Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

Lo specchio del mondo. Federico II di Svevia, Sintesi del corso di Filologia romanza

sintesi dettagliata capitolo per capitolo de "lo specchio del mondo. federico II di Svevia'

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

Caricato il 30/08/2019

Isa-bella91
Isa-bella91 🇮🇹

4.6

(53)

51 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Lo specchio del mondo. Federico II di Svevia e più Sintesi del corso in PDF di Filologia romanza solo su Docsity! 1. VOTIVUS PUER Federico II di Svevia nasce a Iesi il 26 dicembre 1194 da Enrico VI Hohenstaufen e da Costanza d’Altavilla, figlia del normanno Ruggero II, re di Sicilia. Il giorno di nascita, dopo Natale, per un sovrano nobile e potente, bastò a riconoscerlo come l’imperatore. Era quello un periodo imperniato di leggende e spirito profetico tant’è che il poeta della casa sveva, Pietro Eboli, annunciò la nascita del votivus puer, Federico, come il ritorno dell’età dell’oro. Gli auspici per la nascita di Federico furono tutti lieti, ma non mancò un vento profetico che portava oscuri sogni apocalittici, a causa dell’avvento dell’Anticristo. Tutto ciò che era stato predetto in bene o in male nel corso del secolo non turbò la culla di Federico che ebbe soltanto l’omaggio dei poeti di corte. Grazie a Pietro Eboli nacque la prima leggenda di Federico II: il primo atto significativo del fanciullo fu dividere un pesce in tre parti, tenendo per sé le due estreme e mandando l’altra al padre; così Federico avrebbe regnato sull’Occidente e sull’Oriente. A queste leggende positive si contrapponeva una meno nobile sulla falsa maternità di Costanza, che aveva allora quarant’anni ma si tendeva ad attribuirgliene molti di più. Questa maldicenza era contraddetta da un’altra voce sul suo parto pubblico a Iesi sotto una tende alzata nella piazza del mercato, alla presenza di baroni o prelati ma anche donne del paese. Era questa una notizia non provata come quella che voleva la regina Costanza in viaggio da una citta a un’altra mentre mostrava il suo seno gonfio di latte. Enrico VI si trovava allora a Palermo dove era entrato il 30 novembre accolto dal popolo festante. Egli era un grande sovrano dotato di una potenza che nessuno aveva avuto dopo Carlo Magno. La discesa di Enrico nel Regno di Sicilia fu accompagnata da leggendarie tempeste: cadevano dal cielo, con la pioggia, pietre grandi come uova che guastavano alberi e vigneti, uccidendo uomini e animali. Astuto, avido e invincibile, l’imperatore passò come un turbine umiliando il debole papa Celestino III, il valoroso re d’Occidente Riccardo Cuor di Leone, costretto al riscatto e al giuramento di vassallaggio. Percorse le terre dei normanni diffondendo il terrore tedesco, finchè una morte improvvise lo raggiunse alla vigilia della crociata. Il piccolo Federico, battezzato ad Assisi fu affidato da Costanza, in partenza per il Regno, alla moglie di Corrado, duca di Spoleto. Alla morte del padre, il bambino si trovava a Foligno dove Enrico IV lo avrebbe raggiunto per portarlo poi in Germania per l’incoronazione suo fratello di Filippo di Svevia. Enrico era riuscito grazie al fratello Filippo a ottenere il consenso di vescovi e principi di eleggere Federico re dei romani imponendo il principio ereditario nella successione dell’Impero. Filippo fu raggiunto dalla notizia della morte di Enrico e tornò precipitosamente indietro mentre Federico fu condotto a Palermo dalla madre. L’impero di Enrico VI si dissolse e due re tedeschi, Filippo di Svevia e Ottone di Braunschweig si contendevano il potere, mentre nel Regno di Sicilia, la regina Costanza aveva messo al bando i fedeli dell’imperatore, Markward d’Anweiler, l’intrigante siniscalco, e il vescovo di Troia Gualtiero di Pagliara. I due rimasero in disparte per il breve regno di Costanza attendendo l’occasione della rivincita. L’avvenire si presentava incerto a causa delle minacce di guerre civili e controversie religiose: questo divenne il teatro ideale per l’azione di un grande papa, Innocenzo III, successore di Pietro dall’ 8 gennaio 1998. Il 17 maggio 1198, Federico a 4 anni fu incoronato re di Sicilia e il 27 novembre Costanza morì affidando a Innocenzo III la tutela del figlio e la reggenza dello Stato. Nella reggia cristiana di Palermo, Federico ebbe modo di ascoltare le ultime voci della poesia araba e una grande fortuna vi trovarono le Chanson de geste. Sotto il cielo di Palermo si incontrarono due civiltà letterarie ormai in via di estinzione: una orientale, immobile e l’altra mutevole. Mentre volgevano al tramonto la poesia provenzale e la narrativa cavalleresca, sorgeva durante l’età sveva, l’epopea eroica e la lirica cortese. Federico cresceva nella reggia di Palermo, conteso tra spregiudicati avventurieri e interessati protettori che volevano impossessarsi della sua persona per esercitare legalmente il potere. Riuscì a prevalere il siniscalco imperiale Markward d’Anweiler, un violento saccheggiatore che, dopo la scomunica da parte del papa, nel gennaio 1198, invase la terra di San Benedetto bruciando castelli e saccheggiando San Germano. Tuttavia, non mancarono atti sacrileghi in chiesa come furti di reliquie solo che chi cercò di violare l’altare della beata Vergine ne ritrasse la mano contratta e inaridita e chi cercò di profanare un crocifisso restò con la lingua seccata. Questi miracoli spaventarono Markward che si riappacificò con l’abate e continuò i suoi saccheggi verso Avellino prima di imbarcarsi per la Sicilia. Venendo meno ai patti, Markward assediò Palermo. I tedeschi si impadronivano della città e del castello cercando di sala in sala il piccolo Federico che, raggiunto, si strappò le vesti e si graffiò con rabbia come nell’orrore di una contaminazione. Markward morì nell’autunno del 1202 mentre stava per assalire Messina, ultimo ostacolo al suo pieno dominio sull’isola. La sua morte fu considerata una salvezza per il Regno e per lo stesso Federico. Nonostante ogni tentativo di pace da parte di Innocenzo III, la pace non tornò nel Regno: i tedeschi fedeli a Enrico VI avversavano suo figlio e i baroni locali continuavano ad ingrandire i loro possessi approfittando della debolezza del re. L’infanzia e l’adolescenza di Federico II trascorsero a Palermo nella reggia depredata da Enrico VI, a contatto con elementi figurativi arabo-bizantini che portarono Federico verso una naturale educazione estetica. A questi si aggiunse lo scrigno d’oro della Cappella Palatina che con i suoi mosaici greci e le stalattiti del soffitto arabo non potevano non impressionare la sensibilità di un fanciullo come Federico. Palermo era una città abitata da genti diverse che vivevano in gruppi separati ma abituate alla tolleranza degli ultimi re normanni. La stessa tolleranza fu utilizzata da Federico per questioni culturali, nei rapporti con filosofi arabi e dotti ebrei di Spagna e Provenza. Federico studiò anche diverse lingue: questo lo porterà a trattare direttamente con gli infedeli durante la crociata e coi sovrani bizantini. Per secoli è stata tramandata la fama di Federico poliglotta: parlava francese, tedesco, italiano, latino, greco e arabo. Gli anni dall’infanzia alla prima giovinezza di Federico furono gremiti di eventi capitali: • Il lungo scisma imperiale con le lotte tra Filippo e Ottone; • La conquista franca e l’orrendo saccheggio di Costantinopoli con la fondazione dell’Impero latino d’Oriente; • La crociata contro gli albigesi; Costanza d’Altavilla aveva destinato il figlio a regnare sulla Sicilia dopo aver bandito i fedeli di Enrico VI. Federico avrebbe dovuto vivere come un re normanno, estraneo alle lotte per l’Impero ma il caso può sconvolgere qualsiasi progetto. Nel 1212 Federico affrontò il lungo viaggio che avrebbe dovuto portarlo nella Svevia, fra insidie di nemici. L’impresa sembrò miracolosa ai contemporanei e le città tedesche, forse preparate all’ingresso di Ottone, aprirono le porte all’adolescente. I vescovi e i principi affluivano al suo seguito e le città imitavano l’esempio di Costanza che per prima aveva accolto il giovinetto inerme. Anche Worms dava il benvenuto al sovrano diciassettenne, al nuovo Sigfrido dai gelidi occhi verdi. 2. L’IMPERO E IL REGNO Il trionfo di Federico II in Germania ha tutti i segni di un destino rovinoso. Dopo lunghi anni di guerra e carestia, in Germania appariva un David che restituiva la pace e l’unità al Regno, affrontando il l’avaro Golia imperiale e studiando il colpo decisivo. Questa visione letteraria, accolta dalla letteratura tedesca di intonazione romantica, corrisponde alla realtà degli inni del Minnesang (corrisponde forse al serventese trobadorico) e dell’immaginazione popolare in quanto Federico non è mai stato in terra tedesca un sovrano carismatico. Il suo rapporto con il popolo non fu mai diretto e le acclamazioni al suo passaggio rappresentano un puro ornamento. I potenti tedeschi erano infidi e avidi: volevano privilegi e ricchi doni in denaro ed erano pronti a passare dall’uno all’latro avversario in base alle proprie comodità. Federico dovette pagare il loro appoggio con moneta sonante. Quanto a Innocenzo III, anche dopo la scomunica di Ottone, ne aveva tentato di recuperare il loro appoggio perché era ancora diffidente nei confronti di Federico nonostante, prima di partire, aveva rinnovato il giuramento al papa con piena sottomissione e riconosceva il regno come feudo della Chiesa. Assicurava libere elezioni vescovili e il figlio Enrico, all’età di un anno era diventato a Palermo re di Sicilia. Riuscì ad ottenere il favore del pontefice, solo con il patto che prevedeva la separazione della corona imperiale da quella di Sicilia. A diciassette anni, Federico si allontanava da Messina con poche navi e sbarcava a Gaeta dove fu accolto con onore. A Roma fu ricevuto da Innocenzo III in tutta la sua magnificenza: questo fu il primo e unico incontro fra il papa e il suo pupillo. Qui fu rinnovato l’atto di sottomissione e al pontefice fu riconosciuta anche la successione della contea di Fundi. Il viaggio si presentava pieno di pericoli: il mare era solcato dalle navi di Pisa che favoreggiavano Ottone. Ma i genovesi erano nemici dei pisani e le loro navi portarono a Genova Federico. Egli vi restò tre mesi confermando i privilegi dei precedenti imperatori. Federico cominciò in Germania quella politica di larghe concessioni nei confronti di principi e vescovi. Distribuì grandi somme di denaro per ingraziarsi quei ‘Tedeschi lurchi’, contrapponendosi all’avidità di Ottone. L’intera Germania meridionale si aprì al suo trionfo. Ma Filippo Augusto, re di Francia mando il figlio, il futuro Luigi VIII a rinnovare l’alleanza e la perpetua amicizia iniziate con i loro predecessori, Luigi VII e Federico Barbarossa: Federico si impegnava a non far pace con Ottone, né con Giovanni d’Inghilterra senza il consenso del re di Francia. Il 5 dicembre Federico era eletto re dei romani a Francoforte e dopo quattro giorni fu incoronato a Magonza. Ottenuta dall’alleanza francese una notevole somma di denaro, Federico poteva abbandonarsi alla sua magnificenza che fu esaltata da poeti tedeschi e provenzali. Così Walther von der Volgeweide si rivolse al re perché lo aiutasse nella sua povertà. Il poeta cercava un luogo dove ripararsi dall’inverno freddo e dal calore dell’estate. Walther aveva vissuto il dramma dell’Impero straziato dalla guerra voluta dal ‘nuovo Giuda’, Innocenzo III, che aveva messo due tedeschi sotto la stessa corona. I suoi versi erano tutti giocati sul rapporto inscindibile e perfetto fra l’antica corona e il ‘dolce giovane’ e si concludono con lo sguardo fisso dei principi al weise, gemma portata dall’Oriente, simbolo del sacro impero trasferito da Bisanzio in terra tedesca. dopo aver lodato Filippo di Svevia, finì per allontanarsi dal sovrano forse perché non molto generoso nei suoi riguardi. Tacque sul suo assassinio. Anche Ottone deluse le sue aspettative e fu presto bersaglio del suo sarcasmo in quanto non aveva regalità. Infine, riconobbe le virtù di Federico II, il David giovinetto che veniva dalla Puglia. In compenso ebbe un feudo. Quando Federico arrivò in Germania, il Minnesang conosceva un grande successo; anche la lirica tedesca conobbe il suo successo in canti anonimi. Il Minnesang nasce nell’influsso della poesia di Provenza e trova la più libera varietà di toni nell’opera di Walther il quale traccia un’immagine di se stesso seduto su una pietra a meditare come si viva nel mondo o su un colle fiorito che inaridisce al tempo della brina e della neve, mentre il cuore si fa pesante come il piombo, pervaso da tre apprensioni invernali. Federico continuava a passare da una città all’altra e arrivò anche al castello di Hagenau, con le nobili memorie del Barbarossa, luogo adatto alle meditazioni e allo studio ma anche agli svaghi della caccia. Questo divenne il suo soggiorno prediletto. Nel 1213, Federico, a Eger, rinnovava il proprio giuramento impegnandosi a mantenere le promesse fatte prima di partire da Messina. Egli riconosceva la libertà della Chiesa nelle elezioni vescovili e nei tribunali, l’estensione dello Stato ecclesiastico e i diritti sovrani del pontefice sul Regno di Sicilia. I principi e i vescovi sottoscrissero la bolla perché dopo il tradimento di Ottone, la parola di un sovrano poteva essere messa in dubbio. Federico lasciò da parte per un periodo le grandi imprese limitandosi a piccole azioni. Gli insuccessi infatti erano molto rischiosi date le oscillazioni dei principi e Federico cercava di compensarli con gesti regali. Tra questi, fece trasportare da Bamberga e seppellire solennemente tra le tombe degli imperatori le spoglie di Filippo di Svevia: questo atto politico gli assicurava l’appoggio dei seguaci di Filippo. Le sorti dell’Impero non si sarebbero decise in Germani, ma in Francia. Infatti Filippo Augusto in accordo con Innocenzo III, aveva preparato una potente flotta per invadere l’Inghilterra quando il re Giovanni, si decise, per riappacificarsi con il papa, a sottomettere alla Sede Apostolica l’Inghilterra e l’Irlanda che gli furono restituita dal pontefice come feudo. Raggiunto lo scopo Innocenzo III vietò a Filippo Augusto di assalire l’Inghilterra trattandolo come un semplice vassallo. Quest’ultimo, lungi dall’essere uno sprovveduto, rimandò la spedizione, soltanto perché aveva come priorità quella di eliminare la minaccia di Ferdinando conte delle Fiandre. Intanto la flotta francese fu distrutta gli inglesi nel porto di Damne e così furono sconvolti i piani militari di Filippo Augusto che si preparò ad affrontare gli inglesi in terra di Francia. Il re Giovanni sbarcò a La Rochelle nel Poitou con le truppe destinate in un primo tempo a difendere l’Inghilterra dall’invasione e puntò sulla Loira in direzione di Parigi. Intanto, nel disegno di una manovra congiunta, Ottone avanzò verso Montagne ma sopraggiunsero i francesi e cominciò la battaglia di Bouvines, il 27 luglio. L’attacco delle truppe fiamminghe si infranse contro