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M. Baxandall forme dell’intenzione, Sintesi del corso di Storia dell'Arte Moderna

Riassunto testo storia dell’arte moderna

Cosa imparerai

  • Come Chardin ha formulato l'idea del corollario pittorico?
  • Come Baxandall ha ricostruito l'agenda del pittore Chardin?
  • Come Picasso ha riletto l'opera di Cezanne?
  • Che ruolo ha la sociologia dell'arte nella descrizione delle opere d'arte secondo Baxandall?
  • Come Baxandall descrive il concetto di triangolo di riattivazione?

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

Caricato il 16/01/2022

pierfrancesco-cupido
pierfrancesco-cupido 🇮🇹

2.5

(2)

4 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica M. Baxandall forme dell’intenzione e più Sintesi del corso in PDF di Storia dell'Arte Moderna solo su Docsity! Il termine forme indica qualcosa di statico, di fermo, un disegno tracciato e immodificabile. L’ intenzione, invece, è qualcosa in continuo cambiamento, un processo individuale che cambia a seconda di ogni persona. Baxandall si occupa, infatti, proprio di rintracciare le intenzioni dell’autore e di come esse si siano evolute (o modificate o, addirittura, cancellate) nel corso dell’esecuzione di un’opera. Per analizzare questo processo, si deve partire dall’opera, nella sua specificità, cercando di eliminare tutti gli elementi che potrebbero interferire nella nostra descrizione dell’opera in questione. Qui entra in gioco il sottotitolo: “sulla spiegazione storica delle opere d’arte”. La spiegazione storica esatta può avvenire solo dopo aver abbandonato i preconcetti e le distinzioni che siamo propensi a fare, condizionati dalla nostra cultura e dalle nostre conoscenze pregresse. Attraverso le sue spiegazioni e le sue teorie, l’autore cerca di ricostruire e donare la veridicità storica ad un’opera d’arte. Baxandall specifica che non è nel suo interesse occuparsi della sociologia dell’arte: “Per forza di cose, il mio libro tralascia quindi una grande quantità di argomenti, e uno di questi è la sociologia dell’arte: mi occupo infatti di collocare socialmente i quadri solo nella misura in cui lo richiede »l l’ambizione critica.”! L'operazione che egli è intenzionato a fare, infatti, è quello di sfruttare il contesto storico in cui viveva l’artista, solo per trarre aspetti utili alla comprensione dell’oggetto artistico. Il suo concetto della cultura è quello di un ambiente in cui si muove l’attore, quale persona socialmente attiva, ma che non ne subisce inevitabilmente l’influenza. Al contrario, vede la cultura come una sorta di background che l’artista utilizza come stimoli, che sono riflessi nel suo prodotto: questo non è il prodotto di un contesto sociale, bensì il risultato dell’azione di un uomo, che ha assimilato e rielaborato gli spunti ricevuti dal proprio contesto. D'altro canto, quando ci apprestiamo a commentare e descrivere un quadro, anche noi dovremmo spogliarci delle convenzioni dateci dalla nostra cultura: il linguaggio, il mezzo che l’uomo usa per comunicare, è solo conseguenza di un’operazione del cervello. Pertanto, quando siamo intenti a descrivere un’opera, essa non sarà altro che il risultato di ciò che pensiamo, di ciò che ha suscitato in noi la visione dell’opera d’arte. Nell’introduzione del libro, Baxandall confronta due descrizioni completamente diverse: una fatta da Libanio, nel IV secolo dopo Cristo, di un quadro che si trovava nella Casa del Consiglio di Antiochia, e una di Clarck sul Battesimo di Cristo di Piero della Francesca. La prima risulta ecfrastica, quasi romanzata, e chi descrive riporta fedelmente ciò che vede; la seconda è più breve e scientifica: Clark utilizza il costrutto “saldo disegno”, che ha senso solo se messo in relazione con l’opera a cui si riferisce. In assenza del dipinto, esso perde di significato o, almeno, non è in grado di descrivere al meglio la pala. Il critico vuole sottolineare come entrambi gli esempi non arrivino ad una descrizione efficace e corrispondente all’opera a cui i * M. Baxandall, Forme delle intenzioni: sulla spiegazione storica delle opere d’arte, Einaudi, Torino 2000, p. 7 due uomini si riferiscono: infatti, i due stanno descrivendo il loro pensiero, la loro opinione di ciò che hanno visto, pertanto la loro descrizione è contaminata dalle loro considerazioni: “Quello che una descrizione tenderà a rappresentare nel modo migliore è il pensiero che segue all’atto di vedere un quadro”. . Baxandall mette a fuoco un punto molto importante: il linguaggio, il mezzo che ogni uomo utilizza per esprimere il proprio pensiero, non è sufficiente, o almeno, non è adeguato alla critica artistica. Attraverso le parole, frutto di un lavoro del cervello, non si può descrivere in modo funzionale ed esatto ciò che si vede, a causa delle contaminazioni che il discorso subisce proprio dal cervello. Baxandall crede che per descrivere al meglio un’opera bisogni rintracciare, dietro di essa, il progetto dell’artista, ovvero la sua intenzionalità. Per dimostrare la sua teoria, non si occupa di un’opera d’arte, ma crede sia più funzionale un ponte: questo, oggetto pratico e di pubblico utilizzo, si presta al meglio a questo esperimento, rappresentando la risoluzione di un problema. Il Forth Bridge venne progettato da Thomas Bouch agli inizi degli anni ’80 del ‘800, ma non andò oltre la base delle fondamenta per la caduta di un altro ponte progettato dallo stesso, il Tay Bridge. Dopo il disastro, il progetto passò nelle mani di John Fowler e Benjamin Baker, che costruirono il nuovo ponte (l’attuale) tra il 1883-1890. Il ponte è l’esempio perfetto per tentare di indagare l’attività intenzionale dell’attore che, in questo caso, è Baker. Al progettista vennero affidati una serie di incarichi, una lista di problemi che doveva affrontare affinché il ponte risultasse funzionale e, soprattutto, stabile. Per comodità, Baxandall chiama questa lista di incarichi con il nome di agenda. Tuttavia, per ricostruire al meglio l’opera, ovvero per essere certi di riuscire a descrivere il ponte e, di riflesso, l’intervento di Baker, dobbiamo capire il suo lavoro intenzionale all’interno della realizzazione. Risolvere i problemi era il suo compito, e per farlo avrebbe potuto scegliere tra una vasta gamma di soluzioni, ma Baker intervenne con la propria cultura, con la propria esperienza pregressa. Scelse, come soluzione, un ponte a mensole, sulla base delle sue conoscenze nella costruzione dei ponti, per la sua esperienza con la Siemens e i metalli, e anche perché aveva potuto studiare una soluzione analoga adottata nel contesto asiatico. Dobbiamo immaginare questi elementi come alle basi di un triangolo: l’agenda, la cultura, e la descrizione. Baxandall chiama questa forma concettuale come triangolo di riattivazione: si tratta di un meccanismo che ha il compito di riattivare nella nostra mente una conoscenza, un concetto relativo all’opera che stiamo esaminando. Solo unendo questi tre vertici possiamo arrivare alla ricostruzione del pensiero dell’attore, che ci permette di vedere l’opera per quella che è, nella sua interezza, e nel suo ruolo: essa rappresenta un anello, un tassello nel processo del pensiero di Baker, ? Ibidem, p. 15 Baxandall costruisce intorno al quadro La donna che prende il tè di Chardin. Il critico sceglie proprio un particolare di questo dipinto come copertina dell’edizione americana del libro, un dettaglio che mette a fuoco il centro dell’opera, punto di partenza per le sue riflessioni. Seguendo il ragionamento fatto da Baxandall fino a questo momento, per contestualizzare la produzione de La donna che prende il tè, dobbiamo cercare di ricreare la cultura in cui si muoveva Chardin, di addentrarci in quel substrato di conoscenze da cui l’artista ha tratto delle soluzioni tanto particolari e singolari per la propria opera. Se ci mettiamo di fronte al dipinto, notiamo immediatamente che non c’è un unico punto di fuga al centro del quadro e che attiri l’attenzione dello spettatore; al contrario, una continua scia luminosa pone l’accento su una linea orizzontale giusto al centro. Inoltre, è da notare come molti degli elementi costituenti la composizione non sono del tutto precisi, al contrario, sono piuttosto sfocati (il volto della donna, di profilo, il bordo della teiera, ecc.). Per comprendere le soluzioni adottate dall’artista, Baxandall comincia ad interrogarsi sul mondo in cui l’attore, quale persona socialmente attiva, viveva. Nella prima metà del XVIII secolo, periodo di attività di Chardin, in Francia gli studi dell’ottica avevano visto un notevole incremento. Tutto grazie alla pubblicazione del Saggio sull’intelletto umano di John Locke, nel 1690. Il saggio, diviso in quattro libri, indagava la capacità dell’intelletto umano, e Locke sostiene che il processo di apprendimento prenda avvio dall’esperienza, che può essere interna o esterna al soggetto, la quale attraverso l'associazione di idee semplici, porta alla formulazione di idee complesse e di un giudizio. Secondo Baxandall, questa teoria, molto legata alla psicologia, venne adattata alle esigenze dell’ottica e, di riflesso, a quelle della pittura da tre intermediari: La Hire, Le Clerc e Camper. Quest'ultimo, in modo particolare, formulò l’idea di corollario pittorico, ossia uno spazio riservato, sulla tela, agli elementi salienti della composizione, che devono essere raggruppati sotto un cono di luce, in modo che lo spettatore non si perda nella visione intera del quadro, ma si concentri sulle cose essenziali dell’opera. I restanti elementi possono essere messi in ombra, e percepiti dallo spettatore tramite la sua conoscenza pregressa, inferenziale, utilizzando un parola adottata da Baxandall. Chardin venne a conoscenza di questi sviluppi nella ricerca visiva grazie al suo amico Cochin, un incisore e pittore francese, che tenne una lezione all'Accademia dei pittori di Parigi, il cui argomento era proprio questa ricerca sull’ottica e sull’ottimale rappresentazione visiva. Ancora al XVIII secolo risale la definizione “Distinctness of vision”, che comprende in sé due termini ancora i uso: adeguamento e acutezza. Il primo riguardala capacità dell’occhio di modificarsi per mettere a fuoco oggetti in primo piano posti a distanze diverse, il secondo concerne le differenti gradazioni della risposta sensibile nei diversi punti della retina e determina il grado di nitidezza entro il campo visivo. Entrambi i termini sono connessi alla messa a fuoco, il primo in profondità, il secondo all’interno del campo visivo. Naturalmente, Baxandall nota come tutte queste teorie non si adattino in modo ottimale al quadro di cui si sta occupando: nell’opera di Chardin non troviamo, certamente, un corollario pittorico e nemmeno un unico punto di luce: come ho sottolineato precedentemente, una continua linea di luce si estende orizzontalmente alla metà della composizione. Baxandall continua, quindi, la sua ricerca e indaga sulle intenzionalità dell’artista: per capire l’opera di Chardin dobbiamo unire a queste innovative scoperte anche i suoi interessi in campo pittorico. L'artista conosceva e apprezzava la pittura olandese, caratterizzata, in quegli anni, da un forte naturalismo e dalla rappresentazione della vita quotidiana, senza orpelli o enfatizzazioni, bensì nella sua totale semplicità. Inoltre sono note le sue sperimentazioni basate sulla luce monumentale tipica della produzione di Guido Reni, e anche sul taglio diagonale caratteristico delle opere di Veronese. Se tentiamo di applicare questi due interessi a La donna che prende il tè notiamo come il tavolino rosso in primo piano non sia messo frontalmente, bensì è visto di lato ed enfatizzato dall’acceso colore, e anche la sedia ha lo schienale messo di lato, e risulta essere molto più grande di quanto sia in realtà qualsiasi schienale di una sedia. E’ da notare, ancora, che, oltre alla luce che taglia a metà e orizzontalmente il quadro, ci sono dei raggi laterali che illuminano il dipinto in senso diagonale, come quello che parte dall’estremità sinistra in alto, passa per la guancia della donna e arriva allo spigolo del tavolino. Proviamo a ricostruire un’agenda del pittore, basandoci sugli esempi portati da Baxandall nei due casi precedenti del Forth Bridige e del Ritratto di Kahnweiler: Chardin partiva da 1) il Saggio sull’intelletto umano di Locke e, quindi, l’indagine sulla conoscenza umana basata sull’esperienza inferenziale; 2) le affermazioni di Camper, ovvero il corollario pittorico, che ha conosciuto grazie alla lezione di Cochin; 3) l’interesse per la pittura olandese e, quindi, il naturalismo; 4) gli espedienti pittorici adottati da Reni (luce monumentale) e Veronese (taglio diagonale). Baxandall giunge alla conclusione che l’opera in questione sia il risultato di una scelta operata dall’artista, di una selezione che ha fatto nell’ampio ventaglio di possibilità offertegli dal suo tempo, dal suo contesto sociale. Anche in questo caso, è bene guardare l’opera nella sua singolarità, e non come tassello unito alla lunga catena della produzione artistica dell’autore. In questo caso (e forse solo in questo caso) Chardin ha voluto unire i suoi interessi alle sue conoscenze e ha prodotto un’opera di difficile interpretazione e, ancora di più, di difficile descrizione. Torniamo al problema del linguaggio: nessuno di noi potrebbe formulare una frase, un costrutto verbale, in grado di descrivere al meglio l’opera, tanto meno riuscirebbe a racchiudere tutti gli elementi che la caratterizzano, e nemmeno potrebbe spiegare le “stranezze” di determinati elementi. L’oggetto preso in considerazione è un caso unico, in cui confluiscono esperienza e intenzionalità. Si potrebbe spiegare come un “atto percettivo che ha per oggetto la sostanza. Se distinguiamo tra raffigurazioni della sostanza e raffigurazioni della percezione e diciamo che il quadro raffigura una percezione”5. In questi termini si spiegherebbe la luce orizzontale: Chardin non vuole rappresentare un attimo, gli oggetti visti e percepiti in un determinato momento, ma, come fa l’occhio che si muove velocemente per catturare e percepire tutti gli elementi, così l’artista tenta di rappresentare una percezione più duratura nel tempo. Ancora, il pittore vuole rappresentare la sostanza, quindi diventa quasi inutile caratterizzare la donna o gli oggetti costituenti il quadro, bensì diventa naturale sfocare o non precisare questi elementi, che acquistano un senso per lo spettatore, quando fa riferimento alla sua conoscenza pregressa, inferenziale. Con questo ragionamento, La donna che prende il tè diventa un quadro di stampo lockeiano, che rappresenta, in forma di sensazione, il processo percettivo e idee complesse della sostanza, e non la sostanza in sé. Ciò ci permette di vedere l’opera per quella che è, ci permette una critica pertinente e, soprattutto, il più possibile vicino alla verità. Nel suo quarto e ultimo capitolo Baxandall si pone una sfida molto ardua e complessa, quella di indagare e penetrare nel tessuto intenzionale di un pittore appartenente ad una cultura e ad un’epoca lontane da noi. Per farlo prende ad esempio il Battesimo di Cristo di Piero della Francesca, il pannello centrale di un polittico, di dimensioni piuttosto ridotte, commissionata per una chiesa di Borgo San Sepolcro nel 1439. Naturalmente, l’agenda formulata da Piero è completamente diversa da quella di Picasso e Chardin, soprattutto per le diversità del mercato e delle committenze. Il committente, in particolare, fece delle richieste al pittore, richieste che si tramutarono nei primi punti dell’agenda dell’artista: l’oggetto doveva essere una pala d’altare, con un soggetto stabilito, ovvero il Battesimo, e che doveva essere di mano di Piero. La scelta del formato, “pala d’altare”, e del soggetto sono condizionati dal contesto e dal tempo in cui viveva Piero. Naturalmente, questa scelta non può essere compresa totalmente da noi perché non ci appartiene più, spinta da elementi compresi in un tirocinio percettivo che spinge verso abitudini e abilità discriminanti che influenzano il nostro modo di reagire di fronte ad un’opera d’arte. Nel Quattrocento, una pala d’altare raffigurante il Battesimo di Cristo provocava nei fedeli una sensazione e una devozione diversa da quella che proviamo noi oggi, “e poiché l’artificio pittorico sollecita le nostre aspettative e la nostra capacità di interpretazione visuale, corrisponde con particolare sensibilità alla cultura dell’osservatore, giocando con essa, anticipando o presupponendo aspetti altrimenti marginali”. ? Ibidem, p. 145 ? Ibidem, p. 157 3. Il battesimo si svolge a San Sepolcro, e ciò rappresenterebbe la supremazia di Roma (attestata da concilio di Firenze); 4. L’acqua, che ai piedi del Cristo si fa trasparente e non riflettente, si coglie come un momento di arresto all’interno di un fluire e dal Cristo, verso e dal Santo Sepolcro. Queste sono solo alcune interpretazioni date alle “stranezze” del quadro, tutte molto colte e piene d’ingegno, basate su confronti con documenti tardo antichi e medievali. Tuttavia, non sono modalità atte a fornire delle prove, ma punti di vista per riflettere sull’attendibilità di un resoconto sull’intenzione rispetto a un altro. Baxandall sottolinea il fatto che questa lettura del quadro, come le altre, più iconologica, non sia sbagliata, ma che essa allontani il critico dal suo vero obbiettivo. Analizzare gli elementi del quadro come simboli, oppure collocare questa opera all’interno dell’intera produzione pittorica dell’artista, è un procedimento facile o, comunque, a noi più congeniale per tentare di spiegare quegli elementi che sembrano più difficili. Tuttavia, procedendo in questo modo, si oscurano tutte le originalità del quadro stesso. Non è detto e non ci sono prove che Piero abbia letto quei testi medievali e rinascimentali sopra citati e che si sia ispirato ad esso per la sua opera. Ovvero, questa prova non può essere accertata dallo spettatore. Pertanto, su questa strada, Baxandall tenta una spiegazione iconologica che sia più adatta alla condizione del pittore. Ad esempio, i tre angeli si possono spiegare come la figurazione dei tre battesimi, teoria esposta da sant’Antonino di Firenze nella Summa teologica e nei sermoni proclamati al duomo, che probabilmente Piero ha sentito andando a messa durante il suo soggiorno fiorentino. La teoria nacque in seguito all’esigenza di garantire il battesimo, e quindi la remissione dai peccati, anche per coloro che erano morti senza peccato ma che non meritavano di andare in Purgatorio a scontare la propria pena, come, ad esempio, i martiri. Quindi, sant’ Antonino sostenne la presenza di altri due battesimi, oltre a quello dell’acqua, per i casi particolari, ovvero quello del sangue e quello dello spirito. Si affermò, comunque, che il primo fosse superiore agli altri, soprattutto per la paura di perdere i fedeli, che non si sarebbero più fatti battezzare, sicuri di poter comunque essere salvati dal purgatorio. Nel dipinto, il battesimo dell’acqua è l’angelo centrale, in posizione di rilievo rispetto agli altri due. In questo modo si spiegano anche le figure sulle sfondo, ovvero pellegrini pronti a farsi battezzare e che sono spettatori di quanto sta accadendo in primo piano. L’acqua ai piedi del Cristo è trasparente perché simboleggia la causa materiale del sacramento: è un elemento che riflette la luce naturalmente, mentre è trasparente quando deve riflettere la fede. Pertanto, il battesimo è chiamato il sacramento della fede. Per quanto riguarda il paesaggio, esso rappresenta Borgo San Sepolcro per l’uso comune di ambientare le scene sacre nel luogo a cui il quadro era destinato. In un altro modo e basandosi su testi reperibili da Piero della Francesca, Baxandall ha spiegato le quattro peculiarità del dipinto, rispettando un ordine più coerente e utile alle necessità “più di quanto non faccia l’iconografia più erudita”!. Leggo in questa affermazione una critica al metodo di ricerca adottata in America da Erwin Panofsky a partire dal 1939. Lo studioso tedesco nel suo libro Studies in iconology introduce quel metodo, che avrà molta fortuna negli USA, secondo cui ogni elemento particolare di un dipinto può essere spiegato perché nasconde una simbologia nascosta. Baxandall, nel suo intento critico, si allontana molto dal Panofsky americano, proprio per la sua idea che un’analisi così approfondita di una singola peculiarità discosti il critico dal suo obiettivò principale, che si può raggiungere solo guardando l’opera nel suo insieme e facendo riferimento alle esperienze che ha vissuto il pittore, e che lo ha spinto ha scegliere determinati atteggiamenti. Baxandall ammette che la sua analisi iconologica è un errore perché per farla ha dimenticato di guardare al quadro come alla risoluzione di un problema, cercando un significato. Così facendo ha messo in secondo piano il particolare linguaggio pittorico di Piero e non ha approfondito l’ordine, la legittimità e le necessità richieste dall’opera. L’opera di Piero raffigura il Battesimo di Cristo che, secondo il Vangelo di Matteo, è l’evento in cui si manifesta per la prima volta la Trinità, con Dio che manda lo Spirito Santo sotto forma di colomba, e di una straordinaria dimostrazione di umiltà da parte di Cristo. Questo messaggio è presente al centro del dipinto. Per spiegare gli altri elementi dobbiamo fare riferimento alla cultura del pittore. Piero operava in un contesto in cui le rappresentazioni del Battesimo avvenivano, la maggior parte delle volte, in polittici, in cui il pannello centrale era riservato al sacramento, mentre quelli laterali agli spettatori e agli angeli. Il formato che ha dovuto utilizzare