutto". Come esempio del secondo tipo si può prendere Cellino Attanasio (Teramo), dove é, ó si aprono a ò, à molto larghe (quest'ultima velare), tanto in sillaba libera che complicata: pòle "pelo" e stròtte"stretto"; gelàse "geloso" e ràsce "rosso". Talvolta, i due tipi di frangimenti sono entrambi presenti per via di due correnti linguistiche non contemporanee. Casi tipici sono Vasto, Monteodorisio e Quadri (Chieti), dove prima si fransero le é, óoriginarie, e poi anche quelle risultanti da isocronismo sillabico in sillaba libera: nàire "nero" e stràtte "stretto"; gelàuse "geloso" e ràsce "rosso"; fèile "filo" e rècche "ricco"; mìure "muro" e brìtte"brutto"; néuve "nuovo". Indebolimento delle vocali atone È sicuramente una delle caratteristiche più vistose, e più note anche ai meno esperti, dei dialetti centro-meridionali. In tutte le parlate dell'Abruzzo, eccetto in quelle della macroarea aquilana e delle propaggini più occidentali della Marsica, le vocali atone (non accentate) tendono a confluire nell'unico esito "neutro" ə. 1 La tripartizione dei dimostrativi è anche un fenomeno comune. Ad esempio, a Ortona si hanno stu 'questo', chelù 'quello' e ssu 'codesto'. La tripartizione riguarda anche gli avverbi di luogo; sempre ad Ortona, si hanno ècche 'qui', èlle 'lì', ma anche èsse 'costì' (lontano da chi parla, vicino a chi ascolta). Un'alternativa al tipo èlle è lóche, diffuso nell'aquilano-chietino. Il pronome personale soggetto di 3ª persona è dappertutto il tipo isso (varianti ésse, ìssu, ecc.) Verbi Per i tempi passati, è più ampio l'uso che si fa del passato prossimo rispetto al remoto, tanto per eventi lontani quanto per quelli vicini. Così a Pescara si dirà indifferentemente: Quanne tenèje dic'anne so' ite a Melane, "quando avevo dieci anni andai a Milano" e mandemane nin so' ite a fatià, "stamattina non sono andato al lavoro". Esistono tuttavia, specie nell'interno della regione, sacche più conservative che fanno ancora uso del passato remoto. A Castiglione Messer Marino le stesse frasi saranno: Quanne tenòeva dic'eànne jive a Melène e maddemèna nen so' jéute a fatejeà. Oltre alla conservatività nell'uso, balza all'occhio anche quella della forma, del tutto simile al perfetto del latino, così, nello stesso paese, il passato remoto si coniugherà: • jive "ivi" (andai) • jiste "ivisti/isti" (andasti) • jètte "ivit/iit" (andò) • jèmme "ivimus/iimus" (andammo) • jèste "ivistis/istis" (andaste) • jèttene "iverunt/ierunt" (andarono) Il condizionale presente si presenta secondo due forme: l'una, più antica, è rappresentata dall'aquilano mangiarrìa 'mangerei' e deriva dall'infinito + imperfetto del verbo avere; la seconda riprende invece il congiuntivo imperfetto, ad esempio magnésse 'mangerei', ma anche 'mangiassi'. La seconda forma tende a rimpiazzare la prima dappertutto. Sono attestate forme ancora più arcaiche, derivate dal piuccheperfetto indicativo; ad esempio, a Trasacco putìre 'potresti', fatigarìme 'lavoreremmo', o nell'alto vastese vevére "berrebbe", magnéra "mangerei". Oltre le tante somiglianze con l'idioma napoletano, netta è la differenza, invece, nell'utilizzo del presente progressivo. Infatti mentre nei dialetti campani è comune l'uso del modello sto (essere) + gerundio, nell'area abruzzese è esclusivamente utilizzata la forma progressiva avente come ausiliare il verbo andare di tipo vado (andare) + gerundio. Il gerundio in abruzzese (con poche eccezioni) - a differenza del napoletano - modifica la seconda vocale da "a" ad "e" (es. cantando in napoletano diventa cantanno mentre in abruzzese muta in candènne). Non sempre, però, le due forme verbali sono equiparabili in maniera diretta tant'è che nei casi in cui non è possibile utilizzare il presente progressivo con il gerundio, nel dialetto abruzzese si sostituisce il gerundio con l'infinito del verbo nella forma sto (essere) + a + infinito dove l'infinito è spesso troncato della sillaba finale (cfr. in napoletano stongo cantanno in abruzzese può diventare vaje candènne o più diffusamente stènghe/stinghe/stienghe a canda'). Analogo paragone è possibile fare per il passato progressivo con l'ausiliare nel tempo imperfetto. Sintassi Fenomeni comuni all'area centro-meridionale sono l'accusativo preposizionale (salùteme a ssòrete 'salutami tua sorella'); l'impopolarità del futuro sostituito dall'indicativo presente (dumàne le fàcce'domani lo faccio) ¨ Per esprimere un rapporto durativo, sono diffuse due forme. La prima, comune a tutta l'area centro- meridionale consiste nel costrutto andare + gerundio (ad esempio, va purtènne la pòste 'va portando la posta'). La seconda forma, tipica dell'Abruzzo e delle regioni limitrofe, utilizza il costrutto stare + infinito (ad esempio, che sta a ddìce? 'che sta a dire?'). Molti dialetti d'Abruzzo e delle regioni limitrofe presentano essere come ausiliare dei verbi transitivi, con l'eccezione della 3ª e della 6ª persona (ad esempio, a Crecchio séme cercàte 'abbiamo cercato', séte cercàte 'avete cercato'). L'accordo participiale è particolare; si ha accordo fra soggetto e participio piuttosto che fra participio ed oggetto[8] (ad esempio, nu le séme fìtte lu pàne 'noi lo abbiamo fatto il pane', laddove fìttemostra metafonesi dal plurale in -i). Caratteristico è l'uso del pronome arbitrario-impersonale nóme, ad esempio in nóme dìce ca jè bìlle 'dicono che sono belli'. Questo nóme è un pronome che non ha corrispondenti in altri dialetti italiani oltre al sardo. Questa caratteristica costruzione sintattica è tuttora molto diffusa a Vasto, dove il pronome impersonale usato è l'ome, ad esempio l'ome dèice a maje 'dicono a me'. Da rimarcare un particolare fenomeno che interessa la zona di Ortona e Lanciano , nonché della Val Vibrata (Corropoli), per cui all'ausiliare essere viene agganciato il pronome. Esempio: "Solle fatte chelà cose", ovvero "L'ho fatta quella cosa". Lessico Alcuni esempi di opposizioni lessicali fra aree omogenee: • il ragazzo: uaglione (tutto Abruzzo; con varianti nell'aquilano) • il bambino: tipo bardasce (Abruzzo adriatico, anche Marche), tipo quatranu/ quatrane/quatrale (Abruzzo chietino-aquilano interno) • frechino (Teramano, Marche), cìtele (Pescarese- Chietino), quatranettu (Aquilano) • fandelle (m.s.), fandalle (f.s.), fandill' (pl.) = bambino, bambina, bambini - Fano Adriano- • it. "testa": tipo capoccia (Marsica), coccia (resto d'Abruzzo), opp. ad es. a testa (Marche, Sicilia, Settentrione), capo,-a (Meridione, Lombardia, Toscana) Tali differenze sono dovute al fatto che l'Abruzzo ha subito due diversi tipi di romanizzazione: infatti nel territorio adriatico furono immessi da Silla numerosi coloni, mentre nell'area occidentale la romanizzazione avvenne o con contatto diretto con Roma, come nel caso della Marsica, per ragioni di scambi commerciali, o attraverso amministratori romani o locali istruitisi a Roma. 1 Numerose le forme derivate dal latino parlato, molte delle quali ormai però usate solamente dalle generazioni più anziane: pecùre! per "guarda, sta attento" da PONE CURAM, espressione analoga all'altra, temé, diffusa nell'aquilano, e tammènde nel Molise e nell'Abruzzo meridionale teatino da TENE MENTEM, ajùnete! a Moscufo o aìnete a L'Aquila per "sbrigati" da AGINARE, nzuràrese per "sposarsi" da *(I)N-UXORAR(E)-SE e pàstene per "vigna giovane" a Sulmona; ancora ampiamente adoperate sono invece le espressioni lessicali derivate dal latino classico: cràjeper "domani" usato nel territorio abruzzese solo nell'alto Sangro, ma poi compatto in territorio molisano, pate e mate per "padre" e "madre", sempre nell'alto Sangro, néngue per "nevicare" da NINGERE, diffuso in tutta la regione, con il participio passato néngete da cui il femminile in uso a Scanno col valore di "nevicata", bévete participio passato per "bevuto" da BIBĬTUM, pahése per "campagna" da PAGENSE, PAGUS, zóde a Castiglione Messer Marino per "fermo" da SOLĬDUM, mò per "adesso", tipico di tutto il centro-meridione, da MODO e fecìerene (marsicano) da FECĒRUNT, contro l'italiano "fécero" da *FECĔRUNT. Prestiti lessicali Numerosi i termini che il dialetto abruzzese ha recepito da altre lingue, come nell'antichità quella araba, tedesca, francese e spagnola, e, in tempi più recenti, quella inglese d'America, da parte degli emigrati di ritorno nei paesi d'origine. Arabismi Possono essere penetrati direttamente, durante le numerose incursioni sulle coste, bardasce per "bambino", diffuso nell'area adriatica pescarese-chietina, ma non nel teramano, che ha fregì, e nel peligno, che risponde con quatràle, la cui diffusione raggiunge l'aquilano e la vallata del Velino fino a Rieti, territori soggetti alle incursioni arabe, e harbìne o harbì nel teramano, in uso esclusivamente nei dialetti costieri e collinari, ma non nell'aquilano e nel sulmonese, dove si ha per derivazione romanza, rispettivamente sciróccu e sceròcche. Non sono penetrati "albicocca", che non ha soppiantato precòche (dal latino PRECOQUUS), "arancia", che non ha rimpiazzato purtuàlle, "melanzana", che non ha sostituito mulegnane, mentre "carciofo" ha avuto l'adattamento in scarciòfe, - fene. Infine in alcune aree limitate fino alla generazione precedente era in uso cangarre per "oggetto mal ridotto", dall'arabo ḥangar "pugnale ricurvo". Germanismi La dominazione longobarda in Abruzzo, durata dal 571 all'880, ha lasciato traccia in numerosi toponimi, come ad esempio Scurcola Marsicana, Monte Scurcola, (da una radice skalk-);Guardiagrele(da ward-); Fara Filiorum Petri e Fara San Martino (dal sostantivo fara); Pescosansonesco, Serramonacesca, Notaresco e l'etnico cevetésche con cui si denominano gli abitanti di Civitella del Tronto (dal suffisso -iskus); Civitaretenga (dal suffisso -ingus). Come per le altre varietà dialettali e per lo stesso italiano standard, l'influenza longobarda si è avuta anche nel lessico delle varietà abruzzesi: alcuni esempi sono i verbi arraffà per "afferrare con violenza" da HRAFFON; gualàne o ualàne per "bovaro, bifolco", da WALD; làppe per "orlo", da LAPPO; prétele o prètola per "sgabello" da PREDIL; stinganà per "malmenare" da SKINKO "stinco"; trescà per "trebbiare" da THRISKAN; sparagnà per "risparmiare" da SPARANJAN ; zìnne per "mammella" da ZINNA. "sorcio", adirarsi e non "arrabbiarsi", mellone e non "melone", concesso e non "conceduto", perso e non "perduto". Infine a livello morfosintattico, caratteristici sono l'uso neutro di lo (p.es. "l'acqua non lo bevo"), l'aggettivo per l'avverbio: "lo fa facile", anziché "facilmente", l'errato uso del riflessivo: "si ha mangiato un piatto di minestra", l'uso dell'indicativo invece che del congiuntivo: "a ora che viene" per "prima che venga", l'uso del verbo transitivo per l'intransitivo: "salire la sedia", "entrare il letto", "scendere qualcuno o qualcosa", l'uso dell'imperfetto nelle proposizioni secondarie dipendenti da un verbo di "dire" all'imperativo: "dì che andasse"; e infine l'uso dell'articolo al posto della preposizione semplice: "è andato alla scuola, alla messa", "ha preso la moglie", ecc. Ortografia Non esiste un'unica regola ortografica per trascrivere l'abruzzese; tale mancanza è probabilmente dovuta al fatto che l'eredita letteraria scritta di questo dialetto è minima. Tra i poeti contemporanei che hanno prodotto testi originali in abruzzese sono da ricordare Cesare De Titta, Modesto Della Porta, Alfredo Luciani, Vittorio Clemente, Ottaviano Giannangeli, Luigi e Alessandro Dommarco, Pietro Civitareale, Vittorio Monaco, Romolo Liberale, Giuseppe Tontodonati. La caratteristica più vistosa del dialetto abruzzese è la presenza della e muta risultante dall'indebolimento delle vocali atone. Questo suono è indistinto, smorzato, ma non arriva mai alla soppressione totale della vocale. Spesso viene reso con una e. Questa e può essere soppressa nella scrittura se preceduta da una i tonica (allegrìe > allegri', Ddìe > Diì', vìe > vì'). I dialettologi propongono invece l'utilizzo del grafema ë. Altri, come Ernani Catena (dal vol. "Appunti di grammatica per scrivere il dialetto abruzzese" del 2008 collana "La cultura siamo noi" IRES-ABRUZZO) propone