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LUIGI PIRANDELLO - ITALIANO, Appunti di Italiano

APPUNTI DI ITALIANO SU LUIGI PIRANDELLO

Tipologia: Appunti

2018/2019

Caricato il 24/10/2019

martina-girardi-1
martina-girardi-1 🇮🇹

4.3

(19)

48 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica LUIGI PIRANDELLO - ITALIANO e più Appunti in PDF di Italiano solo su Docsity! pirandello la vita Luigi Pirandello nacque nel 1867 presso Agrigento, da una famiglia di agiata condizione borghese. Il podere di famiglia dove nacque si chiamava “caos”: Pirandello, negli anni a seguire, giocherà molto con questa parola. Dopo gli studi liceali si iscrisse all’università di Palermo, e poi alla facoltà di lettere all’Università di Roma. Si trasferì poi all’Università di Bonn, dove si laureò in Filologia romanza. Il passaggio per la Germania fu fondamentale perché lo mise in contatto con l’ambiente romantico, che lo influenzò molto nella sua opera. Nel 92 tornò a Roma dove si stabilì, si dedicò alla letteratura, scrisse il suo primo romanzo e si sposò. Divenne insegnante di Lingua italiana presso l’istituto superiore di Magistero di Roma, e, nel frattempo, pubblicò su vari giornali e riviste numerosi articoli. Nel 1903 un allagamento della miniera di zolfo in cui il padre aveva investito tutto il suo patrimonio provocò un grave dissesto economico della famiglia, che ebbe conseguenze drammatiche nella vita dello scrittore. Inoltre, sua moglie ebbe una crisi e sprofondò nella follia. Il tema della pazzia ritornerà negli anni successivi nella sua opera, e lui ne avrà avuto una esperienza biografica diretta. In particolare, la pazzia sarà un modo per uscire dal dilemma VITA- FORMA. La situazione economica lo costrinse ad aggiungere al lavoro di professore quello di scrittore di romani e novelle, che, tra il 1904 e il 1915 si fece particolarmente impegnativo. Subì dunque un periodo di declassazione, da agiato borghese a piccolo borghese con disagi economici. Questo contribuì a farlo sentire soffocato dal grigiore della vita piccolo borghese, a cui contribuiva anche la situazione della moglie. Nel 1910 ebbe i primi contatti con il mondo del teatro, e scrisse e mise in scena le prime opere. Da quel momento divenne soprattutto scrittore per il teatro. Venne poi la guerra e lui, come molti intellettuali, si schierò a favore dell’intervento in guerra, considerata una sorta di compimento del processo risorgimentale. Tuttavia però si dovette ricredere, in quando la guerra incise dolorosamente sulla sua vita, portandogli via il figlio. Solo dal 1920 Pirandello iniziò ad avere successo, con sei personaggi in cerca d’autore, che rivoluzionò radicalmente il linguaggio drammatico, suscitando accese critiche ma anche grandioso successo. Decise allora di dedicarsi assiduamente al teatro e assunse la direzione del Teatro d’arte di Roma, la cui esperienza fu possibile grazie al finanziamento dello Stato. Pirandello, dopo l’assassinio di Matteotti nel 1924, si iscrisse al Partito Fascista che gli permise di avere appoggi importanti. Vedeva nel fascismo da una parte una garanzia di ordine e dall’altra una genuina energia vitale. Ben presto, però, si renderà conto della vuota esteriorità del regime, che ne provocò il distacco. Negli ultimi anni di vita si impegnò per la pubblicazione organica delle sue opere, in numerosi volumi. Nel 1934 ottenne il Nobel per la letteratura, che lo consacrò a fama mondiale. Si ammalò poi di polmonite e morì nel 1936. la visione del mondo La visione del mondo di Pirandello gioca tutta su una concezione vitalistica, in particolare sul fondamentale contrasto VITA-FORMA. Da una parte vi è la vita, la realtà, che è qualcosa in continuo movimento, un flusso continuo, incandescente, indistinto, e si trova dentro e fuori dell’uomo. La forma, invece, è ciò in cui si fissa la vita per poterla conoscere. La forma sono quelle maschere che si staccano dal flusso e che ci imponiamo e in cui poi ci intrappoliamo. Riprendendo il titolo di un suo romanzo, la vita è una, le forme 10.000 e alla fine ci si ritrova ad essere nessuno. Dunque, per Pirandello, la realtà è in continuo movimento e trasformazione, tutto scorre: è la vita, un flusso vitale mutevole e dinamico. L’uomo, per poterla conoscere, deve fissare questo movimento e dinamismo in delle forme ben precise, che gli permettano di fermare il flusso vitale. Inevitabilmente, però, fermando il vivere l’uomo riesce a conoscere la realtà solo in frammenti. Attraverso le forme non si può mai arrivare alla conoscenza della realtà in sé. Noi uomini non siamo altro che una parte indistinta della