l’ala destra dello schieramento francese ma al centro le milizie comunali di Filippo Augusto subirono malamente l’urto dei fanti e dei cavalieri di Ottone finchè i cavalieri feudali dell’ala sinistra francese accorsero travolgendo gli imperiali. La battaglia di Bouvines fu decisiva per la sorte di tre paesi. Ottone non si risollevò più dalla disfatta che umiliò agli occhi dei francesi il nome dei tedeschi. In pochi anni anche la Germani del Nord cedette a Federico II e per lui divenne realtà il miraggio dell’Impero. La Francia trovò la propria unità nazionale affermandosi come uno Stato orgoglioso e potente, rigido custode della propria indipendenza anche nei confronti della Chiesa: ciò sarà dimostrato dalla sua neutralità nella contesa tra il Papato e l’Impero. I baroni inglesi reagirono al grave scacco francese limitando i poteri della corona e sfidando le folgori di Innocenzo III, imposero la ‘Magna Charta Libertatum’ al re vassallo del Papa, allo sconfitto Giovanni Senza Terra. Federico stava raccogliendo una grande esercito per una seconda spedizione nella valle inferiore del Reno in appoggio all’alleato francese quando arrivò l’annuncio della battaglia di Bouvines. Federico, reso cauto dall’insuccesso della prima campagna, si impegnò a tessere una rete di accordi politici prima di avventurarsi in un’impresa militare. I fautori dell’unità tedesca si scaglieranno contro Federico II, ritenuto responsabile del frazionamento della Germania. Federico aveva preparato un esercito pronto a conquistare le città fedeli a Ottone ma non ci fu bisogno di combattere perché Aquisgrana aprì le porte a Federico. Questo fu uno dei momenti più solenni della sua esistenza. Il 25 luglio venne incoronato nel duomo da Sigfrido arcivescovo di Magonza e legato al pontificio secondo l’’orto coronationis’. Un sacerdote, dopo la celebrazione della messa, predicò la crociata in nome del papa e nello stupore dei presenti Federico prese per primo la croce esortando i principi e i nobili a fare lo stesso. • in caso di morte di un principe ecclesiastico, i suoi beni sarebbero passati al successore senza possibilità di rivendicazione da parte del re o di altri; • che si dovevano conservare e difendere le vecchie monete e i vecchi tributi anziché istituirne nuovi; • che gli uomini ‘quocumque genere servitutis’ non avrebbero potuto trasferirsi contro il divieto e a danno del loro signore; • che alla scomunica sarebbe seguita la proscrizione regia non revocabile se non a scomunica revocata; • che sui territori dei vescovi non si potevano costruire castelli e di conseguenza quelli eretti contro la loro volontà sarebbero stati abbattuti ‘regia potestate’. Da parte loro i principi dell’impero, riuniti nella solenne curia di Francoforte, sottoscrivevano un documento in cui era sottolineata la separazione tra l’Impero e il regno di Sicilia. Eletto Enrico, re dei romani, Federico mandò al papa una lettera di complessa giustificazione. Il primo moto di Federico, secondo la lettera, era stato quello di opporsi all’elezione decisa all’insaputa del papa. Egli rassicurava Onorio III sulla divisione di Impero e Regno. Continuava spiegando i rinvii del suo viaggio. Tuttavia, superate le ultime difficoltà, Federico era pronto a partire. Arrivato in Italia, il sovrano mandò subito una lettera ad Onorio confessandosi eterno debitore della Chiesa romana e del papa per i benefici ottenuti e, sperando di non incorrere nella scomunica, chiedeva al pontefice di affrettarsi nella sua esaltazione supplicandolo di non prestare ascolto ai suoi detrattori. Il viaggio di Federico in Italia si svolse senza incidenti e anche le città avverse del Nord riconobbero il re dei romani. Il sovrano confermava privilegi imperiali ma evitava tutto ciò che riguardava il Regno di Sicilia. Così si comportò anche con Genova, la città che gli aveva dato un aiuto per arrivare in Germania, riconoscendole i diritti ‘armamentum faciendi’ di eleggere podestà e consoli, di avere una strada nelle città marittime soggette e assicurando la sua protezione contro eventuali attacchi nemici. Ma evitò di dare garanzie per il Regno, prima di raggiungerlo e i genovesi non gli perdonarono l’ingratitudine. Mentre il re si avvicinava a Roma, il papa era perplesso. Federico aveva preso la croce e nessuno sembrava più convinto di lui all’idea di partire per la Terra Santa ma poi rimandava continuamente la crociata. Restava dunque agli occhi del papa enigmatico, soprattutto dopo l’elezione del figlio a re dei romani e l’unione, negata solo a parole, del Regno all’Impero. Il vantaggio di Federico era proprio il suo essere misterioso ed apparentemente devoto, mentre Onorio III incerto e debole era molto più scoperto e comprensibile. Il 10 novembre 1220 due ambasciatori del papa si incontrarono con il sovrano al quale chiesero la pubblicazione, il giorno dell’incoronazione, di alcuni capitoli preparati in anticipo come leggi pubbliche. Forse lo scopo reale era quello di capire lo stato d’animo del re riguardo il congiungimento da evitare del Regno all’Impero e riguardo la spedizione in Terra Santa. Ma Federico restò indecifrabile e i sospetti rimasero tali. Accampato a Monte Mario, il giorno prima dell’incoronazione imperiale, il sovrano rassicurò il papa su tutti quegli argomenti che lo turbavano. Il 22 novembre 1220, la domenica prima dell’Avvento, Federico, seguito da sua moglie Costanza, avanzava sulla Via Trionfale verso Roma. Il popolo e i chierici lo attendevano con i crocifissi, i senatori e il sommo pontefice lo aspettavano sul trono. Federico elemosinava regali per la plebe e oro per il papa, i cardinali, i vescovi. Federico saliva i gradini del trono e si prosternava al bacio del piede, abbracciava il pontefice; seguiva il giuramento della Cappella di Santa Maria in Turribus; la vestizione nella confraternita dei canonici di San Pietro; l’ingresso nella basilica per la porta d’argento; l’omaggio alla tomba di San Pietro e la sacra unzione all’altare di San Maurizio; la confessione all’altare dell’apostolo e il bacio di pace al papa. Infine l’imposizione di mitria e corona, l’offerta della spada, dello scettro e del coro all’elevazione del coro. All’uscita della basilica Federico reggeva la staffa a Onorio III mentre saliva a cavallo e lo accompagnava per un tratto a piedi tenendogli le briglie fino alla Chiesa di Santa Maria Transpadina. Si abbracciarono un’ultima volta e Federico tornò a Monte Mario. • Nello stesso giorno furono pubblicate 9 leggi: • La revocazione degli statuti in ogni città contro le libertà ecclesiastiche; • Il divieto di sottoporre ad esazioni chiese e luoghi pii; • La proscrizione degli scomunicati col bando dell’Impero; • La proibizione di deferire ecclesiastici a tribunali secolari; • Il bando per tutti gli eretici ‘ustriusque sexus’; • L’ordine ai podestà, ai consoli, ai ‘rectores’ di adoperarsi nella difesa della fede giurando pubblicamente di sterminare gli eretici; • La protezione dei naufraghi, dei pellegrini e degli agricoltori. La cerimonia si svolse in maniera pacifica e serena senza zuffe tra la plebe e gli imperiali grazie anche alla distribuzione di denaro. Federico era sceso in Italia come sovrano munifico, esaltato dai poeti. Aimeric de Peguilhan gli aveva dedicato un sirventese presentandolo come un buon medico di Salerno che non chiedeva ricompensa ma ricompensava i malati. In Italia però il sovrano era apparso meno prodigo, così gli infidi baroni siciliani, consapevoli dei loro torti, sembravano incerti e preoccupati ed erano accorsi all’incoronazione a rendergli omaggio con il disappunto di Onorio III che li considerava suoi vassalli. Quando Federico mosse da Roma verso il Sud era deciso a ristabilire la sua piena sovranità e a mettere ordine nel Regno, recuperando i beni della corona e impadronendosi di castelli e fortezze, necessari punti di appoggio al suo dominio. Uno dei suoi saggi propositi fu l’arresto in Germania di Raniero conte di Sartiano, alleato di Markward e molto esperto negli intrighi con i pisani ai danni del Regno. Il conte si era sottomesso al re dei romani e fu liberato per intercessione del papa a patto di restituire i territori usurpati. Questo atteggiamento di Federico non riguardò né principi né vescovi tedeschi. Non fu molto generoso neanche con i fedeli in quanto revocò i privilegi concessi da Enrico VI al monastero di Montecassino, il banco di cambio e il diritto di sangue. Federico era sceso in Italia con un piccolo esercito e non aveva intenzione di imporsi nel Regno con truppe tedesche, a differenza del padre, forse perché aveva promesso di non servirsi di stranieri nell’esercito del potere e così cercava di conservarsi il favore del pontefice. L’imperatore utilizzò le forze dei vassalli di minor conto per abbattere i potenti: Ruggero d’Aquila, Landolfo e Tommaso d’Aquino, Giacomo da San Severino, Riccardo d’Aiello, Riccardo di Celano si avventarono sui cinghiali della grande corona. Sconfitti Raniero di Sartiano e Diopoldo di Acerra, il più forte avversario era Tommaso di Celano, conte di Molise, cinghiale della Marsica: contro di lui si iniziò una vera guerra di castello in castello. Federico si occupò per prima delle Assise di Capua: il re di Sicilia si presentò al suo popolo come legislatore. Rese poi omaggio ai tempi felici di re Guglielmo e col proposito di conservarne le vecchie abitudini, Federico inseriva fra le vecchie leggi normanne le nuove che gettavano le premesse di un potere assoluto. Le Assise presentavano una mescolanza di misure elementari per mantenere la pace e la sicurezza nelle città e fuori, di norme per raccogliere le decime destinate alla Chiesa e per regolare mercati e fiere, di sanzioni per colpire da una parte la potenza feudale, dall’altra le autonomie cittadine. • Per ristabilire l’ordine erano vietate le vendette e le rappresaglie nessuno poteva aggirarsi armato di lancia o coltello, coperto di corazza; • era proibito ospitare, nascondere ladri o criminali che dovevano essere consegnati ai maestri giustizieri; • i soldati di guarnigione potevano uscire dai castelli solo senz’armi e non più di quattro per volta; • ai castellani era negata ogni iniziativa se non per speciale ordine regio. • Nessun ordine o barone aveva la facoltà di accrescere o diminuire l’entità della propria contea o baronia e di sposarsi senza il consenso del re; • i figli non potevano impadronirsi del patrimonio paterno; • i vassalli non potevano essere oppressi dai signori. • Ecclesiastici e laici non potevano amministrare nelle loro terre la giustizia, compito che spettava ai maestri giustizieri. • La ‘revocatio privilegiorum’ colpiva ogni feudatario in possesso di beni appartenenti alla corona. • Furono distrutti i castelli costruiti per iniziativa dei baroni dopo la morte del re Guglielmo. • I proprietari di feudi dovevano prestare servizio con armi e cavalli agli ordini del re se non volevano perdere il feudo. • Il denaro regio era ricostituito ‘plenum et integre’ e un controllo politico-economico era esteso su tutte le città, i forti, le ville, i casolari. • Era vietata l’elezione di podestà, consoli e rettori nelle città soggette al balivo, ai maestri camerari, ai giustizieri. L’impresa d’Oltremare in queste circostanze era impossibile e Federico propose un’altra dilazione che Onorio concesse con riluttanza in cambio di un impegno solenne da parte dell’imperatore: Federico giurava di partire dopo due anni, nell’agosto 1227 per raggiungere la Terra Santa e di mantenervi per 2 anni mille cavalieri, di provvedere alle navi che avrebbero trasportato altri duemila uomini, ognuno con tre cavalli e di consegnare centomila once d’oro al re Giovanni di Brienne, al patriarca di Gerusalemme e al Gran Maestro dell’Ordine Teutonico: una somma che il sovrano avrebbe perduto in caso di inadempienza. Il 9 novembre 1225 Federico sposava Isabella ed esaudiva un vivissimo desiderio del pontefice che vedeva in queste nozze un ulteriore incentivo per la spedizione, un nuovo passo verso la conquista di Gerusalemme. Tuttavia, la questione delle elezioni vescovili nel Regno di Sicilia portò a una vera e propria guerra delle investiture. Il papa non intendeva rinunciare nel Regno di Sicilia alla giurisdizione e alla potestà riconosciute in Francia, in Inghilterra, e in Spagna e negli altri regni cristiani. La guerricciola si protrasse con la ripetuta opposizione della curia romana ai candidati di Federico. La polemica arrivò al culmine nel momento meno opportuno per Federico. Nella primavera del 1226 l’imperatore indiceva una dieta solenne a Cremona per la Pasqua convocando i principi tedeschi e i rappresentanti delle città lombarde. Ai notabili del Ducato di Spoleto impose di partire con lui come vassalli Per la Lombardia e, di fronte al loro rifiuto, li minacciò con aspre lettere che poi furono consegnate al papa, Onorio III accusò Federico di usurpare il patrimonio di San Pietro. Gli ricordava gli esempi di Nabucoodonosor che perse il regno e fu trasformato in due e lo stesso Barbarossa che non potè vedere il sepolcro di Cristo, paragonabile giustamente agli ebrei che per le loro colpe non meritavano di tornare in Terra Promessa e affogò in un fiume prima di entrare in Gerusalemme. Così la vendetta divina colpì i suoi figli Enrico e Filippo e avrebbe distrutto lo stesso Federico. Il pontefice sarebbe ricorso alla scomunica se il sovrano si fosse ostinato nella sua perversità. L’imperatore a sua volta aveva elencato i torti della Chiesa nei suoi confronti e il pontefice rifaceva la storia dei rapporti tra Federico e il papato enumerando i benefici da lui ottenuti e rievocando i gravi affanni della Chiesa a causa sua. Federico, quando aveva convocato la Dieta di Cremona si sentiva al culmine della sua potenza e poteva abbandonarsi a più ambiziosi progetti: • fu distrutta l’autorità feudale, • furono trasformati i castelli dei baroni in fortezze dello Stato, • fu soffocata la guerriglia saracena in Sicilia e mutati i ribelli musulmani in sudditi fedeli, • fu eliminato il predominio sulle coste delle repubbliche marinare, • fu riordinata l’economia e allestita una grande flotta. Tuttavia, le città settentrionali, ostacolarono i suoi piani in quanto temevano che anche in Lombardia attuasse lo stesso disegno tirannico del Regno di Sicilia e quindi rinnovarono la lega lombarda secondo un diritto riconosciuto alla pace di Costanza e riconfermato dallo stesso imperatore. Così furono sbarrate le chiuse a Enrico, re dei romani e ai principi tedeschi e impedita la curia di Cremona. Fu il primo gravissimo scacco di Federico che raggiunse Borgo San Donnino dove tenne una dieta di ripiego. Inutilmente l’imperatore mise al bando le città ribelli abolendo ogni diritto e privilegio. Federico era rimasto isolato tra i lombardi avversi e il papa mal disposto nei suoi confronti. Alla fine, fu costretto a rivolgersi a Onorio III confidando nella Chiesa sempre sollecita dell’onore dell’Impero. Sostenne che la Dieta di Cremona era dedicata principalmente alla preparazione nel passaggio in Terra Santa, argomento molto sensibile per il pontefice e sostenne anche che l’azione della lega lombarda aveva umiliato anche l’onore della Chiesa. Il papa non abboccò all’amo del monarca. Federico finì per rimettersi all’arbitrato del pontefice sulla questione lombarda mandando in missione da Onorio l’arcivescovo Tiro e il Gran Maestro dell’Ordine Teutonico con la promessa che avrebbe accettato quanto sarebbe stato deciso per l’onore dell’impero e della Chiesa. Fu un nuovo scacco per l’imperatore. Deposto il rancore e dimenticate le offese dall’una e dall’altra parte, secondo la mediazione del pontefice, i ribelli e il sovrano si preparavano a far pace anche in nome della prossima crociata. Gli ultimi episodi del pontificato di Onorio III sono caratterizzati da un’atmosfera di pace: la sua richiesta di grano all’imperatore per sovvenire alla carestia di Roma, trovò Federico pronto ad intervenire. Il papa morì nel marzo 1227. La crociata era rimasta pura teoria ma aveva gettato le premesse per la spedizione con un patto così vincolante che un successore più energico avrebbe fatto rispettare e Federico avrebbe rimpianto la lealtà di Onorio III nelle dure lotto che lo attendevano, alle prese con avversari più spietati e ingannevoli. 