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LINGUISTICA ITALIANA - APPUNTI COMPLETI, Appunti di Sociolinguistica

Appunti completi delle lezioni del corso di Linguistica italiana, tenuto dal professor Davide Colussi presso il corso di Comunicazione interculturale dell'Università degli studi di Milano-Bicocca. Appunti completi di lezioni e slides, integrati con i passi letti in classe. Appunti adatti anche ai non frequentanti perché privi del modulo monografico.

Tipologia: Appunti

2021/2022

In vendita dal 19/05/2022

NicoleColleoni
NicoleColleoni 🇮🇹

4.5

(48)

43 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica LINGUISTICA ITALIANA - APPUNTI COMPLETI e più Appunti in PDF di Sociolinguistica solo su Docsity! 01/03/2022 INTRODUZIONE Il corso è diviso in alcuni moduli: 1. Elementi di grammatica storica e storia della lingua italiana (10 lezioni circa) Quando sentiamo parlare di grammatica storica, immaginiamo che la grammatica sia vista in una prospettiva normativa (cosa si deve fare e cosa no), perché nella sua accezione più comune la grammatica è intesa in questo senso. I grammatici spesso hanno torto, ma in una prospettiva storica hanno una loro utilità: forniscono un quadro prezioso dei mutamenti della lingua. Se pensiamo a quali sono i momenti storici in cui c'è una grande fioritura di opere grammaticali (500, 800, 900), realizziamo che sono i momenti di un forte cambiamento grammaticale. Non vogliamo fare una storia della grammatica. La grammatica storica è notare cosa succede al funzionamento e alle norme di una lingua in un arco temporale, in una diacronia. Ha quindi una prospettiva che non è normativa ma descrittiva (cosa succede, cosa cambia, come si evolvono le strutture dell’italiano in senso storico). Siamo oltretutto in una fase storica di fortissima evoluzione e cambiamento, per cui ci conviene farlo. L'altra ragione di fondo è di impostazione: per secoli abbiamo avuto grammatici con un'impostazione conservativa, ma a causa di questo si sono respinte numerosissime evoluzioni. Il punto è che la lingua non può essere governata dalla volontà umana o da un'autorità costituita, seppur sia essa stessa un'istituzione dell'uomo. A comandare è sempre l'uso (ad esempio, il "piuttosto che" che nell'ultimo decennio è diventato di uso comune): se tutti usano una forma, chiunque, anche senza accorgersene, si troverà a usarla. La grammatica storica studia quindi i fenomeni di evoluzione della lingua nel tempo. Con storia della lingua italiana intendiamo qualcosa che occupa un arco temporale in cui abbiamo già una lingua che possiamo dire italiana. È un problema complesso, poiché l'italiano non è uscito fuori dal latino, ma è la continuazione del latino (così come tutte le altre lingue romanze sono continuazioni del latino, ma in luoghi diversi). Sono sviluppi che implicano che non ci sia una soluzione di continuità, c'è un passaggio graduale da uno stato all'altro, per cui non si può stabilire una data da cui l'italiano inizia a esistere. Inoltre, un conto è vedere ciò dalla nostra prospettiva, in quanto posteri; un conto è vedere questi fatti di evoluzione mentre si stanno verificando - noi vediamo spesso fenomeni di superficie, che però ci dicono poco. L'italiano sta cambiando anche a un livello profondo, ma il come, in che modi, ci è difficile dirlo ora. Tornando a parlare del momento in cui il latino scompare e si trasforma in lingue nuove, si pone un ulteriore problema: chi usa queste lingue non è detto che si renda conto di non star più usando il latino. Si parla di coscienza linguistica. L'italiano dei primi secoli non si chiama italiano, veniva chiamato volgare. Non dobbiamo pensare a questo termine con un'accezione dispregiativa; significa "lingua parlata". L'italiano/volgare è una lingua parlata, popolare, contro una lingua che non lo è, il latino. È una distinzione che bisogna tenere sempre a mente: è una lingua parlata, contro una lingua scritta. Per essere più precisi, non è sufficiente parlare di volgare, ma bisogna parlare di "volgari", poiché il nostro territorio è ricchissimo. Ci si è chiesti dove altro si potesse trovare una tale ricchezza di varietà linguistiche di tipo diacronico (ossia in base al luogo): in India, che però ha un'estensione geografica molto maggiore di quella italiana. Questo fa capire che l’Italia è un luogo con una varietà interna fortissima. Una motivazione può essere geografica (monti, ostacoli naturali), ma anche storico-politica (c'era un forte isolamento tra le porzioni locali, ma un'ampia apertura sull'esterno). 2. Italiano contemporaneo (18 lezioni, da lunedì 4 aprile) Con italiano contemporaneo non si intende l'italiano degli ultimi vent'anni, ma si intende in un senso più ampio: è una varietà che si può riconoscere già nel ‘900, e che continua fino a oggi. Hobsbawm scrive Il secolo breve, espressione con la quale indica il Novecento: è un secolo ridotto, poiché la prima parte di esso - fino alla prima guerra mondiale, 1914 - è ancora una continuazione del’Ottocento (imperialismo, colonialismo, forme di potere prevalenti e che ancora si stanno sviluppando); quando crolla il muro di Berlino con la dissoluzione dell'Unione Sovietica si ha la fine del ‘900. Quello che sta in mezzo ha una sua compattezza, seppur con momenti di crisi (come la seconda guerra mondiale), momenti di calma (guerra fredda), momenti di incertezza (dissoluzione URSS). Per la lingua italiana, però, il Novecento non è un secolo corto. In un certo senso è come se cominciasse, nella sua direzione generale, nel momento in cui si ha finalmente un paese unito con l’Unità d'Italia, e continua fino a oggi. L’italiano contemporaneo è approssimativamente l'italiano dal secondo dopoguerra a oggi. È un periodo in cui una grandissima parte di italiani passa dal dialetto all'italiano. Un momento decisivo è quando i genitori dialettofoni decidono per i figli di commutare la lingua e rivolgersi a loro non in dialetto ma in italiano. Questo accade all'incirca con il boom delle nascite degli anni ‘60. Un dato di fondo importante: non tutte le innovazioni sono innovazioni in senso assoluto. Capita, cioè, che l’italiano di oggi presenta delle strutture innovative che si erano già presentate in passato, ma che erano state però bloccate. È come se l'italiano avesse in sé delle possibilità di sviluppo che rimangono latenti, e che si sviluppano nelle condizioni storiche più adeguate. Vi è poi il fatto che l'italiano è una lingua non solo scritta ma soprattutto parlata, e questo accade in particolar modo a partire con l’Unità d’Italia: diventa una lingua per comunicare, una lingua di scambio, che può essere quindi controllata. In realtà, però, l’italiano è sempre stata una lingua stabile che ha mutato poco il proprio lessico, essendo stata per molti secoli scritta. Solo nel ‘900 e negli anni 2000 ha vissuto dei cambiamenti radicali. 3. Parte monografica (tutte le lezioni del mercoledì a partire da mercoledì 16) L’Aminta di Tasso si presta per un corso monografico per due ragioni: Ø è molto breve, quindi si può leggere integralmente Ø è un'opera teatrale in cui i personaggi portano posizioni diverse, e le espongono. È, in un certo senso, un'opera molto parlata, nella quale i fatti succedono sempre e solo fuori scena e vengono solo raccontati, non li vediamo mai. Vi è quindi un aspetto argomentativo e retorico fortemente sviluppato. Ciò porta a interrogarsi su quale sia il punto di vista dell'autore, e su quali siano le strategie comunicative che caratterizzano queste voci. È un’opera del ‘500, quindi fortemente codificata da un punto di vista linguistico. Inoltre, tanto più un fonema è difficile da produrre, tanto più è probabile che sia specifico per quella determinata lingua. Esempio: thin – thing; tendiamo a pronunciare le parole in modo simile, perché non essendo noi parlanti nativi non percepiamo la differenza (n nasale, ng velare, distinzione che in italiano non c'è). Esempio: caso di apprendente italiano come seconda lingua: nel caso di chi parla cinese, una delle grandi difficoltà è la distinzione tra la laterale l e la vibrante r, perché gli manca uno dei due fonemi. 2. MORFOLOGIA Primo livello linguistico in cui si coinvolge la semantica, ma siamo ancora all'interno della parola, ancora in un livello infralessicale. L'unità minima della morfologia è il morfema. Il morfema è un'unità minima con un valore semantico: porta alla parola un tratto semantico, ossia un elemento di significato. In italiano la morfologia è un piano molto coinvolto. Un esempio tipico è gatto: si compone di due morfemi - radice gatt - porta il valore semantico più ampio, generale - morfema o - che ha un valore semantico duplice: o singolare - sia come singolo essere, che come sostantivo, ad esempio in latino era gatta; in inglese non ci sono). o maschile o è un morfema fusivo, che fonde in sé due tratti semantici (del genere e del numero). Non in tutte le lingue è così, molte lingue rinunciano all'espressione morfologica del genere, altre anche a quella del numero. In ogni caso, le lingue quando si dotano dell'espressione morfologica del genere, si dotano anche di quella del numero (universale implicazionale) - il viceversa non è detto (in inglese c'è numero ma non genere). Esempio: gattino, si compone di tre morfemi - gatt – radice - in - connotazione semantica del diminutivo - o - numero/genere Si osserva una grande fioritura dei morfemi nel sistema verbale italiano, fatto di morfemi che si aggiungono sempre dopo la radice (in posizione suffissale). Esempio: guardo - guard - atto del guardare - o - morfema di tempo e persona (io, al momento contemporaneo all'enunciazione) Esempio: guarderai - er - morfema che indica un momento futuro che si situa dopo l'atto dell'enunciazione - ai - morfema di seconda persona La morfologia è un sistema complicato, ma che dà molte informazioni. Ci troviamo di fronte a un bivio che ci si pone sempre davanti nel caso delle lingue: quando parliamo possiamo sempre scegliere tra due strade: - economia: dire meno, articolare in maniera più veloce, risparmiare. Questo perché comunicare è un atto faticoso, che coinvolge molti muscoli e viene attuato con velocità. - chiarezza: c'è in noi l'istanza di essere ascoltati e capiti (siamo animali sociali) La morfologia è una soluzione molto complicata che però permette grande chiarezza. Ogni lingua ha dei settori o delle zone in cui è molto chiara e ricca, e altre in cui è molto economica. Non c'è una lingua che è chiara sempre, o una che è sempre economica; anzi, è come se ci fossero fenomeni di controbilanciamento: se una lingua ha una povera morfologia, compensa con il lessico. Esempio l'italiano ha una morfologia talmente ricca che può fare a meno dei pronomi, perché la morfologia assolve già a questo compito. Al contrario, gli inglesi sono obbligati perché hanno una morfologia che non è trasparente. il francese ha una morfologia trasparente quando è scritta, ma nel parlato no, quindi anche qui bisogna esprimere sempre il soggetto pronominale. L'italiano è una lingua densamente morfologica, ossia si dota di strutture che veicolano valore semantico. Una lingua non densamente morfologica sarà dotata di un lessico più ampio (ad esempio, se non posso dire cavalli dirò molto cavallo). La morfologia dell'italiano è essenzialmente suffissale. Non tutte le lingue usano questa strategia, ad esempio l'arabo ha più affissi. 02/03/2022 3. LESSICO Le parole hanno una realtà linguistica separata, anche se quando le pronunciamo nell'oralità tendiamo a fare poche pause, che hanno un valore logico-sintattico. Dal punto di vista dell'articolazione, le parole non ci inducono a fare alcun tipo di pausa (l'articolo, ad esempio, è un elemento fortemente protonico, che ci permette di creare una struttura coesa quando parliamo). Quando non conosciamo una lingua, una grande difficoltà è capire quando finisce una parola e quando inizia l'altra. L'unità minima del lessico è il lessema (unità minima lessicale). Sappiamo che esistono parole che vogliono dire un po’ la stessa cosa. In realtà, è difficile che una lingua produca parole con un potere semantico perfettamente identico e sovrapponibile. Questo può essere ricondotto al fatto che quando la lingua produce delle scelte lo fa perché ci sono delle istanze di ordine comunicativo, per cui in un certo senso non c'è niente di superfluo nella lingua. Esempio: anziano/vecchio: il nucleo semantico è lo stesso, si parla di qualcuno che ha caratteristiche semantiche di longevità. Ma l'uso di vecchio o anziano non è indifferente, perché ci sono delle connotazioni semantiche: in anziano c'è una connotazione semantica di cortesia che in vecchio non c'è. Questo fa anche sì che anziano sia attribuito a figure dal tratto umano, e vecchio a oggetti (diciamolibro vecchio e non anziano). Non ci sono quindi sovrapposizioni perfette; anche se aree semantiche si possono sovrapporre molto, esse non combaciano mai. Se una lingua sviluppa un termine, è perché ci sono delle ragioni che l'hanno portata a farlo. Esempio: babysitter/bambinaia: l'immagine di bambinaia è di una donna anziana, austera, severa; babysitter, alla sua comparsa, ha dato una connotazione più giovane. L’unità minima è il lessema; in certi casi però non basta fermarsi dove la parola finisce. Alcuni lessemi sono detti complessi, o unità polirematiche: hanno un significato che è deducibile e comprensibile solo se li vediamo nella loro complessità, fino alla fine del sintagma. Esempio: ferro da stiro, ferro non basta a richiamare lo stesso contenuto semantico Esempio: luna di miele, il suo significato è dato solo dall'insieme delle componenti 4. SINTASSI I lessemi si mettono in sequenza. Quando si parla di sintassi, vale la pena di avere presente che ci sono due ordini fondamentali di sintassi: 1. uno si interessa alle singole parole che sono interne a una frase semplice, ossia a una preposizione. o Si parla di microsintassi: sintassi interna alla proposizione. È variabile nella sua fissità a seconda delle lingue: alcune hanno un ordine delle parole molto codificato (francese, inglese), altre hanno una grande libertà di posizione delle parole (latino). L’italiano è una lingua che tende a una certa fissità, ma che permette anche una certa libertà nella collocazione di parole e sintagmi. Il latino poteva essere così libero perché aveva una soluzione morfologica, i casi, che lo permetteva: i suffissi permettevano di sapere non solo genere o numero, ma anche il valore sintattico dell’elemento (soggetto, oggetto, complemento). Questo sistema di marcatura del valore sintattico di un elemento attraverso la morfologia permette di distribuire le parole un po’ come si vuole. Ha però alcune tendenze, il latino, come disporre il verbo alla fine. Questo si può trovare per un certo periodo di tempo anche nell’italiano, in una prosa che tende a imitare la composizione del latino. L'italiano ha una struttura SVO, il latino SOV. Ci sono sempre delle ragioni di ordine informativo che ci orientano nella collocazione delle parole nella frase. Esempio: A Vienna ho visitato molti musei → a Vienna è per primo perché vogliamo dare un setting spaziale e temporale al nostro interlocutore. Esempio: Ho visitato molti musei a vienna → da un punto di vista pragmatico trasmette qualcosa di diverso, un certo valore contrastivo (ad esempio, per dire poi a berlino neanche uno). Esempio: Ho mangiato la mela → struttura non marcata svo PARAMETRI DI VARIAZIONE LINGUISTICA “Dia” indica variabilità, mutamento. Sono tutti parametri di variazione, che dipendono sempre da delle variabili che non sono linguistiche. La lingua cambia, e ciò che la fa cambiare è sempre qualcosa che non è linguistico. I principali sono: 1. DIACRONIA: variazione nel tempo. 2. DIATOPIA: variazione in base al luogo, all’area geografica. - in italia la variazione diatopica è molto ampia. 