vita, ma tendiamo a cristallizzaci in forme individuali, una personalità che vogliamo coerente e unitaria, che però risulta illusoria e ci separa dal resto della vita. Sotto la maschera non c’è un volto definito, immutabile: non c’è una forma, ma c’è un fluire indistinto e incoerente di stati in perenne trasformazione. Lo stesso succede anche quando gli altri ci guardano: ognuno ci vede da una prospettiva diversa e ci fissa in una forma particolare. Anche qui, noi crediamo di essere uno, mentre siamo tanti individui diversi a seconda della visione di chi ci guarda. Questa frantumazione dell’io in un ammasso confuso si stati incoerenti, senza un vero centro e senza un punto di riferimento fisso, è simbolo della cultura novecentesca, in cui entra in crisi l’idea di uomo. L’io si disgrega, si smarrisce, si perde, i suoi contorni si fanno labili, la sua coscienza si sfalda, nel naufragio di tutte le certezze. Entra così in crisi l’idea di identità e di persona, accentuata dall’espandersi della grande industria e dall’uso delle macchine, nonché la creazione di sterminati apparati burocratici e di grandi metropoli moderne, che spersonalizzano l’uomo nella sua individualità e interiorità. Un uomo di questo tipo inizia a provare smarrimento e dolore, avverte di non essere nessuno e sente una tremenda solitudine. Viceversa l’individuo soffre a essere fissato dagli altri in forme in cui non può riconoscersi. Pirandello, in questo periodo, diventa così uno degli interpreti più acuti di questi fenomeni, e li riflette nelle sue teorie. Pirandello, poi, ha una giudizio molto negativo non solo sull’identità individuale, ma anche sulla società in generale. Egli la individua come una trappola, un carcere, in cui l’individuo si dibatte, lottando per liberarsi: ciò che domina i rapporti sociali è la crudeltà. La società gli appare come un’enorme pupazzata, una costruzione artificiosa e fittizia, che isola l’uomo dalla vira, incastrandole in forme che non gli appartengono fino alla morte. Alla base di tutto vi è dunque un rifiuto delle forme della vita sociale, dei suoi istituti, dei ruoli che impone, a vantaggio di autenticità, immediatezza e spontaneità: era un ribelle insofferente. Tanto quando lo è la società, poi, anche la famiglia è opprimente (idea derivata dalla sua esperienza personale della moglie), perché ti incastra in odi, rancori, grigiore, menzogne, e, infine, anche la vita economica, considerata ennesima trappola, perché costringe a lavori frustranti e monotoni. In generale vi è quindi da parte sua una critica feroce delle istituzioni borghesi, che resta puramente negativa, senza proposte alternative. L’unica cosa che propone è il totale e completo rifiuto della socialità, una fuga nell’irrazionale, nella vitalità, nel dinamismo, nell’immaginazione, che trasporta altrove, lontano dalle forme, o anche nella follia. Il rifiuto della vita sociale rende Pirandello “forestiere della vita”, quello che si estranea e che irride e ha pietà verso gli altri uomini imprigionati nelle forme. È colui che “ha capito il giuoco”. È colui che osserva il mondo da lontano, contemplandolo ma avendone una conoscenza critica. È la “filosofia del lontano”. Come conseguenza del fatto che la realtà è vista come flusso continuo, si ha un radicale relativismo conoscitivo: ognuno ha una sua verità, che nasce dal ruolo soggettivo di vedere le cose. Ne deriva un’inevitabile incomunicabilità fra gli uomini, che non possono intendersi, di fronte a una realtà diversa per ciascuno. Per tutti questi motivi, di crisi dell’uomo e di caduta di tutte le certezze, Pirandello viene inserito nel movimento del decadentismo, sebbene, per certi versi, si può considerarlo già al di fuori di esso. Accanto a molte tendenze tipiche del movimento fine ottocentesco, vi sono tendenze di segno opposto, che entrano in conflitto. Mentre nel decadentismo tutto si richiama grazie a una fitta rete di corrispondenze che richiama tutto, in Pirandello la realtà si sfalda in una pluralità di frammenti che non hanno un senso complessivo. Manca in lui totalmente il senso del reale. Questa crisi della totalità collocano Pirandello già oltre il Decadentismo, in un clima tipicamente novecentesco. Inoltre, mentre il Decadentismo portava a identificare sostanzialmente il mondo con l’io, per Pirandello questo è impossibile: l’io si frantuma in una serie di pezzi incoerenti, e finisce per diventare nessuno. Molte delle idee centrali di partenza (contrasto VITA-FORMA) si ritrovano in uno dei suoi romanzi più famosi, Il fu Mattia Pascal. Nei capitoli XII e XIII troviamo due espressioni o teorie molto importanti per comprendere la sua visione del mondo: lo “stappo nel cielo di carta” e la “lanterninosofia”. Per quanto riguarda la prima idea i protagonisti parlano della tragedia d’Oreste, fratello di Egisto, ucciso da Clitennestra, madre di Elettra, che da nome alla tragedia. I protagonisti, in particolare, parlano di una rappresentazione con marionette quella stessa sera della tragedia. Uno dei due chiede all’altro cosa accadrebbe se, d’improvviso si strappasse il cielo di carta del teatrino e Oreste se ne accorgesse. Non giungendo alcuna risposta, spiega lui stesso: quando a Oreste capita di scoprire che il cielo di carta si è strappato capisce che il cielo sopra di lui era finto, che la realtà è pupazzata, che era semplicemente una marionetta, che la realtà è solo un’illusione. A questo punto Oreste diventerebbe come Amleto, pieno di dubbi, incapace di agire più. È qui che e un compimento, anche nella sua opera si raccolta di novelle vi è la completa mancanza di un ordine determinato. All’interno della raccolta è possibile distinguere le novelle collocate in una Sicilia contadina (novelle siciliane) da quelle focalizzate su ambienti piccolo borghesi continentali. Quelle siciliane, a prima vista, potrebbero ricordare quelle veriste, ma se si osserva bene non si trova assolutamente nulla di scientifico. Pirandello invece da un lato riscopre il sostrato mitico, ancestrale e folklorico della terra siciliana; dall’altro le figure del mondo contadino sono deformate da una carica grottesca, che le stravolge, rendendole bizzarre e ai limiti della follia, come casi paradossali ed estremizzati fino all’assurdo. Per quanto riguarda invece le novelle piccolo borghesi, esse rappresentano la condizione piccolo borghese, una condizione meschina, grigia, frustrata. Qui, ancora più che in quelle Siciliane, manca la volontà verista di indagare scientificamente il gruppo sociale, che è, invece, solo metafora di una condizione esistenziale assoluta: il cristallizzarsi della vita nella forma. È qui che emerge quella visione del mondo come trappola: trappola della società, che impone maschere fittizie e ruoli fissi, trappola dell’economia, con lavori monotoni e meccanici, trappola della famiglia, oppressiva e soffocante. Da qui li rifiuto anarchico e irrazionalistico di ogni forma di società organizzata. Nelle novelle Pirandello mette in opera per la prima volta il suo tipico atteggiamento umoristico, che consiste nel provocare innanzitutto il riso, che però è sempre accompagnato, in nome del sentimento del contrario, da una pietà dolente per un’umanità così avvilita. Al tempo stesso, nelle novelle vi è un campionario di ossessioni e di angosce, che fanno emergere il fondo ignorato della psiche. Pirandello distrugge l’idea stessa si personalità coerente, rivelando le varie personalità che si annidano nell’individuo. i romanzi L’ESCLUSA Esso fu il primo romanzo pubblicato da Pirandello ad appena 26 anni. La storia, ambientata in Sicilia, è quella si una donna accusata ingiustamente di adulterio, che viene cacciata di casa dal marito e vi verrà riammessa solo dopo essersi resa effettivamente colpevole. Il romanzo ha ancora legami con il Naturalismo sia nella materia che nell’impianto narrativo. Tuttavia, sebbene al centro vi sia ancora un “fatto” dal forte potere condizionante (l’adulterio), il fatto non ha consistenza, perché è falso. La fatalità deterministica nasce non da un evento reale, ma da una realtà solo soggettiva: il convincimento della colpa di Marta come crede il marito. In tal modo Pirandello conduce un’implicita polemica nei confronti del Naturalismo, che aveva appunto impostato in maniera deterministica il rapporto tra cause ed effetti. In questo primo romanzo, inoltre, si può già scorgere in embrione l’impostazione umoristica che sarà propria dei romanzi successivi. Da una parte la vicenda di Marta, dall’altra una gallerie di figure grottesche e ridicole, che fanno ridere: si ha quasi l’impressione di leggere due romanzi scollegati. Questa singolare struttura disomogenea e frantumata risponde all’idea pirandelliana dell’arte umoristica, che rappresenta la realtà senza ordine apparente. IL TURNO In questo romanzo successivo è ripresa ancora di più l’idea del caso, in cui un innamorato deve aspettare il suo turno per sposare la donna amata, dopo la morte di altri 2 mariti. Il tema è impostato diversamente dall’esclusa, in quanto si preme di più sui risvolti bizzarri, grotteschi e marionettistici, come divertimento comico. IL FU MATTIA PASCAL (1904) L’inizio del romanzo de Il fu Mattia Pascal è già significativo dell’opera. All’inizio, infatti, si fa subito una premessa: l’unica cosa certa è che il protagonista si chiami Mattia Pascal. Vi è solo un cosa certa, questa, l’unico fondamento della vita. Alla fine del romanzo, però, esso è completamente sconvolto, si ribalta l’unica certezza. Egli non è più Mattia Pascal ma il Fu Mattia Pascal. La seconda premessa che all’inizio viene fatta è una considerazione su come l’uomo dentro la realtà vasta sia insignificante. Per questo non deve interessare raccontare dei piccoli fatti: poiché siamo una realtà invisibile, il romanzo non può più raccontare ma deve cercare di mostrare il dramma del mistero umano sulla Terra. La storia: Mattia Pascal vive in un immaginario paese della Liguria (siamo fuori dalla realtà verista), Miragno, e ha ereditato dal padre una grossa fortuna, ma è stato ridotto in miseria da un disonesto amministratore, Batta Malagna, che gli ruba a poco a poco il patrimonio, approfittando della sua inettitudine. Per vendicarsi Mattia seduce la nipote di Malagna, e la mette in cinta. Costretto a sposarla non ha un matrimonio felice, ma infernale, sia per la moglie che per la suocera. Inoltre pesa su di lui la condizione economica: da agiato borghese a bibliotecario della biblioteca del paese, situata in una chiesa, abbandonata da tutti. Mattia, allora, inizia a cercare di rompere il meccanismo che lo imprigiona, attraverso la fuga. Allora lascia il paese di nascosto. 2 fatti fortuiti intervengono a modificargli la vita: una vincita alla roulette di Montecarlo, che gli assicura un notevole patrimonio che può aiutarlo nel suo tentativo di fuga, e la notizia della propria morte. Lo avevano infatti riconosciuto in un uomo morto annegato in uno stagno. Mattia si trova così libero dalla duplice trappola. Sente si poter essere finalmente libero, di poter vivere senza quella forma che portava. È l’anarchismo totale dell’essere, libero alla forma che lui e la società gli hanno dato. Dinanzi a lui un campo aperto di infinite possibilità. In particolare, 2 strade: rimanere nell’assoluta libertà o tornare in un’altra forma, nella vita reale. Mattia non riesce a rimanere nel bivio, e quello che alla fine sceglie è la seconda possibilità perché sente il bisogno di tornare dentro la realtà nella vita di tutti i giorni. Ma tornarci con una nuova identità, con un nuovo sentimento della vita. Egli è riuscito a uscire dal sentimento della vita ma vuole ritornarci. Sa che la libertà è fuori ma è consapevole di dover tornare dentro. Mattia è dunque una rivoluzione non finita: l’illusione di poter vivere fuori diventa un dovere di tornare dentro la forma e dentro l’infelicità. A questo punto sceglie di diventare Adriano Meis, e decide di ricominciare a vivere da un’altra parte, cambiando anche aspetto. Mattia, quindi, non riesce a liberarsi veramente dalla forma che, per lui, serve per poter vivere. VIVERE: parola ambigua. Per Mattia serve tornare nella forma per vivere, per Pirandello vivere invece è essere totalmente libero da qualsiasi forma che ci costringe. Adriano Meis, assaporando la nuova libertà, inizia a viaggiare per l’Italia e l’Europa, ma ben presto sente un senso di vuoto e di solitudine penosa, di precarietà. Soffre ad essere escluso e capisce che essere libero significa anche essere completamente estraniato, “forestiero della vita”. La nuova identità è una costruzione fittizia, esattamente come la precedente, e ne presenta tutti gli svantaggi. Anzi, è peggiore della prima, perché questa, oltretutto, non gli permette di avere dei legami sociali, essendo completamente fuori dal sociale. L’errore di Mattia è stato dunque il non essere stato capace di vivere davvero la libertà, rifiutando definitivamente ogni identità individuale. Andriano, non resistendo più, decide di rientrare nel flusso vitale (per lui è il vivere sociale). Si trasferisce a Roma, prendendo in affitto una stanza presso Anselmo Paleari. Qui, venendo meno alla volontà di vivere lontano dalla trappola della famiglia, si innamora della nipote di Anselmo. Però, non esistendo socialmente, non può stabilire legami con lei e non può nemmeno immergersi totalmente nella vita comune. Adriano capisce di essere rimasto irreparabilmente escluso da quella vita sociale a cui era rimasto così legato. Allora, simulando un suicidio, riprende la vecchia identità di Mattia Pascal. Paradossalmente è felice di tornare alla sua forma originaria. Tornato a casa, scopre però di non poter più tornare nemmeno a pieno nella vecchia forma, perché sua moglie si è già risposata con il suo migliore amico e ha avuto una figlia. Ora l’eroe non può più avere alcuna identità. Riprende il suo posto nella biblioteca, e la assume come osservatoria della vita che scorre ormai lontana da lui, dedicandosi a scrivere la propria singolare esperienza. Nella pagina conclusiva del romanzo Mattia discute con l’amico Don Eligio, con cui afferma che tornare indietro non è più possibile. Egli è diventato forestiere della vita nella sua vecchia vita. Per questo ora si chiama Fu Mattia Pascal. Egli si limita a rendersi conto di non sapere chi è. Non rinuncia al nome, l’insegna, la forma, ma si limita a metterci quel meno davanti, la particella fu, che indica l’avvenuta negazione dell’identità senza che soluzioni alternative vengano prospettate. Il successivo eroe di Uno, nessuno, centomila, Moscarda, procederà oltre, sino a rinunciare totalmente all’identità e al nome, sprofondando gioiosamente nel fluire della vita e fondendosi in ogni istante con le cose mutevoli, senza più fermarsi in alcuna forma. Mattia non arriva a questa conclusione positiva: si ferma, invece, al momento negativo nell’illusione di un’identità individuale: sa solo cosa non è più, non ciò che potrebbe essere. Mattia, nell’immaginario di Pirandello, è un eroe provvisorio, interlocutorio, il protagonista di un semplice processo di negazione delle illusioni e delle costruzioni fittizie del vivere sociale. I motivi più rilevanti sono quello della trappola delle istituzioni sociali, la critica dell’identità individuale, l’estraniarsi dal meccanismo sociale da parte di chi “ha capito il giuoco”. Il romanzo è una prova significativa della poetica dell’umorismo. La realtà, attraverso il gioco paradossale del caso, viene grottescamente distorta, ridotta a meccanismo bizzarro, assurdo, ma al di là del riso che suscita vi è la sofferenza del protagonista. Scatta così il sentimento del contrario: tragico e comico, serio e ridicolo, sono congiunti. La novità investe anche l’impianto narrativo: non troviamo più la terza persona da parte di un narratore, esterno e superiore. Il romanzo è narrato dal protagonista stesso. Il punto di vista è dunque soggettivo, parziale, mutevole, sostanzialmente inattendibile e inaffidabile. I VECCHI E I GIOVANI Questo romanzo del 1909 sembrò segnare un passo indietro rispetto al Il fu Mattia Pascal, perché presenta ancora un impianto narrativo naturalistico. Nella sua forma esteriore è un romanzo storico, che rappresenta le vicende politiche e sociali della Sicilia e dell’Italia nell’ultimo decennio dell’800. Al centro della vicenda di è la nobile famiglia dei Laurentano. L’intreccio si basa sul confronto tra due generazioni: i vecchi hanno fatto l’Italia, ma vedono gli ideali risorgimentali sviliti; i giovani che appaiono smarriti e incerti sulla direzione della loro vita. Esemplare è Lando che in nome di un bisogno di vita rompe le forme fittizie del meccanismo sociale, ma, dinnanzi alla repressione, si chiude nella delusione. Il procedere della storia appare dunque come non conclusa, un movimento insensato che gira su se stesso. Colui che nella storia ha capito il giuoco e fa la parte dell’estraniato è don Cosmo. Ai suoi occhi le passioni degli uomini, gli ideali patriottici, le conquiste del potere economico, le ideologie politiche, sono pure illusioni, che gli uomini si creano per vivere. Riaffiora comunque l’umorismo pirandelliano, che disgrega e scompone l’assurdo meccanismo della vita sociale, con un atteggiamento di scettica irrisione e insieme di pietà. Qui, con alcune tecniche narrative, viene introdotta la filosofia del lontano, allontanando i fatti: viene così tolta importanza e senso allo scorrere della vita. SUO MARITO Pubblicato nel 1911, presenta degli spunti interessanti. Sullo sfondo di una rappresentazione satirica degli ambienti intellettuali romani, si innesta il motivo dell’incomunicabilità umana. Il tutto si apre con Silvia, scrittrice giunta dalla provincia, che rappresenta spontaneità istintiva e totalmente disinteressata dalla creazione artistica. Dall’altra parte Giustino, il marito, buono uomo devotissimo alla moglie, ma limitato e attento solo agli aspetti economici della vita: egli pensa solo al successo letterario della moglie. L’inconciliabilità tra i due, resa con la focalizzazione alternata sull’uno e sull’altro personaggio, sfocia dell’incomprensione totale e nella rottura. Anche in questo romanzo si riconosce l’impianto umoristico. Pirandello non racconta solo la vicenda drammatica di Silvia, che compie il percorso di maturazione e emancipazione, liberandosi dal ruolo di moglie e madre, ma indaga anche l’altra realtà, quella del marito, mediocre e gretto. I QUADERNI DI SERAFINO GUBBIO OPERATORE Il tema dominante della storia è quello della macchina, già introdotto in Mattia Pascal e altri romanzi. In Mattia Pascal, in particolare, si accennava alla macchina come qualcosa che l’uomo usa ma non ha nulla a ogni identità personale definitivamente, addirittura il proprio nome. Riesce, infine, a estraniarsi totalmente dalla società e dalla prigionia delle forme che essa impone. Nella pagina conclusiva del romanzo viene descritto il nuovo Moscarda, ricoverato nell’ospizio, vestito con berretto, zoccoli e camiciotto turchino, simboli della sua pazzia riconosciuta. Egli torna a parlare dello specchio, dicendo che non si specchiò più. Ciò significa che egli non aveva più tentato di riconoscersi, perché tanto è impossibile. Guardarsi nello specchio è vedere una realtà finta. Lui, poi, non vuole più chiamarsi Moscarda, ma si chiama “quel povero svanito là”: egli si guarda da fuori, l’io reale è diverso da quel Moscarda di prima, è un Io senza nome, irriconoscibile fuori dalla vita. Egli non ha NESSUN NOME. E non avere nessun nome significa essere uscito dalla forma e dalla vita quotidiana. Mattia Pascal era uscito dal nome e aveva desiderato un nuovo nome, poi aveva cercato di tornare indietro ma non ce la aveva fatta. Moscarda, invece, ce la fa e rimane fuori dalla forma (obbiettivo di Pirandello), inserendosi del flusso della vita e nel fluire degli eventi, come l’albero, la nuvola e il vento. Questo però lo porta inevitabilmente ad essere pazzo. Tuttavia però essere pazzo è proprio un modo per accedere alla vita. Moscarda è riuscito così alla fine a vivere la vita fuori, perché essa sta fuori. Il pensiero va lasciato perdere, perché esso non può conoscere nulla. Questa è la soluzione finale di Pirandello. gli esordi teatrali e il periodo grottesco Il teatro per Pirandello fu importantissimo. Di esso possiamo distinguere 4 fasi. 1° FASE: la prima fase è quella di un teatro verista siciliano ancorato al passato. I primi suoi testi rappresentati furono La morsa e Lumie di Sicilia, nel 1910. Poi, nel 1915 a Milano andò in scena Se non così. Pirandello, poi, scrisse vari testi in dialetto siciliano. È un teatro che gioca sulla deformazione e sull’assurdo, che però gli attori tendevano a ridurre al livello della farsa. 2° FASE: la seconda fase è quella cosiddetta del teatro grottesco. Con questa fase egli intendeva mostrare la falsità delle relazioni sociali dei borghesi, e, con essa, mostrare la falsità della forma. Partendo dal dramma borghese, porta la logica delle convenzioni borghesi alle estreme conseguenze (Pensaci, Giacomino!) Contemporaneamente mostra l’inconoscibilità del reale. Questo si vede nell’opera Così è (se vi pare), del 1917. Il signor Ponza tiene relegata la moglie nel suo alloggio, alla periferia di una città, perché la suocera non possa vederla. L’uomo afferma che essa si tratta della seconda moglie, essendo la prima (figlia della suocera) morta in un terremoto. La suocera, invece, è pazza ed è convita che la donna relegata in casa sia davvero la figlia, che si finge seconda moglie per assecondare il marito. Nel contempo, oltre alle 2 persone che si scontrano su idee opposte su una persona che non appare mai se non alla fine e che nessuno vede né sa chi sia, anche la gente del paese si interessa alla vicenda, e ognuno sostiene una cosa diversa e crea una verità diversa. Alla fine, quando la donna si mostra, delude tutte le aspettative perché afferma che lei è “colei che mi si crede” e “per me nessuna! Nessuna!”. Non si può stabilire l’identità di una persona e nemmeno la verità. In tal modo Pirandello porta sulla scena il suo relativismo assoluto, che contesta la pretesa di definire una volta per tutte una realtà oggettiva. Successive opere sono Il piacere dell’onestà e il Giuoco delle parti. In tutti questi drammi Pirandello sconvolge due capisaldi del teatro borghese naturalistico: la verosimiglianza e la psicologia. Infatti il mondo che gli spettatori hanno davanti non è reale ma stravolto, ridotta alla paranoia e all’assurdo, in cui i casi normali sono forzati all’assurdo. Allo stesso modo i personaggi non sono caratteri corposi con una psicologia unitaria, ma personaggi scrissi, sdoppiati, contradditori. A questa riduzione all’assurdo di situazioni e personaggi contribuisce anche il linguaggio, convitato e convulso, che induce a leggere la scena in una prospettiva straniata. Era novità così grandi che il teatro di Pirandello non ebbe molto successo inizialmente, ma furono poi accolti da Antonio Gramsci. Con queste opere Pirandello si accosta al tema del “grottesco”, la cui definizione, data dallo stesso scrittore, è: “Una farsa che includa nella medesima rappresentazione della tragedia la parodia e la caricatura di essa, ma non come elementi soprammessi, bensì come proiezione d’ombra del suo stesso corpo, goffe ombre d’ogni gesto tragico”. È il tipico umorismo, tragedia e commedia insieme. il «teatro nel teatro» 3° FASE: la terza fase del teatro si concentra sul rapporto realtà-finzione, vita-teatro. I personaggi di queste opere diventano più vivi degli uomini stessi: i personaggi creati diventano vivi. Esempio è il Dottor Fileno, che appare a Pirandello e gli chiede di essere riscattato dalla storia di un altro autore in cui era stato inserito. Pirandello, allora, dice di non riuscire, perché non è in grado. Dunque, se nel teatro della 2° fase metteva in scena il dramma dei personaggi, qui mette in scena la sua impossibilità di scriverlo. Emerge però anche l’impossibilità anche a rappresentarlo: non solo per la mediocrità degli autori, ma anche per l’incapacità intrinseca del teatro di rendere sulla scena ciò che uno scrittore ha concepito. Questa sfiducia nel teatro è evidente in Sei personaggi in cerca d’autore, un testo metateatrale, dove, attraverso l’azione scenica, si discute del teatro stesso. Alla sua prima rappresentazione il dramma suscitò indignazione furibonda del pubblico, ma in seguito ebbe un trionfale successo. Anche le seguenti opere ebbero al stessa storia: ricordiamo Ciascuno a modo suo, che propone il conflitto tra attori e pubblico, e Questa sera si recita a soggetto, che affronta il tema del conflitto tra regista e attori. In questa fase 2 sono le cose importanti: • Tentativo di una vera creazione di una realtà che abbia la “vita” persa • Debolezza costituzionale dell’autore, che si sente incapace di dare un senso all’essere. Egli vive un momento di crisi in cui l’uomo sembra aver perso il senso dell’esistere. È la tipica crisi dell’uomo novecentesco. ENRICO IV Altra opera importante è l’Enrico IV. In una villa solitaria nella campagna umbra vive da vent’anni rinchiuso un uomo che, impazzito per una caduta da cavallo durante una mascherata, si è fissato nella parte che rappresentava, l’imperatore medievale Enrico IV. Da allora è immerso in tale vicenda, con tutti che lo assecondano. Un dottore maschera la figlia di una sua amante giunta al castello da madre del vecchio, esattamente come era vestita durante la cavalcata storica, in modo da provocare nel pazzo uno choc che riporti la ragione. Ma Enrico IV rivela di essere rinsavito da tempo e di essersi chiuso nella parte per disgusto della società. Consapevole della sua diversità ha assunto con gli altri la maschera del pazzo, e la vuole tenere, per ridere degli altri. Però a poco a poco ha perso la vita. Così, dopo l’esperimento del dottore, decide di uscire dalla maschera e di sposare quella figlia. Ma il compagno della madre non è d’accordo e lo sfida. Il vecchio, allora, lo uccide con la spada. A quel punto è costretto a rinchiudersi per sempre nella sua maschera di pazzo, a confessare la sua immaturità e la sua incapacità di vivere. Il dramma si collega al teatro nel teatro perché anche qui avviene una recita in scena, quella di Enrico IV. Egli, con la sua maschera, induce anche gli altri a mascherarsi come tali, e mette così in luce la finzione di cui sono prigionieri nella vita quotidiana, tutti costretti dal meccanismo sociale. Con Enrico IV sorge la figura dell’eroe estraniato dalla vita, dotato di superiore consapevolezza, che guarda dall’alto la miseria degli altri. Ma come tutti i personaggi di Pirandello, anche lui è scisso e doppio, perché turbato da passioni, appetiti e rimpianti che lo legano alla vita. SEI PERSONAGGI IN CERCA D’AUTORE L’opera più emblematica del periodo del “teatro nel teatro” è senza dubbio Sei personaggi in cerca d’autore, un’opera che suscitò un certo sconcerto quanto fu messa in scena la prima volta, trattandosi di un’opera assurda, mentre fino ad allora il pubblico era solito a spettacoli reali. Già l’inizio, infatti, presenta una radicale rottura con le convenzioni teatrali del realismo ottocentesco. Tutto ciò che è convenzionale è spezzato da Pirandello. Gli spettatori, infatti, entrano in sala e trovano il sipario alzato e il palcoscenico senza scena. Entra poi in scena un operaio che esegue delle riparazioni al palco finché appare il direttore di scena che lo allontana, perché gli attori devono fare le prove per uno spettacolo di teatro che stanno preparando, Il giuoco delle parti di Pirandello. Dopo alcune discussioni tra gli attori, appaiono sul fondo della sala 6 personaggi, usciti da una storia di un altro autore, che portano maschere e abiti speciali, e