3. GERUSALEMME L’eroe della quinta crociata era stato Giovanni di Brienne. Dieci anni prima aveva sposato Maria di Gerusalemme. Era noto alla corte di Francia per le sue imprese galanti nonostante l’età. Aveva vissuto a lungo anche in Italia. Nonostante le sue doti non si era presentato ai suoi vassalli con l’appannaggio del prestigio, ma presto emersero le sue qualità di condottiero accorto e di guerriero imbattibile. Era un cavaliere esuberante ma non privo di buon senso, devoto ai suoi protettori. Era un cavaliere leale, poco incline agli intrighi quindi poco adatto a un rapporto con Federico. Dopo il disastro della quinta crociata, i suoi interessi erano orientati ad avere aiuti per il Regno, a trovare un marito per la figlia Isabella e a mantenere la reggenza. L’unione di Isabella con Federico fu proposta dal Gran Maestro dell’Ordine dei cavalieri teutonici, Hermann con Salza, molto fede all’imperatore e votato alla conquista del santo sepolcro. Il papa Onorio III approvò calorosamente il progetto. Federico, che all’inizio si era dimostrato pronto ad intraprendere la crociata, si era tirato indietro diverse volte. Un elemento decisivo per indurre Federico alla crociata era visto dal Grande Maestro teutonico nella possibilità delle nozze con Isabella, detta anche Iolanda, futura regina di Gerusalemme. Era la prima volta che era progettato un simile matrimonio dal re di Francia. Isabella aveva quattordici anni quando fu celebrato il suo matrimonio con Federico II ad Acri: fu uno spettacolo che avrebbe incantato anche il musulmano più fanatico. Secondo la redazione ‘étendue’ che Federico nello stesso giorno delle nozze comunicò seccamente a Giovanni di Brienne che nulla aveva più a che fare con il Regno di Gerusalemme. Federico era il vero re e poteva benissimo ignorare le promesse del Gran Maestro teutonico sulla reggenza, spogliando tranquillamente il suocero del regno e del denaro destinato al regno di Filippo Augusto prima di morire. Il giorno dopo le nozze, Federico e Isabella partirono senza avvisare Giovanni che li raggiunse a Foggia ma fu accolto dal genero con estrema freddezza: questo atteggiamento era spiegato con il sospetto che il re Giovanni e il nipote Gualtiero volessero impadronirsi del Regno di Sicilia e raccogliessero per questo scopo degli armati. Forse si trattava solo di calunnie ma l’imperatore sembrava deciso a renderli prigionieri e ad uccidere il conto Gualtiero. Giovanni, a Barletta, ebbe notizie di tali progetti e sventò il piano del genero con una trovata ingegnosa: andò un messaggio all’imperatore dicendo di volergli parlare e chiedendo che gli facessero sapere dove trovarlo. Federico era a Troia e rispose indicando Melfi e indicò la montagna come luogo dell’incontro. Giovanni e Gualtiero partirono da Barletta fingendo di andare a Melfi ma, passato l’Ofanto, lasciarono la montagna e uscirono di fretta dal Regno puntando su Roma: il papa accolse con gioia il re fuggiasco affidandogli l’amministrazione dei beni pontifici fra Viterbo e Monte Fiascone. Quando Federico II partì da Brindisi, al-Mu‘ azzam era morto da sei mesi e il sultano d’Egitto invadeva la Palestina con l’appoggio del terzo fratello ai danni del figlio di al-Mu‘ azzam. Il 7 settembre l’imperatore sbarcava nella munitissima Acri, dove i cristiani erano più intolleranti che nelle altre città del Regno. Federico si trovava in una situazione difficile: scomunicato dal papa, poteva contare relativamente sui franchi d’Oltremare, su quei piccoli feudatari che disprezzava e inoltre non era più per il sultano né un alleato né un ospite gradito. Gli era ostile il clero e avversi gli ordini militari: la crociata divideva la Cristianità invece di unirla. Solo Hermann von Salza gli era amico insieme all’emiro Fakhr ad-din ibn ash-Shaikh che venne più volte in Occidente attratto dalla civiltà. Federico era arrivato nei paesi del Levante, a contatto con quel mondo che aveva intravisto a Palermo nella giovinezza. Nel viaggio in Terra Santa Federico portò la sua viva curiosità intellettuale, il desiderio di nuovi rapporti e di esperienze ignote, la volontà di stupire con la sua cultura e intelligenza. Arrivarono ad Acri le ambascerie del sultano con ricchi doni: gioielli, dromedari, cavalli, un elefante. L’imperatore si intratteneva colloquiando con Fakhr ad-din esprimendo l’esigenza di trovare una risposta a quesiti sui quali conosceva le opinioni della scienza occidentale. Aperto e tollerante verso l’Islam, Federico non avvolgeva tutta la sua sete di conoscenza, accompagnandola con un senso critico sempre desto e spesso con una dose di ironia. ‘Sostegno del Pontefice, campione della fede cristiana’, l’imperatore era soprattutto un laico e il laicismo in quei tempi era merce molto rara. Federico cercava in Terra Santa un punto di incontro fra Occidente e Oriente al di fuori dei conflitti tra le opposte fedi. Si poneva di fronte al cristianesimo e all’islamismo con il distacco di un filosofo, considerandoli oggetti di studio. Mostrò anche qualche referenza per l’islamismo ma non sul piano religioso. Le notizie dal Regno di Sicilia erano sempre più allarmanti e quindi cominciò ad aver fretta di rientrare. L’imperatore negoziò da solo con il ‘Soldano di Babilonia’, senza consultarsi con i baroni di Oltremare che si sentirono messi in disparte. Nelle trattative Federico alternò le suppliche a espressioni di orgoglio: • pregava al-Kamil di cedergli la città santa per mantenere intatto il proprio prestigio; • era al di sopra di tutti i Principi dell’Occidente e intendeva tener alta la testa tra i Re. Lasciava intendere al sultano d’Egitto che era utile la sua amicizia nell’impresa di fronte all’ostile cristianità. Il tono era umile ma, quando ricordava che lo stesso al-Kamil aveva proposto di riconsegnare al legato pontificio Pelagio e i luoghi santi, la sua voce si faceva superba definendo il cardinale come l’ultimo dei suoi servi. Le truppe imperiali erano molto scarse ma Federico tentò ugualmente una manifestazione di forza e raccolse tutti i contingenti militari e i pellegrini disponibili per una marcia da Acri a Giaffa in assetto di guerra. Ma a Giaffa si fermò ricostruendone le fortificazioni. Il sultano d’Egitto aveva già cominciato ad assediare Damasco ed era costretto a vigilare le mosse dei crociati distogliendo le truppe dalla guerra contro il nipote. Nonostante la morte di al-Mu ‘azzam, Federico aveva ancora una carta da giocare come un possibile scomodo avversario. Nel sollievo dell’accordo raggiunto, l’imperatore dichiarò di non essere interessato a Gerusalemme bensì a tutelare il suo onore presso la Cristianità. La vera guerra religiosa per Federico II cominciò dopo la tregua con il sultano. Fino alla firma del trattato, l’imperatore non aveva potuto contare sull’appoggio del clero e degli ordini militari ma nel compenso l’ostilità non si era manifestata in modi troppo clamorosi. Il Gran Maestro dei cavalieri teutonici illustrò in una lettera a Gregorio IX gli aspetti positivi del trattato che comportava la restituzione di Gerusalemme, Betlemme e Nazareth con una striscia di terra fino a Giaffa con l’esercito di Cristo privo di rifornimenti per il mare agitato e l’intervento del Signore. Accennò ai progetti immediati di Federico e all’esultanza dei fedeli. Concludeva con parole di obbedienza. Federico nel messaggio ai suoi seguaci con l’annuncio dei prosperi successi si comportava da re crociato attribuendo tutto il merito dell’impresa ai miracoli di Nostro Signore e ricordando in particolare l’esempio della tempesta sedata sul mare di Giaffa. Il 17 marzo Federico entrava in Gerusalemme abbandonata dai musulmani tra grida e pianti. Il giorno seguente l’imperatore prendeva la corona dall’altare e se la posava sulla testa senza un intermediario ecclesiastico fra sé e Dio. Era la prima volta nella storia del Regno. Assistevano alla cerimonia priva di consacrazione religiosa soldati tedeschi e italiani con gli scudi delle nere aquile imperiali e cavalieri teutonici dai lunghi mantelli bianchi segnati da croci nere. L’imperatore parò a una folla mista di nobili, ricchi e poveri, ricordando in che modo aveva preso la croce ad Aquisgrana e si scusò del lungo ritardo dovuto a difficili affari di Stato. Polemizzò con il papa difendendosi dalle accuse e dalle calunnie. Attribuiva a malintesi e false notizie il suo dissidio con il pontefice. Se Gregorio fosse stato al corrente dei suoi veri propositi non avrebbe scritto contro di lui ma in suo favore. A Gerusalemme, il Tempio di Salomone restava custodia dei musulmani. Nel Tempio era stato offerto Gesù al Signore e il Messia fanciullo si era seduto in mezzo ai dottori ascoltando e interrogando; secondo il papa Federico aveva cacciato Cristo dal Tempio collocando al suo posto Maometto. Federico era intenzionato a fortificare la città e diede le prime disposizioni. I paesi dell’Islam rimasero sconvolti dalla perdita della città santa. Cominciata la ricostruzione di Gerusalemme, Federico chiese al sultano di visitare i luoghi santi custoditi dai saraceni. Ne apprezzò la struttura della moschea e il Santuario della Santa Roccia. Fu colpito anche dalla bellezza del pulpito e contemplò la cupola ‘superba come una corona’. Nell’architettura cristiana d’Occidente non c’era niente di simile. Federico era un visitatore attento e non voleva che niente di estraneo turbasse il suo pellegrinaggio. Sulla sua violenta reazione nei confronti di un prete che con il Vangelo in mano stava entrando nella Moschea ci sono due versioni diverse: 1. secondo una testimonianza, Federico si sarebbe limitato ad apostrofare duramente il sacerdote; 2. per un’altra fonte lo avrebbe colpito con un pungo minacciandolo di morte. In queste testimonianze Federico mostra la sua devozione per il sultano. L’imperatore non assomigliava ai grandi eroi franchi, non era alto e mancava di prestanza fisica: in realtà Federico, nonostante le sue origini tedesche e normanne, anche se combatté e vinse battaglie, lo fece non per la sua spiccata dote di condottiero ma perché aiutato dalla sorte. L’imperatore certamente preferiva la pace alla guerra. Anche sulla preghiera notturna del muezzin (persona addetta alla moschea, che dal minareto modula secondo una cantilena la formula stabilita per chiamare i fedeli alle cinque preghiere canoniche e al servizio solenne del venerdì), vi sono due resoconti diversi: 1. In uno il muezzin salì sul minareto(=costruzione a sviluppo verticale come una torre situata nella moschea) nella prima notte passata da Federico a Gerusalemme nella casa del cadi (=giudice dei musulmani) e recitò i versetti coranici sui cristiani con l’accento a Dio ‘che non si è preso figlio alcuno’. Rimproverato dal cadi per la mancanza di riguardo per il re franco, la notte successiva il muezzin non salì sul minareto. Federico si dolse del fatto che al suo paese non avrebbe sospeso il suono delle campane per la visita del cadi. 2. Secondo l’altro resoconto, il muezzin non lanciò l’appello alla preghiera e Federico rimproverò il suo ospite dicendo che lo scopo principale per lui nel rimanere a Gerusalemme era di ascoltare il grido del muezzin e la loro lode a Dio nella notte. Questa seconda versione scopre un altro tratto sul desiderio di conoscenza di Federico, sulla sua volontà di provare una emozione nuova e unica nell’antica città che stava per lasciare. Il 19 marzo Gerusalemme era colpita da interdetto e fu così guerra aperta tra l’imperatore, il patriarca e gli ordini militari. Questo esasperò Federico che abbandonò rapidamente la città in un’atmosfera di complotti. Tornò a Giaffa e di là raggiunse Acri in preda a gravi contrasti tra gli imperiali, i franchi di Outremer e le colonie marinare italiane dove solo i pisani appoggiavano Federico. L’imperatore, adirato per l’accaduto cominciò a covare disegni di vendetta contro tutti i suoi nemici e intanto il Regno di Sicilia veniva assalito dall’esercito papale dei Clavisignati comandati da Giovanni di Brienne. Con abilità diplomatica, che rappresentava sempre la sua risorsa più sicura Federico cercò di uscire da una situazione difficile con una riconciliazione apparente con i baroni di Outremer. Il 10 maggio, all’alba senza avvertire nessuno, si avviò verso il porto dove lo aspettava una galea, vicino la macelleria. Dai vicoli fetidi, ingombri di immondizie, uscirono a gruppi i venditori del mercato, femmine spettinate e maledicenti che investirono l’imperatore con un lancio di budella e interiora. Accorsero appena ne ebbero notizia i cavalieri, Giovanni di Ibelin, decisi a salvare fino in fondo il loro onore. Così, nei toni buffoneschi di una farsa, si concludeva la crociata di Federico II. I cavalieri franchi si schierarono davanti alla galea raccomandando a Dio l’imperatore che li guardava corrucciato dall’alto, senza dar segno di gradire quel cerimoniale cortese involontariamente ironico. Poi la nave lasciò il porto con Federico che continuava a fissare il suo regno avverso. Federico fu il primo ‘Jerusalem rex’ di fatto e non soltanto di nome anche se l’impresa aveva preso pieghe diverse rispetto a come poteva aspettarsela il suo devoto Filippo da Novara. sparsa la voce della morte dell’imperatore in Terra Santa: non c’era quindi altro sovrano in Puglia che Giovanni di Brienne. Ma Federico era di ritorno e riunì da Barletta tutti i suoi fedeli che accorsero da ogni parte. Federico avanzò rapido e al suo apparire, ripiegarono i clavigeri. Il sovrano arrivò a Capua, a Napoli, assediò Celano. Conquistò Vairano, Alife, Venafro e, impiccando i campani, diede dimostrazione di quanto fosse dura la giustizia imperiale. Saccheggiò la villa di Piedimonte, mise sotto assedio Montecassino. Teodoro, imperatore di Tessalonica, gli mandò ricchi doni per