3. DIASTRATIA: variazione in base alle condizioni del soggetto locutore o scrivente, in particolar modo in base al gruppo sociale - anzitutto, il grado di istruzione, che è il fattore più incisivo. Bisogna poi tenere conto dell'età (la nostra lingua cambia con il nostro crescere), e dello stato sociale/economico (anche se non più negli ultimi tempi) 4. DIAFASIA: variazione in base alla situazione e/o funzione o contesto del messaggio 5. DIAMESIA: variazione in base al mezzo o canale di comunicazione, attraverso cui si produce linguaggio. - è un elemento che prima era compreso nella diafasia; ci sono però delle caratteristiche strettamente legate al mezzo che si è ritenuto più opportuno separare – ad esempio, gli elementi di interpunzione ci sono solo nel mezzo scritto. Nozione di CONTINUUM A _____________________________________ B Continuum è un latinismo (continuum singolare, continua plurale). Ognuno di questi assi di variazione è un continuum, e tutti insieme quindi sono dei continua. Bisogna immaginare gli assi di variazione come dei segmenti che hanno due poli, un punto di inizio e uno di fine. Lungo questi segmenti, si possono immaginare un numero infinito di varietà. Ciò è molto chiaro quando si pensa all'asse diafasico, che ha una variazione maggiormente sensibile: facciamo di continuo riferimento alla situazione per le nostre scelte linguistiche. Possiamo quindi immaginare un polo di massima informalità e uno di minima (rispetto al tono da adottare). Nel mezzo ci sono molte situazioni, che per la linguistica sono un numero potenzialmente infinito (n* varietà) → è questo che indichiamo con il termine continuum. In modi diversi vale per tutti gli assi di variazione, persino quello diamesico (c'è uno "scritto scritto" e un "parlato parlato", ma ad esempio anche la comunicazione mediata da dispositivi). Questi assi di variazione non sono universi separati, ma sono tutti contemporaneamente in gioco. È un punto rilevante, ma allo stesso tempo anche difficile da concettualizzare e rappresentare. Tuttavia, tra questi, dobbiamo concepire che ci sono continue interrelazioni. In particolare, ci sono delle continue influenze che riguardano alcuni di questi assi. Ad esempio, in italiano la forte relazione tra la variazione di tipo diatopico e di tipo diastratico (la diatonia è un continuum italiano – dialetto /che a sua volta è un continuum/, a diastratia è un continuum grado di istruzione nullo - grado di istruzione elevato). La diatonia è legata alla diastratia: nell'area dell'istruzione bassa, ci saranno scelte diatopicamente marcate. Lo stesso vale per l'asse diastratico e l'asse diafasico: chi è in possesso di un grado di istruzione più elevato, è in grado di fare delle scelte più adeguate per situazioni diverse e/o complesse. Schemi tratti da Gaetano Berruto, Sociolinguistica dell’italiano contemporaneo, 1987 Nello schema a destra, gli assi sono concepiti come cerchi concentrici: una volta che abbiamo selezionato una varietà in un ordine, possiamo poi specificarle in un altro ordine. Esempio: diatopia oggi, diastratia Bicocca, diafasia un addetto, diamesia ecc... Possiamo partire da uno di questi assi di variazione, specificando via via sempre di più. Nello schema a sinistra, c’è un asse cartesiano: nelle ordinate c'è la diastratia, con i due estremi. Sull'asse delle ascisse c'è la diamesia, con i due estremi. L'asse diagonale è quello della diafasia. Possiamo immaginare che qualsiasi punto di questo piano corrisponda a una varietà possibile (non per forza esistente). L'area cerchiata è quella dell'italiano standard/letterario: è interessante perché non sta nel centro ideale, ma è sfasato per essere messo in un grado di istruzione maggiore. La varietà neo-standard invece è più in basso, fatto di strutture e forme più colloquiali e informali, meno scritte, che si sono però affermate a livello nazionale. Questo è interessante perché fa capire come l'italiano cambia, e soprattutto in che direzione (verso il basso, per cui è problematico) → prende il nome di fenomeno di risalita dal sub-standard. Cartina ROMÀNIA ANTICA Diacronia: massima espansione dell'Impero Romano (inizio II secolo d.C.) - tutto ciò che non è bianco è Impero Romano. Da un punto di vista linguistico le cose sono però più diversificate. - L’area in grigio è quella in cui si è affermato il latino come lingua di scambio. È la lingua di chi ha prevalso militarmente nei territori, ma l'Impero romano non impone l'uso del latino, è una scelta delle popolazioni. Se le province lo adottano è per il prestigio: nelle scelte linguistiche il prestigio è un fattore spesso decisivo, scegliamo di usare parole che ci sembrano prestigiose. Infatti, tra i grandi scrittori della letteratura latina non CI sono solo quelli nati a Roma o Mantova, ci sono anche quelli nati, ad esempio, in Algeria (Sant’Agostino, Apuleio) o in Spagna (Seneca). - In diagonale ci sono le aree in cui il latino non si afferma come lingua, ma dove rimangono lingue locali. - In area basca, Asia minore, Grecia, Egitto, Crimea, area del Mar nero (attuale Ucraina) c'è come lingua di scambio il greco, perché in queste aree è più prestigioso del latino. - L’area in grigio è la Romània (denominata così dai linguisti). Comprendeva la fascia dell'Africa settentrionale, la penisola iberica, Francia, Belgio, una parte della Germania, Austria, parte dell'Ungheria (al tempo Pannonia), area balcanica, Dacia (attuale Romania e Moldavia). - Anche la Gran Bretagna è latinizzata, seppur parzialmente. - È un'area molto estesa, e continua, e risulta essere molto più estesa della Romània moderna. socio-politica: la lingua è una varietà che ha un riconoscimento a livello socio-politico, cosa che il dialetto non ha. Ecco perché in casi come il sardo e il friuliano si parla di lingue regionali; hanno poi di fatto delle strutture linguistiche peculiari. - Area del Friuli: c’è un piccolo corridoio in verde normale sul tratto costiero, che ci ricorda che quell’area non è una zona in cui è usato il friuliano, ma il veneto. - Area in territorio svizzero: la Svizzera è un territorio nazionale in cui si parlano molte lingue (tedesco, francese, italiano). L’italiano è rappresentato in verde per il Canton Ticino a nord, ma c’è un’area più a nord-est, di verdastro, che è il romancio. - Romancio, ladino dolomitico e friuliano sono state accomunate nella storia della linguistica – dallo studioso Ascoli - sotto il nome di ladino: l’idea di Ascoli è che queste tre aree rappresentavano sopravvivenze di un’area linguistica più compatta, unitaria. È un’ipotesi che poi la linguistica successiva ha smentito. L’ipotesi più economica – più facile da giustificare - è che si tratta di aree conservative (tipico delle aree montuose isolate), che hanno dei tratti in comune ma anche delle diferenze, per cui non c’è ragione di ipotizzare che ci fosse un’area ladina nel senso in cui la intendeva Ascoli nell’Ottocento che va dal Cantone dei grigioni fino all’attuale Friuli, ma ci sono invece delle aree linguisticamente differenti, con tratti comuni ma anche differenze. Area rumeno-romanza - È rappresentata dall’antica Dacia, attuale Romania, più la Moldavia; ci sono poi alcune colonie di tipo rumeno in Grecia e Albania. Si nota subito il forte isolamento di quest’area romanza rispetto alle altre, confinanti. È quindi stata sottoposta a influssi diversi (greco, ungherese, russo, slavo), ma ha anche comportamenti propri, conservatori. Area dalmatica - Area che si trova sulla costa dell’attuale Croazia, in viola: è il dalmatico, lingua romanza che abbiamo perduto. L’ultimo parlante di questa lingua è vissuto nel Novecento, abbiamo della documentazione. È una lingua che ha sempre sofferto della compresenza del veneziano dell’ademar. Romania e Sardegna - Romania e Sardegna sono due aree isolate. - Da un punto di vista linguistico, quando due aree sono isolate succedono due fenomeni, che possono verificarsi in isolamento o compenetrandosi: o da un lato, tendono a conservare, mentre aree in cui ci sono scambi e sviluppi tendono a modificare e innovare. o Dall’altro, innovano in maniera autonoma. Quindi, possiamo attenderci che sia la Sardegna sia la Romania siano portatrici di fenomeni di conservazione, strutture antiche e quindi del latino che altrove si sono modificate e qui vengono riflesse, ma che ci siano anche innovazioni originali che non si trovano nel resto dei territori romanzi. - Esempio: in alcune aree della Sardegna tempo si dice tempus, con conservazione della consonante finale. - Esempio: oppure, il congiuntivo imperfetto del latino (forma in are + consonante) viene mantenuto, come in paparet per mangiare. - Esempio: un tratto caratteristico solo della Sardegna è il mantenimento di c e g non palatizzate: il latino non ha i suoni c e g palatizzati (più morbidi, ci e gi), la palatalizzazione è un fenomeno posteriore; per dire cento si dice chentu, ci sono aree in cui non è avvenuta la palatalizzazione. Tutta l’area romanza innova, di solito passando da c a c palatizzata (addirittura l’area gallo- romanza passa a una palatalizzazione successiva e si ha c – s, ciel). Queste sono forme di conservazione - Esempio: il latino non ha l’articolo, le lingue romanze lo sviluppano: usano del materiale linguistico funzionale, ossia gli elementi dimostrativi. Si usa come base per gli articoli determinativi illum, illam. Tutti gli articoli determinativi in area ibero-romanza, gallo-romanza e italo-romanza si basano su illum e illam. In Sardegna no, si basano su ipsu, ipsa, per cui l’articolo determinativo femminile sarà “sa”, e non “la”. È un tratto di innovazione completamente autonomo. Queste sono forme di innovazione Lo stesso discorso vale per il rumeno. Esempio di conservazione: tratto distintivo delle lingue romanze è la perdita del sistema dei casi (morfemi) che si trasformano nei pronomi personali. Nel rumeno questa perdita c’è, ma è una perdita molto meno forte. Esempio di conservazione: conservazione del genere neutro più abbondante che in altre lingue romanze, che in sostanza scompare se non per alcuni morfemi (alcuni residui sono il morfema “a” per alcuni plurali, come dita). Esempio di innovazione autonoma: sistema di sviluppo di un articolo che non sta in posizione proclitica – ossia davanti alla parola, ma in posizione clitica – ossia a seguito. Esempio di innovazione: articolo determinativo femminile si sviluppa non con proclisi ma con enclisi. Sono fenomeni di appiccicatura, attaccamento di parole (CLISI). Ad esempio, la sintassi dell’italiano è abbastanza libera, ma ci sono dei luoghi in cui non si può modificare, e sono quelli che hanno a che fare con gli elementi clitici: le particelle pronominali, i pronomi atoni. Per esempio. se voglio dire ti chiamo domani non posso dire ti domani chiamo che è agrammaticale, ossia non posso mai interporre qualcosa tra la particella “ti” e il verbo. È un vincolo che non può essere rotto, è molto forte, anche se la particella è atona e sembra di poco peso, non lo è: può essere collocata solo davanti o dopo il verbo (non posso dire neanche voglio chiamar domani ti). Queste particelle che si attaccano al verbo si chiamano clitici: quando si trovano prima si chiamano proclitici, quando si trovano dopo si chiamano enclitici. Allo stesso modo, l’articolo del rumeno non è proclitico ma enclitico. Ci sono poi delle zone che sono più tendenzialmente conservatrici, come ad esempio tutta l’area dell’Italia meridionale. Esempio: per l’espressione della temporalità passata, usiamo un tempo composto, il passato remoto si tende a non usarlo più, cosa che invece persiste in area centro-meridionale. In area settentrionale tendono a esserci fenomeni di maggiore dinamismo, di maggiore stabilità invece in area meridionale. IL LATINO VOLGARE Importante premessa: volgare è da intendere come popolare, appartenente al vulgus. E quindi, se popolare, è parlato. 1. Latino classico - Da Classicus = di prima classe - Dal 50 a.C. al 50 d.C. approssimativamente - Usato dagli scrittori 2. Latino volgare - Volgare < vulgus, ‘popolo’ (Cicerone: vulgaris sermo) - È il latino parlato, senza distinzione di tempo - Estensivamente: tutto il latino che non è latino classico - Dal IV sec.: “lingua romana” 3. Volgare - Volgare vs latino = parlato vs scritto - Denominazione dell’italiano nei suoi primi secoli di vita (fino al ’500) Sono formulazioni che non devono essere sovrapposte. LATINO CLASSICO Varietà che può essere determinata da un punto di vista diacronico, diafasico e diastratico. Si intende una varietà di latino usata in un dato momento storico, intorno alla nascita di Cristo. In questa fase storica abbiamo la fioritura della letteratura latina classica. Ha quindi una sua precisa collocazione storica nella diacronia, e ha un precisa collocazione diastratica, perché è una varietà che viene usata da persone colte, dotte, quali sono gli scrittori. Ha anche una collocazione diafasica, perché non è il latino usato nel parlato, ma quando si scrivono le opere letterarie. In realtà, anche una definizione diamesica, perché è un latino scritto. LATINO VOLGARE È un latino parlato. È qualcosa di più ampio e vago rispetto al latino classico: si usa nello scambio orale, non soltanto nel secolo del latino classico, ma in generale, senza una determinazione di tempo. La coppia oppositiva di latino classico e latino volgare, quindi, è un po’ imperfetta: da un lato si ha una varietà che è decisamente determinata; dall’altro una varietà più indeterminata. È come se tutto ciò che non è latino classico è latino volgare. Il latino volgare è anche documentato nello scritto: per esempio Cicerone, nelle sue lettere familiari, usa strutture che non sono del latino classico. Dal IV secolo troviamo una formulazione con cui viene denominato questo latino volgare: lingua romana. Latino volgare è usato da scrittori che non sono interessati al latino letterario. Esempio: i trattati tecnici, come Vitruvio Esempio: i vangeli, che hanno un latino molto semplice, non letterario Qualche caso documentato delle iscrizioni di Pompei - Ostis, e non hostis Ostis vuol dire esercito (si usa anche nell’italiano contemporaneo,”oste nemico”). Nelle scritte che si sono conservate sui muri di Pompei si trova ostis e non hostis: questo ci dice che nel 79 d.c. Questa parola non si pronunciava più sicuramente con un’h aspirata, mentre c’è stato un tempo in cui nel latino questa lettera aveva un valore fonetico (come tutt’oggi ha ancora nel tedesco). - Hoctober, hornare e non october, ornare Questo è molto interessante per noi, ed è documentato anche alla rovescia: ci sono casi di parole che non hanno l’h che vengono scritte con l’h: hoctober, hornaer, anche se non venivano pronunciate con la h. Esattamente come in hostis ci si dimenticava di mettere l’h, così si veniva presi dallo scrupolo e, in questi casi, non sapendo bene dove metterla si aggiungeva la lettera, in un fenomeno che prende il nome di IPERCORRETTISMO: chi scrive vuole scrivere bene e corregge anche quando non deve farlo. È tipico delle scritture di chi parla un italiano popolare. Esempio: uso delle doppie. al nord si tende a una pronuncia scempiata, dicendo con una sola consonante quello che si dovrebbe pronunciare con una doppia. Spesso, però, chi lo fa quando scrive mette doppie anche dove non ci sono, per una preoccupazione ipercorrettistica, per non rischiare di sbagliare. - Octime, e non optime (= ottimamente) Dire ct è faticoso, così come dire op, infatti noi diciamo ottimo. A quell’altezza storica si era già compiuto un fenomeno del nostro italiano, ossia l’ASSIMILAZIONE REGRESSIVA (perché va da destra verso sinistra; di due consonanti, è la seconda che assimila a sé la precedente – l'assimilazione è il fenomeno per cui un suono diventa simile a un altro che gli si trova vicino; un’assimilazione caratteristica dei dialetti centro-meridionali è il passaggio quando > quanno): l’italiano non usa ct, pt, cs. Questi nessi consonantici complessi sono stati assimilati: uno dei due fonemi consonantici è stato assimilato all’altro. Quello che assimila l’altro a sé è quello che viene dopo. Esempio: Ct -> t intensificata. Esempio: Pt -> t intensificata. Ciò che ci dice questo errore di scrittura è che lo scrivente usava dire ottime, ma sa che in latino non si scrive ottime, ma non si ricorda come, e quindi, sulla base di interferenze di altre parole latine come octo, scrive octime. Quando facciamo errori in linguistica, c’è sempre un conflitto, perché si hanno in mente due strutture, e dato che parlare è molto rapido, integriamo le strutture, scegliendo un pezzo della prima e uno della seconda. L’Appedix Probi (III sec. d.C.) È un’appendice, Probo è un grammatico del I sec. d.C. Si tratta di una porzione di un codice, una serie di appunti linguistici vergati da parte di questo maestro, che evidentemente annota usi scorretti da parte dei suoi scolari e fornisce una forma alternativa e corretta in sostituzione di quella errata. È possibile che siano raccomandazioni per scolari, ma anche semplici appunti sugli usi degli studenti. In ogni caso, troviamo qui ben espresse delle annotazioni grammaticali che in modo normativo dicono che qualcosa non va fatto. Ma se una struttura viene denunciata, dobbiamo sempre inferire che allora tale struttura era in uso. - Auris, e non oricla Oricla ricorda la forma dell’italiano orecchia, che deriva dal diminutivo di audis, cioè auricola (“orecchietta”). Auris è la forma del latino classico, oricla rispetto alla forma di partenza che sarebbe auriculum già presenta molti cambiamenti che portano verso la forma orecchia. Dal dittongo au si è passati a o (come da aurum in oro) La u post-tonica (ossia, che sta dopo la vocale accentata, quindi tonica) della penultima sillaba di auriculum si è persa, arrivando a cl – che evolverà poi in una velare doppia c La i di oricla diventerà una e chiusa - Calida, non calda Si è già prodotta la scomparsa della vocale i post-tonica, attraverso un processo di SINCOPE VOCALICA (è una questione di ritmo: quando si pronuncia calida, vi è una zona di pronuncia più marcata a livello fonatorio sulla prima sillaba accentata, mentre le altre zone risultano più deboli; la i scompare come se si trattasse di una sincope nella pronuncia, una mancanza). Fenomeni di sincope vocalica iniziano a prodursi già nel III secolo d.C. Molti dei mutamenti che riscontriamo nell’italiano di oggi, infatti, sono molto antichi, iniziano a verificarsi molti secoli prima di quando iniziamo a parlare di volgare. - Columna, non colomna Lo studente usa una forma che non è del latino classico, sostituendo la o alla u (tipica del latino classico). Questo tipo di forma, secondo un processo di VOCALISMO, è già diventata di uso comune nel terzo secolo. Non si è però qui ancora compiuto il passaggio da mn a nn, cioè il passaggio di assimilazione regressiva (come da octime a optime). - Masculus, non masclus Masclus non è ancora italiano, ma è più vicino vicino a maschio, con una perdita di vocale interna: la sincope si è prodotta, anche se non si è ancora arrivati del tutto alla forma attuale. - Speculum, non speclum Anche qui per arrivare a specchio ci vorrà ancora qualche secolo, ma intanto è andata via una vocale per sincope (u post-tonica). Cl non ha ancora prodotto la sua evoluzione nella velare intensa kk, con la l che si dileguerà lasciando però una componente palatale nella i di specchio. - Vetulus, non veclus Qui siamo già arrivati non solo alla perdita della vocale interna u per sincope, ma anche a un mutamento consonantico (da tl a cl) che prelude a vecchio (con un passaggio simile a specchio). - Vinea, non vinia Porterà poi a vigna, con la i che avrà una palatalizzazione successiva in gn, ma per arrivare a gn si deve passare dalla e post-tonica a i. - Oculus, non oclus - Viridis, non virdis Apparentemente sono dettagli, ma sono anche piccoli squarci di cos’era il latino volgare e di come si è modificato nel tempo. Anche questo documento, quindi, è per noi portatore di informazioni interessanti. DISTINZIONE TRA PAROLE POPOLARI E PAROLE DOTTE Siamo sempre nella prospettiva di parole che sopravvivono, che vengono dal latino e mutano la loro forma nel tempo. È quello che chiamiamo un LESSICO PATRIMONIALE, un lessico che ci è stato lasciato in eredità da chi viene prima di noi e che risale al latino classico, e poi si arricchisce con il latino volgare. Queste parole, venendo da così lontano, nel tempo sono cambiate. Essendo usate nello scambio orale, sono mutate nella forma, e sono quelle che noi chiamiamo POPOLARI. Una parola popolare è una parola che ha una continuità d’uso, e in questa continuità d’uso muta la sua forma. Esempio: - Aurum > oro - Florem > fiore - Glaream > ghiaia - Nivea > neve Il modo in cui sono cambiate non è casuale, ma segue delle precise linee di mutamento. Sono delle trasformazioni che potremmo dire normali. Esempio: florem diventa fiore, con fl che diventa f. Allo stesso modo, pluvia diventa pioggia, con pl che diventa p. Troviamo anche delle parole in italiano, nel nostro lessico, che sembrano delle parole fatte diversamente ma che rimontano a una stessa etimologia. Ad esempio, è il caso di aureo e oro: perché non abbiamo nell’aggettivo aureo la stessa evoluzione vocalica che si ha in oro? La ragione è che aureo non è una parola popolare, ossia non è una parola che ha avuto una continuità d’uso nel tempo, che ha prodotto un’evoluzione. È una parola DOTTA, cioè che chi conosceva il latino classico ha preso direttamente dal latino e ha adattato minimamente all’italiano. - Aureus > aureo - Flora > flora, floreale - Gloria > gloria - Niveus > niveo Da un lato, quindi, abbiamo parole con una continuità d’uso e con trasformazioni. Dall’altro, parole che vengono riprese direttamente dal latino e impiegate in italiano. Non sono dotte perché hanno un significato particolarmente complesso; il punto è la loro storia. Ci sono dei secoli in cui questa operazione di ripescaggio di parole del latino diventa frequentissima, come i secoli dell’umanesimo, tra Quattrocento e Cinquecento. Sono secoli in cui tutte le lingue – romanze ma anche inglese – si ha una gran quantità di parole che vengono riprese dal latino. Ci sono casi in cui si ha sia un esito popolare che un esito dotto. Esempio: - Da angustiam si ha sia angustia che angoscia. Angoscia è popolare (ché è cambiata di più). - Discum, da cui disco e desco. In questo caso, desco è popolare, anche se per noi è meno usata, però da un punto di vista di assetto vocalico ha subito la trasformazione di i in e, che è popolare. - Vizium, che diventa vizio e vezzo. Vezzo è l’esito popolare. Non è quindi detto che se una parola è per noi meno comune, allora è necessariamente colta. Le parole dotte sono parole che non sono passate attraverso le trasformazioni del latino volgare, ma che sono passate direttamente dal latino a un assetto italiano. Inoltre, la parola dotta arriva sempre un po’ dopo la parola popolare. Nella storia dell’italiano, ci sono persone colte che conoscono il latino, e usano alcune parole latine per esprimere un determinato concetto. Esattamente come oggi si dicono cose come “killare”, senza pensare che c’è un corrispettivo già disponibile in italiano. Quando in italiano ci sono parole che hanno la stessa base ma forma diversa, chiamiamo queste parole ALLOTROPI. Esempio: angustia e angoscia sono allotropi. 