Piero non gli lasciava tanto spazio per collocare un gran numero di figure, soprattutto, non poteva collocarle sullo stesso piano, altrimenti sarebbero apparse alte e schiacciate. Per risolvere questo problema, Piero fa appello alle sue conoscenze: ricorre alla commensuratio per creare un ambiente prospettico in cui collocare gli spettatori, pronti a ricevere il battesimo; in un ambiente separato da un albero, quindi riservato, ci sono gli angeli, che assistono all’evento; infine, per riempire lo spazio Piero sceglie di raffigurare il suo paese e quello a cui era destinata la pala d’altare, tradizionalmente inserito nelle opere sacre. La soluzione di Piero denota una lucida percezione dell’organizzazione spaziale in relazione al tempo che struttura la prima metà della storia raccontata in Matteo, in una sequenza dallo sfondo al primo piano. Baxandall conclude la sua analisi ostensiva e critica del quadro cercando di spiegare la particolarità del gruppo degli angeli. Queste figure sono, religiosamente parlando, degli intermediari tra l’uomo e il divino, sono coloro che assistono agli eventi e solo a loro è concesso parlare ai fedeli. Pertanto, ‘° Ibidem, p. 180 nella nostra concezione e nell’arte, assumono la forma di persone giovani e belle. Piero, in questo caso, riesce a trasmettere al meglio il ruolo ricoperto da queste figure, ovvero di intercessione: uno guarda verso lo spettatore, il centrale rivolge lo sguardo a Cristo e il terzo indica ciò che sta avvenendo, l’evento miracoloso. Tuttavia, la particolarità più evidente è che Piero, per rappresentare questo gruppo, si discosta completamente dal suo linguaggio abituale. Gli angeli di Piero sono sempre delle figure statuarie di adolescenti, tanto belle da prendere sempre tutta l’attenzione del dipinto. Ma questa volta non gli era concesso ciò, perché il soggetto principale doveva essere il battesimo e, di conseguenza, tutta l’attenzione doveva essere catturata da Cristo. Baxandall, allora, ricerca un evento che abbia potuto sconvolgere lo stile del pittore, una traccia artistica che lo abbia ispirato e permesso di evolvere il proprio stile. Nel 1439 Piero della Francesca si trovava a Firenze, essendo allievo di Domenico Veneziano, e proprio in quell’anno Donatello terminò la Cantoria per il duomo di Firenze. Essa è decorata da un fregio di angeli danzanti e cantanti, alcuni dei quali indossano una veste drappeggiata, che lascia loro scoperta una spalla, e questi divennero un modello per la rappresentazione degli angeli in movimento. Questa opera ci aiuta a spiegare e comprendere quella particolarità tanto discussa dell’opera di Piero. Credo che Forme delle intenzioni sia finalizzato alla scoperta di un nuovo modo di vedere e guardare le opere d’arte. Baxandall cerca di spogliarsi e spogliare il lettore da tutti i preconcetti e le idee sull’arte in generale, perché solo in questo modo si può leggere ed entrare in un’opera d’arte. La storia dell’arte è considerata sempre e ancora una disciplina umanistica, legata al mondo delle lettere e della filosofia. Credo che Baxandall si scagli violentemente contro questa concezione arcaica e ingiusta: le storia dell’arte, proprio come la storia, richiede degli strumenti e delle ricerche che fanno appello a diverse materie, a diverse discipline di studio, soprattutto quelle scientifiche. In questo libro si è parlato di tutto: di metalli, di pigmenti, di scienza, di ottica, di matematica. E queste sono solo alcune materie tirate in ballo per cercare di ricostruire il contesto e quegli elementi che facevano parte della vita degli artisti e che, inevitabilmente, sono entrati nelle loro opere d’arte. Quindi, inevitabilmente, fanno parte di coloro che osservano e formulano un giudizio su un’opera, e di coloro che, come Baxandall e tanti altri, cercando di costruire un discorso critico, e non solo, su una determinata opera. L'intento di questo libro, quindi, secondo me, è quello di piegare le vecchie concezioni con l’intento di modificarle e di allargare gli orizzonti visivi e comunicativi, perché la storia dell’arte non merita di rimanere chiusa nel suo spazio di “storia” e di “arte”, ma deve poter comunicare con il mondo le proprie scoperte e le proprie teorie, deve essere legittimata e valutata in tutti i suoi aspetti.
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