che chiedono agli attori sul palco che venga fatta una storia su di loro, in quanto l’autore della loro storia si è rifiutato di scrivere il loro dramma. Essi invece hanno bisogno di viverlo, di trovare la sublimazione delle loro vicende nella superiore forma artistica della tragedia. La tragedia si configura quindi come quel modo per uscire dal dramma della vita, per uscire dalla forma in cui i 6 personaggi sono imprigionati e costretti a rivivere continuamente le loro sofferenze. Si rivolgono pertanto alla compagnia affinché la loro vicenda, che non si è espressa nell’opera letteraria del loro autore, possa prendere vita almeno sulla scena teatrale. Gli autori sul palco, dopo un attimo di sbalordimento, accettano di recitare il dramma, che viene allora raccontato dai personaggi. Il Padre ha scoperto che tra la moglie e il segretario vi è una relazione, e decide di assecondarla, spingendo la moglie a vivere con l’amante e a lasciare il loro Figlio. Negli anni successivi egli assiste alla nascita di una nuova famiglia, con 3 bambini. Poi però la Madre resta vedova ed è costretta a lavorare per un atelier. Tuttavia la famiglia sopravvive perché la Figliastra si prostituisce all’atelier. Un giorno il Padre si reca all’atelier e sta per avere un rapporto con la Figliastra, che non riconosce, ma viene fermato in tempo dalla Madre. In un secondo atto la Bambina (figlia minore) muore affogata e il Giovinetto (3° figlio) si spara un colpo di pistola. Raccontata la storia, i personaggi sul palco si rendono presto conto dell’impossibilità di raccontare il dramma di tali 6 personaggi. Esso è irrappresentabile, perché nel rappresentarlo diventerebbe falso. Ciò che emerge è proprio l’impossibilità di scrivere e di rappresentare i drammi della vita: la realtà non può trovare nella rappresentazione teatrale la catarsi, ma l’uomo continuerà a vivere nel dramma, impossibilitato a trovare una salvezza. È l’opposto di quanto pensava il teatro ottocentesco, che Pirandello scardina e rifiuta totalmente, criticandolo, poiché si compiace troppo di drammoni a forti tinte, ancora intrise di romanticismo. Allo stesso modo vengono visti i personaggi sul palco, accusati dalla Figliastra di non voler scrivere il loro dramma perché chiusi nei loro schemi stereotipati. Dunque, la rappresentazione teatrale dei 6 personaggi non si può fare per 2 motivi: • L’autore si rifiuta di scrivere il dramma dei personaggi • Gli attori non sono in grado di dar forma all’idea concepita dall’autore, per limiti loto contingenti e per i limiti del teatro stesso. Attorno a questo Pirandello allude metaforicamente anche i 3 motivi centrali della sua visione del mondo: 1. L’impossibilità di comunicare, che nasce dal fatto che ognuno ha un visione soggettiva. Da qui il fatto che nessuno sarebbe in grado di mettere in scena il dramma dei 6 personaggi come essi lo sentono 2. Il rapporto verità-finzione e l’inconsistenza della persona individuale, in quanto, essendo fittizie anche le persone reali, non possiedono maggiore realtà i personaggi della finzione letteraria, anzi. 3. Il conflitto vita-forma. I personaggi in cerca di autore si sentono costretti dentro alla loro vita di sofferenza. l’ultima produzione teatrale Nell’ultima fase della produzione poetica Pirandello tenta di riprodurre gli schemi di quella precedente in forme macchinose e artificiose e in maniera alquanto stanca, riducendosi a una semplice ripetizione di schemi orami inerti. Questo si riflette anche sulla poetica, che cambia: emergono in modo determinante le tendenze legate a un certo misticismo e irrazionalismo di ascendenza ancora decadente. L’arte diviene le strumento privilegiato per la rivelazione intuitiva dell’essenza e della verità. Anche il linguaggio muta, assumendo forme di liricità ispirata ed effusa. 4° FASE: riguardo al teatro, con il cambio di poetica si introduce la quarta e ultima fase teatrale, quella chiamata dei miti pirandelliani. Si tratta di testi teatrali che non rappresentano più la realtà sociale borghese contemporanea, ma si collocano in un’atmosfera mitica e simbolica, utilizzando elementi leggendari, meravigliosi, soprannaturali. L’azione si svolge in luoghi separati dalla realtà storica contemporanea. Si tratta in generale di ricerche utopistiche, come ad esempio Nuova colonia, una storia di un’utopia politico-sociale, in cui vi è una comunità in cui tutti si vogliono bene, Lazzaro, una utopia religiosa riguardo la fiducia verso gli altri e la bontà, e Giganti della montagna, una utopia del mondo dell’arte. I GIGANTI DELLA MONTAGNA
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