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ll Cinema. Percorsi storici e questioni teoriche., Sbobinature di Storia Del Cinema

Riassunto dettagliato del libro "Il Cinema. Percorsi storici e questioni teoriche" di Carluccio, Malavasi, Villa.

Tipologia: Sbobinature

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Scarica ll Cinema. Percorsi storici e questioni teoriche. e più Sbobinature in PDF di Storia Del Cinema solo su Docsity! Il Cinema. Percorsi storici e questioni teoriche. Capitolo 1:dal cinematografo al cinema. La nascita del cinema è datata 28 dicembre 1895, la prima proiezione pubblica a pagamento del Cinématographe Lumière. Esso è la sintesi di diverse invenzioni e brevetti messi a punto da più studiosi in vari paesi d'Europa e del mondo. Questo evento quindi deve essere considerato un fenomeno internazionale e frutto di un'esperienza molteplice. Con il cinematografo si diffondono anche le proiezioni collettive; tutto questo però viene da esperienze precedenti di visione individuale in fiere ambulanti e solo dopo in sale apposite ---> nickelodeons Alcuni studiosi come Noël Burch, individuano una distinzione netta tra il modo di fare cinema degli inizi e ciò che diventa dopo. Il cinema degli inizi va sotto il nome di Modo di rappresentazione primitivo (MRP), che non era legato necessariamente a finalità narrative, mentre il cinema che si sviluppa dopo è il Modo di rappresentazione istituzionale (MRI), il quale invece lavora sul percorso lineare del percorso narrativo. Poi abbiamo anche la distinzione tra il cinema di attrazioni mostrative e il cinema dell'integrazione narrativa: il primo sistema non pone in primo piano l'interesse narrativo, il secondo sistema fa il contrario, si caratterizza per l'emergere del racconto come interesse primario. Il cinema muto italiano. Dal 1905 in Italia si diffondono le prime sale cinematografiche stabili e nascono anche le prime società cinematografiche: l'Alberini&Santoni che realizza nel 1905 La presa di Roma, considerato il primo film italiano a soggetto; questa società verrà poi rinominata Cines; anche Torino emerge con la società Ambrosio e Itala Film. Queste case di produzione si specializzano in generi o filoni distinti. Le serie comiche italiane rappresentano l'antenato della slapstick, che si sviluppa negli Stati Uniti e che è caratterizzata da sberle, cadute, torte in faccia. Alla Cines in questi anni si realizzano i primi tentativi di proporre al pubblico dei film con contenuti culturali più alti ---> chiamati "film d'arte" che partono da soggetti storico-letterati come Shakespeare, Manzoni o le commedie greche, per realizzare film colti. Il film che per eccellenza rappresenta il cinema italiano del tempo è Cabiria di Giovanni Pastrone con la collaborazione di Gabriele d'Annunzio che si occupa di scrivere le didascalie e i nomi di alcuni protagonisti, anche se per scopi promozionali gli verrà attribuita tutta la sceneggiatura. Questo film pone in risalto alcuni attori di spicco dell'epoca come l'attrice Italia Almirante Manzini, ma soprattutto Bartolomeo Pagano, che interpreta Maciste. Cabiria presenta molti momenti spettacolari, una profondità e una tridimensionalità; importante è anche l'ampio uso del carrello che viene adoperato per riprodurre una sensazione di dilatazione degli spazi, di grandezza delle scene o anche per descrivere un personaggio. Le ricerche dei paesi nordici. Un'altra grande area produttiva è quella dei Paesi del Nord. DANIMARCA---> l'imprenditore Ole Olsen fonda la Nordisk Film che esporta film in tutto il mondo e si specializza nel poliziesco e nei melodrammi. Entrerà in crisi dopo la Prima guerra mondiale. Il cinema muto danese è anche ricordato per aver dato origine a divi di grande fama come Asta Nielsen. SVEZIA---> il cinema si sviluppa in ritardo rispetto agli altri Paesi nordici. Come registi si impongono Sjöström e Stiller i cui film riescono ad uscire dai confini nazionali. Sjöström approda nel mondo del cinema dopo aver firmato con la Svenska Bio, la prima società svedese; il suo primo film viene censurato a causa di una scena di suicidio. Successivamente abbandona la strada del realismo per incentrarsi sul racconto fantastico. A metà degli anni Venti si trasferisce negli Stati Uniti in quanto firma con la Metro- Goldwin-Mayer, ma la sua carriera termina dopo l'insuccesso di The Wind. Stiller invece è noto per aver lanciato Greta Garbo, coprotagonista a soli 17 anni di La leggenda di Gösta Berling. David W. Griffith. Griffith è considerato il padre del cinema. Dopo aver lasciato la Biograph, pubblica su "The New York Dramatic Mirror" una sorta di annuncio autopromozionale in cui dice di aver "rivoluzionato il Motion Picture Drama e di aver fondato la tecnica moderna". Con questo articolo rivendica una autorship dichiarandosi autore di molti film. Quella che Griffith rivendica non è una proprietà di tipo legale, ma di tipo artistico, vale a dire una autorialità. Con questo intende dare alla figura del regista una funzione precisa e soprattutto inedita per l'epoca. Altri autori invece riorganizzano le fasi di preparazione e realizzazione dei loro lavori. Inizia così a prendere forma il modo di produzione hollywoodiano. L'importanza i Griffith qui risiede nella nuova concezione di stile e narrazione cinematografica: il regista vuole emanciparsi dal cinema contemporaneo dando un senso ad ogni singola inquadratura solo se rapportata con la precedente e la seguente. Griffith è soprattutto molto interessato alla creazione di azioni parallele, creando così una nuova forma di continuità narrativa ---> montaggio alternato Chi continua ciò che è il progetto griffithiano è De Mille che con il suo primo film The Squaw Man inaugura l'abitudine di girare nella zona semidesertica di Hollywood. Un altro regista importante dell'epoca è Erich von Stroheim, l'autore "maledetto". È allievo di Griffith ma non entrerà mai a far parte della sua troupe. I film di Stroheim sono per lo più ambientati nell'alta società europea, ambiente che il regista ritiene perfettamente ideale per i suoi personaggi corrotti. Notiamo quindi una posizione pessimista. Uno dei suoi capolavori è Femmine folli. Il serial. Si tratta di film strutturati ad episodi di genere melodrammatico e avventuroso. Il primo serial prodotto negli Stati Uniti è What happened to Mary succeduto da Who Will Marry Mary? La produzione di serials si intensifica fino ad arrivare al cliffhanger, che vuole che ogni capitolo termini in un momento di suspense in cui l'azione è al suo culmine. Il modello femminile proposto dalle serial queens è molto più moderno rispetto a quello imposto dal cinema in generale. Le eroine dei serials sono coraggiose, indipendenti e capaci di cavarsela in qualsiasi situazione. Dreyer. ● Espressionismo caratterizzata da deformazioni scenografiche, focalizzazione su un immaginario irreale, l'uso di prospettive alterate e ricorso a illuminazioni contrastate. ● Corrente della Nuova oggettività, anche detta Nuovo Realismo che vuole fare del dramma una rappresentazione della condizione umana. ● Kammerspiel un genere cinematografico psicologizzante. Abbiamo intrecci drammatici, cast ridotti a pochi attori, scenografie scarne. Una figura importante nel panorama tedesco è Hans Richter che all'inizio si muove nell'ambito dell'Espressionismo pittorico e in seguito, durante la Prima guerra mondiale, si lega al movimento dadaista. Altri due nomi importanti sono Walter Ruttmann e Oskar Fischinger. Il primo lavora come pittore e grafico nei primi anni Dieci per poi entrare in contatto con il mondo del cinema, invece Fischinger lavora prima in Germania e dopo l'avvento del nazismo, negli Stati Uniti; lavorerà anche per Walt Disney. Bisogna anche ricordare il contributo di Laslò Moholy-Nagy, pittore, scultore, scrittore e fotografo ungherese. È uno tra i primi a sperimentare la fotografia, mezzo per l'esplorazione del mondo grazie al suo sguardo dinamico. È ossessionato dalla luce infatti realizzerà giochi di luce proiettati con un riflettore. Unione Sovietica. Il cinema sovietico vive una fase di intenso sviluppo durante gli anni Venti. La figura di Kulešov è fondamentale. A partire dal 1917 inizia a pubblicare saggi sul montaggio attribuendogli il ruolo di principio costruttivo del linguaggio cinematografico. Egli dimostra che la sensazione che un'inquadratura riesce a trasmettere è fortemente influenzata dalle inquadrature a cui essa è legata. Altro importante protagonista è Pudovkin che è coautore del Manifesto dell'asincronismo del 1928, ossia una riflessione sull'impiego del sonoro nel cinema, in cui si afferma che solo una soluzione contrappuntistica del rapporto tra suono ed immagine può offrire possibilità di sviluppo e di ricerca del montaggio. Egli diviene uno degli esponenti di punta del regime. Tuttavia i due registi più rilevanti sono Ejzenštejn e Vertov. Il lavoro svolto da Ejzenštejn sul montaggio è davvero importante poiché ipotizza la possibilità di concepire spettacoli costruiti sulla base di una logica conflittuale, che procede per contrasti; inoltre sottolinea che il cinema deve essere capace di colpire lo spettatore. Vertov invece opera in modo differente: per lui il cinema di finzione è "riproduttivo", da respingere perché il suo modo di rappresentare non si basa sull'autonomia della macchina da presa, ma è dipendente dalle altre forme artistiche. In sostanza esalta le potenzialità dello sguardo meccanico, nell'uso della macchina come un "cine-occhio"; pensa ad un cinema che colga i fatti della vita, che proponga la percezione del mondo in quanto tale. Per quanto riguarda le ambientazioni dei film di questi anni, la metropoli ha un ruolo centrale poiché rappresenta la modernità. Parliamo di New York, Amsterdam, Parigi, ma soprattutto Berlino e Mosca. Capitolo 3: Il cinema classico hollywoodiano. A metà degli anni Dieci gli assetti produttivi cambiano radicalmente poiché si ha l'ascesa di una nuova generazione di distributori e produttori indipendenti. Le strutture produttive iniziano a spostarsi da New York ad Hollywood perché la troupe aveva bisogno di lavorare in piena luce e per di più la California offriva ampi spazi per le scenografie. Cambia anche la fruizione dello spettacolo da parte del pubblico che inizia ad abituarsi a film sempre più di lunga durata e ad affezionarsi agli attori e alle attrici. Adolph Zukor parte proprio da questa consapevolezza e fonda la Famous Players in Famous Plays: egli scommette sulla fama dei suoi interpreti e dei testi portati in scena, puntando alla creazione di prodotti ad ampio consumo. Successivamente unisce la sua casa di produzione a quella di Jesse Lasky, formando la Famous Players- Lasky Corporation; attraverso di essa i due soci controllano anche la Paramount. Zukor è il primo a comprendere che il cinema necessita di sale dedicate sulle quali il produttore-distributore può esercitare il proprio controllo e proiettare i propri film. Questo compito verrà fatto dal sistema di block booking che consiste nel fatto che gli esercenti che intendono noleggiare una o più pellicole di alto livello, sono costretti a noleggiare un intero pacchetto che comprende anche film minori con lo stesso marchio di fabbrica. In questa fase di transizione, una figura estremamente importante è quella di Griffith che con Nascita di una nazione, segna una svolta nel cinema americano dell'epoca, infatti attraverso questo film riesce a compiere il suo progetto di dare maggiore complessità alla narrazione cinematografica senza sacrificare la semplicità del racconto. Nel 1919 il regista fonda la United Artists Corporation; l'obiettivo è quello di alzare la qualità artistica dei film e combattere una battaglia per il riconoscimento di registi e divi come autori dei loro lavori. Negli anni immediatamente successivi al primo conflitto mondiale l'egemonia di Hollywood si rafforza considerevolmente. In questo periodo si assiste ad un importante aumento del pubblico, dei capitali investiti e del numero di sale, i cosiddetti movie places. L'importanza di Hollywood non risiede solo nei film che vengono realizzati, ma anche nell'apparato che sostiene questa grande industria, che è composto da più sistemi. Al vertice di tutti questi sistemi c'è lo studio system. Fin dagli anni Dieci le case di produzione combattono una guerra tesa al dominio del mercato, ma come sappiamo l'abitudine di unire case di produzione, sale cinematografiche e compagnie di distribuzione, era stata già stroncata nel 1915 con la condanna della MPPC. Questo non ferma Zukor nella sua impresa ma accadrà lo stesso: nel 1921 la Federal Trade Company apre un'inchiesta sulla Famous Players-Lasky per la sua violazione delle leggi anti trust. Solo nel 1948 la Corte emetterà un verdetto di colpevolezza. Questa lentezza nel giungere ad un verdetto permette alle majors di aumentare in termini di mezzi e numeri, passando da essere tre ( Paramount-Publix, Metro-Goldwin-Mayer e First National) , a cinque ( Metro-Goldwin-Mayer, Paramount, 20th Century Fox, Warner Bros e Radio-Keith-Orpheum (RKO) ). La supremazia della Paramount è destinata a terminare poiché è in crescita la MGM, che non solo possiede molte delle più capienti sale del paese, ma ha anche sotto contratto i maggiori registi dell'epoca come Vidor o Erich von Stroheim. La MGM è un esempio per capire il funzionamento dello studio system, infatti questo sistema si perfeziona in contemporanea all'ascesa della MGM, passando da una serie di pratiche (central producer system), al modello del producer-unit system. Questo vuol dire che si passa da una supervisione affidata ad un central producer, a una divisione in più unità specializzate. Ad Hollywood non ci