8/03/2022 PRIME DOCUMENTAZIONI DEL VOLGARE Il latino volgare è ormai alle spalle, si osservano ora i primi passi della nostra lingua. I documenti che attestano questo sviluppo sono pervenuti spesso per ragioni fortunate; quindi, non sono gli unici documenti in volgare di quei secoli, ma solo alcuni dei pochi che sono sopravvissuti. L’indovinello veronese È databile con ogni probabilità intorno all’inizio del IX secolo circa (c’è chi lo retrodata alla fine dell’VIII secolo). In qualsiasi caso, è una datazione alta (ossia, molto lontana da noi). Questo documento ci mette di fronte a un problema di fondo cruciale: quando uno scrivente scrive un documento che ci attesta la nascita di una lingua nuova, che sta nascendo e si sta formando, questo scrivente è consapevole che sta scrivendo in una lingua nuova o crede di star scrivendo in latino, seppur con una conoscenza impoverita? La nostra coscienza linguistica è acuta per certi aspetti, meno per altri, per cui in una trasformazione storica così lunga e così distante da noi, non è per noi difficile pensare che siamo di fronte a scriventi che non si rendono conto della lingua con cui si sta scrivendo. Scrivono nella lingua che usano, ossia un latino ormai volgare, lontano dalle strutture del latino classico, e per noi è l’italiano che si sta manifestando per le prime volte. I Giuramenti di Strasburgo Qui occorre subito fare un termine di confronto, molto eloquente, con il primo documento che attesta la nascita dell’antico francese: i giuramenti di Strasburgo. È un documento solenne, riconducibile a un fatto storico preciso e databile al 842 (un po’ dopo il documento veronese). Sono dei patti stretti tra due fratelli (Carlo il Calvo e Ludovico il Germanico), fratelli dell’imperatore. Essi stringono un’alleanza di tipo difensivo, di fronte alle possibili mire di annessione dell’imperatore. Ma è anche un’alleanza tra due eserciti: i due fratelli leggono la formula di giuramento di alleanza alla presenza dei rispettivi eserciti. Quindi, essa viene redatta in due lingue: antico germanico (da Ludovico il germanico) e antico francese (da Carlo il Calvo). Questo perché il giurante deve far comprendere il contenuto del suo giuramento all’altra parte. Qui c’è consapevolezza che questa lingua non è latino ma la lingua d’uso in area francese, e la lingua con cui si può essere compresi da un esercito. C’è una piena coscienza e consapevolezza linguistica da parte del parlante. Questa situazione, però, non l’abbiamo nell’indovinello veronese. Per avere un documento ufficiale di nascita della lingua italiana bisogna aspettare un po’ di più. Il supporto è una pergamena (i bordi sono irregolari), che si trova in un codice (più fogli rilegati insieme). Questo codice, come ogni codice, ha una sua storia, che spesso viene illustrata dal fatto che ci sono note di proprietà apposte sopra; esso è fabbricato in area spagnola, a Toledo, e poi viaggia (nel Medioevo i codici sono spesso conservati in biblioteche, abbazie, luoghi di conservazione vari, ma è altrettanto vero che viaggiano, spesso perché la situazione cambia, ci sono sconvolgimenti; in questo caso lo sconvolgimento è l’occupazione degli arabi nella penisola iberica). Il codice arriva in Sardegna, poi a Pisa e infine a Verona. Qui, viene scritto probabilmente da un religioso ciò che passa sotto il nome convenzionale di indovinello veronese. I codici in epoca medioevale erano una risorsa preziosa, dunque le superfici non andavano sprecate; in questa faccia del codice qualcuno aveva fatto un disegno con dei diavoletti inscritti in alcuni cerchi. Restava libera la parte superiore, in cui qualcun’altro ha poi scritto qualcosa. - Assenza dell’articolo - Pratalia, e non -d- - -aba, -eba, e non -v- - Albo - Semen - Versorio (ma sett. Versor) - Se pareba: parare o parere? - Se, e non sibi - Scomparsa delle consonanti finali (-t nei verbi, -m nei sostantivi) Questo indovinello è scritto quindi in una lingua molto composita, in cui molto elementi stanno germogliando, mentre altri sono conservati (a volte totalmente, a volte parzialmente, della forma latina). È un documento che ci attesta ancora uno stadio composito, di difficile interpretazione. Di fronte a un documento di questo tipo, è decisivo avere il riscontro che riguarda la seconda iscrizione (la formula di ringraziamento): se la persona è la stessa, questa persona allora sa chiaramente che nel momento in cui scrive l’indovinello sa di star scrivendo in una lingua diversa dal latino. Se le mani, come appare, sono invece diverse, non possiamo sapere con certezza che ci sia un consapevole uso diverso del latino, per cui bisogna rimandare ancora questa prima attestazione dell’italiano. Se guardiamo come è scritto l’indovinello vediamo un fenomeno comune a quell’altezza storica e successivamente: SCRIPTIO CONTINUA, le parole non vengono intervallate da spazi, ma uniformate in un’ininterrotta sequenza di lettere. In questi primi documenti si riscontra spesso questo fenomeno di scrittura di una parola attaccata all’altra, che d’altronde è un fenomeno molto naturale, poiché quando parliamo non separiamo le parole se non da un punto di vista semantico. Era il lettore a creare mentalmente le pause necessarie per scomporre il testo in frasi - e quindi per comprendere il significato. La scriptio continua si accompagnava necessariamente alla lettura ad alta voce: il testo doveva essere ripetuto, fino a trovare la corretta suddivisione delle parole. L’iscrizione di Commodilla Roma, catacombe: qui siamo nella catacomba di una patrizia, che si chiamava Commodilla, che quindi non è l’autrice del documento. Semplicemente, l’iscrizione si trova dove la donna era stata sepolta. Questi luoghi sotterranei vengono ben presto usati per la celebrazione di culti cristiani, proibiti, che si devono quindi tenere in luoghi occulti. Quando essi non sarannno più proibiti, verranno usati come luoghi sacri dove deporre le spoglie di figure venerate. Quindi, questa tomba diverrà anche la cripta di due santi: Felice e Adàutto. In questa cripta dei santi si recitano preghiere, si celebrano culti, e la cripta viene affrescata. La parete dove troviamo questa iscrizione muraria, graffita (incisa con una punta sulla superficie muraria) è una parete affrescata: è difficile pensare che prima ci sia stata l’iscrizione sopra la quale hanno affrescato; quindi, sicuramente la scritta viene dopo l’affresco. L’affresco viene fatto risalire tra il VI e VII sec, quindi potrebbe essere precedente all’indovinello ed è sicuramente precedente ai giuramenti di Salisburgo. Questo è il termine post quem. Il termine ante quem è la fine della cripta: ci sono dei crolli, quindi più in là del IX secolo non viene usata come luogo di culto. Non dicere ille secrita abboce Parafrasi elementare: non dire quei segreti a voce. Parafrasi più complessa: non pronunciare le orazioni/le preghiere segrete a voce alta. Anche qui si osserva il fenomeno di scriptia continua. Inoltre, si sviluppa verticalmente e si va a capo. In abboce si osserva l’aggiunta di una b in un secondo momento. La scritta sembra dire che ci sono delle preghiere che nei culti e nei riti liturgici antichi vanno dette a voce bassa, non tutti insieme ma ognuno per sé: queste sono le orazioni segrete, non perché da nascondere ma perché da tenere chiuse in noi. Secrita sta infatti per “orazioni segrete”, “preghiere da recitare a voce bassa”. Anche qui, a prima vista, si vede molto latino, che è però più apparente che sostanziale. - Non dicere Dicere è latino, perché noi diciamo dire. Dicere, però, è una forma alternativa che c’è in italiano antico, del tutto logica (dalla terza persona dice si forma l’infinito dicere, tant’è che i bambini lo dicono). La lingua non è perfettamente regolare e logica; ci sono strutture usate sempre, comuni, ma anche strutture più secondarie, meno usate. Le irregolarità, però, spesso si trovano nel centro, ma siamo così abituati a usarle che non ci rendiamo conto che sono irregolari Esempi: dito, plurale dita; verbo andare che fa vado, non ando. Possiamo immaginare che se una lingua fosse veramente funzionale avrebbe le cose che usiamo più frequentemente come regolari, ma spesso succede il contrario, senza che ne abbiamo percezione. Quindi, dicere non è rivelatore che siamo di fronte al latino. È invece rivelatore che siamo di fronte a una struttura del volgare l’imperativo negativo formato come non + verbo infinito, che in latino non si faceva così, ma come ne (complementatore) + congiuntivo perfetto. - Ille Ille illa illum, aggettivo e pronome dimostrativo del latino che vuol dire quello/a, che fornisce materiale fonetico per sviluppare un articolo. Da solo, quindi, non può sviluppare quello, che ha bisogno di ecce come rafforzativo. Quindi, se diciamo quei segreti, tradiamo il significato reale della scritta. Ille ha ancora la forma del latino, ma ha già un valore puramente di articolo, i segreti/le orazioni segrete. Forme latine sono qui già state riempite di un significato che è nuovo, a differenza dell’indovinello veronese. - Secrita L’uscita in a neutro plurale rimanda al latino; non si ha la sonorizzazione g ma si ha la tutela di c (anche se questo resterà nell’italiano per molti secoli, secreto, si arriva all’annullamento del doppione segreto/secreto solo nell’Ottocento). La i è interessante: - Prima ipotesi: chi ha scritto pronunciava secrita – non ha senso - Seconda ipotesi: ha sbagliato a scrivere - Terza ipotesi: ha scritto i per e perché siamo in una fase storica in cui tante i latine sono già e. È il fenomeno del VOCALISMO TONICO: se le parole latine hanno una i breve, allora in italiano si forma una e. Questa i non è un refuso, è un elemento significativo, e può essere dovuto a una forma di correttismo, per cui lo scrivente ipotizza che quando pronuncia secreta avrebbe dovuto dirla come secrita. - Abboce Si ha la resa di v con b, fenomeno frequente del BETACISMO soprattutto in area italiana/centro meridionale. È frequente, però, anche l’inverso (es. varva per barba). Questi fenomeni per cui si passa da un fonema all’altro e viceversa indicano che si sta verificando una neutralizzazione, ossia si sta perdendo una distinzione fonologica, per cui due fonemi possono essere percepiti come la stessa cosa (es l e r vibrante e laterale in cinese), anche se è un fenomeno temporaneo. È quindi una forte documentazione precisa di un tratto locale (betacismo tipico del romanesco antico). La cosa ancora più interessante è il RADDOPPIAMENTO FONOSINTATTICO: si chiama così ma non è un raddoppiamento, è una dicitura un po’ sbagliata. Il processo è: - Base latina di abboce: ad vocem. - Se partiamo da ad vocem, il materiale consonantico di abboce c’è già tutto, non si è raddoppiato nulla. È avvenuta un’ASSIMILAZIONE REGRESSIVA, solo con due parole che stanno appiccicate (ad non ha una sua parola o accento, si appoggia a vocem e fa con essa un unico blocco). - Ad, d è stata assimilata a sé dalla consonante che segue, la v di vocem (in un italiano parlato da un toscano è avvoce) - Segue poi il betacismo – meridionale – : v > b Si dice fonosintattico perché si verifica in sintassi, ossia nella legatura tra una parola e l’altra, e non all’interno di una parola; è poi un fenomeno fonico. testimoni usino tutti la stessa forma. La formula si trova infatti quattro volte esattamente detta allo stesso modo, per cui non può essere un caso. Le parentesi indicano che le lettere sono aggiunte dopo, e in realtà la parola è una abbreviazione (Sci). Si capisce guardando questi atti che alcuni dei testimoni il latino lo dovevano sapere, non erano contadini. D’altra parte, perché metterle in volgare se gli atti erano in latino? Perché esse sono state pronunciate in volgare, per cui il documento riflette una forma di realtà linguistica. C’è un elemento di fedeltà alla realtà linguistica del processo. È stato scelto il volgare perché probabilmente questo poteva essere compreso dagli astanti nel processo. Non sono formule spontanee ma formule fisse dei processi, mutate perché le parti in gioco cambiano, ma sono formule convenzionali, stereotipiche nell’ambito processuale dell’epoca 9/02/2022 Possiamo immaginare che in un contesto giudiziario come questo dire parte + genitivo per dire quale sia la parte in causa sia una locuzione fissa. Essa è prettamente latina, un tecnicismo tecnico giuridico, ma tutto il resto è fondamentalmente volgare, infatti lo capiamo. Ci sono una serie di fasi che ci mostrano un'evoluzione molto forte rispetto al latino volgare, molto più di quanto accade nell'indovinello veronese. Alcuni fatti linguistici notevoli: - Sao, e non saccio o so Sao significa so, attesto. È una forma problematica per i linguisti. Se provenisse da savio, savere, ci aspetteremmo saccio, oppure so. Sao è una forma che è stata supposta anche con interferenze settentrionali, ma questo non ha senso. In realtà ci sono forme attestate in periodi successivi (in testi campani) come ao, dao, stao, quindi è una possibilità morfologica in area centro settentrionale che presto verrà abbandonata ma che ha fatto in tempo a darci altre FORME ANALOGICHE, ossia forme che si plasmano su ecce (es. dicere è forma analogica di dire). - Ko Un elemento interessante è il cosiddetto complementatore, ossia un elemento che introduce le subordinate. Qui è ko, e non che. L'etimo nel caso di ko è quod, congiunzione latina che da come esito qo. Che invece deriva da quid. L’italiano antico documenta anche un altro tipo di complementatore, ca, che può provenire dal quam o dal quia latino. La qu si chiude in una semplice velare c, perdendo l'elemento labiale. Nell'area centro meridionale a cui facciamo riferimento questa chiusura è sistematica, mentre in altre parti non accade con sistematicità. La cosa interessante è la ricchezza di possibilità per introdurre le subordinate che attesta l’italiano antico: ko, che, ca. Tra latino e italiano vediamo un processo di semplificazione. Il latino dispone di molti introduttori di subordinata vari, che ci dicono già quale è il valore logico della subordinata; in italiano è così per alcuni casi (perché, benché), ma questi elementi sfruttano il "che" e lo rafforzano, precisandolo e specificandolo con l'uso di un altro elemento. La situazione invece in cui si trova l'italiano antico è la situazione di abbondanza che viene semplificata: per allontanarsi dal latino l'italiano sceglie la via del conguaglio, ossia una forma che valga per tutti questi. Quindi ca e ko cadono, anche abbastanza presto, e che si afferma come una specie di introduttore universale. In prospettiva storica è interessante che queste particelle foneticamente molto simili si riducano a una sola È un dato che dobbiamo tenere a mente, perché l'italiano per alcuni casi semplifica, per altri complica (per esempio nel caso dell’introduzione dell’articolo). Si tratta sempre di strutture che si controbilanciano nel loro complesso. il fatto che fin dalla sua nascita sia una formula che ha una natura polivalente è per noi un dato da non trascurare: ci renderemo conto di come il che estenda continuamente i suoi usi. Quando vediamo evoluzioni anche recenti, dobbiamo sempre chiederci se sono delle novità assolute o se sono delle possibilità che sono state già saggiate in certi momenti della storia dell'italiano, se si sono già verificate in fasi passate in modalità differenti. COMPLEMENTATORI = congiunzioni che introducono subordinate CONGUAGLIO = ci sono forme concorrenti, una vince e le altre scompaiono. La forma che vince ha in sé una natura polivalente. - Kelle Un medesimo fenomeno si osserva in kelle, esito in toscano quelle, esito centromeridionale kwelle. È interessante vedere anche che abbiamo kelle e que che indicano la stessa cosa: si tratta di oscillazioni grafiche, dovute allo scrivente. Quello che più di tutto è interessante è la struttura sintattica, che per noi è perfettamente normale, è una struttura moderna. - Le possette Ma la cosa più moderna di tutti è il fatto che un elemento, kelle terre, viene portato in avanti e ripreso da un pronome: le possette. È una struttura sintattica marcata, c'è una DISLOCAZIONE a sinistra, ossia vi è un elemento che viene anteposto. Questo elemento ha un valore pragmatico e informativo molto chiaro, ha un valore tematizzante. È un fatto notevolissimo. È la stessa