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Lo stile cinematografico di Vincenzo Buccheri, Sintesi del corso di Storia Del Cinema

Riassunto del libro "Lo stile cinematografico" di Vincenzo Buccheri per l'esame "Realizzazione Audiovisiva" di Mauro Di Donato.

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

Caricato il 24/05/2020

luca_mattioli
luca_mattioli 🇮🇹

4.6

(53)

6 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Lo stile cinematografico di Vincenzo Buccheri e più Sintesi del corso in PDF di Storia Del Cinema solo su Docsity! LO STILE CINEMATOGRAFICO Vincenzo Buccheri Il punto sullo stile cinematografico Il concetto di stile La parola “stile” deriva da stilus, cioè l’asticciola appuntita con cui si scriveva; in latino, diventata per metafora, equivalente a “modo di scrivere, di comporre”. Nella retorica classica e poi in quella medievale, il concetto di stile ha sostanzialmente tre valori: 1) l’ornatus, cioè l’ornamento, la coloritura e che, nell’ambiente della retorica, lo stile appartiene alla elocutio, il livello superificiale del discorso anche se ha dentro di sé gli altri 3 ambiti (inventio, dispositio e actio). 2) costituisce un dispositivo per la produzione (e non per l’interpretazione) dei testi 3) indica tratti formali che caratterizzano un gruppo di opere, costruito su basi tipologiche o storiche; come nel medioevo che stabiliva per ogni genere un determinato stile (umile, medio, sublime) e che con l’espandersi della cultura cristiana e l’ascesa del volgare entra in crisi. A partire dal ‘700 si afferma il concetto di stile come “maniera d’espressione individuale” caratterizzata da tratti formali ma radicata dal pensiero stesso e con Goethe lo stile diventa manifestazione del genio romantico e espressione artistica che si realizza quando l’opera raggiunge un’armonia perfetta e compiutezza. Alla fine del ‘700 lo stile viene evidenziato come tratti ricorrenti di un artista o elementi comuni alle opere d’arte visiva di un’intera epoca. Qui un ribaltamento dove non si cerca più il carattere individuale, ma il sistema di regole che soggiace alle singole manifestazioni artistiche. Per Charles Bally e Leo Spitzer esiste l’idea comune di stile come risultato di un atto individuale rispetto al sistema convenzionale, ma per Spitzer l’atto è una spia delle condizioni interiori dello scrittore. Nel ‘900 il concetto di stile viene attaccato dalla linguistica per il suo dualismo tra espressione e pensiero che però la nuova linguistica tenta di sostituire a una stilistica di unità di linguaggio e pensiero. Roland Barthes inventa il concetto di “scrittura” come termine intermedio per sfuggire all’azione congiunta della lingua e stile. La scrittura secondo lui è tipologizzabile in tre o quattro tipi, reinventando con il nome “scrittura” però quello che la retorica antica chiamava stile. Nella seconda metà del ‘900 però gli studiosi tornano a riflettere su due aspetti ineliminabili dello stile: 1) Variazione formale su un contenuto più o meno stabile 2) Insieme di tratti caratteristici di un’opera che consentono di identificarne l’autore Lo stile nella teoria del cinema Nei decenni passati la teoria del cinema ha cercato di distaccarsi dal concetto di stile come troppo ingombrante. Tuttavia, negli ultimi anni sta risorgendo per via di due tendenze: 1) La forte ripresa della prospettiva storiografica 2) A fronte di un’impasse dei paradigmi “forti”, c’è un desiderio di non azzerare il passato, ma di riconvertire ai nuovi interessi tutto il bagaglio metodologico elaborato dagli studi sul linguaggio cinematografico. Un formalismo sempre più pervasivo che porta a considerare la dimensione dello stile come primaria. In questo senso, il concetto di “stile” si rivela particolarmente adatto a interpretare il paradigma teorico che domina oggi il campo degli studi sul cinema, tra un approccio formalista e nomenclatorio e un approccio culturista. La fase “classica” (1915-45) affronta il problema di uno stile “essenzialista”, cioè un approccio che ruota attorno a cos’è il cinema? Uno studio sulla natura intrinseca del cinema, al di là delle diverse facce con cui esso si presente. Si punta a una definizione dove possono variare i diversi modi d’approccio dell’essenza del cinema (montaggio, ritmo, fotogenia, ecc). Il presupposto è sempre che il cinema “in sé stesso”, al di là delle sue molteplici manifestazioni, possieda caratteristiche specifiche presenti soltanto in esso. Boschi: la vocazione essenzialista si traduce in: a) uno specifico filmico, principio peculiare, il cinema qualcosa di diverso e unico b) tendenza normativa su come dovrebbe essere il cinema, fissando alcune regole e condizioni c) caratterizzazione formativa e formalista, definire l’essenza del cinema in termini di infedeltà al reale Quindi le teorie classiche pongono al centro dei caratteri formali del cinema che rientrano in un’ontologia e in una metafisica. Lo stile viene presentato come una forma immutabile e necessaria che il cinema deve assumere per esser pienamente arte. Le teorie classiche sono uno studio del cinema come realtà intrinsecamente linguistica ed estetica. In Film als Kunst (1932) Rudolph Arnheim, stile all’interno della teoria dei “fattori differenzianti”: il cinema può raggiungere risultati artistici benché sia un mezzo teorico basato sulla riproduzione meccanica della realtà: l’immagine riprodotta è caratterizzata da una serie di tratti “difettosi” che la distinguono in modo equivocabile dalla realtà. Più lo stile (messa in scena) accentua tali fattori, più il risultato finale è estetico, deve accentuare la particolarità del proprio mezzo espressivo. Il cinema è un’arte proprio perché è “difettosa”, e più lo stile la asseconda, più l’esito è estetico. Ci sono tutti gli approcci essenzialisti: concezione di stile “assoluta” e astorica; definizione in rapporto alla tecnica e la valenza descrittiva del discorso. In Der Film (1949) Béla Balász, riflessione sullo stile su vari livelli: linguaggio (montaggio e alla «tecnica espressiva della mdp»), prese di posizioni estetiche (film sonoro), problemi di poetica (il genere comico), implicazioni filosofiche (primo piano e l’uomo invisibile). Differenza tra stile e stilizzazione: lo stile è il «fattore caratterizzante formale di ogni arte», si rispecchiano «l’originalità, le caratteristiche etiche del popolo e del suo tempo» l’opera d’arte è la «sintesi di tutti gli accennati fattori in uno stile unitario. Così lo stile dell’artista, della sua epoca, classe, scuola, si manifestano nelle forme di uno stile unico». Lo stile è una forma, ma una forma quasi “naturale”, organica, che partecipa dello Zeitgeist e riflette lo spirito della collettività concentrato in un individuo. La stilizzazione è una forma “artificiale”. Il valore estetico ha a che fare con la naturalezza dello stile piuttosto che con la stilizzazione. Stile come essenza “naturale” e un’impostazione teleologica del discorso: la descrizione del cinema muto avvalora la tesi che il cinema è in marcia verso il raggiungimento di un’essenza a lungo negata, cioè la “pura visibilità” con il film astratto d’avanguardia. Cos’è il cinema? (1958) André Bazin è essenzialista e teleologico, ma in direzione opposta: “definire e difendere” il cinema rispetto alle altre arti, stile come “manipolazione formale”, prova suprema che il cinema si era affrancato dalla sudditanza al reale e alla tecnica di riproduzione meccanica del reale. Alle origini delle arte plastiche c’è il concetto della mummia: duplicare la realtà per vincere il tempo e la morte. Fotografia e cinema portano a compimento questo destino. Ma se questa è l’essenza del cinema allora va assecondata e valorizzata. In Bazin tornano tutti i tratti dell’approccio essenzialista allo stile: evoluzione del