sono solo le majors, ma troviamo anche le minors ( Universal, Columbia e United Artists). Si tratta di società con capitali ridotti e spesso incapaci di controllare la concentrazione verticale. Oltre alle minors abbiamo anche società più piccole, le Poverty Row, come la Monogram o la Republic, le cui realizzazioni sono a basso o bassissimo costo. Al contrario abbiamo invece indipendenti che puntano su un numero limitato di opere costose come Samuel Goldwin o David Selznick. L'opera più importante di quest'ultimo è Via col vento che costò quasi 4 milioni di dollari, uno degli investimenti più grandi della Hollywood classica. Per quanto riguarda i divi, la loro vita discorsiva esula dai singoli film nei quali le star si pongono come modelli. Intorno al 1911 inizia a consolidarsi la pratica dei titoli di testa e iniziano a nascere le prime riviste come la Motion Picture Story Magazine, rubriche che contengono foto, interviste di un determinato divo. Nei film Hollywood è come una forza spersonalizzante che tende a fare del divo un oggetto di marketing, infatti gli organi ufficiali delle case di produzione forniscono alla stampa biografie romanzate degli attori e in più sono chiamate a tenere sotto controllo gli eccessi della loro vita privata. Uno dei più noti scandali è quello che coinvolge l'attore comico "Fatty" Arbuckle, accusato dell'omicidio di un'attrice durante un party. Per contrastare l'immagine negativa di Hollywood e soprattutto per prevenire una legge dedicata alla censura, i più importanti studios costituiscono la Motion Picture Producers and Distributors of America, che stabilisce una serie di parametri e misure che regolamentano il contenuto dei film. A capo di questa organizzazione, c'è William Hays che darà il nome al Codice Hays. Il musical diventa il genere di punta di questa nuova stagione hollywoodiana poiché mette in scena lo spettacolo nel suo farsi, attraverso il sottogenere del backstage musical. Per quanto riguarda il montaggio, importante è il pensiero di Bazin che sostiene che il découpage classico deve basarsi su tra caratteristiche: motivazione, chiarezza e drammatizzazione. Questi principi motivano gli stacchi che non devono essere colti dallo spettatore; per far questo vengono impiegati i raccordi i quali attenuano gli stacchi di montaggio. Agli inizi degli anni Quaranta il gangster film cede il passo al noir, un genere dove i confini tra buoni e cattivi si fanno più labili. Per questo i film sono più confusi da un punto di vista narrativo e strutturati in maniera non lineare. Frank Capra: si occupa per lo più di commedia. Il suo nome è legato indissolubilmente alla Columbia, di cui diviene il regista di punta. La minor non può permettersi divi di alto livello, ma grazie alla fama che acquisisce il regista, riesce ad ottenere in prestito alcune delle maggiori star dell'epoca. Dopo aver lasciato la Columbia, Capra tenterà la strada della produzione indipendente. Orson Welles: nel 1939 firma con la RKO un contratto senza precedenti che gli concede una quasi totale autonomia. La RKO, nonostante il temperamento di Welles non molto incline alle regole, decide di provarci perché Welles rappresenta una fonte sicura di successo. Il film che uscirà sotto il marchio è Quarto potere; questo film non segue le caratteristiche del découpage classico poiché opta per due soluzioni di discorso, ovvero la profondità di campo e l'uso di riprese in continuità. L'audacia di Welles però lo condanna ad una carriera ai margini di Hollywood. Il cinema americano del secondo dopoguerra. Nell'immediato dopoguerra l'era degli studios vive un momento di crisi legato a diversi fattori. Il principale è costituito dalle leggi antitrust che decretano nel 1948 la fine dell'integrazione verticale. È la Paramount Decision che causa una divisione netta tra la Hollywood del periodo aureo e una nuova fisionomia del sistema. La fine dell'oligopolio hollywoodiano porta ad una modifica degli assetti di potere tra le case di produzione. Gli studios minori, avendo accesso alle sale più grandi, cominciano a produrre film ad alto budget. La produzione indipendente aumenta perché molte star e registi abbandonano le majors per creare proprie case di produzione. L'insediamento suburbano assottiglia il pubblico delle sale cittadine perché gli americani coltivano altri hobby o rimangono a casa a badare ai figli ---> aumento della natalità A tutto questo si aggiunge l'avvento della televisione che viene contrastato con la nascita di nuovi formati di proiezione che passano dal classico 1,33 alle proporzioni panoramiche come il Cinemascope introdotto dalla Fox. Truffaut non intende distruggere il cinema commerciale, ma rinnovarlo e arricchirlo. Godard invece si dimostra più provocatorio; nei suoi film l'alternanza tra piani-sequenza e brevi inquadrature disarticola la tradizionale sintassi filmica. La Nouvelle Vague può essere considerato un movimento soltanto fino alla metà del decennio; da lì in poi il movimento inizia a sgretolarsi poiché i componenti iniziano a intraprendere percorsi individuali. Free Cinema e Kitchen Sink. I due grandi movimenti della modernità britannica sono il Free Cinema e il cinema del Kitchen Sink. Il Free Cinema nasce prima delle Nouvelle Vague e nasce come movimento di sintesi di una serie di agitazioni che interessano la cultura inglese negli anni Cinquanta. Reisz e Anderson sono i protagonisti pincipali. Nel Kitchen Sink troviamo personaggi che provengono da un background umile e gli scenari scelti sono spesso squallidi. I due movimenti lavorano per lo più sulla condizione sociale delle classi lavoratrici. Essi hanno però vita breve poiché i registi inglesi iniziano a ritrarre la vita della swinging London, quindi la moda e la musica rock diventano elementi rilevanti nel cinema britannico. Junger Deutscher Film. La nascita del "Giovane cinema tedesco" risale al 25 febbraio 1962, data in cui ventisei giovani cineasti, durante l'ottava edizione del Festival del cortometraggio di Oberhausen, emanano un Manifesto in cui si dichiara la nascita di un cinema socialmente impegnato e libero da vincoli commerciali. Abbiamo una predilezione per tematiche quali l'emarginazione, lo smarrimento, il difficile rapporto con la Storia. Il movimento è fortemente influenzato dalla filosofia marxista. Gli anni Sessanta e Settanta sono caratterizzati dagli esordi di tre registi importanti del Novecento ovvero Fassbinder,Herzog e Wenders. Fassbinder: autore di un cinema segnato da una forte teatralità e dal continuo ricorso a personaggi allo sbando Herzog: regista più visionario del movimento. Il suo cinema rifiuta l'impostazione teatrale, la messa in scena in interni, ma opta piuttosto per ambienti remoti che presentano una natura maestosa. Wim Wenders: amante del rock e della cultura statunitense. Le sue opere sono prive di veri e propri accadimenti in cui il nomadismo è l'unica scelta di vita e l'esperienza del viaggio è l'unico rimedio al quale è possibile affidarsi per colmare i vuoti dell'esistenza. Le cinematografie dell'Europa orientale. Tarkovskij è la figura più significativa del cinema moderno dell'Unione Sovietica. Il suo cinema ricorre molto spesso all'esplorazione della dimensione morale. Il rinnovamento del cinema arriva anche oltre la cortina di ferro, nei paesi satellite di Mosca, in particolare in Polonia dove nasce il più interessante movimento moderno dell'Europa dell'Est. Tra gli anni Cinquanta e Sessanta la Polonia viene investita dall'innovazione quindi troviamo temi come le conseguenze della guerra, le lacerazioni dell'individuo e un senso di profondo smarrimento. Negli anni Sessanta poi si sviluppa una nuova leva di registi risoluti a realizzare un più netto rinnovamento; tra di loro abbiamo Roman Polanskij autore de Il coltello nell'acqua. Anche in Ungheria abbiamo un "Nuova onda", ovvero la Nova Vlnà il cui regista più affermato è Forman. Nel 1968l'intervento delle truppe a Praga segna la fine delle speranze impedendo così il nascere della primavera cinematografica cecoslovacca e spingendo all'emigrazione molti registi come lo stesso Forman. Tra i protagonisti della rinascita cinematografica nazionale, abbiamo Jancsò. New American Cinema. Il vate del New American Cinema è Jonas Mekas il quale si scaglia contro l'industria cinematografica hollywoodiana dicendo "non vogliamo film rosei, li vogliamo del colore de sangue!". Mekas successivamente diventa anche un cineasta e accoglie nella redazione della sua rivista penne illustri, dà visibilità a registi emergenti e inventa nuove forme di produzione e distribuzione formando il New American Cinema Group e la Film Makers' Cooperative. Il New American Cinema può essere associato a nomi quali Kenneth Anger, Ken Jacobs, Andy Wharol o anche Jack Smith che si afferma come cantore di un'estetica del "cattivo gusto". O ancora Maya Deren detta "Madre" dell'Underground. Anche in Brasile abbiamo movimenti di innovamento come il Cinéma Nôvo, la cui poetica è espressa nel Manifesto pubblicato da Rocha nel 1965. In Giappone abbiamo un cinema che presenta una struttura basata sul modello hollywoodiano. Alcuni registi sono Akira Kurosawa o Mizoguchi. Gli indici stilistici della modernità. Per "modernità cinematografica" si intende un insieme di fenomeni diversi, si parla di pluristilismo della modernità. Da un lato pensiamo al moderno come momento storico, dal Neorealismo fino agli anni Sessanta; dall'altro lato lo pensiamo come un modo, uno stile, un modello rappresentativo e sistema produttivo. Il cinema moderno presenta alcuni aspetti riguardanti lo stile, la messa in scena, diversi rispetto al passato, in quanto non è più soltanto importante raccontare una storia, ma conta più l'azione cinematografica. Roberto Rossellini. Rossellini realizza inizialmente film a tema bellico, realizzato sul finire del secondo conflitto mondiale. In questo contesto troviamo una trilogia: Roma città aperta, Paisà, e Germania anno zero. In questa trilogia riconosciamo un certo realismoche permette la scoperta del mondo nel momento stesso in cui i fatti vengono raccontati. I film neorealisti di Rossellini vogliono raccontare un'Italia nuova caratterizzata da tensioni ma anche da profondi cambiamenti. L'improvvisazione: cinéma verité e cinema diretto. Il cinéma verité si sviluppa in Francia e vede in Jean Rouch il suo principale esponente. Il film simbolo di questa corrente è Cronaca di un'estate realizzato dallo stesso Rouch che è un documentario-reportage nel quale una serie di persone viene intervistata su temi generali dell'esistenza, ma via via i ruoli si invertono fino a che anche gli intervistatori finiscono per essere intervistati. Il cinéma verité è strettamente legato all'altro versante del documentario, il "cinema diretto" che si sviluppa negli Stati Uniti, in Inghilterra e nella provincia francofona del Québec. Il dispositivo a nudo. Nella prima metà degli anni Sessanta il regista Jean Luc Godard realizza una quindicina di opere. È considerato il più sperimentatore e radicale regista della Nouvelle vague, colui che per primo rivoluziona il rapporto tra regia e tecnologia, inaugurando una lunga riflessione sul dispositivo. Questa riflessione riguarda soprattutto la messa a nudo del dispositivo. Realismo e sacralità: Pier Paolo Pasolini. Pasolini appartiene alla generazione che si sviluppa in Italia all'inizio degli anni Sessanta, però per alcuni aspetti rappresenta un'anomalia. In primo luogo perché era già conosciuto come poeta e scrittore affermato, nonché intellettuale interno al mondo del cinema. Esordisce come regista con Accattone. Nei suoi film il fil rouge è il tema della morte intesa come liberazione dal presente difficile da sopportare, intesa come condanna per il tentativo di emanciparsi da un situazione di proletariato e migliorare le proprie condizioni di vita e intesa come unica possibilità per il sottoproletariato di mostrarsi agli occhi del mondo. Dédramatisation. Michelangelo Antonioni esordisce con il film Cronaca di un amore che può essere già considerato un film della modernità poiché nei suoi film ritroviamo un respiro con cui il regista si interroga sui problemi dell'immagine e della rappresentazione. Però i due poli riassuntivi del cinema di Antonioni sono la supremazia dell'immagine e l'elaborazione di personaggi in crisi: il primo aspetto rappresenta una riflessione sullo statuto stesso dell'immagine tanto che la costruzione del film risulta disomogenea sia dal punto di vista temporale che dal punto di vista visivo-sonoro; il secondo aspetto mette in relazione il cinema di Antonioni con il cinema d'autore europeo. Il lavoro di Antonioni è stato inserito in quella che viene chiamata dédramatisation, ovvero la debolezza del senso, la perdita dell'orientamento spaziale, il fatto che i personaggi vagano sulla superficie della loro vita. Federico Fellini. L'elemento vincente di questi conglomerati è quello dell'azione sinergica tra diversi settori dell'intrattenimento ---> la trasposizione di contenuti si afferma come strategia abituale. Possiamo prendere come esempio il caso di Star Treck in cui alla fine degli anni Settanta, i personaggi e le avventure della saga, create per il piccolo schermo, trovano un luogo di continuazione nel cinema, con la produzione di tre serie di film. Alle avventure televisive e cinematografiche si affianca un'intensa produzione sinergica in altri ambiti, vale a dire romanzi, fumetti, videogiochi. Questo è l'esempio di media franchise, ovvero l'azione coordinata di media diversi attorno ad un unico immaginario. Un vantaggio che nasce da questo nuovo sistema di conglomerati è la sinergia di marketing. Un esempio può essere il caso di Flashdance: la Paramount decide