struttura sintattica di "La mela l'ho già mangiata" / "Le terre le ha possedute San Benedetto", non solo perchè un elemento si discosta – prima condizione necessaria per una dislocazione –, ma c'è anche una ripresa in forma pronominale – seconda condizione necessaria. Quindi: - Anteposizione - Dislocazione a sinistra di un elemento tematico - Ripresa dell’elemento con un pronome che ha valore anaforico (espressione esplicita del referente + pronome) La dislocazione a destra invece ha valore cataforico e non anaforico, ossia pronome + espressione esplicita del referente. - Parte Sancti Benedicti Qui si osservano dei resti di genitivo, negli altri plurale. - Zona G Queste sono le sue parole. Falite e fili si leggono faglite e figli: c'è una difficolta che dura a lungo a rappresentare alcuni fonemi, come gn; una soluzione che è durata tanto tempo è la scrittura del trigramma lgl, sostituita poi dal digramma gl (stesso discorso per gn, ngn). Qui viene usata la soluzione della l, ma possiamo anche immaginare che non ci fosse una percezione così acuta del fatto che gl e l fossero due cose diverse, o che lo scrivente non sapesse quale soluzione ortografica adottare per questo fonema. La stessa cosa vale per pute, che in realtà si legge putte. C'è un tratto di conservazione del latino: - la e finale di Carvoncelle è un residuo del vocativo, caso specifico del latino adoperato quando ci si rivolge a qualcuno. Per il resto siamo dentro al volgare: - ad esempio, ci sono gli articoli - ma anche le preposizioni articolate, come co lo (non c'è subito il come articolo determinativo maschile, arriverà più avanti), de le. - Falite = fa + li + te o fa = voce del verbo fare in voce imperativale o li = dativo, a lui, a san Clemente o te. Noi usiamo il complemento oggetto seguito dal complemento di termine, l'ordine antico è spesso dativo + accusativo. - dereto = dietro. L'etimo è de retro, staccato. Si attacca perché accade una cosa che accade spesso quando si passa dal latino all’italiano, sempre per ragioni di economia: nella varietà romana, tipicamente centro-meridionale, si dissimila la seconda r (dissimilazione: eliminare uno dei due suoni identici che si susseguono e che provocano una certa fatica articolatoria, o mutarlo in qualcosa di più semplice). Segue poi l'UNIVERBAZIONE, ossia si uniscono. Nella varietà toscana si ha dietro: anche qui c’è dissimilazione della r, ma in questo caso la prima e non la seconda; ne risulta quindi detro. C'è però anche il dittongo ie, un tratto caratteristico dell'area toscana, tanto che lo si può classificare come dittongamento toscano. È una indicazione che dimostra che la lingua che parliamo si basa su un modello diatopicamente definito, che è quello fiorentino. Riassunto dei fatti linguistici: Grafia Fonologia Morfologia, Sintassi - difficoltà di rappresentare /gl/: fili, falite - rappresentazione grafica dei raddoppiamenti: pute, Sisinium, Carvoncelle - terminazione vocale sempre in -o - dereto < de retro - -rb- > -rv- : Carvoncelle - Vocativo Carvoncelle - Preposizioni articolate: de le, co lo - Ordine dei pronomi atoni: falite dativo + accusativo ( fa + gli + ti ) VOCALISMO TONICO ITALIANO (parentesi sul dittongo toscano) il vocalismo italiano è tonico. Quello del latino è un sistema a cinque timbri con lunghezza vocalica diversa, che produce un sistema a sette timbri che non hanno più lunghezza in italiano (in realtà non è che non ce l'hanno, ma non la percepiamo). In certe situazioni, i fonemi aperti mediani della e producono dei dittonghi. Esempio: se la base è pedem > piéde, da ferum > fièro Questo fenomeno di dittongamento è esclusivamente toscano. Esempio: da bonum > buòno, da locum > luògo, Esempio: da de retro > deretro > la e si dittonga > dietro. Non è un fenomeno alternativo o possibile: in toscana è un fenomeno regolare. La presenza di un dittongo è sempre rivelatrice di un'origine toscana del testo. I CANZONIERI DELLA POESIA ANTICA Siamo nei primi decenni del Duecento, tra il terzo e il quarto decennio del Duecento. Qui troviamo dei testi che hanno una finalità diversa da quella che abbiamo riconosciuto nei documenti considerati finora. Non si tratta più di commenti, intimazioni, documenti giuridici, ma l'intento è letterario. Con il Duecento fa la comparsa sulla scena del nostro italiano anche la letteratura. Il volgare viene usato con intento letterario, ma bisogna fare una precisazione: un conto è il volgare usato in poesia, un conto è il volgare usato in prosa. I tempi di gestazione della lingua letteraria in poesia e in prosa, in italiano, sono diversi. Abbiamo un fenomeno davvero eccezionale: la nostra storia letteraria conosce alcuni dei suoi vertici assoluti molto presto, e questa precocità di esiti (Dante, Petrarca) si spiega con il fatto che c'è una produzione poetica alle spalle che si è già sviluppata e che è già ad alti livelli. La Scuola Siciliana fa parte di questa produzione. A un periodo ancora precedente risalgono invece delle raccolte di poesie fabbricate a fine secolo, tra la fine del Duecento e l'inizio del Trecento, che passano alla storia con il nome di "canzonieri della poesia antica". Vaticano latino 3793 È un codice molto corposo, che contiene più di mille testi. Il nome è dovuto al fatto che è custodito alla biblioteca vaticana. La scrittura usata nel codice non è gotica, ma è un tipo di scrittura molto più veloce: si chiama MERCANTESCA. L'ambito di produzione del codice è fiorentino. Con canzoniere intendiamo genericamente una raccolta di poesie. La forma poetica della poesia antica di maggiore peso è infatti la canzone, ma i canzonieri non raccolgono solo canzoni, anche sonetti. Spesso, sono ripartiti per forma (canzoni e sonetti divisi, non per genere). Le poesie sono attribuite ad autori, ma non sempre, e talvolta con attribuzioni sbagliate. Come nasce un codice di questo genere? L'ambiente è quello dei mercanti, ossia un ambiente benestante. C'è qualcuno che raccoglie personalmente o chiede a qualcun altro di trascrivere per lui poesie – già scritte, poi raccolte; sono poesie del passato. C'è un evidente interesse personale per la lettura di poesie, perché poi tali testi vengono letti per puro piacere personale. è significativo da questo punto di vista che il codice sia scritto in scrittura mercantile, per cui non c'è stato nemmeno un copista, nonostante la mole di lavoro. Laurenziano Rediano 9 Qui la scrittura è gotica, più tipica di un codice medievale, con oltretutto la scritta dell'autore in colore rosso. I testi sembrano prosa: da un lato c'è la volontà dei copisti di rispettare la forma delle poesie, ma dall'altro c'è una questione di economia, essendo i supporti su cui si scrive molto costosi. I versi Un altro dato rilevante è di tipo contenutistico, ossia il tipo di poesia che i poeti siciliani fanno. Si tratta di una poesia lirica, con cui si intende una poesia che ha al centro di ciò che viene detto l’io del poeta. Non è un flusso di coscienza senza filtri, c’è sempre una finzione letteraria, ma il poeta si autorappresenta, e questo è il tratto fondamentale della lirica. Mette in scena la sua soggettività, i propri desideri, timori, angosce. L'io lirico è caratterizzato tradizionalmente da uno stato di sofferenza, dovuta – non sempre ma in prevalenza – all'amore. La condizione del poeta è quella del servitium amoris, del servizio di amore. Il poeta è un servitore, un servo. Il suo signore è l'amore, un sentimento, di fronte al quale il poeta è succube, in una posizione di completa subordinazione. C'è però un oggetto verso cui rivolge il suo desiderio, ed è la donna. Quindi, la subordinazione si concretizza nei fatti nella subordinazione all'oggetto d'amore, ossia la donna, che è dominatrice e padrona. La figura della donna è una figura che può decidere, può disporre a suo piacere del poeta che resta fedele. Questo servizio d'amore è un servizio che predispone una fedeltà assoluta, incondizionata, fino alla morte. Da un punto di vista stilistico se ne ricava una certa uniformità. Questa scuola poetica non è fatta di poesie diverse tra di loro, ma c'è un forte monostilismo. In realtà, c'era tutto un altro filone che non conosciamo; in un testo di Cielo d'Alcamo viene messo in scena un breve dialogo tra un amante desideroso e una donna amata, dove non vi è più una situazione di distanza e il registro è differente, più comodo: è probabile che ne abbiano scritte altre di questo tipo che non ci sono giunte. L’effetto che quindi abbiamo come posteri è quello di una scuola che tende al monostilismo, nel segno della sofferenza d'amore del poeta. Giacomo da Lentini, Meravigliosamente, vv. 1-9, 28-36 Meravigliosamente un amor mi distringe e mi tene ad ogn’ora. Com’om che pone mente in altro exemplo pinge la simile pintura, così, bella, facc’eo, che ’nfra lo core meo porto la tua figura. Al cor m’arde una doglia, com’om che ten lo foco a lo suo seno ascoso, e quando più lo ’nvoglia, allora arde più loco e non pò stare incluso: similemente eo ardo quando pass’e non guardo a voi, vis’amoroso. In modo straordinario un amore mi stringe e mi possiede ogni momento. Come uno che rivolge la mente a un modello diverso, lo dipinge in modo simile in un dipinto, alla stessa maniera, o bella donna, faccio io, che porto la tua immagine nel mio cuore. Mi brucia un dolore nel cuore, come uno che tiene un fuoco nascosto nel suo petto, e quando lo avvolge di più, allora lì arde con più forza e può stare chiuso: in modo simile io brucio quando passo e non guardo verso di voi, viso degno di essere amato. È una canzone che più correttamente dovremmo chiamare canzonetta: i versi sono infatti tutti brevi, ossia settenari. Non è la prassi, di solito le canzoni alternano endecasillabi e settenari. I testi antichi non hanno, inoltre, un titolo, che viene quindi preso per convenzione dal verso iniziale. Le strofe sono la prima e la quarta (vv. 1-9, 28-36). lo schema metrico è abc abc ddc. In queste canzoni non c'è uno svolgimento, ma di strofa in strofa il mantenimento della situazione di sofferenza e fedeltà. Una prima cosa che deve colpire è il fatto che leggendo la poesia la capiamo tutta, e non è una cosa scontata. - Meravigliosamente = è uno dei tanti casi in cui vediamo parole che usiamo anche noi – la forma è rimasta, ma il contenuto semantico nel tempo si è mutato. Per noi la connotazione è eufonica, ossia positiva. Nell'accezione semantica nell'italiano antico si ha un valore semantico di una cosa strana, al limite straordinaria, e quindi sconvolgente, ma non in modo positivo – perché il poeta non sta tanto bene. - com'om = significa uomo, e ha valore impersonale, quindi è da parafrasare come chi, come quando, come uno, anche se noi non lo usiamo più in senso impersonale. - in altro = significa diverso, non ha lo stesso valore che ha oggi - così = inizia una similitudine, c'è prima comparante e poi comparato. Il poeta ci sta dicendo che è come un pittore; il pittore ha un modello che riproduce; il poeta, dentro di sé, porta una pittura della donna: si rifà a lei e produce una sua riproduzione. Il pensiero dominante della donna dentro il poeta è l'equivalente della pittura che il pittore dipinge. Questo ci mostra un'altra risorsa della poesia, ossia la metafora: le similitudini servono proprio a questo ,poiché attraverso le figure di analogia si riescono a richiamare parole e immagini che altrimenti non si potrebbero usare o descrivere. Le similitudini servono ai poeti siciliani per approfondire e spiegare l'analisi della propria condizione psicologica. - al cor m'arde = ora si parla di qualcosa che brucia: l'amore è qualcosa che fa stare male - com'omm = parte un'altra similitudine - 'invoglia = il verbo non è invogliare, ma involgere. Quanto più il poeta tenta di spegnere il fuoco, tanto più arde forte, si ravviva. - similemente = raccordo della similitudine. Il poeta è nelle vicinanze della donna, potrebbe vederla, ma cerca di soffocare il fuoco che gli arde dentro, e quindi soffre ancora di più. Sono similitudini molto raffinate, in cui si gioca anche il margine di novità e invenzione dei poeti di quell'epoca, che non hanno alcun modello di riferimento della nostra tradizione. - vis'amoroso = viso che è pieno d'amore, che trasmette questo desiderio amoroso. Tutti gli aggettivi in oso hanno originariamente valore di abbondanza. Sono poeti che scrivono a Palermo all'inizio del 200. Di tratti meridionali però ce ne sono davvero pochi, e hanno a che fare con alcune scelte delle vocali. - ai versi 7/8 eo al posto di io, al verso 34 meo al posto di mio. Però, possono anche essere scelte che derivano dal latino (ego, meo). - Un tratto che si trova invece più diffuso è questo: se cerchiamo dittonghi con la e o la o breve in questo testo, non se ne trovano. Potevano essercene: ad esempio uom, al posto di om, tene e non tiene, foco e non fuoco, loco e non luoco. Sono tutte forme monottongate e non dittongate, manca sistematicamente il dittongo. È logico, se si pensa che il dittongo è toscano: è l'unico tratto che possiamo spiegare veramente con la provenienza meridionale del testo. - Un altro tratto particolare riguarda le rime, precisamente la rima c: ora:pintura:figura, ascoso:incluso:amoroso. Per moltissimo tempo si è pensato che fosse perché si tratta di poeti inesperti, alle prime armi (non sono infatti mai canzoni perfette, hanno errori, ad esempio anche nella sillabazione dei versi). Sono però imperfezioni rimiche, che riguardano una vocale. Non è un tratto della varietà meridionale. I copisti non erano però necessariamente dotti, per cui hanno modificato le vocali là dove era più automatico. Il problema si osserva proprio quando non tornano le rime. Ciò è rilevante da due punti di vista: - riusciamo a capire che la scuola siciliana non è stata scritta nella veste con cui la conosciamo, ma era molto più fedele all'uomo che la scriveva. - c'è stato un processo linguistico di POSTERIZZAZIONE. Quando gli autori successivi leggono questi testi, li leggono nella versione toscanizzata. È un dato importante: sono letti con talmente tanta attenzione che gli aspetti che non funzionano, come le imperfezioni rimiche, vengono mantenuti e imitati (vengono ad esempio ritenute delle licenze poetiche, come segno di stile, come "rime siciliane"). Altro esempio è l'uso del monottongo, che si afferma come un tratto preciso della lingua poetica, anche se in area toscana si dittonga; è un fatto che perdura per secoli solo nella lingua poetica, non viene interpretato come un meridionalismo ma come un poetismo. Quindi, i tratti importanti della poesia di Protonotaro sono, per la fonologia: - Il vocalismo siciliano - Il consonantismo - Gallicismi: longiamenti, levimenti (prov. leamen), ioi (prov. joi) A livello di morfologia: - viene rappresentato bene ca, che ha preciso significato di poiché - viene da quia, ha valore causale. - il condizionale in –ia: turniria, siria, sono condizionali, che in latino non esiste. L'origine della morfologia del condizionale in italiano è perifrastica, ossia si usa una perifrasi che poi si contrae in una sola parola. Ad esempio: tornare *hebuit > si univerba in tornerebbe. Tornare habebat si univerba in turniria. Il condizionale in -ia deriva da habebat, e non da hebuit: è una forma non toscana, che viene identificata come una forma specificatamente poetica, per cui per secoli in poesia si usa il condizionale in -ia. Hebuit in sé non è attestato, è una ricostruzione analogica: dobbiamo presuppore che ci sia una forma anche se non è attestata, alternativa ad habuit del latino classico. Solo hebuit però può spiegare la formazione dei condizionali. 15/03/2022 DANTE ALIGHIERI 1265-1321 Dante è un capitolo della storia della lingua italiana imprescindibile. Due sono le vie possibili per considerare Dante da un punto di vista linguistico: 1. il Dante teorico: si pone una quantità di problemi teorico-linguistici sorprendenti per il suo tempo, e che nessuno si era mai posto prima. La sua è una figura ricchissima, e lo possiamo verificare sia dalle sue opere di argomento linguistico, sia seguendo la via della lettura della sua opera poetica 1.1. Convivio 1.2. De vulgari eloquentia 2. Prassi linguistica: seguendo la via della lettura della sua opera poetica. 2.1. Vita nuova 2.2. Rime 2.3. Commedia Quando gli scrittori teorizzano e poi praticano, non è detto che quello che dicono sia anche quello che poi vanno a mettere in atto: non tutte le scelte linguistiche sono coscienti per un autore, per cui non c'è mai perfetta corrispondenza tra teoria e prassi. Dante, inoltre, è un pensatore che ha una fortissima propensione all'evoluzione, al cambiamento, allo sviluppo di posizioni diverse, come se fosse sempre proteso a un superamento delle categorie precedenti (superamento, dalla filosofia; è un superamento che da un lato va oltre, e da un lato conserva) – ad esempio, l'esperienza linguistica della Commedia contiene al suo interno tutte le esperienze linguistiche del Dante precedente. Per il Dante teorico, due sono le opere a cui fare riferimento: Convivio e De vulgari eloquentia. Sappiamo poco della vita di Dante, in particolare della sua seconda parte; e, in questo frangente, sappiamo anche poco delle date delle sue opere. Dobbiamo quindi datarle con una certa approssimazione: sicuramente vanno assegnate al primo decennio del Trecento. - Convivio: 1303-7 - De Vulgari: 1304-6 Queste due opere si sovrappongono nella loro composizione. Sicuramente il Convivio antecede il De Vulgari, ed è nel momento in cui Dante scrive il Convivio che elabora l'idea di scrivere il De Vulgari - e questo ce lo dice Dante stesso in un passo del Convivio (Di questo si parlerà altrove più compiutamente in uno libello ch'io intendo di fare, Dio concedente, di Volgare Eloquenza). Un altro dato che li unifica è il fatto che entrambe queste opere sono incompiute. Noi però sappiamo qual era la struttura che dovevano avere nel progetto di Dante, poiché lo annuncia nelle introduzioni delle due opere. Il Convivio doveva avere 15 libri – quando un autore ci parla di libri, non pensa a volumi rilegati; con libro si intende una sezione –, ma ne scrive solo 4. Il De Vulgari doveva avere 4 libri, Dante ne scrive 1 e mezzo. Anche questo aspetto di incompiutezza è da correlare all'elaborazione di idee e posizioni sempre diverse. La cosa interessante sono gli aspetti di contraddizione, nelle tesi, tra le due opere così ravvicinate. Poi c'è un'altra diversità di fondo: il codice linguistico adoperato. Il Convivio è un'opera in volgare, il De Vulgari è un'opera in latino. Il secondo fatto interessante e profondamente contraddittorio ai nostri occhi è che la dicotomia di fondo è: volgare o latino? Quale lingua usare? Nel Convivio Dante afferma in maniera inequivocabile la superiorità del latino. Nel De Vulgari afferma in maniera altrettanto inequivocabile la superiorità del volgare. Convivio De vulgari eloquentia - 4 libri (su 15 previsti) - 1303-1037 - In volgare - Si afferma la superiorità del latino - 2 libri (su 4 previsti) - 1304-1306 - In latino - Si afferma la superiorità del volgare Secondo Dante, se prendiamo testi antichi della letteratura latina classica, vediamo che il latino era lo stesso usato al suo tempo: e questa è per lui la prova che il latino non muta. Questo non avviene per il volgare che, artificiato da chi scrive, muta. Le ragioni di questa diversità Dante le elaborerà nel De Vulgari Eloquentia. Dante ha una profonda coscienza linguistica: in cinquant'anni il volgare è cambiato, alcuni volgari sono morti, altri sono nati. A quell'altezza storica, non ci sono altri scrittori che hanno parlato di come cambia la lingua; è una constatazione di ampia grandezza e originalità, che a noi può sembrare banale, ma all'epoca non lo era. È inoltre per noi sorprendente che questa coscienza linguistica non sia applicata al latino. I XI 1- 2 1 A perpetuale infamia e depressione de li malvagi uomini d’Italia che commendano lo volgare altrui e lo loro proprio dispregiano, dico che la loro mossa viene da cinque abominevoli cagioni. 