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Ludus ludere: giocare in Italia alla fine del Medioevo, Sintesi del corso di Storia Medievale

Il gioco in Italia alla fine del Medioevo

Tipologia: Sintesi del corso

2016/2017

In vendita dal 01/11/2017

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Scarica Ludus ludere: giocare in Italia alla fine del Medioevo e più Sintesi del corso in PDF di Storia Medievale solo su Docsity! 1 LUDUS LUDERE 1. UN DILEMMA NELLA RIFLESSIONE DEI CONTEMPORANEI Tra il XIII e il XV secolo le autorità laiche da una parte e la Chiesa dall’altro raggiunsero una riflessione consapevole sul gioco. Il gioco appariva loro soprattutto un problema, sia che lo considerassero fonte di vizi, sia che lo ritenessero all’origine di discordie interpersonali o di rivolte cittadine. Alla fine dell’età di mezzo, dunque, venivano marginalizzate tutte quelle attività che non rientravano nella sfera lavorativa o devozionale. Tuttavia, le testimonianze riguardanti l’attività ludica alla fine del medioevo suscitano una fondamentale considerazione che ne ridimensiona l’immagine negativa. Chiunque tentasse di affrontare il discorso si mosse sempre all’interno di un dilemma. I pericoli connessi all’attività ludica portarono i contemporanei ad intraprendere un’azione repressiva contro di essa e quindi a considerare il gioco in termini negativi; allo stesso tempo, però, formularono concessioni e deroghe alle disposizioni più severe. E, ancora, se si sentì la necessità di proibire alcune pratiche in quanto motivo di disordine morale e civile, non si poté disconoscere l’utilità e l’importanza di altre; fu inevitabile, insomma, alla fine, considerare il gioco un’attività connaturata con l’esperienza stessa dell’uomo che andava seppur entro certi limiti favorita. Si trattò, tuttavia, di un’acquisizione lenta e graduale iniziata nel XII secolo, ma che si sarebbe rivelata con chiarezza nel corso del Quattrocento, quando anche accanto alla definizione di gioco illecito sarebbe venuta a controbilanciarla quella di gioco lecito. In questo secolo, infatti, fu evidente a tutti che oltre al gioco negato c’era un gioco ammesso, di più, un gioco necessario. 2. IL GIOCO ILLECITO NEL PENSIERO TARDOMEDIEVALE Le ragioni del comune Gli statuari, a partire dalla metà del Duecento, giustificavano il proprio intervento normativo con la preoccupazione di evitare agli abitanti del comune i pericoli cui andavano incontro a causa del gioco. I pericoli che le autorità comunali ritenevano connessi all’attività ludico-ricreativa del tardo medioevo erano: bestemmia e frode, violenza e dissipazione delle sostanze. Le comunità, pertanto, attraverso la voce del legislatore contrastarono quelle pratiche che avrebbero potuto rompere l’equilibrio politico- sociale della collettività. I timori della Chiesa Nel corso del Quattrocento il mondo religioso e in particolare gli ordini mendicanti affrontarono il problema del gioco in modo serio e approfondito e ciò dipendeva anche da un rinnovato modo di predicare. La lontananza dalla sede apostolica prima e lo scisma d’Oriente poi avevano tenuto impegnata la Chiesa per tutta la durata del Trecento; con l’inizio del nuovo secolo, quindi, essa voleva riaffermare tra la gente la propria credibilità messa in discussione da tali eventi. La Chiesa, dunque, non soltanto intensificò la propria azione moralizzatrice ma fece in modo che quest’ultima risultasse comprensibile a tutti ed il più possibile efficace. La condanna pronunciata dai religiosi proveniva essenzialmente da ragioni di natura morale: il gioco, infatti, veniva elencato tra le cause principali del peccato e del male in genere. I predicatori, inoltre, sottolineavano come dall’attività ludica spesso avessero origine anche la lussuria e la violenza ed erano convinti che i giochi d’abilità nascondessero l’inganno, fornendo così un incentivo alla frode. 