testimoniare il suo appoggio: il principato greco era al culmine della sua potenza. Federico occupò la Marsica e a San Germano dichiarò false le accuse del patriarca di Gerusalemme. Il cardinale Colonna era a Perugia, da papa per chiedere denaro in modo da pagare le truppe in rotta; Pelagio era assediato a Montecassino e Giovanni di Brienne non ebbe pace finchè non fu sicuro della nativa Champagne. Il 5 ottobre, Federico annunciava ai fedeli di Lombardia di aver messo in fuga gli invasori del Regno e li esortava a raggiungerlo con armi e cavalli. I lombardi al seguito del papa si erano dileguati da un pezzo. Il 28 ottobre Federico espugnava Sora e mise a fuoco la ‘nuova Cartagine’. Arrivarono ambasciatori greci vestiti di seta d’oro su cavalli dai freni d’oro, versando in omaggio un rivo di monete d’oro. Il Regno era riconquistato e Federico era pronto alla pace. Gregorio fu costretto a prendere in considerazione le offerte dell’imperatore e il 10 novembre il papa sottoponeva al giudizio dei ‘rettor’ della lega lombarda le proposte di Federico, chiedendo il loro consiglio e quindi onorarli di questa speciale attenzione. Iniziarono laboriose trattative con Hermann von Salza, principale mediatore. Un abbozzo dell’accordo fu presentato all’imperatore dal Gran Maestro, il 27 novembre a San Germano, ma per alcuni capitoli l’imperatore non si trovò d’accordo. Gregorio era confinato a Perugia e i romani non avevano fretta di richiamarlo. Un gruppo di nobili, a nome del Senato e del popolo romano era andato incontro all’imperatore vittorioso fermandosi con lui per tre giorni ad Aquino: era stato questo l’unico segno di partecipazione romana al conflitto tra imperatore e papa. Il 1° febbraio 1230 un diluviò si abbatté sulla città ingrata al suo pontefice e il Tevere in piena ruppe gli argini e arrivò a San Pietro e a San Paolo, allagando la citta leonina, il Campo di Marte e abbattendo il ponte dei Senatori. Un cronista parlò di 7000 mila morti. Roma fu in preda al terrore e all’alluvione seguì la carestia e la pestilenza. I romani videro in questo disastro una punizione celeste e si affrettarono a mandare ambasciatori che implorarono il perdono del pontefice. Il papa così fu accolto a Roma. Dalla Germania arrivarono principi e vescovi tedeschi pronti a contribuire alle trattative di pace; l’imperatore nel frattempo alternava durezza e tolleranza in attesa dell’evento. Perdonò all’abate di Montecassino e ai suoi monaci le recenti offese per intercessione del Gran Maestro, ma fece abbattere le mura e riempire i fossati della ribelle Foggia. Respinse l’accordo con il papa perché deciso a non cedere Gaeta e Sant’Angelo. Frate Gualo faceva la spola tra papa e imperatore finchè il papa non approvò l’ultima formulazione del concordato e fece suonare a festa le campane. Era il 25 giugno: • a richiesta del cardinale Tommaso di Capua, Federico restituì le terre occupate della Marca, del ducato di Spoleto, del monastero di Montecassino, delle chiese dei templari e degli ospedalieri, dei baroni e degli uomini del Regno partigiani del papa. • Fu deciso che nessun chierico sarebbe stato denunciato al foro secolare e che le chiese e i monasteri sarebbero stati immuni da taglie. • Alla fine di luglio l’imperatore rendeva all’abate cassinese i castelli di Pontecorvo, Piedimonte e Castelnuovo custoditi dai signori Aquino. • Conclusa la pace con Gregorio IX, Federico, il 28 agosto era assolto dalla scomunica dal cardinale di Santa Sabina. • L’imperatore giurava fedeltà ai patti e ordinava ai conti, baroni, giustizieri, camerari del Regno di non imporre taglie o collette ai monasteri e a persone ecclesiastiche. Nella prima domenica di settembre il papa e l’imperatore si incontrarono ad Anagni. Seguirono tre giorni di colloqui dai quali il sovrano uscì di nuovo come diletto figlio della Chiesa. Ebbe inizio il periodo più creativo della vita di Federico. Anche il papa a Roma intendeva mettere ordine provvedendo ad opere pubbliche e alla distruzione degli eretici. Il 1231 fu un anno di delazioni, di durissime sentenze e roghi. Federico mise mano alla riorganizzazione del Regno. Dalla Curia generale convocata a Taranto, ma tenuta a Melfi, uscirono le Costituzioni, il Liber Augustalis dove vi era affermato il rapporto diretto fra ‘divina majestas’ e ‘imperialis majestas’. Federico negava la mediazione sacerdotale del potere e il Liber Augustalis era la teorizzazione del suo gesto di incoronarsi a Gerusalemme senza un intermediario ecclesiastico tra sé e Dio. Le Costituzioni non sono un documento ufficiale ma conservano’ i rottami della varia storia del Regno’. Il loro scopo è quello di ordinare e chiarire. Gli storici hanno messo in rilievo il senso di giustizia che anima il Liber Augustalis e i principi e le salutari norme giuridiche come: • L’uguaglianza di tutti di fronte alla legge; • La punizione del giudice fraudolento; • La valutazione della personalità del delinquente più del reato; • Il proposito di prevenire più che punire i delitti; • L’abolizione del ‘ius Francorum’ sulla sicura consapevolezza del contumace (latitante); • L’eliminazione del duello e dei giudizi di Dio; • Le pene per violenza alle meretrici, per ratto di donne, per ruberie a danno dei naufraghi o per mancata assistenza; • L’obbligo di solenne resa dei conti per i tutori; il divieto di processi contro fanciulli e pazzi omicidi; • L’educazione a spese del fisco di figli di donne giustiziate; • La proibizione di obbligare i sudditi ad acquistare prodotti del Demanio, di esigere servizi gratuiti a favore del Demanio. Si potrebbe dire a gradi linee che per Federico il diritto era uno strumento di potere esercitato attraverso il tribunale della Magna Curia. Le città che intendevano darsi ordinamenti propri erano punite con la desolazione perpetua mentre i ribelli allo Stato erano dati alle fiamme come eretici. Le Costituzioni di Melfi allarmarono il papa che si affrettò ad ammonire Federico. Lo Stato fu riorganizzato in una rigida struttura gerarchica: • L’imperatore era al vertice; • Maestro giustiziere; • Giustizieri regionali; • Camerari; • Baiuli; • Giudici e notai; • Secreti e questori; • Castellani; • Magistrati locali; • Cittadini. Si era formato da un decennio un gruppo di abili burocrati dal quale furono esclusi un po’ alla volta gli ecclesiastici e i nobili mentre accedevano alla cancelleria imperiale esperti giuristi, spesso di modesta condizione sociale. Primeggiò Pier della Vigna, ‘maestro di stile oratorio ed epistolare’. Questo stile è un prodotto culturale complesso e raffinatissimo: vi convergono influssi della curia romana attraverso i modelli dell’epistolario di Innocenzo III e la mediazione della scuola di Capua, ingredienti francesi, soprattutto delle lettere di San Bernando, come ha ben notato il Paratore e più indirettamente di Alano di Lilla, altro illustre rappresentante della cultura cistercense. L’abuso di esclamazioni ed interrogazioni retoriche, il gusto sfrenato per la paronomasia e la climax, la tendenza all’allitterazione, la propensione alle costruzioni simmetriche sono tutti elementi riconducibili all’epistolario di Bernando. Il Paratore ha rilevato anche le influenze della fiorentissima retorica araba. Dove il sovrano appare privo di spirito innovatore è nella Costitutio in favorem principum, redatta a Cividale del Friuli nella Dieta del maggio 1232. Come ha osservato giustamente Sestan, più che una abdicazione di poteri regi è un atto di restaurazione dei diritti dei principi contro le usurpazioni delle città. L’imperatore si comportava in senso conservatore ripristinando lo stato di diritto preesistente. L’introduzione delle leggi di Melfi non fu sempre serena tanto che nell’agosto 1232 provocò la rivolta di Messina capeggiata da Martino Mallone contro il giustiziere Riccardo di Montenero per l’abolizione dei diritti locali, dell’autonomia municipale e per l’imposizione di un soffocante sistema tributario. Nel gennaio 1233, l’imperatore raccoglieva a Policoro un esercito per la spedizione in Sicilia. Dava ordine di rafforzare la difesa della fedele Lucera e di abbattere le mura della ribelle Troia. In aprile Federico era a Messina soffocando la sedizione: Martino Mallone e i suoi complici furono impiccati o mandati al rogo come eretici. Dagli studi di astronomia all’uso dell’algebra nei problemi geometrici e al recupero della medicina greca e araba si precisarono nuovi atteggiamenti razionali che prescindevano da ogni preoccupazione teologale. Federico si mostrò sempre curioso e dichiarò necessari i ‘condimenta’ della scienza. I maestri di filosofia avevano in dono da Federico libri di logica e sull’arte di argomentare, opere matematiche greche e arabe, tradotte in latino per suo ordine in modo tale da servire agli studiosi. Nel 1234 Federico riformava l’Università di Napoli fondata dieci anni prima e decaduto durante il contrasto tra Chiesa e Impero: era questa un’iniziativa indispensabile nella riorganizzazione dello Stato in quanto nello Studio di Napoli si formavano i burocrati del Regno. Federico fu dunque signore e ministro della scuola siciliana, il cui iniziatore fu il notaio Giacomo da Lentini. Egli condizionò la scelta dei temi e diede una durevole impronta stilistica. Come lui, molti altri rimatori furono funzionari di corte, giudici e notai, gli stessi che avevano contribuito alla secolarizzazione della cancelleria imperiale: Pier della Vigna, Guido delle Colonne, Jacopo Mostacci. Numerose erano le canzoni che si compongono di strofe collegate frequentemente fra loro dalla ripresa di una stessa parola. Così in un siciliano letterariamente eletto, usato anche da autori nati lontano dalla Sicilia, nacque il linguaggio poetico della prima lirica cortese d’Italia. La poesia trobadorica presentava una varietà di toni, di modi di stilizzazione che si distinguono nei tre filoni principali di: 1. Realismo burlesco; 2. Amore cortese; 3. Passione religiosa e politica. Ma i rimatori della Magna Curia sull’esempio del Notaro accoglievano quasi esclusivamente dell’eredità provenzale il tema del ‘fin’amore’, solo oggetto degno di argomentazioni inesauribili. La vena realistico-burlesca sarà ripresa più tardi nella poesia comica toscana ma non incontrò favore nella scuola siciliana. Nessun riflesso nella lirica siciliana delle vicende del Regno e dell’Impero: manca infatti il sirventese infuocato e sarcastico che è lasciato agli ultimi trovatori in lingua d’oc alle corti dell’Italia settentrionale: da Americ de Peguilhan a Uc di Sant-Circ e a Sordello. In versi provenzali Federico è esaltato e anche dileggiato perché tenuto in scacco dai milanesi ma non è mai ricordato dai poeti della sua corte. I caratteri soprattutto stilistici dei poeti siciliani sono molto uniformi anche se non mancano elementi a distinguere i rimatori come per esempio la scelta delle immagini scientifiche in Guido delle Colonne o la scelta di temi di bestiario in Stefano Protonotaro da Messina. Di fronte all’accertata intercambiabilità delle stanze di alcune canzoni è da rilevare come è propria dei siciliani l’invenzione del sonetto, attribuita con ogni probabilità a Giacomo da Lentini. La sua forma chiusa, adatta a cogliere un discorso di contenuto concettuale, è la più logica di quante possa disporre la poesia ed esclude qualsiasi possibilità di scambiare le parti, di sovvertire il giuoco delle quartine e delle terzine. In una lirica povera di voli come quella siciliana, il sonetto è l’unico strumento per imprigionare un ragionamento o avviare una discussione sul ‘fin’amor’ con la sua funzione di epistola, tanto da favorire la corrispondenza tra poeti, con la condensazione innaturale di un epigramma, l’andamento razionale e quasi prosastico, a perfetta concatenazione di temi per un processo di vera ‘dialettizzazione’. Se per suo conto Federico non arrivò a veri risultati d’arte, ebbe della poesia il concetto di una nobile funzione: nei suoi versi la vita poetica non corrisponde alla vita reale. Promotore della scuola siciliana e rimatore lui stesso, l’imperatore ha quindi il suo posto fra i poeti della Magna Curia, nuovo David. Mentre il sovrano si accingeva alla ricostruzione del Regno, il Papa non aveva vita facile a Roma e nel giugno 1231 era costretto ad andarsene a Rieti quando i romani dichiaravano guerra all’odiata Viterbo. Gregorio si trasferì ad Anagni minacciato dal Comune romano di distruzione. I rapporti fra pontefice e imperatore dopo il laborioso accordo e l’incontro ad Anagni sembravano anche troppo buoni. Gregorio si era assunto il compito di metter pace tra Federico e i lombardi e aveva cominciato con il diffidare la Lega da frapporre ostacoli alla Dieta di Ravenna. Ma i lombardi si opposero ugualmente ai disegni dell’imperatore e impedirono regolarmente il passaggio ai principi tedeschi sbarrando le chiuse di Verona. Il papa non rinunciò alla sua mediazione con richieste perentorie di denaro e si mostro benevolente nei confronti di Federico. Il punto oscuro di tutto questo periodo di armonia fu la trattativa coi lombardi che non arrivò mai in porto e si sospettò che lo zelo del pontefice fosse solo apparente. Cacciato dai romani, si era rivolto all’imperatore perché muovesse senza indugio contro i superbi che intendevano umiliare la dignità della Chiesa e dell’Impero. Senza il soccorso di Federico, Gregorio era comunque riuscito a tornare a Roma pagando a peso d’oro le festose accoglienze del suo popolo, cessata la guerra con Viterbo. Ma, a distanza di un anno, i romani si sollevarono di nuovo per abbattere il dominio pontificio. Al di fuori dello stato tirannico di Federico e delle terre soggette al Papato, l’Italia era fitta di liberi comuni e Roma si protendeva verso quei nobili esempi presa dall’orgoglio civico improntato su antiche memorie. Il clero aveva giurisdizione propria e i romani volevano parificarlo ai laici, abolirne le immunità, tassarlo e sottoporlo al foro secolare. I romani esigevano la libertà di: • eleggere il Senato, • di battere moneta, • di trasformare in discritus urbis, le province ecclesiastiche del Patrimonio di San Pietro, di Campania, di Maritima • il privilegio di non essere colpiti da scomunica. Roma era ormai soltanto un nome. Il papa fuggiva a Rieti ricorrendo al solito anatema contro il senatore e il consiglio del Comune che avrebbero dovuto esserne esentati: in risposta fu saccheggiato il Laterano Federico soccorse il papa a Rieti. Se il papa si trovava in una situazione difficile, questo presagiva anche per l’Impero, le minacce dal Settentrione tedesco con la ribellione ormai aperta del re Enrico. Federico dunque aveva bisogno dell’appoggio di Gregorio e in più era ostile alle città che rivendicavano la loro autonomia: una Roma repubblicana sarebbe infatti stata nemica dell’Impero. Enrico VII nella sua lotta con i principi tedeschi tentava di infrangere l’ordine voluto dal padre Federico che contrapponeva allo Stato unitario di Sicilia una molteplicità di Stati in Germania sotto il dominio indiscutibile dei principi e