2 La prima è cechitade di discrezione; la seconda, maliziata escusazione; la terza, cupidità di vanagloria; la quarta, argomento d’invidia; la quinta e ultima, viltà d’animo, cioè pusillanimità. Data questa posizione di fondo, c'è però poi una fortissima rivendicazione dell'uso del volgare da parte di Dante. Secondo lui, c'è una fama ingiusta che è stata assegnata al volgare, contro cui si batte. C'è, per lui, chi critica il volgare con malizia: siccome non sanno usarlo, lo infamano. C'è chi invece segue il gregge, come pecore. C'è chi vuole diventare famoso, e per farlo è più facile usare lingue già usate. C'è chi è invidioso di chi lo sa usare. E c'è chi è pusillanime, ossia chi si svaluta, e di conseguenza svaluta anche la lingua che parla. I XIII 4-5 Non è secondo lo Filosofo impossibile, sì come dice ne la Fisica al libro secondo, a una cosa esser più cagioni efficienti, avvegna che una sia massima de l'altre; onde lo fuoco e lo martello sono cagioni efficienti de lo coltello, avvegna che massimamente è il fabbro. Questo mio volgare fu congiugnitore de li miei generanti, che con esso parlavano, sì come 'l fuoco è disponitore del ferro al fabbro che fa lo coltello; per che manifesto è lui essere concorso a la mia generazione, e così essere alcuna cagione del mio essere. Ancora, questo mio volgare fu introduttore di me ne la via di scienza, che è ultima perfezione, in quanto con esso io entrai ne lo latino e con esso mi fu mostrato: lo quale latino poi mi fu via a più innanzi andare. E così è palese, e per me conosciuto, esso essere stato a me grandissimo benefattore. Qui il riferimento è al filosofo per eccellenza, Aristotele. Secondo Aristotele, non è impossibile che ci siano più cause efficienti che determinano un fatto, anche se una è la principale. Ad esempio, per forgiare un coltello sono necessari fuoco e martello, ma la causa principale è il fabbro. Questo mio volgare: Dante sorprende all'improvviso con uno squarcio soggettivo: il volgare fu - una delle - causa del fatto che i suoi genitori si conoscessero, e si parlassero. Ha quindi poi contribuito alla sua stessa nascita, per cui è evidente che il volgare è - una delle - causa del fatto che egli esiste. Se poi Dante ha imparato il latino, lo deve al volgare, lingua con cui è stato introdotto al sapere, alla scienza, e con la quale gli è stato spiegato il latino. Riconosce, Dante, che il volgare è stato per lui un benefattore. Viene in questo passo il volgare ad assumere alcuni tratti umanizzanti, come se ci fosse una personificazione. I XIII 11-12 (chiusa del primo libro) Così rivolgendo li occhi a dietro, e raccogliendo le ragioni prenotate, puotesi vedere questo pane, col quale si deono mangiare le infrascritte canzoni, essere sufficientemente purgato da le macule e da l'essere di biado; per che tempo è d'intendere a ministrare le vivande. Questo sarà quello pane orzato del quale si satolleranno migliaia, e a me ne soperchieranno le sporte piene. Questo [il volgare] sarà luce nuova, sole nuovo, lo quale surgerà là dove l’usato tramonterà, e darà lume a coloro che sono in tenebre e in oscuritade, per lo usato sole che a loro non luce. Dante riprende la similitudine iniziale del pane. Il volgare è fonte di sapere, che può saziare migliaia di persone, senza esaurirsi. L'ultima immagine è di una fonte di luce che scalda, metafora termica del sapere. Il volgare è una luce nuova, un nuovo sole che sorge, dove ne tramonta un altro: il latino. È una prima contrapposizione con quanto detto prima: il latino è virtuoso, nobile, ma una stella che sta tramontando. Il latino, come fonte di sapere, come lingua di scambio, a un certo punto tramonterà. Vi è una fortissima rivendicazione del volgare come lingua che dovrà affermarsi in futuro in quanto lingua di sapere e di comunicazione. De vulgari eloquentia I I 1 Poiché non ci risulta che nessuno prima di noi abbia minimamente coltivato la dottrina dell’eloquenza volgare, e poiché vediamo che proprio tale eloquenza è profondamente necessaria a tutti, dato che ad essa tendono non solo gli uomini ma anche, per quanto consente loro la natura, le donne e i bambini; volendo in qualche modo illuminare il discernimento di quanti vagano come ciechi per le piazze, per lo più credendo di avere dietro le spalle quello che hanno davanti agli occhi, tenteremo di giovare, ispirandoci il Verbo dal cielo, al parlare delle genti illetterate [locutioni vulgarium gentium]; e, per riempire una coppa così grande, non attingeremo solo l’acqua del nostro ingegno, ma vi mescoleremo quanto troveremo di più pregiato, desumendolo e compilandolo da altri, così da poter poi arrivare a servire un dolcissimo idromello. endo li occhi a dietro, e raccogliendo le ragioni prenotate, puotesi vedere questo pane, col quale si deono mangiare le infrascritte canzoni, essere sufficientemente purgato da le macule e da l'essere di biado; per che tempo è d'intendere a ministrare le vivande. Questo sarà quello pane orzato del quale si satolleranno migliaia, e a me ne soperchieranno le sporte piene. Questo [il volgare] sarà luce nuova, sole nuovo, lo quale surgerà là dove l’usato tramonterà, e darà lume a coloro che sono in tenebre e in oscuritade, per lo usato sole che a loro non luce. Dante vuole giovare al parlare delle genti illetterate, quelle che potevano leggere il Convivio. Esse non leggeranno il trattato, ma potrebbero trovare giovamento dal fatto che il volgare venga riconosciuta come una lingua che può essere usata come lingua del sapere e dello scambio. La metafora che qui usa è delle bevande - idromello, una bevanda dolce e piacevole; essa è fatto non solo dalle sue posizioni, ma anche da posizioni che desume da altre produzioni. I I 2-5 Ma, poiché nessuna dottrina ha l’obbligo di dimostrare l’esistenza e l’essenza del proprio soggetto, bensì quello di spiegarlo in tutti i suoi aspetti, perché si sappia che cos’è ciò di cui tratta la nostra dottrina diciamo rapidamente che chiamiamo parlar volgare quello che i bambini acquisiscono con l’uso da chi si prende cura di loro quando cominciano ad articolare le parole; ovvero, come si può dire più in breve, definiamo parlar volgare quello che assorbiamo, al di fuori di qualunque regola, imitando la nutrice. Abbiamo poi un altro linguaggio, di secondo grado, che i romani hanno chiamato grammatica. […] Di questi due, il più nobile è quello volgare: sia perché è stato usato dal genere umano per primo; sia perché ne fruisce il mondo intero, per quanto sia diviso in diverse pronunce e in diverse parole; sia perché ci è naturale, mentre l’altro è, piuttosto, artificiale. È di questo linguaggio più nobile che intendiamo trattare Il volgare è la lingua madre, quella che usano i bambini quando iniziano ad articolare le prime parole. Dante è attento al momento in cui la parola compare nell'essere umano; certo, non ha la Felice e i bolognesi di Strada Maggiore. Perché si diano tutte queste differenze e varietà di lingue, risulterà evidente per una sola e medesima ragione. […] E poiché ogni nostra lingua, tranne quella concreata da Dio nel primo uomo, è stata ricostruita a nostro beneplacito, dopo quella confusione che non fu altro che oblio della lingua precedente; e poiché l’uomo è un animale instabilissimo e mutevolissimo; non può essere né durevole né persistente, ma al pari delle altre cose umane, come i costumi e le abitudini, necessariamente varia con la distanza nello spazio e nel tempo. Ha una cognizione acutissima delle variazioni linguistiche, per cui osserva non solo la tripartizione dell'idioma, ma anche variazioni all'interno delle tre varianti principali. Luoghi, che siano distanti o vicini, presentano varietà linguistiche differenti. Dante rappresenta questa varianza in termini diatopici. Di nuovo prosa filosofica: testi generale, che poi viene applicata. Tutte le lingue sono prodotti umani, a eccezione della prima lingua - ossia l'ebraico -, e in quanto tali sono sottoposti all'effetto del tempo, sono mutevoli. Quindi, variano nel tempo e nello spazio. I IX 11 Da questo sono stati spinti coloro che hanno scoperto la facoltà della grammatica: la quale grammatica non è altro che una sorta di inalterabile identità della lingua attraverso tempi e luoghi diversi. Questa, poiché è stata regolata per consenso comune di molte genti, non appare esposta all’arbitrio individuale di nessuno, e di conseguenza non può neanche essere mutevole. L’hanno trovata, dunque, per evitare che, a causa del variare della lingua, fluttuante secondo l’arbitrio dei singoli, non potessimo in alcun modo, o potessimo solo imperfettamente, attingere il sapere e la storia degli antichi, ovvero di coloro che la diversità dei luoghi rende diversi da noi. Torna qui sul latino, in quanto grammatica, spiegandoci meglio la sua concezione di una lingua artificiale, stabile, immutabile - che per lui coincide con il latino, ma egli stesso ammette l'esistenza di altre grammatiche: è una lingua che si dà delle convenzioni, delle regole, attraverso il consenso comune di molte genti. Trovata è usato nel senso di scoprire, inventare. Al pari dell'esperanto in tempi più recenti, per Dante il latino non è una lingua storica come tutte le altre, ma è stata inventata per convenzione. La finalità di ciò è proprio di conservare: le genti si uniscono e fabbricano una lingua non mutevole che possa aiutare a conservare la storia e il sapere. Su questo Dante non tornerà più. Ma quando, allora, viene creato il latino? Dante ha l'idea che nel momento in cui ci sia una letteratura latina, è una letteratura coeva all'invenzione della lingua. Più di questo, però, noi non possiamo dire. Non aveva una percezione diacronica del latino, ma esponendoci questo problema possiamo intendere che capisse che dove ci sono delle norme, non c'è mutevolezza: non considera, però, che le cose mutano. L'ebraico è la lingua universale creata da Dio, che tutti gli uomini usavano in principio, e che poi non è stata più usata, sottratta da Dio per punizione agli uomini. Tutte le lingue, poi, sono state dei tentativi di costruire da parte degli uomini un sistema per comunicare, cosa che hanno però dovuto fare senza l'aiuto divino (a causa della torre di Babele). I XIII 11- 12 Così rivolgendo li occhi a dietro, e raccogliendo le ragioni prenotate, puotesi vedere questo pane, col quale si deono mangiare le infrascritte canzoni, essere sufficientemente purgato da le macule e da l'essere di biado; per che tempo è d'intendere a ministrare le vivande. Questo sarà quello pane orzato del quale si satolleranno migliaia, e a me ne soperchieranno le sporte piene. Questo [il volgare] sarà luce nuova, sole nuovo, lo quale surgerà là dove l’usato tramonterà, e darà lume a coloro che sono in tenebre e in oscuritade, per lo usato sole che a loro non luce. I X 2 Dante torna sulla tripartizione, e dice che l'italiano ha due ragioni per cui è superiore al francese e al provenzale. Una prima ragione riguarda la presenza di grandi poeti: ossia, la produzione letteraria rende grande una lingua. è un argomento che troveremo riproposto nelle questioni sulla lingua nei secoli. Una lingua è grande se ha poeti che la adoperano. Vi è quindi un fortissimo nesso tra la lingua e i suoi artefici, ossia i grandi scrittori. Torna qui la metafora della servitù, già presente nel Convivio ma in modo diverso: qui abbiamo i poeti che sono servitori, al servizio di una lingua. Secondo Dante, in italiano ci sono dei poeti che sono superiori di quelli francesi e provenzali. Ne fa due esempi: Cino da Pistoia e il suo amico, ossia Dante stesso. Questo è il primo privilegio. La seconda ragione ha un suo fondamento storico. Ci sono delle aree della Romania che sono piùù dinamiche delle altre, presentano fenomeni di distanziamento rispetto alla base latina più netti, e sono le aree gallo-romanze. il territorio italo-romanzo è più conservativo dal punto di vista linguistico, e quindi più vicino alla lingua di partenza, il latino. Quando quindi Dante ci dice che l'italiano mostra di appoggiaarsi di più alla grammatica, sottolinea una maggior vicinanza dell'italiano al latino - dovuta alle ragioni qui sopra, cui lui non arriva, seguendo un ragionamento differente. I XI 1 Poiché il volgare italiano è frammentato in tante varietà dissonanti, mettiamoci sulle tracce della lingua più decorosa d’Italia, la lingua illustre; e per aprire alla nostra caccia un sentiero transitabile, cominciamo con l’estirpare dal bosco cespugli intricati e rovi. E dunque, siccome i Romani ritengono di dover essere messi in testa a tutti, non è ingiusto che li anteponiamo a tutti gli altri in quest'opera di sradicamento o estirpazione che dir si voglia, dichiarando che non andranno presi in considerazione in nessuna precettistica sull'eloquenza volgare. E diciamo pure che quello dei Romani - che non è neanche una lingua ma piuttosto uno squallido gergo - è il più brutto di tutti i volgari italiani: il che non meraviglia, dato che anche quanto a bruttura di abitudini e fogge esteriori appaiono i più fetidi di tutti. Eccoli infatti dire: Messure, quinto dici? Qui Dante guarda più nel dettaglio la variazione, cercando quale sia il volgare che possa fornire il modello da prendere come riferimento: lo scopo, infatti, è quello di riuscire a costruire un'eloquenza volgare, ossia riuscire a scrivere bene in volgare così come si poteva scrivere bene in latino. Illustre= qualcosa che sprigiona luce e illumina, c'è sempre la metafora della luce. Dante usa la metafora della caccia, da effettuare per trovare la preda, il volgare illustre: bisogna quindi estirpare cespugli e rovi, ossia varietà di volgare che vanno escluse subito. La prima varietà che Dante disprezza era il romano - Dante era un rivale del papa, voleva che Federico II rivendicasse il territorio italiano reintegrandolo nel territorio imperiale, contrastando lo strapotere papale. Dante dà sempre giudizi che sono tra il moralistico e il linguistico, ossia non riesce a essere sempre del tutto obiettivo. Non la definisce neanche volgare, ma una "parlata". Per lui vi è un forte nesso tra il comportamento degli abitanti della zona e i loro usi linguistici. I XII 1-9 Liberati in qualche modo dalle scorie i volgari italiani, passiamo a confrontare quelli che sono rimasti nel setaccio e scegliamo rapidamente quello che merita e conferisce più onore. E per primo interroghiamoci sul siciliano: è evidente infatti che il volgare siciliano attira a sé fama superiore agli altri perché tutto ciò che scrivono in poesia gli italiani si chiama siciliano, e perché troviamo che molti maestri siciliani hanno cantato con solennità, per esempio nelle canzoni Ancor che l’aigua per lo foco lassi e Amor, che lungiamente m’hai menato. […] il volgare siciliano, se vogliamo prenderlo come esce dalla bocca dei nativi di media condizione, dai quali evidentemente si deve ricavare il giudizio, non merita affatto l’onore del primato, perché non si pronuncia senza una certa quale fatica, per esempio in: Tragemi d’este focora se t’este a bolontate. Se invece vogliamo prenderlo come sgorga dalla bocca dei siciliani più insigni, quale si può osservare nelle canzoni sopra citate, non differisce in nulla dal volgare più degno di lode, come mostreremo più sotto. Anche gli apuli, o per la loro crudezza o per la contiguità con i vicini, che sono i romani e i marchigiani, cadono in sconci barbarismi […]. Ma, per quanto i nativi dell’Apulia parlino generalmente in modo osceno, quelli tra loro che rifulgono si sono espressi in modo raffinato, trascegliendo per le loro canzoni i vocaboli più degni della curia, come appare evidente a chi esamini i loro versi, per esempio: Madonna, dir vi voglio; e: Per fino amore vo sì letamente. Perciò, considerando quanto detto sopra, dev’essere chiaro che né il siciliano né l’apulo rappresentano il volgar epiù bello che c’è in Italia: abbiamo infatti dimostrato che i nativi di quelle regioni che hanno praticato l’eloquenza si sono distaccati dal proprio volgare. Dante scarta poi una serie di volgari, finché arriva a considerare varietà meritevoli di un'attenzione maggiore. I XVI 6 Dopo aver battuto boschi e pascoli d’Italia, e non aver trovato la pantera a cui diamo la caccia, per poterla individuare indaghiamo su di essa con procedimento più fondato sulla ragione, in modo da prenderla, con studio ingegnoso, stretta nella nostra rete, lei che sparge il suo profumo dovunque e non si mostra in nessun luogo. Riprendendo dunque i nostri arnesi da caccia, diciamo che in ogni genere di cose deve essercene una rispetto alla quale tutte quelle che appartengono allo stesso genere si confrontano e soppesano, e dalla quale si ricava la misura di tutte le altre: così come i numeri si misurano tutti con l’uno, e si dicono più grandi o più piccoli a seconda che siano lontani o vicini all’uno; e così come i colori si misurano tutti col bianco; infatti si dicono più o meno chiari secondo a seconda che si avvicinino al bianco o se ne allontanino. E come diciamo questo delle