la 'e' non accentata quando non si pronuncia, e accentata quando si pronuncia es. "fenèstre". Inoltre la 'e' non si usa mai con il segno dieresi (la lingua madre (latino) non lo prevede, e non si sostituisce con l'apostrofo soprattutto all'interno della parola es. non si scrive "f'nèstr'" , poiché illeggibile, comunque la 'e' finale si mette sempre ma non si pronuncia. Gli scritti in dialetto abruzzese comprendono spesso altre due lettere: • la j (i lunga) che sostituisce l'italiano gli (ad es. pajàre) e raddoppia se preceduta da vocale tonica (ad es. pàjje 'paglia'); inoltre viene usata nel pronome (1.a persona) j' "io" e nei verbi pagare "pajà", faticare "fatijà", ecc. • la ç (c con la cediglia) nelle parole che hanno un suono intermedio fra sci e ci, ad es. per distinguere fra caçe 'cacio' e casce 'cassa'. Alcune alternanze nell'ortografia sono dovute alla particolare pronuncia di alcuni nessi consonantici, come: • consonanti sorde precedute da m, n, ad es. càmpe/càmbe 'campo', vènte/ vènde 'vento', ncòre/ngòre 'ancora', pènse/pènze '(io) penso'; • s davanti a t e d, talvolta scritta alla maniera introdotta da Finamore con il diacritico š , ad es. štanze, šdoppie, šdentate. Come esempio di ortografia dialettale abruzzese, si riporta il testo della prima strofa della nota canzone Vola vola (Albanese-Dommarco, 1908). Testo in ortografia popolare: 1 «Vulésse fà 'rvenì pe' n'ora sola lu tempe belle de la cuntentèzze, quande pazzijavàm'a vola vola e ti cupré di vasce e di carezze. E vola vola vola e vola lu pavone; si tie' lu core bbone mo' fàmmece arpruvà.» Testo in ortografia fonetica semplificata: Vuléssë fà 'rvënì pë n'óra sóla/ lu tèmbë bbèllë dë la cundendézzë/ quànnë pazzijavàm'a volavólë/ e të cupré dë vàscë e dë carézzë./ E vola vola vola/ e vóla lu pavonë/ si tiè lu córë bbónë/ mó fàmmëcë arpruvà. Testo in ortografia corretta: Vulèsse f'arvenì pe' n'ora sola/lu tèmbe bbèlle de la cundendèzze,/quande pazzijavame a vvola vola e tti cuprè di vasce e ddi carèzze. E vola vola vola/ e vvola lu pavone/ si ttiè lu core bbone/ mo' fammece arpruvà. Traduzione in italiano: Vorrei far ritornar per un'ora sola/ il tempo bello della contentezza/ quando noi giocavamo a "vola vola"/ e ti coprivo di baci e di carezze./ E vola vola vola vola/ e vola il pavone/ se hai il cuore buono/ su fammi riprovar. • Peculiare è la situazione nell'area vestina: molti centri distanti pochi chilometri fanno un uso totalmente diverso delle vocali. Caratteristico il dialetto di Penne che spesso sostituisce la "e" con la "o" (es. Pònne invece di Penne); il dialetto di Loreto Aprutino, di evidente influenza francofona, utilizza la "u" stretta (eu) (es. Luréte [Ly're:tə] invece di Loreto), e alla "o" pennese sostituisce una sorta di "e" gutturale con accentazione poco forte (me' [mɜ] per "me"); il dialetto di Montebello di Bertona che fa largo uso di "u" sostituendola ad altre vocali (es. Abbruzzùse invece di Abruzzesi, Mundubbèlle invece di Montebello); il dialetto di Città Sant'Angelo che fa largo uso di "è" sostituendola ad altre vocali (es. Chi sti fè? invece di cosa stai facendo?, jè invece di io, Ciù Sand'Agnele invece di Città Sant'Angelo). In tale area sono ricompresi anche i paesi dell'alta valle del fiume Fino in provincia di Teramo; in particolare, la sostituzione della "e" con la "o", insieme a quella della "a" con la "e" (es.: patène invece di patate, chèse in luogo di casa), si ritrova nel dialetto di Bisenti. • L'area teramana dev'essere stata uno dei centri di irradiazione dei frangimenti vocalici, al punto che essi sono ancora riscontrabili presso la parlata delle persone anziane finanche nella stessa città di Teramo, e di altri centri importanti, come Giulianova: in particolare nel capoluogo provinciale le originarie ĭ ĕ ē latine hanno prodotto esiti decisamente particolari diversi a seconda dei vocaboli: così "doménica" (lat. domĭnica) ha dato dumàneche, ma "fréddo" (lat. frĭgidus) ha dato frådde ['frɒddə], cioè con un suono intermedio tra la "a" e la "o" ma più vicino alla prima, "quéllo- a" (lat. ĭllum-a) ha dato quàlle, "perché" (composto derivato dalla radice quĭd) ha dato invece peccò, come pure "tré" (lat. trēs) suona come trò, ecc. Anche la palatalizzazione di a deve aver avuto origine in questo territorio, risultando del tutto indipendente da quella romagnola: sempre proponendo esempi di Teramo, pare che dall'originaria ă sia derivato è (sènde da sănctum), mentre da ā si è prodotto un suono intermedio tra la "a" e la "e" che si potrebbe rendere graficamente con æ (ad es. štræde da strāta). Questo fenomeno nelle altre due provincie dell'Abruzzo adriatico è molto più limitato e riscontrabile ormai solo nei centri montani. Pare infatti che i frangimenti non siano mai esistiti a Pescara , Chieti e Lanciano. • Caratteristici e originali sono i dialetti di Bussi sul Tirino (Pescara) e Pratola Peligna (L'Aquila): nel primo centro, evidente l'origine spagnola della "e" di congiunzione che assume la forma di "y" (cfr. mù y ttù ovvero io e te) oltre alla trasformazione in -aune del suffisso italiano -one (mataune per mattone), presente pure a Pratola anche se con suffisso "-eune". Tra l'altro, la "y" di congiunzione è possibile trovarla in altri dialetti limitrofi e della Valle Peligna. A Pratola Peligna e Lettomanoppello colpisce la chiara derivazione francofona di alcuni vocaboli, come - ad esempio - per i primi tre numeri (uno, due, tre) che sembrano letti dal francese senza alcun adattamento di pronuncia (èune, dèu, tròi per un, deux, trois). • Taluni notano una somiglianza della cadenza e della parlata dialettale dell'area peligna con quella ascolana. • Facilmente riconoscibile è la parlata chietina, dalla caratteristica cadenza cantilenante, e dall'uso sistematico della -i finale in ogni parola seguita da un'altra iniziante per consonante: C'hannifatte? per "Che hanno fatto?". È un fenomeno pressoché sconosciuto nel resto della regione, e forse in tutto il centro-meridione. • Nel dialetto di Bucchianico (Chieti), che differisce notevolmemente da quello di Chieti malgrado disti solo 8 km, i pronomi personali "me" e "te" diventano maje e taje; gli infiniti in -are assumono la terminazione in -è (es. fare >fè, passare >passè, cercare >circhè, ecc.). • Nel dialetto di Fara Filiorum Petri (Chieti), è da rilevare il raddoppiamento della m nelle prime persone plurali dei verbi, fenomeno sconosciuto nei centri limitrofi (ce vedémme per "ci vediamo"). • Le vocali della zona pescarese-teramana hanno un suono piuttosto aperto, che curiosamente fa avvicinare la pronuncia di tali aree simile a quella calabrese-siciliana, mentre nella provincia di Chieti hanno suono chiuso, tanto da far pensare alla lingua sarda. • Nella coniugazione dialettale di più verbi andiamo a vedere che la radice del verbo non è uguale in tutte le persone. ESEMPIO vado - vajo, andiamo - jemo. Queste sono particolarità soprattutto della zona aquilana. • In parte della provincia di Teramo, come a Montefino, molti verbi al passato remoto terminano con -ozze. Ad esempio, jozze (andò), arvinozze (ritornò). In altre zone della stessa provincia vi è la desinenza -oje. Ad esempio, fuzzoje (fu). • Al di là delle influenze dovute alla comune dominazione borbonica, il dialetto di alcune zone è stato fortemente influenzato anche dalla transumanza che ha trasportato alcuni vocaboli dal tavoliere pugliese al dialetto abruzzese. Sorprendenti alcune definizioni pressoché identiche tra i dialetti dell'Alto Sangro e quelli del Subappennino dauno (es. fahùgne - dal latino favonius - usato sia a Rocca Pia (AQ) e sia a Troia (FG) per indicare il vento caldo e secco). • La recente vocazione turistica dell'Alto Sangro ha inoltre portato un massiccio afflusso turistico in tali zone proveniente dalla Campania e da 1 • Paolo traduce il mio libro dall’italiano all’olandese. La distinzione tra verbi transitivi e intransitivi. È tradizionale la distinzione tra verbi transitivi e intransitivi a volte complicata dal tentativo di spiegare che cosa passa non passa tra le cose del mondo reale. Accade che in una lingua è un verbo che indica una certa operazione abbia la costruzione transitiva, in un’altra l’abbia intransitiva, oppure che nel corso del tempo quel verbo passi da una costruzione all’altra o assuma una analoga sfumatura di particolare significato. In modo semplice e pratico il ragionamento da fare il seguente: quando un verbo da ambivalente a tetravalente è accompagnato da un argomento oggetto diretto è Transitivo, invece quando un verbo non ha l’argomento oggetto diretto è intransitivo. Questa seconda categoria comprende verbi bivalenti e trivalenti. Questa ulteriore classificazione dei verbi ci permette di aggiungere che i verbi transitivi che ripetiamo hanno l’oggetto diretto hanno anche la costruzione passiva, gli altri no. Una frase come il gatto ha mangiato le polpette con il verbo mangiare bivalente che ha come argomento oggetto diretto le polpette può essere volta al passivo nella forma le polpette sono stati mangiati dal gatto. Una frase come il gelato piace bambini non può essere trasformata. Il verbo mangiare lo definiamo transitivo, il verbo piacere intransitivo Uno stesso verbo tuttavia può essere sia transitivo che intransitivo può avere dunque due costruzioni diverse che di solito corrispondono a due significati ben diversi: •.1.Mio figlio correre. (intransitivo) •.2.Mio figlio corre un rischio (transitivo) Il predicato Conoscendo la struttura del nucleo formato dal verbo e dai suoi argomenti, si può ragionare meglio sul concetto di predicato. Con questo termine si indica nella frase quelle informazioni che vengono predicate, ovvero dette sul conto del soggetto. Per esempio: • Gli amici regalano un libro a Giulia • Questo autobus va dalla stazione al centro Per quanto riguarda la prima frase, ciò che diciamo è che quegli amici regalano un libro a Giulia. Nella seconda quello che diciamo di quell’autobus è che va dalla stazione al centro. Proviamo con il verbo mangiare, usato solo può significare avere un buon appetito oppure essere occupato nel mangiare E quindi costituisce da solo un predicato. Ma se dico: Piero ha mangiato l’intera crostata della nonna. Ciò che predico di Piero è che ha mangiato l’intera crostata della nonna. Dunque quando vogliamo individuare ciò che viene predicato dal soggetto dobbiamo tener conto di quello che dice il verbo con i suoi argomenti. Limitarsi a indicare il verbo è un errore a meno che verbo non sia monovalente. I verbi composti: i verbi da soli costituiscono il perno del nucleo della frase. Si possono trovare verbi composti, ovvero espressioni verbali costituite da due o tre forme verbali, strettamente associate tra loro, delle quali una esprime il significato specifico e l’altra l’accompagna con una determinata funzione. In base alla loro funzione i verbi accompagnatori si distinguono in: • Ausiliari • Modali o servili • Aspettuali • Causativi Tutti aggiungono una dimensione particolare al verbo che accompagnano o sostengo. Verbi ausiliari sono essere ed avere, ed oltre ad avere significato proprio, servono a creare forme composte del verbo. In queste forme è il participio passato dà significato specifico, l’ausiliare ovvero l’aiutante dà soltanto il modo, la persona e il numero senza incidere sul significato. L’ausiliare essere utilizzato anche per creare le forme del passivo. Avere invece utilizzato come verbo modale. I verbi modali come potere, dovere sono come gli ausiliari al servizio di un verbo di significato specifico ma al contrario di quest’ultimi non sono del tutto vuoti di significato aggiungono contenuto alla frase attraverso una sfumatura modale ovvero una valutazione sul grado di realtà, possibilità e necessità ma anche di abitudinarietà. Es Leo può partire Verbi aspettuali prendono questo nome i verbi che descrivono l’aspetto ovvero il modo di svolgere un evento nel tempo sono soprattutto stare e andare seguiti dai gerundio e “ stare per, attaccare a, smettere di, essere sul punto di, prendere a, eccetera. Insieme albergo che accompagnano e si formano