di distribuire la videocassetta del film quando il film è ancora nelle sale ---> tecnica vincente. Per la promozione del film è stata anche utilizzata la strada della televisione. Adrian Lyne utilizzando scene tratte dal film, realizza quattro video musicali la cui programmazione televisiva anticipa l'uscita del film nelle sale. A partire da Flashdance, il fenomeno si ripeterà fino ai giorni nostri. Cinema e popular music condividono molto le strategie di mercato; abbiamo molti casi di brani lanciati da film di successo o lungometraggi dedicati a band o musicisti famosi. Ciò che sintetizza l'incontro tra i due mondi è il videoclip. A partire dagli anni Sessanta le band pop di maggior successo iniziano a produrre brevi filmati per accompagnare i passaggi televisivi dei loro brani come ad esempio fanno i Beatles. Però per tutti gli anni Settanta queste clip non sono molto diffuse e soprattutto sono riservate a band di grande successo. L'anno che segna il boom del videoclip musicale è il 1981 quando la rete televisiva MTV avvia le sue trasmissioni. Un altro momento di svolta è il 1983 quando Michael Jackson lancia il videoclip di Thriller. Negli anni Novanta iniziano ad emergere registi specializzati in videoclip musicali come Michel Gondry o Floria Sigismondi. Televisione e home video. Lungo tutti gli anni Ottanta il ruolo dei canali di distribuzione alternativi alla sala, acquista importanza, favorendo uno sviluppo della logica della diversificazione. Quindi a partire da questo momento sono pochi i nuovi progetti di film che venivano messi in produzione senza valutarne il potenziale per la TV. La vera novità del decennio è il boom dell'home video. Come accadde per la televisione, inizialmente anche l'home videoviene ostacolato dall'industria del cinema che vede nei primi esempi di videoregistratori a cassetta, una tecnologia parassitaria; alla fine l'home video si rivelerà in grado di aumentare gli incassi di un film dopo il passaggio nelle sale, infatti gli introiti arrivavano dalla vendita e dal noleggio delle videocassette. Da questo deriva un nuovo sistema che prevede, dopo l'uscita del film nelle sale, la pubblicazione dell'edizione video prima per il noleggio e poi per la vendita. Dopo un paio di mesi il film passa alla televisione e successivamente ai canali a pagamento ed infine alle televisioni nazionali non a pagamento. Si tratta quindi di un sistema che investe molto sulla visione domestica. Il postmodernismo cinematografico. Secondo Laurent Jullier il momento simbolo della stagione postmoderna cinematografica coinciderebbe con l'uscita di Guerre stellari di George Lucas. Questo perché il film esemplifica le due principali tendenze stilistiche che caratterizzerebbero secondo Jullier, il postmodernismo cinematografico: ● Il riutilizzo di elementi stilistici, narrativi e tematici provenienti dal passato ● L'intensificazione del piacere fisico della visione, grazie soprattutto al potenziamento degli stimoli visivi e sonori Il postmodernismo si rivela fin da subito un fenomeno internazionale poiché nasce negli Stati Uniti ma influenzerà molti autori europei. Per Jullier il cinema postmoderno è un dispositivo stilistico orientato a sollecitare il corpo dello spettatore attraverso un "bagno di sensazioni" sia visive che sonore. È necessario però fare una distinzione tra film postmodernisti e film della postmodernità. Nel primo caso ci si riferisce a opere o poetiche d'autore che si fanno interpreti di un rinnovamento estetico che dipende da un'interpretazione del nuovo clima sociale e culturale; nel secondo caso invece si fa riferimento ad una ricerca degli autori postmodernisti un po' parziale o provvisoria che potrebbe essere considerata come semplice "moda". Il cinema postmoderno è legato a due tradizioni principali, il cinema classico hollywoodiano e il cinema moderno europeo (italiano e francese). C'è questo recupero nostalgico e rispettoso dei modelli del passato che però vengono sottoposti a processi di attualizzazione, riscrittura con lo scopo di adeguarli alla contemporaneità. Abbiamo un incontro tra tradizioni diverse: una postmodernità più influenzata dal modello spettacolare del cinema classico e una postmodernità più modernista, influenzata dal cinema d'autore europeo. Le tre caratteristiche principali che definiscono il funzionamento del testo postmoderno sono: ● Uno spostamento dell'attenzione dal contenuto della comunicazione all'atto del comunicare ● Un'azione percettiva che mescola una lettura del presente e un'azione memoriale ● La dimensione metalinguistica e intertestuale dei film che permette un accesso e una partecipazione al testo, molto variabili Tra gli anni Ottanta e Novanta si può parlare di estetica della ripetizione infatti si moltiplica il numero di sequel e remake. Inoltre crescono anche le opere di genere metafilm, film che raccontano la lavorazione di un film e ne descrivono il funzionamento linguistico. Le forme della narrazione. Assistiamo ad un indebolirsi dell'alternanza tra sogno e realtà, una corrispondenza tra motivazioni ed azioni che risulta complicata da meccanismi psicologici non immediatamente comprensibili, lo storytelling sembra essere quasi disturbato dalla presenza di parentesi narrative, rallentamenti, personaggi ed ambienti enigmatici o opachi. I narratori postmoderni sono non onniscienti, ma anche inaffidabili e confusi, risultano indeboliti di fronte al compito di riordinare una storia e scioglierne i nodi. Con questo però la narrazione non è compromessa o negata, infatti il cinema postmoderno mira a soddisfare il piacere del racconto. Caratteristica della produzione di questi anni è una coabitazione di tendenze classiciste e tendenza più barocche, quindi un ritorno all'ordine ma anche un amore per la distorsione. Abbiamo anche l'idea di continuità intensificata, ovvero un montaggio più veloce e una contaminazione tra diverse strategie di messa in scena. Tutto questo rappresenta un ritorno al piacere dell'intrattenimento, alla spettacolarità, al coinvolgimento dello spettatore, ma è anche segno della deriva postmoderna di chiusura del cinema su se stesso. Per questo si passa da un dialogo realtà-cinema, ad un rapporto cinema-cinema. Le forme della messa in scena. Il piano della messa in scena si automatizza. L'elemento di recupero della tradizione si traduce in termini di messa in scena, in uno sganciamento tra le forme e la loro metafisica. Questo causa una contraddizione funzionale tra forme e contenuti. Lo schermo largo diventa una superficie pittorica. Uno degli aspetti più caratteristici è il lavoro della macchina da presa che prende il sopravvento, soprattutto grazie a nuove tecnologie come la louma o la steadycam, destinate a rendere più fluido il movimento della camera. Anche il montaggio viene facilitato da nuove tecnologie, ovvero il montaggio digitale che appare intorno agli anni Ottanta. ---> il risultato è un cinema ipercinetico in cui l'azione e il movimento si impongono come effetto speciale. Capitolo 6: dopo il postmoderno, il cinema contemporaneo. Il passaggio alla società digitale è avvenuto con molta intensità. Abbiamo un nuovo linguaggio, il digitale e una nuova grammatica, il network che ridefiniscono i concetti di informazione e conoscenza. Un concetto principale della nuova società digitale è una facoltà decisionale e operazionale del singolo. Dal punto di vista tecnologico la rivoluzione che si afferma verso la fine degli anni Novanta è guidata da quattro fenomeni principali intrecciati tra di loro: ● La diffusione mondiale a partire dal 2000 di un nuovo medium, Internet, ovvero una rete di reti telematiche ad accesso pubblico di dimensioni mondiali ● La progressiva digitalizzazione di tutti i tipi di informazione ● Il potenziamento e la semplificazione dei software destinati ad elaborare i contenuti ● Lo sviluppo tecnologico degli hardware che ha condotto ad una generazione di personal computer La digitalizzazione ha inoltre favorito il progressivo sganciamento di un determinato medium da una specifica piattaforma tecnologica. Questo significa che oggi un medium non è definito sulla base di un rapporto stabile tra una certa tecnologia, un certo linguaggio e determinate condizioni, oggi tutti i media vivono su piattaforme tecnologiche diverse. Questo permette che un film possa essere visto, oltre che in una sala cinematografica o in televisione, anche su un computer, un tablet, un telefonino, ovvero supporti mobili. Una volta "smaterializzati" in linguaggio numerico, i contenuti sono liberi di spostarsi da un supporto all'altro ---> rilocazione mediale Una conseguenza è la nascita di un nuovo modello di audience, il ruolo del consumatore cambia. La spiccata competenza tecnologica è un qualcosa che invita sempre di più il consumatore a superare il ruolo di semplice "ricettore", per farsi produttore di contenuti originali o reimpaginatore di contenuti già esistenti. Un esempio può essere Youtube che nasce nel 2005. I linguaggi e le singole forme testuali vengono sottoposti a processi di integrazione, scambio e ibridazione. Oggi esiste un regime di rimediazione ovvero di appropriazione da parte di un medium, di tecniche, forme e significati sociali messi a punto da altri media. Così i linguaggi, le forme testuali e le significazioni sociali vanno incontro a dei processi di fusione semantica e fenomeni di riorganizzazione sintattica, ovvero il dialogo di media differenti all'interno di uno stesso ambiente. statunitensi in cui si mostra la determinazione degli eroi americani di fronte alle avversità. Negli anni successivi vengono anche realizzati film che affrontano invece le ripercussioni della tragedia a livello sociale e sugli scenari globali, come ad esempio 11 settembre 2001, quindi tutti questi film sembrano rappresentare solo la condizione post 11 settembre. Al giorno d'oggi esistono documentari realizzati a partire dai video dei testimoni---> Es.: Turning Point Sempre riguardo alla vicenda dell'11 settembre abbiamo un altro film molto importante, Zero Dark Thirty di Bigelow. È un film molto particolare poiché il regista sceglie di cominciare oscurando ciò che è l'inizio della storia che poi si racconta, la cattura e l'uccisione di Osama Bin Laden. Capitolo 7: autore. La nozione di autore ha visto vari ripensamenti, revisioni, cambiamenti di rotta con conseguenti modificazioni. La nozione di autore in uso non è definitiva, qualcosa che è sempre stato così, anzi, è un concetto che ha una storia, uno sviluppo, un processo di definizione lungo e contrastato. É importante la differenza tra il cinema europeo e quello americano: nella tradizione americana il lavoro intellettuale è completamente integrato nel ciclo produttivo, mentre l’intellettuale europeo ha spesso privilegiato una relazione diretta con il pubblico, fuori dai rapporti di produzione. A Hollywood l’autore, dopo aver visto riconosciuto il suo ruolo, tende a costruirsi degli spazi di autonomia realizzativa all’interno del ciclo produttivo. In Europa il riconoscimento del regista procederà parallelamente con l’attribuzione alla sua figura di una competenza espressiva e comunicativa; diventerà agli occhi del pubblico il garante comunicativo del film. Parlando di autore cinematografico, possiamo far riferimento a tre accezioni differenti: - DIRITTO D’AUTORE ---> l’autore in questo caso viene considerato come colui che detiene la proprietà intellettuale dell’opera; questo comporta che il film venga considerato un’opera d’arte e pertanto ricade tra gli oggetti disciplinati dalle varie normative nazionali e internazionali. Il campo legislativo prevede una distinzione tra diritti morali (inalienabili, riguardanti il controllo sull’opera) e patrimoniali (relativi allo sfruttamento dell’opera). - AUTORE COME RUOLO PROFESSIONALE ---> durante il primo decennio del Novecento vengono definiti dei ruoli professionali specifici. Inoltre il cinema comincia ad avere un prodotto specifico, il film, che viene fruito come oggetto autonomo e identificabile. Questo vuol dire che in quanto oggetto autonomo, il film può essere proposto come oggetto artistico a cui corrisponde un’intenzione d’autore. Questo però è una contraddizione perché a un oggetto ben definito, il film, non corrisponde un soggetto altrettanto facilmente individuabile, l’autore. Per questo la paternità autoriale rimarrà a lungo incerta. Durante questi anni succede che ad essere definiti autori sono anche lo scenografo, l’operatore, l’attore e soprattutto le case di produzione. Louis Delluc, esponente della prima avanguardia francese, lancia nel 1921 il termine “cinéaste” per indicare chiunque sia coinvolto nell’attività cinematografica, compresa la figura del critico o del teorico. Solo a partire dagli anni Trenta, il termine assume il significato più vicino a quello che è il significato di oggi. - AUTORE COME RUOLO ESTETICO ---> in questa accezione l’autore è considerato come il soggetto responsabile di un’intenzione d’autore, di una volontà autoriale che è il presupposto e il criterio generativo dell’opera. L’attribuzione estetica c’è se il film appare come opera autonoma e se è possibile individuare un responsabile materiale ideativo e realizzativo del film. Quindi il regista è l’unico responsabile del valore estetico di un film. In Francia, tra la fine degli anni Dieci e i primi anni Venti, un gruppo di giovani intellettuali, sviluppano l’idea di valorizzare le possibilità di un’arte nuova, a favorire la diffusione del discorso autoriale; il loro movimento viene definito “avanguardia”. La decima sinfonia di Gance è l’opera che sta alla base della prima avanguardia francese, è il primo film d’autore inteso in senso estetico. Invece il primo film d’autore