caratteristiche che pertengono alla quantità e alla qualità, riteniamo che si possa dirlo di qualsiasi categoria, inclusa la sostanza: e cioè che ogni cosa sia misurabile, in quanto appartiene a un genere, con la cosa che è la più semplice in quel genere. […] In quanto agiamo come uomini che sono italiani, abbiamo alcuni segni semplicissimi, e per i costumi e per le abitudini e per il modo di parlare, rispetto ai quali si soppesano e si misurano le azioni italiane: e questi sono i segni più nobili delle azioni che sono degli italiani. Questi non sono propri di nessuna città d’Italia, e sono invece comuni a tutte: e fra essi si può ora discernere quel volgare a cui sopra davamo la caccia, che spande il suo profumo in ogni città e non dimora in nessuna. Può tuttavia far sentire il suo profumo più in una che in un’altra, come la più semplice delle sostanze, che è Dio, fa sentire il suo profumo nell’uomo più che nell’animale, nell’animale più che nella pianta, in questa più che nel minerale, nel minerale più che nell’elemento, nel fuoco più che nella terra; e la quantità più semplice, che è l’uno, fa sentire il suo profumo nel numero dispari più che nel pari; e il colore più semplice, che è il bianco, fa sentire il suo profumo nel giallo più che nel verde. Dunque, avendo raggiunto ciò che cercavamo, definiamo volgare illustre, cardinale, aulico e curiale in Italia quello che è di ogni città d’Italia e non sembra essere di nessuna, e con il quale tutti i volgari municipali degli italiani si misurano, si soppesano e si confrontano. Si ritorna di nuovo alla metafora della caccia. La pantera spande un profumo suavissimo per attirare le prede: Dante è come se sentisse il profumo del volgare. Dante ha una cognizione già molto ferma di un'unità nazionale, sorprendente se si considera la storia frammentata del nostro paese. Coglie invece un'unità di fondo, data dai tratti linguistici. Dante sta chiaramente dicendo che il modello illustre del volgare non ha nessun luogo in cui esiste, ma può far sentire il suo profumo in luogo più che in un altro. I XVII 2-3 Con l’aggettivo illustre intendiamo qualcosa che illumina e che, illuminato, risplende: e in questo modo chiamiamo illustri certi uomini […]. E il volgare di cui parliamo è innalzato dal magistero e dal potere, e innalza i suoi con l’onore e la gloria. Esso si mostra innalzato dal magistero, dal momento che, da tanti vocaboli rozzi usati dagli italiani, da tante costruzioni intricate, da tante pronunce manchevoli, da tanti accenti rustici, lo vediamo emergere così selezionato, così lineare, così rifinito e così urbano come Cino da Pistoia e il suo amico lo esibiscono nelle loro canzoni. I XVIII 1 E non senza ragione fregiamo questo stesso volgare illustre del secondo aggettivo, in modo cioè che sia detto cardinale. Infatti, come tutta la porta segue il cardine, così che, dove si gira il cardine, si gira anch’essa, sia verso l’interno che verso l’esterno, così anche l’intero gregge dei volgari municipali si gira e si rigira, si muove e si ferma, seguendo questo, che dimostra dunque di essere veramente il loro capofamiglia. I XVIII 2-4 La causa poi per cui lo nominiamo aulico è che, se noi italiani avessimo un’aula regale, esso apparterrebbe a quel palazzo. Infatti, se l’aula è la casa comune di tutto il regno e l’augusta reggitrice di tutte le parti del regno, ogni cosa che è tale da essere comune a tutte e non propria di alcuna dimora è degna di un così grande abitante: e tale evidentemente è quel volgare di cui parliamo. Di qui viene che, in tutte le regge, quanti le frequentano parlano sempre in un volgare illustre. Di qui viene anche che il nostro volgare illustre peregrina come uno straniero e viene ospitato in umili asili, perché siamo privi di un’aula regale. È anche da definirsi a buon diritto curiale, perché la curialità non è altro che una norma equilibrata delle azioni da compiere: e poiché la bilancia di un tale equilibrio si trova solo nelle curie eccelse, ne deriva che ogni cosa che ne nostri atti è ben equilibrata venga detta curiale. Quindi, poiché questo trova il suo equilibrio nella più eccellente curia degli italiani, merita di esser detto curiale. Dante enumera alcuni termini, e poi li spiega: - con l'aggettivo illustre intende qualcosa che sprigiona luce, ossia agisce, ma anche che può essere illuminato. Il volgare che sta cercando è un volgare che dà luce, ossia che illumina chi lo usa, ma al tempo stesso si può dire il contrario: se chi usa il volgare è illustre, ossia lo usa bene, ne guadagna tutto il volgare. Ci sono degli utenti che rendono illustre il volgare, che a sua volta conferisce onore e gloria a chi lo opera. È un passo denso, perché Dante vede le cose in una duplice prospettiva allo stesso tempo. Il magistero è, etimologicamente, la competenza che hanno i maestri: è quello dei grandi poeti. Sono quindi loro, Cino da Pistoia e Dante, che possono innalzare il volgare, perché mettono in atto un'opera di selezione, di rifinitura. - con l'aggettivo cardinale intende ciò che ha a che fare con il cardine: il volgare ha una funzione come quella che ha il cardine per la porta; se si muove il cardine, si muove tutta la porta. Il volgare che sta cercando Dante deve avere quindi anche una funzione di guida per tutti gli altri volgari municipali, che si devono regolare in base a quello. - con l'aggettivo aulico mostra che c'è una sorprendente correlazione tra Dante e il volgare: il volgare è diventato un pellegrino, che viene ospitato in umili asili, proprio come Dante in quell'epoca. - con l’aggettivo curiale: la curia è da intendere come qualcosa che non ha niente a che fare con l'ambito ecclesiastico; in particolare, qui Dante ha in mente l'amministrazione della giustizia (metafora della bilancia). I XIX 1 Ora, questo volgare che è stato dimostrato illustre, cardinale, aulico e curiale, affermiamo che è quello che si chiama volgare italiano. Infatti, come si può trovare un certo volgare che è proprio di Cremona, così se ne può trovare uno che è proprio della Lombardia; e come se ne può trovare uno che è proprio della Lombardia, così se ne può trovare uno che sia proprio di tutta la parte sinistra dell’Italia; e come si possono trovare tutti questi, così si può trovare anche quello che è di tutta l’Italia. E come il primo si chiama cremonese, il secondo lombardo e il terzo semi-italiano, così questo, che è di tutta l’Italia, si chiama volgare italiano. Questo infatti hanno usato i maestri illustri che hanno poetato in lingua volgare in Italia, come i siciliani, gli apuli, i toscani, i romagnoli, i lombardi e gli uomini dell’una e dell’altra Marca. Ritorna sui grandi poeti, che qui chiama maestri, in relazione con il termine magistero usato in precedenza. Vi è una perfetta convergenza di forma e contenuto, una ricerca continua e consapevole di Dante di una forma che sia adeguata ai contenuti: si cambiano contenuti, si devono cambiare anche le soluzioni formali. Purgatorio, XXVI 97-99 – incontro con Guinizzelli Quali ne la tristizia di Ligurgo si fer due figli a riveder la madre, 96 tal mi fec’io, ma non a tanto insurgo, quand’io odo nomar sé stesso il padre mio e de li altri miei miglior che mai 99 rime d’amore usar dolci e leggiadre; Come i due figli (di Isifile), a causa della crudeltà del tiranno Licurgo, si avvicinarono per rivedere la madre, così mi trovai io, ma non osai tanto (non mi avvicinai alle fiamme), quando udii presentarsi il padre mio e degli altri poeti migliori di me che mai scrissero versi d'amore dolci e leggiadri; Dante non è da solo, parla anche di altri poeti. Inoltre, tali rime d’amore sono dette dolci e leggiadre: se dolce avesse voluto dire dolce solo nel contenuto, allora non sarebbe stato qui accompagnato da leggiadre. L’accezione da intendere è quindi di certo formale, e conferma la ricerca di una convenienza (termine antico) tra forma e contenuto: a un determinato contenuto conviene una determinata forma. Vita Nuova, XVII, Tanto gentile e tanto onesta pare Tanto gentile e tanto onesta pare la donna mia quand’ella altrui saluta, ch’ogne lingua deven tremando muta e gli occhi no l’ardiscon di guardare. Ella si va, sentendosi laudare, benignamente d’umiltà vestuta; e par che sia una cosa venuta da cielo in terra a miracol mostrare. Mostrasi sì piacente a chi la mira, che dà per gli occhi una dolcezza al core, che ’ntender no·lla può chi no·lla prova; e par che della sua labbia si mova un spirito soave pien d’amore, che va dicendo all’anima: Sospira. La mia donna appare tanto nobile e onesta quando saluta la gente, tanto che tutti fanno silenzio e gli occhi non osano guardarla. Ella procede, sentendosi lodare, con l’apparenza esterna di cortese benevolenza e pare sia una creatura discesa dal cielo sulla terra per mostrare la potenza divina. Si mostra così bella a chi la guarda, che tramite gli occhi trasmette una dolcezza al cuore che chi non la prova non può capire e sembra che dal suo volto provenga un soave spirito d’amore che dice all’anima: Sospira È un sonetto – forma metrica inventata dai siciliani: 14 versi endecasillabici, con sottoripartizione in quartine e terzine, distinguibili da rime: rime abbracciate abba nelle quartine, cde edc nelle terzine. Prima cosa da notare: capiamo tutto. Tale sonetto ci pare fatto di una lingua per noi limpidissima. L’unica parola che potrebbe causarci dei problemi è labbia, che ha come significato viso, o ancor meglio aspetto. Non è ancora italiano, siamo di fronte a sistemazioni che non sono del tutto complete – un spirito al posto di uno spirito, ad esempio). C’è qualcosa però da non sottovalutare, ed è la distanza che il tempo interpone nei significati. Se nelle forme la lingua rimane stabile nel tempo, allora le innovazioni penetrano nei significati, a livello semantico. Quindi, parole uguali alle nostre nella forma, hanno però un contenuto differente. Esempio: donna in italiano antico e nella lirica della tradizione poetica è da ricondurre all’etimo di dominio = dominam, cade una i quindi donna. Donna è quindi una signora (donna dominatrice, oggetto del desiderio). La situazione in cui si trova la donna in questa poesia è però diversa da quelle nella Scuola siciliana: non c’è qui solo un io sofferente del poeta verso la donna; c’è l’io del poeta, l’oggetto d’amore, ma anche un contorno di astanti; questo contorno di persone si capisce quando dice che ogni lingua diventa muta; gli occhi no l’ardiscon di guardare non sono solo quelli di Dante ma di tutti, a chi la mira; gli effetti della donna non colpiscono solo Dante, ma tutti. È la rappresentazione di una donna che ha un potere salvifico che è universale, non riguarda solo il poeta ma potenzialmente tutti; è un potere di salvezza, di salute. Se la donna ha questo potere di recare salvezza a tutti, la sua figura ha dei tratti che non sono solo umani, ma anche dei tratti angelicati, da angelo. Ha una diretta discendenza con un potere divino. Questi tratti della donna Beatrice sono già le premesse su cui si fonderà il personaggio di Beatrice nella Commedia. Nella prima quartina la donna saluta qualcuno. - Pare: anche il verbo parere ha una semantica diversa, non è solo parere, sembrare, ma anche apparire, con una semantica più forte. - Gentile: non nel senso che è educata. Etimologicamente è da ricondurre a gens = si intende qualcuno che è nobile. La novità di questo stilnovismo però è che la nobiltà non è di censo, ma morale, interiore. - Onesta: negli atti e nei modi esprime questa moralità interiore. È una nobiltà talmente evidente che (tanto che, nesso consecutivo tipico della rappresentazione dei rapporti tra io poetico e oggetto del desiderio dello stilnovo; le cose rappresentate dall’io poetico sono causa inevitabile di alcuni effetti) si ha un effetto, quello di timore, sconvolgimento: gli astanti si zittiscono e tengono gli occhi bassi. - Benignamente d’umiltà vestuta: unica metafora del testo – strano dato che Dante ama le metafore e ne crea di continuo; è qui come se Dante facesse una professione di castità metaforica, che è connesso a ciò che Dante dice nel canto XXVI: si attiene a ciò che dice amore. È una gentilezza benevola, che si manifesta esteriormente. - Da cielo in terra: mancano gli articoli, non usati quando qualcosa esiste in una sola copia. - Miracolo: è sé stessa, nel suo essere salvifica. - Piacente: portatrice di benessere con la sua bellezza - Mostrasi sì piacente che: altro nesso consecutivo. Il suo potere è infallibile, e agisce su tutti. - Che tender no la può chi nolla prova: topos dell’incomunicabilità, che si ritrova spesso nella letteratura: qualcosa che non si può descrivere, ma che si descrive mentre si dice che non si può. - Mostrasi: non si può interporre parole tra mostra e si (clitici). In lingua antica una legge era non iniziare una frase con il “si” LEGGE TOBLER-MUSSAFIA: La legge Tobler-Mussafia è una legge linguistica che descrive i criteri di distribuzione dell'enclisi dei pronomi atoni nel volgare medievale. La legge è così chiamata dal nome dei due studiosi (lo svizzero Adolf Tobler e il dalmata Adolfo Mussafia) che per primi scoprirono e descrissero il fenomeno (il primo nel francese, il secondo nell'italiano antico). La legge descrive una particolare norma grammaticale del volgare medievale, già presente in lingua d'oïl e in altre lingue romanze: la frase non può iniziare con un pronome atono e, di conseguenza, le particelle enclitiche (in particolare i pronomi), se non precedute da un elemento tonico, si uniscono come enclitiche al verbo a cui si riferiscono, come nei seguenti casi: dopo pausa, all'inizio di un periodo: «Rispuosemi: "Non omo, omo già fui"» (Dante Alighieri, Inferno, Canto I, v. 67.) Versi 8-9: c’è in questo frangente uno stacco nel sonetto, dato dal punto fermo e dal cambio di rime. Dante, in quesa zona, mette un elemento che tiene insieme ciò che non viene tenuto insieme dalla metrica: usa l’ultima parola dell’ottava per iniziare la sestina. Qui Dante non sta inventando niente, il sonetto delle origini prevede esattamente questo: essi avevano sempre degli elementi di ripetizione lessicale tra i versi 8-9, quando cambiano le rime (con Petrarca viene meno). Dante legge i componimenti della Scuola siciliana e si rende conto di questo stratagemma: ciò ci dice come Dante e poeti del suo tempo leggessero con cura e attenzione la poesia delle origini, per poi riprodurre questi fatti. - Spirito soave: spiritelli. L’esperienza di osservazione dell’oggetto d’amore procura sospiri, ma non prettamente sofferenza. - No-lla: la scelta del puntino è per conservare ciò che documentano i codici, ossia l’ASSIMILAZIONE REGRESSIVA (come abboce): la n di non è stata assimilata regressivamente a no. Se si scrive nolla attaccato però si rischia di non capire tale fenomeno. Le rime sono tutte facili, con una sola consonante. Rime XLIII, vv. 1-13, 53-65 | canz. Così nel mio parlar vogli’esser aspro 1296, sono gli ultimi anni del Duecento. Così nel mio parlar vogli’esser aspro com’è negli atti questa bella pietra la quale ognora impetra maggior durezza e più natura cruda, 5 e veste sua persona d’un diaspro Nelle mie parole voglio essere aspro come lo è nei suoi gesti questa bella Petra, la quale racchiude in sé una sempre maggiore durezza e una natura più crudele, e riveste il suo Commedia È un’opera più ambiziosa, sia nei temi trattati – un’esperienza al limite dell’ineffabilità –, sia nelle soluzioni linguistiche. Vi è nella Commedia una contraddizione: Dante racconta qualcosa che è al di fuori dell’esperienza quotidiana, facendolo però con una lingua che descriva la nostra esperienza terrena, che quindi riporta costantemente a elementi di realtà. L’invenzione narrativa ha quindi un suo corrispettivo in un’invenzione formale: Dante aveva a disposizione la canzone, i sonetti (Il fiore, poemetto che si pensa possa essere attribuito a Dante, dove potrebbe aver sperimentato il sonetto), ma non erano soddisfacenti. Dante ha bisogno di un metro che gli permetta di raccontare senza porgli delle chiusure predefinite. L’invenzione metrica delle terzine dantesche è geniale: è un metodo che continuamente rilancia il discorso, come un ingranaggio che funziona all’infinito. Le terzine dantesche prevedono che ogni rima sia usata tre volte, e non più di tre, a parte la prima e l’ultima della sequenza che per forza di cose dovranno essere usate solo due volte. Le rime sono sempre a distanza regolare. A b a, b c b, c d c, e d e, eccetera... l’ultima rima, sarà y z y z. È un meccanismo perfetto, perché non ci sono mai zone di cesura in cui cambiano tutte le rime (come nel sonetto), c’è sempre nuovo materiale ritmico che riprende ciò che lo ha preceduto e presenta ciò che seguirà. L’esperienza ultraterrena della Commedia richiama tutte le precedenti esperienze linguistiche di Dante, tutte le prove e le riflessioni linguistiche del poeta, che trovano un senso e una funzione in questa prova narrativa così complessa. Questa è la ragione per cui per Dante si è usata l’etichetta di plurilinguismo, che sottintende che Dante usi varietà linguistiche diverse. Si può considerarlo mediante i parametri di variazione: - La Commedia può essere osservata da un punto di vista diafasico: il contesto è l’ambientazione, che di cantica in cantica cambia molto. Le scelte linguistiche dell’inferno sono diverse da quelle del paradiso: ci sono parole e strutture che sono presenti nell’inferno che si spiegano con il fatto che quello è un luogo che è conveniente a quelle parole, o quelle parole sono convenienti a quel luogo: è un luogo di estrema sofferenza e crudeltà, in cui ci sono personaggi che esprimono il male. Le scelte linguistiche del paradiso saranno di tutt’altro genere. - Vale anche un principio diatopico: c’è una volontà di caratterizzare anche a livello locale e “municipale” i suoi personaggi (come Bonagiunta da Lucca) Per comprendere il plurilinguismo di Dante si possono osservare dei casi limite della Commedia. Sono i casi in cui Dante evade dal codice linguistico del volgare e intercala nella sua composizione in versi degli inserti che sono in altro codice linguistico (ciò che i linguisti chiamano code switching). Non solo Dante interpone dei passi in un’altra lingua, ma quest’altra lingua viene amalgamata ai versi che precedono e seguono perché la forma che viene data a questi inserti è endecasillabica, con le terzine che vengono rispettate. Paradiso XV 28-33 «O sanguis meus, o superinfusa
 gratïa Deï, sicut tibi cui
 bis unquam celi ianüa reclusa?».