dei vescovi. Enrico cercava un rapporto diretto con le borghesie cittadine contro il potere feudale e aveva finito per tramare con i comuni lombardi, nemici per tradizione dell’Impero e della casa Sveva, la costruzione politica di Federico II nel suo momento più prospero rischiava di dissolversi. L’imperatore con il figlio Corrado si mise al servizio della Chiesa e il papa esortò i principi dell’Impero a ricondurre sulla retta via il giovane re e mandò una lettera all’arcivescovo Treviri perché fosse annunciata pubblicamente la scomunica di Enrico VII. Intanto l’imperatore assediava il castello di Rispampano tenuto dai romani ma passava il suo tempo a caccia piuttosto che in combattimento. Ma l’aiuto di Federico ebbe comunque un valore positivo anche se dopo due mesi l’imperatore tolse l’assedio e tornò nel Regno: lasciva nelle terre Patrimonium le truppe tedesche al comando del legato imperiale Gebardo di Arneistein che unite alle forze di Viterbo, guidate dal cardinale Capocci sconfissero duramente l’esercito di Roma. La guerra fu ripresa ma lo sforzo dei romani era esaurito e Federico scriveva al papa augurando la pace ‘a onore e ad esaltazione della Chiesa’. Era costretto a partire per la Germania ma affermava di non abbandonare la Chiesa senza protezione. Roma cedeva al papa tra l’aprile e il maggio 1235 rinunciando ad assoggettare il clero alla legge civile e a sottomettere le riottose province alla giurisdizione del Campidoglio. Roma non sarebbe stata una libera repubblica né una città imperiale ma avrebbe conservato un’autonomia limitata sotto la suprema signoria del pontefice. Federico, alla viglia di partire, riconfermava l’alleanza con il re di Francia e si preparava a sposare Isabella d’Inghilterra. Era un’impresa non semplice da coniugare data l’ostilità tra le due corone di Francia e Inghilterra. Il papa lo sostenne e scrisse a Luigi IX perché non si alterasse per questo matrimonio un’amicizia antica che risaliva ai padri dei due sovrani. Federico per suo conto assicurava il re di Francia che le nozze combinate con Isabella non avrebbero minimamente mutato i loro rapporti. L’imperatore era pronto per il suo secondo viaggio in terra tedesca. la ribellione del figlio incontrava difficoltà anche sul terreno più favorevole alla sua politica. I cittadini di Worms avevano respinto con fermezza le lusinghe e minacce del giovane re che voleva imporre un giuramento legato soltanto alla sua persona senza menzionare suo padre che si stava muovendo verso la Germania con la speranza di trovare il suo popolo fedele. Dopo le crociate, tutto si ricomponeva come prima, nonostante qualche atto di sottomissione. Sulle profonde foreste, i laghi e le paludi vegliavano il sole, la luna e gli astri, gli spiriti degli antenati e dei guerrieri caduti in battaglia. Il fuoco era sacro di elementi naturali pervasi di magia. La bolla di Rimini sanciva la distruzione di quel mondo appena scalfito dalla predicazione dei cistercensi, dai contatti con i mercanti scandinavi, inglesi e slavi. Hermann von Salza era entrato nella vita di Federico in occasione della Dieta del 1216 a Norimberga. In quell’anno un gruppo di pruteni devastò villaggi della Pomerania e della terra di Chelmno. Il terrore si diffuse nella Polonia che si trovò invasa dai cavalieri pagani che colpivano e si dileguavano come folgori: alle scorrerie sempre più frequenti si rispose con le crociate e alla fine con la chiamata dei cavalieri teutonici. Di Hermann von Salza, gli storici tedeschi hanno lodato la fedeltà, la stessa fedeltà che gli storici polacchi hanno tradotto in fermezza politica pronta ad usare qualsiasi mezzo pur di raggiungere lo scopo. Il Gran Maestro proveniva da una famiglia di ‘ministeriales’: all’origine non erano cavalieri liberi, ma di estrazione contadina, promossi a cavalieri dai loro principi. Erano uomini educati alla fedeltà ma anche avidi di rivalsa. Gli storici dei due versanti hanno colto alcuni tratti apparentemente contraddittori: il Gran Maestro fu fedele ai suoi angusti protettori ma anche ambizioso e avido. Dovendo scegliere tra Papato e Impero, scelse l’Impero, una concezione dunque decisamente politica, piuttosto che religiosa. La Chiesa e il Papato erano due grandi organismi fondati ugualmente sulla legge e la legge è la morte della vera religione. Il Gran Maestro si servì per i suoi progetti della Chiesa e dell’Impero: nelle vicende dello stato teutonico in Ungheria cercò e ottenne l’appoggio del papa perché l’Impero ne era estraneo. In altre occasioni chiesa aiuto all’Impero. Nulla aveva in comune con Francesco d’Assisi che rappresentava una concezione religiosa completamente esente di dominio politico. Il Gran Maestro fu forse a Damietta alla vigilia del disastro franco. Forse vide Francesco al campo crociato ma non poteva neanche pensare ad una conversione del soldano. Francesco era arrivato in Oriente per una missione di pace lontana dagli intenti del papa; si presentò al sultano al-Kamil pronto a lanciarsi nelle fiamme dalle quali probabilmente ne sarebbe uscito indenne. Probabilmente Hermann von Salza avrebbe provato di fronte a Francesco d’Assisi lo stesso distacco di al-Kamil, rimanendo vicino alla vera Chiesa. I cavalieri teutonici tardarono a raggiungere la Polonia perché, alla vigilia della crociata, due monaci dell’ordine si erano presentati a Corrado di Masovia ottenendo un privilegio di donazione. In Oltremare il Gran Maestro si rese conto della situazione precaria in cui si sarebbe trovato sempre il Regno di Gerusalemme lacerato dalle lotte tra i baroni francesi e gli imperiali: un regno che i musulmani avrebbero facilmente messo in pericolo. Cos’ nella primavera del 1230 i cavalieri teutonici arrivarono in Polonia e pochi mesi dopo in Occidente, grazie all’azione diplomatica del Gran Maestro, tornava la pace tra il papa e l’imperatore conclusa con l’abbraccio che consacrò Federico ‘figlio diletto della Chiesa’. Nel 1231, l’anno delle Costituzioni di Melfi, i cavalieri di Hermann Balk attraversarono la Vistola con conseguenze che si ripercossero sul nobile putreno Pipino che, convertito al Cristianesimo ma ribellatosi all’Oriente, fu giustiziato in modo atroce. Intanto l’imperatore indiceva a Ravenna la Dieta di Corte dove si sarebbero discussi i problemi della Germania e i rapporti con i lombardi. Si delineò il dissidio tra l’imperatore e il figlio Enrico che stava dando segni di irrequietezza. Con la Dieta del Friuli si arrivava a soluzioni apparenti e provvisorie delle varie questioni e la pace sembrò regnare in Occidente: cessata la discordia tra papa e imperatore, umiliato il re Enrico e tornata la calma in Lombardia, si entrò nel tempo dell’Alleluia. A Cipro nel frattempo, si concludeva la guerra tra francesi e imperiali con la resa di Kyrenia e il ritorno dell’isola al governo di Ibelin. In Polonia i cavalieri teutonici conducevano una crociata vittoriosa contro i putreni insieme ai principi polacchi. Ostile all’Ordine era il vescovo di Prussia Cristiano, cistercense, che aveva evangelizzato le tribù pomerane sulla riva della Vistola. Ma un caso fortunato per i cavalieri lo tolse di messo per cinque anni: infatti dopo la crociata era caduto prigioniero dei putreni mentre predicava il Vangelo nelle regioni orientali della Prussia. Corrado di Masovia si accorse troppo tardi di aver favorito la costituzione di uno Stato all’interno del suo stesso Stato. L’inverno del 1234 fu freddissimo in Val padana, come racconta Salimbene: un’immensa coltre di neve si stendeva sulle terre dell’Impero. In pochi anni l’Oriente Teutonico dominò in gran parte della Prussia e si unì coi Milites Christi di Livonia, acquistando un nuovo Stato. I cavalieri governarono con durezza, trattando i putreni come schiavi e imponendo il dominio tedesco degli ‘antichi cristiani’ sui nuovi credenti, contro la stessa volontà del papa. Ebbero presto fama di invincibili e si spinsero sempre più avanti fino alla presa di alcune città russe minacciando la ‘Signora Grande Novgorod’. Questa volta si trattava di un avversario troppo difficile: l’esercito di Novgorod, guidato da Aleksandr aveva sconfitto nel 1240 sulla Neva gli svedesi in una battaglia che la Chiesa russa interpretò come il trionfo della fede greco-ortodossa sulla cattolica romana. Novgorod era una vitta fondata su istituzioni democratiche, progredita dal punto di vista economico e centro di grandi traffici coi tedeschi e con gli svedesi. I cittadini avevano realmente il potere e il principe era un capo militare, soggetto alla loro volontà. Era la città più fiorente della Russia. Il popolo di Novgorod era caratterizzato da uno spirito di libertà e di fierezza civica. I cavalieri teutonici provarono ad affrontarli ma furono vinti e da allora abbandonarono i progetti di conquista in Russia e si orientarono verso la Lettonia e la Lituania. Novgorod mantenne a lungo la sua libertà finchè cadde sotto il tetro dominio di Ivan il Terribile e la finestra verso l’Europa fu chiusa per sempre. Intanto si era manifestata ma subito repressa la ribellione di Enrico; l’imperatore muoveva la guerra contro i lombardi e riprendeva il dissidio con il papa dopo lo scacco di Brescia vanamente distrutta. Hermann von Salza diede il suo contributo in tutti questi avvenimenti: • trattò la pace tra i baroni di Oltremare e Federico facendo in modo che gli inviati del Regno di Gerusalemme non ottenessero un’udienza serena a Roma dove intendevano giustificare i loro atti violenti contro l’Impero; • persuase il re Enrico alla resa e all’accettazione del Giudizio di Worms che significò per lui la deposizione e la prigionia; • concluse le trattative con il papa e le città lombarde riuscendo ad ottenere anche qualche vantaggio prima che l’imperatore decidesse di dichiarare guerra per risolvere i problemi. Hermann von Salza si era sempre adoperato a risolvere i contrasti tra Papato e Impero ma, quando i rapporti si inasprirono di nuovo, il grande mediatore era gravemente ammalato e non fu più in grado di mettervi riparo. Così rimase estraneo all’ultima fase polemica che portò alla frattura definitiva. Nella Domenica delle Palme del 1239, Hermann von Salza moriva a Salerno e nello stesso giorno l’imperatore fu scomunicato. L’Ordine Teutonico, che Hermann aveva trovato in condizioni molto misere, diventò ricco e potente sotto la sua accorta guida. Egli si era prodigato al servizio dell’Impero e della Chiesa per assicurare prosperità al suo Ordine che divenne allora prospero e saldo. Il mondo lacerato dalla guerra tra Papato e Impero fu atterrito da un’eclissi: si oscurò il sole e in pieno giorno riapparvero le stelle. Uomini e donne vagavano come folli e correvano a confessarsi per pentirsi dei peccati. Passavano processioni e tutti cercavano di far pace con i loro nemici anche se la discordia continuava a regnare tra i potenti della terra. 6. DAVID E ABSALOM Enrico, figlio di Federico II e di Costanza d’Aragona divenne da piccolino re di Sicilia per volontà di Innocenzo III e a nove anni fu proclamato re dei romani alla Dieta di Francoforte per volontà del padre che assicurava così l’Impero alla sua discendenza e l’unione al Regno di Sicilia avversata dai pontefici. Nel primo caso il papa si era trovato di fronte ad una pericolosa alternativa e aveva scelto il male minore sostenendo Federico contro Ottone e da Federico ottenne la rinuncia al vecchio Regno Normanno, feudo della chiesa, in favore del Nel 1242 Enrico morì. E su sepolto a Cosenza. Quando David ebbe la notizia della morte di Absalom fu preso da un fremito e pianse e sul popolo di Israele scese il lutto. Per tre volte Federico pianse il figlio come David aveva pianto Absalom. Federico contrappose il suo dolore paterno al rigore di giustizia che lo aveva guidato nei confronti del figlio. Pregò gli abati di celebrare con la maggiore devozione le esequie di Enrico raccomandando la sua anima alla divina misericordia. Si rivolse alla nuora Margherita che Enrico avrebbe ripudiato sciogliendo un matrimonio politico imposto dall’imperatore. Chiese ai suoi fedeli la partecipazione al proprio lutto e dopo aver ammantato di dignità latina il proprio lutto, Federico tornava lontano e irraggiungibile chiuso nella sua amarezza. 7. ULTOR AUGUSTUS La guerra contro i lombardi ribelli fu decisa dalla Dieta di Magonza. Dopo lunghi anni di pace i principi tedeschi erano impazienti di combattere e gli stessi cavalieri teutonici sembravano contrari agli indugi e alle intenzioni di trattare del Gran Maestro, ossia Hermann von Salza. Federico si comportò in Germania come l’’imperatore che giudica dall’altro ma anche da monarca tedesco favorevole alla concordia tra principi e alla pace civile, una volta domata la follia inquisitoria di Corrado da Marburgo e la ribellione di Enrico. Il Kantorowicz (storico tedesco di origine ebraica 1895-1963) esalta la prima pubblicazione di un documento ufficiale in lingua tedesca proprio alla Dieta di Magonza: la Costituzione generale in quindici capitoli. Dopo aver considerato Federico responsabile della mancata unità germanica, lo studioso sostenne che, con questa innovazione Federico era ‘il più romano degli imperatori e anche il più tedesco’. Alla chiusura della Dieta, Federico, in accordo con i principi dell’Impero, annunciava al papa che nell’aprile prossimo sarebbe entrato da nemico in Lombardia nel caso in cui non si fossero concluse le trattative con i lombardi affidati al pontefice. Era quello un momento in cui Federico II godeva del più alto prestigio presso gli altri re di Europa. Nel quadro della politica di accordi con l’Inghilterra, l’imperatore aveva sposato la sorella del re Enrico III. Nel febbraio del 1235 i suoi ambasciatori, compreso Pier della Vigna, erano arrivati a Londra per la domanda di matrimonio nelle lettere con le bolle d’oro. Si riunirono in consiglio col re, i vescovi e i nobili e, dopo tre giorni di discussione, insieme decisero di concedere la mano della principessa ventenne. Messaggeri fidati andarono alla torre di Londra dove si trovava Isabella sotto vigilante custodia. Fu condotta dal re ed esibita agli ambasciatori svevi, graziosissima, pudica, in vesti regali. Gli ambasciatori la ammirarono trovandola degnissima del trono più eccelso della terra e le offrirono l’anello nuziale salutandola come Imperatrice del Romano Impero. Fu avvisato Federico che, dopo le solennità pasquali mandò in Inghilterra l’arcivescovo di Colonia e il duca di Lovanio perché gli conducessero la sposa. Fu preparata con sottile lavoro una corona di oro purissimo costellata di gemme, con le figure di quattro martiri inglesi, perché, secondo le intenzioni del re, custodissero l’anima della giovane sorella. Anelli e monili d’oro, ornati di pietre preziose, riempivano gli scrigni del corredo; splendevano d’oro e d’argento anche gli oggetti da cucina più comuni. Alla presenza di Isabella non mancarono le lacrime quando il fratello si separò dalla sorella. Dopo tre giorni e tre notti la nave entrò nella foce del Reno dove un gruppo di armati