francese è in realtà americano, I prevaricatori di DeMille; fu quando venne proiettato questo film che molti intellettuali capirono le potenzialità artistiche del cinema. Quindi furono americani, i primi cineasti ad essere considerati autori a pieno titolo. Già a metà degli anni Venti l’identificazione tra autore e regista sembra del tutto acquisita, però le discussioni emergono nei due decenni successivi, discussioni riguardanti il ruolo che l’autore deve avere: sociale, politico o estetico. Dal punto di vista estetico, per la politique des auteurs francese, l’identificazione non è più biunivoca, in quanto l’autore è regista, ma non tutti i registi sono autori. Per i critici della politica degli autori, il soggetto del film è anche la sua messa in scena, la quale è materia stessa del film. La politique però rifiuta la norma estetica della tradizione: l’opera di un autore non sottostà alle regole di riuscita o insuccesso, poiché essa si inserisce in un corpus omogeneo che ne riscatta le singole parti di fronte al rischio di fallimento. Questo significa che un film è legato ad un insieme più grande di testi e deve essere giudicato rispetto ad esso. Prodotti di genere/prodotti di marca. DI COSA PARLIAMO QUANDO PARLIAMO DI CINEMA D’AUTORE DURANTE IL POSTMODERNO? IN CHE MODO SI COSTRUISCE LA PRESENZA DELL’AUTORE NEL CINEMA DEL GIORNO D’OGGI? La questione che preoccupa maggiormente i registi è costruire sé stessi come autori e come “marchi di fabbrica”. Quest’ultimo è una sorta di antidoto contro il rischio di cancellazione della figura autoriale, rischio tipico del sistema dei media contemporanei. L’interesse dello spettatore cambia, in quanto egli non è più interessato al racconto, alla vicenda in sé, ma a come la vicenda viene raccontata. Il cinema postmoderno tenta continuamente di occupare lo spettatore, di riconoscerlo e di farsi riconoscere. Come gli altri prodotti dell’industria culturale, il film è il risultato di un’attività industriale ed è destinato al mercato, quindi si trova in un regime di concorrenza con prodotti simili. È quindi necessario lo sfruttamento di un marchio, di un’etichetta identificativa che implica una serie di aspettative nei confronti delle situazioni e dei personaggi. Ci si può quindi ricollegare alla logica del brand e al fatto che l’autore è testimonial del suo stesso lavoro. Capitolo 8: genere. Ripetizione e variazione. Un film di genere è un film che “abbiamo già visto” ---> lo spettatore medio che va al cinema per distrarsi, vuole che gli si racconti sempre la stessa storia. L’industria del cinema ha fatto ricorso ai generi, sin dalle sue origini, soprattutto per ragioni finanziarie: da un lato i generi permettono dei soddisfacenti risultati economici (se racconto sempre la stessa storia, solamente con piccole variazioni, risparmio sui materiali narrativi e, se possiedo dei teatri di posa, posso riutilizzare set e costumi); dall’altro i generi, come anche i divi, cui sono strettamente legati perché i divi solitamente sono specializzati in generi, producono meccanismi di fidelizzazione, spesso stabilendo un rapporto privilegiato con certe fasce di pubblico (il melodramma è per le donne, il bellico per gli uomini, l’horror per gli adolescenti). Il cinema ha ereditato i generi dalla letteratura e dal teatro ottocenteschi. I generi cinematografici sono una continuazione,con un altro medium, di modelli nati altrove. A sua volta, il cinema ha lasciato in eredità ai media successivi, la televisione e il sistema dei generi che ha elaborato. I generi possono essere considerati come grandi contenitori di storie e personaggi, i quali trovano espressione in più media che si influenzano reciprocamente. Se un film di genere è un film che “abbiamo già visto”, di conseguenza il genere è legato a fenomeni come il remake, il sequel e alla tendenza del cinema di produrre sempre adattamenti di romanzi che hanno avuto successo, perché così si tenta di replicare il risultato positivo. In realtà il film di genere, non è propriamente un film che abbiamo già visto, perché il sistema dei generi si basa sulla dialettica tra ripetizione e variazione. Ripetizione ---> si racconta la stessa storia, infatti un film per essere identificato come appartenente ad un determinato genere, deve presentare degli elementi (il musical deve avere numeri di canto e ballo, in un horror ci devono essere eventi soprannaturali e spaventosi). I generi si definiscono in base a criteri disomogenei: alcuni sono caratterizzati dalla collocazione spazio-temporale (il peplum è un film che si svolge nel mondo antico, un fantasy narra una storia ambientata in un Medioevo fantastico); altri generi si definiscono in base all’impianto narrativo (la commedia romantica racconta una storia d’amore a lieto fine, un biopic ricostruisce la vita di un personaggio illustre); altri ancora differiscono per l’ambientazione sociale (i gangster movies hanno come eroi, malviventi che si muovono nell’ambito criminale di una grande città); ci possono inoltre essere marche stilistiche che definiscono un genere, come il racconto a flashback, l’illuminazione contrastata del noir. Variazione ---> un genere cinematografico prevede un sistema di norme, ma anche la loro trasformazione, fino ad arrivare in alcuni casi ad una vera violazione. Ad esempio per tutti gli anni Cinquanta e Sessanta, la fantascienza è un genere considerato di serie B, ma alla fine degli anni Sessanta diventa genere di serie A e si rivolge agli spettatori adulti. Spesso i generi sono stati descritti attraverso metafore biologiche, ovvero in ogni genere è possibile riscontrare un’infanzia, un’età adulta e una decadenza. Ma se si osserva la storia del cinema di fantascienza, notiamo che le cose sono più complicate, in quanto alle origini troviamo opere tutt’altro che infantili, come Metropolis di Lang o Star Wars con il quale torniamo al livello di divertimento più infantile e adolescenziale. Rick Altman dice che i produttori da un lato vogliono riutilizzare soluzioni già sperimentate, dall’altro vogliono comunque presentare il proprio prodotto come diverso rispetto alla concorrenza, poiché il pubblico, oltre a sentirsi raccontare la stessa storia, vuole anche la novità. Secondo Altman, i produttori preferiscono ragionare in termini di ciclo più che di genere: il genere è un’etichetta ampia, che mette insieme prodotti di case di produzione diverse, mentre il ciclo è una serie di film più piccola, che si muove nell’ambito del genere. Il ciclo è proprietà di una singola casa di Stile, tecnologia, forma. L’analisi dello stile viaggia parallelamente con l’analisi del modo di produzione, un concetto proveniente dalla filosofia marxista con cui si definisce lo sviluppo storico della relazione tra strutture sociali e sistemi produttivi. C’è uno stretto legame tra stile, tecnologia ed economia. Attorno allo stile convergono questioni storiografiche, la costruzione di un linguaggio e dinamiche tecnologiche legate al modo di produzione. In questo contesto, lo stile funziona come un paradigma, uno spazio in grado di assorbire le trasformazioni della tecnologia e del linguaggio senza cambiare gli elementi di fondo. Bordwell, Staiger e Thompson operano su un insieme statistico di film, analizzando la produzione di media il più possibile precisa per rispecchiare la cifra seriale e standardizzata del cinema americano classico. Inoltre faranno anche studi riguardanti lo stile. Tuttavia è in particolare a Bordwell che si riconosce lo sviluppo di un modello di analisi chiamato problem solving, in cui la scelta stilistica viene utilizzata come soluzione di regia a un problema di natura tecnica. Inoltre propone di considerare almeno tre modi di sviluppo della forma filmica che esulano dal cinema classico: art cinema, historical-materialist (in riferimento alle ricerche sul montaggio del cinema sovietico degli anni Venti), parametric (applicabile a casi di autori e film che non fanno parte di un sistema). Il rapporto tra stile, tecnologia e storia del cinema, viene esplorato in modo ancora più radicale, da Barry Salt che propone la statistical style analysis, un censimento sistematico della ricorrenza di figure di linguaggio e di procedimenti tecnici in determinati periodi storici. Stile, cultura discorso. Nell’ambito della storia del cinema, lo studio dello stile presenta una prospettiva diversa. Nella prospettiva formalista di Bordwell e Thompson o in quella statistica di Salt, lo stile è in rapporto con il modo di produzione e con la tecnologia, ora invece diventa l’interfaccia tra un testo e un contesto. In questa concezione, ci si interroga sullo sviluppo storico e culturale di singoli elementi del linguaggio cinematografico. Inoltre lo stile viene considerato come cultura, gioco di rimandi tra problemi interni al testo e la visione del mondo che lo sottende; in questo contesto il film è partecipe, testimone e agente. L’idea di stile nel progetto culturale del cinema moderno. IN CHE MODO LA NOZIONE DI STILE LAVORA ALL’INTERNO DELLE QUESTIONI STORICHE, ESTETICHE E TEORICHE DEL CINEMA MODERNO? Nell’ambito del cinema moderno, la nozione di stile si può studiare mettendo in gioco alcuni concetti e strumenti d’analisi, da quelli elaborati da Bordwell a una ripresa del concetto di attrazionalità. Il compito dello stile è quello di favorire il più possibile la vocazione realistica del linguaggio cinematografico, di limitare i trucchi e le manipolazioni e di trasformare l’atto delle riprese in un momento conoscitivo e non solamente esecutivo. Lo stile può essere visto non solo come una risposta alle sollecitazioni della tecnologia, ma anche alle contraddizioni sociali e al rapporto tra arte, élite borghesi e cultura di massa. Leonardo Quaresima richiama l’attenzione sulle cosiddette “unità di stile”, cioè segmenti di temi, motivi, figure ricorrenti, ritagliati e isolati dallo studioso all’interno della storia del cinema. Gli studi sul film sembrano in molti casi riuscire a trasformare le criticità della nozione di stile, in un punto di forza. Capitolo 10: tecnologia. Secondo Barry Salt, tutta la nostra tecnologia, compresi gli elementi su cui si fonda il cinema, non potrebbe esistere senza un pensiero razionale, causale, elemento centrale in quello che lui definisce “Realismo scientifico” → ambito di pensiero in cui è fondamentale l’interazione tra teoria e sperimentazione. Invece la posizione di André Bazin, è contrapposta. Per lui il cinema è un fenomeno idealista che non deve quasi nulla allo spirito scientifico. Il cinema nasce e si afferma per rispondere ad un bisogno idealista, profondamente radicato nella sua matrice materialistica e tecnologica. La tecnologia cinematografica ha il compito di restituire nel modo più credibile possibile, ciò che appare fotografabile e presentabile sugli schermi e anche produrre e imporre immagini nuove che contribuiscono ad ampliare il visibile. Il cinema inoltre nasce come “fotografia animata”; animare la fotografia infatti è il modo più efficace affinché la vita sia colta sul fatto nel suo lato più quotidiano e normale, ma anche nel suo lato più fantasioso. Basta una minima manipolazione purché il cinema del reale si trasformi in cinema del surreale. Qui risiede la contraddizione che sta alla base del compositing digitale: da una parte si vuole cogliere la vita e il tempo nel suo fluire, ma allo stesso tempo si utilizza la computer grafica e il fotomontaggio. La pelle delle immagini. Il film è letteralmente una piccola pelle (pellicola appunto), che proprio come la pelle umana, è soggetta ad invecchiamento, il quale è visibile attraverso striature, rigature, salti, dissoluzioni. È interessante notare come nel primo manuale italiano sul cinema, si sottolineasse la continuità tra cinema e fotografia, evidenziandone la dimensione materica. A sostituire la vecchia pellicola, non è un nastro o una memoria, ma il sensore o trasduttore, l’unico elemento fotosensibile di qualsiasi dispositivo di ripresa numerico, posizionato, proprio come la pellicola, subito dietro l’obiettivo. È a partire da questo elemento che si può comprendere la distinzione tra immagini numeriche e immagini chimiche. Il sensore è dotato di un numero preciso di minuscoli elettrodi, uno uguale all’altro, sistemati in ordine geometrico su una griglia bidimensionale divisa in celle; l’emulsione chimica invece è formata da microelementi irregolari e disposti in ordine caotico nello spazio. La fedeltà al reale è la peculiarità che contraddistingue le immagini ottenute tramite la pellicola; questo però presenta un problema rimarcato dall’avvento della tecnologia digitale: il modo in cui si persegue l’analogicità delle immagini, non risulta mai del tutto immediato, naturale, bensì basato su una codificazione complessa individuabile nella scala dei grigi. Questo è evidente agli esordi del cinema, quando l’utilizzo di emulsioni ortocromatiche (sensibili solo alla gamma dei blu e dei verdi), costringe registi, scenografi, costumisti e direttori di fotografia, ad adeguarsi e di conseguenza a organizzare il profilmico in maniera condizionata. A partire dal 1922, con l’introduzione da parte della Kodak della pellicola pancromatica sensibile a tutto lo spettro del visibile, tutto cambia, si hanno minori limitazioni. Prima dell’avvento del colore, si utilizzavano sistemi di tintura su ogni singola inquadratura; il cinema muto conferiva un codice cromatico, a ogni tonalità corrispondevano certi caratteri della scena. Poi veniva utilizzata la colorazione a pochoir, la quale in qualche modo anticipa la complessità del Technicolor, il più famoso sistema di registrazione del colore lanciato da Walt Disney nel 1932. Per quanto riguarda il suono, la presenza di