linguaggio in un’ottica “storicista”, teleologica. La differenza è nel modo di concepire lo stile: non più una forma “visibile”, ma forma “trasparente”, che non fa velo al mondo ma anzi aiuta a coglierne il respiro segreto. L’uscita dalle teorie classiche coincide con una crisi del concetto stesso di “forma”, che si scioglie nella flagranza del reale. Riduzione del concetto di stile e di forma che però trova la sua misura moderna: non più opposizione alla realtà “esterna”, ma compenetramento con essa. Sullo stile cinematografico come “forma” trova avvio con i formalisti russi, nel volume Poetica Kino (1927). Queste riflessioni sono capisaldi dell’approccio formalista alla letteratura: a) distinzione tra linguaggio estetico e non estetico b) rifiuto della “forma” come semplice recipiente di un contenuto da cui discende la priorità in poesia, “procedimenti” formali (priëm) rispetto ai “materiali” dell’opera; aprono possibilità di una stilistica cinematografica in cui le forme vengono studiate sulla dimensione comunicativa e sociale. Fine anni ’70, da un lato la semiotica abbandona l’impostazione puramente testuale per aprirsi a una prospettiva pragmatica e socio-semiotica; dall’altro, la sociologia e la storia del cinema adoperano gli strumenti della semiotica. Si arriva alla storia e alla società partendo dallo studio dei testi; e si arriva ai testi partendo da una domanda storica o sociologica. La nozione di stile costruisce un’interfaccia tra i due universi. Due esempi di studio sociologico dello stile sono l’opera di Marc Ferro e Pierre Sorlin. Cinéma et Histoire (1977) analizza lo stile di alcuni film come forma di testimonianza della realtà sociale; in Sociologie du cinéma (1979) Sorlin dedica un’intera sezione del libro al rapporto tra Analisi filmica e storia sociale dove secondo Sorlin, il film non rispecchia direttamente la società ma la seleziona, trascrive e combina la realtà; ciò che un’immagine confessa è il visibile sociale. Sorlin unisce l’interesse sociologico alla lezione della semiotica. sempre a Sorlin (insieme a Lagny e Ropars) si deve un altro esempio di felice connubio tra prospettiva socio-culturale e strumenti semiotici. In Analyse filmique d’un ensamble extensible: les film français des années ’30 (1980). I tre autori mettono a fuoco alcuni tipici della produzione popolare francese degli anni ‘30 a partire non dai contenuti, ma da un’analisi delle configurazioni testuali, ottenuta passando un corpus filmico al vaglio di una rigida griglia di lettura. Dal nesso stile/sociologia passiamo ora a quello stile/storia del cinema dove ricordiamo The Classical Hollywood Cinema (1985) di K. Thompson e D. Bordwell insieme a Janet Staiger dove i due studiosi applicano il “metodo neoformalista-funzionalista” su uno sfondo di storia tecnologica ed economica, introducendo la nozione di “stile classico hollywoodiano” che indica l’assetto stilistico tipico non di un film o di una corrente ma di un’intera fase dle cinema americano (dal 1917 al 1960) e che coincide con l’instaurazione di un preciso modello produttivo. Emergono i grandi principi stilistici su cui si regge il cinema classico. Il “sistema stilistico” viene sottoposto a un continuo confronto con i “modi di produzione” adottati dall’industria hollywoodiana del periodo. Il risultato è di scavalcare la rigida distinzione di generi e di relativizzare ancora di più la nozione di autore. Ogni eventuale apporto autoriale viene collegato all’esistenza di norme che lo trascendono, siano esse routines e assetti linguistici, oppure routines e assetti lavorativo-industriali. Prospettive di studio Perché lo stile cinematografico I significati della nozione di stile nel corso della storia sono numerosi. Raggruppandoli ad alcuni assi semantici possiamo rivelare quattro serie di opposizioni: sistema/occorrenza singolare, collettivo/individuale, superficiale/profondo e diacronico/sincronico. Nel corso della storia, questi significati e queste opposizioni si sono addensati in alcune configurazioni stabili. Quella di stile è una nozione-ombrello che intrinseca molti campi dell’attività umana: l’antropologia, sociologia, storia dell’arte, persino lo sport e moda. Per Bertetto è una nozione scarsamente euristica «il fatto che lo stile sia stato ricondotto all’universo semantico della norma e poi a quello dello scarto mi sembra essere una contraddizione così radicale che rende non facile l’individuazione di una possibilità di mediazione concettuale superiore». Consegue che la nozione di stile è preferibile a quella di “forma” che al contrario può permettere di cogliere elementi che un’analisi dello stile non può trovare. Tocca fare però delle precisazioni. La prima riguarda la coppia scarto/norma, due concetti in contrapposizione ma in tensione dialettica dove anche Spitzer trova una corrispondenza. La seconda precisazione è terminologica: “forma” anziché stile. Benché “forma” sia un termine più classico, lo “stile” possiede una connotazione storica che la forma non ha. “Stile” non ha più spazio. Se oggi tale concetto emerge negli studi letterati come in quelli cinematografici ciò deve alla trasformazione – anzi, al declino – della teoria come l’abbiamo conosciuta negli anni ‘60 e ’70. In Le démon de la théorie, Antoine Compagnon passa in rassegna le nozioni di senso comunque che i non addetti ai lavori adoperano per parlare di letteratura; parole come “stile”, “autore”, “mondo”, tutti quegli ambiti discorsivi a cui le persone comuni si riferiscono parlando di letteratura, e che la storia ha cercato di abolire. Compagnon parte da una posizione non anti-teorica ma meta-teorica e cerca di mettere in campo una nuova teoria: una teoria debole, autocritica che sia battagliera e capace di tornare sul campo per confrontarsi con le idee del senso comune. Per questo è utile parlare di stile anche nel cinema: da un lato riguarda il senso comune, dall’altro una concettualizzazione forte, di tipo teorico. Gli studi sullo stile cinematografico sono oggi secondo noi luoghi dove, persino oltre le stesse intenzioni dei loro responsabili, riemerge una vocazione teoria a lungo rimossa e rendono possibile impostare, in tempi che si vorrebbero post-teorici, un confronto serrato tra la teoria e il senso comune, oltre che tra la teoria e la storia. Definizioni Possiamo distinguere due significati di stile cinematografico: uno più tradizionale legato agli studi letterari e artistici; l’altro più peculiare al cinema recupera alcuni filoni della riflessione novecentesca sul linguaggio. Quindi dello stile possiamo dire che, nell’accezione più tradizionale indica: a) tratti testuali appartenenti al livello della forma dell’espressione (aspetti visivi, ritmici) oppure al livello della forma del contenuto (schemi narrativi) b) certa regolarità e stabilità con cui questi collegamenti all’interno del gruppo di opere si presentano c) riconoscere immediatamente un certo testo o un suo frammento come appartenente a un corpus sufficientemente individuato Le teorie dello stile hanno insistito sull’immediatezza del riconoscimento: lo stile appartiene alle caratteristiche “di superficie” dei testi; viene “sentito” intuitivamente dal recettore più che “pensato”. In questo senso, lo stile si collega ad altri aspetti. Emerge la nozione di stile (o modo) di rappresentazione che indica l’assetto formale che un testo apparso in un dato momento storico condivide con altri testi, spesso nati in identiche circostanze produttive e sociali. Più precisamente il termine stile di rappresentazione indica: a) un sistema coerente di opzioni tecniche, grammaticali, narrative e comunicative, un assetto formale dove la sfera del immediatamente visibile interagisce con altri livelli, più profondi o più “generali” quali appunto le strutture narrative b) un sistema