attendeva la principessa per proteggerla da un eventuale rapimento da parte di nemici dell’imperatore. Dopo cinque giorni, Isabella era a Colonia dove diecimila cittadini le vennero incontro con fiori e rami di palma. Isabella mostrò il suo volto togliendosi il velo. Nella notte continuarono danze e canti di fanciulle mentre la principessa era ospitata nel palazzo dell’arcivescovo e guardie armate vigilavano sulla città in festa. Questo fu lo splendente preambolo al matrimonio di Isabella che, come tutte le mogli di Federico II, conobbe il momento più esaltante e prestigioso della sua vita nei giorni delle nozze prima di sparire di colpo agli occhi del mondo nella prigionia delle imperatrici schiave. Per tutto il periodo del suo soggiorno in terra tedesca, Federico fu un sovrano rispettoso degli ideali di ‘pax et justitia’ secondo lo spirito della Costituzione generale di Magonza. L’imperatore passava da una città all’altra prendendo e rinnovando privilegi. Si difendeva dalle accuse di Gregorio IX che, timoroso delle nuove decisioni, si lamentava di presunte prepotenze contro i prelati del Regno e della colonia saracena di Lucera, scandalo della Cristianità. Federico rispondeva negando i soprusi. Quanto alla colonia agricola-militare di Lucera, ne sosteneva la grande utilità per il mondo cristiano. L’atteggiamento di giudice imparziale assunto dall’imperatore fu confermato nella questione degli ebrei di Fulda. Negli Annales Marbacenses parlano di ‘judei’ che avevano trucidato alcuni bambini cristiani nei pressi del monastero di Fulda. Seguivano massacri di ebrei da parte dei cittadini di Fulda. I corpi dei fanciulli furono portati al castello dove si trovava Federico e seppelliti pietosamente. L’imperatore convocò da diverse parti giuristi e letterati perché studiassero se davvero i figli di Israele considerassero il sangue dei cristiani necessario per i loro riti, minacciando di sterminio la gente di Sion in tutto l’Impero se fosse stato provato il crimine. Non si trovò nulla di certo e, accettando molto denaro dagli innocenti, si placò lo sdegno imperiale. Forse l’imperatore non credeva alla voce popolare e assolse gli ebrei limitandosi a ricavarne un buon affare. Questa sentenza si confaceva alla politica di Federico verso il popolo di Israele che nel Mezzogiorno d’Italia ecce un periodo completamente fausto, soprattutto a partire dal 1224, con una protezione che si estese da Trani a tutto il Regno. Nell’anno del processo di Fulda, 1236, ci furono massacri di ebrei in Spagna e anche le comunità giudaiche d’Inghilterra pagarono forti somme per non offrire ingiurie e molestie. Federico agì su un piano legalitario anche se in seguito alcune sue frasi dure e sprezzanti e l’allontanamento degli Ebrei di Vienna dimostrarono che l’atteggiamento del re variava secondo l’opportunità. Nel 1238 concedeva protezione a favore degli ebrei di Vienna difendendoli dalle violenze dei cristiani. Il soggiorno in Germania di Federico si concluse a Marburgo nel maggio 1236 con la cerimonia di sepoltura di Elisabetta di Ungheria, figlia di Andrea II di Ungheria. Era stata moglie di Luigi, langravio di Turingia, che aveva seguito Federico nella crociata ed era morto sulla nave per la pestilenza che aveva colpito anche lo stesso imperatore. La soave e pia Elisabetta, conquistata dalla predicazione francescana, aveva passato gli ultimi anni della sua vita tra i poveri e i lebbrosi, curando soprattutto i bambini. Una folla immensa si radunò a Marburgo e il sovrano stesso sollevò la pietra del sarcofago dove giaceva il corpo che, dopo il tradizionale taglio della testa, fu sistemato in una bara di quercia dorata. Federico offrì un prezioso reliquiario formato da una corona e dal un calice d’oro per conservarvi il teschio della santa. L’atteggiamento dell’imperatore conobbe diverse interpretazioni: sicuramente il suo gesto cavalleresco era venato di affetto verso la sposa di un amico fedele e sfortunato; forse non era mancato l’intento di ingraziarsi il papa prima della spedizione in Lombardia ma Federico amava molto le cerimonia regali e religiose, fonte di prestigio e ci teneva a presentarsi come imperatore cristiano. Nella primavera 1236, alla vigilia del ritorno in Italia, i principali pensieri di Federico erano due: 1. l’opposizione dei lombardi; 2. l’inimicizia del duca d’Austria. Mentre indiceva ai suoi fedeli la Dieta di Piacenza dove avrebbero potuto presentarsi anche gli ambasciatori delle città ribelli. In una lettera al re di Boemia e agli altri principi descriveva le malefatte di Federico duca d’Austria che attentava all’orrore, alla parola e all’opera dell’Impero. Si era rifiutato di partecipare a tutte le diete imperiali, aveva chiesto senza vergognarsene denaro all’imperatore per far guerra al re d’Ungheria, aveva offeso i principi e violato i territori dell’Impero: si trattava di rispondere allo stolto secondo la sua stoltezza. La lettera descriveva il duca come oppressore del suo popolo, ne denunciava i soprusi e gli spassi erotici del duca ai danni di vergini e spose. I principi muovevano guerra al duca d’Austria e arrivarono a Vienna senza incontrare resistenza. Nell’agosto Federico era a Trento e di là mandava una lettera di rimprovero al senatore, al Senato e al popolo di Roma. Cercava di risvegliare gli spiriti dell’antica dignità nei romani. Contrapponeva alla loro pigrizia l’esempio della Milano ribelle che faceva splendere il miraggio della ‘reformatio Imperii’. Nella previsione di scontrarsi nell’ostilità del papa, Federico riprendeva a spronare e a lusingare Roma dove era agguerrita la parte imperiale. e logoranti oltre che l’amarezza della sconfitta. Era passato il tempo delle grandi vittorie diplomatiche e Federico che aveva scelto la guerra non riuscì a trovare la pace e si deteriorò a poco a poco la sua grande opera di statista fino al tradimento dei baroni. Cominciò da allora la più feroce rapina delle risorse economiche del Regno. Nel gennaio 1236 era imposta la solita colletta generale, nel marzo 1237 altra colletta per tutto il regno e così nel 1238 e nel 1239. Le nuove monete, gli augustali, di peso inferiore rispetto alle precedenti, costituirono una fonte di entrata. Poi si aggiunse l’auditorium, una pesante tassa che gravava tutte le chiese e i monasteri del Regno. Si stabilirono norme più perfezionate per le collette, ordinando in ogni regione gli ufficiali a cui gli esattori dovevano versare gli introiti e consegnare i conti. Si nominarono ‘visitatores’ e ‘provisores’ per ispezionare a scopo censorio ma anche fiscale i castelli del Regno, una vola la settimana, compilando rapporti con nomi di castellani, luogo di nascita, numero dei serventi e dei soldati. Fu promossa anche una inchiesta contro gli agenti del fisco e gli esattori. Tassati gli ufficiali e quanti erano insediati in pubblici uffici, nuovi sussidi imposti ai chierici e ai feudatari, requisizione dei tesori delle chiese. Federico passò gli ultimi mesi del 1238 fra Novara, Vercelli, Torino, Alba, avviando un riordinamento statale. Nel marzo, Gregorio, tentando di distrarre Federico dalla guerra ai lombardi, aggiungeva agli appelli per l’improrogabile passaggio in Terra Santa l’esortazione a difendere l’Impero latino d’Oriente dai greci eretici. Ma gli unici eretici erano i milanesi mentre considerava piissimi gli ortodossi ed era ben visto dai monaci dei conventi basiliani come protettore della Chiesa greca contro i soprusi della curia romana. Era in rapporti di amicizia con l’imperatore di Nicea, il grande Giovanni III Vatatze e nel suo variopinto esercito che muoveva all’assedio di Brescia non mancarono guerrieri niceni. Tutti i sovrani della terra avevano mandato truppe per sterminare i nemici dell’Impero. Ma Brescia resisté all’assedio e l’esercito imperiale finì per ritirarsi con i suoi cammelli e dromedari. Federico si spostava da una città all’altra mentre i suoi avversari riprendevano fiato e si offuscava la sua fama di invincibile. I genovesi che si erano riavvicinati all’imperatore a maggio, se ne staccarono a settembre incuranti delle sue minacce. Il figlio Enzo sposava Adelasia, signora di Torre e di Gallura: matrimonio avversato dal papa che considerava la Sardegna come proprio feudo ma sulla quale anche l’Impero rivendicava i suoi diritti. Federico passava il tempo tra concessioni di privilegi, imposizioni di nuove collette al paziente popolo del Regno. Scriveva anche al fanciullo Corrado perché non si accontentasse della dignità del suo nome ma conquistasse la nobiltà vera attraverso un comportamento virtuoso. Nei primi mesi del 1239 il sovrano sentiva la rottura con Gregorio IX che manovrava contro di lui stringendo alleanze. Il sovrano ripristinò gli editti contro gli eserciti; alternava lusinghe e minacce nel solito tentativo di dividere il campo avversario. L’imperatore era a Padova e passò la Domenica delle Palme a ‘Patrovallis’ mostrandosi a tutti con aspetto lieto. Parlò Pier della Vigna mentre Federico sedeva sul trono, nell’aria festiva di una manifestazione di amore e benevolenza; il papa invece in Laterano scagliava la scomunica con un a voce così minacciosa da atterrire i presenti. La prima accusa era di aver provocato la sedizione a Roma con l’intento di cacciare il pontefice dalla sua sede; L’anatema proseguì ricordando le chiese del Regno distrutte e profanate, l’occupazione o la devastazione di terre che appartenevano alla Chiesa, i chierici incarcerati, gli ostacoli alla crociata e alla difesa dell’Impero. Si aggiunse una nuova guerra di carta, più aspra e severe rispetto allo scontro di dieci anni prima. Federico in una lettera al senatore di Roma deplorava che nessuno in tutta la tribù romulea e nella turba dei Quiriti fosse insorto a nome dell’imperatore e che nessuno avesse parlato dell’ingiuria subita dopo che lui stesso aveva aggiunto agli antichi, i nuovi trofei delle vittorie, adoperandosi ad esaltare il nome dei romani. Ma i romani ad eccezione della parte imperiale, diffidavano di Federico, ben sapendolo avverso a ogni forma di autonomia cittadina. L’imperatore a Roma avrebbe significato l’abolizione degli statuti del Campidoglio. Federico non ritenne mai le città, organismi politici, sociali, economici e morali a sé stanti e combattè le loro presunte usurpazioni nei confronti dei principi anche in Germania. L’imperatore mandava messaggi ai principi cristiani difendendosi dalle accuse di Gregorio IX denunciando a sua volta la sua ambizione e avarizia. Il papa replicava con lettere feroci notificando ai prelati la scomunica. Se l’avidità di Roma non avesse allontanato i popoli devoti dal papa, tutto il mondo si sarebbe levato contro l’imperatore come nemico della Chiesa e di Cristo dopo questa invettiva apocalittica. Ma il mondo era diviso. L’imperatore cercava un accordo che il pontefice gli negò. Nella guerra che si inaspriva venivano presi seri provvedimenti contro il clero: • furono espulsi i frati minori e i predicatori di Lombardia; • furono banditi i monaci di altre parti d’Italia; • fu ordinata una stretta sorveglianza sulle lettere perché non fossero introdotte missive del papa, pena l’impiccagione. Anche Gregorio insisteva nelle condanne: • fu deposto frate Elia, ministro generale dell’Ordine dei minori e amico dell’imperatore che si rivolgeva ancora ai cardinali perchè frenassero il papa nelle sue illecite iniziative minacciando altrimenti la vendetta cesarea; • nominò il figlio Enzo, re di Torre e Gallura e legato generale dell’Impero in Italia con i poteri militari e civili. Enzo si affrettò ad esercitarli in Romagna e nella Marca Anconitana e nel Ducato di Spoleto sciolti dal giuramento di fedeltà verso la Chiesa. Cominciava a delinearsi il progetto di una unificazione italiana sul modello del Regno di Sicilia. Federico annunciava la prossima distruzione di Milano e attendeva truppe dalla Germania mentre la Repubblica di Venezia prometteva di mandare venticinque galee alla conquista del Regno. Il sovrano intanto si era accampato presso Bologna devastandone il contado: distruggeva Piumazzo e Crevalcore, abbatteva il ponte di Piacenza. La grande contesa tra il papa e imperatore provocava ribellioni minori, defezioni, tradimenti. Il Regno di Sicilia era invece minacciato dalle truppe del papa e dalle galee veneziane e Federico provava a difenderlo mandando istruzioni agli alti burocrati. Insieme agli affari di Stato, alla riforma dell’Università, ai pagamenti in once d’oro per i suoi soldati e all’acquisto di frumento, l’imperatore si occupava di leopardi, falchi, di lupi da distruggere e di gru da catturare. All’inizio dell’estate, dopo le continue insistenze di Gregorio e un’intensa predicazione della crociata in Francia e in Inghilterra, si era radunata a Lione una eletta schiera di nobili francesi capeggiata dal re di Navarra, Tibaldo di Champagne. Federico era molto contrario alla spedizione e fece in modo che le truppe non passassero in Italia per imbarcarsi a Brindisi: la maggior parte dei crociati partì da Marsiglia e da Aigues- Mortes. Più tardi l’imperatore avrebbe deplorato in una lettera a Enrico III la disfatta di Gaza, accusando il papa per la sua fretta irresponsabile e dicendo di aver previsto l’insuccesso a disonore delle armi cristiane. Federico aveva tutto l’interesse di mantenere la tregua in Oriente e a non farvi affluire soldati francesi che avrebbero sostenuto i baroni d’Oltremare contro gli imperiali. Aveva anche bisogno dell’appoggio musulmano per combattere Venezia e per questo conservava buoni rapporti con il sultano di Tunisi. Riccardo di Cornovaglia sarebbe andato lui stesso a rimediare i danni della crociata. Dal dicembre 1239 Federico era in Toscana e si spostava da Pisa a San Miniato, a Siena, ad Arezzo. A Foligno fu accolto con grande onore e così via fino a Viterbo dove il monarca si fermò deciso ad entrare trionfalmente a Roma per restaurarvi gli antichi fasti dell’Impero e coronare di allori le aquile vittoriose. Qui accadde quello che Gregorio IX definì un miracolo. Nella città dove incombeva la minaccia di Cesare vendicatore, il papa si mosse dal Laterano portando a San Pietro in solenne processione le reliquie della croce e le teste dei beati apostoli Pietro e Paolo. Il suo gesto teatrale e le parole con cui esortò i santi a difendere Roma tradita dai romani provocarono turbamento nella folla che si strinse intorno al pontefice mentre molti prendevano la croce contro l’imperatore. Federico, da Viterbo, in una lettera al re d’Inghilterra derise quella scena. Ma dopo qualche giorno l’imperatore levava il campo e si ritirava nel Regno. La prima occasione favorevole di entrare in Roma sfumò. Federico si fermò nel Regno solo per tenere a Foggia una Dieta di Corte, poi si accampò a Capua, pronto a invadere ancora il patrimonio di San Pietro. Saccheggiava intanto Benevento, rifugio per i fuoriusciti del Regno. Fallivano trattative di pace condotte dal nuovo Gran Maestro dell’Ordine Teutonico, Gerhard von Malberg. Non si arrivava nemmeno ad un armistizio in quanto