una perifrasi con la quale si indica a che punto ha inizio percorso temporale evento. Per esempio: sta per piovere; mi accingo ad uscire indica l’imminenza di un evento di un’azione. Verbi causativi sono i verbi fare e lasciare usati come verbi accompagnatori per indicare che qualcuno o qualcosa causa l’azione di qualcun altro descritta dal verbo specifico che va all’infinito. Es Maria fa partire Andrea I verbi di supporto alcuni verbi molto semplici come fare, avere, dare, prendere, si usano per fare da supporto a nomi che indicano azioni e sensazioni varie con i quali formano delle espressioni che valgono come verbi dal significato identico Esempi: Fare festa festeggiare Prendere sonno addormentarsi La costruzione passiva: è possibile soltanto con i verbi transitivi e partendo da una costruzione attiva possiamo avere più modi di realizzare una frase passiva ricorrendo a: • La costruzione passiva normale • Il si passivante 1 • La frase segmentata Esempio : Il guardiano ha aperto il cancello alle 8 • Il cancello è stato aperto dal guardiano alle 8 • Il cancello si è aperto alle 8 • Il cancello, il guardiano lo ha aperto alle 8. Verbi transitivi: quando l’azione si esprime su un oggetto diretto (complemento oggetto) es leggo un libro Verbi intransitivi: sono tutti i verbi che non possono reggere un complemento oggetto. L’azione non passa direttamente sull’oggetto ma con l’ausilio di preposizioni La Particella “Si” SI è una particella che può avere diversi usi. Si riflessivo La particella SI la usiamo per formare i verbi riflessivi. Esistono diversi tipi di verbi riflessivi e dunque diverse funzioni della particella SI: ● Riflessivo diretto: il SI coincide con il soggetto e svolge la funzione di complemento diretto (oggetto). Es. Claudia si veste = (Chi veste Claudia?) Claudia veste se stessa. Carlo e Luca si divertono in discoteca = (Chi divertono Carlo e Luca?) Carlo e Luca divertono se stessi. ● Riflessivo indiretto: il SI coincide con il soggetto ma svolge la funzione di complemento indiretto (di termine). Es. Chiara e Luca si lavano le mani = (A chi lavano le mani?) Chiara e Luca lavano le mani a se stessi. Lisa si è comprata un vestito rosso = (A chi ha comprato il vestito Lisa?) Lisa ha comprato un vestito rosso a se stessa. ● Riflessivo reciproco: il SI si usa con i verbi in cui l'azione è condivisa da due o più persone. Es. Paola e Marco si amano molto = (Paola ama Marco e Marco ama Paola) Stefano e Francesca si vedono tutte le domeniche a pranzo = (Stefano vede Francesca e Francesca vede Stefano) Mattia e Massimo hanno litigato e non si salutano = (Mattia non saluta Massimo e Massimo non saluta Mattia) Si passivante La particella SI può essere usata per creare la forma passiva. Per questo motivo si chiama "passivante": rende passiva la frase. La composizione permette di formare una singola parola unendo due parole. La composizione è, di tutti i processi morfologici, quello più vicino alla sintassi: capostazione = capo della stazione sottoscala = sotto la scala portafiori = porta i fiori Possiamo formalizzare il processo di composizione nel modo seguente: [ ]X[ ]Y >[[ ]X[ ]Y]Z [porta]V , [ombrelli]N > [ [porta]V + [ombrelli]N ]N In italiano nel caso della composizione le basi possono essere N-A-V-P, mentre le categorie in uscita sono N, o, meno spesso, A; cioè, l’italiano non ha verbi, avverbi o preposizioni composti. [capo]N+[stazione]N > N [sali]V+[scendi]V > N [campo]N + [santo]A > N [lava]V + [piatti]N > N [agro]A+[dolce]A > A qui l’unione di due verbi dà in uscita un nome [alto]A + [piano]N > N [senza]P + [tetto]N > N Un modello di composizione abbastanza comune in italiano è quello che forma nomi da una base verbale che è ambigua tra tre forme: a) tema del verbo; b) terza singolare dell’indicativo presente; c) imperativo. Nel caso della prima coniugazione la base è ambigua tra queste tre forme, nella seconda e terza coniugazione invece si vede che la forma sembra essere un imperativo, perché se il verbo fosse un tema ci aspetteremmo una -e: 1° coniug: porta-ombrelli, attacca-panni, salva-gente, gratta-capo ma 2° coniug: appendi-abiti, scendi-letto, reggi-mensole 3° coniug: apri-scatole, copri-letto In molte lingue, si possono formare parole nuove combinando due o più morfemi lessicali; per esempio, nelle lingue germaniche la composizione nominale (cioè di una serie di radici nominali) è un fenomeno che si incontra di frequente; così, in tedesco possiamo per esempio avere parole composte molto lunghe, quali Wassersportverein “circolo degli sport d’acqua”, che è data da una combinazione di tre morfemi lessicali liberi: Wasser “acqua”+ Sport “sport” + Verein “circolo”. Lo stesso tipo di costruzione esiste in inglese, anche se i composti si scrivono più raramente come una singola sequenza ortografica: water sport club (o watersport club o addirittura watersports club) Si noti che i composti hanno tipicamente un morfema lessicale che fornisce al composto le caratteristiche sintattiche e semantiche di base; ci riferiamo a tale elemento con il nome di testa, mentre per gli altri elementi usiamo il termine di modificatori. Per esempio, la testa di Wassersportverein è Verein, ed infatti questo composto è maschile come Verein. Inoltre, dal punto di vista semantico possiamo osservare che un Wassersportverein è un tipo di Verein, e non un tipo di Wasser, o un tipo di Sport. Derivazione All’interno della derivazione possiamo distinguere varie forme di affissazione (suffissazione, prefissazione ed infissazione) tramite le quali i morfemi grammaticali legati vengono combinati con radici e basi. 1 I processi più comuni di formazione di parole complesse consistono nell’aggiungere prima o dopo di un singolo morfema lessicale (libero o legato) uno o più morfemi derivazionali (e/o flessivi) che sono legati. Ci riferiamo a tali morfemi grammaticali legati con il termine di affissi. Tipicamente, un certo affisso avrà delle restrizioni sul tipo di base a cui si può attaccare; queste restrizioni riguardano: - il tipo di categoria a cui il suffisso o il prefisso si attacca; - i tratti semantici che la base deve avere. Possiamo formalizzare come segue le regole di suffissazione e prefissazione: [ ]X > [ [ ]X + Suf ]Y Suffissazione [inverno]N > [[inverno]N + ale]A [ ]X > [ Pref + [ ]X ]X Prefissazione [vedere]V > [ri + [vedere]V ]V Suffissazione e prefissazione sono processi simili, in quanto in entrambi i casi abbiamo la formazione di una parola nuova tramite l’aggiunta di una forma legata ad una forma libera. I due processi si differenziano perché: a) la suffissazione aggiunge un morfema legato a destra della parola base, mentre la prefissazione aggiunge un morfema legato a sinistra della base: prefissazione: in+attivo s+fortunato ex+presidente ri+scrivere suffissazione: attiv+ità invern+ale veloc+ista magistrat+ura Quindi, gli affissi che seguono la base si chiamano suffissi, gli affissi che precedono la base si chiamano prefissi. b) la prefissazione non cambia la categoria lessicale della parola a cui si aggiunge, mentre la suffissazione può cambiarla: fortunato A > sfortunato A presidente N > expresidente N scrivere V > riscrivere V In particolare, la suffissazione può creare i seguenti cambiamenti di categoria (dove ogni categoria lessicale maggiore N-A-V può diventare qualsiasi altra categoria lessicale maggiore): N > V atomo > atomizzare N > A inverno > invernale V > N V > A A > N A > V A > Avv circolare > circolazione mangiare > mangiabile attivo > attività veloce > velocizzare inoltre gentile > gentilmente c) i suffissi mostrano una maggiore tendenza a fondersi fonologicamente con le basi rispetto ai prefissi: la suffissazione generalmente cambia la posizione dell’accento della parola di base, la prefissazione no; questo accade perché, come si è visto quando abbiamo parlato di parola fonologica, solo i suffissi (e un tipo di prefisso) formano un’unica parola fonologica con la base: onèsto disonèsto onestamente moràle amoràle moralìsmo L’infissazione, cioè l’inserimento di un infisso all’interno di una parola, è un processo meno diffuso (l’italiano ad esempio non dispone di infissi per la formazione di parole nuove): finire finiamo finite finisco finiscono [Greenberg 1966] ha osservato che, tra le lingue, i suffissi sono molto più comuni dei prefissi. Secondo [Hawkins e Cutler 1988] questa asimmetria deriva dal fatto che, dal punto di vista del ricevente di un messaggio linguistico (parlato o scritto), i suffissi e i prefissi hanno uno status diverso: i suffissi seguono il morfema lessicale a cui si appoggiano, e dunque vengono sentiti o letti dopo che la base è stata riconosciuta; i prefissi, invece, precedono il morfema lessicale a cui si appoggiano, e dunque vengono sentiti o letti prima che la base sia stata riconosciuta. E’ interessante notare che, anche in una lingua come l’italiano, che permette sia prefissi che suffissi, la suffissazione sembra essere, per vari aspetti, il sistema preferito per formare parole complesse: - la morfologia flessiva dell’italiano (e di molte altre lingue indo-europee) sia interamente basata sui suffissi. - nell’ambito della morfologia derivazionale, solo i suffissi vengono usati per cambiare la categoria sintattica delle basi lessicali (le parole prefissate hanno sempre la stessa classe delle forme da cui derivano); - solo i suffissi vengono usati per la morfologia alterativa, che in italiano è molto ricca (accrescitivi gattone, diminutivi gattino, vezzeggiativi gattuccio). In generale, anche limitandosi alla derivazione, abbiamo a disposizione molti più suffissi che prefissi. Nell’indice di [Dardano 1978] si contano più o meno 138 suffissi derivazionali, ma solo 73 prefissi. LE DIFFERENZE TRA LO SCRITTO E IL PARLATO Prima Parte La lingua scritta non è semplicemente il parlato trasferito su pagina. Quando si studiano gli aspetti lessicali, testuali e morfosintattici si notano differenze importanti poiché entrambi necessitano un’organizzazione diversa delle informazioni. Con lo studio si può apprendere la struttura linguistica, mentre la lingua parlata viene assimilata in modo innato. Ciò che è stato detto non può essere cancellato; può essere modificato successivamente, anche subito, ma il linguaggio originale già pronunciato rimane. La spontaneità ha come svantaggio l’impossibilità di eliminare gli errori e la lingua parlata porta alla luce gli errori di chi parla, errori sia grammaticali che lessicali. Al contrario, il testo scritto è flessibile nel senso che esiste la possibilità di modificarlo, perfezionarlo fino a quando l’autore non è soddisfatto del proprio lavoro. 