formale storicamente e socialmente situato in connessione con il contesto storico, tecnologico e industriale. Qui la pluralità di forze in campo, due possibilità: a) che nascano simultaneamente più sistemi formali in conflitto tra di loro b) leggere i sistemi come sintomi di alcune tendenze o contraddizioni socio-culturali. Si possono trarre alcune utili indicazioni di metodo per studiare lo stile cinematografico in una prospettiva orientata al contesto storico e culturale. Un approccio sistematico Anche negli studi sul cinema c’è una distinzione tra stile individuale e stile collettivo inteso in un momento storico preciso. Questi studi si possono dividere in due categorie: che hanno dello stile un’idea “intensiva” e quelli che ne hanno una “estensiva” e sistematica. La stilistica intensiva riduce lo stile alla dimensione superficiale del testo (lessico e sintassi; inquadrature e montaggio). Pratica un’analisi empirica e asistematica che ripercorre la storia del cinema alla luce di singoli procedimenti tecnico-stilistici, o del prevalere di costellazioni formali definite di volta in volta su criteri mutevoli: è l’approccio di Bordwell e Thompson in On the History of Film Style. Si parla molto di stile, riducendolo però a un catalogo piuttosto slegato ed episodico di tipi di inquadrature e montaggio. Il vero limite è che lo stile vi emerge come una categoria sfuggente, limitata al visivo, talmente empirica da confondersi con le invenzioni tecniche. Un’idea estensiva di stile riconduce allo stile altri aspetti della “forma” del testo: struttura narrativa, punti di vista, rappresentazione dello spazio-tempo, un “sistema” complesso. Bordwell e Thompson mettono in relazione i codici visivi (inquadrature e montaggio) con il “sistema narrativo”. Questo approccio però ha un limite: lo stile vi emerge come categoria formalizzata ma non troppo onnicomprensiva, oppure applicabile solo a cinematografie molto compatte sotto il profilo estetico e industriale (quale il cinema hollywoodiano classico). Ci troviamo alle prese con un concetto o troppo empirico o troppo generale. Citando Eco: «Parlare dello stile significa a questo punto parlare di come l’opera è fatta, mostrare come si è andata facendo mostrare perché si offre a un certo tipo di ricezione, e come e perché la suscita. Ritengo si debbano affermare che uno, la semiotica delle arti non sia che una ricerca e messa a nudo delle macchinazioni dello stile; due, che la semiotica rappresenti la forma superiore della stilistica, e il modelli di ogni critica d’arte». Lo stile di rappresentazione inteso come un vero e proprio modo di formare, che coinvolge tutti i codici, i livelli di senso e le strategie significanti messe in gioco da un testo o da un gruppo di testi, sia in superficie che in profondità. Apparterranno allo stile di rappresentazione non solo i movimenti di macchina, luci ecc, ma anche il modo di costruire le strutture narrative, di plasmare il tempo del racconto di articolare i punti di vista. Lo stile consisterà precisamente nel modo di fare interagire queste componenti, e parlare dello stile significa parlare di come sono fatti alcuni testi. Quindi, questo modo di formare consisterà in quell’insieme di scelte linguistiche, narrative, comunicative che un regista, sceneggiatore, DOP, possono ragionevolmente compiere in un dato momento storico. Esso costituisce un modello astratto, ma è presente allo stato virtuale in molti testi. Vale ripetere che la semiotica del cinema ha sempre costeggiato la stilistica in tutti i momenti della sua storia. Insomma, se la strada più proficua è proprio l’idea “estensiva” sistematica, di stile, all’ora l’uso di categorie semiotiche può diventare decisivo. Perché se un modello stilistico nasce sempre dall’integrazione tra un sistema visivo e un sistema narrativo, il testo o il corpus vanno allora affrontati nella loro globalità e la semiotica può incoraggiare uno sguardo rigoroso alla globalità del testo come “sistema”. Lo stile allora non appare più una nozione monolitica come in Bordwell e Burch, ma plurima e cangiante, fluttuante, e la storia del cinema diventa un campo di battaglia tra stili e sottostili che entrano in costante interazione dinamica, dando luogo a unificazioni momentanee di tratti tematici, enunciativi, tecnici. Queste unificazioni posso identificarsi con poetiche d’autore o insiemi di genere, ma non viceversa. Appare evidente che da un lato l’analisi stilistica non può quindi essere una fenomenologia empirica, ma deve tradursi in uno sguardo globale, cogliere le logiche profonde che regolano i fatti estetici; e poi l’impressione è che invece delle “grandi forme” epocali, sia più fruttuoso indagare i sottostili, le formazioni stilistiche colte nelle loro micro-dinamiche e non nel loro stato sincronico. Un approccio integrato gli stili di rappresentazione sono storicamente e socialmente situati e i sistemi dei testi sono in stretta relazione con i sistemi che si trovano “fuori” dei testi stessi. Ne deriva che lo studio dello stile non può essere semplicemente “accostato” a quello degli altri settori della macchina cinematografica. Va “integrato” e fatto “dialogare” con tali settori. Lo studio del contesto permette di definire più precisamente la portata e il senso di una tendenza stilistica. Ora il contesto di un film (o di un gruppo di film) è una realtà sfaccettata e possiamo contare almeno quattro tipi di contesti: contesto produttivo, ricettivo, discorsivo e socio-culturale. Lo stesso termine “contesto” è impreciso perché anche i contesti sono testi poiché si attinge dai fatti solo tramite archivi e testimonianze. Ricostruire questi contesti è sempre difficile, ma è solo facendo riferimento ad essi che si può sperare di avvicinarsi alla comprensione dei fenomeni di stile. Il contesto produttivo per esempio è problematico poiché potrebbe avere molte accezioni. Anche il contesto ricettivo è problematico in quanto la ricostruzione del contesto storico di ricezione non è dettata solo da uno scrupolo di completezza: più ancora che nelle opere letterarie, gli stili della Lo stile è inteso come un processo dinamico, di continua apertura/chiusura che si stabilizza nel momento i cui gusti, habitus e modelli socio-culturali solitamente in conflitto trovano un temporaneo punto d’equilibrio. Sul classico Il classico in teoria Cos’è il “classico”? appartiene a un’epoca conclusa del passato ma è capace di parlare al presente, ha una sua universalità rimandando a un universo ideale e normativo. Si costituisce in dialettica rispetto al moderno non solo perché il classico è l’opposto di quanto si percepisce come moderno, ma perché molto di ciò che è moderno è destinato a diventare classico, e viceversa il classico può tornare reinterpretato, in quelli che si definisce postmoderno. Considerare classico ciò che ogni epoca decide di costituire come tale, in opposizione o ispirazione al presente: il classico riguarda il modo in cui concepiamo la nostra identità, la nostra maniera di guardare il passato e di progettare il futuro. Nel cinema, per il senso comune di classico ci sono tratti ben precisi: la pellicola datata, un’atmosfera sofisticata e glamour, storie di genere e grandi divi. Classico è il cinema hollywoodiano, ma non sempre, sono classici anche la commedia italiana e il cinema d’autore anni ’60. Per gli storici del cinema, classico è il cinema hollywoodiano fra gli anni ’20 e ’50: gli anni della Golden Age, dello studio system e la presenza di uno stile standard, una grammatica ispirata a criteri di equilibrio, chiarezza, linearità compositiva e narrativa riconducibile alle scelte di questo o quell’autore, ma a un sistema produttivo che è anche un sistema culturale. Bazin dice: ««dal 1930 al 40 sembra affermata una comunità d’espressione nel linguaggio