 Così quel lume: ond' io m'attesi a lui; poscia rivolsi a la mia donna il viso, e quinci e quindi stupefatto fui «O mio discendente, o abbondante grazia divina, a chi come a te fu aperta due volte la porta del Cielo?» Così disse quella luce: allora mi rivolsi al beato; poi rivolsi lo sguardo alla mia donna (Beatrice), e fui stupefatto dell'una e dell'altra visione; È il momento in cui Cacciaguida riconosce Dante. Cacciaguida ha riconosciuto che Dante non è morto, e ne è sorpreso (con ciò Dante si è già assegnato il posto in paradiso). Egli si rivolge a Dante in latino: è comunque rispettato il gioco rimico. - Superinfusa: infusa dall’alto. È una parola latina inventata da Dante. Non solo Dante non si fa scrupoli a porre un inserto in latino, ma esercita la sua invenzione linguistica anche sulle parole stesse che sceglie di inserire. Purgatorio XXVI 136-48 Io mi fei al mostrato innanzi un poco, e dissi ch'al suo nome il mio disire apparecchiava grazïoso loco.
 El cominciò liberamente a dire: «Tan m'abellis vostre cortes deman, qu'ieu no me puesc ni voill a vos cobrire. Ieu sui Arnaut, que plor e vau cantan; consiros vei la passada folor,
 e vei jausen lo joi qu'esper, denan.
 Ara vos prec, per aquella valor
 que vos guida al som de l'escalina, sovenha vos a temps de ma dolor!».
 Poi s'ascose nel foco che li affina. Io mi avvicinai un poco allo spirito che aveva indicato prima, e dissi che il mio desiderio preparava una gradita accoglienza al suo nome (volevo sapere chi fosse). Lui cominciò volentieri a dire: «La vostra cortese domanda mi piace a tal punto, che non posso né voglio nascondere la mia identità. Io sono Arnaut, che piango e vado cantando; preoccupato guardo la mia passata follia d'amore, e vedo gioioso la gioia, che spero, davanti a me. Ora vi prego, per quella virtù che vi guida alla sommità di questa scala, di rammentarvi al momento opportuno del mio dolore!» Poi si nascose nel fuoco che li purifica. Alla fine di questo canto Dante incontra Arnaut Daniel, uno dei più grandi poeti provenzali. Ancora una volta si ha un passaggio di codice, sempre accompagnato dal rispetto del gioco rimico, seppur con rime translinguistiche. La lingua che usa qui è il provenzano, parlata da Arnaut. Categorie coinvolte in questo plurilinguismo dantesco: 1. Latinismi Non significa solo parole che derivano dal latino, ma sono parole molto rare che nessuno aveva recuperato dal latino prima di Dante e che spesso dopo Dante nessuno usa. - Bàiulo, portatore - Cirro, chioma - Cive, cittadino - Umbrifero, che getta ombra A volte i latinismi si concatenano in rime rare: - imo, profondo : opimo, ricco : primo - colubro, serpente : rubro, rosso : delubro, santuario Si situano tutti, o quasi, nel paradiso: già questo è segno della ricerca di un registro più elevato. 2. Linguaggio tecnico - Cerchio, con il valore di figura geometrica, prima di Dante non viene trovato - Epiciclo, con valore astronomico - Epa, parola dell’anatomia 3. Gallicismi Dante legge i poeti provenzali e ha conosciuto anche i poeti siciliani. È un settore della lingua poetica che si ha dalle origini fino a Dante, e non più dopo Dante. Ad esempio, tutti i sostantivi in “anza” sono tipici della scuola siciliana: ora hanno una connotazione ironica, ma ai tempi erano un tratto della canzone poetica della Provenza e della poesia volgare che Dante non si fa scrupoli a riprendere. Anche questa componente ed esperienza linguistica può, quindi, fruttare nella Commedia. - Dolzore (: fore, : amore) - Ostello (: uccello) - Ploia (: moia) - Beninanza, dilettanza, disianza, fallanza, nominanza, orranza, possanza 4. Sicilianismi in sede di rima: l’opera di toscanicizzazione delle opere siciliane riportava delle imperfezioni in sede di rima, che Dante nota – seppur non comprende che non sono scelte d’autore come lo comprendiamo noi – e copia. - Noi : fui : sui - Nome : come : lume Oppure, parole in cui si era rispettato il vocalismo siciliano per ragioni di rima, non pensando che non si tratti di sicilianismi ma di poetismi, ossia parole che fanno parte della tradizione poetica. - Miso,sorpisa Un altro caso è il condizionale in -ia. 5. Volgari municipali tanto deprecati nel De Vulgari e qui invece recuperati. - Issa, ora (Bonagiunta, lucchese) - Donno, signore, governatore (Michele Zanche è governatore delle province della Sardegna, dove ci sono dei donni) immerse nel ghiaccio fino a dove appare il rossore (al viso), battendo i denti come fanno le cicogne. La categoria peggiore nell’inferno è quella dei traditori. Invenzione dantesca è il gelo, nella rappresentazione degli inferi: si ha un lago ghiacciato. In questo canto si ha una problematizzandone di stile simile a quella che si trova nella canzone petrosa, ossia un’intenzione stilistica voluta e adeguata al tema. L’esperienza petrosa è preziosa per Dante proprio perché lì si fanno le prime prove di una maniera di esprimere e rappresentare la crudeltà che torneranno utili nella rappresentazione dei luoghi danteschi. La prima parte di questo canto è dedicata a una riflessione metalinguistica: Dante ci dice di aver bisogno di uno strumento linguistico adeguato (di nuovo tema della coincidenza tra forma e contenuto). Le caratteristiche formali adeguate sono rime aspre e chiocce, dove con rime Dante intende versi. L’asprezza è la stessa qualità che aveva indicato nella canzone petrosa. L’aggettivo chiocce caratterizza sempre la voce delle figure infernali: è una voce rauca, che ha qualcosa di sgradevole dal punto di vista dell’eufonia, ma ha anche un tratto di qualcosa che incute timore. - Converrebbe: idea della convenienza - Tristo: non vuol dire triste ma crudele - Tornano le metafore: Dante immagina che l’espressione sia un succo, un suco, che viene spremuto, ossia espresso. - Abbo = forma alternativa a ho, non fiorentino, è un toscanismo municipale Dice di aver bisogno di versi aspri che non trova, ma intanto li inasprisce mediante questa serie di elementi. - Né da lingua che chiami mamma o babbo: dicendo che la lingua che deve usare non è quella di un bambino, introduce e tematizza nella commedia anche la lingua di un bambino. Coinvolge contenuti anche quando va a dire che non li vuole coinvolgere: Dante è aperto a tutte le risorse linguistiche possibili, e anche aspetti della realtà che rimangono esclusi dal contenuto della sua opera e da ciò di cui deve trattare, vengono citati. Nella poesia dei primi secoli, nessuno ha mai usato la parola babbo. Dopo l’inizio metalinguistico, vi è l’invocazione alle muse (v. 10), come se fosse un poeta antico. Vi è poi un nuovo cambio di registro: una specie di maledizione rivolta ai dannati (v. 13) - Duro: doloroso, ha una semantica più forte che nell’italiano moderno - Zebe: capre, è un toscanismo. Anche in questo caso, solo Dante nella storia della poesia antica usa questa parola. C’è una continua frizione e accostamento di elementi linguistici provenienti da epoche e luoghi differenti (esempio prima mitologia con le muse, poi zebe e pecore della realtà contadina). Al verso 15 si riprende il filo narrativo. Al verso 19 compare una voce, e non sappiamo chi sta parlando (è un effetto tipicamente cinematografico). Dante ancora non ha capito dove si trova; a livello narrativo, sta dosando le informazioni, sta mettendo il suo lettore nelle condizioni di sapere un poco alla volta le cose: l’effetto di sorpresa e di interessamento per la vicenda sono acuiti. A questo punto Dante ci deve dire che il lago che ha visto lui non è comparabile ai laghi che conosciamo sulla terra. Per spiegare che è diverso, il termine di comparazione di Dante è sempre la realtà terrena: qui Dante ricorre addirittura alla risorsa dei toponimi, arrivando a un tale dettaglio di ricchezza linguistica, trovando un termine di paragone così preciso. - Danoia: Danubio - Osterlicchi: Austria - Tanaì: fiume Don Sono nomi della cultura letteraria di Dante, che non li aveva visti ma ne aveva sentito parlare. Ma vi aggiunge l’esperienza di luoghi che conosce. - Tambernicchi: monte Tambura delle alpi apuane - Cricchi: onomatopea. Non se ne trovano nella poesia prima di Dante. Al verso 31 si ha poi un riferimento ad animali di provenienza agreste, contadina, sempre in forma di similitudine (mezzo attraverso il quale Dante può introdurre nella Commedia tutto ciò che a livello contenutistico vi è escluso). Si ha finalmente la rappresentazione della condizione dei dannati - Quando sogna di spigolar sovente la villana: indicazione temporale perifrastica che significa d’estate; la villana, ossia la contadina, che sogna di spigolare, ossia di fare raccolto. FRANCESCO PETRARCA 1304-1374 Se Dante è un plurilinguista, Petrarca è monolinguista. Con Petrarca siamo pienamente nel Trecento. È figlio di un notaio fiorentino, ma a Firenze non rimarranno mai; Petrarca mantiene questo tratto di forte propensione allo spostamento, con due luoghi in cui in particolar modo soggiornerà: Provenza e Colli Euganei. Petrarca rappresenta per molti versi l’opposto di Dante. Anzitutto, per la sua scelta di un registro linguistico stabile. Poi, perché nella storia della nostra lingua Petrarca sarà preso a modello, e Dante è in un certo senso il contromodello: è logicamente più semplice prendere come modello Petrarca con il suo monolinguismo. Petrarca scrive alcune opere in volgare, ma ne scrive molte altre in latino. Non è un dato da sottovalutare: le opere in latino di poesia di Dante sono pochissime; Petrarca invece investe una considerevole parte del suo tempo nello scrivere opere letterarie in latino, ed è convinto che saranno proprio quelle a dargli fama. Le opere in volgare, poi, hanno titoli in latino: è come dire che la lingua della sua comunicazione letteraria quotidiana è il latino. Ciò che noi chiamiamo Canzoniere era per Petrarca Rerum vulgarium fragmenta. I Trionfi si chiamano Triumphi. L’atteggiamento di Petrarca verso Dante è di diffidenza e distanza, ma in realtà c’è una fortissima memoria dei versi di Dante in Petrarca – come dimostra il fatto che i Trionfi sono scritti in terzine dantesche. Petrarca certo non condivideva le posizioni teoriche di Dante: se quest’ultimo pensava che il volgare sarebbe stato il sole nuovo e il sole del latino stesse tramontando, Petrarca pensava che il sole del latino fosse ancora in cielo, e dovesse essere sfruttato. Se Dante, poi, aveva una funzionalità didascalica forte, in Petrarca questo non c’è: non gli interessa che le sue poesie arrivino agli incolti. Perché allora si dedica a una produzione in volgare? Pezzi di lettere dell’epistolario di Petrarca, che è interamente in latino, dimostrano come tutta la sua lingua di comunicazione letteraria è il latino. Anche i suoi appunti e le sue note alle poesie sono in latino. Molte delle sue lettere sono con Boccaccio (seniles sono le lettere della sua ultima parte di vita), con cui condivide l’interesse per la riscoperta dei classici. Li divide però il giudizio su Dante, poiché Boccaccio ama Dante. Seniles V 2 (a Boccaccio) Eppure una volta, tutto all'incontrario pensando, io m'era proposto di consacrarmi interamente a questo studio del volgare per la ragione che nel più nobile sermone latino hanno gli antichi con tanta perfezione trattata la poesia da togliere a noi ed a chiunque altro ogni speranza di fare qualche cosa di meglio, laddove il volgare nato da poco, strapazzato da molti, e da pochissimi coltivato, capace si porge di molti fregi, e di nobilissimo incremento. È uno dei pochi tratti in cui si pone il problema per cui è opportuno e ha senso scrivere versi in volgare e non in latino: il problema non è di divulgazione e comunicazione, ma in che lunga scrivere versi; ragiona quindi da poeta. perché negli atti d’alegrezza spenti di fuor si legge com’io dentro avampi: sì ch’io mi credo omai che monti et piagge 10 et fiumi et selve sappian di che tempre sia la mia vita, ch’è celata altrui. Ma pur sì aspre vie né sì selvagge cercar non so ch’Amor non venga sempre ragionando con meco, et io co·llui. dal fatto che la gente comprende, perché negli atti privi di allegria si legge esteriormente come io dentro ardo; tanto che io credo ormai che sia i monti, le pianure, i fiumi e i boschi sappiano di che tenore sia la mia vita, che è nascosta agli altri. Ma tuttavia vie così impervie e solitarie non so cercare, che Amore non venga sempre a parlare con me ed io con lui. Questo sonetto ci mette di fronte a una situazione in cui, diversamente dallo stilnovo, non c’è una donna presente, che giunge a sconvolgere il poeta o porta un effetto di beneficio universale. Qui si ha una donna assente. Petrarca riesce a mettere insieme il filone del servitium amoris con un tema di tipo filosofico, quello della vita solitaria, di tradizione stoica. Il poeta è qui separato fisicamente dalla donna, è solo. Vi è però la presenza di amore personificato. L’io del poeta compie l’atto di ragionare, discutere, parlare, con Amore: è una presenza differente dell’amore rispetto ai sonetti delle opere precedenti. In Petrarca siamo arrivati a una rappresentazione della condizione di patimento amoroso in termini più introspettivi, ed è aumentata la propensione all’autoanalisi e la profondità psicologica. Tale condizione di isolamento è inserita in uno sfondo di natura, che permette l’isolamento da un lato e la rievocazione di Laura dall’altro. Le metafore sono scarsissime, diversamente che in Dante. Il testo, inoltre, è di immediata comprensione. - Human: l’h è un elemento autografo di Petrarca, così come gli et, anche se sono puramente grafici poiché non danno informazioni rilevanti a livello fonetico. - Vo mesurando: andare facendo, locuzione che dimostra che gli atti del poeta si ripetono, è durativa nel tempo, non puntuale. - Passi tardi et lenti, solo et pensoso: Petrarca sfrutta molto figure in cui vi sono due parole insieme a + b; si tratta di DITTOLOGIE o COPPIE. La coppia tardi et lenti, inoltre, è praticamente sinonimica (tardo vuol dire lento): questo dimostra che la forma retorica è più importante del contenuto per Petrarca. - Et gli occhi porto per fuggire intenti: tenere gli occhi bassi è un tratto espressivo che viene dalla bibbia, dal timore di dio che impone all’uomo di guardare terra. Dai poeti medievali questa mimica viene trasposta alla condizione dell’amante nei confronti dell’amata. - Vestigio: latinismo - Accorger: verbo all’infinito, tratto che dimostra che la poesia è molto riflessiva. Petrarca evita l’atto in astratto, azioni specifiche. In questo sfondo deserto ci sono però presenze naturali che diventano testimoni della condizione del poeta. Petrarca, scappando, riesce a celare la propria condizione agli uomini, ma