2 3. BERNARDINO DA SIENA: UN MODELLO NELLA LOTTA CONTRO L’AZZARDO Per tutto il corso del Quattrocento la predicazione di Bernardino da Siena contro il gioco d’azzardo si rivelò la più originale ed esauriente. Alla sua predicazione contro il gioco di fortuna, infatti, si ispirarono spesso i predicatori nei decenni successivi, ed in particolare i suoi confratelli dell’Osservanza, la corrente riformatrice sviluppatasi in seno all’ordine francescano, sorta nella seconda metà del Duecento. Malignates, iniquitates e mortales culpae: le conseguenze dell’azzardo Per Bernardino da Siena il gioco di fortuna era ritenuto usurario per la facilità con cui permetteva di accumulare grandi fortune, avvalendosi di qualcosa che non è dell’uomo, ma di Dio: il tempo appunto. Questo tema del tempo che appartiene a Dio e che l’uomo impiega nel gioco invece che nel bene operare ricorre anche nei predicatori precedenti. Il predicatore ricordava alcune colpe di cui il giocatore si rende responsabile nei confronti del prossimo. Innanzitutto l’azzardo, ripeteva spesso San Bernardino, è un furto continuo ai danni del prossimo; egli, inoltre, riteneva che l’azzardo costituisse un’appropriazione indebita, perché ciò che il vincitore guadagna non gli appartiene. Un’altra colpa del giocatore era quella di essere di cattivo esempio e motivo di corruzione soprattutto per i giovani. La violenza era un’altra delle conseguenze che il predicatore vedeva collegate con l’attività ludica dei contemporanei. Egli ne prendeva in considerazione tutte le possibili manifestazioni da quelle verbali (un semplice insulto) alle più cruente (omicidio). Agli occhi dell’uomo di chiesa, tuttavia, il gioco di fortuna rappresentava una minaccia soprattutto per chi lo praticava: l’azzardo, infatti, diventava un rischio in quanto costituiva il facile presupposto della rovina economica del giocatore. Per San Bernardino, tuttavia, la rovina economica ne prefigurava una peggiore, a cui non si poneva rimedio; quella della persona stessa. Ciò riconduceva alla peggiore delle colpe commesse da chi gioca agli occhi del religioso: dispiacere a Dio. Si pecca contro Dio in molti modi, primo tra tutti con la bestemmia, il più grande dei peccati dell’uomo. La bestemmia è la preghiera che il demonio mette in bocca al giocatore. Il gioco, inoltre, per il predicatore, non era soltanto un disubbidire a Dio, ma anche alla Chiesa, perché conduce l’uomo a disprezzare i sacri precetti; addirittura arrivava a dire che l’azzardo era un’eresia. La liturgia diabolica dell’azzardo La liturgia diabolica dell’azzardo è un’invenzione bernardiniana. Fra Bernardino immagina che Lucifero un giorno convochi a sé tutti i demoni ai quali dice di aver escogitato qualcosa in offesa a Dio. Poiché Cristo istituì la Chiesa dei giusti per la salvezza delle anime, egli ha deciso di realizzarne un’altra per la loro dannazione che si configuri come l’esatta inversione della prima. Per concludere la costruzione della nuova chiesa è necessario creare le condizioni per esercitare la sua missione tra gli uomini; così, conclude il predicatore, ebbero origine i giochi d’azzardo. Dopo Bernardino da Siena anche Giacomo della Marca, un suo confratello dell’Osservanza, riterrà il gioco di fortuna un’invenzione diabolica. Bernardino da Siena, inoltre, considerava il gioco, al tempo stesso, una realtà che preesiste all’uomo, verso la quale quest’ultimo si sente attratto, nella stessa misura in cui è portato a ricercare il divino: uno spirito maligno, appunto, che contrasta i suoi doveri di buon cristiano, alimentando quella lotta che da sempre vede opposto il bene al male. 5 Le via del compromesso… In alcuni casi gli amministratori comunali avevano la facoltà di sospenderne il divieto. Spesso le deroghe riguardavano il periodo natalizio, durante il quale era tollerato praticare l’azzardo; analoghe sospensioni, molto probabilmente per trascinamento del natale, avvenivano a Pasqua, il 1° Maggio e a Pentecoste. Anche nei periodi in cui avevano luogo fiere e feste patronali il gioco godeva di