un codice è ancora più evidente perché é una scrittura della luce a incidere sulla pellicola la colonna sonora. Essa si presenta come una colonna ottica ad area variabile, derivata dall’impressione di segnali luminosi su un lato della pellicola i quali, affinché possano essere riprodotti i suoni, devono essere letti o decodificati da un’apposita cellula fotoelettrica del proiettore. La trasparenza del mondo. Quella delle origini è una pratica cinematografica caratterizzata dalla necessità di “espletarsi al sole”. Questo è evidente nelle riprese in esterno, tuttavia agli inizi anche in studio era la luce naturale ad essere la principale fonte di illuminazione, come testimonia la struttura in vetro voluta da Méliès vicino a Parigi o il Black Maria negli Stati Uniti, un teatro di posa rotabile dotato di una parte superiore e frontale apribile, per poter far entrare quanta più luce possibile. Luce e trasparenza sono delle parole chiave. Luce → illumina ogni cosa rendendo penetrabile una visibilità altrimenti inaccessibile Trasparenza ---> condizione propria delle superfici attraverso le quali la luce espleta la sua azione. Questi due elementi riguardano la pellicola che grazie alla sua semitrasparenza, fa sì che la luce l’attraversi, dopo che da essa è stata impressionata tramite il vetro del corpo ottico durante la ripresa. Luce e trasparenza sono anche alla base dei primi effetti visivi. Ad esempio il retoscoping, procedura che dà ai personaggi delle opere di animazione, di un movimento più realistico e naturale possibile. La trasparenza in questo caso è quella del foglio di celluloide posizionato sul vetro smerigliato attraverso il quale vengono proiettate le immagini di una controfigura umana, fotogramma per fotogramma, per poi essere ricalcate a mano. Un altro esempio è l’effetto Schüfftan, basato sull’utilizzo di uno specchio biriflettente posto a 45 gradi rispetto alla macchina da presa in modo da riprodurre il riflesso di miniature e oggetti collocati frontalmente in maniera ingrandita, mentre parti del vetro raschiate fanno sì che la macchina da presa guardi in direzione dei personaggi o delle sezioni scenografiche che così si integrano con i modellini. Infine c’è l’esempio che prende proprio il nome di “trasparente”, uno dei trucchi più utilizzati dal cinema hollywoodiano e in particolare da Alfred Hitchcock; esso consiste nella retroproiezione di sequenze paesaggistiche su uno schermo traslucido di fronte al quale si posizionano gli attori. Black box. L’origine della macchina da presa è la camera oscura, studiata già nell’XI secolo dall’arabo Alhazen, descritta come procedimento per disegnare edifici e paesaggi dal vero. produzione, le leggi che regolano questa produzione, le prassi realizzative, una serie di figure individuali che offrono un contributo creativo. Quando bisogna scegliere i film degni di nota e di approfondimento, emerge un’evidenza. Il processo tramite il quale vengono scelti, fa sì che le opere dei “maestri” abbiano ampi spazi e che quelle presentate da etichette di generi e commerciali non vengano approfondite più di tanto. Questo perché tutti i film sono commerciali, in quanto prodotti grazie ad un investimento di capitali, e tutti i film in qualche modo sono di genere. Di conseguenza tali film sono considerati meno importanti perché meno belli o rivolti ad un pubblico meno colto ed intelligente. Storicamente la cultura cinematografica italiana è un ambiente che si sviluppa parallelamente al processo di modernizzazione del paese, elaborando delle strutture nel corso degli anni Trenta e approfondendole nel corso degli anni Sessanta. Il dibattito italiano di questo periodo ruota intorno a una lettura di Gramsci: egli nota come il dibattito a lui contemporaneo fornisca affreschi d’insieme sull’industria culturale nel suo complesso, ma relativamente poco applicati a specifici oggetti o insiemi di opere, in particolare per quanto riguarda il periodo che va dal boom economico all’avvento della televisione. Questo accade forse per la particolare difficoltà che questo periodo presenta agli occhi di chi vuole analizzarlo. Lo studioso Vittorio Spinazzola propone il primo studio, per molto tempo unico, su ciò che è stata definita la rappresentatività sociale del cinema. Egli afferma che il cinema può essere specchio della società solo in quanto è realtà sociale esso stesso. Spinazzola cerca di adottare nei confronti dello spettacolo cinematografico un approccio descrittivo che parte da una realtà inconfutabile ---> il cinema è prima di ogni altra cosa, quello che viene visto in sala da un ampio numero di componenti di una società. Ogni sua analisi parte dal dato relativo agli incassi; quindi il successo di un film e quindi la sua popolarità non è una variabile indipendente, ma qualcosa che ha sempre delle ragioni. Inoltre lo studioso dice che se il pubblico rifiuta qualcosa che dovrebbe interessarlo per adottare delle diverse abitudini di consumo, ci sono delle ragioni precise da indagare. Il pubblico quindi è un insieme di soggetti che, attraverso la fruizione cinematografica, esprimono un agire sociale. Codificare e decodificare un film. Fausto Colombo nelle sue analisi dell’industria culturale italiana, traccia uno schema di funzionamento del rapporto tra produttore e destinatario del prodotto, sottolineando che il successo non è mai un fatto del tutto estrinseco o intrinseco al prodotto, ma è uno dei fatti che costituiscono i nodi di una rete comunicativa. Questa è una delle possibili applicazioni del modello di codifica e decodifica elaborato da Stuart Hall negli anni Settanta e che ha influenzato fortemente lo sviluppo dei Cultural Studies. È un modello elaborato nell’ambito della televisione, ma è anche applicabile al cinema. Lo schema parte dal presupposto che un prodotto circola sempre in forma discorsiva e come tale viene distribuito a diversi tipi di pubblico. Una volta messo in opera, il discorso deve essere tradotto in pratiche sociali, quindi in qualcosa di concreto. Se il discorso non assume alcun significato, non ci può essere nessun consumo. L’importanza del contributo di Hall dipende soprattutto da due fattori: - il processo di comunicazione insito nella relazione tra produttore e consumatore non può essere ridotto all’interno di un sistema chiuso e lineare, poiché la struttura è più complessa in quanto formata da momenti distinti: produzione, circolazione, distribuzione/ consumo e riproduzione. - il messaggio codificato deve essere decodificato ed essere tradotto in pratiche sociali: intrattenere, istruire, persuadere. Non c’è nessuna corrispondenza necessaria tra codifica e decodifica; in genere la prima cerca di orientare la seconda e se vede che il messaggio non passa, si preoccupa di verificare che non si sia rotto qualcuno degli anelli della catena. Hall dice anche che l’idea degli autori è quella di una comunicazione trasparente, questo non accade perché devono confrontarsi con una comunicazione sistematicamente distorta. Infatti il destinatario/consumatore ha tre opzioni a disposizione: decodificare il messaggio in maniera aproblematica, utilizzando il codice “egemonico-dominante”; utilizzare per la decodifica un codice negoziato, come avviene nella maggior parte dei casi (combinare la ricezione del messaggio secondo il codice dominante in senso astratto e poi applicare in modo concreto una decodifica secondo le proprie regole di base); può operare secondo un codice oppositivo, decostruendo il messaggio secondo il codice dominante e poi ricostruirlo in modo completamente opposto all’interno di una cornica alternativa di riferimento. Egli infine afferma che è ancora possibile parlare di cultura popolare quando i modi con cui un prodotto culturale viene decodificato e utilizzato, rientrano nel quadro di ciò che si può chiamare “lotta di classe”. Quando cioè un film, un libro o un brano musicale è usato come strumento di lotta sociale per rivendicare un riconoscimento identitario o di diritti da parte di gruppi che sono o si sentono svantaggiati o discriminati. Capitolo 12: spettatore. Contemporaneamente al processo di istituzionalizzazione del cinema, si afferma il modello dello spettatore mesmerizzato, dissociato dal contesto e concentrato sullo schermo e immerso nei mondi fittizi che i film costruiscono. Come spiega Ruggero Eugeni, all’inizio del Novecento, si diffonde una preoccupazione tra intellettuali e osservatori riguardo alla diffusione delle nuove forme di intrattenimento di massa. Infatti il cinema, potente strumento di manipolazione e persuasione, trascina lo spettatore in balia delle suggestioni dello spettacolo filmico, soprattutto se lo spettatore appartiene a categorie considerate “a rischio”, ovvero bambini, donne e negli Stati Uniti gli immigrati. L’esperienza di fruizione da parte dei bambini, nei primi decenni del Novecento diventa oggetto di numerosi interventi e ricerche che culminano nel progetto voluto dal reverendo William Short e finanziato dalla Payne Study and Experiment Fund. Questi studi, realizzati tra la fine degli anni Venti e i primi anni Trenta, raccolgono un insieme di dati sugli effetti deleteri del consumo di cinema nei bambini e negli adolescenti. Questi studi alimentano i timori che la società occidentale nutre nei confronti del cinema, ma rappresentano anche un importante snodo negli studi sulla spettacolarità cinematografica. Infatti da questa esperienza nascono due linee di ricerca: da un lato le ricerche empiriche sui pubblici, sulla loro ampiezza e composizione, sulla frequenza e le abitudini di consumo; dall’altro una riflessione di carattere prettamente teorico. A partire dagli anni Quaranta, la questione del pubblico di cinema diviene marginale, non un oggetto di studio in sé, se non nella forma del sondaggio funzionale a guidare gli investimenti e le scelte delle majors. Negli anni Settanta il problema dello spettatore di cinema torna ad essere oggetto di riflessione. Jostein Gripsrud descrive questo ritorno come “il ritorno del mosso”, espressione che sottolinea due elementi: da un lato il superamento della censura e dall’altro l’importanza della psicoanalisi come quadro teorico e metodologico, attraverso il quale si analizza l’esperienza dello spettatore. La storiografia riconosce due nuclei di riflessione che caratterizzano il dibattito sull’esperienza di visione e il pubblico all’inizio degli anni Settanta: gli studi che si focalizzano sulle condizioni strutturali (produttive e di fruizione) dell’esperienza del cinema e gli studi sul dispositivo che invece si focalizzano sul testo filmico e sulle sue strategie di coinvolgimento dello spettatore. Entrambe le linee di studio restituiscono un’idea di spettatore influenzato dalle condizioni della visione e dalle strutture del testo e indotto a identificarsi con i mondi che i film rappresentano e con il punto di vista che il cinema restituisce. Queste teorie vengono elaborate e monopolizzano il dibattito, proprio nel momento in cui le condizioni di visione e le forme testuali stanno entrando in crisi. Vedere oltre. Il superamento delle teorie dell’apparato e del dispositivo non è una conseguenza delle mutate condizioni della visione, ma avviene dall’interno. Le teorie “cine-psicoanalitiche” stabiliscono un nesso tra la visione cinematografica e i processi di costituzione della soggettività. Per queste teorie l’esperienza di visione innesta un processo regressivo che porta lo spettatore a rivivere alcune delle fasi che hanno caratterizzato il percorso di costruzione della soggettività. L’analogia più nota è quella tra l’esperienza filmica e la fase dello specchio enunciata da Metz. Il rapporto con il film dentro la sala non solo risveglia in qualche modo le corde intime dello spettatore, ma diventa parte costitutiva della sua identità e quindi uno strumento che lo posiziona sia rispetto al film e a quanto rappresenta, sia rispetto alla realtà sociale. Questo rapporto sta alla base delle teorie dello spettatore posizionato, cioè le teorie che attribuiscono alla fruizione cinematografica un ruolo decisivo nella costruzione della soggettività degli spettatori e del loro modo di “essere nel mondo”. Questo alimenta negli anni Settanta un ampio dibattito sulle responsabilità del cinema nella costruzione e nella legittimazione del sistema sociale. Questo dibattito intercetta e si salda con la critica femminista. All’inizio degli anni Settanta i movimenti femministi entrano in quella che viene chiamata “seconda fase” e che si caratterizza per un’estensione dell’azione politica verso la dimensione del simbolico. In questi anni matura il convincimento che la lotta per l’emancipazione femminile non si debba condurre solo nelle piazze, ma anche intervenendo sull’industria culturale, sulle sue logiche e sui modelli di femminile e maschile che essa veicola. A inaugurare questa stagione importante è un saggio pubblicato da Laura Malvey, Visual Pleasure and Narrative Cinema. Malvey analizza come il cinema entra in gioco nei processi di costruzione dell’identità degli spettatori, compresa l’identità di genere. In questo saggio la teoria del dispositivo viene utilizzata per denunciare la tolleranza tra cinema hollywoodiano e interessi patriarcali e per spiegare come i film classici costruiscano il primato del maschile sul femminile. Nelle produzioni hollywoodiane il soggetto portatore dell’azione, dal quale dipende l’evolvere delle situazioni, ha tratti maschili, mentre i personaggi femminili hanno il ruolo di oggetto del desiderio. Sono figure passive, assenti se non nel momento in cui diventano oggetto dello sguardo desiderante del protagonista. Questo implica che lo spettatore, che sia uomo o donna, è indotto ad allinearsi