1 Il termine diglossia ha esteso la sua applicazione a contesti anche molto diversi fra loro. Da un lato il modello a due livelli si è complicato, prevedendo, per es., la triglossia, con una varietà M (media) fra A e B; o una distinzione, applicata da John Trumper alla situazione italiana sulla base della ‘forza’ della varietà B, fra macrodiglossia e microdiglossia (cfr. Berruto 1995: 227-250). Dall’altro la nozione di diglossia, assieme a quelle da essa derivate, si è estesa a includere, oltre alla compresenza di varietà di lingua imparentate e prossime, anche la compresenza, purché funzionalmente differenziata, di lingue diverse, strutturalmente distanti fra loro. Nel contesto italiano ciò si traduce spesso in repertori tripartiti nei quali la lingua di minoranza (ad es., l’albanese) si contrappone al dialetto italoromanzo della zona (ad es., il calabrese) ed entrambi si trovano subordinati all’italiano in un rapporto di diglossia o di dilalìa. Il fatto che due varietà (o lingue o lingua e dialetto) siano sufficientemente diverse e indipendenti, e ritenute tali dai parlanti stessi, sembra essere una condizione necessaria per parlare di diglossia. Il restringersi della distanza linguistica fra i codici produce invece una situazione di tipo diverso, il «bidialettismo» (Berruto 1995: 248). Qui il rapporto fra i codici è più fluido e possono sussistere sia varietà intermedie fra A e B, sia pratiche linguisticamente miste. Come casi di bidialettismo in Italia vengono spesso considerate le situazioni della Toscana e di Roma. Un tentativo di incrociare i concetti di bilinguismo e diglossia si trova in Fishman (1975) che ha identificato quattro repertori logicamente possibili: (a) bilinguismo e diglossia: tutta la comunità padroneggia entrambe le lingue ma le usa in modo funzionalmente differenziato; (b) diglossia senza bilinguismo: comunità con forti disparità sociali, nelle quali molti parlanti non hanno accesso alla lingua A; (c) bilinguismo senza diglossia: fasi transitorie durante le quali vige incertezza circa l’uso delle lingue; di solito seguite da una sopraffazione di una lingua sull’altra; (d) né bilinguismo né diglossia: tipo raro, riscontrabile solo in comunità molto piccole e isolate. Per quanto ampiamente accolta in sociolinguistica, questa tipologia presenta una serie di punti critici che rischiano di indebolire la portata teorica delle nozioni stesse di bilinguismo e diglossia. In questo modello, infatti, il bilinguismo perde la sua accezione di bilinguismo sociale, logicamente incompatibile con un modello di diglossia (una comunità o è bilingue o è diglottica rispetto alle stesse due lingue), venendo di fatto a coincidere con la competenza bilingue dei parlanti. Un punto invece importante della classificazione di Fishman (1975) è la necessità di rendere conto dell’accessibilità o meno dei due (o più) codici linguistici all’intera comunità: ciò vale tanto per il bilinguismo sociale (il che determina il tipo mono- o bicomunitario), quanto per la diglossia. La diglossia è infatti molto diversa se è l’intera comunità ad essere diglottica (come, ad es., nella Svizzera tedesca) o se invece ad ampi settori della società è di fatto interdetto l’accesso alla lingua o varietà A (come, ad es., in Italia all’epoca dell’unità nazionale). In questo senso la diglossia può essere vista come un riflesso dell’asimmetria dei rapporti sociali, diventando essa stessa strumento di potere. QUESTO SITO WEB UTILIZZA I COOKIE PER ASSICURARE UNA MIGLIORE ESPERIENZA DI NAVIGAZIONE, OLTRE AI COOKIE DI NATURA TECNICA SONO UTILIZZATI ANCHE COOKIE DI PROFILAZIONE UTENTE E COOKIE DI TERZE PARTI. PER SAPERNE DI PIÙ, CONOSCERE I COOKIE UTILIZZATI ED ESPRIMERE IL TUO CONSENSO ACCEDI ALLA PAGINA COOKIE - SE PROSEGUI NELLA NAVIGAZIONE DI QUESTO SITO ACCONSENTI ALL’UTILIZZO DEI COOKIE. Pubblicità ISTITUTO MAGAZINE CATALOGO SCUOLA ARTE TRECCANI CULTURA ACCEDI toscani, dialetti di Silvia Calamai - Enciclopedia dell'Italiano (2011) Condividi toscani, dialetti Lingua e dialetto in Toscana Il saggio programmaticamente intitolato Dialettologia toscana (Giacomelli 1975) inaugura una serie di ricerche che applicano i metodi della dialettologia allo studio delle parlate in un territorio generalmente definito culla della lingua, privo dei livelli individuabili come dialetto e come lingua. In Toscana, infatti, come del resto in altre zone dell’Italia centrale, non è presente il tradizionale bilinguismo lingua-dialetto (➔ bilinguismo e diglossia). Questa assenza produce nel parlato svariati effetti: uno spiccato polimorfismo (con un numero consistente di varianti fonetiche, morfologiche e lessicali); una separazione malcerta tra registri (➔ registro) differenti; una diffusa caratterizzazione (a un qualche livello linguistico) attraverso elementi dialettali; una 1 maggiore conservatività, specie lessicale e morfologica (Agostiniani & Giannelli 1990). La minore distanza tra italiano e varietà locali porta a rifiutare, nella coscienza linguistica dei toscani, il concetto stesso di dialetto, e a preferire il termine vernacolo, che allude a un ‘parlar male’ in opposizione a un supposto ‘parlar bene’. Questa situazione rende impossibile osservare i fenomeni linguistici con le medesime griglie interpretative adottate per gli altri dialetti: non si può parlare di ‘apprendimento dell’italiano’ (il toscano è, per certi versi, italiano), non di ‘abbandono del dialetto’ (il toscano è tipologicamente prossimo alla lingua), ma solo di «graduale decantazione degli elementi insidiati da usi standard» (Giannelli 1989: 278). La non rara coincidenza tra locale e letterario in opposizione a standard rende il quadro estremamente fluido e spesso molto soggettivo. Nel lessico, ad es., voci come gota, al tocco, desinare non coincidono con le espressioni corrispondenti dell’➔italiano standard (guancia, all’una, pranzare), ma hanno alle spalle una tradizione letteraria, possono ancora comparire nei testi scritti per creare un tono più colloquiale e familiare, e tendono tuttavia ad essere evitate dai parlanti colti in contesti formali. 2. Le varietà dialettali La Toscana linguistica ha un’estensione minore rispetto alla Toscana amministrativa: non appartengono infatti ai dialetti toscani né le parlate della Romagna toscana né quelle della Lunigiana e dell’area carrarese (Maffei Bellucci 1977), aree che anche politicamente sono rimaste estranee alla Toscana fino alla seconda metà dell’Ottocento. Le parlate della Lunigiana e della Romagna toscana sono assimilabili ai dialetti di tipo settentrionale. Proprio in Lunigiana passano i limiti meridionali di molti fenomeni peculiari dei dialetti gallo-italici, quali lo scempiamento delle consonanti geminate intervocaliche (per es., tu[s]a «tosse»); gli esiti cl- > [ʧ] e gl- > [ʤ] (per es., [ʧ]ara «chiara», [ʤ]ara «ghiaia»); le evoluzioni ŏ > [ø] e ū > [y] (per es., [ˈfjøla] «figlia», [ˈlyna] «luna»). La Romagna toscana è linguisticamente romagnola: gli stessi parlanti chiamano romagnù il proprio parlare in dialetto, che presenta una forma della parola (per es., [fok] «fuoco») e opposizioni fonologiche (per es., p[el]a «pala» ~ p[al]a «palla») di tipo decisamente non toscano. Lunigiana, aree apuane e Romagna toscana condividono la caduta di vocali finali o il loro passaggio a [ə] (➔ scevà). In questi territori è dunque presente una opposizione classica lingua ~ dialetto ben diversa da quella prefigurata per il toscano al § 1. A sud il confine tra le parlate risulta di più incerta definizione, in considerazione di fattori linguistici (la forte vicinanza strutturale tra dialetti toscani e dialetti alto-laziali) ed extralinguistici, quali l’assenza di netti confini geografici, le vicende storiche relative allo Stato dei Presidi, il tipo di insediamento e i flussi migratori che hanno caratterizzato il territorio. In quest’area giungono tratti centro-meridionali che non compaiono in altre parti di Toscana (§ 3.2). fiorentino e italiano offre ora un quadro, dalla parte del fiorentino, il Vocabolario del fiorentino contemporaneo, coordinato da Neri Binazzi. 3.2 I principali tratti delle varietà più importanti Il dialetto fiorentino ha il maggior numero di parlanti e appare il più conservativo tra i dialetti toscani centrali. A livello fonetico il fenomeno più macroscopico riguarda il cosiddetto ➔ indebolimento consonantico (detto anche ➔ gorgia toscana), ovvero la ➔ spirantizzazione delle consonanti occlusive (per es., ami[h]o «amico») e delle affricate palatoalveolari. Altre caratteristiche fonetiche degne di nota sono le seguenti, soprattutto a un livello rustico: tracce sporadiche dei fonemi [c] e [ɟ], continuatori dei nessi latini cl e gl (clave > [c]ave «chiave»; glănde > [ɟ]anda «ghianda»), estesi anche a li◌̯ ([ɟ]i «gli») e a forme quali [ɟ]eci «dieci», mentre sono pressoché scomparse le coppie minime del tipo se[kː]i (plur. di secco) ~ se[cː]i (plur. di secchio); monottongamento di /wɔ/ (b[ɔ]no); perdita dell’elemento labiale nel nesso /kw/ (per es., prendi [h]esto «prendi questo»); rotacismo della laterale preconsonantica (per es., a[r]to «alto»); caduta della fricativa labiodentale in posizione intervocalica (per es., [a ˈea] «aveva»). Nella morfologia nominale, i tratti salienti sono le forme dell’articolo determinativo maschile, singolare [i] «il» e plurale [e] «i»: [i ˈkːane] «il cane», [e ˈhani] «i cani»; il livellamento analogico in -e dei nomi e aggettivi femminili in -i (per es., le vite verde «le viti verdi»); il morfema icché, nelle interrogative dirette e indirette (rispettivamente, [iˈkːe ˈδiʃe] «che dice?», [ˈdimː iˈkːe tːu ˈvːɔi] «dimmi che cosa vuoi») e in sostituzione dell’ital. «ciò», «quello che» ([fai iˈkːe tːu ˈvːɔi] «fai quello che vuoi»); la vitalità del suffisso desemantizzato -olo (rigagnolo, formicola). Il carattere intermedio della parlata fiorentina è dimostrato anche dal sistema dei pronomi soggetto, con distinzione tra sistema tonico e sistema atono, con possibilità di cumulo a fini enfatici (per es., [ˈvoi e vːu pːarˈlate]), e con alcune vestigia dei pronomi tonici interrogativi postverbali (per es., [ke fːa ˈtu] «che fai?»). Nella morfologia verbale, sono da rilevare l’uso di (noi) si + terza persona singolare in luogo della prima persona plurale; nelle terze persone plurali, il livellamento analogico in -ano all’indicativo (mangiano, vedano, vendano, sentano) e il livellamento analogico in -ino al congiuntivo (mangino, vedino, vendino, sentino); nel fiorentino rustico, il passato remoto (tempo peraltro ancora molto vitale nella regione) in -onno (parlonno), l’➔imperativo per l’infinito (per es., [va a ˈvːedi] «vai a vedere»). Per alcuni fenomeni Firenze si oppone a buona parte della Toscana. Rispetto al fiorentino, molte varietà presentano una diversa distribuzione delle vocali medie anteriori e posteriori: s[ɛ]nza a Firenze, s[e]nza a Pisa; c[ɔ]ppia a Firenze, c[o]ppia a Siena, e così via. Poche parlate oltre al fiorentino conoscono il fenomeno dell’➔anafonesi: le forme fiorentine lingua e fungo si oppongono pertanto a forme come lengua e fongo, ancora vitali in aretino e in amiatino. I dialetti marginali (aretino-chianaiolo, garfagnino e versiliese, elbano) presentano, in luogo dei 1 dittonghi ascendenti /wɔ/ (poi monottongato a /ɔ/ nel toscano centrale) e /jɛ/, i corrispondenti medio-alti /o/ e /je/. Nella morfologia, in senese, pisano-livornese, lucchese e garfagnino è molto diffuso l’articolo determinativo maschile plurale e femminile singolare e plurale [lː] o [l] davanti a vocale (per es., chiudi [lː]occhi «chiudi gli occhi»; prendi [lː]ova «prendi le uova»). Nelle stesse parlate permangono a livello residuale gli articoli a iniziale prevocalica ill, ell (per es., [iˈlːɔvo] «l’uovo», [e ˈlːaltro] «l’altro»). Il sistema dei pronomi ➔ clitici, compiutamente attestato in fiorentino, si riduce progressivamente per numero, ruolo e frequenza mano a mano che ci si allontana da Firenze (e il lucchese ne è privo). Ad eccezione del fiorentino, l’infinito è generalmente tronco, anche in fine di enunciato, nella parlata lucchese, pisano- livornese, senese, amiatina. Il dialetto senese appare la varietà toscana meno distante dalla lingua nazionale, per un processo di graduale perdita delle caratteristiche peculiari: rispetto al fiorentino, gli elementi chiaramente dialettali appaiono meno frequenti e meno vistosi (Giannelli 1998). Quello che in passato era etichettato come dialetto toscano occidentale (comprendente pistoiese, lucchese, pisano) è ora suddiviso in due differenti varietà, il lucchese e il pisano-livornese. Il pisano ha seguito, insieme al livornese, un percorso per certi versi autonomo, mentre il lucchese ha mantenuto caratteristiche più conservative o anche, sporadicamente, settentrionali. Le caratteristiche fonetiche del pisano-livornese sono: l’abbassamento delle vocali medio-basse; la velarizzazione di / a/; vistose modulazioni della frequenza fondamentale (➔ fonetica acustica, nozioni e termini di); lo scambio tra liquide e vibranti in posizione pre- e postconsonantica (pe[l]ché «perché», c[l]edere «credere», ca[r]do «caldo», conc[r]usione «conclusione»). Quest’ultimo fenomeno ha prodotto fraintendimenti e analisi contraddittorie: complicano il quadro cospicui fenomeni di ipercorrettismo, la presenza della cosiddetta lisca, ovvero una pronuncia laterale fricativa della sibilante preconsonantica (per es., i[ɬ]toria «storia») da mettere in parallelo con esiti corsi e sardi (Franceschini 2008), il sistematico sfruttamento di questi esiti nella letteratura dialettale (anche nel pisano Renato Fucini). L’instabilità della laterale è ancora osservabile negli esiti velari della laterale intensa (per es., b[æ ɫː]o «bello») e nel passaggio gl > [lː] (fami[lː]ia «famiglia»). Nella morfologia verbale, le uscite in /-ɔ/ alla terza persona singolare del futuro e del perfetto, così come nelle forme monosillabiche del presente (so, sto), si chiudono in [o] nel dialetto rustico, soprattutto nel pisano e nell’Alta Maremma. La varietà lucchese conosce ora i fonemi [ʦ] e [ʣ], assenti fino a un recente passato; e ancora assenti peraltro nel pisano settentrionale (per es., pia[sː]a «piazza»). Sul piano morfologico sono da segnalare, a livello rustico, i nomi uscenti in [-n] (per es., [kan] «cane»), che rendono ‘meno toscana’ la struttura della parola e la avvicinano alle varietà garfagnine, ove questo tratto è vitale; i pronomi tonici [lu], [luˈlːi] e [lɛ], [leˈlːi]; una persistenza delle uscite livellate in -eno o in -ino per le terze persone plurali del presente indicativo (pur essendo più frequenti le forme in -ano); una limitata vitalità dei suffissi /-ajo/, /-ɔjo/, /-olo/, sostituiti, rispettivamente, da /-aro/ o /- aʎo/ (per es., [forˈnaro], [forˈnaʎo] «fornaio»), da /-oro/ (per es., [franˈtoro] «frantoio») e dall’atono /-oro/ (per es., [koˈniʎoro] «coniglio»). Molto caratterizzati appaiono i dialetti ai confini della Toscana linguistica. Le varietà della Garfagnana sono generalmente prive del fonema /z/ e presentano [ʃ] e [ʒ] in variazione libera (per es., di [ʃ]orno, di [ʒ]orno «di giorno»). Nella Bassa Garfagnana persistono tracce di metafonia ([marˈtɛlːo] ~ [marˈtelːi]). Le parlate dell’Alta Garfagnana risentono di forti influssi settentrionali: i fenomeni fonetici più rilevanti concernono la sostituzione delle laterali lunghe con suoni cacuminali, caratteristici anche delle parlate lunigianesi (pa[l]a «pala» ~ pa[ɖ]a «palla»), e la presenza di condizioni metafonetiche (per es., [ˈdeu] «(io) davo» ~ [ˈdiː] «(tu) davi»). Garfagnini sono anche il tipo il Carlo (► nomi propri) e l’articolo determinativo maschile il a prescindere dalla consonante seguente (il zio). Il dialetto aretino (Nocentini 1989) è affine per certi versi al perugino e presenta alcuni tratti tipizzanti (peraltro in forte regresso) che rimandano da un lato a condizioni settentrionali (come l’innalzamento di [a] tonica in sillaba libera a [ɛ] o [æ]: [ˈsɛle] «sale»), dall’altro a condizioni mediane e meridionali ‘antitoscane’ (tracce di armonia regressiva delle vocali atone e indebolimento del sistema atono). Il sistema vocalico tonico in sillaba aperta tende complessivamente all’innalzamento (per cui non solo [a] → [ɛ], ma anche bene → b[e]ne, b[ɔ]no → b[o]no); e le affricate sono realizzate come fricative anche dopo pausa ([ʃ]inema «cinema», [ʒ]ente «gente»). Nella morfologia nominale sono da segnalare almeno la vitalità dei prefissi a- e ar- (per es., agguardare, armettere) e i suffissi /-ɛo/ e /-elo/ in luogo di /-aio/ e /- olo/ (rispettivamente, [forˈnɛo] «fornaio» e [ˈʃitːelo] «bambino»). Il dialetto amiatino presenta vistose caratteristiche centro-meridionali (Giannelli, Magnaini & Pacini 2002). Sul piano fonetico, sono da rilevare, soprattutto nella parlata rustica: il mantenimento dell’atona finale -u (il suffisso -aio è [aju]); la geminazione di [b-] in fonosintassi (per es., le [bː]alle «le valli»); l’assenza di /z/ (per es., spo[s]a «sposa») e /ʣ/ (per es., [ʦ]iro «ziro», senese per «orcio»); il trattamento ‘meridionale’ dei nessi -nd- e -mb- (per es., acce[nː]evo «accendevo», ga[mː]a «gamba»); la compresenza nei nessi -lc- di palatalizzazione, rotacismo e conservazione della laterale (rispettivamente, sa[itː]u, sa[r]tu, sa[l]to «salto»); l’alternanza, per l’affricata palatale sonora, di esiti perugini (la [ʤ]ente), esiti toscani spiranti (la [ʒ]ente), esiti romani (la [dːʒ]ente). 4. Vitalità attuale e tendenze nell’uso del dialetto Nel toscano si registrano dinamiche contrapposte: da un lato la graduale perdita di caratteristiche locali o comunque non pan-toscane (per es., te[r]a «terra», f[ɛ]me «fame»), dall’altro la diffusione di caratteristiche ugualmente non pan-toscane, come l’indebolimento consonantico. A vari livelli, non solo nella fonetica, esistono elementi- bandiera dotati di una limitata forza espansiva che provano l’esistenza, anche nei parlanti giovani, di una spiccata fedeltà linguistica a certi aspetti del ➔ sostrato dialettale (anche minimi: si pensi alla vitalità dell’interiezione dé in livornese, o di alò in aretino). 1 “Vedo lui“, “Chiamano loro, non voi“, “Regalo a te questo cd”, “Torno da loro il prossimo sabato”. Trascrivendo le frasi riportate sopra così come vengono effettivamente pronunciate vediamo che proprio i pronomi tonici prendono l’accento principale in ciascuna concatenazione di parole: “Ve-do-lu-i”, “Chia-ma-no-lo-ro” | “non-vo-i”, “Re-ga-lo-a(t)-te” | “ques-to-ci-di”. Di seguito l’elenco dei Pronomi tonici: me noi te voi lui, lei loro Da un punto di vista logico i pronomi tonici svolgono la stessa funzione dei pronomi atoni: la frase “lo vedo” e la frase “vedo lui” dicono esattamente la stessa cosa. Da un punto di vista soggettivo tuttavia, ovvero dal punto di vista dell’intenzione del parlante, le cose stanno diversamente: in un caso affermo semplicemente di vedere qualcuno, lo vedo, nell’altro intendo dare enfasi al fatto di vedere lui e non qualcun’altro. Differenza tra pronomi atoni (senza accento) e tonici (con accento)Lo stesso per frasi come “mi sembra che sia tardi” e “sembra a me che sia tardi”. Sembra a me appunto, magari a qualcun’altro no, e così via. A differenza dei pronomi atoni che non sono mai preceduti da preposizioni, i pronomi tonici possono esserlo (a me, di me, con me, per me, tra me e me, da me, in me etc.). Tipi e generi testuali Gli studiosi moderni, come già i retori e i grammatici del mondo classico e umanistico, hanno tentato di ordinare i testi raggruppandoli in classi omogenee. Ne sono emerse varie tipologie testuali, divergenti tra loro a seconda del criterio assunto come fondamento, che individuano tipi di testo, articolati in generi e sottogeneri. Mentre i tipi testuali distinti dalle classificazioni tradizionali sono però categorie generali, definibili con tratti universali e reperibili in tutte le lingue e culture, i generi, al di là della loro apparente universalità, implicano l’adattamento del messaggio linguistico alle esigenze comunicative delle diverse società: essi variano quindi da una cultura all’altra, e anche nell’ambito della medesima cultura, da un’epoca storica a un’altra. In questa voce sono illustrati quattro tra i modelli di classificazione esistenti. Il primo, il più tradizionale, che in ultima analisi risale alla retorica classica, distingue i testi in base a un’ottica funzionale (§ 2). Il secondo li classifica in base ai diversi gradi di rigidità introdotti nel patto comunicativo che lega emittente e destinatario (§ 3). Il terzo, mosso da un’ottica didattica, differenzia i testi in base al tipo di capacità linguistiche e concettuali richieste per la loro produzione ed esercitate grazie alla loro osservazione (§ 4). Il quarto, infine, classifica i testi privilegiandone il canale di trasmissione (§ 5). 2. Dalla parte dell’autore: la tipologia funzionale La prima e più tradizionale tipologia si fonda sulle funzioni dominanti realizzate con il testo, cioè sul contributo dato alla comunicazione. Essa contempla sostanzialmente le partizioni del discorso individuate dalla ➔ retorica classica: descrizione, narrazione, esposizione, argomentazione. Tra le tipologie costruite in chiave funzionale, si segue qui quella proposta da Werlich (19822), oggi la più conosciuta. Essa può essere definita a un tempo funzionale e cognitiva, in quanto da una parte tiene conto del focus dominante nei testi – cioè del loro principale centro di interesse e di organizzazione –, dall’altra della capacità cognitiva correlata, che ne consente la comprensione e la produzione (Werlich 19822 : 39-41). In base a questi parametri, i testi si dividono in cinque tipi fondamentali: descrittivo, narrativo, espositivo, argomentativo, istruzionale (o prescrittivo). 2.1 Testi descrittivi I ➔ testi descrittivi possono essere definiti come il risultato di un macroatto linguistico di descrizione, consistente nel costruire un corrispondente linguistico di una porzione di mondo considerata in un contesto spaziale statico e atemporale. Essi rappresentano persone, oggetti, ambienti e sono correlati alla matrice cognitiva che consente di cogliere le percezioni relative allo spazio (Werlich 19822: 93; Lo Duca 2003: 197): (1) Il castello dell’innominato era a cavaliere a una valle angusta e uggiosa, sulla cima d’un poggio che sporge in fuori da un’aspra giogaia di monti, ed è, non si saprebbe dir bene, se congiunto ad essa o separatone, da un mucchio di massi e di dirupi, e da un andirivieni di tane e di precipizi, che si prolungano anche dalle due parti. Quella che guarda la valle è la sola praticabile; un pendìo piuttosto erto, ma uguale e continuato; a prati in alto; nelle falde a campi, sparsi qua e là di casucce. Il fondo è un letto di ciottoloni, dove scorre un rigagnolo o torrentaccio, secondo la stagione: allora serviva di confine ai due stati. I gioghi opposti, che formano, per dir così, l’altra parete della valle, hanno anch’essi un po’ di falda coltivata; il resto è schegge e macigni, erte ripide, senza strada e nude, meno qualche cespuglio ne’ fessi e sui ciglioni (Alessandro Manzoni, I promessi sposi, cap. XX) 1 Nel compiere un atto di descrizione si effettuano tre operazioni: (a) data la porzione di mondo che si è deciso di descrivere, si mette in atto innanzitutto la scelta delle entità su cui soffermare l’attenzione; (b) si passa poi a selezionare le proprietà da applicare a queste entità; completate queste due scelte ‒ fortemente condizionate dalla natura della porzione di mondo da descrivere e dall’obiettivo della descrizione ‒ (c) si passa infine a organizzare le entità e le proprietà selezionate all’interno della descrizione. L’oggetto di una descrizione può essere reale, far parte quindi del mondo di cui sia il locutore che il destinatario hanno esperienza, oppure fittizio, cioè appartenere a un mondo immaginario o possibile. Si possono avere descrizioni in praesentia o in absentia, a seconda che l’entità descritta si trovi effettivamente alla presenza del destinatario. Una descrizione può seguire un ordine spaziale, procedendo, ad es., rispetto al punto di osservazione, dall’elemento più vicino al più lontano, e da destra verso sinistra; oppure, secondo un ordine logico, andando dal particolare al generale o viceversa. Il punto di osservazione può essere fisso o mobile. Sulla base del livello di soggettività si trova spesso citata anche una distinzione tra descrizioni impressionistiche o soggettive e descrizioni tecniche o oggettive. Questa distinzione, considerata da taluni fuorviante (in quanto la natura stessa dell’atto di descrivere richiede sempre un’attività filtrante e costruttiva da parte di colui che descrive), è in un certo modo recuperabile se si considera che in un testo l’attività percettiva e giudicante del descrittore può essere esibita oppure occultata. In ogni caso, è importante sottolineare l’impossibilità di realizzare una descrizione assolutamente oggettiva in quanto per le sue caratteristiche intrinseche la descrizione obbliga ad affrontare scelte che lasciano sempre un margine al giudizio personale. Dal punto di vista della forma linguistica, il testo descrittivo è contraddistinto dalle seguenti caratteristiche: il numero delle proprietà evocate è maggiore di quello delle entità descritte; dato che l’atto del descrivere riguarda entità considerate dal punto di vista statico, i modi di essere presentati come statici prevalgono sui processi, che sono dinamici (Mortara Garavelli 19818: 160). Per effetto di ciò, il testo descrittivo è caratterizzato da un ampio numero di predicati stativi. I tempi verbali dominanti sono tipicamente il presente o l’imperfetto, tempi che esprimono azioni durative e non puntuali. 