una certa tolleranza, ma avrebbe dovuto svolgersi all’aperto, nei luoghi segnalati dalle autorità comunali, dove la bisca pubblica sarebbe stata ben riconoscibile a tutti. Altrove invece il gioco di fortuna veniva ammesso dopo aver abolito o neutralizzato parzialmente la ragione principale della sua illiceità e cioè la scommessa. In alcune occasioni, infine, si giungeva a tollerare una posta in generi commestibili, soprattutto in vino, di cui spesso si stabiliva la quantità. La cautela rimaneva comunque molta e la statuaria proibiva di giocare il valore del vino stesso. Questo divieto nasceva dal sospetto che dietro la scommessa di qualsiasi bene non fungibile si nascondessero puntate in denaro. Perciò comparve anche la proibizione di giocare de scontro, che consisteva nella sostituzione, una volta terminata la partita, di una posta in natura con la corrispondente al suo valore contante. … e, ancora, tavole e scacchi Di fronte al gioco delle tavole il divieto statuario veniva generalmente sospeso. Non si trattava unicamente di una variante dei dadi e quindi di un gioco d’azzardo a tutti gli effetti; esso era pur sempre anche un gioco di abilità. I legislatori tra il XII e il XIV secolo mirarono a distinguere giochi e gare in tre gruppi: 1. Il primo comprendeva le pratiche basate soltanto sull’intelligenza, e perciò senz’altro concesse (gli scacchi); 2. Il secondo comprendeva pratiche molto pericolose sulla cui illiceità non sorgevano dubbi, semmai in deroga ai divieti si procedeva a concedere a queste pratiche limitati spazi di tolleranza (i dadi, certi giochi di guerra, le “battagliole”); 3. Il terzo, infine, riguardava i giochi poco pericolosi (certe pratiche ludico-addestrative). Generalmente tavole e scacchi erano tollerati all’aperto; in luoghi pubblici e non privati e comunque non sospetti. I legislatori comunali, tuttavia, si impegnarono in ulteriori precisazioni. Ribadivano anzitutto il divieto di giocare a tavole e scacchi nei pressi delle chiese. Tale divieto poteva valere anche in casa; ma l’interdizione riguardava soprattutto la taverna. Il ludus tabularum spesso mascherava il pretesto per giocare d’azzardo; per questa ragione capitava che lo ammettessero soltanto in pubblico e dove sarebbe stato più facile tenere i giocatori sotto controllo. La baratteria: il gioco di fortuna viene legalizzato Ludovico Zdekauer ha inteso la baratteria dei secoli XIV e XV come il modo migliore escogitato dalle autorità comunali per far fronte ad una situazione che non erano state in grado di risolvere altrimenti. I comuni si adoperarono per ridurla a proprio vantaggio, spinti anche dal ‘movente economico’; essi perciò assunsero il proprio monopolio dell’azzardo, imponendo una tassa alla baratteria. Anche i divieti contro il gioco di fortuna emanati alla fine dell’età di mezzo, furono intesi da Zdekauer come una delle vie percorse dai comuni per assumerne l’esclusiva. Le leggi sull’azzardo: valutazione complessiva La normativa locale intendeva per gioco di fortuna (o d’azzardo) qualsiasi gioco eseguito coi dadi (cioè il ludus taxillorum, e poteva trattarsi della zara o di un qualsiasi altro tipo di gioco), che comportava una scommessa per lo più di denaro. Non era il gioco per se stesso ad apparire disprezzabile, ma gli esiti a cui si sarebbe potuti arrivare per causa sua. Le pene maggiori toccavano a chi organizzava bisca privata nella propria abitazione, o in un locale di sua proprietà o preso in affitto. E ancora nella taverna, dove l’azzardo trovava le sue aggravanti, il vino e le donne, e dove la concentrazione di gente dedita al vizio rendeva più facile che il gioco degenerasse in bestemmie o in insulti, o infine che da questi ultimi si giungesse alle mani. Inoltre vi era anche la possibilità che qui circolassero o avessero addirittura origine idee pericolose. Se il reato veniva scoperto 6 in ambiente chiuso piuttosto che all’aperto il giocatore sarebbe incorso in un’ammenda più pesante; così il coprifuoco notturno avrebbe fatto raddoppiare la pena. Di giorno e soprattutto all’aperto, invece, l’azzardo sarebbe stato ritenuto meno grave: qualsiasi comportamento tenuto sotto gli occhi di tutto risultava sempre molto più controllabile. Le disposizioni statuarie relative al gioco di fortuna prevedevano, accanto ai divieti, un ampio panorama di concessioni che assicurarono in tal modo quell’alternarsi di severità e tolleranza. Godeva di questo favore chi avesse giocato in pubblico o all’aperto, in giornate particolari, quali le fiere o durante le principali festività religiose. La tolleranza nei giorni di fiera diventava un modo per favorire i traffici ma anche per fare guadagni veloci a spese dei mercanti stranieri. L’atteggiamento delle autorità locali nei confronti dei mercanti stranieri era di generale diffidenza; temevano, infatti, che il gioco d’azzardo favorendoli privasse la comunità delle proprie sostanze. Perciò frequenti erano le leggi che punivano il gioco con i forestieri, e quest’ultima circostanza era inoltre ritenuta spesso un’aggravante. Nel corso del XIV secolo, e ancora nel successivo, le disposizioni statuarie prevedevano spesso sanzioni anche per chi non era direttamente coinvolto nell’azzardo o ancora per chi fabbricava strumenti di gioco, ma soprattutto indicavano con cura la procedura che gli ufficiali del comune avrebbero dovuto seguire per assicurare alla giustizia chi violava i divieti. Imponevano loro di recarsi per la città alla ricerca di giocatori d’azzardo o di chi facesse ricettazione di gioco illecito in casa o altrove, di denunciarli al podestà o al rettore, che a sua volta avrebbe dovuto punire i colpevoli. La difficile situazione in cui si trovavano le autorità comunali per la necessità da una parte di abolire il gioco d’azzardo, e l’impossibilità dall’altra di farlo, si rifletteva sulla normativa che risultava, perciò, spesso ambigua, incongruente se non addirittura contraddittoria. Soltanto per i centri minori è possibile rilevare, nei confronti del gioco di fortuna, un’intransigenza più contenuta. Nel contado oltre al fatto che le multe erano inferiori, commisurate probabilmente ad una minore capacità contributiva dei residenti, le deroghe all’interdizione generale erano più numerose. La tolleranza per il gioco di fortuna (dadi e carte) si avvertiva durante le feste nuziali o le epidemie di peste. Le esenzioni potevano anche riguardare categorie particolari di persone. Oltre ai giocatori di professione usufruivano di questa tolleranza i forestieri, forse un modo per invogliare le persone considerate in quel momento di pubblica utilità a trattenersi in questo o quel luogo; le quali anche quando fossero state ritenute colpevoli di aver giocato d’azzardo, potevano vedersi ridurre le pene rispetto a quanto accadeva per quelli del luogo. Altrove, invece, i forestieri venivano puniti più duramente, perché in caso di una loro vittoria il denaro delle scommesse sarebbe finito nelle mani di elementi estranei alla comunità, procurandole una sorta di impoverimento. Di fronte alla passione per l’azzardo, alla necessità da parte delle autorità comunali di abolirlo e alla presa d’atto che ciò era impossibile, il legislatore tardomedievale rispose regolamentandolo. Questa operazione lo portò così a discriminare comportamenti illeciti da altri che invece accettava. In questo modo si riconosceva l’inevitabilità del gioco di fortuna e l’impossibilità, quindi, di sradicarlo dagli svaghi e dai piaceri del tempo. La novella 104 del Sercambi costituisce uno degli esempi più calzanti di questa situazione alla fine del Trecento. L’autore narra di un tal Bioccolo di Boccadivacca, il quale giunto a Verona aveva deciso di abolire l’azzardo, ma gli altri avevano risposto ogni volta provando con altri giochi o inventandone di nuovi. La novella rappresenta la grande attrattiva suscitata dal gioco di fortuna presso i contemporanei, ed insieme i modi di intervenire delle autorità comunali per ridurne gli effetti. La passione per esso si fondava da una parte nel piacere che dà predicarlo, nell’altra nel desiderio di guadagno. Entrambi questi fattori spingevano a trovare nuove forme di divertimento, sempre e comunque connesse col fattore scommessa. Puntuale giungeva l’interdizione, la cui inutilità è ben messa in evidenza dalla tenacia con cui gli abitanti escogitavano forme alternative che potessero sfuggire ai divieti. Così l’autore proponeva di ricondurre una passione così radicata all’interno della liceità, imponendole una misura. 7 Verso una ridefinizione dell’illecito? Se durante i secoli XIII e XIV era illecito giocare a dadi, a carte o ad altro simile, in casa o nella taverna e quindi lontano dallo sguardo e dal controllo di tutti, mentre una certa tolleranza era osservata all’aperto e nelle festività principali, nel corso del Quattrocento alcuni esempi presentano nei parametri di giudizio del legislatore un ribaltamento, che fa sospettare un cambiamento in atto. Nel corso del Quattrocento non c’è più la richiesta che il gioco avvenga in pubblico; al contrario l’illecito compiuto pubblicamente varrà come se fosse compiuto di notte, configurandosi così non solo come una condizione proibita, ma addirittura come un’aggravante. La festività religiosa non è più motivo per esentare dal divieto dell’azzardo, ma diventa l’unico momento escluso dalla deroga; in caso contrario diventa addirittura un’aggravante. La comparsa di simili attestazioni soprattutto durante il secolo XV, non esclude che potesse in qualche misura ricollegarsi a quell’ondata moralizzatrice promossa dalla Chiesa attraverso gli ordini mendicanti. Questo processo di moralizzazione portò i regimi comunali da una parte a rendere i divieti per il gioco d’azzardo più severi, dall’altra a connotare il povero giocatore come l’infame. 10 Comuni e predicatori contro l’azzardo: tra azioni comuni e reciproca strumentalizzazione In questo periodo le autorità laiche fecer0 un uso strumentale della capacità oratoria e di persuasione dei predicatori, probabilmente dopo aver sperimentato l’inefficacia della sola regolamentazione civile. Inoltre questa è l’epoca in cui si consolida l’ordine, si precisano le buone maniere, si curano i comportamenti; è possibile, quindi, che i responsabili di governo avvertissero una maggiore esigenza di controllo di determinate abitudini sociali. Si pensa infine che i predicatori con le loro proposte normative severe e restrittive fossero funzionali a quelle comunità che facevano più fatica di altre a disciplinare manifestazioni sociali quali, appunto, il gioco d’azzardo. Il rinnovamento dello spirito contro l’infame vizio: rieducare è meglio che punire I predicatori erano convinti di eliminare il gioco d’azzardo dalle passioni del tempo rieducando il giocatore ai valori cristiani. Nella lotta contro il gioco di fortuna essi, infatti, privilegiarono proprio l’incontro con la gente, durante la predica in chiesa o in piazza. Il punto di forza della battaglia contro l’azzardo è stato proprio il sermone dei predicatori. Nelle parole dell’uomo di chiesa si coglie proprio il proposito di spaventare il pubblico; lo spavento procurato negli ascoltatori da gesti e racconti avviava la fase che stava maggiormente a cuore all’uomo di Dio e che consisteva nell’indurre a rinunciare all’azzardo. Il predicatore si rivolgeva direttamente alla persona, convinto che chiunque dovesse fare molto per guadagnarsi la salvezza dell’anima. La sua azione riguardava soprattutto i giovani; non tralasciava, però, di preoccuparsi del presente e quindi di quei giocatori che si trovavano ancora nel peccato. Bernardino da Siena insisteva nell’affermare che il giocatore era tenuto a restituire la vincita, impegnandola in opere di bene. Il falò delle vanità Il falò delle vanità è un fenomeno che apparve nel corso del XV secolo ed ebbe rapido sviluppo, presentandosi come una delle tappe fondamentali sollecitate durante il sermone. Non c’è