con il personaggio maschile, a guardare il mondo con i suoi occhi, ad aderire al suo punto di vista che secondo Malvey è patriarcale. La posizione dello spettatore in relazione alla costruzione dell’identità sessuale, presenta delle problematiche: la struttura del cinema classico sembra prevedere una visione gratificante solo per gli uomini; le donne invece sono portate a negare la propria identità di genere perché la loro esperienza di visione viene compromessa per quanto detto prima. Emerge anche una nuova e più complessa figura di fruitore, lo spettatore esuberante. È un modello che ritroviamo sia nel dibattito femminista che nel movimento che viene definito “revisionismo storico”. Difetti di visione. Le forme di racconto seriale si prestano alla distribuzione di contenuti narrativi su diverse piattaforme di fruizione, nonché al riciclo di nuclei tematici secondari rispetto alla narrazione principale. I modi in cui questo avviene sono sequels, remakes, spin-off e crossovers. Il remake è una pratica che spesso si basa sulla conoscenza diretta dell’originale: l’originale viene utilizzato come materia prima; storie, personaggi e situazioni si ripetono; ciò che cambia è lo strumento con il quale viene realizzato il rifacimento; inoltre a cambiare è anche il contesto culturale e ovviamente il modo in cui ogni singolo regista decide di mettere in scena la storia. Spin-off e crossover sono invece pratiche della serialità televisiva, ma di cui si possono trovare casi anche in ambito cinematografico. La prima riguarda l’utilizzo di un personaggio secondario di una serie come protagonista di un nuovo prodotto. Un esempio può essere Private Practice che viene da Grey’s Anatomy, oppure Il gatto con gli stivali il cui personaggio è apparso per la prima volta in Shrek 2. La seconda pratica prevede la sovrapposizione di due diversi universi narrativi, facendo incontrare personaggi che appartengono a prodotti diversi; è una pratica molto usata in ambito televisivo per questioni di marketing. Tra le tendenze più recenti abbiamo quella del reboot che consiste nello scontro tra i meccanismi del racconto seriale con l’esigenza di riconquistare il pubblico di un determinato prodotto. Questo perché può accadere che il pubblico sia attratto da altre forme di intrattenimento (videogiochi, web etc…) e questo lo porta a distogliere l’interesse da un prodotto che fino a quel momento aveva riscosso grande successo. Per riportare l’attenzione sul prodotto il sistema più utilizzato è quello del reboot o riavvio, che mira a rinfrescare prodotti svecchiandoli e adattandoli alle nuove audience e alle nuove tecnologie di diffusione e fruizione. Attraverso questa pratica quindi si riscrive, interamente o parzialmente, eventi che sono già stati raccontati con l’intento di ricavare qualcosa di nuovo. Rapporto tra cinema e televisione. Un caso di rapporto seriale tra cinema e televisione è quello di film per il grande schermo ispirati a serie tv o viceversa, quello di serie tv ispirate a film destinati al grande schermo. Nel primo caso si fa leva sul piacere di ritrovare elementi già noti, che legano lo spettatore al prodotto televisivo. Prodotti di questo genere sono spesso frutto di un intervallo di tempo trascorso tra la messa in onda della serie e l’uscita del film. Nel secondo caso invece la conoscenza del film non sembra essere necessaria. Infatti vengono riproposti allo spettatore televisivo, personaggi, ma soprattutto ambienti, situazioni e dinamiche presenti nel testo di riferimento. È anche vero però che la frammentazione della vicenda in più episodi riempie il prodotto televisivo di elementi utili alla comprensione anche dello spettatore che non ha visto il film. Il modello produttivo della serialità negli ultimi anni ha interessato anche il web. Le webseries riescono a soddisfare i bisogni di un pubblico sempre più esigente, offrendo prodotti di alta qualità ma a costi contenuti. Si tratta di prodotti a episodi, con una durata media piuttosto breve (8-10 minuti), adatti alla fruizione attraverso device come computer o telefonini. Il punto di forza di queste produzioni è sicuramente rappresentato dalla facile accessibilità, ma anche per il fatto di essere prodotti concepiti per sfruttare al massimo le potenzialità interattive di Internet, elaborando un nuovo linguaggio e un’esperienza di fruizione innovativa. Capitolo 14: attore. L’attore costituisce una costante per il cinema; fin dalle origini la presenza di interpreti incaricati di costituire e sostenere una rappresentazione ha qualificato un’ampia parte dei prodotti cinematografici. A prescindere dalla provenienza formativa, questi attori sono tutti istruiti per interpretare personaggi che costituiscono una parte imprescindibile della narrazione. La gran parte delle riflessioni si è focalizzata sul fenomeno socialmente ed economicamente rilevante, ma quantitativamente limitato e non esclusivo: il divismo. Solo pochi interpreti sono star e la loro presenza non cancella quella di altre tipologie attoriali. Si può quindi affermare che l’attore qualifica e specifica il cinema, nonostante sia un oggetto elusivo, sfuggente. Il cinema è in grado di produrre situazioni rappresentative e narrazioni a prescindere dall’intenzionalità degli interpreti; inoltre gli attori non devono necessariamente avere sembianze antropomorfe. In sostanza la rappresentazione cinematografica può generare personaggi indipendentemente dal fatto che dei soggetti senzienti si siano impegnati a produrli, attraverso un insieme di gesti, atteggiamenti, quindi i personaggi possono formarsi grazie a elementi non umani. Corpi e macchine: il ruolo della tecnologia. L’introduzione di nuove tecnologie di ripresa e della riproduzione tecnica delle immagini tra XIX e XX secolo, ha avuto una serie di conseguenze. In primo luogo abbiamo una ritrovata centralità della dimensione corporea dopo secoli di predominio del linguaggio e della scrittura. Il corpo costituisce un’istanza capace di generare significazione; si tratta di cogliere un elemento di senso generato inconsapevolmente da un corpo, a prescindere da una coscienza e da un’intenzionalità psicologica. Questo elemento è alla base anche di specifiche poetiche d’autore, tra le quali quella più nota è la poetica di Robert Bresson. In opposizione a questo modello, si è diffusa un’ipotesi alternativa: il corpo-macchina. Questo modello coincide con la celebrazione della dimensione tecnologica del medium, ovvero la necessità di sottomettere tutte le componenti significanti a un controllo matematico. Il corpo- macchina è un tema molto discusso nella cultura della modernità e si traduce nell’ambito cinematografico in un’ampia presenza di figure robotiche (Metropolis). Nel XX secolo abbiamo due fattori rilevanti che saltano all’occhio di artisti e commentatori: la frammentazione e l’autonomia dell’immagine rispetto all’istanza produttrice. In primo luogo è il corpo dell’interprete ad essere sezionato per valorizzarne singole componenti (dettagli di occhi, mani, braccia). Questo comporta un differente impiego del corpo attoriale e una sua diversa concezione da parte dell’interprete stesso. L’unità fisica dell’attore è pregiudicata dall’organizzazione della successione delle immagini, capace di costruire un insieme astratto attraverso elementi prelevati da diversi soggetti: è il caso di alcuni esperimenti di montaggio condotti soprattutto dal russo Kulesôv, nei quali si producevano personaggi combinando inquadrature di parti corporee di differenti attori; si fa riferimento anche all’utilizzo di stuntmen e controfigure, il cui compito consiste nel creare un’unità fittizia nella momentanea sostituzione dell’interprete principale. Questo ha condotto ad una valorizzazione di specifiche parti del corpo che “parlano da sole”, come ad esempio il viso attraverso il primo piano. Il volto infatti rappresenta tutt’oggi un’area corporea ad alta densità semantica. Il primo piano inoltre serviva a definire l’identità dei personaggi, renderli verosimili alludendo a processi psicologici che permettevano la comprensione delle ragioni alla base dei loro comportamenti. Progressivamente si è affermata l’idea di personalità: il volto cinematografico capace di attirare l’attenzione è quello che manifesta una personalità originale. Questa valorizzazione del volto implica spesso la necessità di una recitazione attenuata, rispetto ai modelli del teatro di prosa, in particolare nel cinema hollywoodiano classico. Però il controllo da parte dell’interprete sulla propria immagine è praticamente impossibile, poiché l’immagine è svincolata dall’attore che ha contribuito a produrla e può essere maneggiata, alterata, riprodotta e diffusa ben al di là della sua volontà. Per ragioni di carattere somatico e stilistico, il contributo di ogni interprete alla rappresentazione cinematografica è unico. Una questione di stili: le forme dell’attore cinematografico. L’attore cinematografico è una funzione della rappresentazione cinematografica, soggetta a variare in base alle trasformazioni storiche, estetiche e produttive della rappresentazione stessa. Nella storia del cinema abbiamo una molteplicità di tipologie attoriali. Nel cinema delle origini, la recitazione è una delle serie costitutive del cinema-attrazione e mantiene i codici stabiliti nell’ambito originario, questo vuol dire che per ogni genere c’è un tipo di recitazione. La funzione dei gesti e della mimica è spesso dimostrativa. La transizione a uno stile recitativo fondato sulla verosimiglianza avviene con la progressiva egemonia della narrazione. Il modo di rappresentazione negli Stati Uniti nel corso degli anni Dieci ha integrato la recitazione in un sistema nel quale l’elemento dominante è la narrazione. Questo ha implicato una serie di processi: segmentazione dell’interpretazione ai fini dell’efficacia narrativa, articolazione nella figurazione dell’interprete funzionale a favorire la sua identificazione e infine un’iterazione dei tratti recitativi, psicologici e caratteriali nella successione delle interpretazioni di uno stesso attore. Questo insieme di processi ha contribuito all’affermazione del divismo nel nascente cinema hollywoodiano, infatti sin dagli albori di Hollywood è stato un fattore di identificazione e differenziazione del prodotto attraverso il nome dell’interprete (star system). Tuttavia il modello attoriale hollywoodiano non è unico; non lo è nel sistema hollywoodiano stesso e non lo è neppure su scala internazionale dove gli attori si differenziano per stili performativi e opzioni rappresentative differenti. Nella storia del cinema mondiale, si è affermato a più riprese il modello dell’attore non professionista, dal periodo interbellico allo scoppio del fenomeno del Neorealismo italiano, fino all’impiego di amici e compagni nel cinema delle nuove ondate degli anni Sessanta. Il cinema hollywoodiano, in seguito alla crisi dello studio system, ha ridefinito il fenomeno divistico: al fianco della concezione della star come personalità, si sono affermate la star come professionista e la star come performer. La svolta digitale del cinema contemporaneo ha nuovamente messo in discussione la natura dell’interprete e molte nozioni consolidate come quella della personalità o l’originalità del contributo attoriale. Prospettive sulla recitazione cinematografica. Il fenomeno dell’attore cinematografico può essere analizzato sotto quattro punti di vista, quattro metodi di lavoro differenti: - iconologia e studi sulla visione → la prospettiva iconologica assume la presenza umana nella rappresentazione per come essa viene figurata; l’attore viene considerato motivo visivo all’interno del testo. Inoltre si ragiona su come un modo di rappresentazione, specifiche strategie di messa in scena emotivi visivi ricorrenti, determinino la configurazione tecnica della presenza umana nei film. - storia dello spettacolo → questa prospettiva considera l’attore nel più ampio ambito dello spettacolo e privilegia il suo mestiere. - seguire una procedura che prevede più visioni a distanza ravvicinata, una prossemica vincolante rispetto allo schermo e una discussione a fine proiezione. - La procedura si basa su un imperativo → non bisogna semplicemente provare piacere e amore per certi film d’autore, bisogna farseli piacere. - il dovere di seguire l’opera nel suo farsi. La necessità di amare l’opera di un regista si collega al fatto che l’oggetto da amare non è il singolo film; l’apprezzamento estetico si deve rivolgere a qualcosa che è sempre più piccolo o più grande rispetto al film “esemplare”. Più piccolo perché i critici della politique non difendono la nozione di capolavoro, né le categorie che ne rendono possibile il riconoscimento nella tradizione, ma lo scarto, il particolare secondario nell’opera maggiore, oppure le opere meno riuscite di un autore amato. Più grande perché non è il singolo film a contare ma il corpus delle opere. - il concetto di “messa in scena” ---> il contenuto del film non ha un valore assoluto, perché il soggetto del film è la sua messa in scena. Bazin definisce la messa in scena “la materia stessa del film”. La messa in scena è capace di abbattere steccati linguistici, in grado di superare o far dimenticare le differenze tra culture, in nome di qualcosa che appartiene al cinema in modo intrinseco in quanto strumento di espressione universale. Dal dopoguerra agli anni della politicizzazione e oltre. Nel dopoguerra italiano la teoria e la critica cinematografica si mantengono legate ai propri assunti teorici e di gusto maturati nel corso dei decenni precedenti, pur dislocandoli in un orizzonte ideologico-politico differente. La figura più importante in questo ambito è Luigi