cinematografico la produzione americana e quella francese sono sufficienti per definire il cinema parlato d’anteguerra come un’arte pervenuta visibilmente all’equilibrio e alla maturità. Analisi di una sequenza de Il grande sonno: tutto torna due volte in un sistema di rime: due primi piani, due spostamenti degli attori ecc, tutto torna secondo un principio di variazione continua: le inquadrature a due e a un solo personaggio, i campi/controcampi di quinta e singoli, i totali, i piani americani e le mezze figure sono disposti in modo da creare un meccanismo di escalation, una progressione visiva, scandita. A prescindere dalle implicazioni psicologiche, la sequenza presenta un preciso ritmo visivo, all’insegna della variazione costante e di una progressione lineare di tipo narrativo. Da un lato la scena ha una struttura narrativa forte, perché i personaggi si risolvono nelle loro azioni, chiara motivazione di causa-effetto; dall’altro la regia con i suoi strumenti peculiari, replica e rafforza tale struttura. È quasi una struttura modulare, dove il procedimento consueto delle riprese viene replicato per ogni campo da introdurre, aggirando la regola dei 180° grazie agli spostamenti degli attori o della cinepresa. Le variazioni servono a rendere meno pesante la ripetizione, e a dare ritmo. Hawks è celebre per il suo stile “montato” e ritmato, questo è lo schema ricorrente in quasi tutto il cinema classico: in una scena, man mano che si avvicina al centro drammatico, le inquadrature appaiono sempre più ravvicinate e questo acme coincide con un brusco spostamento degli attori nello spazio, o con un gesto particolarmente forte e significativo; tale spostamento permette di scavalcare la linea immaginaria, dall’altro assume un ruolo narrativo forte: rilancia la situazione, aumenta la tensione e conduce al climax finale. Questa sequenza può essere analizzata in tre ordini di prospettive diverse emerse nel corso dei dibattiti teorici: 1) Interpretazione materialista-formalista: la classicità è un “sistema stilistico” che prevede una struttura narrativa basata sula motivazione psicologica dei personaggi e sulla logica causa-effetto, rappresentazione chiara e coerente dello spazio e una rappresentazione lineare e progressiva del tempo; equivalente formale di un modo di produzione standardizzato che esige un racconto chiaro, comprensibile al pubblico di massa. Un esempio di narrazione/rappresentazione chiare, lineare e di marketing industriale. 2) Interpretazione semio-psicoanalitica: il classico come sorta di “correlativo formale” del funzionamento della pische, perché basato su un gioco di simmetrie/variazioni e su una dialettica trasgressione/regola analoghi a quelli che regolano il funzionamento dell’inconscio. Bellour: «il film classico è un dispositivo che ha tradotto in termini tecnico-formali la condizione psichica e sociale ella differenza sessuale, maschile soggetto e femminile oggetto». La sequenza è un esempio di raffigurazione tipicamente classica del rapporto maschio/femmina, dove la donna, benché apparentemente dominante è in realtà assoggettata a uno sguardo maschile che la idealizza e la feticizza. Proprio da Bellour poi si devono le riflessioni della teoria femminista che si esercita prevalentemente proprio sul cinema classico. 3) Interpretazione culturalista-mediologica: il classico non come una forma unica e omogene, ma come coacervo di tendenze contraddittorie, una riconsiderazione critica del cinema nella rete delle forme di spettacolo della modernità. Secondo la Pravadelli esisterebbe una linea teorica che va da Elsaesser per passare da Rick Altman per poi finire a Gunning. L’idea di Elsaesser è che il melodramma hollywoodiano, grazie al suo stile eccessivo, funzioni da lapsus rivelatore dei temi censurati dal plot, sovvertendo dall’interno i codici realistici e ideologici del classico: qui Pravadelli ipotizza l’esistenza di una funzione-melodramma in dialettica con la funzione-classica come «nucleo teorico forte di quasi tutti i modelli di interpretazione del film americano». Altman invece parla di un testo classico come «testo duale» diviso tra forma aristotelica e spettacolarità; Gunning invece nel cinema classico l’attrazionalità si fa sotterranea, diventando una «componente del film narrativo più evidente in alcuni generi» da questo punto di vista la sequenza analizzata si può interpretare in due modi: a) momento di passaggio, anonimo, funzionale tra due momenti spettacolari b) tassello di una struttura narrativa che nella sequenza in oggetto sembra chiara e lineare, ma che nel prosieguo del film si rivela tortuosa, al punto da levitare in una sorta di allucinante atmosfera onirica, metafora della crisi del protagonista maschile, incapace di razionalizzare e controllare il suo inconscio inombrante e i suoi labirintici percorsi del desiderio. A queste tre linee se ne può aggiungere una più personale di Buccheri: la definizione tradizionale e dominante di stile classico oltre che generale, sia anche una definizione meta-storica che descriverebbe il funzionamento della maggioranza dei film narrativi. Bordwell si spinge a trovare una persistenza dello stile classico anche nel cinema hollywoodiano contemporaneo, ma quello che la sua ipotesi prova non è che il cinema contemporaneo sia neo o postclassico, ma soltanto che nei film d’oggi continua a esistere un’importante funzione logico-narrativa. Il classico bordwelliano è solo una forma di rapporto tra la dimensione dell’enunciazione (inquadrare, montare e movimenti mdp) e la dimensione della narrazione: la prima è invisibile, funzionale alla seconda che invece è forte. Quello che Bordwell definisce classico è solo uno stile meta-storico che sarebbe meglio definire logico-narrativo: una funzione stilistica presente in forma e con accenti diversi in varie fasi della storia del cinema. Tale stile logico-narrativo è spiegabile secondo lo schema seguente che comprende altre quattro tipologie meta-storiche di stili. Si tratta funzioniinterne al film narrativo in un incrocio tra enunciazione e narrazione e si contrappongono in blocco alle due principali funzioni stilistiche non- narrative del cinema: la funzione mostrativo-descrittiva e quella spettacolare-attrazionale. Narrazione forte Narrazione debole Enunciazione visibile stile concettuale-simbolista stile autoriale-modernista Enunciazione invisibile stile logico-narrativo stile mimetico-realista La funzione autoriale-modernista nasce da un’enunciazione forte (autore “presente”) applicata a una narrazione debole (descrizione, tempi morti), mentre la funzione mimetico-realista dalla stessa narrazione debole non dialettizzata da alcuna marca enunciativa forte. Ambiguo e raro la funzione concettualista-simbolista che è quella di un certo cinema autoriale dove una struttura narrativa forte è arricchita da soluzioni linguistiche che la sottopongono a una sorta di lievitazione simbolico- metaforica. Si è convinti che quello di stile classico sia un concetto che va innanzitutto storicizzato e precisato in base a parametri meno larghi e meta-storici di quelli costituiti dalla coppia narrazione/enunciazione, e infine interpretato nei suoi significati, nelle sue implicazioni socio-culturali. Un classico italiano? Storicizzazione e interpretazione della categoria di classico può essere costituito da un esame del cinema italiano dei primi anni Trenta (in particolare nella produzione della Cines) caratterizzata da una forte eterogeneità stilistica, una tensione contraddittoria verso la classicità che si esprime nel cinema di Mario Camerini già nel 1932. Un caso però esemplare è Resurrectio di Blasetti !1931). Incoraggiato dall’invenzione del sonoro a riprendere la produzione, Pittaluga chiede a Blasetti di lavorare in esclusiva per lui. Resurrectio è il