il papa rifiutava qualsiasi accordo non includesse anche i lombardi. Dopo aver evitato la questione lombarda, Gregorio rivelò il proposito di un’aperta alleanza. La tregua mancata provocò il passaggio dalla parte avversa del cardinale Giovanni Colonna che si ribellò alla politica pericolosa di Gregorio. difesa da un presidio imperiale provocando il ritorno del sovrano che si accampò di nuovo sui monti Albani devastando le campagne. Intanto la grande marea mongola, dopo aver sommerso la Croazia e toccato le rive dell’Adriatico, rifluiva rapidamente: Batu si affrettava verso la Mongolia dove si decideva la successione dopo la morte del gran Khan Ogodai; i tartari si ritiravano in Russia. L’Europa occidentale era salva e poteva tornare a vedere nell’Islam il vero nemico. L’imperatore nell’agosto 1242 si allontanava da Roma ma l’anno seguente era ancora sui colli latini e saccheggiava i possedimenti dei cardinali colpevoli di ritardare l’elezione del pontefice. I saraceni distrussero Albano con le sue centocinquanta chiese secondo il racconto fantasioso di Matteo da Parigi. Fra una scorreria e l’altra, fra le rapine dei tesori delle chiese ai confini del Regno, Federico trovava modo di svagarsi tra i boschi e i laghi, nell’aria salubre dei colli invidiata dai romani chiusi nella loro città mefitica. L’imperatore poteva occuparsi dei suoi interessi archeologici contemplando i resti dei templi, ville. Federico non era più quello che donava generosamente ma era quello che spogliava le chiese e accumulava a Foggia l’oro, l’argento, le gemme. Il 25 giugno 1243 era eletto finalmente papa il genovese Sinibaldo Fieschi col nome di Innocenzo IV. Egli apparteneva ad una nobile famiglia dell’Impero e aveva parenti a Parma, fra questi Orlando de Rossi, amico dell’imperatore. Federico sembrò soddisfatto dell’elezione e sperò nella pace. Ordinò inizialmente servizi di ringraziamento per tutto il Regno di Sicilia e annunciò l’invio di ambasciatori al papa nel frattempo Federico era a Melfi dove si occupava della caccia e scriveva il suo trattato De arte venandi cum avidus. Nell’estate del 1243 iniziarono i negoziati tra Innocenzo IV e Federico. L’imperatore non era più il personaggio misterioso che inquietava Onorio III e il papa restava ancora un enigma, il quale lungi dall’essere un interlocutore arrendevole, nella sua freddezza poteva nascondere insidie. La stessa scelta del nome non era stata certo casuale. Le trattative non si presentarono facili sin dall’inizio: il papa rifiutò infatti di incontrarsi con ambasciatori scomunicati e non richiamò il legato Gregorio da Montelongo dalla Lombardia dove minava l’autorità dell’imperatore. Presto si delinearono due ostacoli insormontabili: 1. la decisione del pontefice di includere i lombardi nei negoziati come parte contraente; 2. la richiesta di restituire integralmente le terre del Patrimonio della Chiesa occupate durante la guerra con Gregorio IX. Sul 1° punto il sovrano non intendeva cedere perché vi vedeva un’umiliazione dell’onore imperiale; quanto ai territori, suoi per diritto di conquista, era disposto a renderli a condizione di riaverli come feudo. L’imperatore si trovava in Puglia quando arrivò la notizia della ribellione di Viterbo. Da tre anni la città riconosceva in Federico il suo signore ma la parte guelfa aveva ripreso ad agitarsi dopo l’elezione del pontefice. Ad incoraggiarla c’era il cardinale Ranieri di Viterbo che ordinò un tentativo di insurrezione contro gli imperiali. Questo cardinale guerriero sembrava aver ereditato contro Federico l’odio di Gregorio IX. La rivolta divampò nell’agosto e il capitano imperiale di Viterbo fu costretto a rinchiudersi con la guarnigione del palazzo di San Lorenzo, subendo un duro assedio. Il papa continuava a trattare con l’imperatore ma nello stesso tempo mandava segretamente messaggi ai viterbesi promettendo aiuti militari e fornendo denaro all’animoso Ranieri. Innocenzo IV tornò a Roma nell’ottobre dove fu assalito da sciami di creditori che chiedevano la restituzione di quarantamila marchi prestati al suo predecessore. Federico accorse a Viterbo assediandola con furore ma i suoi assalti furono respinti nonostante i rinforzi arrivati dalla Toscana al comando del conte Pandolfo di Fasanella. Il papa gli mandò un ambasciatore, il cardinale Ottone di San Nicolò che era stato prigioniero del sovrano e con il quale esisteva un rapporto di reciproca stima: era un segno di favore da parte di Innocenzo IV e l’imperatore accettò di togliere l’assedio e di ritirarsi col patto che la guarnigione imperiale potesse lasciare la città senza danno. Ma, quando ciò accadde il 13 novembre, il conte Simeone e i suoi furono assaliti e sterminati per ordine di Ranieri da Viterbo. Il cardinale Ottone si gettò personalmente nella mischia tentando di proteggere i ghibellini a rischio della propria vita contro una folla indemoniata. ,I romani approfittarono della ritirata di Federico per impadronirsi di Castel del Vico e catturare il conte Pandolfo. All’imperatore, esasperato dal tradimento non restò che sfogarsi tramite lettere. Le trattative col papa ripresero anche per l’intervento del re di Francia. Innocenzo IV si era scoperto fino ad un certo punto e aveva disapprovato il massacro della guarnigione minacciando di punire severamente Viterbo in caso di mancato rilascio dei prigionieri e con la restituzione dei bene depredati. Ordinò al cardinale Ranieri di imporre al Comune una pena pecuniaria. Federico era in preda ad un furore impotente, non poteva fidarsi di nessuno e soprattutto gli sfuggiva la strategia avversaria: si trattava di un nemico inafferrabile e molto subdolo. I patti non vennero del tutto rispettati e inoltre attraverso questi patti l’imperatore doveva trasformarsi in un penitente, dedito alle elemosine, ai digiuni, alla fondazione e alla dotazione di chiese e ospedali: umile e devoto avrebbe accettato la scomunica in attesa dell’assoluzione. Il 31 marzo si trovarono a Roma gli ambasciatori imperiali con Raimondo conte di Tolosa a rappresentare il re di Francia, gli invitati delle città lombarde, alla presenza del Senato e del popolo romano. C’era anche Baldovino II, imperatore latino di Costantinopoli, sempre in cerca di aiuti per il suo trono in pericolo e fautore della pace in Occidente. Pier della Vigna, Raimondo di Tolosa giurarono in nome di Federico II i preliminari dell’accordo che comportava la restituzione alla Chiesa di tutte le terre in suo possesso al tempo della scomunica, l’accettazione dell’assoluto potere spirituale del papa sopra i principi cristiani e la grazia e il risarcimento per tutti i suoi seguaci. L’imperatore fu detto da Innocenzo IV ‘devoto figlio Chiesa e principe cattolico’. Federico che voleva la pace diede subito notizia dell’accordo al figlio Corrado con soddisfazione prematura. Poi cominciarono i contrasti: • il papa avrebbe assolto l’imperatore solo dopo la ricostituzione dello Stato della Chiesa; • i lombardi volevano il papa come unico arbitro nel loro conflitto con l’imperatore; • Federico chiedeva l’assoluzione immediata e teneva impegno le terre della Chiesa per ottenerla, rifiutava di sottostare all’arbitrato del pontefice intendendo ripristinare un rapporto diretto con le città del Settentrione, esigendo giuramento di fedeltà e la rinuncia ai patti di Costanza. Nacquero sospetti per gli intrighi fra il sovrano e i ghibellini di Roma e quando Federico fece suoi vassalli Enrico e Iacopo Frangipane assegnando loro la metà del Colosseo, Innocenzo IV dichiarava nulla la concessione imperiale e imponeva ai Frangipane di accettare lo stesso privilegio come feudo della Chiesa. Altro atto ostile verso Federico fu costringere il prefetto di Roma a riconoscere che l’investitura del suo ufficio spettava soltanto al pontefice mentre Federico ne rivendicava il diritto dell’Impero. Il papa insisteva per la restituzione delle terre come premessa dell’assoluzione ma l’imperatore non era d’accordo e si attirò l’accusa di spergiuro. Per rafforzare la propria posizione e vincere i dissensi di alcuni cardinali, Innocenzo IV ne nominò altri dodici favorevoli alla sua politica che diventava sempre più intransigente. Federico sollecitò un incontro con il pontefice: contava di risolvere le questioni più urgenti e forse faceva affidamento anche sul suo fascino che gli era stato d’aiuto nel passato. Il papa accettò la proposta e raggiunse Civita Castellana: Federico si trovava a Terni e aveva indicato Narni come luogo del convegno. Nel frattempo, il pontefice mandò segretamente un frate francescano con lettere urgentissime al podestà di Genova. Innocenzo IV restava a Civita Castellana scambiando ambascerie con l’imperatore mentre navi genovesi guidate da tre Frieschi cugini del papa, si dirigevano verso Civitavecchia dove approdarono il 27 giugno. Innocenzo, a differenza di Federico, voleva la guerra ma non intendeva combatterla nelle condizioni di Gregorio IX, con l’imperatore alle porte di Roma. Così decise di fuggire al di là delle Alpi sottraendosi alla morsa imperiale e, appena gli arrivò la notizia della flotta genovese ancorata a Civitavecchia dove approdarono il 27 giugno. Innocenzo, a differenza di Federico, voleva la guerra ma non intendeva combatterla con l’imperatore alle porte di Roma come era successo con Gregorio IX. Nella notte del 28 giugno il papa vestì la corazza e cinse la spada e al mattino fu a Civitavecchia. Rimasero in Italia quattro cardinali: Ranieri da Viterbo, Reginaldo da Ostia, Riccardo Annibaldi e il legato pontificio a Roma, Stefano. Le navi salparono nel giorno di San Pietro: erano minacciate dalla tempesta e dalla flotta imperiale che solcava lo stesso mare. Dopo una sosta a Capraia, le galee sfarzosamente addobbate di insegne e di porpora entrarono nel porto di Genova il 7 luglio e il papa fu accolto dal popolo festante. I cardinali sbarcarono cantando gioiosamente i versetti del Salmo 124. Trentadue anni prima, i genovesi avevano portato in salvo nella loro città, Federico con un’azione che si era rivelata decisiva per le sorti dell’Impero. Ma il sovrano aveva peccato di ingratitudine per i propri interessi del Regno e da allora Genova gli era stata nemica. Ora i genovesi sottraevano alle insidie dell’imperatore il loro pontefice con una impresa che risulterò comunque risolutiva nel futuro del papato e dell’Impero. A Genova il papa si fermò tre mesi come il giovinetto Federico, a curarsi la dissenteria che lo aveva afflitto nel viaggio. Chiese asilo in Francia a Luigi IX ma il re gli oppose diniego: alleato dell’imperatore, preferiva mantenere una stretta neutralità e, dato il suo spiccato Il discorso di Federico ebbe una grande eco e, se l’imperatore fu presentato come l’Anticristo, la stessa denominazione si rivolse contro lo stesso Innocenzo IV nello scritto di un frate mendicante. Nella lettera ai principi inoltre Federico sostenne che a Lione aveva trionfato un principio pericoloso per le monarchie: nella assoluta subordinazione del potere politico a quello ecclesiastico ogni sovrano era considerato un vassallo del papa e, come era stato deposto l’imperatore eletto dai principi e incoronato dal papa, poteva essere detronizzato qualsiasi re. Nel marzo 1246 fu scoperta una congiura mentre Federico era a Grosseto alla quale presero parte: Teobaldo Francesco, podestà di Parma, Pandolfo Fasanella, vicario imperiale di Toscana, Jacopo Morra, figlio di Enrico, vicario della Marca Antonicana, i signori di San Severino e di Cicala. Si trattava di una congiura di baroni-funzionari imperiali, d’accordo con il cognato del pontefice, Orlando De Rossi. Nel piano era previsto l’assassinio di Federico e di suo figlio Enzo, l’invasione del Regno con truppe al comando di Ranieri da Viterbo. Un messaggero del conte Riccardo di Caserta, genero dell’imperatore arrivò a Grosseto per avvisare Federico della cospirazione. I cospiratori furono costretti a fuggire. La vendetta di Federico fu rapida e terribile: i cospiratori e i congiunti furono giustiziati come parricidi: accecati. Mutilati, trascinati per le strade ad esempio e ad ammonimento per tutti e alla fine furono arsi vivi e gettati in mare dentro sacchi di cuoio; alcuni furono impiccati. Il tentativo di invasione del Regno fu bloccato a Spello: Marino di Eboli, vicario di Spoleto, sconfisse Ranieri da Viterbo. Alcuni storici hanno sostenuto che la politica di Federico aveva portato all’impoverimento del Regno, la persecuzione del clero e il soffocamento di una orgogliosa aristocrazia defraudata di molti privilegi. Altri si sono domandati se Innocenzo IV era al corrente del paino di assassinio di Federico o di una manovra che doveva portare all’insurrezione del Regno. Varie lettere testimoniano l’appoggio del pontefice ai ribelli anche se non è provata la sua volontà di uccidere l’imperatore. Certo è che, data l’impossibilità di arrivare ad un compromesso, il regicidio era l’unica soluzione possibile. Contemporaneamente alle vicende italiane che si svolgevano sempre più a favore degli imperiali, la Germania era in preda ad altre preoccupazioni. Consapevole che dalla terra tedesca Federico ricavava la sua potenza militare, Innocenzo IV vi profuse denaro per corrompere i principi e vi scatenò schiere di frati a predicare la crociata contro l’imperatore anche nelle fiere, nei mercati. Si deposero i vescovi fedeli al sovrano, furono vietate le libere elezioni, si commerciò con le indulgenze, i denari raccolti per la conquista di Gerusalemme furono impiegati nella guerra all’imperatore. Gli arcivescovi di Colonia e di Magonza proclamarono la deposizione di Federico e saccheggiarono le terre dell’Impero. Nel marzo del 1246 fu eletto un antirè a Wurzburg: Enrico Raspe, langravio di Turingia. Pochi principi tedeschi furono presenti alla cerimonia di incoronazione ma il nuovo re dei romani ebbe un buon numero di seguaci grazie al denaro del papa. Enrico Raspe ottenne anche un successo militare sull’esercito di Corrado presso Francoforte. Fallito il tentativo di imparentarsi con il duca d’Austria, sposandone la nipote Gertrude, Federico riuscì a impadronirsi del ducato, morto il duca senza eredi. Diventata l’Austria feudo imperiale, la posizione del sovrano si rafforzò ulteriormente al sud della Germania. L’anno dopo moriva improvvisamente Enrico Raspe ma dopo qualche mese fu eletto un nuovo antirè: Guglielmo d’Olanda. L’attività del pontefice proseguiva instancabilmente con qualunque mezzo: calunnia, armi, denaro. Ma nonostante tutto l’imperatore non perdeva le speranze di un possibile accordo. Nella Dieta di Terni tra il febbraio e il marzo 1247 Federico cercò forse di dare assetto politico unitario all’Italia suddividendola in vicariati e affidandone il governo ai parenti e ad affini. L’imperatore pensava da tempo di raggiungere Lione per incontrare il papa mentre Luigi IX cercava di metter pace. Innocenzo pronto a respingere qualsiasi proposta di Federico si dimostrò molto allarmato dal suo progetto di avvicinarsi a Lione con un esercito e chiese protezione