Chiarini, perfettamente integrato nelle politiche culturali del regime. Come teorico sistematizza il proprio pensiero lasciando inalterati i principi di fondo. Come critico conferma la molteplicità di gusti, differenze e interdetti bellici. La critica cinematografica militante anima un dibattito che ha per oggetto il rapporto tra pratica filmica e pratica rivoluzionaria; è il problema principale del cinema politico che viene affrontato in modo diverso dalle principali pubblicazioni del settore. In Francia la discussione sul rapporto cinema-politica prende la forma di una riflessione sul rapporto tra dispositivo cinematografico, tecnica e ideologia. La rivista “Cahiers” si politicizza in senso radicale e cerca di conciliare la critica dell’ideologia con la necessità di continuare a studiare e amare il cinema classico. Negli anni Settanta si diffonde un nuovo gusto cinefilo strettamente connesso alle attività dei club- cinema. La cinefilia di questi anni ha uno sguardo politicizzato sul cinema di consumo, ma ha comunque l’obiettivo di conciliare l’immaginario cinefilo e quello popolare. Negli anni Ottanta, mentre il cinema entra in crisi in particolar modo dal punto di vista della produzione e del consumo in sala, la cultura cinematografica vive un periodo florido che dura fino alla metà degli anni Ottanta. In questo periodo le pubblicazioni aumentano, nascono editori e collane di cinema; la storia del cinema entra nelle università e all’interno di alcuni programmi scolastici in via sperimentale. In questi stessi anni però la critica cinematografica va in crisi poiché i critici faticano a stare dietro all’incremento dell’offerta culturale; in più le recensioni si accorciano per lasciare spazio ad altri argomenti. Questioni di metodo: critica, interpretazione, retorica. La critica ha consolidato abitudini, routine di pensiero, pratiche interpretative standardizzate. Essa può quindi essere studiata, oltre che attraverso ricostruzioni storiche o dibattiti e riflessioni teoriche, anche come un mestiere dotato di regole stabili di funzionamento. Secondo David Bordwell la critica funziona soprattutto come un’attività di problem solving: giocare il ruolo dell’interprete significa risolvere il problema di arrivare a significati non immediatamente chiari sulla superficie del film in analisi. Inoltre secondo lui i significati che possono essere costruiti nel corso di un’analisi sono di quattro tipi: - i significati referenziali e i significati espliciti, ovvero quei significati che coincidono con la comprensione degli oggetti e delle situazioni presentate nel film e il critico presuppone che siano comunicati in modo diretto. - i significati impliciti e i significati sintomatici, che fanno parte dell’operazione di interpretazione del film; i primi riguardano gli elementi che lo spettatore può attribuire al film; si presume che il film comunichi in modo dire indiretto e mediato questi significati. I secondi invece si ottengono partendo dall’idea che il film comunica non solo in modo indiretto, ma anche involontario. Queste quattro tipologie non si presentano sempre insieme all’interno delle singole recensioni e il loro utilizzo non ha avuto una diffusione simultanea nella storia dell’interpretazione. È soprattutto nella critica cinematografica francese del dopoguerra che si sviluppano strumenti di analisi abbastanza sofisticati per il reperimento dei significati impliciti, mentre è soprattutto tra gli anni Sessanta e Settanta che si diffondono le letture sintomatiche dei testi popolari. Mentre il critico cerca di affrontare il suo problema principale, egli deve al contempo cercare di risolvere altri sottoproblemi che, stando sempre a Bordwell, anche in questo caso sono quattro: - appropriatezza → il critico deve dimostrare al proprio lettore che è appropriato parlare del film di cui sta parlando - corrispondenza → l’interpretazione deve essere supportata da prove - originalità → il critico deve dare un’impostazione originale al proprio lavoro differenziandosi da quanto è stato già scritto o detto - plausibilità → il critico deve adottare una strategia per rendere credibile il proprio discorso Il critico è anche soggetto a vincoli esterni alla logica dell’argomentazione. Infatti egli organizza i materiali reperiti in una struttura (dispositio) e sceglie la forma e lo stile per esprimersi (elocutio). Questi due elementi sono sottoposti a dei problemi: i problemi di elocutio sono legati allo stile di scrittura o al registro discorsivo adottati dai singoli critici e sono influenzati da una serie di variabili tra le quali le scelte lessicali, i modelli letterari di riferimento, i condizionamenti imposti dalla sede editoriale; lo stesso discorso vale per i problemi di dispositio degli argomenti. I critici si esprimono attraverso formati editoriali fondamentali come lo scritto accademico, il saggio, la recensione. Questi formati impongono dei vincoli sia a livello di scrittura che di struttura. Il formato più diffuso è la forma-recensione che si è sviluppata in tre principali format: la mini recensione che compare sui settimanali o nelle rubriche periodiche dei quotidiani; la recensione lunga da rivista specializzata e a metà strada tra queste due abbiamo la recensione standard tra i 5000 e gli 8000 caratteri, che è il format dominante si quotidiani e riviste. La critica di cinema nella cultura digitale. CHE NE È DI QUESTI CONDIZIONAMENTI E REGOLE QUANDO LA CRITICA SI SPOSTA NEL MONDO DI INTERNET? Ci sono delle continuità, cioè nella rete esistono delle tracce di tradizione che resiste al passaggio in digitale. La recensione è un perfetto esempio di resistenza poiché è uno dei format di scrittura più utilizzati da blogger e critici del web. Tuttavia abbiamo dei cambiamenti che possono essere sintetizzati in tre considerazioni principali: - assistiamo ad una commistione di tipologie discorsive; nelle recensioni sui blog troviamo disarticolazione della dispositio tradizionale, riarticolazione del format intorno a modelli nuovi, scelte lessicali basso-mimetiche, un uso di linguaggio colloquiale che richiama la forma diaristica. - tramite Internet si assiste ad una ridefinizione della nozione di gusto; questo produce una formazione di una società del giudizio generalizzato a cui anche i critici cinematografici cominciano ad adeguarsi. - online si ridefinisce il ruolo dell’expertise, un esperto di qualsivoglia materia, cinema incluso. Sulla scena si contendono la scena diversi dispositivi di influenza culturale, infatti troviamo siti come Amazon, Mymovies dove abbiamo recensioni di critici comuni e non professionali, ma alcune forme di expertise tradizionale sopravvivono, infatti MYmovies ha una sezione dedicata alla rassegna stampa. Tutti questi fenomeni rispondono alla logica di deistituzionalizzazione della critica cinematografica, al punto che per i più scettici si può parlare di una scomparsa della critica vera. D’altra parte i difensori della rete fanno leva sul gran numero di utenti che si avvicinano al discorso critico; questo avvicinamento pare che, più che aver distrutto la cultura degli esperti, le si sia affiancata. Capitolo 16: sonoro. Vincent LoBrutto pubblica una celebre raccolta di interviste ai maggiori creatori del suono, dove dichiara che “anche se il film è percepito come un medium visivo, il 50% dell’esperienza cinematografica è uditivo”. Il centro della questione è la nozione di “esperienza”: il cinema si è indubbiamente imposto per la sua storia visuale, ma poi quando uno spettatore entra in una sala cinematografica quella che lo investe è sicuramente un’esperienza altrettanto uditiva quanto visiva. Se questo è evidente per lo spettatore moderno, lo è anche per lo spettatore del cinema del 1905 o del 1914 che viene accolto in una sala chiassosa, travolto dalla musica di grandi orchestre o anche solo dalla musica di un pianista di sala. Negli anni Ottanta gli studi sul cinema hanno evidenziato un cambiamento che non è solo una conseguenza dell’accresciuta importanza storica della componente sonora, ma anche di un cambiamento teorico di prospettiva che investe non solo l’ambito cinematografico, ma si radica in un generale riscatto filosofico del primato del visuale. L’attenzione è stata posta anche su quanto la concezione di cinema muto fosse un costrutto culturale, nato proprio per legittimare il presunto primato visivo , operando per il superamento di una visione stereotipata del silent cinema. Per quanto riguarda la fruizione dei film d’azione soprattutto, nessuno a parte gli addetti ai lavori, sa che cosa sia Pro Tools, uno dei software più utilizzati per la produzione digitale di suoni. Non sospetta nemmeno la presenza di una tecnologia dell’audio cinematografico come l’Automated Dialogue Replacement (ADR) che viene utilizzato da decine di anni per intervenire sulla voce degli attori, tranne per i casi di post sincronizzazione e dubbing; quindi nessuno immagina che ogni battuta di dialogo in qualsiasi film d’azione venga manipolata o riregistrata successivamente. del suono. È destinato a modificarsi anche il luogo di fruizione in cui, una volta superata la frontalità degli altoparlanti dietro lo schermo e conquistato ogni spazio della platea, lo spettatore è immerso in uno spazio sonoro unico. Capitolo 17: teoria. A partire dalla seconda metà del primo decennio del Novecento e soprattutto dagli anni Venti in poi, si fa più evidente l’intervento di giornalisti, organizzatori culturali, scrittori e registi nel dibattito sul cinema. In questo contesto abbiamo due ordini di influenze: per un verso il cinema adotta la forma del lungometraggio, viene accolto in sale appositamente attrezzate per la proiezione e acquisisce quindi una visibilità sociale più definita; per altro verso l’opera di legittimazione del cinema come arte moderna si lega alla riqualificazione della figura ottocentesca dello studioso o del letterato che assume in ruolo di “intellettuale”. Da qui deriva un forte legame, tra gli anni Dieci e gli anni Trenta, tra il cinema e le avanguardie artistiche, promotrici di un rinnovamento in senso moderno delle arti e della cultura → in particolare Futurismo e Surrealismo incideranno sulla teoria del cinema. Prima ondata di studi → caratterizzata dalla preoccupazione di inserire il cinema nel campo di discussione dell’estetica, in quanto nuova e potenziale forma d’arte. Un primo gruppo di studiosi sostiene che il cinema esternalizza e rende oggettivi i movimenti interni e soggettivi della coscienza e del pensiero. Opposta ma complementare è la posizione del secondo gruppo di studiosi definibili “rivelazionisti”: in questo caso l’esperienza filmica consiste nell’assistere a un’esteriorizzazione “epifanica” degli aspetti normalmente invisibili del mondo reale. Ad esempio Jean Epstein, al centro della prima avanguardia francese, indica con il termine “fotogenia” il rivelarsi di qualità sensibili e morali nascoste del mondo visibile, rivelazione resa possibile da un “cinema puro”, capace di sospendere la componente narrativa. Per Béla Balàsz il cinema rende l’uomo visibile, cioè permette al suo corpo, o meglio al suo volto, di esprimere la sua anima. Il filone rivelazionista avrà vita lunga, infatti lo ritroviamo in Kracauer; per il filosofo il cinema prolunga il ruolo della fotografia nel permettere un accesso diretto e rinnovato alla realtà fisica; esso consente di scoprire o riscoprire l’apparire fenomenico. La tendenza esternalista e quella rivelazionista sono opposte ma complementari: in entrambi i casi mobilita una tecnologia che coinvolge in modo inedito i sensi, l’intelletto e le emozioni dello spettatore. In sostanza è la differenza tra interiorità ed esteriorità ad essere messa in crisi, quindi in questo contesto il cinema si pone come dispositivo artificiale di regolazione dei rapporti tra soggetto ed oggetto. Seconda ondata di studi → si distacca da una preoccupazione prettamente estetica per interrogarsi piuttosto sulla possibilità di pensare al cinema come un linguaggio dotato di regole, norme e grammatiche specifiche. Per la scuola dei formalisti russi, il film assume la piatta realtà fotografica delle immagini per manipolarla attraverso una serie di procedimenti artificiali di carattere tecnico-stilistico che compongono una “cine-lingua”; essa permette di artificializzare l’esperienza del mondo reale e di allontanarla da quella reale, producendo un effetto di straniamento. Notiamo quindi un’opposizione chiara alle posizioni del gruppo dei rivelazionisti, in quanto non è il reale a svelarsi attraverso l’inquadratura, ma il linguaggio cinematografico a esprimere il reale soprattutto attraverso il montaggio. Terza ondata di studi → si distacca dalla preoccupazione estetica e da quella linguistica per interrogarsi riguardo al ruolo del cinema nella società, il suo statuto sociale e di mezzo di comunicazione. Per il filosofo tedesco Walter Benjamin occorre distinguere tra il cinema in quanto dispositivo tecnologico e il medium, che egli intende come insieme delle condizioni storiche, culturali e tecnologiche che determinano l’esperienza percettiva dei soggetti sociali. La situazione moderna ha provocato nel soggetto una serie di trasformazioni e il ruolo del cinema in questo contesto è duplice: da un lato partecipa dell’avvento di nuove modalità percettive, in particolare il cinema libera un inconscio ottico; dall’altro lato il cinema può rappresentare un sistema di training e di assuefazione dei soggetti sociali alle nuove condizioni di percezioni artificializzata proprie della modernità. L’idea che il cinema abbia un impatto sociale si esprime in varie forme. Interessante è il caso dell’Italia dove vari intellettuali pongono molta