primo film della nuova Cines e primo sonoro del cinema italiano. Un esperimento linguistico dove ci sono tre “sostanze dell’espressione” del sonoro cinematografico: il dialogo, i rumori e la musica. Nel film ci sono varie “atmosfere” nate dalla volontà di Blasetti di sperimentare molteplici combinazioni sonore. Ciascuna di queste atmosfere corrisponde a un diverso ambiente tematico e un diverso modo di costruire le inquadrature. Diversi “stili sonori” e diversi stili di rappresentazione. Le prime tre sequenze individua un modello stilistico differente, una diversa unità di stile. (per codici tecnico-linguistici e componenti tematiche, iconografiche, pragmatiche). La prima sequenza ambientata in un Grand Hotel, con un long-take acrobatico e una combinazione virtuosistica di sonoro diegetico in e off risponde ai parametri di uno stile modernista, influenzato da quella forma di volgarizzazione delle avanguardie che è l’international style di fine anni ‘20. La seconda sequenza è nelle case della gente comune con un montaggio continuo e l’uso del sintagma alternato e della musica over e uno stile ispirato alla mimesi, al realismo quotidiano. La terza sequenza è un incrocio tra un montaggio di stile “alto”, “sublime” che unisce un montaggio alternato ejzenstejniano e un repertorio figurativo ispirato alla tradizione pittorica italiana (Sironi). Che ne deriva uno stile di realismo interiore, spirituale e metafisico. È chiaro l’intento ideologico di Blasetti, cioè mettere in distanza i modelli di modernità culturale giudicati malsani o semplicemente insufficienti, in nome di un sogno di disciplina e di rigenerazione sociale che si situa dalle parti di un populismo fascisticamente “rivoluzionario”. Egli mette in scena una dialettica tra stili, tre stili che si possono leggere come la traduzione simbolica di altrettanti modelli di vita moderna: a) il modernismo superficiale dell’international style è lo stile cosmopolita che si associa al modo di vita dell’alta società b) il realismo cronachista è lo stile della modernità consumistica della nascente cultura di massa piccolo-borghese c) il realismo metafisco è lo stile che sposa la Weltanshauung individualistica e rivoluzionaria, propria del superuomo che attinge le vette dello spirito. Resurrectio dimostra bene che le costruzioni stilistiche possono esprimere contenuti culturali. Significativo è che questa dialettica tra stili torni ripetutamente fino a sfociare in quella scena madre che è il concetto durante il temporale, con il direttore d’orchestra che placa la folla in preda al panico, in un trionfo di quello stile “sublime”. Molti altri film di produzione Cines come La canzone d’amore e Acciaio mettono in scena il medesimo meccanismo di tesi/antitesi tra uno stile “modernista” e uno “realista”, per distillare consapevolmente uno stile “terzo” presentato come sintesi e superamento dei precedenti, anche in senso ideologico. Questo terzo stile risponderebbe al tentativo di elaborare uno stile compiutamente “italiano”: uno stile modernista fascista. L’ostentato polistilismo di molti film dei primi anni ‘30 non sarebbe da leggersi come un segno di anarchia stilistica, ma come segno di un processo culturale in atto: da un lato come spia di una all’intersezione perfetta tra diegesi ed extradiegesi, perché non è pienamente oggettivo ma nemmeno pienamente soggettivo. Un modello stilistico che ha un effetto sulla dislocazione dello sguardo spettatoriale: gli altri tre inizi guidano il nostro occhio, ma nell’incipit di Vertigine l’impressione è quella di trovarsi davanti alla parete di un acquario: non si entra, si rimane alla superficie. Un’ambiguità stilistica, in bilico tra soggettività e oggettività, uno dei contrassegni più forti dei noir premingeriani degli anni ’40. L’ambiguità tra realtà e sogno è contenuta anche grazie ai movimenti della mdp. L’occhio dello spettatore vaga con la macchina da presa nella stanza che sembra in rilievo, e gli oggetti e i mobili disposti in primo piano creano un effetto quasi tridimensionale. Vertigine ha due metà speculari: la prima narrata (forse inventata) da un personaggio anziano la cui attendibilità è di dimostrare, la seconda vissuta (forse sognata) dal personaggio giovane il quale scopre che il primo narratore è l’assassino. Un racconto (forse) mendace contro una realtà che è (forse) un osgno, doppia menzogna, doppio sogno. Il tasso di onirismo connaturato al genere raggiunge un livello altissimo. Bellissimi e ambigui movimenti di macchina caratterizzano sono solo Vertigine, ma anche Fallen Angel, Whirlpool, Where the Sidewalk Ends e Il segreto di una (sempre di Preminger) dove in quest’ultimo sospeso in un’atmosfera onirica durante la scena dell’ipnosi: normalissima sequenza di montaggio; solo osservandolo da vicino si scopre che a partire dal momento in cui la donna viene ipnotizzata, subentra un’unica, fluida ripresa in continuità, complicata, con il personaggio che si sposta dal primo piano allo sfondo e poi di nuovo in primo piano da sinistra a destra, seguito da una mdp invisibile e sembra non voler staccare per non interrompere la trance. Interessante è proprio l’ambiguità di fondo: mancanza di evidenza dei movimenti di mdp e andare oltre la pura funzionalità con un effetto di lievitazione sottile. Rispetto all’oggettività ancora “classica” di Huston, Wilder e Hawks, il modello stilistico in cui rientrano questi due film di Preminger conosce aperture che vanno ben oltre i noti procedimenti di soggettivazione del noir. Più che “moderne” o “anticlassiche” sono aperture meta-classiche, esplorazione dei suoi limiti che però non ne è ancora un superamento. Pravadelli collega la presenza di uno stile eccessivo nel noir e nel melodramma. Se il personaggio classico degli anni ‘30 era un soggetto pieno, senza inconscio, i protagonisti del noir e dei melodrammi degli anni ’40-50 sono soggetti che hanno perso la pienezza, incapaci di tradurre in azione i propri desideri. Le prime avvisaglie di rottura della linearità causale e spazio-temporale, apparentemente unitario e monolitico. Con il noir c’è una sostituzione dell’etica protestante degli anni ’30 con un’etica freudiana dominata dall’inconscio. Due considerazioni: la prima è che, nel paragone tra Preminger e gli altri autori nel noir, vediamo come esso sia un genere alternativo, uno spazio di contrattazione aperto in cui strutture e pulsioni contraddittorie non smettono di scendere a patti con il demone razionale della “classicità”. La seconda è che forse la crisi del soggetto e l’emergere del paradigma edipico non riflettono solo una riconfigurazione delle dinamiche di gender, ma delle dinamiche sociali semplicemente. Il dopoguerra è il periodo in cui una certa moda della terapia psicoanalitica si diffonde come costume sociale, e i film riflettono anche questo, il ruolo sempre più centrale della psicoanalisi nella mass culture americana. Il classico oggi: neoclassico, postclassico Clint Eastwood è considerato l’ultimo dei registi classici in attività a Hollywood. Un mondo perfetto: la sequenza dei titoli di testa (https://www.youtube.com/watch?v=1HMFGTUtoMc) dura un minuto e 10 secondi e consta dieci inquadrature, intrattiene dei riferimenti con Lonely Are the Brave di David Miller in un rapporto generativo, di derivazione forte. Quegli elementi incongrui (gli aerei in volo), che stonano con l’ambientazione western ma dettano uno dei temi dominanti, il contrasto tra il cowboy e la società moderna. L’incipit eastwoodiano si presenta come momento seminale dia dei temi che del tono del film. Il sole e la campagna rimandano al paesaggio bucolico che accoglierà la vicenda della fuga di Butch e Philip; Casper evoca il mondo infantile, ma anche al tema del fantasma e del viaggio verso la morte; un memento mori è anche il denaro svolazzante (genere gangster-movie). In generale, colpisce l’ambiguità della postura di Costner/BUtch, rilassato ed enigmatico. Questa ambiguità che informa tutti gli elementi della sequenza, il visivo e il sonoro, un dato ben presente a tutti gli interpreti dell’opera. La sequenza è addirittura una funzione di antifrasi; la sequenza dice una cosa e suggerisce il suo contrario. Ha un senso compiuto, basta a sé stessa, ma è anche un enigma da risolvere, un puzzle a cui mancano dei pezzi. Tale ambiguità è data anche dall’uso del montaggio che appare narrativamente funzionale, un’unità che si lega alle altre secondo un rapporto di azione/reazione; dall’altro però, il montaggio ha un côté lirico, associativo, di pura invenzione formale: una sequenza che è, insieme, «sogno, metafora e premonizione della fine». La sequenza finale scioglie l’ambiguità dell’incipit; l’oggetto dello sguardo di Butch, il controcampo assente all’inizio, si presente e si precisa, illuminando il dettaglio mancante. Esattamente nove inquadrature in più (https://youtu.be/C1mV2dxBvMk?t=7936) «a mano a mano che la mdp si allontana dal cadavere di Butch, appare la bellezza della natura e la sua indifferenza rispetto ai destini degli uomini», e si definisce l’inarrivabile naturalezza con cui la visione del mondo eastwoodiana diventa immagine. L’incipit, in termini bordwelliani dovrebbe essere descritto come classico (limpido, logico-narrativo) da una parte; dall’altra è sottilmente anti-classico: enigmatico, insaturo, ma anche prolettico, destinato a chiudersi solo nel finale. Ora, l’ambiguità e il senso antifrastico dell’incipit sono i medesimi che ispirano il film, la sua retorica, la sua storia, i suoi personaggi, il suo stesso titolo-manifesto: quello che vediamo è un mondo che sembra, vorrebbe essere sereno, felice, giusto, ma finisce per essere il contrario, un mondo (in)perfetto. Lo stile di Eastwood e la sua idea di cinema, secondo Buccheri, sono neoclassici, non estraneo al postmoderno, ma modo alternativo di vederlo. Alla frammentazione, al manierismo sostituisce la ripresa delle auctoritates e l’interrogazione morale, ma dentro un contesto culturale e stilistico in cui il passato è perduto, l’innocenza irrecuperabile e il presente va vissuto in tutta la sua dolorosa imperfezione. Sul cinema hollywoodiano contemporaneo esistono almeno due linee interpretative: la prima, chi lo legge come un cinema postclassico, improntato a una ripresa della funzione classico in senso lato; la seconda è quella che lo legge come un cinema postmoderno, cioè il classico è solo un’opzione, uno die molti stili disponibili. L’idea che il cinema contemporaneo sia postclassico ha trovato accoglienza soprattutto tra alcuni storici statunitensi; quello contemporaneo sarebbe un cinema postclassico perché perseguirebbe un modello rappresentativo/narrativo basato sulla linearità e sulla continuità: a livello di scena e di racconto. La dove il post- di postclassico starebbe però a indicare una “classicità”, non solo autoconsapevole, ma anche una forma più “densa”, “carica”, “energetica”. Per Buccheri, il cinema contemporaneo è il territorio dove lo stile logico-narrativo svolge ancora un ruolo importante. Eastwood è postmodern classic, erede di una tradizione che ricontestualizza in quel mondo imperfetto, scisso, caotico che è il presente, mai rinnegato o rimosso. La seconda sequenza dura circa quindici minuti e rappresenta il climax che chiude il secondo atto del film (https://youtu.be/FUhejtQx2zs). Dal punto di vista stilistico c’è la volontà di rispettare i tempi reali dell’azione. Tale aspetto, ottenuto con un montaggio scaltrito, finisce per sortire un effetto di dilatazione temporale che sconfina nell’allucinazione. Un Easwood che parte “classico”, ma che pian piano lievita, scoprendo l’altra faccia della medaglia. un cinema non più classico, che del classico ripropone l’ottica (e l’etica) solo per misurare la distanza tra gli ideali e la realtà, tra il passato e il presente. In dettaglio, la dilatazione temporale, la sequenza instaura il comportamento dei personaggi e il giudizio “morale” dello spettatore. Si tratta di un momento che capovolge le attese del pubblico riguardo al senso del film e al personaggio di Butch. La scena è divisa in due parti, e risponde a un diagramma emotivo all’insegna dello spiazzamento. Questa sequenza porta all’esasperazione e rovescia di segno quel «senso del tempo irreale ed elastico, che tende idillicamente all’infinito» in cui risiede la bellezza e l’originalità del film e la peculiarità del rapporto tra Butch e Philip; un rapporto padre/figlio dove i personaggi, pur essendo dei fuggitivi, perdono tempo, o meglio si prendono il loro tempo, riconquistando un tempo dell’affetto e della contemplazione. È la sequenza che mette in crisi il nostro rapporto con il film, dalla partecipazione al fastidio. Una prova di regia ormai ai limiti del compiacimento e fastidio per il comportamento razionalmente inspiegabile di un personaggio che fino a quel momento ci stava simpatico. È un cinema profondamente morale, a partire dallo sguardo che propone al pubblico. In questa maniera si finisce per dare un tocco decisivo alla caratterizzazione di Butch, che acquista maggiore ambiguità e complessità. Questa sequenza ci mette in crisi, non siamo nemmeno sicuri che si tratti di una “bella” sequenza, come forse intende essere. È sopra le righe, ci sfiora il pensiero che qui Easwood abbia esagerato. Il troppo non sta solo nella lunghezza, nella ridondanza, ma nella programmaticità con cui è preparata la dilatazione, la tortura, là dove lo stesso risultato drammaturgico si sarebbe potuto ottenere se Butch avesse perso la testa per un momento. Più che l’ultimo die classici, Easwood cerca la propria morale nel rifiuto di ogni schema, nel quotidiano, doloroso e fatale corpo a corpo con un mondo che è, insieme, bellissimo e terrificante, meraviglioso e ingiusto. Segni e stili del moderno Moderno, moderni Lo stile di alcuni film francesi e italiani degli anni ’60 apre un confronto problematico tra stile moderno e postmoderno. Franco Moretti, le forme artistiche sono anche forme culturali, il moderno non è uno stile ma una congerie di stili. Per Antoine Compagnon, moderno è un concetto plurale. Rottura con il passato, invenzione creatrice e distruttrice, idolatria del nuovo, religione del futuro, ansia di (auto)teorizzazione, accettazione problematica delle trappole del presente. Il “classico” è la forma del passato, il “moderno” è la forma del presente. Presente contro passato. Doverosa una distinzione tra due livelli: schematicamente, un conto è tentare una definizione del moderno tout court, in senso storico-culturale, un conto è darne una definizione inerente al campo estetico. Interrogarsi sulla modernità novecentesca intesa come trionfo della tecnologia, dell’innovazione e delle comunicazioni è anche ipso facto interrogarsi sul cinema, arte e medium industriale e di massa. Casetti: il ruolo “moderno” del cinema è di regolare simbolicamente alcune contraddizioni della modernità novecentesca. Analizzando la sequenza del film Pierrot le fou di Godard (https://www.youtube.com/watch?v=k1dgGtwcYQ8) è possibile suddividere in tre momenti l’estratto, tre sotto-sequenze, tre unità di autonomia narrativa. Ciò che colpisce è la libertà, l’anarchia e la fantasia delle scelte registiche: la voce canticchiante di Marienne o uno scambio lirico fuori campo al posto dei dialoghi; l’inquadratura come fosse una tavolozza; l’abbandono di ogni logica evidente nel comportamento dei personaggi: la rottura delle linearità narrativa, il montaggio dà vita a un andirivieni temporale tra eventi già successi e ancora da succedere. Farassino, un film-caleidoscopico, repertorio stilistico di ciò che siamo soliti considerare moderno: frammentazione visiva e narrativa, caos, libertà, soggettivazione del discorso, adozione di un registro lirico-saggistico e così via. Frammentazione e anarchia; significano pluralità di stili, logici e coerenti, tre modelli stilistici differenti. La prima parte è un brano di montaggio “invisibile”, interrotto da alcuni jump-cuts, alcuni “errori” di missaggio e il rifiuto del campo/controcampo classico; la citazione ironica dei codici del musical hollywoodiano. La seconda è un elaborato long-take che segue i personaggi impegnati in una sorta di complicato balletto. Nella terza parte si torna al montaggio già sconnesso, alogico e acronologico, che disordina la sequenza temporale degli eventi. Montaggio a salti, piano sequenza, rottura della temporalità lineare… sono modalità stilistiche, come un indice specifico di modernità. Bazin: il piano sequenza in profondità di campo è lo stilema moderno per antonomasia perché consente uno sguardo più fedele allo svolgimento e ai tempi della realtà. Metz: forme narrative nuove. Il cinema moderno è un grado di ampliare i codici della narratività; la sintassi più che esplodere si arricchisce, e il racconto non viene abbandonato ma ’60 quella che emerge sia una forma di modernità controversa, tutt’altro che scontata e pacifica. Gli esordi del cinema italiano anni ’60 si possono dividere in quattro tendenze. La prima è quella di un cinema “della ricostruzione” il quale si sviluppa in due correnti: il film resistenziale, dall’altra il giallo psicologico. Film di ricostruzione sia perché il loro proposito è esattamente quello di ricostruire i fatti della storia e della cronaca, sia perché si tratta di opere molto costruire dalle forte convenzioni cinematografiche derivanti dal cinema hollywoodiano. Sembrano perseguire la comprensione del senso morale dei fatti storici. La seconda tendenza rielabora i presupposti etici ed estetici del neorealismo. Il progetto neorealistico viene riproposto raccolto e ripensato alla luce delle sensibilità individuali e delle esigenze dei tempi nuovi. Dopo Accattone, Il tempo si è fermato di Olmi è uno degli esordi più significativi del periodo. Olmi unisce il debito con il neorealismo a una forte consonanza con la linea letteraria lombarda del dopoguerra. Di tutt’altro tenore, Vittorio De Seta con Banditi a Orgosolo, si tratta di una sorta di documento etnografico in cui la lezione di La terra trema di Luchino Visconti si innesta su quella di Robert J. Flaherty, all’insegna di un distacco dagli eventi che talora rasenta l’imperscrutabilità. La terza tendenza è cinema “giovanile”, sui giovani o raccontato dai giovani in prima persona e cerca di sintonizzarsi con le coeve proposte europee. Lo stile è lirico-soggettivo: macchina a mano, immagini rubate e piatte, primi piani ravvicinati, panoramiche per passare bruscamente da un volto all’altro, infrazione dei raccordi, flashback liberi, voci di commento in senso emozionale e infine un ruolo crescente del racconto sonoro. La commare secca per esempio fu accusato di pasolinismo ma ha dei tratti originali che lo avvicinano piuttosto allo stile del “Nuovo cinema” europeo: la tendenza a interiorizzare il racconto, l’ironia demistificante, il gusto del virtuosismo, la consapevolezza metalinguistica, la voce fuori campo e l’uso della musica in senso straniante, quasi come in un musical. Anche Chi lavora è perduto si tratta di una sorta di flusso di coscienza anarchico tutto giocato sulla voce fuori campo dello stesso protagonista. Mentre la voce fuori campo che apre I basilischi, scritto e diretto da Lina Wertmüller, è una ninna nanna ironica, che mima lo stato di torpore esistenziale in cui giacciono i giovani vitelloni di un paese pugliese. La quarta tendenza è un cinema di profondità che lavora su un immaginario forte e cruento, ai limiti della crudeltà: La maschera del demonio, Il colosso di Rodi e anche documentari di e alla Gualtiero Jacopetti. Il genere fantasy è contrassegnato dal formato panoramico, dai colori accesi, dai grandangoli e dai carrelli elaborati, mentre nel cinema della “falsa realtà” i movimenti di macchina e l’illuminazione sporca sono quelli del reportage. Quella che domina è la ricerca della spettacolarità e dello scandalo a tutti i costi. Sotto i profilo stilistico, per libertà, polifonia formale e gusto della sperimentazione due tendenze su quattro sono ampiamente accostabili alla “modernità” delle giovani proposte europee contemporanee. Se dal piano stilistico passiamo a quello delle logiche culturali sottese che la maggior parte degli esordi italiani dei primi anni ’60 delinea un universo ideologico diviso tra due opposte tensioni, i personaggi appaiono minacciati dalle istituzioni e dalle pratiche del controllo sociale. Sull’altro versante, i personaggi appaiono ossessionati dalla presenza dei mass media: canzonette, televisione, giornali, quotidiani e persino il cinema, che vengano visti con sospetto e spesso con vero e proprio fastidio. Questi film tradiscono una forte diffidenza, se non una vera e propria paura, sia verso la forme di controllo esercitate dallo Stato, sia verso la modernizzazione incarnata dai mass media. Questi debuttanti sembrano piuttosto in imbarazzo di fronte alla cultura di massa, cinema di consumo compreso. La diffidenza per la cultura di massa si spiega solo in parte con l’influsso dell’estetica crociana e della sociologia francofortese sull’élite intellettuale italiana. Ciò che questi debutti sembrano imputare ai media, infatti, non è tanto di proporre contenuti ripetitivi e valori edonistici, ma di allontanare l’uomo dalla realtà, di narcotizzarlo con le fumisterie dell’immaginario. La convinzione, cioè, che esista una realtà oggettiva separata dai saperi, dai voleri e dai linguaggi di coloro che abitano. È il mito della realtà che segna il pensiero di questi autori. Al di là delle poetiche e degli esiti personali, sia stato questi atteggiamento a ostacolare la nascita in Italia non già di un corrente come la NV, ma di un’estetica compiutamente moderna, cioè consapevole che non si dà esperienza del reale al di fuori dell’immaginario e del simbolico. Se il giovane cinema d’autore dei primi anni ’60 non è così “moderno” come si vorrebbe, forse può valere anche l’ipotesi complementare che il cinema popolare degli anni ’50 sia più moderno di quanti si ammetta, tanto nello stile quanto nelle logiche culturali sottese. Sul piano estetico vige ancora una sorta di equazione tra stile “moderno” e cinema d’autore anni ’60, trascurando il fatto che proprio nel cinema medio degli anni ‘40/50 si condensano i principali tratti di quello che potremmo definire, parafrasando la formula bordwelliana, il Cinema Italiano Moderno. Tra moderno e postmoderno Lo stile moderno dipende sia da una dialettica dei codici, sia dall’assunzione di un particolare atteggiamento culturale, ovvero un’ambigua posizione di appartenenza al mondo dei media e della cultura di massa. Questi due fattori subiscono una trasformazione fra gli anni ‘70/80. Il concetto di postmoderno ha costituito una prima risposta all’inquadramento dei confini del moderno, ma le sue valenze in parte tautologiche e in parte aporetiche hanno suscitato un ampio dibattito. Postmoderno è sinonimo di postindustriale, vede la luce a metà del ‘900 in corrispondenza con la crisi del secondo dopoguerra e l’importanza crescente della tecnologia agente di cambiamento; il passaggio alla società terziaria del consumo produce anche una ridefinizione dell’universo simbolico-valoriale: la fine del modello patriarcale e l’emancipazione delle nuove generazioni che porta alla nascita della cultura giovanile, un pensiero postmoderno che ha radici nella filosofia nietzschiana e nella crisi della metafisica. Lyotard chiama cultura postmoderna la celebrazione della fine delle “grandi narrazioni” (non in senso della fine dei racconti, ma dell’ideologia) e l’arrivo del gioco dei linguaggi; cade il dogma del “passo avanti” poiché la storia senza ideologia non può avere una direzione unica. Il cinema, infine, sembra sprofondare nell’immaginario: trionfa il virtuosismo del linguaggio, il primato del piacere scopico sulla riflessione critica, lo stordimento dell’immagine-giostra a discapito del gusto del racconto. A queste dominanti corrisponde peraltro una mutazione ben precisa del sistema industriale che si traduce nella rinascita di Hollywood. Le major investono su più media, sulle novità tecnologiche, sui supporti di consumo come VHS e DVD: lo spettatore diventa target, gruppo sociale ben definito a cui i film si rivolgono in modo sempre mirato. Lo stile del film postmoderno è un precipitato di tutte queste componenti in rapporto a tre grandi aree tematiche: 1) riflessioni sui media, tema della simulacralità delle immagini filmiche capace di mettere in crisi il senso della realtà 2) citazione e la continua ripresa di forme del passato, passato e presente non distinguibili 3) rapporto fra le forme di sguardo del cinema postomoderno e nuove tecnologie della visione Il rapporto di filiazione tra Blow-up e Blow Out risulta chiaro sia in riscrittura quanto nella conversione stilistica operata da De Palma (Blow Out) in un cambio di mentalità nella concezione e nel vissuto delle immagini. Le differenze fra i due film si concentrano su cinque ordini di fattori. 1) Blow-up lavora sull’estensione dello spazio, esempio sono le sequenze ambientate nel parco di Londra, porta lo spettatore a concentrare l’attenzione più sull’ambiente che sui personaggi che lo abitano. Opposto Blow Out che lavora sullo spazio frammentato da primi piani, dettagli. 2) Blow-up rappresenta lo spazio in profondità, disponendo oggetti e personaggi su vari livelli prospettici, dal primo piano allo sfondo mostrando i personaggi che attraversano la scena. Blow Out presenta uno spazio pulito, personaggi e oggetti disposti in maniera da sfruttare soltanto la zona anteriore del frame: nei dialoghi invece il campo/controcampo le figure sono sempre di profilo l’una di fronte all’altra, la mdp si mantiene sempre frontale rispetto alla scena. 3) in Blow-up la profondità di campo è una complessificazione del quadro: abbondano i vetri che rendono difficile capire quali oggetti siano davanti e quali dietro e spesso il primo piano è occupato da oggetti che disturbano la visione. In Blow Out la piattezza dell’immagine si accompagna alal deformazione con uso di lenti particolari che fanno rislutare l’immagine sferica agli angoli, schiacciata. La deformazione annulla le distanze tra le figure, e l’opposizione primo piano/sfondo si riduce a un’opposizione alto/basso e destra/sinistra. Lo sfondo sempre “incollato” dietro ai personaggi. Ci sono anche numerose inquadrature “anamorfiche”. 4) connessa alla 3) Blow-up tende a costruire inquadrature disorganiche, oggetti e personaggi collocati lontano dal centro, in bilico tra campo e fuori campo e si privilegiano le zone vuote (una “disinquadratura”) come le sequenze nel parco con campiture di verse che riempiono il quadro. Inquadrature che rimangono vuote per pochi secondi prima di essere abitate. Troviamo questa costruzione un po’ in tutto il film. Blow Out invece tende a inquadrature ordinate e simmetriche che sfruttano la bipartizione per tradurre in forme spaziali dei concetti astratti, allude ad un’opposizione semantica: tranquillità vs minaccia, attenzione vs disattenzione cc., una bipartizione che diventa palese nei due split-screen che compaiono ad un certo punto del film: il parallelo tra il notiziario del telegiornale e Jack alla console. 5) i movimenti di macchina in Blow-up sono di panoramica, si sviluppano liberando i personaggi, anticipandone l’uscita in campo per inquadrare qualcos’altro o precedendo la loro entrata. La mdp non descrive solo gli spostamenti del personaggio, è autonoma, libera dalla soggettivazione della storia narrata per aprirsi alla casualità del reale. Blow Out invece ha movimenti di macchina vari: panoramiche, molti movimenti virtuosistici elaborati e movimenti che sottolineano la tensione emotiva di una situazione o di un personaggio accompagnati alla musica. I movimenti di macchina comunicano emozioni, creano collegamenti inattesi tra oggetti e personaggi. Se in Blow-up i movimenti cercano di sganciarci dalla finzione per aderire alla casualità del reale, in Blow Out la realtà sembra essa stessa una finzione costruita per essere attraversata dalla mdp. Blow-up prevale la figura umana, profondità di campo, inq. decentrate e aperte, movimenti di mdp sganciati dal racconto, il film emerge nella casualità del reale; infrange le regole di “bella scrittura” e avvicinamento al reale passa comunque dal linguaggio, una mescolanza di realismo e formalismo. Blow Out invece usa la frammentazione, deformazione, spazializzazione dei concetti, il virtuosismo, l’emotività. Rivela la natura fittizia dell’immagine: dall’altra, questo lavoro si congiunge a una forte mobilitazione dei sensi e degli affetti: le immagini si denunciano come costruite e chiedono di essere vissute con intensità. Una forma di manierismo, segnato da una forte componente sensibile. Entrambi i film sono la storia di due tecnici, la tecnologia come forma di accesso al mondo e non solo un tema, ma strumento della realizzazione cinematografica. Rimane invisibile nella dimensione materiale, ma il film può chiamarla in causa mettendo in evidenzia il modo in cui esso è realizzato e organizzato. Emergono due differenti punti di vista del testo sulla tecnologia, l’uno manifesta e l’altro implicito. Sia Blow-up sia Blow Out mettono la tecnica al centro della narrazione: il primo fotografia, il secondo il suono, due discorsi sulle meccaniche del cinema ricondotto alla sua base tecnologica. In Blow-up è la riproduzione della realtà, in Blow Out è la tecnica che è falsificazione della realtà. Due differenti concezioni della tecnica e due diverse convinzioni di “poetica”, uno registrare la realtà come espressione individuale, desiderio di conoscenza; l’altro falsificare la realtà, spiegare un’abilità nell’intrattenimento, padroneggiare dei trucchi, invitare soluzioni innovative, sfruttare la scarsità di mezzi per ottenere un risultato. In Blow-up l’immagine prodotta denuncia l’uso di alcune tecniche “ad alta fedeltà” rispetto al mondo. Se le tecniche a disposizione sono “trasparenti”, lo stile del film è l’ingrediente della riflessività, portando la tecnica in primo piano, sia indirettamente (la fotografia al centro del racconto), sia direttamente (il “lavoro” della mdp). L’insistenza sulla visibilità e la riflessività sono reazione all’idea collettiva che all’epoca presentava la tecnica, mezzo neutrale e invisibile. Opposto, Blow Out l’immagine denuncia l’uso di alcune tecnologie particolarmente “aggressive”. Se le tecniche sono il trionfo dell’artificio, lo stile del film recupera una componente di emotività e di indessicalità, soprattutto riguardo la sfera sonora. Lo stile costituisce un modo per reagire ad una mentalità sociale, denunciandola e in parte derivandola: se quella che trionfa è un’idea sociale di tecnica, luogo di simulazione e di smaterializzazione, ecco che lo stile del film fa appello alla sensazione e all’emozione come luoghi forti dell’esperienza. Uno stile che lavora contro l’idea di tecnica più diffusa nel senso comune. Se in Blow-up la visione tecnologica come mezzo neutrale è un richiamo all’autoriflessività, in Blow Out la tecnologia è manipolazione, un richiamo al coinvolgimento emotivo. Spostamento parallelo che sembra dovuto a due motivi: il primo è la
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