al re di Francia che lo rassicurò su un suo eventuale intervento. Era stata una promessa vincolante perchè Luigi conosceva la volontà di pace di Federico Il papa intanto tramava per l’elezione in Germania di un secondo antirè e mandò in Italia alla testa di un esercito di 1500 uomini il cardinale Ottaviano degli Ubaldini in aiuto a Gregorio di Montelongo. Nel maggio 1247 il cardinale partì da Avignone con le sue truppe verso le Alpi. Ma Federico era sempre all’erta e pronto per replicare a qualsiasi mossa. Con il matrimonio di Manfredi con la figlia di Amedeo di Savoia e la sottomissione del marchese di Monferrato che gli era stato nemico, Federico potè dominare i passi delle Alpi fermando Ottaviano degli Ubaldini. L’esercito del cardinale dopo un periodo di inattività e malcontento delle paghe finì per sciogliersi abbandonando il suo comandante che arrivò quasi da solo in Lombardia. Federico tenne una Dieta di Corte a Torino e si preparò a raggiungere Lione per passare poi in Germania. Si muoveva con in grande esercito per catturare il papa e cardinali. Federico non aveva intenzione di presentarsi disarmato come pretendeva il papa e certo il suo viaggio a Lione non era per ripetere l’umiliazione di Canossa. Federico si era messo in cammino con i suoi. La sentenza di Lione era sempre giudicata ‘contro Dio e ogni giustizia’ ma è chiaro che, alla vigilia della partenza Federico aveva abbandonato l’atteggiamento riformatore studiando un nuovo compromesso. L’imperatore cercava ancora una volta la pace e non l’avrebbe certo ottenuta con la cattura della curia romana se pure gli fosse stato possibile mantenendo buoni rapporti con Luigi IX. L’esercito imperiale avanzava verso le Alpi come il drago dell’Apocalisse e la settima testa coronata era quella di Federico II. 9. L’ASSEDIO DI PARMA Nel 1247 la ‘prava’ terra di Lombardia fra Reggio e Parma, Modena, Cremona appariva incolta e desolata: nessuno più vi lavorava e osava avventurarsi. Quel mondo era aperto solo alle belve e ai banditi. Tutto era cominciato il 15 giugno: da Piacenza pochi cavalieri parmensi, messi al bando dall’imperatore, forti coraggiosi ed esperti dell’arte della guerra cominciarono a correre verso Parma. Si lasciarono dietro l’avvilimento e l’amarezza dell’esilio, la vergogna repressa di chiedere ospitalità di casa in casa e si fermarono a parlamento in un prato presso la città ed elessero il loro capitano e gonfaloniere. Ripresero la corsa pazza e sulla riva del Taro travolsero i soldati del podestà che si erano appena levati da un convinto e si batterono malamente. Poi la corsa riprese velocissima verso la città senza mura e i vincitori entrarono mostrandosi umili al popolo di Parma. Così fu presa Parma che, taglieggiata dai funzionari regi e, stanca del lungo dominio ghibellino, si ribellò a Federico. Cedevano intanto senza combattere i tedeschi e i custodi del palazzo comunale, mentre i nobili e i potenti si disperdevano verso i loro castelli. Re Enzo, lasciato dall’imperatore a difesa della città, era all’assedio di Quinzano e appena gli arrivò la notizia dei guelfi entrati a Parma di sentì di colpo senza forza e volontà. Si affrettò a ritornare e marciò di notte in un silenzio gemebondo e il suo esercito si ritirava affranto come dopo una disfatta. A Cremona si unirono a lui quanti erano in grado di portare le armi. Parma era aperta da ogni lato perché non aveva mura ma il re si fermò sullo stagno del Taro morto, in attesa dell’imperatore: gli erano venute meno le forze e la prontezza nel decidere. Per una di quelle esitazioni Parma era salva in mano a pochi cavalieri ai quali si aggiunsero piacentini, veronesi, mille milanesi, tutti a protezione della città. Si attestarono in silenzio gli eserciti. La guerra arrivò con l’imperatore furioso contro Parma che si era ribellata per la seconda volta in due anni e già aveva conosciuto la ferocia dei supplizi. Federico era sulla strada di Lione ma, arrivato alle radici delle Alpi, era distolto dal suo proposito per la notizia della ribellione di Parma. Così si accampò nella contrada di Grola e sorse una città di tende con grandi fossati intorno che si chiamò Vittoria. All’appello dell’imperatore accorsero i lombardi delle fedeli città, l’esercito di Ezzelino, gli uomini di Borgogna, Puglia, Calabria e Sicilia. Vittoria si ingrandiva e pullulava di genti diverse: greci, saraceni, tedeschi. Cominciò l’assedio di una città non fortificata ma che contava sul vantaggio del rapido spostamento di truppe in una difesa flessibile e pronta a trasformarsi in attacco. In quei giorni era tornato a Parma Salimbene, figlio di Guido. Di parte imperiale, il padre si era rivolto a Federico nel 1238, quando l’imperatore si era fermato a parma perché gli restituisse il figlio portato via dai frati minori con ingannevoli lusinghe. Grazie ad una lettera di Federico al ministro generale dell’Ordine, Guido arrivò a Fano dove cominciò un contrasto tra padre e figlio. Le parole incalzavano fino alle maledizioni del padre che si allontanò fieramente turbato. Poi tentò di far rapire il figlio dai pirati di Ancona e allora di Sulle rovine di Vittoria fu tenuto un consiglio di guerra, ma Federico si ritirò, rinunciando a un nuovo assedio. Si spostò nella zona di Pontremoli per assicurarsi il passo della Cisa, nodo essenziale di comunicazione fra il Nord e il Regno di Sicilia. In uno scontro tra truppe guelfe e un gruppo di cavalieri di Parma, fedeli all’imperatore, fu preso prigioniero e fatto a pezzi Orlando De Rossi, cognato di Innocenzo IV. La disfatta sotto Parma aveva ridato rigore ai guelfi. Federico, dopo aver perso il tesoro imperiale, non aveva abbastanza denaro e una pesante colletta gravò sul Regno sempre fedele. Se una città siciliana si offrì di ricostruire il tesoro predato a Vittoria, l’imperatore rifiutò, consapevole di spremere già troppo le risorse del Regno. Ripresero contro di lui le invettive di Ranieri da Viterbo. I cronisti guelfi aggiunsero alla condotta di Federico altre insinuazioni: secondo queste fonti l’imperatore si dilettava non solo con donne ma anche con giovinetti. Esaltato dalla distruzione di Vittoria, Innocenzo IV era ormai certo del proprio trionfo e non faceva proprio caso alle insistenze di Luigi IX che voleva la pace nella Cristianità in funzione della crociata. Ma il pontefice non sembrava molto interessato alla spedizione in Terra Santa. Piuttosto che far pace con l’imperatore, il papa era pronto ad accordarsi con i tartari, ai quali aveva mandato il francescano due anni prima con un’ambasceria. In risposta Innocenzo ricevette una lettera e in dono una coppella di legno che aveva sul fondo la figura di una bellissima regina. Aveva scritto una Historia mongolorum in cui rievocava il lunghissimo viaggio attraverso le steppe immense, i popoli che si nutrivano di carne di cavallo e latte di giumenta e l’arrivo al signore dei tartari che riceveva i visitatori solo se vestiti di porpora. Il gran Khan era descritto come la fortezza di Dio e l’imperatore di tutti gli uomini, il papa e i re dell’Occidente considerati suoi vassalli; non intendeva convertirsi al Cristianesimo e aveva Dio dalla sua parte come tutti i conquistatori. Luigi IX, il 25 agosto 1248, salpò da Aigues-Mortes per Cipro. Anche lui era disposto a trattare con i mongoli illudendosi si potessero convertire e mandò un gruppo di domenicani a Karakorum per concludere un’alleanza: L’Islam sarebbe stato preso tra due fuochi. Intanto Innocenzo IV convito della sua vittoria su Federico, riorganizzava in Italia le forze contro l’imperatore in vista di una crociata volta alla conquista del Regno di Sicilia. Era deciso a rinnovare i suoi rappresentanti e cominciò a limitare i privilegi di Ranieri da Viterbo fino a che fu proprio sostituito dal cardinale Pietro Capoccio di San Giorgio in Velabro, un energico prelato guerriero di illustre famiglia romana che si era distinto in Germania contribuendo all’elezione di Guglielmo d’Olanda. Ai piani di Federico per un assetto dell’Italia imperiale si contrapposero gli ‘Statuta edita per dominum Innocentium papam quantum pro ecclesiastica libertate in regno Sicilie’ che annullavano non solo che Costituzioni di Melfi ma anche le vecchie leggi normanne. All’inizio del 1249 l’imperatore era a Cremona dove si consumò la tragedia di Pier della Vigna che fu imprigionato all’improvviso con l’accusa di tradimento: scompariva così il personaggio più illustre e potente della Magna Curia; Federico aveva già perduto a Vittoria il suo consigliere Taddeo da Suessa. La fine di Pier della vigna fu oggetto di varie interpretazioni da parte dei contemporanei. 1. Una voce insistente lo presentò come un innocente perseguitato dalla calunnia per l’invidia dl suo grande Stato: questa è la versione approvata anche da Dante; 2. Salimbene invece riporta che l’imperatore aveva fatto arrestare il logoteta come un traditore per impadronirsi delle sue ricchezze. L’accusa a Pier della Vigna è di malversazioni, di peculato. Nonostante tutto sembrò eccessiva la punizione per un personaggio come lui. Si pensò dunque ad un complotto. Pier della Vigna fu preso, accecato e portato via di notte in catene da Cremona a Borgo San Donnino e poi in Toscana e a Pisa morì. Matteo da Parigi attribuì a Federico, al momento della scoperta del tradimento, una manifestazione di dolore: il sovrano piangeva e si torceva le mani come un poeta tragico. Federico non sapeva più di chi fidarsi. Questa non è una scena che gli si addice molto a differenza di un commento gelido o del silenzio. Il 26 maggio re Enzo, accorso in aiuto a Modena, cadde prigioniero dei bolognesi nella battaglia di Fossalta. L’imperatore cercò in tutti i modi di ottenere la liberazione, usando nei confronti dei bolognesi le lusinghe e le minacce ed esorandoli a non insuperbirsi troppo della vittoria considerando l’incostanza della fortuna. Concludeva promettendo di esaltare la loro città se gli avessero restituito il figlio o di assediare Bologna con il suo esercito trionfale. La risposta dei bolognesi fu fierissima che confermò la loro volontà di tenere re Enzo prigioniero. Se l’imperatore voleva contrastarli, doveva usare la forza. Enzo rimase prigioniero a Bologna sopravvivendo alle battaglie di Benevento e Tagliacozzo. I bolognesi ebbero per lui rispetto. Uno dei pochi svaghi di re Enzo fu la poesia che contribuì a dare suggestione al destino del nobile prigioniero. Così fu introdotta la lirica siciliana nella città del già attivo Guinizzelli, e le rime di re Enzo rappresentavo il punto di passaggio dalla più antica poesia italiana allo Stilnovo. Il posto del re di Sardegna fu preso dal marchese Pelavicino. Per rafforzare la sua fedeltà l’imperatore gli concesse larghi domini e riuscì, secondo Salimbene, a tener meglio del sovrano la signoria sui lombardi. Non diversamente Ezzelino tendeva ad aumentare il suo potere. Legato a Federico da vincoli di parentela, Ezzelino, dopo il tradimento degli Estensi nel 1239 e dello stesso Alberico da Romano, era rimasto nel Settentrione uno dei pochissimi alleati del sovrano che colpì tutti i suoi nemici con il bando imperiale. Ma Ezzelino si battè soprattutto per i propri interessi e fu descritto come il più crudele e ridottato tiranno dei cristiani. Fu un uomo certamente crudele in un tempo in cui tutti erano spietati compreso il cavalleresco re Enzo. Lo stesso Innocenzo IV non era esempio eccellente di carità cristiana. Al di là della sua implacabile durezza è da riconoscere in Ezzelino l’intento di costruire una realtà politica con centro in Verona, ma estesa a tutto il Veneto, tenuta in pugno da lui in coordinamento con la politica di Federico. Il suo fu un piano molto ambizioso che mirò a rompere, come osservò Manselli, nella marca veronese e trevigiana la politica chiusa e ristretta delle singole città, dando loro un respiro regionale: fu il primo tentativo coerente e consapevole di formazione d’uno stato sopracittadino. Uno dietro l’altro sparivano dalla scena i maggiori personaggi dell’età di Federico. Innocenzo IV, imbaldanzito dai successi, pensò che fosse il momento adatto per l’invasione del Regno di Sicilia ma il cardinale Pietro Capoccio fu duramente battuto prima di arrivare ai confini e fu costretto a ripiegare nel Nord della Marca Anconitana. Il re Luigi era a Damietta e Innocenzo IV sentiva la mancanza di quel sovrano leale che era sempre per lui un sostegno sicuro: nessun principe dell’Occidente gli sarebbe mai stato così vicino. Invitò a Lione il potente Riccardo di Cornovaglia, cognato di Federico e gli propose, così pare, la corona del Regno di Sicilia. Vi furono lunghi colloqui ma, secondo Matteo da Parigi, alla fine il conte rifiutò non trovando onesto privare il nipote Enrico dei suoi diritti regali. Il 1250 vide la riscossa degli imperiali un po’ ovunque. Nella Marca Anconitana il cardinale Capoccio subiva a Cingoli una gravissima sconfitta riuscendo a stento a fuggire travestito da mendicante. La Marca Anconitana, il Ducato di Spoleto e la Romagna erano riconquistati dai ghibellini. Intanto il marchese Pelavicino infliggeva una disfatta ai parmigiani sul luogo stesso dove era stata distrutta Vittoria catturando anche il carroccio. I prigionieri furono sottoposti a efferate, torture. Nel frattempo, era morto il cattivo Ranieri da Viterbo. Anche il re dei romani Corrado avanzava vittorioso in Germania battendo Guglielmo d’Olanda e imponendo la tregua ai vescovi renani. Le città del Regno di Arles confermavano la loro fedeltà all’Impero con grave disappunto del papa che vi aveva speso molto denaro. Nell’aprile era finita in una catastrofe la crociata di Luigi IX con la cattura del re e deluso esercito e da tutta la Cristianità (Francia, Germania, Inghilterra) si levavano voci di condanna per l’operato del pontefice. Il papa non aveva aiutato la spedizione, indirizzando al contrario le forze nella crociata contro l’imperatore cristiano. Pagato il riscatto Luigi si fermò ad Acri deciso a restare in Terra Santa. Il nome di Federico era ammirato dai saraceni e il re di Francia mandò i suoi fratelli Carlo d’Angiò e Alfonso di Poitou a persuadere Innocenzo IV all’accordo con l’imperatore. Ma il papa era isolato nella sua ostinazione: solo i lombardi gli erano fedeli. Innocenzo si rivolse all’Inghilterra per trasferirsi a Bordeaux sotto la sua protezione ma senza risultati. La Francia gli era ostile. Federico da oltre un anno si trovava nel Regno: non aveva partecipato a nessuna delle campagne del 1250. C’erano stati mesi di malattia e sembrava ormai stanco. La sua malinconia, secondo Salimbene, andava crescendo se le aquile sveve volavano di nuovo vittoriose sulle terre dell’Impero. Non era mais tato così lontano dalla storia il sovrano infaticabile. L’imperatore morì in Puglia, in Capitanata il 13 dicembre 1250, a Castel Fiorentino, per un attacco di dissenteria. Aveva evitato per anni Firenze perché gli era stata predetta la morte sotto il segno del fiore, ‘sub flore’.
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved