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M. Hirst, Michelangelo. I. The achievement of fame, 1475 – 1534, pp. 1-110, Dispense di Storia dell'Arte Moderna

M. Hirst, Michelangelo. I. The achievement of fame, 1475 – 1534, New Haven – London 2011, pp. 1-110;

Tipologia: Dispense

2022/2023

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Scarica M. Hirst, Michelangelo. I. The achievement of fame, 1475 – 1534, pp. 1-110 e più Dispense in PDF di Storia dell'Arte Moderna solo su Docsity! 4) M. Hirst, Michelangelo. I. The achievement of fame, 1475 – 1534, New Haven – London 2011, pp. 1-110 Prefazione L’impulso a scrivere una nuova biografia di Michelangelo è direttamente correlato all’emergere di materiale molto rivisto e nuovo riguardante l’artista, la sua vita e il suo lavoro. l’evento più notevole è stata la pubblicazione di cinque volumi della sua corrispondenza, che comprende le lettere da lui scritte e quelle a lui indirizzate, a cura di Pala Barocchi e Renzo Ristori. A questo corpus si è aggiunta la pubblicazione di altri due volumi indicati come Carteggio indiretto che contengono materiale di difficile reperimento. Un ultimo prezioso libro contenente i contratti dell’artista è apparso recentemente. Il materiale biografico riguardante l’artista aveva iniziato ad attirare l’attenzione della redazione alcuni anni prima. Già nel 1970 era apparsa la pubblicazione dei Ricordi di Michelangelo un libro relativo ai dettagli della sua vita finanziaria. Un’altra preziosa risorsa è la raccolta delle carte di Giovanni Poggi. Le ricerche del passato rimarranno indubbiamente importanti contributi allo studio della vita e dell’opera dell’artista e negli ultimi decenni si sono registrate molte e significative aggiunte al tema. La sfida di qualsiasi biografo di Michelangelo del ventunesimo secolo è quella di integrare novità rilevanti al vecchio materiale, al fine di migliorare la nostra comprensione della biografia e i successi dell’artista. La storia della vita di Michelangelo si è qui conclusa nel 1534, quando l’artista si trasferirà definitivamente a Roma. Capitolo I Le origini fiorentine La famiglia Buonarroti Una delle preoccupazioni di Michelangelo fu quella di sottolineare le nobili origini della sua famiglia. Già nel 1520 si era formato la convinzione che i Buonarroti discendessero da una famiglia nobile, i conti di Canossa. L’argomento del collegamento è alluso a lungo nelle prime frasi della Vita del Condivi del 1553, dove si aggiunge la spiegazione di come il cognome fu mutato in Buonarroti Simoni. La successiva confusione sulla data di nascita di Michelangelo deriverebbe dal fatto che l’anno fiorentino iniziava il 25 marzo, festa dell’Annunciazione. Quindi il Vasari scriverà che la data di nascita è il 6 marzo 1474. In questo fu seguito dal Condivi che, non c’è dubbio, dipendeva dalle informazioni ricevute dall’artista. Michelangelo aveva scritto al nipote a Firenze nell’aprile del 1548, chiedendogli di inoltrare notizie sulla sua nascita, e informandolo che le avrebbe trovate in un “libro di ricordi” che era stato conservato da Lodovico. La lettera che Leonardo deve aver inviato in risposta, tuttavia sopravvive un testo successivo del brano sulla nascita, che riporta l’ora e il giorno di nascita, l’anno calcolato alla maniera fiorentina. Se il libro di Lodovico fosse sopravvissuto, avremmo potuto saperne di più sull’episodio di Michelangelo mandato da una balia. Ne è prova un passo familiare della biografia di Condivi, dove fa riferimento all’episodio. Lodovico aveva mandato suo figlio da una balia a Settignano, figlia di uno scalpellino e moglie di un altro. Il Condivi racconta che Michelangelo, un po’ per scherzo ma forse anche sul serio, aveva detto che non c’era da stupirsi che si dilettasse tanto nell’uso dello scalpello, sapendo che il latte della balia ha una tale forza che può spesso cambiare l’indole del bambino. Riferendosi a questo fatto, l’artista riecheggiava una credenza toscana di lunga data. Il libro doveva contenere materiale prezioso relativo alla famiglia e, forse, avrebbe anche fornito informazioni sulla moglie, Francesca del Sera, madre di cinque figli, che sarebbe morta nel dicembre 1481 all’età di trent’anni. Mentre il libro dei ricordi di Lodovico è andato perduto, sono sopravvissute copie di alcune pagine di un libro di conti informale che offrono alcuni scorci di eventi tra il 1477 e il 1480. Contengono alcuni riferimenti a Michelangelo bambino. Dalla scuola alla bottega Mentre le informazioni dell’infanzia di Michelangelo sono modeste, quelle sugli anni successivi esistono a malapena. L’unica affermazione che fa luce sulla sua prima educazione si trova nella biografia di Condivi. Scrive che Lodovico riconobbe le capacità del secondo figlio e lo mandò a scuola con Francesco da Urbino. Il modello di educazione del periodo suggerirebbe che, dopo aver imparato a leggere e scrivere in italiano, avrebbe proceduto a studiare sotto un insegnamento di abaco e, solo dopo questo, sarebbe andato a studiare il latino sotto Francesco da Urbino, forse all’età di undici anni, che ci porta al 1486. Non si sa quanto tempo Michelangelo rimase con Francesco da Urbino, anche se il periodo dovette essere breve, prima del suo coinvolgimento nella bottega di Domenico Ghirlandaio. Il passaggio di Condivi che descrive il primo desiderio di Michelangelo di essere un artista è familiare. L’enfasi sull’opposizione di Lodovico alle aspirazioni del figlio potrebbe essere stata esagerata dal vecchio artista, ansioso di soffermarsi sulle sue prime lotte. La sua enfasi, tuttavia, sul ruolo svolto da Francesco Granacci nel sostenere i suoi desideri è probabilmente meritata. Granacci è accreditato, non una ma due volte, di aver contribuito alla sua carriera a questo punto. Francesco Granacci era più anziano di Michelangelo di cinque o sei anni ed è stato suggerito in modo convincente che entrò nella bottega del Ghirlandaio a metà degli anni Ottanta del Quattrocento. Il Condivi, in un passo familiare, afferma che il Granacci fornì a Michelangelo disegni della bottega del Ghirlandaio e che gli trasmise un esemplare dell’incisione di Martin Schongauer della Tentazione di Sant’Antonio. Si dice che il giovane Michelangelo ne abbia dipinto una copia su tavola di tale pregio che si era sparsa la voce che avesse suscitato la gelosia del Ghirlandaio. Condivi non nega esplicitamente che Michelangelo fosse stato a bottega del Ghirlandaio, pur dicendo tramite le parole dell’artista di non aver appreso nulla da lui. Vasari, tuttavia, interpretava il passo di Condivi come un tentativo di confutazione di quanto aveva scritto nella sua Vita del 1550, dove aveva fatto riferimento a un documento che confermava il fatto. Nella sua Vita del 1568 ampiamente rivista, pubblicata quattro anni dopo la morte dell’artista, Vasari torna sulla questione. Richiamandosi alla dichiarazione di Condivi pur evitando di nominarlo, si è ora spinto a stampare il testo del contratto che aveva copiato da un libro di ricordi dei due fratelli Ghirlandaio, Domenico e Davide. Il testo era stato scritto da Lodovico. Datato aprile 1488, afferma che Michelangelo deve restare con loro per tre anni per imparare a dipingere e per fornire tutta l’assistenza di cui hanno bisogno. In una annotazione sottoscritta, Lodovico dichiarava di aver ricevuto un fiorino. Vasari aggiunse un’affermazione errata secondo cui Michelangelo aveva quattordici anni quando entrò nella bottega. L’ingresso di Michelangelo nella bottega del Ghirlandaio all’età di tredici anni fu una violazione delle regole della corporazione a cui appartenevano i pittori, l’Arte de’ Medici e Speziali, che prevedeva quattordici anni come età minima per l’iscrizione di un apprendista. Infatti, Michelangelo era già stato associato alla bottega del Ghirlandaio nove mesi prima della sua formale iscrizione nell’aprile 1488. Un pagamento recentemente scoperto a Domenico per il suo lavoro in corso sulla pala che aveva intrapreso per l’Ospedale degli Innocenti in Piazza Santissima Annunziata rivela che quel merito fu riscosso da Michelangelo il 28 giugno 1487. Non si sa per quanto tempo Michelangelo rimase nella bottega del Ghirlandaio. Non può essere rimasto per il periodo di tre anni prescritto nel contratto; sviluppi successivi suggeriscono che la sua presenza non superò al massimo i diciotto mesi. Non ci sono dubbi, tuttavia, che fosse in bottega nel momento in cui il Ghirlandaio era impegnato a completare uno dei lavori più faticosi della sua carriera, la decorazione ad affresco della Cappella Tornabuoni in Santa Maria Novella. Iniziata prima, sembra probabile che l’attività più intensa, che coinvolse ben due delle tre pareti della cappella, si protrasse dal 1488 al 1490. I tentativi di vedere la mano di Michelangelo nelle pitture sono ingenui. Ma doveva essere un acuto osservatore di come il Ghirlandaio gestiva la sua bottega e probabilmente era coinvolto nei Quest’ultimo soggetto è stato descritto a lungo da Ovidio nelle sue Metamorfosi. Michelangelo confidò al Condivi il fatto sorprendente che, nel comporre il rilievo, era stato aiutato e incoraggiato da Angelo Poliziano. Poliziano aveva ripercorso la storia, parte per parte, spiegandogli tutto. Al servizio di Piero Lorenzo morì nella villa medicea di Careggi prima dell’alba dell’8 aprile 1492. Il Condivi racconta che Michelangelo tornò a vivere con Lodovico dopo la morte di Lorenzo, demoralizzato dalla perdita del suo mecenate. Quindi, riprendendosi, si rivolse al lavoro. Acquistò un blocco di marmo che era rimasto trascurato, non protetto dal vento e dalla pioggia. Da esso, ha scolpito una statua di Ercole che misura più di due metri di altezza. Solo dopo il passaggio dell’Ercole Condivi parla del ritorno di Michelangelo al servizio di Piero de’ Medici, quasi dissociando implicitamente le due vicende. Racconta di essere stato chiamato da Piero a fare un pupazzo di neve nel cortile di Palazzo Medici e gli fu data l’ospitalità che aveva goduto sotto Lorenzo, gli fu assegnata la stessa stanza e un posto d’onore alla sua tavola. Si può infatti dimostrare che l’ostilità dell’artista nei confronti di Piero, evidente nel racconto di Condivi, comportava una deliberata manipolazione degli eventi. Se ciò che scrive è accettato, si deve concludere che l’Ercole è stato intrapreso per la sua soddisfazione personale. Che la statua fosse invece realizzata per Piero è stato proposto alcuni anni fa, e questo sospetto è stato confermato dalla recente pubblicazione di documenti relativi alla vendita dei beni medicei avvenuta dopo la fuga di Piero dalla città. L’Ercole di Michelangelo, date le dimensioni e il soggetto, potrebbe essere stata la sua prima scultura concepita in modo eroico. La sua scomparsa è dolorosa. Prove circostanziali fanno ipotizzare che lo abbia regalato alla famiglia Strozzi, forse nel 1506. Fu poi esportato in Francia. La prova del suo aspetto, sfortunatamente, non è attendibile. Un’altra opera di scultura associata dal Condivi a questo periodo è un crocifisso ligneo, che Michelangelo intraprese per il priore di Santo Spirito. Descritto come un po’ sotto la grandezza naturale, ci viene detto che l’artista lo realizzò come forma di ringraziamento al priore, che gli aveva facilitato lo svolgimento di studi anatomici, fornendogli una stanza e dei cadaveri. Piero potrebbe aver avuto un ruolo decisivo nell’introdurre il suo giovane protetto nella comunità di Santo Spirito. Il crocifisso si rivelerà successivamente un’opera esclusiva. Dopo importanti modifiche a Santo Spirito a partire dal 1600, sembra essere scomparsa. La sua ripresa è relativamente recente, nel 1963. Sebbene la sua collocazione originaria sopra l’altare maggiore debba essere stata scelta dal priore Niccolò di Bichiellini, non potrà mai aver esercitato un grande effetto a causa della snellezza della forma. La sua attuale esposizione nella sacrestia di Giuliano da Sangallo lo mostra con buon vantaggio. Un ambiente così stabile suggerito dalle attività di Santo Spirito non durerebbe. La decisione di Carlo V di Francia di invadere l’Italia per rivendicare la sua pretesa al regno di Napoli fu seguita da un’invasione riuscita e da un costante progresso verso sud. Alla fine di ottobre 1493, con la situazione sempre più minacciosa, Piero lasciò Firenze per trattare con il re francese. Le trattative che seguirono portarono alla famigerata resa di Piero ai francesi delle fortezze di Pisa, Livorno, Pietrasanta e Sarzana. Il culmine precipitato dalle azioni di Piero avvenne il 9 novembre, quando a Piero fu rifiutato l’accesso al Palazzo della Signoria. Accompagnato dai suoi due fratelli, Giuliano e dal cardinale Giovanni, Piero fuggì a Bologna. Il 17 novembre Carlo entrò in una Firenze non più sotto il controllo del regime mediceo. I fratelli Medici, accolti dai Bentivoglio, si recarono a Venezia. Uno degli episodi più bizzarri della vita di Michelangelo, però, se si accetta Condivi, è quello della fuga del giovane da Firenze. Ciò avvenne molte settimane prima del crollo mediceo di novembre. Il Cardiere avrebbe confidato a Michelangelo un sogno, in cui il morto Lorenzo era apparso vestito solo di un abito sbrindellato. Aveva ordinato a Cardiere di dire a Piero che presto sarebbe stato cacciato da Firenze e non sarebbe più tornato. Cardiere aveva rifiutato le pressioni di Michelangelo affinché seguisse le istruzioni del morto e informasse Piero della sua esperienza. Una mattina successiva, Michelangelo aveva incontrato il Cardiere terrorizzato. Lorenzo era ricomparso in un secondo sogno e lo aveva colpito per essersi rifiutato di parlare con Piero. Si narra che Michelangelo lasciò Firenze due giorni dopo, accompagnato da due compagni che non sono nominati. Presero la strada per Venezia, ma la mancanza di denaro li costrinse a tornare sui loro passi, ma Michelangelo, benedetto dalla provvidenziale apparizione di un protettore quando giunsero a Bologna, vi rimase. Uno dei suoi compagni era probabilmente lo scultore Baccio da Montelupo. Gli eventi narrati da Condivi hanno un carattere quasi apocalittico. Tuttavia, l’abbandono del giardino di San Marco da parte del giovane artista è confermato da una lettera coeva scritta da Ser Amedeo, il 14 ottobre, indirizzata al fratello Adriano, l'uomo che aveva fuso il gruppo bronzeo del Bellerofonte di Bertoldo e che ora lavorava a Napoli. Amedeo riferisce che Michelangelo ha lasciato il giardino per recarsi a Venezia. Non aveva informato Piero, che ha preso molto male il suo comportamento. Bologna e poi Raccontando gli avvenimenti al Condivi, Michelangelo riferì di essere partito da Firenze con due compagni. Dopo una sosta a Bologna erano andati a Venezia, ma la mancanza di denaro li aveva costretti a tornare a Bologna. Michelangelo vi rimase invece di tornare a Firenze come i suoi compagni, per via di un incidente. Condivi spiega che chi entrava in città non bolognese di origine doveva sottostare a un obbligo particolare: era obbligato a farsi imprimere l’unghia del pollice con ceralacca rossa. Inavvertitamente non ottemperando, Michelangelo fu condotto a quello che lui chiama l’Ufficio delle Bullette, una sorta di dogana, e multato. Non potendo pagare fu salvato dalla presenza ivi di un illustre bolognese, Giovan Francesco Aldrovandi, che pagò la multa e lo invitò a godere dell’ospitalità della sua casa. Il ruolo assegnato ad Aldrovandi nell’introdurre Michelangelo in San Domenico è del tutto credibile, poiché egli stesso aveva curato il restauro di un precedente monumento nella chiesa. Il Condivi afferma che entrambi i compagni di Michelangelo tornarono a Firenze mentre lui soggiornò a Bologna, godendo della protezione dell’Aldrovandi e si arruolò per fornire statue marmoree ancora mancanti all’Arca in San Domenico. È probabile che uno di questi compagni fosse il suo collega scultore fiorentino Baccio da Montelupo. Iniziando a lavorare al programma scultoreo dell’Arca, Michelangelo seguiva le orme di uno scultore il cui stesso nome lo associava al progetto, Niccolò dell’Arca, morto da poco, ai primi di marzo del 1494. Il contributo di Michelangelo ha, tuttavia, attivato molte discussioni. Condivi afferma che l’artista ha contribuito con due statue, il San Petronio e un angelo inginocchiato. Fra Lodovico da Prelormo afferma che era coinvolto in tre, dicendo che Michelangelo scolpì gran parte del San Petronio, tutto il San Procolo e l’angelo. Nonostante le numerose divergenze di opinione espresse in tempi recenti sulle statue, l’informazione di fra Lodovico è compatibile con l’aspetto delle figure. L’ordine in cui l’artista ha lavorato alle tre figure è stato molto discusso. Forse gli fu affidato per primo il San Petronio da completare e seguirono le sue due incisioni indipendenti. Il Condivi racconta che la sua permanenza bolognese fu interrotta dalle minacce di un non meglio identificato artista rivale, e non vi è dubbio che i lavori della decorazione scultorea dell’Arca rimasero incompiuti e furono ripresi da Antonio Lombardo dopo il 1530. Quando Michelangelo lasciò Bologna sembra non essere stato registrato. Il governo fiorentino aveva concesso un’amnistia ai seguaci dei Medici esiliati nel marzo 1495, ma i lavori sulle figure dell’Arca difficilmente possono essere terminati molto prima dell’estate. Se, uscendo da Bologna, Michelangelo perse un mecenate in Giovan Francesco Aldrovandi, ne guadagnò uno nuovo al suo ritorno a Firenze, Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici, nato nel 1463. Lui e suo fratello, Giovanni di Pierfrancesco, erano cugini giovanili di Lorenzo il Magnifico, che li aveva aiutati dopo la morte del padre nel 1476. Lorenzo di Pierfrancesco proveniva da un ambiente molto colto. Non si sa come Michelangelo sia arrivato a godere del mecenatismo di Lorenzo: l’ipotesi che abbia effettivamente vissuto nella casa dei due fratelli a Firenze non è confermata ma non impossibile. Si riporta solo l'affermazione del Condivi di aver scolpito per Lorenzo di Pierfrancesco una statua di San Giovannino; l’informazione sembra confermata da tale cifra riportata nell’inventario della loro casa di via Larga. L’importanza di Lorenzo di Pierfrancesco per l’artista non si limita alla commissione di una scultura; avrebbe avuto un ruolo nel trasferimento di Michelangelo da Firenze a Roma nell’estate del 1496. Non può sfuggire una caratteristica notevole della vita a Firenze nei mesi precedenti questo trasferimento a Roma: il ruolo di Girolamo Savonarola. È da notare che l’artista accenna solo brevemente al Savonarola nel libro del Condivi; afferma di aver studiato i suoi scritti e di averlo sempre tenuto in grande affetto. Qualche ulteriore sparso accenno ai seguaci di Savonarola è contenuto nel carteggio familiare. Capitolo II Il primo incontro romano In Urbe Il ventunenne Michelangelo lasciò Firenze per Roma all’inizio dell’estate del 1496. La sua prima lettera superstite fu scritta il 2 luglio, al termine della sua prima settimana in città, indirizzata al suo mecenate fiorentino, Lorenzo di Pierfrancesco. Si rivolge innanzitutto al suo primo incontro con il cardinale Raffaele Riario, al quale Lorenzo di Pierfrancesco aveva scritto una lettera di presentazione a suo nome. Il cardinale lo aveva accolto prontamente. Il giorno seguente aveva chiesto a Michelangelo di recarsi al Palazzo della Cancelleria. Superando la presunta modestia di Michelangelo, il cardinale gli ordinò una statua a grandezza naturale, il Bacco, per la quale fu subito acquistato un blocco di marmo. L’artista riferisce a suo padre che si metterà al lavoro. Nella seconda parte della lettera Michelangelo si rivolge al motivo del suo viaggio a Roma, al fine di riconquistare una statua che aveva da poco ultimato. Un passo del Condivi spiega che dopo che l’artista ebbe terminato l’opera, il suo mecenate fiorentino, Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici, gli aveva suggerito di spacciarla per antica, accrescendone notevolmente il valore. Baldassarre del Milanese lo portò a Roma e successivamente lo vendette al cardinale Riario per 200 ducati. Riario, preoccupato in seguito di essere stato ingannato, inviò a Firenze uno stretto collaboratore, il quale, dopo molte indagini, conobbe Michelangelo e apprese che il Cupido era opera sua. Si trattava di Jacopo Gallo, futuro amico dell’artista, che, con soci fiorentini, fungeva da banchiere di Riario. Una voce del conto di Riario che ci è pervenuta mostra che, il 5 maggio, settimane prima dell’arrivo dell’artista in città, gli furono accreditati 200 ducati, la somma che aveva pagato per il respinto Cupido. In questa prima lettera del 2 luglio, Michelangelo esprime la sua determinazione a riconquistare la scultura, ma riferisce che Baldassare del Milanese, che evidentemente l’aveva riconquistata dopo che Riario l’aveva ceduto, aveva minacciato di tagliarla in cento pezzi e si era categoricamente rifiutato di arrendersi. Michelangelo era destinato a non recuperarlo mai. Tuttavia, il Cupido raggiungerà una certa fama a Roma. L’interesse che suscitò in città è testimoniato da due lettere scritte a Isabella d’Este, marchesa di Mantova. Nella prima, del 27 giugno 1496, il suo corrispondente riferisce di aver appena visto una scultura di Cupido offerta in vendita nientemeno che al cardinale Ascanio Sforza, vicecancelliere della Chiesa. L’Amore è descritto come sdraiato e addormentato; è considerato da alcuni antico e da altri moderno. Un’altra lettera a Isabella segue quasi un mese dopo, il 23 luglio. Il suo corrispondente riferisce che l’opera è moderna e che il maestro che l’ha realizzata è arrivato a Roma. È così perfetto che tutti lo credevano antico. Ora che è stato stabilito come moderno, crede che sarà offerto a un prezzo basso. Tuttavia se la marchesa non lo vuole perché non è antico, non dirà altro. Isabella, risoluta nella sua ricerca dell’arte antica, non inseguì ulteriormente il Cupido nel 1496. Per varie vicissitudini, nel 1502 Cesare Borgia, figlio di papa Alessandro VI, le regalò la scultura di Michelangelo. Se il tentativo dell’artista di recuperare la sua statua fallì, la sua decisione di rimanere a Roma e lavorare per il cardinale Riario, doveva sembrare un’opportunità che offriva una portata difficile da trovare in una Firenze in difficoltà economiche e divisa da divergenze Le prove documentali dimostrano che all’inizio di settembre 1500 si era impegnato a realizzare il dipinto. Era destinato ad una cappella il cui committente era morto nel novembre 1496. I problemi legali relativi al testamento si erano risolti solo nel 1499. Toccò al cardinale Riario sovrintendere alla vendita dei beni del defunto nell’estate del 1500. Poiché Riario era diventato Protettore Generale dell’Ordine Agostiniano, potrebbe essere stato lui ad aver incoraggiato il patrono, il Vescovo Ebu, a scegliere Sant’Agostino come sede della sua cappella funeraria. Il 2 settembre Michelangelo fu pagato per intraprendere un dipinto su tavola per la chiesa; il fatto è registrato nel suo conto con la banca Balducci. Più ampia documentazione relativa al progetto sopravvive nei libri contabili della chiesa. Una delle annotazioni, datata 1501, ricorda che il pagamento di Michelangelo era stato effettuato da due uomini che erano strettamente coinvolti nell'arredamento della cappella, Bartolommeo de Dossis e Jacopo Gallo. La disponibilità di Michelangelo ad accettare il progetto indica la sua riluttanza a lasciare Roma e tornare a Firenze, nonostante le assicurazioni nelle sue lettere che intendeva farlo. È un momento oscuro della sua vita, in cui Michelangelo viveva in condizioni miserabili. Il fatto che fosse coinvolto un collaboratore così intimo come Jacopo Gallo incoraggerebbe la convinzione che l’artista abbia iniziato a lavorarci e non conosciamo nessun altro impegno nei mesi invernali del 1500-01 che lo distolga dalla commissione. Sebbene la connessione sia stata messa in dubbio, sembra pressoché certo che la grande tavola ora alla National Gallery di Londra, raffigurante il Cristo morto trasportato al sepolcro, sia stata la risposta dell’artista all’impresa. La tavola era di provenienza romana, ricordata in una collezione nientemeno che quella dei Farnese a Roma nel 1644; la descrizione dell’opera è esatta ed è inequivocabilmente attribuita a Michelangelo. L’artista interruppe il lavoro sul pannello in un momento avanzato della sua esecuzione. Le sue ragioni per lasciare Roma possono essere rivolte in seguito; può darsi che la decisione sia stata precipitosa. Michelangelo avrebbe provveduto a restituire il denaro che aveva ricevuto per l’esecuzione del dipinto solo nel novembre 1501. E, dalle prove che sopravvivono, sembra che un altro pittore sia stato avvicinato per portare fuori il lavoro. Il quadro londinese è un’invenzione stupefacente per un artista di venticinque anni. Tuttavia, il suo stato incompleto potrebbe essere considerato un presagio minaccioso. I lavori precedenti, eseguiti con il prezioso mezzo del marmo, costituiscono un sorprendente record di risultati. La lunga serie di grandi opere incompiute, a questo punto, era ancora nel futuro. Capitolo III Il ritorno a Firenze Il David di marmo Il soggiorno di Michelangelo a Roma terminò nella primavera del 1501. Era durato quasi cinque anni e, nonostante le promesse a Lodovico di tornare presto a Firenze aveva più volte rinviato il trasferimento. Alla fine di febbraio ricevette un prestito di 80 ducati da Jacopo Gallo e, a garanzia, gli lasciò una quantità imprecisata di marmi. Il 18 marzo aveva trasferito al banco di Bonifazio Fazi a Firenze ben 260 ducati, chiaro indizio che il suo trasferimento era imminente. Il ritorno di Michelangelo a Firenze avvenne poco dopo il ritorno di Leonardo in città l’anno precedente. Vasari affermerà che il suo ritorno a casa fu spinto dalla sollecitazione della sua famiglia e dei suoi amici, affinché potesse assicurarsi un enorme blocco di marmo appartenente all’Opera del Duomo di Firenze. Michelangelo fu uno dei tanti che andarono a vedere il cartone della Madonna col Bambino e Sant’Anna di Leonardo esposto alla Santissima Annunziata. Il marmo era da molti decenni nei quartieri dell’Opera. Era stato ordinato già nel 1464 dalla gilda dell’Arte della Lana, che incaricata di amministrare gli affari della cattedrale. Si dice che il blocco fosse alto 9 braccia, circa 5,5 metri. L’enorme blocco monolitico era stato estratto a Citi per conto dello scultore Agostino di Duccio. Nelle successive delibere che ebbero luogo prima dell’intervento di Michelangelo nel 1501, ci viene detto che Agostino aveva iniziato i lavori e aveva lavorato male. Infatti, era stato pagato dall’Opera nel dicembre 1466. Il progetto riguardava una statua per decorare uno dei contrafforti della cattedrale, ma nessuno di questi documenti precedenti cita l’identità della statua progettata. Un successivo tentativo di rilancio del progetto fu intrapreso nel maggio 1476, quando l’Opera consegnò il marmo ad Antonio Rossellino, uno dei maggiori scultori fiorentini della sua generazione. Ma nulla è venuto da questo passaggio. La decisione dell’Opera, all’inizio del nuovo secolo, di rivolgere nuovamente la propria attenzione all’enorme blocco in suo possesso, giunse in un periodo piuttosto tranquillo dell’attività della cattedrale. Tuttavia, in un momento in cui le scorte di marmo all’Opera erano scarse e si mettevano in servizio pietre espropriate dai beni del defunto Lorenzo de’ Medici, sembra che non ci fosse alcuna intenzione di sacrificare il blocco cavato quasi quaranta anni prima per altri usi. In un momento di avversità politiche ed economiche, la decisione di rilanciare il progetto della statua è stata relativamente economica: il materiale era a portata di mano, le sue dimensioni un doloroso ricordo di ambizioni precedenti e non realizzate. Le identità dei consoli e degli operai all’epoca che ci riguarda sono registrate, ma queste non risolvono la questione dei tempi della rinnovata impresa. Un uomo sicuramente coinvolto fu l’architetto Cronaca, a questo punto capomaestro dei lavori della cattedrale. Dubbia è l’insistenza del Vasari nell’attribuire a Piero Soderini un ruolo di primo piano nel rinnovamento del progetto. La prima testimonianza superstite del capitolo finale della vicenda del blocco è una nota deliberazione degli operai della cattedrale di un luglio 1501; due nuovi erano stati eletti il giorno precedente. Dal suo testo apprendiamo che il blocco si trova nel cortile dell’Opera. I tre operai, seguendo le istruzioni dei consoli, decidono che il nostro uomo di marmo, chiamato David, mal sbozzato, che giace disteso nel cortile, venga sollevato in piedi, affinché esperti qualificati possano decidere se si può finire. Né gli esperti né alcun potenziale scultore sono nominati. Furono compiuti progressi sufficienti per consentire la stipula del contratto con Michelangelo il 16 agosto, giorno immediatamente successivo alla festa dell’Assunta. Consoli e operai, riuniti insieme, memori dell’onore dell’Opera, scelsero Michelangelo per scolpire e rifinire l’uomo detto il Gigante, precedentemente mal sbozzato da Agostino di Duccio. A Michelangelo vengono concessi due anni per eseguire l’opera, a partire dal successivo mese di settembre, e il suo compenso è fissato in 6 fiorini d’oro al mese, per un compenso complessivo di 144 fiorini. Si aggiunga però che quando la statua sarà compiuta, i consoli e gli operai allora in carica giudichino se lo scultore meriti una somma maggiore. Gli eventi procedettero rapidamente. Nel febbraio successivo i consoli allora in carica decisero di pagare a Michelangelo non meno di 400 fiorini. Tre giorni dopo, gli operai riferirono che la statua era già a buon punto, “iam semi-factum”. Un ulteriore evento, rivelato solo di recente, mostra che Michelangelo era arrivato vicino a completare il David entro la metà dell’estate del 1503. Lo rivela una breve deliberazione degli operai datata 16 giugno 1503. Essi prevedono l’esposizione pubblica della statua una settimana dopo, il 23 giugno, vigilia dell’importante festa fiorentina della Nascita di San Giovanni Battista. In quel giorno verrà aperta la porta della struttura protettiva che ospita la statua, costruita nella tarda estate del 1501, e tutti coloro che desiderano vedere la statua possono farlo. L’evento ricorda l’esposizione pubblica del cartone di Leonardo due anni prima, le opere d’arte avevano ormai assunto una notorietà impressionante. Da questa data, Soderini era stato eletto gonfaloniere di giustizia a vita, e avrebbe potuto benissimo contribuire alla decisione. La celebrata adunanza del gennaio 1504 fu convocata per discutere una questione particolare: il futuro sito del David. Sebbene sia chiaro che Michelangelo non fosse presente, il preambolo alla deliberazione degli operai che convocarono l’adunanza mostra che essi agivano in risposta a un rapporto ufficiale di Michelangelo, maestro del detto Gigante, e dei consoli dell’Arte della Lana. Gli operai esprimono il desiderio di collocare la statua in un luogo appropriato, che deve essere fermo e solido; per perseguire tale scopo si è deliberato di convocare l’incontro. Implicita è, quindi, la volontà di considerare un sito diverso da quello del contrafforte della cattedrale in precedenza previsto. La scelta di gennaio ha anticipato di un mese la scadenza dell’artista di febbraio. Al preambolo segue l’elenco dei presenti; ma lo scriba che ha scritto il testo superstite stava chiaramente facendo una copia da un resoconto sommario di quanto era stato espresso nella riunione e i risultati sono, a volte, confusi. Una lunga analisi del documento sarebbe qui fuori luogo. L’elenco riporta trentuno nomi ma non è attendibile: mentre Andrea Sansovino è elencato, una nota a margine registra che è assente a Genova. Alla fine della trascrizione si segnala che non tutti gli intervenuti sono stati registrati. La maggior parte di quelli elencati sono pittori, architetti, falegnami e orafi. Due importanti eccezioni furono il Primo e il Secondo Araldo della Signoria, Francesco di Lorenzo Filarete e suo genero, poi amico di Michelangelo, Angelo Mantidi. Un numero consistente, tra cui l’amico dell’artista Giuliano da Sangallo, propose un sito nella Loggia dei Lanzi in Piazza della Signoria, adducendo che il marmo era fragile a causa della lunga esposizione e richiedeva un luogo coperto. Uno dei contributi più memorabili fu quello del Primo Araldo della Signoria, Francesco Filarete, che parlò per primo. Prediligeva uno dei due siti: o sui ringhi rialzati a sinistra della porta del palazzo o, in alternativa, nel cortile del palazzo all’interno. Le sue osservazioni a favore del primo, che comporterebbe lo spostamento del gruppo bronzeo di Giuditta e Oloferne di Donatello, hanno raggiunto una certa notorietà. Si riferisce al gruppo come a un segno mortale. L’immagine di una donna che uccide un uomo non è adatta. Inoltre, il gruppo era stato posto lì sotto una costellazione malvagia. Da quel momento le cose erano andate di male in peggio e Pisa era perduta. Passando all’alternativa del cortile del palazzo, afferma che il David attualmente è una figura imperfetta perché la gamba retratta della statua è “sciocha”, cioè imperfetta. Delle sue due opzioni, predilige il sito sulla piazza. Molti degli intervenuti sono favorevoli alla Loggia dei Lanzi, in parte preoccupati per la vulnerabile condizione del marmo. Non ci sono prove esplicite della scelta preferita di Michelangelo. La questione dell’ubicazione della statua non è menzionata da nessuna parte nella Vita di Condivi. Piero Parenti, invece, fonte attendibilissima, scriverà che la statua fu portata in piazza su consiglio di Michelangelo. Aggiunse che la scultura non era approvata da tutti, ma che lo scultore era scusato per i preesistenti difetti del suo marmo. Tuttavia, gli eventi relativi allo spostamento della statua erano progrediti con estrema lentezza. Il silenzio sarebbe stato effettivamente rotto in aprile, quando i consoli e gli operai della cattedrale ordinarono a Cronaca e Michelangelo di trasportare la statua in Piazza della Signoria. Ma sarebbero seguiti gravi ritardi e il governo è stato costretto a intervenire. Il diarista Landucci riferisce che la statua giunse in piazza il 15 maggio, ma solo il 28 maggio la Signoria, entrata in carica il 1° maggio, decretò che la statua sostituisse la Giuditta davanti al palazzo. Niente potrebbe essere più lontano dal processo decisionale cortese progettato decenni dopo dal Vasari. Il viaggio della statua fino alla piazza, se si può credere al Landucci, è durato quattro giorni, e durante il viaggio ha subito lapidazione. Le fonti confermano che l’inaugurazione ufficiale della statua avvenne l’8 settembre 1504, giorno in cui si insediò una nuova Signoria, affermando l’appartenenza della statua allo stato fiorentino. Godeva ora del possesso di ben quattro statue del giovane eroe, due di Donatello, una del Verrocchio e una di Michelangelo. Non più bandito a un contrafforte della cattedrale, il David di Michelangelo, ora posto davanti alla sede del governo, assunse il ruolo di exemplum di vittoria eroica, tanto necessaria nel contesto della lunga lotta per riconquistare Pisa. Come già notato, Parenti riferisce di critiche da parte di osservatori qualificati al momento dell’inaugurazione della statua. La scala esagerata della testa e le mani troppo enfatiche hanno disturbato gli spettatori nel corso dei secoli. Le mani grandi, tuttavia, potrebbero essere state suggerite da una tradizione secondo cui David era fortis manu, un aspetto dell’eroe ragazzo a cui si riferiva nientemeno che Savonarola. Nel libro di Condivi l’accento non è tanto trionfalistico, quanto piuttosto un racconto degli enormi problemi che l’artista aveva superato. Dello stesso Michelangelo resta un solo commento mentre lavorava alla statua, la celebre iscrizione riportata su un foglio contenente un bozzetto per il David in bronzo, databile probabilmente al 1502. È un messaggio endecasillabico di suprema confidenza: Davicte cholla Fromba // E io collarcho // Michelagnolo. L’autoidentificazione dello scultore con David è quindi completa, la questione di un esito positivo non è in dubbio e il blocco di 9 braccia sarà sottomesso come lo era stato Golia. Le successive fortune della statua di Michelangelo sarebbero iniziate con la doratura della fionda e del ceppo d’albero e il cambiamento più sostanziale dell’aggiunta di una ghirlanda di metterebbe esplicitamente in relazione la sua situazione con la sua incapacità di consegnare il David. La documentazione superstite relativa al Robertet e alla statua riprende solo nel 1508. A questo punto, con Michelangelo ancora una volta assente, Piero Soderini, gonfaloniere a vita, assumerà un ruolo attivo. Scrivendo all’inviato fiorentino in Francia il 30 giugno 1508, riferisce che la statua è rimasta incompiuta perché Michelangelo è stato chiamato a Roma. Il Soderini fallirà nel suo tentativo di convincere papa Giulio a rinunciare a Michelangelo; a questo punto l’artista muoveva i primi passi per dipingere la volta della Cappella Sistina. La scelta dell’uomo per inseguire il bronzo cadde su Benedetto da Rovezzano; sebbene Michelangelo fosse stato contattato per selezionare uno scultore per l’incarico, non è chiaro se Benedetto fosse la sua scelta, sebbene lo avrebbe pagato per il suo lavoro. La statua, finalmente inseguita, sarebbe stata inviata a Livorno ai primi di novembre, prima della spedizione in Francia. Sarebbe la prima opera di Michelangelo registrata ad aver lasciato l’Italia. Molti anni dopo, il suo Ercole in marmo, seguito dal dipinto su tavola di Leda, si recherà in Francia. Nessuna delle tre opere ora sopravvive. Statue per Siena Come suggerito in precedenza, ci sono motivi per credere che Michelangelo abbia lasciato Roma per Firenze già a metà marzo 1501. Vi sono tuttavia indicazioni che, mentre era ancora a Roma, avesse sviluppato un interesse per un nuovo progetto per un illustre mecenate senese, il Cardinale Francesco Piccolomini. Ciò ha comportato l’intaglio di statue di marmo per decorare l’altare del cardinale nel Duomo di Siena. Un breve testo autografo di Michelangelo, datato 22 maggio 1501, indica che era già a conoscenza della commissione prevista. Il mecenate è indicato solo come “esso Reverendissimo Monsignore”, ma gli eventi futuri hanno rivelato la sua identità come cardinale Francesco Piccolomini. Nato nel lontano maggio 1439, era nipote del celebre papa Pio II che lo aveva reso arcivescovo di Siena e che lo avrebbe fatto cardinale nel suo primo concistoro del marzo 1460. Assunse il titolo di Sant’Eustachio. Il contratto che ne seguì, riguardante la fornitura di ben quindici statue per la Cappella Piccolomini, è uno dei più dettagliati che abbiano mai coinvolto l’artista, le sue numerose clausole sono indicative della stretta partecipazione personale del committente. Ne porta tre firme: quella del cardinale, datata 5 giugno 1501, in Roma; quella di Michelangelo, senza indicazione del luogo, il 19 giugno, e quella del fidato Jacopo Gallo, a Roma, il 25 giugno. Questa successione di eventi fa pensare che il documento sia stato inviato a Michelangelo a Firenze per la sua firma, e poi tornato a Roma. I dettagli relativi alle origini dell’incarico sono perduti. Ma è probabile che le strade del mecenate e dell’artista si fossero recentemente incrociate. Perché il cardinale Piccolomini aveva agito come uno dei tre esecutori testamentari incaricati di sovrintendere all’esecuzione del testamento del defunto cardinale de Bilhères, patrono della Pietà marmorea. Era morto meno di due anni 41 prima, nel 1499. La durata del contratto è del tutto eccezionale e mostra un’attenzione instancabile ai dettagli, indicativa del coinvolgimento del cardinale nel suo progetto. Doveva anche essere profondamente preoccupato per i notevoli ritardi che aveva già incontrato, originariamente previsto per incorporare la sua tomba. I lavori della commissione erano stati avviati già nel 1481, se non prima. L’impresa era stata affidata ad uno dei maggiori scultori marmorei allora attivi a Roma, Andrea Bregno. Il contratto originario non è sopravvissuto, ma lo ha fatto un accordo accessorio relativo al trasporto del marmo di Bregno a Siena, datato 23 maggio 1481, esattamente vent’anni prima degli sviluppi che qui ci riguardano. Dimostra che Bregno si era impegnato a realizzare in situ la realizzazione del monumento. Potrebbe essere rimasto a Siena fino all’inverno del 1486; il monumento porta la data 1485. I suoi anni che avanzano potrebbero avergli impedito di portare a termine quello che era un compito enorme. Il nuovo contratto con Michelangelo, stipulato nell’estate del 1501, prevedeva la fornitura di ben quindici statue marmoree, alte poco più di 120 centimetri ciascuna. A questi si aggiunse la clausola che egli completasse una statua di San Francesco, santo omonimo del patrono, già iniziata da Pietro Torrigiano a Roma. Il cardinale ha cercato di mantenere uno stretto controllo sui lavori futuri. Spetta a lui decidere sull’identità delle statue. L’artista è pregato di farlo visitare Siena, familiarizzare con l’altare e prendere le misure. Gli è permesso di scolpire le statue a Firenze, ma devono essere lavorate a coppie, ogni coppia da valutare al termine. Il pagamento complessivo è di 500 ducati e l’intero progetto deve essere completato entro tre anni. Il contratto conteneva anche una clausola secondo cui Michelangelo non avrebbe dovuto intraprendere altri lavori mentre era impegnato nel progetto del cardinale. Ed è a questo punto che incontriamo un artista che sarebbe pronto a ignorare i vincoli che solo di recente si era promesso di osservare. Il contratto Piccolomini è datato 25 giugno. Avrebbe intrapreso il gigante David di marmo il 16 agosto. Il cardinale Piccolomini, ormai sessantaquattrenne e in condizioni di salute cagionevoli, farà un secondo e definitivo testamento il 30 aprile 1503. Fa riferimento all’incarico che ha affidato a Michelangelo, sottolineando l’importanza del suo progetto e l’esigenza che le statue siano trasportate fuori “cum omni pulchritudine et perfetione”. Non vi è alcuna dichiarazione esplicita che ne sia stato avviato uno. Il suo desiderio insistente è che, in caso di sua morte, i suoi due fratelli, Jacopo e Andrea Piccolomini, provvedano al completamento del progetto e alla collocazione delle statue sul suo altare. Di salute cagionevole, il cardinale sarà eletto papa il 22 settembre 1503, assumendo il nome di Pio in memoria del celebre zio. Ma il suo pontificato sarebbe durato solo poche settimane. Morirà il 18 ottobre e gli succederà Giuliano della Rovere, che assunse il titolo di Giulio II. Le trattative tra l’artista e gli eredi Piccolomini si concluderebbero con un nuovo contratto stipulato il 1° ottobre 1504. Dal testo risulta che, a questo punto, ha consegnato quattro statue, quelle che si vedono oggi nel duomo di Siena. Non sono identificati per nome. Il nuovo accordo richiede la fornitura del resto degli statuti già ordinati. Ma le aspettative degli eredi sembrano poco realistiche. Perché esigono che le undici statue ancora attese da Michelangelo siano completate entro i prossimi due anni: ad faciendas dictas XI figure adhuc per duos annos predictos ab hodie proxime futuros. Più immediatamente, l’artista procederà con altre tre statue, e il pagamento per queste sarà ora coperto dai 100 ducati originariamente previsti per le figure finali. I termini qui pattuiti, mai rispettati, poiché non sarebbero mai state realizzate altre statue, creerebbero problemi straordinari fino al 1561, quando Michelangelo aveva raggiunto l’età di ottantasei anni. Alle quattro statue consegnate prima della firma del nuovo contratto nell’autunno del 1504 non ne seguiranno altre. Quando Michelangelo prese la decisione di abbandonare l’impresa non è documentato. Che avesse pensato di perseguirlo è dimostrato da una lettera a lui di Lodovico di fine giugno 1510, che indica che l’artista aveva ordinato altro marmo qualche tempo prima. In una lettera dell’estate del 1511 l’abbandono è espressamente citato in una lettera al padre. Scrivendo in un momento di pausa del suo lavoro nella Cappella Sistina, accenna ai suoi obblighi verso gli eredi Piccolomini e spiega che intende restituire loro i 100 ducati che gli avevano anticipato al momento del nuovo contratto del 1504. Gli eventi successivi mostrano che questo non è mai accaduto. Un prolungato silenzio sul progetto nelle fonti superstiti sarebbe rotto nel 1537, in un momento in cui Michelangelo era profondamente coinvolto con l’incarico di dipingere il Giudizio nella Cappella Sistina. Nel dicembre 1537 era stato stipulato a Siena un contratto con il quale il credito ancora residuo di 100 ducati era stato trasferito da Antonio Maria Piccolomini ad un vecchio servitore del defunto cardinale, Paolo Panciatichi di Pistoia. Quest’ultimo scriverà lui stesso a Michelangelo a Roma l’11 dicembre, informandolo dell’accaduto. Esorta ancora l’artista a fornire disegni per il progetto di Siena. La questione si ripresenterà nel 1561. Nella primavera di quell’anno lo stesso Michelangelo scrive a Paolo Panciatichi, esprimendo il desiderio di rivedere il testo del contratto del 1504 e chiudere la questione. La lettera è andata perduta ma esiste la risposta del Panciatichi del 1° maggio 1561. È sopravvissuta un’altra lettera dell’artista del 20 settembre 1561. È indirizzato al suo devoto nipote Leonardo e in esso richiede lui a cercare una copia del contratto di Firenze che era stato stipulato nel 1504 con gli eredi di papa Pio. Quelli che avevano ancora familiarità con la lunga questione dovevano essere pochi. Si riferisce alla propria grande età e al suo desiderio di sistemare la questione, in modo che Leonardo non sia turbato dal problema dopo la sua morte, “a ciò che dopo me l’ingiustamento non fussi dato noia a voi”. Vecchio com’è, afferma di poter ancora ricordare che le carte relative alla questione finirono nelle mani dell’importante notaio fiorentino Lorenzo Violi. Non potendo reperire le proprie copie, esorta Leonardo a non badare a spese per procurarsene una. L’artista aveva impiegato quasi quarant’anni per tentare di risolvere la questione, forse spinto finalmente da pressioni che non si registrano. Il 21 aprile 1564, poche settimane dopo la morte del vecchio, Leonardo depositerà 100 ducati del patrimonio dello zio nel Monte della Fede a favore della famiglia Piccolomini. L’altare del cardinale Piccolomini resterà vuoto, registrando uno degli episodi più lunghi e meno coinvolgenti della vita dell’artista. La Sala del Maggior Consiglio L’ammirazione suscitata dall’esposizione pubblica del David marmoreo davanti al Palazzo della Signoria l’8 settembre 1504 può essere considerata una rivendicazione della decisione, già discussa, di privare l’Opera del Duomo della propria statua e collocarla davanti alla sede del governo fiorentino. Confermava la notevole levatura di Michelangelo, già indicata dalla commissione del David di bronzo nel 1502 e dall’ordinazione di ben dodici statue di marmo da parte degli operai della cattedrale nell’aprile 1503. Seguiranno ulteriori testimonianze della reputazione dell’artista: l’incarico di contribuire alla decorazione murale della nuova Sala del Maggior Consiglio di Palazzo Vecchio, monumentale aggiunta al precedente edificio, ora urgentemente necessaria per ospitare le riunioni del Consiglio repubblicano governo istituito in seguito alla fuga di Piero de’ Medici nel novembre 1494. La costruzione iniziò nel luglio 1495 e la costruzione fu eseguita con grande rapidità. Molto influenzato dall’esempio della grande Sala del Consiglio di Venezia, il Consiglio fiorentino tenne la sua prima riunione nella sala appena terminata già nel febbraio del 1496, testimonianza lampante dell’energia del nuovo regime tanto dominato dal Savonarola. Seguiranno i passaggi per decorare la nuova sala, ma questa fase successiva della sua storia sarà segnata da battute d’arresto. L’incarico di fornire una pala d’altare su tavola fu assegnato a Filippino Lippi nel maggio 1498, ma sembra che abbia fatto pochi progressi con il progetto prima della sua morte nel 1504. L’incarico sarebbe stato riassegnato a Fra Bartolommeo, ma non riuscì a completare il dipinto, oggi conservato al Museo di San Marco. Un ulteriore passo fu la commissione, nel giugno 1502, di una statua marmorea del Cristo ad Andrea Sansovino, uno dei più valenti scultori della città, progettata per la residentia, il luogo occupato dallo stesso gonfaloniere, ma anche questa opera non giunse mai il suo posto previsto nella Sala. Il risultato più prestigioso del governo è stato quello di ottenere i servizi di Leonardo. Ormai poco più che cinquantenne, la Signoria, avvicinandosi a lui, faceva un passo non esente da rischi. Aveva, ad esempio, mancato all’obbligo di dipingere una pala d’altare per la cappella della Signoria in Palazzo Vecchio già nel 1478. Può darsi che, avvicinandosi a lui, Piero Soderini, eletto a vita come gonfaloniere della città nel novembre del 1502, ebbe un ruolo significativo. Il governo era disposto anche ad assumere Leonardo in altri ruoli. Il contratto iniziale di Leonardo, se ce n’era uno, non è sopravvissuto. Né ce n’è uno relativo al successivo coinvolgimento di Michelangelo. Anche se fossero state redatte, difficilmente avrebbero chiarito la questione che ha assillato molti storici e storici dell’arte, la collocazione precisa prevista per i loro dipinti nella nuova Sala. Il successivo silenzio di Vasari su questo tema è particolarmente frustrante alla luce del suo rifacimento completo dello spazio per Cosimo I. Nella sua Vita del Cronaca, coarchitetto della Sala, fa riferimento alla finestratura originaria della stanza. Afferma che la stanza era illuminata da due finestre sul muro est e quattro su quello ovest. Questa informazione, nonostante gli scettici degli ultimi giorni, è probabilmente corretta. Incoraggerebbe la convinzione che gli affreschi fossero progettati per il muro est dove sembra si trovasse la sede cerimoniale del gonfaloniere, e che fossero previsti ai lati della sua residenza. A giudicare da copie attendibili delle invenzioni di Leonardo e Michelangelo, è chiaro che nella Battaglia di Anghiari di Leonardo le figure sono illuminate da destra, mentre le figure al bagno di Michelangelo sono illuminate da sinistra, riflettendo le sorgenti luminose a loro più vicine. Che la Signoria si avvicinò per prima a Leonardo sembra chiaro dai documenti che sopravvivono, anche se ci viene negata la certezza dei contratti. Già nell’ottobre del 1503, mentre Michelangelo era ancora impegnato con il David marmoreo, fu effettuato un elezione alla carica di gonfaloniere nel 1502. Tuttavia, nel 1504 il loro sostegno si era trasformato in ostilità e il ruolo che Alamanno ebbe nell’aiutare a strappare Michelangelo dai suoi impegni fiorentini deve far sorgere sospetti sul suo ruolo. Il ritorno a Carrara Michelangelo trasse 60 ducati dal suo conto romano il 28 aprile 1505; questo fa pensare che abbia lasciato la città per tornare poco dopo a Firenze. Durante il suo soggiorno a Roma, aveva negoziato con successo il progetto per realizzare la tomba di Papa Giulio, quella che sarebbe arrivata a perseguitare la sua vita. E, come noto, è sempre il 28 aprile che Alidosi scrive ad Alamanno Salviati la sua lettera riguardante l’anticipo di 1.000 ducati. Il pagamento era un dettaglio che Michelangelo avrebbe visto che Condivi avrebbe incluso nella sua biografia: L’artista si trovava ancora a Firenze alla fine di giugno, quando depositò sul conto di Santa Maria Nuova 600 ducati. La somma finì per contribuire al primo investimento immobiliare dell’artista, una fattoria fuori città vicino al paese di Pozzolatico. Non è documentato se abbia ripreso a lavorare ai progetti che aveva abbandonato partendo per Roma. In giugno, mentre Michelangelo era ancora in città, Leonardo era attivamente impegnato nella battaglia di Anghiari, ma non ci sono prove evidenti che egli stesso sia tornato ai preparativi per la battaglia di Cascina. Altro obbligo che sembra aver trascurato, come l’impegnativo compito della caccia al David di bronzo. Guardando indietro, l’artista era incerto sulla portata del suo imminente viaggio a Carrara alla ricerca del marmo. Era ancora a Firenze a fine giugno; esattamente quando partì per le cave non è registrato. Poche sono le informazioni che fanno luce su questa visita, la seconda dell’artista alle cave. Che i lavori fossero progrediti è tuttavia indicato da un documento del novembre. Il dodici del mese fu stipulato un contratto tra Michelangelo e due nativi di Lavagna che si sarebbero accordati per consegnare a Roma 34 carrate di marmo. Questi includerebbero due blocchi di 15 carrate ciascuno. Poiché una carrata equivaleva a 1.000 chilogrammi, i pezzi erano di dimensioni impressionanti. Condivi affermerà che Michelangelo aveva avuto due assistenti che lo aiutassero nel suo lavoro a Carrara, ma non li nomina. Apprendiamo di più da un secondo contratto, invece, stilato il 10 dicembre a Carrara, riguardante le future cave. Uno degli uomini interessati era Matteo di Cucarello, uno dei più fidati collaboratori dell’artista, che sarà ancora attivo al suo servizio, impegnato nell’estrazione del materiale per la facciata di San Lorenzo, ancora nel 1517. Uno dei due testimoni era Baccio di Giovanni, descritto come scultore fiorentino, che, non ci possono essere dubbi, era Baccio da Montelupo, che era stato con Michelangelo a Bologna nell’inverno del 1494-5. Questo contratto di dicembre è una delle poche prove relative alla presenza prolungata dell’artista alle cave. Accanto a tali scarne indicazioni della sua vita a Carrara si può citare quello che è uno dei passaggi più straordinari della biografia del Condivi. Racconta come, vivendo nell’aspro ambiente delle Alpi Apuane, un giorno Michelangelo fu preso dal desiderio di scolpire un colosso da uno dei monti che si affacciavano sul mare, che poteva servire da punto di riferimento per i naviganti. Il Condivi scrive, ripetendo sicuramente quanto gli era stato detto dal vecchio artista, di essere stato spinto dalla materia a disposizione e dal desiderio di emulare gli antichi. Avrebbe realizzato il suo desiderio se il tempo e le esigenze del suo incarico glielo avessero permesso. In una delle sue rare autoreferenze, Condivi scrive di aver sentito l’artista parlare dell’argomento con grande rammarico. Il passaggio suscitò nell’anziano artista uno dei commenti al testo di Condivi che fu registrato da Tiberio Calcagni. L’idea era una pazzia che gli era venuta, “una pazzia venutami”. Ma, aggiunge, se avesse avuto la certezza di vivere quattro volte tanto quanto aveva vissuto, sarebbe andato avanti. Evidentemente richiamando esempi antichi, la sua ossessione di svincolare la forma dalla materia non ha mai trovato espressione più fantastica di questa. Un mondo più sobrio lo attendeva a Firenze. La sua mancata esecuzione di una delle sue precedenti commissioni, i dodici apostoli di marmo per la cattedrale, stipulata con l’Opera nell’aprile del 1503, avrebbe portato l’artista a rinunciare alla casa che gli era stata esplicitamente assegnata per facilitare il suo lavoro sul progetto. Il 18 dicembre 150 l’Opera registrava la loro decisione di affittare la casa, convincendo Michelangelo a rinunciare a qualsiasi pretesa sulla proprietà, costruita all’angolo tra via Pinti e via della Colonna, progettata dal suo caro amico Cronaca. Michelangelo era tornato a Roma entro il 29 dicembre. Potrebbe aver cooptato un marmista per viaggiare con lui. Durante la sua assenza dalla città, papa Giulio aveva fatto Francesco Alidosi cardinale, passo aspramente contestato in concistoro. La seconda fuga Una lettera di Michelangelo al padre del 31 gennaio 1506 contiene informazioni sulla situazione dell’artista a Roma dopo il suo ritorno da Firenze. Esprime la sua frustrazione per i ritardi nell’arrivo dei suoi marmi dalla Liguria. Ci sono stati solo due giorni di bel tempo da quando è tornato. In effetti, riferisce che pochi giorni prima è arrivato un carico di pietre. Aveva prelevato denaro per far fronte al suo arrivo il 21 gennaio. La barca aveva corso un grande pericolo per le condizioni burrascose: dopo che il marmo era stato scaricato, alla Ripa, il punto di sbarco sul Tevere sotto il colle Aventino, il fiume era salito e aveva sommerso i blocchi. Altre informazioni emergono dalla lettera, soprattutto la sua preoccupazione per un’opera fiorentina di cui si parlerà più avanti, il gruppo della Madonna col Bambino destinato a Bruges. Non deve essere mostrato a nessuno. Un successivo riferimento dell’artista afferma espressamente che, in questa data del 1506, aveva alloggio dietro Santa Caterina delle Cavallerotte, chiesa distrutta nel XVII secolo. L’informazione è ripetuta nella biografia del Condivi, il quale aggiunge che Papa Giulio, per agevolare le sue visite alla bottega dell’artista, fornì un ponte dal corridoio che andava dai Palazzi Vaticani a Castel Sant’Angelo. La lettera a Lodovico del gennaio 1506 è l’unica sopravvissuta prima che scoppiasse in aprile la crisi dei rapporti di Michelangelo con papa Giulio. La perdita della corrispondenza è grave. La sua assenza significa, ad esempio, che non è registrata alcuna reazione personale a un evento di carattere sensazionale, la scoperta del gruppo del Laocoonte a metà gennaio sull’Esquilino. Se l’ultima testimonianza di Francesco da Sangallo è attendibile, Giuliano, suo padre, era stato inviato sul posto da Giulio, e Michelangelo lo aveva accompagnato. Della crisi di aprile il resoconto più immediato esiste nella lettera di Michelangelo a Giuliano del 2 maggio 1506, una delle più discusse di tutto il suo carteggio, scritta dopo la fuga a Firenze. Il suo successivo resoconto degli eventi è privo di accredito. Fu scritto in risposta a una lettera ora perduta di Giuliano, che agiva per conto del Papa. È evidente che Giuliano aveva riferito che papa Giulio aveva preso male la brusca partenza di Michelangelo ma aveva detto che avrebbe rispettato ciò che aveva stato concordato tra loro. L’artista sembra aver tentato di mantenere un tono relativamente controllato; desidera che l’amico fiorentino lo legga al papa. Riferisce che sabato 1° aprile, giorno precedente la domenica di Pasqua, aveva sentito il papa, a tavola con un gioielliere e il cerimoniere, dichiarare che non intendeva spendere altro, non un solo baiocho di più, su pietre piccole o grandi. Preso alla sprovvista, aveva, tuttavia, prima di partire, chiesto altri soldi per continuare il suo lavoro. Il papa gli aveva detto di tornare lunedì. Era tornato il lunedì, poi il martedì, il mercoledì e il giovedì successivi. Finalmente venerdì 17 aprile era stato allontanato, come scrive lui stesso, buttato fuori, cacciato via. L’uomo responsabile aveva detto che lo conosceva ma stava obbedendo agli ordini. Ricevendo la stessa risposta sabato, si è disperato. Aggiunge che c’era un altro motivo, oltre ai respingimenti che aveva subito, che lo spinse ad andarsene. Adottando una forma di espressione criptica, scrive: “Questo [il rifiuto papale] non fu l’unico motivo della mia partenza; c’era anche qualcosa di cui non voglio scrivere. è abbastanza per farmi pensare che, se fossi rimasto a Roma, la mia tomba sarebbe stata fatta prima di quella del Papa. E questo è stato il motivo per cui sono partito subito”. Non specifica in quale giorno è partito, probabilmente sabato 18 aprile. Quest’ultimo giorno era quello prescelto per la solenne posa della prima pietra del nuovo San Pietro. Michelangelo assicura a Giuliano che desidera procedere con il progetto. Entro cinque anni, il periodo che evidentemente stimava necessario per il suo completamento, la tomba potrà essere eretta in San Pietro, ovunque il papa lo desideri. Ma la caratteristica principale delle sue ultime osservazioni è il suo dichiarato desiderio che l’opera si svolga a Firenze, dove lavorerà meglio e con più dedizione, “faro meglio e chon più amore”. Si concede la previsione che l’opera non avrà eguali al mondo. L’artista tornerà alla crisi del 1506 nelle bozze di due successive lettere indirizzate al fidato amico Giovan Francesco Fattucci, datate fine 1523. Scrive che Giulio ha cambiato idea sul procedere con la sepoltura ma lui, Michelangelo, non ha rendersene conto e, di conseguenza, gli è stata mostrata la porta. La denuncia di Michelangelo secondo cui i fondi di Giulio si erano esauriti è, infatti, confermata da altre prove. Dalla documentazione risulta che il 24 gennaio 1506 gli erano stati pagati 500 ducati e sembra che non avesse ricevuto, come era stato pattuito, alcun ulteriore compenso alla fine di febbraio. Sembra, quindi, che vi siano stati motivi per la sua impazienza e delusione in aprile. L’osservazione dell’artista secondo cui Giulio aveva cambiato idea ricorda che era stato assente da Roma per otto mesi e potrebbe non essersi tenuto al passo con gli eventi nel relativo isolamento di Carrara. A questo punto, non sembra aver considerato Bramante come l’artefice delle sue difficoltà. Infatti, a giudicare dalle lettere successive, sembra che fu solo con il passare del tempo che Michelangelo giunse a identificarlo come l’uomo che lo aveva rovinato. L’odio affiorerà indimenticabilmente nel libro del Condivi del 1553. Tuttavia gli avvenimenti avversi della primavera del 1506 restano nella sua memoria. Ad esempio, si riferisce a un uomo che aveva tentato di protestare con l’ostinato palafreniere papale che gli aveva precluso l’accesso al papa come “uno vescovo luchese”, che non può essere altro che l’amatissimo nipote di papa Giulio, il cardinale Galeotto Franciotti, destinato a morire giovane nel 1508. Il racconto più drammatizzato dei fatti dell’aprile 1506 si trova nel libro del Condivi. L’artista, per il quale nessuna porta era mai stata chiusa, aveva risposto all’usciere papale che gli sbarrava la strada che il papa lo avrebbe dovuto cercare ovunque. Prese la rapida postazione a nord, dicendo a due compagni di seguirlo. In una successiva postilla al testo del Condivi, il vecchio aggiungeva di aver raggiunto la sicurezza del territorio fiorentino in venti ore di cavalcata. A Poggibonsi era stato raggiunto da cavalieri mandati all’inseguimento da papa Giulio, recante una lettera che ne chiedeva l’immediato ritorno. Rispose che, poiché la tomba era stata abbandonata, non aveva più obblighi nei confronti del papa e non sarebbe più tornato. Poi è andato a Firenze. Due dei suoi amici romani gli avrebbero scritto lettere che sono sopravvissute. Uno di questi era di Giovanni Balducci della banca di Roma, in risposta a una lettera perduta dell’artista. Spiega di aver letto una lettera ormai perduta a Giuliano da Sangallo. Lo spinge a tornare a Roma, una volta rispettati gli impegni a Firenze. Il tono pacato della lettera di Balducci ricorda che, se Jacopo Gallo fosse stato ancora vivo nel 1506, gli eventi avrebbero potuto assumere una piega meno drammatica. Il giorno dopo, il 10 maggio, Piero Roselli scrive all’artista a Firenze. Uomo la cui posizione alla corte pontificia era sempre più messa a repentaglio dal Bramante, che aveva, come cognato di Cronaca, conosciuto bene Michelangelo all’epoca del David marmoreo di Firenze. La sera prima il papa aveva convocato Bramante per esaminare alcuni disegni. Aveva espresso la convinzione che Giuliano da Sangallo sarebbe riuscito a riportare Michelangelo a Roma. Bramante aveva risposto: “Santo Padre, non ne verrà fuori nulla, perché ho parlato molte volte con Michelangelo e lui mi ha ripetutamente detto che non desidera frequentare la cappella [Sistina]”. Afferma che Michelangelo desidera lavorare la tomba “e none a la pittura”. Si dice che Bramante abbia detto al papa che non crede che Michelangelo abbia il coraggio di affrontare il dipinto del soffitto della cappella. Fa notare che Michelangelo non ha dipinto molte figure, e che queste sarebbero essere alta e di scorcio: il riferimento di Bramante alle perplessità di Michelangelo poteva benissimo essere vero. Rosselli aveva poi riferito al papa di aver detto: “Se non viene mi fa torto e quindi credo che tornerà comunque”. A questo punto, scrive Rosselli, è intervenuto lui stesso e si è rivolto a Bramante con parolacce in presenza del papa. Il suo sfogo ha messo a tacere Bramante e lo ha portato a pentirsi di ciò che aveva detto. Rivolgendosi al papa, Rosselli ha negato che Bramante avesse mai parlato con Michelangelo ed esprime la sua convinzione che Michelangelo tornerà quando Sua Santità lo desidera. I riferimenti alla decorazione della cappella erano coerenti con gli eventi. Dalla primavera degli anni ‘50 il tessuto della Cappella Sistina era stato minacciato dal movimento della parete Michelangelo deve consegnare una statua all’anno, percepire uno stipendio di due fiorini d’oro al mese e supervisionare personalmente la qualità del marmo estratto a Carrara. Un’altra caratteristica del contratto era che gli sarebbe stata fornita una casa dagli operai. Deve essere completato entro tre anni a loro spese. Il suo costo è stabilito in 600 fiorini. Tra le altre clausole interessanti, si stabilisce che all’artista, insieme al suo caro amico Cronaca, capomaestro dell’Opera, sia consentito un ruolo consultivo. La sua collocazione era prossima all’angolo formato da via Colonna e Borgo Pinti. La successiva storia della casa si rivelerà travagliata. Gli operai decisero di affittare la proprietà a metà dicembre 1505 a causa della negligenza dell’artista nei confronti del suo incarico. Più tardi, dopo il suo ritorno a Firenze dopo aver completato il suo incarico per papa Giulio a Bologna, lo affitterà lui stesso per un anno nel marzo 1508. Tuttavia, dopo il suo precipitoso trasferimento a Roma per intraprendere la pittura della volta della Cappella Sistina, l’Opera, a giugno, rientrerebbe in possesso della proprietà. Quasi quattro anni prima, a fine dicembre 1504, era arrivato a Firenze il primo blocco di marmo destinato al progetto degli apostoli, dopo essere stato scaricato a Signa sull’Arno. Seguiranno ulteriori consegne, tra cui tre blocchi consegnati nel marzo 1506. E così fu probabilmente uno di questi che l’artista impiegò per scolpire il San Matteo dopo la sua drammatica fuga dalla corte papale a metà aprile 1506. Il San Matteo rimarrà incompiuto, probabilmente intatto dall’artista dopo il suo periodo al servizio di papa Giulio a Bologna e il suo breve ritorno a Firenze nella primavera del 1508. Resterà all’Opera fino all’Ottocento. Copiato da Raffaello in un disegno realizzato probabilmente nel 1507, esercitò un influsso ancora poco discusso. Ha ispirato il notevole passaggio del Vasari su come lo scultore si avvicinò al blocco che aggiunse nella sua Vita rivista del 1568. I primi disegni relativi al progetto degli apostoli, che sono solo due, indicano uno scopo modesto, non accennando alla soluzione raggiunta nel 1506. Sono, per certi versi, retrospettivi, ispirandosi alla scultura quattrocentesca del duomo, raffigurante l’apostolo con la gamba destra sollevata su un ceppo e la testa appoggiata sulla mano destra. E non può sfuggire di notare che tra queste prime idee per la statua e la dinamica invenzione del 1506 era intervenuta l’esperienza personale dell’artista del Laocoonte. I mesi che Michelangelo trascorse a Firenze tra aprile e la sua riluttante partenza per Bologna in novembre dovettero essere dedicati ad un intenso lavoro. La sua presenza a Firenze, però, fa sì che manchino gran parte delle informazioni che possiamo carpire dalle sue lettere, le forse fu proprio in questo periodo successivo alla fuga da Roma che ricevette l’invito (di cui sopra) a recarsi a Costantinopoli per servire il sultano. L’episodio è citato dal Condivi in un passo in cui elenca gli illustri mecenati che si erano avvicinati all’artista. Un argomento che emerge nella tarda estate del 1506 è l’obbligo di spedire a Bruges il gruppo marmoreo della Madonna col Bambino, ancora oggi nella chiesa di Notre Dame. L’intaglio è stato commissionato da membri di spicco della famiglia Mouscheron di Bruges. Impiegarono i Balducci come loro banchieri sia a Roma che a Firenze, e potrebbe essere stato attraverso di loro che incontrarono l’artista. Il progetto è databile non oltre il dicembre 1503, quando Michelangelo fu pagato così ducati dal Mouscheron per una statua, “per 1 statua”. Seguirà un secondo pagamento di 50 ducati nell’ottobre 1504, probabilmente anche per l’esecuzione della scultura. Ulteriori pagamenti da parte del Mouscheron possono essere anche compenso per l’intaglio, ma mancano i dettagli nei conti: nell’agosto degli anni ‘50 verrebbe effettuato il pagamento dell’imballo della scultura, la sua “inchassatura”, che sembrerebbe segnalare che l’opera era stata completata da tempo. Tuttavia, il suo invio nei Paesi Bassi era ancora in discussione nell’agosto del 1506. Il gruppo è compatto e non offre alcuna superficie sporgente vulnerabile che avrebbe potuto essere messa in pericolo dall’imminente viaggio nei Paesi Bassi. Vasari non fa alcun riferimento alla scultura nella Vita di Michelangelo del 1550. L’omissione sarebbe stata sanata dal Condivi tre anni dopo, ma il suo breve riferimento è un curioso miscuglio di precisione ed errore. Si riferisce al gruppo come a un’opera in bronzo. Si riferisce, tuttavia, ai Mouscheron come committenti e afferma che l’artista ricevette un pagamento di troppi ducati, informazione che deve aver avuto da Michelangelo e che non è in contrasto con il superstite prove documentali. Vasari non aggiungerà nulla di sostanziale nella sua seconda edizione del 1568. I pochi schizzi associati alla scultura sono cronologicamente compatibili con una data del tardo 1504, quando Michelangelo era impegnato nel cartone per l’affresco di Palazzo Vecchio. Se esistono notizie relative al gruppo destinato a Bruges, non ci sono pervenute prove tali da stabilire la datazione dei due tondi marmorei eseguiti per Taddeo Taddei e Bartolommeo Pitti, nessuno dei quali completato dall’artista. Il Vasari si riferirà ad essi in entrambe le edizioni della sua Vita di Michelangelo, ma non fornisce dettagli, limitandosi ad assegnarli al periodo successivo al completamento del David marmoreo e precedente ai lavori del San Matteo. Condivi non fa alcun riferimento a nessuno dei due tondi, l’omissione è un altro indizio della propensione del vecchio artista ad escludere le opere che non ha mai portato a termine. In questi anni Michelangelo iniziò a lavorare per committenti privati. Taddeo Taddei era nato nel gennaio 1470 ed era quindi di poco più di cinque anni più anziano di Michelangelo. Membro di una famiglia relativamente illustre i cui possedimenti cittadini erano situati in via de Ginori e che fu a lungo membro dell’Arte della Lana, sarebbe diventato, in un prossimo futuro, un noto mecenate di Raffaello. Il Vasari afferma che Taddeo possedeva due quadri dell’artista. Sopravvive infatti un disegno a penna di Raffaello della Vergine nel rilievo di Michelangelo. Il tondo di Taddei pone il problema delle opere notoriamente incompiute iniziate dall’artista. Ogni caso del non-finito può presentare le proprie caratteristiche. Qui non si può escludere che il Taddei si sia impossessato del rilievo dopo che Michelangelo partì per Roma al servizio del papa nel maggio 1505, supponendo che sarebbe stato terminato al suo ritorno. In questo caso, un ulteriore problema potrebbe essere stato l’insoddisfazione dell’artista per la qualità del materiale dopo aver iniziato a lavorare sul blocco. L’altro tondo marmoreo di questo periodo è quello indicato dal Vasari come realizzato per Bartolommeo Pitti. È rimasto a Firenze. Più piccolo di quello di Taddeo, la sua datazione è stata molto dibattuta. Tuttavia, le argomentazioni di chi vi ha visto un’opera successiva a quella per Taddei sono convincenti. Michelangelo poteva ben essere in confidenza con Pitti, perché era stato uno degli operai del duomo, come membro della corporazione della Lana, dal luglio 1503 all’estate dell’anno seguente. Deve quindi essere stato coinvolto nel progetto del David marmoreo durante il periodo del suo completamento e della decisione sul suo sito. Dalle testimonianze del ritorno catasto del padre del 1480, Bartolommeo aveva in quell'anno ventisette anni, era, quindi, sostanzialmente più anziano di Taddeo Taddei. Se circostanze specifiche hanno favorito la messa in servizio dei due tondi di marmo per Taddeo Taddei e Bartolommeo Pitti non è stato stabilito. Il contesto del matrimonio, tuttavia, è stato associato con il tondo dipinto da Michelangelo commissionato da Agnolo Doni. Doni era nato nell’agosto del 1474, sei mesi prima della nascita dell’artista. Aveva sposato Maddalena Strozzi nel gennaio 1504, e il loro aspetto sarebbe stato immortalato nei ritratti della coppia di Raffaello ora agli Uffizi. Doni era un importante mercante di lana, e la sua casa dopo il suo matrimonio era in Corso de’ Tintori, vicino a Piazza Santa Croce. Allusioni sia alla famiglia Strozzi che a quella Doni sono state identificate nella decorazione della cornice monumentale superstite del tondo, una delle più straordinarie del periodo e attribuita in modo convincente nel suo progetto allo stesso Michelangelo. Tale cronologia proposta suggerisce che l’esecuzione del tondo per Doni aveva subito notevoli ritardi. Tuttavia, una volta iniziato, l’artista ha lavorato con grande rapidità, fatto chiaramente rivelato durante il suo attento esame intrapreso nel 1985 durante la sua pulitura. Adottò un approccio alla pittura “bagnato su bagnato”, che certamente ne velocizzò l’esecuzione, e la sua attenta preparazione portò a un minimo assoluto di pentimenti. Prima di abbandonare il tema del soggiorno di Michelangelo a Firenze in questo periodo, va ricordato che la sua presenza ivi rafforzò l’ulteriore determinazione del Soderini, di indurre l’artista a intraprendere una seconda statua, pendant del David, da affiancare al precedente lavoro davanti al Palazzo della Signoria. Pochi giorni dopo che Michelangelo aveva lasciato Firenze per Roma, il gonfaloniere scrisse al marchese di Massa Alberico Malaspina, in maggio, chiedendogli di tenere in custodia un grosso blocco di marmo che doveva essere impiegato per una seconda statua in piazza della Signoria a Firenze. In un’altra lettera del dicembre tornerà sull’argomento, in cui spiega che Michelangelo non aveva avuto licenza da papa Giulio di lasciare Roma neppure per un periodo di venticinque giorni. Egli afferma che non c’è nessun altro in Italia che possa assumersi l’incarico di preparare il blocco. Questo progetto di fornire una seconda statua davanti al palazzo incontrerà in futuro straordinarie vicissitudini. Un ulteriore episodio coinvolgerà in questo momento l’artista, la richiesta che avrebbe espresso le sue opinioni sulla costruzione progettata del ballatoio, o via coperta, ai piedi della cupola del Duomo fiorentino. Le autorità gli scriveranno a Bologna il 31 luglio 1507. In questo momento Michelangelo è molto impegnato nella realizzazione della statua in bronzo di papa Giulio per la facciata di San Petronio a Bologna, e nessuna risposta sembra essere pervenuta. Fu un progetto che fu chiamato a realizzare alcuni anni dopo, a testimonianza della molteplicità di esigenze che lo avrebbero coinvolto in futuro. Il ritorno a Bologna Michelangelo partì per Bologna alla fine di novembre del 1506. Francesco Alidosi aveva scritto dalla corte pontificia di là il 21 novembre al governo fiorentino, spiegando che papa Giulio richiedeva la presenza dell’artista a Bologna per eseguire lavori per lui. Soderini risponderà il 27 novembre; scrive che Michelangelo sarà il latore della lettera. Il Soderini tributa all’artista straordinari elogi, dichiarandolo unico nel suo mestiere in Italia. Se trattato bene, realizzerà cose che saranno la meraviglia di tutti. Armato delle sue lettere, l’artista incontra il suo mecenate a Palazzo dei Sedici. Il racconto di Condivi è denso di avvenimenti. Il papa lo salutò con le parole che era stato suo dovere cercare il suo protettore e che aveva aspettato che il papa fosse venuto da lui. Fu salvato da un silenzio minaccioso dallo sconsiderato intervento di uno dei cortigiani, inviato dall’Alidosi. Giulio ha quindi proceduto a perdonare l’artista e gli ha ordinato di attendere i suoi desideri. Forse ancor prima del suo ingresso trionfale a Bologna l’11 novembre, Giulio aveva preso la decisione di commissionare ben due statue di sé stesso. Già dal 17 dicembre ne era stato posto uno provvisorio sulla facciata del palazzo dove risiedeva. Apparentemente era a grandezza naturale e realizzato in legno dipinto o stucco. La commissione di tali statue papali era diventata tradizionale mentre si recava a nord, Giulio avrebbe potuto vedere la statua di uno dei suoi predecessori, Paolo II, collocato in una nicchia della cattedrale di Perugia. Ma la disposizione di due statue sulla stessa piazza indica la sua intenzione di celebrare il suo notevole successo politico. Il suo orgoglio per l’effigie che avrebbe ordinato a Michelangelo è indicato dalla sua notevole decisione di pagare lui stesso il lavoro dell’artista, piuttosto che il comune bolognese, come la tradizione richiedeva. Michelangelo forse non era a conoscenza della natura del progetto che lo attendeva a Bologna. La lettera che l’Alidosi aveva scritto alla Signoria fiorentina era stata studiatamente vaga sulla natura dell’incarico che attendeva l’artista. Né il coinvolgimento della ritrattistica né la scelta del bronzo avrebbero potuto attrarre molto su di lui. In una delle bozze di lettere indirizzate al Fattucci di fine dicembre 1523 riferirà che la somma necessaria per intraprendere la statua aveva calcolato in 1.000 ducati. Ma ha aggiunto di non aver accolto con favore la scelta del bronzo, sostenendo che non era la sua vocazione, “non era la mia arte”. Tuttavia, le circostanze in cui si trovava non gli lasciarono alcuna possibilità di resistere. Non perse tempo a cercare aiutanti fiorentini. Il 10 dicembre 1506 l’Opera della cattedrale concesse a Lapo d’Antonio Lapo il permesso di lasciare Firenze per Bologna. Di dieci anni più anziano di Michelangelo, era al libro paga della cattedrale come scultore dal 1491. L’altro fiorentino ad essere chiamato fu Lodovico del Buono, detto il Lotti. Abile fonditore di metalli, aveva servito il governo fiorentino come fondatore dell’artiglieria. La scelta di Michelangelo, però, si rivelerebbe un grave errore. La situazione in cui si trovava Michelangelo era ingrata. La città era disperatamente sovraffollata. Il suo protettore di dodici anni prima, Giovan Francesco Aldrovandi, era ancora vivo. Tra i principali sostenitori del regime dei Bentivoglio, aveva ricevuto la grazia da papa Giulio, che lo avrebbe nominato membro del neonato Consiglio dei Quaranta. Costretto a fornire alloggio ai membri del partito del papa, non fu in grado di ripetere l’ospitalità che aveva offerto all’artista dodici anni prima. nella cappella. Confermano inoltre che aveva persuaso con successo il suo mecenate della praticità delle sue intenzioni. Le disposizioni finanziarie per la pittura del soffitto erano state stabilite da Francesco Alidosi. Per quanto grande fosse l’autorità di Alidosi, è improbabile che avesse molto più a che fare con il progetto. Solo pochi giorni dopo la stipula dell’accordo con Michelangelo, il papa aveva nominato Alidosi legato pontificio a Bologna e successivamente lasciò Roma rimanendo assente fino al richiamo provvisorio dell’8 novembre. Rientrato a Bologna dall’aprile 1509, proseguirà la brutale politica verso i bolognesi. Michelangelo non fece alcun riferimento ad Alidosi quando ripercorse la sua vita a beneficio del Condivi. La sua reticenza potrebbe essere stata provocata dalla cattiva fama del suo protettore, una damnatio memoriae quasi universale. Ma anche la natura della fine di Alidosi, pugnalato a morte in strada a Ravenna nel maggio 1511 dal duca Francesco Maria della Rovere, potrebbe aver contribuito alla sua eliminazione dagli atti. Preparazione del progetto Il primo passo concreto verso la pittura (o, più propriamente, la ridipintura) del soffitto della cappella avvenne l’11 maggio 1508. Quel giorno, Piero Rosselli, confermava di aver ricevuto 10 ducati da Michelangelo per lavori di rimozione della superficie esistente dal soffitto. Al suo posto applicava il proprio intonaco grezzo, in italiano chiamato arriccio, che a sua volta fungeva da sfondo per l’intonaco su cui procedeva la pittura. Vengono registrati altri cinque pagamenti a suo favore. Tre di questi furono realizzati da Francesco Granacci, il quale, dopo il suo arrivo a Roma, evidentemente assunse per conto di Michelangelo una serie di incarichi amministrativi così come lo aveva già servito nell’organizzare il reclutamento degli assistenti, ruolo discusso in seguito. L’ultimo pagamento è datato 27 luglio. È di gran lunga il più grande e la formulazione implica che fosse l’ultimo della serie per il lavoro in corso. Ciò che non si può risolvere da questi pagamenti è se quest’opera si estendesse per tutta la lunghezza della cappella o solo per la prima parte, quella descritta dal Condivi come estesa a metà della volta. Dalle sue parole non si definisce dove si fermò questa prima campagna, ma i cambiamenti di stile e di scala pittorica, soprattutto il notevole aumento dimensionale delle figure di sibille e profeti nella zona verso l’altare, indicano che la prima fase pittorica si interruppe a un punto tra la Creazione di Adamo e la Creazione di Eva. Da quanto scriverà Michelangelo nel settembre del 1510, si può presumere che l’opera del Rosselli non si sia estesa oltre la metà della cappella, poiché, terminata la prima parte della campagna pittorica nell’estate, l’artista dichiarava ora di necessitare di ulteriori fondi per la costruzione della seconda parte del ponteggio. Tali affermazioni non possono tuttavia essere prese per oro colato e, in ogni caso, potrebbero essere spiegate dal fatto che la struttura era in parte fissa in modo permanente, in parte comprendente sezioni che potrebbero essere spostate. Prove a favore della conclusione che i lavori intrapresi dal Rosselli si estendessero per tutta la lunghezza della cappella sono fornite da Paris de Grassis, cerimoniere pontificio, nel suo diario, dove, scrivendo il 10 giugno 1508, fa riferimento al rumore e alla polvere che i lavori in corso stavano creando, impedendo i Vespri nella zona del presbiterio. Ciò che non può essere risolto è la questione se le idee sul contenuto pittorico del progetto, così come sulla sua scala fisica, fossero già in discussione a questo punto. Non si può escludere una data così anticipata per la progettazione del programma. Il mecenate di Michelangelo non era un uomo che avrebbe perso tempo e va tenuto presente che l’artista era già arrivato a Roma negli ultimi giorni di marzo. I successivi commenti di Michelangelo sulla progettazione della decorazione non stabiliscono il momento in cui fu concordato il programma dipinto. Le sue osservazioni, tuttavia, confermano che si è verificato un cambiamento fondamentale, testimoniato dai due noti e discussi bozzetti preparatori di Londra e Detroit, disegni che sono stati più volte analizzati. Nessuno dei due disegni ha alcuna relazione con l’attuale pratica decorativa fiorentina; piuttosto, una disposizione per molti scomparti dipinti riflette il gusto contemporaneo a Roma. Sembra vero proporre che mostrino Michelangelo che risponde alle aspettative del suo mecenate. Giustamente è stata giudicata incredibile l’affermazione successiva dell’artista secondo cui, dopo la sua stessa lamentela per la “povertà dei piani iniziali”, il suo mecenate gli avrebbe dato mano libera per dipingere ciò che lui stesso voleva. Afferma che il programma che ora ha intrapreso si estendeva fino alle narrazioni del XV secolo sottostanti, dipinte per lo zio di Giulio, Sisto IV, un grossolano errore. L’errore era, forse, una conseguenza del fallimento della memoria o della disattenzione. Dato il tenore della lettera, tuttavia, avrebbe potuto essere deliberata. Michelangelo aveva tutte le ragioni per esaltare l’entità fisica del suo successo al fine di rafforzare la sua affermazione di non essere mai stato adeguatamente pagato. La tanto dibattuta questione dei ponteggi michelangioleschi era un aspetto dell’impresa al quale Vasari non badò nella sua Vita del 1550. Nella biografia del Condivi di tre anni dopo assume un carattere preminente e polemico. Ci viene detto che il papa stesso invitò Bramante a provvedere alle impalcature e ne ideò una di piattaforme sospese con funi, sistema che, in un diverso contesto, Vasari chiama “ponti sospesi”, o ponti impiccati. La soluzione richiedeva di praticare dei fori nella volta stessa, e Condivi riferisce che la denuncia da parte di Michelangelo dell’impraticabilità della soluzione portò alla pubblica umiliazione di Bramante davanti a papa Giulio. Rimuovendo il sistema sospeso del Bramante, Condivi afferma che Michelangelo ne ideò uno suo, che non richiedeva funi, e questa soluzione sarebbe stata adottata dallo stesso Bramante nella costruzione di San Pietro. Questo notevole disprezzo del Bramante non fu smentito dall’artista quando commentò il testo del Condivi in età avanzata, e lo stesso Vasari adotterà il racconto quasi parola per parola nella sua seconda edizione del 1568. Già nell’Ottocento alcuni scrittori videro che gli avvenimenti ricordati lasciano un tempo inadeguato al presunto intervento di Bramante e furono spinti a proporre che i suoi ponti fossero appesi e poi rimossi in aprile. Ma le sue pedane avrebbero potuto essere appese a qualsiasi scopo solo dopo che fosse stata asportata la vecchia superficie del soffitto, compito intrapreso da Rosselli dall’11 maggio. Se, come sembra probabile, Michelangelo ha rilevato l’impalcatura di Rosselli, apportando modifiche dove erano necessarie, il racconto perde ulteriore credibilità, si può solo concludere che la storia è un aspetto del rancore sopportato dall’artista nei confronti di Bramante. Il carattere dell’impalcatura impiegata da Michelangelo ha provocato discussioni e controversie per molti anni, ma il restauro del soffitto della cappella negli ultimi anni del XX secolo ha posto fine al dibattito. Durante il restauro, finora non documentato, sono emersi fori nelle superfici murarie alla base delle lunette che erano serviti per accogliere i sostegni lignei diagonali su cui poggiava l’impalcatura vera e propria. La scoperta dimostra che il Vasari era ben informato nella sua Vita del 1568 quando scriveva di sorgozzone, puntelli diagonali, che venivano adoperati in modo che l’impalcatura stessa non toccasse il muro. L’affermazione avanzata dal Condivi, invece, e successivamente accolta dal Vasari, che la soluzione adottata è stata un’invenzione dell’artista, non è credibile. È probabile che la praticità dell’impalcatura così come fu eretta sia dovuta in gran parte ad architetti qualificati, non ultimi Giuliano da Sangallo e Rosselli. Tuttavia Michelangelo, sempre attento ai dettagli, deve essersi preoccupato di non commettere errori. Ciò può essere dimostrato dall’evidenza di uno dei suoi schizzi a penna più vivaci. Lo disegnò per indicare a coloro che erano coinvolti nell’erezione della seconda parte del ponteggio nel 1511 ciò che era ansioso di evitare: una situazione in cui si sarebbe trovato lui stesso ridotto a giacere in posizione prona appena sotto la superficie della volta. Assistenti Non c’è dubbio che, durante il suo breve soggiorno a Firenze dopo il suo ritorno da Bologna, Michelangelo aveva cominciato a cercare aiutanti che potessero venire a Roma per aiutarlo nell’impresa per il papa. Anche se persa, la sua corrispondenza con Alidosi deve aver significato la sua disponibilità ad accettare il progetto. I suoi passaggi per riunire una piccola squadra di assistenti qualificati mostrano che il suo approccio iniziale all’assunzione della commissione era governato dalla tradizione e, soprattutto, dalla sua familiarità con quanto era avvenuto quando Domenico Ghirlandaio aveva messo insieme il suo gruppo di assistenti per affrescare il coro di Santa Maria Novella, la Cappella Tornabuoni, progetto che andava avanti negli anni in cui il giovane era nella bottega del Ghirlandaio. Il gruppo che il Ghirlandaio aveva messo insieme per la sua più grande impresa nella pittura ad affresco era stata una delle più efficienti del suo tempo, riflettendo le sue capacità organizzative del tutto eccezionali, che il giovane aveva personalmente osservato. Anche il numero degli assistenti che lui stesso cercava riprendeva probabilmente il numero di assistenti che avevano operato sotto la direzione del Ghirlandaio e sui suoi disegni a Santa Maria Novella. Nel suo primo ricordo superstite, già citato, dopo aver esposto le sue esigenze finanziarie per procedere con la tomba di papa Giulio, ha stabilito le sue intenzioni riguardo agli assistenti. Dovevano venire da Firenze e dovevano essere il numero cinque. Pagherà a ciascuno di loro 20 ducati camerali. Se sono disposti ad accettare il lavoro, i 20 ducati faranno parte dei loro stipendi. Se l’accordo non viene raggiunto, si trattengano 10 ducati per coprire le spese di viaggio da Firenze e per il tempo impiegato. L’uomo a cui affidò gli aspetti pratici di assemblare la sua squadra di aiutanti era il suo amico di lunga data, Francesco Granacci. Ciò emerge da una lettera del Granacci, scritta a Firenze e indirizzata a Michelangelo a Roma, databile prima del 23 aprile 1508. Come più volte notato, la lettera del Granacci indica che Michelangelo aveva già in corso delle indagini prima di lasciare Firenze. Granacci riferisce di essersi avvicinato a Giuliano Bugiardini e a Jacopo di Sandro, quest’ultimo allievo del Ghirlandaio ritenuto dal Vasari partecipe alla pittura dell’altare maggiore di Santa Maria Novella nella Cappella Tornabuoni. Jacopo aveva chiesto a Granacci del suo potenziale stipendio e si dice che abbia detto di non aver avuto il tempo di discutere la questione con Michelangelo prima di partire. Il Granacci scrive di non aver ancora parlato con altri ma aggiunge che ritiene utile avere a bordo Agnolo di Donnino, che si era formato con Cosimo Roselli, perché aveva esperienza di affresco. Lui stesso è pronto a partire per Roma, insieme a Bastiano, cioè Aristotile da Sangallo. Compreso sé stesso, Granacci indica che i potenziali aiutanti erano in numero di cinque, concordando con quello nel ricordo di Michelangelo di fine marzo. Evidentemente il Vasari fece di tutto per correggere i dettagli della squadra di Michelangelo quando preparò la Vita nella sua prima edizione del 1550. Elenca i cinque di Granacci e ne aggiunge un sesto, Indaco Vecchio, buon amico di Michelangelo e che, come è stato proposto, subentrò nel gennaio 1509 al fastidioso Jacopo di Sandro, che dall’ottobre precedente creava problemi. L’informatore del Vasari potrebbe essere stato il membro più giovane del gruppo, Aristotele da Sangallo, che sarebbe morto nel 1551, un anno dopo la pubblicazione del libro di Vasari. Vasari lo conosceva bene e ha introdotto un resoconto informativo della sua carriera nella sua seconda edizione, affermando che Aristotile era stato uno dei suoi più cari amici. I due erano stati particolarmente vicini alla fine del 1540 a Roma, quando Vasari avrebbe potuto cercare attivamente informazioni per il suo progetto. La questione degli assistenti provocherà uno dei tanti dissensi sorti tra Vasari e Condivi. Vasari nel 1550 aveva giustamente notato l’inesperienza di Michelangelo con la pittura murale, ma le sue osservazioni sembrano aver suscitato l’ira del vecchio maestro. Non solo Condivi ometterà successivamente ogni riferimento alla convocazione degli assistenti; andrebbe molto oltre e negherebbe che Michelangelo avesse degli aiutanti quando dipinse il soffitto, nemmeno un garzone per macinare i suoi colori. E questo racconto fu addirittura abbellito da Benedetto Varchi quando venne a comporre la sua orazione funebre nel 1564. Ma il Vasari si attenne al suo racconto nel 1568. Un certo numero di assistenti potrebbe aver tardato ad arrivare. Ma Granacci non ha perso tempo. Era giunto a Roma il 13 maggio 1508. Quel giorno sia lui che Michelangelo indirizzarono lettere a un frate del convento dei Gesuati a Firenze; erano i fornitori di materiali pittorici più affermati e affidabili della città. Michelangelo, preoccupato per i suoi materiali pittorici come lo era per la qualità del suo marmo, riferì a Frate Jacopo di Francesco il suo bisogno di azzurri di buona qualità. Spiega che li richiede per lavori imminenti sebbene non fornisca dettagli, descrivendo il suo potenziale incarico con caratteristica obliquità come dipingere “certe cose”. Chiede che il materiale sia inviato tramite i suoi confratelli Gesuati a Roma. Il tono è frettoloso e sembra che non sia stato fissato alcun prezzo. Nella sua lettera di accompagnamento, Granacci, probabilmente più familiare con i Gesuati a causa dei suoi numerosi incarichi per i dipinti, sollecita fra Jacopo a rispondere e gli assicura che sarà pagato un giusto prezzo. Mentre Granacci si firma “pittore”, Michelangelo, nonostante la natura della sua richiesta, si firma “scultore”. Tornato in città dopo un’assenza di due anni, riprese a vivere nella casa presso Santa Caterina delle Cavallerotte, lo spazio gli era stato concesso dal papa nel 1505. Che vi risiedesse alla fine del 1510 è dimostrato da un documento che ricorda che un canonico di San Pietro eguagliato all’epoca. Questa serie degli Antenati di Cristo era probabilmente di grande importanza per un mecenate. La dedica della cappella all’Assunzione della Vergine, prescritta dallo zio Sisto, si era riflessa nella pala del Perugino sulla parete dell’altare. La scelta degli Antenati per l’inclusione poteva benissimo essere un ulteriore omaggio alla Vergine da parte del nipote. Perché la genealogia di Cristo, esposta nei primi sedici versetti del primo capitolo di san Matteo, era il testo evangelico letto su un altro suo feste, quella della sua Natività, celebrata l’8 settembre. Non c’è dubbio che Giulio avesse una venerazione particolare per questa festa, che troverebbe un’ultima espressione nella sua dichiarata volontà che la sua progettata cappella funeraria nella nuova San Pietro fosse dedicata a questa Natività. Un mecenate assente La tarda estate del 1510 avrebbe portato all’artista problemi molto diversi da quelli di assistenti inaffidabili e intonaco insoddisfacente che avrebbe perso la presenza sostenitrice del suo mecenate. Per molti mesi Giulio aveva contemplato una nuova campagna militare, per affermarsi come arbitro degli affari italiani e distruggere la minaccia del potere francese. Urgentissima fu la sua determinazione a recuperare Ferrara per la Chiesa e, a tal fine, il passo di scomunicare Alfonso d’Este e dichiarare tutti i suoi beni confiscati fu effettuato il 9 agosto. L’effettiva decisione di andare a nord sembra essere stata presa in tempi relativamente brevi, come indicherebbe una lettera di Michelangelo: Lasciando Roma il 1 settembre, il papa viaggiò con grande velocità e un’urgenza molto diversa dal ritmo relativamente tranquillo del viaggio del 1506. Non c’era più tempo per le gite in barca sul Lago Trasimeno. Mentre il viaggio precedente per attaccare Bologna era durato più di due mesi e mezzo, questo si è svolto in tre settimane, con l’ingresso trionfante del papa a Bologna il 22 settembre, rievocando eventi di quattro anni prima. Forse indebolito dal viaggio estenuante in condizioni meteorologiche avverse, Giulio si ammalò. È stato riferito che era a letto con la febbre già dal 26 settembre. Gli attacchi sarebbero continuati per tutto l’autunno. Un osservatore ha riferito che aveva la febbre ogni giorno e il 20 ottobre si temeva che stesse morendo. Ma la sua potente costituzione avrebbe resistito, una meraviglia per coloro che lo circondavano. Tuttavia, fu dichiarato che si era completamente ristabilito solo al 22 dicembre. Tuttavia, già il 2 gennaio 1511, ora barbuto pontefice, partì con un tempo spaventoso per unirsi alle truppe che assediavano Mirandola. Si sperava che la sua resa avrebbe portato alla presa di Ferrara. Settimane prima, in una lettera non datata al Buonarroto, Michelangelo informa il fratello che la prima campagna di tinteggiatura della cappella è prossima al completamento; avrà finito questa parte del soffitto entro una settimana. Una volta svelato pubblicamente, aspetta di ricevere denaro dal papa e di avere il permesso di partire per un mese a Firenze, cosa che desidera molto perché non sta molto bene. La lettera è stata probabilmente scritta in luglio o agosto e non dà alcuna indicazione che l’artista si aspettasse che il suo mecenate lo abbandonasse. L’aspettativa di Michelangelo di un ulteriore pagamento da parte del papa, ora che la prima parte del suo incarico era stata completata, era pienamente giustificata. Il suo primo pagamento di 500 ducati fino al maggio 1508 era stato seguito da un altro di 500 ducati alla fine di giugno 1509. Dato il compenso complessivo di 3.000 ducati che era stato concordato, era giustificato aspettarsi a questo punto un ulteriore pagamento di 500 ducati per segnare completamento della prima metà del suo incarico, un compenso non anticipatorio di lavoro futuro ma un compenso per il lavoro già svolto. Ma la sua aspettativa di una mostra pubblica del suo lavoro e del suo ulteriore compenso sarebbe stata delusa. Giulio aveva in mente questioni di maggiore urgenza nell’estate del 1510. Le prossime settimane sarebbero state un periodo di ansia per l’artista. Due lettere dei primi di settembre, scritte da Michelangelo subito dopo che papa Giulio aveva lasciato la città, testimoniano graficamente le sue preoccupazioni. Ha appena ricevuto una lettera del padre e, il giorno dell’arrivo, il 5 settembre, risponde subito, esprimendo viva preoccupazione per la notizia che il Buonarroto è malato. Scrive di essere pronto a venire subito a Firenze, anche se questo metterebbe a repentaglio le sue possibilità di essere pagato. Aggiunge che il papa ha lasciato Roma senza dargli alcuna istruzione e non sa cosa fare, tuttavia la sua preoccupazione per Buonarroto è fondamentale. Cerca di consolare Lodovico, assicurandogli che Dio non li ha creati per abbandonarli. Scrisse di nuovo a Lodovico due giorni dopo. Dovrebbe prelevare denaro dal suo conto a Santa Maria Nuova se è necessario per i bisogni del Buonarroto. Riesamina ancora una volta la propria situazione, riferendo ancora una volta che gli sono dovuti 500 ducati e altrettanti per erigere l’impalcatura per l’altra metà dell’opera e continuare il suo progetto. Ripete che il papa è partito senza lasciare istruzioni e che gli ha scritto. È in uno stato di apprensione nei confronti di Giulio, timoroso che il suo protettore si arrabbi se dovesse andarsene senza permesso. Nondimeno verrà a Firenze e vi rimarrà due giorni se occorrerà; gli uomini valgono più del denaro. Il testo di questa lettera testimoniava l’apprensione che papa Giulio poteva ispirare, paura non limitata al suo artista prescelto. La situazione avversa rivelata in queste lettere potrebbe aver ispirato Michelangelo a comporre quello che è uno dei suoi sonetti più problematici. Non c’è unanimità critica sulla sua data; è stato associato alla sua prima residenza a Roma e a un periodo fino al 1812. Il sonetto è un’appassionata accusa contro la venalità e l’immoralità della Roma papale. Ad un certo punto, la sua lingua fa eco a Petrarca, mentre il testo come un insieme, nella sua denuncia di Roma, ha un suono fortemente savonaroliano. Elmi e spade sono fatti di calici e il sangue di Cristo è ampiamente venduto. Le ultime sei righe colpiscono una nota profondamente personale. Qui non ha più lavoro, e il papa, descritto come “lui nel manto”, può trasformarlo in pietra come Medusa ha pietrificato Atlas. La poesia è firmata “Il tuo Michelangelo in Turchia”. Il susseguirsi degli eventi avrebbe consentito che la sua lettera al papa fosse accolta e gli fosse concesso di partire. Il 12 settembre, una settimana dopo la seconda delle sue due lettere a Lodovico, trasse dal suo conto coi Balducci 14 ducati per il suo viaggio. Avrebbe raggiunto Firenze il 17. Partito con la sua abituale precipitazione, si è trovato senza abiti adeguati e ordinava una veste con cintura e un ampio mantello, elementi necessari per l’incontro con il suo protettore. Il pagamento fu registrato dal Buonarroto nel proprio libro dei conti, fatto che suggerisce che la sua salute era migliorata. Michelangelo deve anche aver affrettato la sua partenza da Roma per vedere Lodovico a Firenze prima che partisse per assumere la carica di podestà a San Casciano, incarico che avrebbe comportato la sua assenza per sei mesi. Alla fine, non è arrivato in tempo. L’inaspettata rapidità del suo arrivo, però, metterebbe in luce la mancanza di rettitudine di Lodovico nel maneggiare il denaro che il figlio aveva inviato da Roma, episodio di cui si parlerà meglio in seguito. Michelangelo arrivò probabilmente a Bologna verso la fine di settembre, prima che la salute di Giulio peggiorasse. Sebbene le circostanze fossero diverse da quelle della fine di novembre 1506, e sebbene non apparisse “con una cavezza al collo”, il suo aspetto avrebbe potuto ricordare il suo precedente arrivo in città. Anche nelle mutate circostanze del 1510, poteva ancora essere percepito come un supplicante. Forse ha trovato ancora una volta un sostenitore in Francesco Alidosi. Nonostante il comportamento tirannico di Alidosi come governatore della città, godeva ancora della fiducia del papa. Non si sa quanto tempo rimase nella città, che era di nuovo sul piede di guerra. Scriverà al Buonarroto da Roma il 26 ottobre, comunicando che il giorno prima era stato pagato 500 ducati dal datario del papa, Lorenzo Pucci, uomo con cui avrebbe avuto a che fare in futuro. Informa il fratello che sta inviando a Firenze 450 ducati, da depositare sul suo conto di Santa Maria Nuova. Alla luce delle lamentele di un mese prima, il suo comportamento può sembrare paradossale. Ma la decisione quasi certamente implica che gli era stato promesso da Giulio altro denaro, la somma ricevuta da Pucci corrispondeva a quanto gli era dovuto per l’opera compiuta, ma non prevedeva le spese per proseguire i lavori nella cappella, la più immediata delle quali era quella per la preparazione dei ponteggi. Costruire il suo conto a Firenze è stato, ovviamente, spinto dalla sua strategia di investire in proprietà intorno alla città. Ma il trasferimento può anche essere correlato alla sua sfiducia nei confronti di tutto ciò che è romano. Quando venne a mandare un’altra somma a Firenze l’anno dopo, spiega che là il denaro è più sicuro. Che avesse ricevuto quanto gli era dovuto per l’opera compiuta è confermato da una notevole lettera indirizzatagli a Roma. L’ha scritto in un novembre nientemeno che il suo vecchio amico Angelo Manfidi, araldo del governo fiorentino, che è stato incontrato prima. Ha appreso da una lettera dell’artista che ha ricevuto parte del denaro che ha guadagnato. Esorta Michelangelo a non essere indietro nel rivendicare ciò che gli è dovuto in futuro. La lettera suggerisce che l’artista aveva discusso dei suoi problemi finanziari con Manfidi mentre era a Firenze e il suo amico sembra aver assunto il ruolo di rafforzare la sua determinazione. Le sue preoccupazioni per le sue finanze in questo momento sono dimostrate dal passo che fece per conservare la sua pretesa alla sua bottega dietro Santa Caterina delle Cavallerotte. Ma la sua preoccupazione si esprimerà nell’intraprendere un secondo viaggio a Bologna. La data della sua partenza da Roma non è nota, ma l’artista era di nuovo a Firenze il 14 dicembre ed era tornato a Roma il 7 gennaio 1511. Questa volta, i soldi giunsero ancora più lentamente e in minor somma. Il suo scontento con il suo trattamento sono espressi in una lettera al Buonarroto del 23 febbraio, scrive che potrebbe dover tornare ancora una volta a Bologna: era tornato a Roma in compagnia di Lorenzo Pucci, il quale gli aveva assicurato che tornato egli stesso a Bologna, provvederà a procurarsi i mezzi necessari per continuare la sua opera. Ora, settimane dopo, non ha sentito nulla. I mesi successivi del 1511 sono tra i più oscuri della vita di Michelangelo. In una lettera scrive che sta inviando 100 ducati a Firenze per soddisfare gli eredi del suo defunto mecenate Piccolomini il cui altare nel duomo di Siena attendeva ancora la maggior parte delle statue che aveva promesso di intraprendere nel 1501. Aggiunge che può aspettarsi niente dal papa nei prossimi sei mesi, previsione non confermata dalle prove. Non si sa in cosa fosse impegnato l’artista prima che Giulio rientrasse a Roma alla fine di giugno 1511. È stato proposto che, ferma l’impresa nella cappella, si sia messo a lavorare alla tomba del papa. Ma non ci sono prove a sostegno della congettura. Se si fosse rivolto al progetto della tomba, è improbabile che non si riferisse ad un fatto così significativo nel testo che si apprestava ad inviare al Fattucci nel dicembre 1523. La lettera era una risposta ad informazioni richieste a Roma proprio relative al suo inadempimento. Nel testo, dichiara esplicitamente che il suo tempo era perduto prima che Giulio tornasse da Bologna e solo al suo arrivo riprese il lavoro, preparando i cartoni per la seconda parte della decorazione della cappella Gli ultimi dodici mesi Il papa sessantottenne tornò a Roma alla fine di giugno del 1511. Soggiornò la notte del 26 giugno a Santa Maria del Popolo, la chiesa fatta costruire dallo zio, e il giorno dopo partì per i Palazzi Vaticani. Sebbene il percorso fosse segnato da archi di trionfo, non c’era nulla da festeggiare, poiché questa seconda spedizione si era conclusa con un totale fallimento. I francesi erano rientrati a Bologna il 23 maggio e avrebbero restaurato la famiglia Bentivoglio. Il giorno dopo, Alidosi, il più caro consigliere di Giulio, era stato assassinato per strada a Ravenna dal nipote del papa, Francesco Maria della Rovere. Era un evento celebrato da molti, pur lasciando il papa sconvolto dal dolore. Dopo aver descritto il ritorno papale attraverso la città, Paris de Grassis, che aveva accompagnato il papa durante tutto il viaggio, consegnò per iscritto il suo giudizio che l’impresa era stata gravosa e futile. La reazione di Michelangelo al ritorno del papa non è registrata. Ma gli avvenimenti degli ultimi dieci mesi devono avergli reso evidente l’entità della sua dipendenza dal protettore. Infatti, scrivendo a Lodovico poche settimane prima del ritorno di Giulio, chiede al padre di pregare per il papa, per il suo benessere e il loro. Preghiere per papa Giulio sarebbero state presto urgentemente richieste. Lo svelamento di quella che l’artista aveva definito “la parte che avevo iniziato”, l’evento che non aveva avuto luogo nella tarda estate del 1510, avvenne finalmente il 14 agosto 1511, vigilia della festa dell’Assunzione della Vergine, scelto per celebrare la dedicazione della cappella. Paris de Grassis annoterà l’evento nel suo diario affermando che il papa era presente. Raramente si nota quanto Giulio giunse vicino alla morte prima che Michelangelo riprendesse a lavorare nella cappella. Tre giorni dopo la sua partecipazione ai Vespri ebbe la ripresa di una febbre che lo aveva già turbato ai primi di agosto. La sua debolezza è peggiorata e la prospettiva della sua morte sembrava imminente. Dopo aver resistito a vedere Francesco Maria della Rovere, alla fine acconsentì. Il 24 agosto fece testamento, distribuendo a
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