2.2 Testi narrativi I ➔ testi narrativi sono la realizzazione di un macroatto di narrazione, consistente nel costruire un corrispondente linguistico di un evento, o di una serie di eventi collegati, di cui si voglia mettere a conoscenza un destinatario. Essi sono correlati alla capacità cognitiva di cogliere le percezioni temporali (Werlich 19822: 39; Lo Duca 2003: 197): limitano a proporre informazioni in modo schematico; fra questi, il riassunto, gli appunti, gli schemi, le scalette. Come si è detto, i testi espositivi formano una classe estesa ed eterogenea: non stupisce quindi che tra i vari generi si riscontrino grandi differenze. Detto questo, i testi espositivi presentano anche alcuni tratti tipici: (a) sono spesso corredati di testi complementari e componenti di paratesto (tabelle, riquadri, grafici) che servono a completarli; (b) presentano una chiara articolazione in blocchi, ognuno dei quali ha la funzione di sviluppare un sottotema legato al tema centrale; (c) mostrano di privilegiare un numero ridotto di movimenti logici, tipicamente movimenti di rielaborazione di materiale linguistico già presente nel testo (esemplificazioni, specificazioni, illustrazioni, riformulazioni); (d) tendono a proporre un graduale incremento dell’informazione (➔ dato / nuovo, struttura); (e) privilegiano un ➔ lessico comune, evitando di impiegare parole di bassa frequenza d’uso, ➔ forestierismi inutili e tecnicismi (➔ terminologie) non spiegati (Lavinio 2000: 135). 2.4 Testi argomentativi I ➔ testi argomentativi sono la realizzazione di un macroatto linguistico che si propone come fine la persuasione del destinatario circa la validità di una tesi attraverso la selezione, la disposizione e la formulazione di specifici argomenti o prove. Essi sono correlati alla capacità cognitiva di selezionare/giudicare gli argomenti più pertinenti allo scopo, istituendo relazioni tra tali concetti e accostandoli gli uni agli altri per similarità o per contrasti (Werlich 19822: 40; Lavinio 2000: 127): (5) La poesia è (pare un assurdo) quanto di meno irrilevante, di più terrestre e di maggior tenuta circoli tra gli uomini, e proprio oggi, in civiltà che promuove l’oggetto, invece, di rapido consumo, l’oggetto-lusso, l’oggetto destinato a cambiare, destinato a essere utilizzato. Il più inutile (la poesia appunto) è proprio quanto continua a restare, quello che è cambiato di meno, da Omero a oggi: di tutti gli oggetti (e non solo artistici) il meno provvisorio. Un libro come quello di Giorgio Caproni, che raccoglie tutti i componimenti suoi scritti in un cinquantennio di attività (1932-82), è lì a dimostrarcelo, nel suo volume, nella sua consistenza, nella sua altezza suprema. A questo libro (non ne sono usciti poi molti in Italia, nel Novecento, di pari altezza) è delegata la dimostrazione di quanto or ora dicevo, e la dimostrazione della tenuta grandiosa che ha inoltre la poesia di fronte a tanto 1 inesorabile cancellarsi, oggi, di identità individuali e collettive, di fronte al progressivo sgretolarsi di ogni etica personale e comunitaria (Gian Luigi Beccaria, Giorgio Caproni. Tutte le poesie, Milano, Garzanti, 1983, «L’Indice» 1984, n. 1) (6) L’outsourcing con Xerox può ridurre del 25% i tuoi costi per i documenti. C’è un nuovo modo di vedere le cose. Forse pensi di avere già risparmiato il più possibile attraverso l’outsourcing. Non è vero. Affidando la tua produzione di documenti a Xerox, potresti risparmiare migliaia di euro al giorno. Ti offriamo una valutazione completa, che ti illustrerà quali sono gli strumenti da cui puoi ottenere di più e quelli di cui puoi fare a meno. Dopo averti dimostrato quanto puoi risparmirare, potremo implementare le soluzioni adatte e gestire anche per intero la tua produzione di documenti, sia in loco che esternamente. In questo modo, Xerox Outsourcing Services ti aiuterà a monitorare e controllare i costi nel tempo e a rendere il tuo business più efficiente. Potremo aiutarti a ridurre i tempi di inattività, in modo che il tuo staff possa lavorare più velocemente. Potremo alleggerire il carico di lavoro del tuo reparto IT (circa il 50% della chiamate all’help desk sono relative alle stampanti), per farti concentrare sul core-business. Tutto questo significa aumentare la produttività, riducendo i costi («Panorama» 25 novembre 2004) Tra i principali generi testuali argomentativi si possono citare, per l’orale, l’arringa, l’intervento in un dibattito, l’intervista; per lo scritto, la recensione, l’articolo di fondo (➔ giornali, lingua dei), il saggio scientifico in cui l’autore espone e motiva una sua personale ipotesi interpretativa, il testo pubblicitario. Per sostenere dialetticamente la propria tesi, l’autore ha a disposizione diverse strategie, che possono essere ricondotte a quattro tipi fondamentali. Può sfruttare: argomenti logici (che mettono in evidenza rapporti causali tra gli argomenti addotti e la tesi da dimostrare); argomenti pragmatici (che consistono nel far notare i risultati positivi derivati dall’accettazione della tesi); argomenti di autorità (che consistono nel portare a sostegno della propria tesi un’opinione autorevole); argomenti che riportano esempi, fatti concreti (Dardano & Trifone 1997: 479-480). Quanto alla struttura, nella retorica classica l’argumentatio, che occupava, con la propositio o narratio, la parte centrale del discorso persuasivo (tra esordio e conclusione) era suddivisa in probatio, la dimostrazione delle proprie tesi, e refutatio, rifiuto/demolizione del punto di vista avverso (Mortara Garavelli 1988: 164). Nella teorizzazione moderna il testo argomentativo si caratterizza per la presenza di un tema di discussione, dei soggetti dell’argomentazione (l’emittente che si propone di persuadere e il destinatario reale o fittizio che deve essere persuaso) e del ragionamento, messo in atto dall’emittente per raggiungere i propri obiettivi comunicativi. Nella sostanza, un’argomentazione segue la seguente struttura di base: esprimendosi su un tema l’emittente dichiara la propria opinione, detta tesi, a sostegno della quale porta delle prove, dette argomenti. Allo scopo di privarla di validità, l’emittente presenta poi la tesi contraria alla sua, detta antitesi, e procede a confutarla. L’emittente conclude quindi ribadendo la propria posizione. Tale struttura può essere soggetta a varianti dovute a ragioni di carattere stilistico e pragmatico. Il testo argomentativo può essere di tipo dimostrativo o persuasivo. Il testo argomentativo dimostrativo parte da premesse certe e universali e giunge a conclusioni vere. Il testo argomentativo persuasivo parte invece da premesse non universali e giunge a conclusioni verosimili. Sono caratteristici del testo argomentativo: (a) il grande rilievo dato al destinatario (di cui, per essere efficace, l’emittente deve tener in conto l’età, il livello culturale, le convinzioni personali, ecc., e che è continuamente chiamato in causa per mantenerne desta l’attenzione e per dare l’impressione che le sue opinioni e le sue esigenze siano tenute in grande considerazione); (b) il grande spazio preso nel testo dall’emittente stesso, che si espone in prima persona con espressioni come secondo me, a mio modesto avviso che tendono ad attenuare (➔ mitigazione) la categoricità delle affermazioni, e a consentire così un atteggiamento riguardoso nei confronti del destinatario. Tra le caratteristiche linguistiche del testo argomentativo la più evidente è la presenza costante di ➔ connettivi logici (soprattutto causali, finali, consecutivi, concessivi; ➔ causalità, espressione della; ➔ finalità, espressione della; ➔ concessione, espressione della) a segnalare gli snodi del ragionamento (Dardano & Trifone 1997: 480). 2.5 Testi prescrittivi I ➔ testi prescrittivi (definiti anche regolativi o istruzionali) hanno la funzione di regolare il comportamento del destinatario enunciando obblighi, divieti o istruzioni. Questi testi si collegano alla matrice cognitiva che pianifica il comportamento futuro (Werlich 19822: 40; Bonomi et al. 2003: 168): (7) Chi ha determinato a commettere un reato una persona non imputabile (c.p. 86, 88, 91-1, 96 n. 1, 97), ovvero non punibile a cagione di una condizione o qualità personale (46, 48), risponde del reato da questa commesso; e la pena è aumentata. Se si tratta di delitti per i quali è previsto l’arresto in flagranza (c.p.p. 380, 381), la pena è aumentata da un terzo alla metà. Se chi ha determinato altri a commettere il reato ne è il genitore esercente la potestà la pena è aumentata fino alla metà o se si tratta di delitti per i quali è previsto l’arresto in flagranza, da un terzo a due terzi (Codice penale della Repubblica Italiana, titolo 3, capo 3, art. 111) I testi prescrittivi possono essere suddivisi in cinque classi: (a) testi legali: codici, leggi decreti, ecc.; (b) istruzioni per l’uso: di apparecchiature, di prodotti (chimici, farmaceutici, cosmetici, alimentari); ricette (mediche, dietetiche, di cucina); guide (tecniche, turistiche); (c) propaganda: politica, commerciale, educativa (campagne ecologiche, sanitarie, per la sicurezza); (d) regole di etichetta (manuali di bon ton); (e) varie specie di memorandum (avvisi, promemoria personali, agende) (Mortara Garavelli 1988: 164-165). 1 (a) Testi espositivi. Si tratta di testi con funzione esplicativo-argomentativa, basata cioè sull’intenzione di fornire competenze o di proporre e dibattire tesi. Fanno parte di questa classe un’ampia varietà di generi, distinti anche in maniera notevole dal punto di vista della forma linguistica e della struttura testuale, ma accomunati dalla primaria funzione esplicativa e dal fatto che, pur rimanendo abbastanza rigorosi, tendono a stabilire per il destinatario un certo margine di libertà interpretativa. (b) Testi divulgativi. Si tratta di testi che hanno la funzione di divulgare (➔ divulgazione, linguaggio della) le competenze acquisite dagli specialisti nei vari campi della conoscenza. Per ottenere questo, pur poggiandosi su dati specifici e concreti, essi perdono gran parte della rigidità che caratterizza i testi scientifici assumendo forme più libere. (c) Testi informativi: il giornale. Questa classe raccoglie una categoria variegata di testi, tra i quali il più significativo è rappresentato dal giornale. Questo genere ha precise caratteristiche strutturali e linguistiche. Sebbene infatti al suo interno i contenuti siano distribuiti in sezioni poco omogenee sia per organizzazione grafica che per struttura testuale e linguistica, esistono tuttavia tendenze comuni ai diversi ambiti del giornale, e ai i giornali fra di loro, che possono essere considerate tratti fondamentali del linguaggio della stampa: il frequente uso di costrutti nominali, di espressioni e termini ‘prefabbricati’, di ➔ neologismi e forestierismi, di virgolettati, ecc. 3.3 Testi con discorso poco vincolante: testi letterari in prosa e poesia All’interno di questa terza categoria si collocano testi costruiti con grande libertà, con parole ed effetti di suono e di ritmo che divengono materia da plasmare. Questa libertà è messa a disposizione anche del destinatario. Contrariamente a quello che avviene infatti per altri tipi di testo, dove il lettore è obbligato ad accettare principi e convenzioni stabilite dall’autore, e il margine di libertà interpretativa è nullo o limitato, per questo tipo di testi il lettore è sollecitato a partecipare all’interpretazione in maniera attiva, ad aggiungere al discorso il prodotto della propria esperienza e il senso dei propri bisogni. (a) La prosa letteraria: la narrativa. Questa classe raccoglie vari generi di prosa letteraria, di cui la narrativa è probabilmente il più importante. I testi narrativi, pur tendendo a presentare eventi in genere vicini alla realtà, svolgono principalmente una funzione espressiva, basata sulla volontà di realizzazione artistica dell’autore. Non limitandosi alla documentazione di una realtà vera o verosimile, il racconto passa attraverso l’immaginazione e l’invenzione dell’autore che lo espone impiegando tecniche di vario tipo, quali