attenzione alle trasformazioni introdotte dal cinema nel tessuto sociale. Discipline. Il secondo dopoguerra è caratterizzato da due ordini di fenomeni che sono correlati. In questo periodo il cinema avvia una riflessione su sé stesso, le proprie capacità di riprodurre il reale e il tipo di piacere che suscita. Questa riflessione entra anche nell’ambito delle università e dei centri di ricerca. Il primo ordine di fenomeni viene ben rappresentato dal gruppo di critici e teorici molto vicini alla rivista francese “Cahiers du cinéma”. André Bazin, fondatore della rivista, evidenzia il rapporto privilegiato che il cinema ha con il reale rispetto ad altre arti; il cinema non solo riproduce ma prolunga e differisce la realtà e in più offre un’esperienza esistenziale che porta tanto gli autori quanto gli spettatori, ad avere degli specifici criteri di responsabilità. Il secondo ordine si esprime attraverso la nascita della filmologia, un tentativo di inserire il cinema tra gli oggetti di studio accademici grazie ad un approccio interdisciplinare. A partire dalla distinzione tra fatto filmico e fatto cinematografico, la filmologia coinvolge psicologi, psicoanalisti, sociologi, filosofi, storici dell’arte e molte altre figure. Ad esempio Edgar Morin analizza il cinema da un punto di vista psicologico e antropologico e vede in esso il luogo di sintesi tra oggettività e soggettività, immagine e immaginario, tecnologia e magia. Jean Mitry invece riprende il filone linguistico delle teorie e propone di vedere l’immagine cinematografica come un segno in quanto sottrae l’immagine alla singolarità dell’oggetto ripreso combinandola con altre immagini e portandola ad un più alto livello di astrazione e generalizzazione. Un evento importante per la riflessione sul cinema, è l’avvento nella cultura francese dell’inizio degli anni Sessanta di nuovi paradigmi disciplinari provenienti dalla linguistica e dall’antropologia strutturali, i quali rinnovano profondamente il panorama delle scienze umane. In questo nuovo contesto la riflessione sul cinema si interseca con una rete di discipline nuove e profondamente rinnovate: semiotica, sociologia, psicoanalisi, psicologia, filosofia politica, più tardi scienze cognitive e neurocognitive. È proprio in questo contesto che si definisce il termine “teoria” per sottolineare il carattere disciplinare della riflessione sul cinema. È interessante confrontare le posizioni di Mitry e quelle mediante le quali Christian Metz dà origine alla semiotica del cinema. Anche per Metz il cinema è un linguaggio, ma questa natura linguistica non deriva più dai processi di distacco dell’immagine cinematografica dall’oggetto reale, bensì dall’ipotesi di applicare al cinema concetti elaborati in riferimento alle lingue naturali della linguistica strutturale (segno, significante e significato etc…). Ciò che propone Metz causa delle conseguenze e degli sviluppi per la riflessione sul cinema: la semiotica del cinema segue lo sviluppo della semiotica tout court, ovvero da un interesse per i problemi del segno filmico, si sposta prima verso un interesse per il testo filmico , i codici che esso mobilita, le sue strutture di organizzazione, per poi leggere il testo nei suoi rapporti con il contesto. Per quanto riguarda l’ambito psicoanalitico è forte il contributo dato da Jacques Lacan occupandosi della revisione freudiana. In questo contesto lo spettatore viene integrato in un dispositivo che, da una parte lo immerge in uno stato di regressione simile al sogno e dall’altra, gli permette di rivivere l’esperienza del riconoscimento allo specchio che fonda la costituzione del Sé bambino (una delle argomentazioni fondamentali della filosofia freudiana), con la differenza che egli ora è chiamato ad identificarsi non con la propria immagine, ma con il proprio sguardo. In ambito della critica dell’ideologia, il contributo più importante è quello di Louis Althusser, che porta al centro dell’attenzione il concetto di rappresentazione. Il cinema qui viene visto come una macchina di produzione e riproduzione delle ideologie per due ragioni: da un alto i contenuti che veicola e dall’altro la sua natura di prodotto della tecnologia capitalista capace di naturalizzare la propria rappresentazione del mondo in base ad un’illusoria e consolatoria impressione della realtà. Dibattito anglosassone. Il dibattito derivante dalla semiotica e dalle sua contaminazione si diffonde anche nell’ambito francese e anglosassone. 1971 → viene fondata in Inghilterra la rivista “Screen”, mentre negli Stati Uniti la teoria del cinema sul modello francese si lega al rinnovamento post 1968 degli interessi accademici. In questo contesto nascono i Feminist Studies dei quali una delle rappresentanti è Mulvey che fa notare come il piacere dello sguardo offerto dal cinema classico possieda un’origine e una destinazione prettamente maschili; questo implica che la donna venga costantemente posta nella condizione di oggetto passivo tanto del personaggio quanto dello spettatore. Dall’interno del dibattito anglosassone emergono nel corso degli anni Ottanta due forme di reazione polemica alla teoria continentale. Da un lato abbiamo gli studi culturali che analizzano il ruolo della cultura pop, dei media e del cinema. Si sviluppa anche un nuovo interesse per lo spettatore in quanto soggetto sociale che si traduce sia in studi sulla contemporaneità sia in un rinnovato interesse per l’esperienza dello spettatore delle origini del cinema, alla modernità. Dall’altro lato abbiamo gli studi cognitivi che propongono la costruzione di teorie di medio livello ben formulate nei termini della filosofia analitica, che ritornino a considerare lo spettatore “reale”. Tutto questo si colloca all’interno di una cornice disciplinare del cognitivismo, ovvero un aggregato di discipline (psicologia, filosofia della mente, informatica) che trasforma i processi di conoscenza a partire dall’idea che la mente umana funzioni come un software poiché essa processa informazioni percettive che arrivano dal basso con l’intervento dall’alto di schemi complessivi. Pensieri. Nel corso degli anni Novanta si sviluppano le condizioni che determinano il panorama attuale della teoria del cinema. La prima condizione consiste nella conferma della natura istituzionale della ricerca, evidenziata dallo spostamento dei Film Studies dalla teoria alla filosofia del film. Questo ritorno all’area filosofica ha due implicazioni: essa permette innanzitutto che alcuni temi e approcci degli anni Settanta e Ottanta vengano aggiornati. Ad esempio Rancière sottolinea il potere del cinema di rinnovare le “partizioni del sensibile”, cioè l’esperienza che i soggetti sociali fanno del mondo. Dalla nascita dei Cahiers du cinéma in poi (1951-58) la critica moderna e la cinefilia moderna trovano un terreno di coincidenza. Hanno degli obiettivi comuni come nobilitare la cultura dei film, affiancare gusti fino ad allora inavvicinabili e aprire battaglie estetiche su singoli film e singoli cineasti. La “politica degli autori”, secondo la quale il regista deve essere considerato il creatore dell’opera d’arte anche all’interno dei sistemi produttivi più industrializzati, è la conseguenza di un cambiamento radicale all’interno della cultura cinematografica. Fino al 1958-59, biennio in cui buona parte dei critici dei Cahiers esordì al cinema fondando la Nouvelle vague, la cinefilia ha via via assunto dei tratti e dei contorni riconoscibili. Le posizioni intorno ai film però si polarizzano, l’attenzione nei confronti dei propri idoli esclude a priori un giudizio bilanciato, anzi presuppone la valorizzazione dell’opera apparentemente minore. Per tutti questi motivi, la cinefilia porta quasi sempre all’instabilità dei soggetti editoriali e collettivi: i Cahiers tra gli anni Cinquanta e Sessanta entrarono in crisi, e più in generale tutte le riviste e i festival in quel periodo conobbero delle scissioni. Noto è il caso dei “mac-mahonisti” parigini che, mettendo in discussione le linee assunte dai Cahiers, ne interpretarono il lato più radicale, fondando una sorta di corrente interna ritrovandosi al cineclub Mac- Mahon. In ogni caso la cinefilia e la critica non sempre coincidono e la pratica cinefila può vivere anche senza la critica, pur non potendo fare a meno del giudizio di valore. Cinefilia militante. Dalla metà degli anni Sessanta si parla di una politicizzazione della cinefilia. Si entra in un periodo in cui è difficile individuare un percorso unitario nella comunità cinefila, che nel frattempo si era diffusa dalla Francia in tutto il mondo. I cosiddetti “giovani turchi” della generazione precedente, noti per essere indifferenti e ostili alle politiche culturali del Partito comunista francese e degli intellettuali alla Sartre, si trovarono costretti a schierarsi. Alcuni di loro, come Jean-Luc Godard, optarono per la pratica marxista–leninista, trasportandola anche in ambito cinematografico, mentre altri consideravano il loro impegno politico un tutt’uno con la realizzazione di film. La cinefilia negli anni che vanno fino al 1977, in Europa viene influenzata dalle novità e di conseguenza deve revisionare i criteri che la costituiscono. Ad esempio i festival vengono contestati e riconfigurati, mentre la scena dei cineclub europei si presenta confusa ma influenzata positivamente dall’energia del Nuova cinefilia.momento. Quindi la cinefilia militante continuava a mettere al centro il cinema che però non era più considerato come un mezzo artistico e unico della modernità in quanto tale, bensì come mezzo discorsivo fondamentale per la lotta politica, la formazione ideale e culturale delle coscienze e per il rapporto tra intellettuali e movimenti sociali. Cinefilia magnetica. La cinefilia ha rischiato di farsi trascinare a fondo insieme al tramonto della lotta politica, fondendo la propria natura con quella delle istanze rivoluzionarie. La fine degli anni Settanta, i fenomeni terroristici, segnano la cinefilia. Le novità provenienti dal sistema televisivo e il lento affermarsi dei videoregistratori, cambiarono molto la situazione. La diffusione delle nuove tecnologie ha a che fare con processi apparentemente lontani, come i primi tentativi di studiare il linguaggio del cinema nelle scuole, la diffusione di una sensibilità per il cinema d’autore, la possibilità di accedere a contenuti cinematografici che prima era impensabile raggiungere. I cineclub persero la loro centralità poiché lo spettatore casalingo diventò il principale consumatore di cinema. Invece gli anni Ottanta e Novanta possono essere considerati la prova generale di quello che succederà nell’epoca a noi contemporanea: è l’inizio del periodo in cui il cinema non è più il medium principale. Da una parte quindi si avverte il declino, ma dall’altra si comincia a parlare di “culturalizzazione” del cinema, di nobilitazione dell’opera all’interno dei diversi supporti su cui viaggia. Ne consegue la nascita di una nuova generazione di cinefili che si formano attraverso le grandi rassegne televisive o i film in videocassetta ( un esempio è Quentin Tarantino). È ovvio che il concetto di “film in sala” e di fruizione collettiva crolla, però cresce una nuova cinefilia segnata dal rapporto culturale dello spettatore con i “film fuori dalla sala”: il collezionismo casalingo, la programmazione televisiva notturna, l’ingresso del cinema nelle università, sono tutti elementi che stimolano la pratica cinefila, pur cambiandone ancora una volta i connotati. Cinefilia postmoderna. 1995 → data simbolica; centenario della nascita del cinema che ha costituito uno spartiacque simbolico per la cinefilia. Le celebrazioni legate a questa occasione portano ad un bilancio della storia del cinema e proprio in questi anni sono state pubblicate alcune delle opere fondamentali di storiografia del settore. Si fa strada la consapevolezza che ormai la storia del cinema è giunta alla sua completezza. Per questo motivo si pensa che il medium cinematografico dominante nel Novecento sia stato declassato da altri mezzi, in particolare dagli strumenti informatici e digitali. Tra le novità più eclatanti abbiamo una tendenza internazionale particolarmente forte in America e in Italia che ha come obiettivo principale la rivalutazione del cinema popolare. Ancora una volta gli strumenti interpretativi sono quelli della cinefilia moderna, però applicati ad oggetti caratterizzati da disinteresse, svalutazione. Questo ha scatenato un grande seguito di carattere chiaramente cinefilo. Nuova cinefilia. Si pensava che la cinefilia sarebbe stata travolta dai new media e dalla disgregazione del consumo di cinema in sala, ma al giorno d’oggi si assiste al processo contrario. Così come la cinefilia moderna è nata intorno al concetto di passione, condivisione e discussione dei film, le nuove tecnologie degli anni Duemila propongono nuovi luoghi, in questo caso di tipo virtuale, per attuare la pratica cinefila, ovvero i social network, i blog, i forum; si tratta di un corrispettivo dei cineclub di un tempo, dedicati alla trasmissione della memoria cinematografica e alla condivisione delle proprie idee. In questi anni si è creato un movimento che va sotto il nome di New Cinephilia, il quale teorizza un importante cambio: la nuova cinefilia rinuncia a difendere a tutti i costi la sala cinematografica, usa YouTube come un infinito repertorio di sequenze della storia del cinema, vede film su qualsiasi supporto e soprattutto si connette con altri appassionati attraverso i mezzi sopra citati. Alcuni accusano queste modalità di spregiudicatezza, così come anche la consistenza culturale dei blogger che viene anch’essa contestata.
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