non alla natura. - Tempre: la vita di Petrarca viene sottoposta al calore della sofferenza che porta amare. - Monti et piagge et fiumi et selve: qui gli elementi sono 4, ma scanditi 2 + 2. Sono espedienti retorici molto semplici ma per questo ben ripresi dalla poesia successiva. Ma alla fine, anche in luoghi così deserti e selvaggi il sentimento d’amore non abbandona Petrarca. - Vien ragionando: altra azione rappresentata in senso durativo. - Ma pur sì aspre vie né sì selvagge: altri aggettivi bilanciati. Insieme al verso dopo formano un chiasmo. La retorica bimembre percorre tutto il testo e lo rende da un punto di vista stilistico un modello imitabile dalla poesia successiva. Petrarca è uno snodo cruciale per la lingua poetica della nostra tradizione, come se fornisse un lasciapassare: se egli fa passare del materiale linguistico, questo può andare avanti per secoli. A livello di fonomorfologia: - Forme monottongate: core, novo, foco, loco, moro, movo, fele, mele L’origine non è toscana ma siciliana, tollerati dai copisti toscani perché ritenute forme latineggianti, diventano un marchio della poesia lirica. - Riprende le rime siciliane: altrui : vui Come Dante, lo fa non perché consapevole sia una forma siciliana, ma perché pensa siano elementi della tradizione poetica da recuperare. - Condizionali in – ia: avria, potria, saria - Altre forme di origine meridionale: veggio, cheggio, seggio - Petrarca non sceglie spesso solo una forma, ma oscilla. Ci sono molti doppioni, e anche essi dureranno a lungo nella tradizione: buono/bono, fiera/fera, viene/vene, piangea/piangeva. A livello di lessico: se il lessico di Dante è ricchissimo, aperto a invenzioni e diversi registri, quello di Petrarca è un lessico chiuso e ristretto che parla di un numero limitato di referenti. Il suo margine di novità consiste nelle combinazioni. Per esempio, il campo semantico del corpo di Laura prevede: - Occhi + begli (39 esempi), belli (23), be’ (2), chiari (10), leggiadri (7), soavi (7) - Lumi/lume + be’ (10), chiaro, adorno - Guardo + bel (7), gentile (3), sereno - Ciglio + bel (3) - Viso + bel (42), leggiadro, adorno, santo - Volto + bel (4) - Voce + angelica, chiara, divina, soave - Bocca + angelica, bella - Collo + bel - Riso + dolce (7), angelico, chiaro (2) - Seno + bel, candido, angelico - Petto + bel 83) - Piede/pie/pè + bel, candido, snello - Mano + bella (4), bianca, eburnea - Membra + belle (4) - Capelli/capei + bei, biondi, d’oro - Chiome + bionde, d’oro - Trecce + bionde Da un punto di vista della storia della lingua è importante: è uno stile più facile da imitare, con un numero di parole ristretto. Salabaetto rappresenta Boccaccio, che mette in scena se stesso come giovane mercante che si trova ad avere un sacco di soldi. Egli si trova oggetto di furto da parte di una donna palermitana, che trama un piano per derubarlo, che prevede un appuntamento ai bagni pubblici – anche questo è tratto di realismo: i bagni pubblici ci sono solo a Palermo, perché sono un portato arabo. - Tu m’ahi miso lo foco..: varietà linguistica siciliana, che riprende elementi propri della poesia siciliana. - Acanino: è un arabismo siciliano, da habib, caro, soave. Sopravvive in varietà locali del siciliano ancora oggi, ma prima di Boccaccio non ci sono attestazioni di questa parola, né ce ne saranno nella letteratura seguente. Epistola napoletana Faccimote addunqua, caro fratiello, assaperi ca lo primo juorno de sto mese de decembro Machinti figliao e appe uno biello figlio masculo: ca Die nce lo garde e li dea bita a tiempo e a bielli anni! E per chillo ca nde dica la mammana, ca llo levao nella ‘ncuccia, tutto s’assumiglia alllu patre. Nel 1339, in gioventù, quando si trova a Napoli come mercante, Boccaccio scrive una lettera in napoletano e la manda a un suo amico: è un esperimento linguistico con finalità ludica, ma dimostra il suo interesse precoce per i dialetti, ossia i volgari, che non erano il suo. IV 1 […] piangendo le cominciò a dire: «Ghismunda, parendomi conoscere la tua vertù e la tua onestà, mai non mi sarebbe potuto cader nell’animo, quantunque mi fosse stato detto, se io co’ miei occhi non l’avessi veduto, che tu di sottoporti a alcuno uomo, se tuo marito stato non fosse, avessi, non che fatto, ma pur pensato; di che io, in questo poco di rimanente di vita che la vecchiezza mi serba, sempre sarò dolente di ciò ricordandomi. E or volesse Idio che, poi che a tanta disonestà conducer ti dovevi, avessi preso uomo che alla tua nobiltà decevole fosse stato; ma fra tanti che nella mia corte n’usano eleggesti Guiscardo, giovane di vilissima condizione, nella nostra corte quasi come per Dio da piccol fanciullo infino a questo dì allevato; di che tu in grandissimo affanno d’animo messo m’hai, non sappiendo io che partito di te mi pigliare […]». Al quale la donna disse: «Tancredi, serbati coteste lagrime a meno disiderata fortuna che questa, né a me le dare, che non le disidero. Chi vide mai alcuno altro che te piagnere di quello che egli ha voluto? Ma pure, se niente di quello amore che già mi portasti ancora in te vive, per ultimo don mi concedi che, poi a grado non ti fu che io tacitamente e di nascoso con Guiscardo vivessi, che ’l mio corpo col suo, dove che tu te l’abbi fatto gittare, morto palese stea». Caratterizzazione diastratica: questa novella ha per protagonista dei personaggi di levatura sociale molto alta. La storia è ambientata in un antico castello dove gli eventi tragici sono scatenati dal troppo amore di un padre, il principe di Salerno Tancredi, per sua figlia Ghismunda. Questa, innamoratasi del paggio Guiscardo, ragazzo di strada, viene sorpresa dal padre, che decide di fare arrestare e poi uccidere il giovane perché reo di aver contaminato la famiglia reale seducendo una ragazza di condizione molto più alta di lui. Alla notizia della morte dell’amato, Ghismunda si avvelena, portando Tancredi a un pentimento tragico e troppo tardivo. Toccando temi cari già alla letteratura provenzale e poi stilnovista, Boccaccio colloca su uno sfondo tragico la trattazione della natura d’amore collegata alla nobiltà d’animo e alla facoltà dell’amore di scavalcare legami famigliari e classi sociali. Da un lato, la sintassi è complessa, qui in modo ancora più forte che negli altri passi. - Ampissima dilezione degli elementi verbali - Domande retoriche Dall’altro, ci sono una serie di elementi lessicali che elevano il registro del discorso. - Conducere: latinismo forte - Decevole: latinismo forte - Eleggesti: latinismo forte È una sintassi complessa, sia perché tende a un’ipotassi anche intensa (ossia alla subordinazione), sia per la disposizione delle singole tessere che si collocano in una posizione che per noi non è normale (con elementi che supportano l’intera struttura frasale in una posizione finale). II 1 Già per tutto aveva il sol recato con la sua luce il nuovo giorno e gli uccelli su per li verdi rami cantando piacevoli versi ne davano agli orecchi testimonianza, quando parimente tutte le donne e i tre giovani levatisi ne’ giardini se ne entrarono, e le rugiadose erbe con lento passo scalpitando d’una parte in un’altra, belle ghirlande faccendosi, per lungo spazio diportando s’andarono. La cornice del Decameron ha dei tratti che sono i più frequentemente imitati da chi in futuro si rifà al modello di Boccaccio: è più facile imitare queste zone di cornice rispetto a quelle delle novelle, più difficilmente riproducibili. Queste zone tendono infatti alla descrizione; c’è una grande ricchezza di aggettivi, qualificazione, epiteti: le descrizioni tendono ad avere infatti un maggior apporto di aggettivi rispetto al testo narrativo. Questi aggettivi in realtà non hanno una semantica molto forte, apportano poca informazione aggiuntiva e spesso sono cliché (ossia sintagmi della tradizione, come passo lento), hanno un valore piuttosto ornamentale, di EPITETA ORNATIA. Esempi: rami verdi, versi piacevoli, erbe rugiadose. Si trovano però delle figure di perturbazione dell’ordine sintattico: 1. Inversione (nella retorica classica è l’anastrofe: BA, se l’ordine normale è AB); tipicamente riguarda i complementi rispetto al verbo, se noi attendiamo l’arrivo del verbo è perché prima vediamo i complementi che il verbo regge. Anche gli aggettivi, però, sono interposti davanti al verbo (e anche questo si rifà al modello latino, che ha sempre l’elemento portante a destra, mentre l’italiano a sinistra). su per li verdi rami cantando, ne’ giardini se ne entrarono 2. Distanziamento (iperbato: A…B): elementi che ci attendiamo in un ordine consequenziale vengono separati; aveva il sol recato, ne davano agli orecchi testimonianza 3. Combinate (B…A): spostando gli elementi, iperbato e anastrofe continuano a mischiarsi. le rugiadose erbe con lento passo scalpitando: prima si ribaltano soggetto e verbo, che vengono poi separati da con lento passo. La ragione di fondo è che in questo modo si imita l’ordine tendenziale della sintassi latina, che tende a porre il verbo alla fine della frase, secondo l’ordine non marcato SOV. Il latino aveva però una morfologia che permetteva di smorzare questa complicazione, cosa che nell’italiano non è invece così facile. Inoltre, questa sintassi è usata anche nel caso di contenuti molto piani e descrittivi – modello che conterà molto nel Cinquecento. È questo uno dei lasciti più cospicui di Boccaccio per la tradizione in prosa. II 7 I marinari, come videro il tempo ben disposto, diedero le vele a’ venti e del porto d’Allessandria si partirono e più giorni felicemente navigarono: e già avendo la Sardigna passata, parendo loro alla fine del loro cammino esser vicini, si levarono subitamente un giorno diversi venti, li quali, essendo ciascuno oltre modo impetuoso, sì faticaron la nave dove la donna era e’ marinari, che più volte per perduti si tennero. Ma pure, come valenti uomini, ogni arte e ogni forza operando, essendo da infinito mare combattuti, due dì si sostennero; e surgendo già dalla tempesta cominciata la terza notte e quella non cessando ma crescendo tuttafiata, non sappiendo essi dove si fossero né potendolo per estimazion marineresca comprendere né per vista, per ciò che obscurissimo di nuvoli e di buia notte era il cielo, essendo essi non guari sopra Maiolica, sentirono la nave sdruscire. Questa complicazione sintattica può essere sfruttata per finalità stilistiche ben precise. In questa novella una nave incontra una tempesta; la tecnica sintattica in questo caso è funzionale alla costruzione di una tensione progressiva, che si scioglie alla fine con lo sfasciarsi della nave. - Una serie di gerundiali (parendo, avendo, …) che durante la lettura non sappiamo da cosa sono rette, e che si risolvono solo verso la fine. Questa raccolta è accompagnata da una sorta di prefazione, l’Epistola critica, con ogni probabilità scritta da Polizano. Queste righe danno la misura della considerazione in cui era tenuta la poesia volgare nella Firenze del secondo Quattrocento. Polizano adotta una serie di figure retoriche che possano dimostrare un uso elevato del volgare. C’è una considerazione elevata della lingua toscana e della sua produzione. PIETRO BEMBO 1470-1547 L’invenzione della stampa ha degli effetti sconvolgenti, poiché comporta una diffusione di opere scritte che prima era impossibile pensare, con l’apertura di un mercato letterario. In una situazione di questo genere, il bisogno di arrivare a una codificazione della lingua si fa sentire in modo ancora più acuto, non è più evitabile. Bembo, di famiglia nobile veneziana, cardinale e letterato coltissimo, è autore di opere in latino ma molto attento anche ai fatti del volgare. Nel 1501 e 1502 Bembo cura le edizioni aldine di Petrarca e Dante. Per capire il livello di attenzione riservata ai testi di cui Bembo si fa curatore è utile compararli al testo di una stampa precedente, del 1472 (incunabolo della Divina Commedia). Nell’incunabolo vi è l’uso della scripta continua, ossia alcune parole sono scritte attaccate; ciò è accompagnato dall’uso di abbreviazioni (simboli). Bembo, invece, le separa accuratamente, e usa una scrittura intera, senza abbreviazioni. Vi sono poi alcuni fatti di natura fonetica e non puramente grafica: - Pertractar, mentre in Bembo trattar - Compuncto, mentre in Bembo compunto - Introduzione di segni diacritici come gli accenti in Bembo - Bembo è poi l’inventore dell’uso dell’apostrofo come lo usiamo noi oggi, ossia per indicare elisione o apocope - Viene introdotta la punteggiatura – anche se non ancora come la usiamo oggi, nelle stampe del Cinquecento è molto più folta; la punteggiatura ora ha un’indicazione logico-sintattica; in epoche più antiche serviva invece per dare indicazioni di lettura a voce alta - Vengono eliminati alcuni usi grafici come pocho con l’h - Il testo aldino è scritto in corsivo, ed è un’invenzione dell’editore Aldo Manuzio - In generale c’è un miglioramento del testo molto ingente Bembo chiama l’edizione di Petrarca Le cose volgari: dimostra come Bembo tenga conto anche del titolo dell’opera di Petrarca. Qui è riprodotta l’ultima pagina dell’aldina con il colophon. Vi è di nuovo una capillare cura della veste linguistica: - Vengono meno latinismi puramente grafici come saxo, che diventa sasso - Si ha separazione di nessi univerbati come chaura che diventa c’harua - Vi è l’introduzione dell’interpunzione - Nel colophon c’è l’indicazione del fatto che tale scritto è stato esemplato sul codice vaticano latino 3195: dimostra che Bembo ha la cura di rifarsi all’autografo petrarchesco. E si può anche dedurre che Bembo abbia avuto tale codice tra le mani. È un’operazione filologica già concepita come la faremmo noi oggi. Prose della volgar lingua Le Prose della vulgar lingua (1525) sono un trattato linguistico in forma di dialogo, per cui non c’è solo l’autore che esprime le sue posizioni, ma tali tesi sono esposte da dei personaggi; c’è una finzione dialogica adoperata per veicolare contenuti ed esporre posizioni. Non è un fatto inedito (Dialoghi di Platone, Cicerone). Ha per oggetto il volgare e quale forma deve darsi, quale modello deve essere preso a riferimento per il suo uso nella scrittura. La data di stampa è 1525, ma Bembo lavora a lungo e senza fretta. È un’opera in tre libri: sappiamo con sicurezza che nel 1510 il primo libro è già scritto; l’opera ha poi una lunga elaborazione, ma Bembo in più occasioni insiste sul fatto che l’opera era già terminata nel 1516 – è un’insistenza un po’ sospetta; in quell’anno un letterato sconosciuto, Giovanni Battista Fortunio, pubblica una grammatica volgare, bruciandolo sul tempo.
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