predicatore di questo periodo che non inviti a bruciare su un rogo pubblico libri, dadi, carte da gioco e tavolieri; ma i moltissimi richiami a Bernardino da Siena fanno supporre che fosse lui l’iniziatore di quest’usanza o, quantomeno, a diffonderla. Il ricorso al rogo pubblico degli strumenti di gioco è una conferma che per il predicatore contro l’azzardo servissero di più gesti eclatanti come questo, che i divieti emanati dalle autorità comunali. I risultati ottenuti I predicatori quattrocenteschi, dunque, lottarono anche a fianco delle autorità laiche contro il gioco di fortuna, aiutandole a compilare nuove leggi più severe di quelle in vigore. Tuttavia promossero in concomitanza un’azione parallela con la quale speravano di ottenere dei risultati. Si trattava essenzialmente di offrire al giocatore delle alternative alla passione per l’azzardo, quali, ad esempio, la preghiera o la partecipazione alle funzioni religiose. Il predicatore cercò quindi di combattere un fattore di scristianizzazione della società rieducando l’uomo alla pratica religiosa. Egli sapeva che molto sarebbe dipeso dalla propria capacità persuasiva, perciò fece uso di qualsiasi mezzo per rendersi convincente. Il sermone quattrocentesco, infatti, giunse anche a spaventare il giocatore, per indurlo ad astenersi dall’infame vizio; tuttavia per il predicatore la lotta all’azzardo avrebbe dovuto essere anche azione preventiva, nel momento in cui insisteva coi genitori perché evitassero ai figli qualsiasi pretesto per giocare. Il predicatore prometteva un’assoluzione per sempre: la salvezza dell’anima e il ripristino del legame con Dio. Perciò nella lotta contro il gioco di fortuna l’uomo di Dio, a differenza di quanto fece l’autorità laica, si rivolse soprattutto al giocatore, perseguendo più che la condanna il recupero dello stesso. La propaganda religiosa del XV secolo contro l’azzardo ebbe in Bernardino da Siena il suo principale sostenitore. A confronto con la predicazione dei confratelli e di Girolamo Savonarola, quella di Bernardino da Siena apparve la più severa. Egli non soltanto diffamò l’azzardo nel modo più efficace possibile, ma escluse dal circuito del lecito qualsiasi altra manifestazione ludica, attività fisica compresa, a differenza di quanto avrebbero detto, invece, i suoi confratelli. Per il Senese era l’uso che l’uomo 11 faceva del gioco a determinarne l’esclusione dal circuito del lecito, non il gioco di per se stesso a decidere la propria condanna. Attività fisica e pubblici divertimenti: la condanna dei predicatori alla fine del medioevo La Chiesa guardava all’attività fisica con minor preoccupazione che al gioco di fortuna; il timore per essa, infatti, non eguagliò mai quello provato per l’azzardo. Anzi nel caso più eclatante del torneo, dopo averne proclamato nel XIII secolo la proibizione generale, arrivò ad ammetterlo con la famosa decretale del 1316. Quest’ultima, infine, non vietò ai propri fedeli la ricreazione fisica. Quanto ai predicatori, il Dialogus miraculorum, testo utilizzato largamente dai predicatori stessi, considerava peccato mortale partecipare ai tornei. La condanna dei tornei dipendeva essenzialmente dalla loro pericolosità. Il predicatore contrastò tali pratiche anche per un’altra ragione: egli, infatti, guardò ad esse come a tanti probabili fattori di scristianizzazione della società, considerandole, perciò, in modo non molto diverso dall’azzardo. Il predicatore quattrocentesco condannava ogni forma di spettacolo, dai giochi, alle danze, agli svaghi più semplici; egli lamentava lo sperpero del denaro pubblico, e quindi la sua condanna pareva dettata essenzialmente da una ragione d’ordine economico. Ma il predicatore desiderava che le somme utilizzate per le feste pubbliche fossero donate in beneficienza. Danza e carnevale Il carnevale, come la danza, l’azzardo, il gioco e lo svago in genere, appariva al predicatore emanazione diabolica, strumento di cui si serviva il demonio per sostituirsi a Dio sul mondo. L’opera dei predicatori contro i pubblici spettacoli (secoli XIV e XV) I predicatori spesso invocarono l’abolizione di questa o quella manifestazione facendo pressione sui governi locali, ma non sempre raggiungendo lo scopo desiderato. Il Frate Venturino, ad esempio, invitò nel 133 i Romani ad abolire la corsa all’anello che si svolgeva in piazza Navona il giovedì grasso e a destinare le somme utilizzate per essa in beneficienza. Questo invito ebbe come risultato quello di procurare al Frate stesso la derisione del pubblico. Determinanti invece si rivelarono nel 1383 le preghiere dell’eremita Giorgio a Carlo III di Durazzo perché proibisse il gioco che si combatteva a Napoli in località Carbonara. Fra Giorgio chiese la donazione di un terreno fuori le mura in località Carbonara, perché si edificassero una chiesa ed un ospedale e venissero così aboliti i giochi gladiatori che si svolgevano in quel luogo. Le pressioni dell’eremita Giorgio furono accolte dal sovrano, a differenza di quelle esercitate da fra Venturino. 12 LA MORALIZZAZIONE DEL GIOCO NEL PENSIERO TARDOMEDIEVALE All’interno della Chiesa tra il XIV e il XV secolo era in atto uno sviluppo della riflessione sul gioco illecito, la quale aveva rivelato le posizioni più severe con Bernardino da Siena: nessuna pratica era sfuggita alla sua condanna. A fine Quattrocento, però, gran parte dell’intransigenza del Senese era scomparsa. Il predicatore iniziava a nutrire una certa perplessità nell’efficacia della propria campagna moralizzatrice contro l’attività ludica. L’azione dei predicatori quattrocenteschi contro l’azzardo vedeva ora annullata ogni possibilità di successo. Se, dunque, la lotta ai malcostumi promossa dalla Chiesa nel corso del Quattrocento riuscì in qualche modo ad incidere sulla regolamentazione del gioco di fortuna promossa dalle autorità cittadine, essa non sarebbe però riuscita a cambiare sostanzialmente le abitudini ludiche dei contemporanei. Il gioco necessario La sfiducia del religioso nella propria capacità di far rinunciare l’uomo del tempo all’azzardo o agli eccessi e alle sregolatezze festive e carnevalesche, lo portò ad accettare definitivamente il gioco, come esperienza inevitabile. È nel XV secolo che l’uomo di Dio parla apertamente del gioco, arrivando in alcuni casi a riconoscerlo addirittura come necessario. Il gioco presso gli umanisti Questa apertura al mondo del gioco da parte dei predicatori ben si accordava al nuovo clima culturale inaugurato dall’Umanesimo. Gli umanisti poser0 attenzione nei confronti dell’attività ludico-ginnica nella scuola. Il gioco non era certo un’esperienza estranea agli studenti bassomedievali. In generale, però, i contemporanei non consideravano molto l’attività ricreativa dello scolaro medievale; al massimo gli riconoscevano la possibilità di un po’ di riposo e di qualche svago per poi riprendere gli studi al momento opportuno. Ben altro intesero i grandi maestri ed educatori quattrocenteschi. Per ritrovare il gioco inserito a pieno titolo nell’ordinamento scolastico, non era necessario soltanto riabilitare l’attività ludica in generale, ma anche assumere un atteggiamento più benevolo nei confronti dei giovani. Il gioco dopo Bernardino da Siena I sermoni contro l’azzardo dei predicatori quattrocenteschi dedicavano una parte all’approfondimento del ludus licitus. Questi sermoni mancavano dell’originalità di Bernardino da Siena. Essi infatti, in questo periodo, ci appaiono simili tra loro nell’impostazione espositiva e anche negli esempi, segno di un declino nell’arte di predicare. Il gioco ammesso diventava un’attività per lo più del corpo, necessaria, fatta per ristorare la mente e l’animo. C’era la sottolineatura che anima e corpo formano nell’uomo un tutt’uno e che l’attività ludica è capace di ristorare entrambi. Si trattava di un gioco che non derivava da parole e gesti scandalosi, fatto con moderazione ed onestà.
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