ad es.: (i) intreccio di narrazione e riproduzione di parole, pronunciate o pensate dai personaggi o dall’autore stesso; (ii) varietà di lingua e stile, con passaggi dall’italiano al dialetto o a un’altra lingua, o dal formale all’informale, o dalla lingua standard a un linguaggio specialistico; (iii) sintassi e punteggiatura libere, con conseguente periodare fluido o fortemente frammentato; (iv) linguaggio figurato e impiego frequente di figure retoriche ed artifici (metafore, metonimie, sineddochi, sinestesie, allitterazioni, onomatopee, ecc.). (b) La poesia. Benché nel testo poetico la lingua raggiunga il massimo grado di libertà, esso segue precise norme e tradizioni compositive, regole di cui il lettore deve essere a conoscenza per l’interpretazione dell’opera. Esse riguardano in primo luogo il ritmo: la misura e gli accenti dei versi, curati perché nell’intera massa delle parole che compongono il testo venga a crearsi un particolare andamento ritmico. Molti altri effetti sonori (rime, assonanze, consonanze, simbolismi fonici, onomatopee, ecc.) partecipano poi a rinforzare il ritmo, costituendo con esso fenomeni di legamento. Per ciò che concerne la parte propriamente linguistica, è importante sottolineare la grande distanza che separa poesia antica e moderna (➔ lingua poetica). In epoca moderna, i poeti italiani cominciano infatti ad allontanarsi dagli schemi tradizionali e dai linguaggi arcaicizzanti passando a un linguaggio più realistico. La poesia si apre alla lingua parlata, la sintassi si fa più libera e con essa la punteggiatura, che talvolta è eliminata del tutto. In molti casi è il senso profondo del componimento che dà coerenza a testi i cui enunciati sembrano galleggiare isolati, apparentemente privi dei più elementari vincoli di coesione. Anche le forme metriche tradizionali sono largamente messe da parte dai poeti moderni che tendono a preferire agli schemi prestabiliti strofe e versi liberi. La ➔ rima, talvolta eliminata, entra spesso in un gioco più libero e raffinato, in cui si nasconde nel mezzo del verso o si alterna con altri effetti sonori. 4. Una tipologia testuale con pertinenza in ambito didattico La tipologia testuale proposta in Manzotti (1990) si basa sulla convinzione che non esiste un’astratta capacità di scrivere, indipendente dalla materia a cui si applica, dalla situazione comunicativa in cui si esercita o dagli scopi che si propone. In questa concezione, l’apprendimento della scrittura dovrebbe avvenire entro specifici tipi testuali, riconoscendo i vincoli e i gradi di libertà che essi impongono all’architettura e alla verbalizzazione dei contenuti (Manzotti 1990: § 3.1). La capacità scrittoria sarebbe dunque circostanziata a un’area concettuale e a un tipo testuale: si dovrebbe quindi profittare della varietà dei tipi testuali per riflettere sulle specificità strutturali e comunicative di ognuno di essi, esercitando le differenti competenze necessarie per la costituzione e la presentazione dei contenuti ai fini della composizione dei vari tipi di testo. 1 In questa classificazione si distinguono in primo luogo testi autonomi e testi che elaborano altri testi. La classe dei testi autonomi, non subordinati dunque all’esistenza di un altro testo, e dove quindi l’effetto di mimesi è assente, può essere ulteriormente divisa in testi di libera elaborazione intellettuale e testi fortemente codificati. I primi non seguono schemi predefiniti e sono caratterizzati dal fatto che scrittura e formarsi del pensiero (euresi) sono strettamente legati; i secondi seguono invece schemi preordinati e non sono caratterizzati da un reale sforzo creativo. All’interno dei testi di libera elaborazione si può poi distinguere tra testi prevalentemente di carattere argomentativo, nei quali chi scrive espone e argomenta posizioni legate a un’area concettuale, e testi prevalentemente espositivi, presentativi. Com’è naturale, i confini tra le diverse classi non sono netti, e in molte occasioni è difficile l’attribuzione a un’unica categoria. L’utilità didattica della distinzione resta comunque evidente, dimostrata dal fatto che ogni tipo e sottotipo privilegia determinate capacità lasciandone emarginate altre. 4.1 Testi di libera elaborazione intellettuale Nella prima categoria, quella dei testi autonomi, la classe più interessante ai fini dell’insegnamento è quella dei testi di libera elaborazione intellettuale: testi non legati a schemi predefiniti, in cui chi scrive cerca e dispone la materia liberamente. La loro costruzione, in cui l’atto di scrivere si svolge parallelamente al formarsi del pensiero, richiede di essere sorretta da un repertorio di competenze tecniche, di mezzi linguistici, tra cui emerge la capacità di riconoscimento delle azioni di composizione testuale. Scrivere diventa così un itinerario verso una conclusione, non necessariamente prestabilita, nel quale chi scrive deve avere il controllo sul percorso già fatto e sulla direzione verso cui è condotto dalla movenza che sta sviluppando. Se esercitate in maniera conveniente, queste forme testuali rappresentano uno strumento insostituibile per sviluppare abilità di scrittura e di riflessione. 4.2 Testi che elaborano altri testi Questa classe raggruppa i testi in cui è presente in maniera decisiva un’elaborazione a partire da altri testi, quindi forme in cui i contenuti sono forniti e chi scrive può concentrarsi pienamente sulla formulazione linguistica da attribuire loro. Questi tipi di composizione, nei quali interviene il momento fondamentale della mimesi, e che godono attualmente di una ben scarsa considerazione all’interno della scuola, costituiscono uno strumento fondamentale per l’insegnamento della scrittura, rappresentando un momento decisivo per l’estensione della lingua scritta. Entrano a far parte di questa classe il riassunto, la parafrasi, il commento, la rielaborazione, la sintesi di diversi documenti, il verbale. (a) Il riassunto. Condizione necessaria per riassumere è la conoscenza dei fatti espressi nel testo d’origine, dei rapporti logici che li collegano e delle tecniche differenziano per aspetti sostanziali che riguardano la sintassi, il lessico, la testualità. 5.2 Testi orali Questa tipologia distingue i testi orali in base al grado di formalità. È con questo criterio che è organizzata, ad es., la classificazione all’interno del LIP (1993), dove i testi sono disposti in cinque classi: (a) Tipo A (scambio comunicativo bidirezionale con presa di parola libera faccia a faccia): conversazioni in casa; conversazioni sul luogo di lavoro; conversazioni nell’ambito scolastico e universitario; conversazioni in luoghi ricreativi e sui mezzi di trasporto. (b) Tipo B (scambio comunicativo bidirezionale con presa di parola libera non faccia a faccia): conversazioni telefoniche normali; conversazioni telefoniche registrate alla radio; messaggi registrati nelle segreterie telefoniche. (c) Tipo C (scambio comunicativo bidirezionale con presa di parola non libera faccia a faccia): assemblee legislative; dibattiti culturali; assemblee studentesche; assemblee sindacali; incontri di lavoratori; interrogazioni nei vari livelli di scuola; esami universitari; interrogatori processuali; interviste alla radio e alla televisione. (d) Tipo D (scambio comunicativo unidirezionale in presenza del/i destinatario/i): lezioni di scuola; lezioni universitarie; relazioni a congressi o convegni politici, sindacali, scientifici; comizi politici; omelie; conferenze non specialistiche; arringhe giudiziarie. (e) Tipo E (scambio comunicativo unidirezionale o bidirezionale a distanza o differito su testo non scritto): trasmissioni televisive; trasmissioni radiofoniche (LIP 1993: 35 segg.). 5.3 Testi della comunicazione mediata dal computer Le recenti innovazioni tecnologiche hanno ampliato notevolmente le possibilità dei media testuali: e-mail, short message system (sms), newsgroup, chat, weblog hanno modificato completamente il mondo della comunicazione e le sue leggi. Con i nuovi media, l’informazione è memorizzata e modificata facilmente, trasportata velocemente e veicolata grazie a un’agile integrazione tra diversi canali (➔ lingua e media; ➔ posta elettronica, lingua della; ➔ Internet, lingua di). Per le produzioni legate a questo tipo di contesti, alla cosiddetta comunicazione mediata dal computer (nella formula originale inglese, computer mediated communication o CMC), è in corso da tempo una riflessione sulla natura scritta o 1 orale dei testi, a seguito della quale sono state coniate varie etichette: written conversation, face-to-face scripturality, written speech, ecc. Di certo, entro questi nuovi ambiti comunicativi si stanno sviluppando consuetudini compositive caratteristiche che stanno producendo conseguenze significative, soprattutto tra i giovani, anche all’interno di ambiti di scrittura tradizionali (non ultimi gli elaborati scolastici). È stato osservato come la tipologia diamesica sia facilmente e utilmente integrabile con altre, ad es., con quella tradizionale su base funzionale. In questo caso, una volta istituita l’opposizione relativa al canale di trasmissione ci si porrà la questione di differenziare i testi su base funzionale e di osservare, ad es., le differenze tra testi narrativi scritti e orali, testi espositivi scritti e orali, ecc. (Lavinio 2004: 148). 6. Testi misti Nonostante l’esigenza di dare un ordinamento alla produzione di testi abbia portato all’individuazione teorica di classi e sottoclassi testuali, è importante sottolineare come nella concretezza né i generi, né i testi reali siano mai interamente omogenei. Così, un testo qualificabile complessivamente come testo narrativo non è escluso, ed è anzi estremamente probabile, che contenga al suo interno sequenze descrittive o argomentative. Com’è anche probabile che brani di narrazione possano essere inseriti all’interno di testi globalmente classificabili come argomentativi o espositivi. Per questo tipo di fenomeni esiste la possibilità di distinguere tra due diverse manifestazioni: (a) testi che hanno più di una natura, appartenendo contemporaneamente a più tipi testuali (come, ad es., le favole che si concludono con un’esplicita morale, che possono essere considerate testi narrativi ma in una certa misura anche testi argomentativi); (b) testi all’interno dei quali si combinano vari tipi testuali, e che sono dunque costituiti da porzioni che appartengono a tipi di testo diversi (Ferrari & Zampese 2000: 413). In entrambi i casi, un obiettivo principale è normalmente individuabile e fa di essi un testo di un determinato tipo. Detto questo, se anche la combinazione di tipi testuali tende a non cancellare l’identità dei singoli testi, per i quali, come si è detto è normalmente identificabile una funzione globale, talvolta le zone di intersezione tra i diversi tipi e generi testuali sono ampie e i tipi testuali tendono a fondersi in ibridi caratterizzati da nuove finalità e da nuove caratteristiche strutturali (Dardano et al. 1992: 323). Questo fenomeno, in crescita, soprattutto nei giornali, ha portato a coniare l’etichetta «testi misti» (Dardano et al. 1992; Dardano 1994), applicabile a tutti quei testi contenenti al loro interno frammenti tipologicamente anomali: non in sintonia cioè con l’impianto generale del testo stesso. Questa mescolanza può avvenire a tre livelli, e riguardare una combinazione: (a) di forme proprie dell’orale e dello scritto; (b) di tecniche discorsive; (c) di campi di conoscenze, con i loro modelli di azione (Dardano 1994: 176). Il fenomeno dei «testi misti» ha oggi dimensioni internazionali: i testi ‘puri’ sembrano sempre più rari e resistere solo a livelli specialistici, mentre è sempre meno raro, soprattutto nei media, trovare riunite all’interno di un medesimo testo forme e tecniche di scrittura e stilistiche tipiche di varietà testuali diverse (Lo Duca 2003: 198). Denotazione e connotazione Denotazione e connotazione sono termini che si riferiscono ai diversi modi di intendere il significato di una parola. Per denotazione intendiamo il rapporto tra la parola e l’ oggetto che vuole significare; la connotazione invece indica il significato nascosto (metaforico) di una parola che si riconduce spesso ai sentimenti del poeta. Se prendiamo come esempio la parola "deserto", può indicare un luogo geografico (denotazione) oppure una condizione umana (connotazione: deserto dell'anima = solitudine); in generale la denotazione è tipica della prosa, mentre la connotazione è diffusa nella poesia. Ogni parola ha un significante, un significato e un referente. - il significante è il suono della parola o la sua grafia - il significato è il senso che diamo a un simbolo grafico o a un suono - il referente è l’oggetto a cui diamo quel nome determinato (esempio “cavallo”) Il significante cambia a seconda della lingua che si usa, mentre il referente è un concetto associato a quel suono (cavallo = mammifero con certe caratteristiche). Il significato è invece l'insieme di stati d'animo, di esperienze passate, di aspettative che ciascuno di noi associa al referente e quindi varia in modo soggettivo. Dal significato delle parole nasce la loro capacità di associarsi ad immagini diverse a seconda di chi le utilizza e di chi le ascolta; l'uso delle figure di significato è quindi personale e questo le rende suggestive, ma talvolta di difficile interpretazione. Coppia minima definizione e funzione Il classico metodo per individuare i fonemi di una lingua consiste nella prova delle coppie minime o prova di commutazione (➔ fonologia). Per realizzare questa prova, Trubeckoj formula la seguente regola: «Quando due suoni ricorrono nelle medesime posizioni e non possono essere scambiati fra loro senza con ciò mutare il significato delle parole o renderle irriconoscibili, allora questi due suoni sono realizzazioni fonetiche di due diversi fonemi» (Trubeckoj 1939: 59). Quindi, prima di effettuare la prova della coppie minime tra due suoni (foni), occorre: (a) assicurarsi che siano una cosiddetta coppia sospetta, cioè siano foneticamente molto simili. Un criterio di somiglianza può essere la condivisione di tutti i tratti fonetici, tranne uno o due: ad es. [p] e [k] condividono tutti i tratti (consonantico, occlusivo, non-sonoro) tranne il tratto di luogo di articolazione (bilabiale ~ velare); 1 perché le coppie di parole che si distinguono tra loro soltanto per la diversa pronuncia di un i o di un u sono pochissime; viceversa, sono numerosi i casi in cui per una stessa parola coesistono due pronunce dell’i o dell’u, più o meno diffuse e più o meno corrette entrambe (per es., redarguire ‹redarġu-ìre, redarġu◌ì̯re›). L’opposizione tra i e u vocali e s. è poi limitata alla posizione davanti a vocale; in tutte le altre posizioni non si può parlare di s., ma solo di vocali sillabiche o asillabiche, due classi tra le quali non c’è opposizione fonematica: l’i di Cairo e l’u di Laura, vocali asillabiche nei dittonghi discendenti ài e àu, sono vere vocali e non possono, in quella posizione, dar luogo a un’opposizione (distintiva) con un i o un u sillabici. Per la natura fonetica delle s. e il loro posto tra le altre semivocali ➔ semivocale. Dittongo: dittongo Gruppo costituito da due vocali che si seguono nella medesima sillaba. Una delle due è vocale sillabica, l’altra può essere sia vocale vera e propria ma asillabica, sia semiconsonante. Il d. è ascendente se la vocale sillabica è la seconda; discendente se la vocale sillabica è la prima. In opposizione al d., la vocale semplice è chiamata monottongo. Si dicono dittongazioni le trasformazioni di vocali semplici in d.; monottongazioni le trasformazioni di d. in vocali semplici. D. mobile In grammatica italiana, sono i d. ie, uo svoltisi dal lat. ĕ, ŏ rispettivamente; il d. resta tale se è accentato, altrimenti in genere si contrae in una sola vocale: per es.: muovo, ma mossi, moto. Vocale: vocale Nella grammatica scolastica e nella fonetica tradizionale, suono del linguaggio articolato caratterizzato (in contrapposizione alla consonante) dall’apertura, diversa secondo le varie vocali, del canale di fonazione, dalla continuità dell’articolazione e quindi dal fatto di essere, di norma, il centro della sillaba. I grammatici antichi diedero questo nome alle lettere greche α ι υ ο ω ε η e alle lettere latine a e i o u, in contrapposizione alle altre lettere dell’alfabeto definite σύμϕωνα in greco e consonantes in latino (in quanto queste hanno bisogno, nella pronuncia, dell’appoggio di una lettera della classe delle vocali). Le v. quindi apparivano ai grammatici antichi come suoni tipicamente sonori perché pronunciati con voce (di qui il termine, secondo i casi, di ἄϕωνα, mutae, o di ἡμίϕωνα, semivocales, per le altre lettere). I termini di v. e consonante, attraverso la tradizione medievale, sono pervenuti alla cultura moderna. Le v. si classificano: a) secondo il grado d’apertura della cavità orale, in aperte (o larghe), semiaperte, semichiuse, chiuse (o strette); b) secondo il luogo d’articolazione (individuabile lungo l’arcata palatina in corrispondenza del punto di massima elevazione del dorso linguale), in anteriori (o palatali), centrali, posteriori (o velari); c) secondo che le labbra siano arrotondate e spinte in avanti oppure no, in procheile (o labiate) e aprocheile; d) secondo che la voce passi solo per la bocca o anche per il naso, in orali e nasali; e) secondo la presenza o la mancanza delle vibrazioni laringee, in sonore e sorde; f) secondo la durata, in brevi e lunghe. Combinando tra loro le prime due distinzioni, e giustapponendovi la terza, si può formare una figura geometrica piana, e precisamente un quadrilatero (fig. 1), ottenuto collegando con una linea tutti i punti periferici che rappresentano le varie posizioni articolatorie delle v., stabiliti riportando sull’asse delle ascisse di un sistema di assi cartesiani i valori di luogo di articolazione (palatale o velare), e sull’asse delle ordinate i valori del grado di apertura del canale orale. Il quadrilatero delle v. porta agli angoli le quattro vocali estreme i (anteriore chiusa), a (anteriore aperta), å (posteriore aperta), u (posteriore chiusa); le altre v. sono disposte lungo i lati oppure nell’interno. Il punto occupato nel quadrilatero dalle v. tipiche è segnato con un cerchietto pieno, le lettere segnate a sinistra del cerchietto rappresentano vocali aprocheile, quelle segnate a destra vocali procheile. Le vocali italiane sono 7: i, é, è, a, ò, ó, u. L’opposizione dell’una all’altra di esse in posizione tonica ha valore fonematico, bastando di per sé a far distinguere parole identiche in tutto il resto. In posizione atona le vocali si riducono a 5, perché l’opposizione tra é ed è, e quella tra ò e ó, sono neutralizzate, avendo ogni e ed ogni o fuori d’accento una pronuncia uniforme, piuttosto chiusa. In posizione semitonica, cioè sotto un accento secondario, la distinzione è solo facoltativa, nel senso che è, ò possono mantenersi aperte oppure chiudersi (es., e di mezzogiorno, o di fortemente), mentre é, ó restano sempre chiuse (es., e di ventiquattro, o di sordamente). Anche il fatto che le due coppie é-è, ò-ó siano rappresentate nella scrittura da una sola lettera ciascuna, rispettivamente e, o, contribuisce in pratica a limitare ancora di più l’efficacia dell’opposizione nell’interno di esse. Per l’italiano, come per tutte le lingue che hanno una sola vocale con apertura massima (a), è necessario sostituire alla figura del quadrilatero quella di un triangolo (fig. 2). La distinzione tra le 7 v. italiane si regge unicamente sui criteri del grado d’apertura e del luogo d’articolazione, perché: a) u, ò, ó sono procheile, a, è, é, i sono aprocheile, sicché questo carattere in italiano è puramente accessorio rispetto a quello del luogo d’articolazione (diversamente, per es., dal francese, dove l’i di ni ‹ni› s’oppone all’ü di nu ‹nü›); b) tutte le v. sono orali, con solo una leggera nasalizzazione quando si trovano a contatto con una consonante nasale, soprattutto davanti a una nasale seguita da un’altra consonante, come conseguenza automatica della posizione nel contesto fonetico; c) tutte le v. sono sonore; d) tutte le v. sono relativamente lunghe quando sono toniche e finali di sillaba ma non di parola (per es., a di faro), sempre brevi quando manca l’una o l’altra di queste tre condizioni (per es., a di farò, di farro, di fa), senza che la differenza tra breve e lunga possa servire di per sé a far distinguere due parole (diversamente, per es., dal tedesco, dove l’ii di bieten ‹bìitën› s’oppone all’i di bitten ‹bìtën›). Si chiamano vocalizzazione: la trasformazione di un suono consonantico in suono vocalico; la distribuzione delle vocali in uno schema consonantico, come procedimento di derivazione con valore morfologico, vitale nelle lingue semitiche; la notazione dei segni vocalici in un contesto consonantico redatto in una di quelle scritture, soprattutto semitiche, che di regola non rappresentano se non le consonanti. UNIVERBAZIONI 1. Definizione: 1 L’univerbazione è il risultato di un processo diacronico che conduce alla «[f]usione – manifestata anche dalla grafia – di due parole originariamente autonome (palco scenico - palcoscenico, in vece - invece, ecc.)» (Serianni 1989: 750). Come si vede anche dagli esempi riportati, l’univerbazione riguarda casi molto diversi tra loro, che includono sintagmi preposizionali (come almeno o invece) e altre unità di origine sintattica (tuttavia, malaria, nontiscordardimé, ecc.). Quanto più un’unità del genere «è d’alto uso, abituale, tanto più se ne è affermata la variante grafica (e, in fondo, anche fonetica) univerbata: buonuscita è ormai scrizione più frequente di buon’uscita; la grafia separata di malessere è ormai del tutto in disuso e quella di benessere scomparsa, apposta prevale su a posta come addosso su a dosso» (Sabatini & Coletti 1997: 32). Una parte degli ➔ avverbi e delle ➔ congiunzioni italiani risultano da univerbazioni, in quanto stadio ultimo di processi di ➔ grammaticalizzazione: tali sono purtroppo, insomma, perché, cosicché, pertanto, ormai, ecc. Si noti che nell’univerbazione diviene anche graficamente evidente l’effetto della regola di ➔ raddoppiamento sintattico: eccome, semmai, sebbene, soprattutto, sopralluogo, ecc. In generale, l’univerbazione grafica segnala spesso l’opacità dell’unità, oltre che il raggiunto stato di lessema. 2. Aspetti grafici Un discorso parzialmente diverso riguarda l’univerbazione grafica di composti (➔ composizione) come capostazione o pescecane rispetto a treno merci o pesce farfalla. Infatti, i composti sono già di per sé unità di natura lessicale: l’univerbazione grafica non segnala quindi il raggiunto stato lessicale di un’unità di origine sintattica. Piuttosto, in genere, essa segnala una maggior frequenza d’uso, oltre che a volte un maggior grado di opacità semantica, come in pescecane rispetto a pesce farfalla. In quest’ultimo caso l’univerbazione è anche accompagnata dalla cosiddetta esternalizzazione della flessione: in pescecani il suffisso di plurale è in posizione finale rispetto a pesci farfalla, in cui la flessione è interna al composto sulla parola che funge da testa. Si noti che l’univerbazione grafica non necessariamente implica l’esternalizzazione della flessione (si pensi a composti come capimafia), ma ne è invece in genere implicata, sicché una forma come *capo stazioni rispetto a capostazioni è inaccettabile. 3. Fenomeni evolutivi Si noti come ci siano casi in netta evoluzione verso l’univerbazione, anche se non ancora accettati (o addirittura sconsigliati) dalla ➔ norma linguistica, come eppoi, vabbene, ecc. Una certa variazione a questo proposito si registra anche a proposito delle ➔ preposizioni articolate, anch’esse risultato di univerbazione. La forma univerbata, se in alcuni casi è diventata canonica (della, sulla, ecc.), in altri è meno accettabile o considerata decisamente antiquata: colla, pella, ecc. 4. Il caso della concrezione Connessa con l’univerbazione è la concrezione (o agglutinazione) di una parola, in genere di carattere grammaticale, con un’altra di carattere lessicale.
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