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M. Papini, Arte Romana, Sintesi del corso di Archeologia

riassunto del volume di arte romana per l'esame di archeologia e storia dell'arte classica

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

In vendita dal 22/11/2019

Francesca.Benasso
Francesca.Benasso 🇮🇹

4.4

(66)

22 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica M. Papini, Arte Romana e più Sintesi del corso in PDF di Archeologia solo su Docsity! 1. È mai esistita un’arte romana?. Le arti figurative non erano sentite dai romani come una consuetudine, pensavano che fosse “cosa d’altri” ed erano molto diffidenti verso l’arte, considerata una perdita di tempo. Quando nel 212 a.C. il conquistatore di Siracusa M. Claudio Marcello portò a Roma un ricco bottino che comprendeva anche statue e quadri che emanavano la bellezza e il fascino tipici dell’arte greca, fu accusato di aver riempito Roma di inutili frivolezze. Solo dopo le guerre puniche la civiltà contadina romana si aprì al bello dell’arte greca. Tuttavia le arti greche avevano conquistato il rustico Lazio molto prima. Dalla fine del secolo IX d.C. in Italia le ondate di cultura greca furono molte. Le influenze non furono passivamente subite, ma adattate a tradizioni e a condizioni storiche e sociali degli ambienti ospitanti e riformulate. Dal secolo IV a.C. Roma entra in contatto direttamente con diversi ambiti greci in Italia meridionale, in Sicilia e poi in Grecia. Il loro rapporto fu basilare sin dalle origini, tuttavia Roma, città latina, fu sì grecizzata, ma non greca ed ebbe un’identità composita e plurale. A Roma l’arte è fatta di correnti del tutto diseguali, di origine non ben definita, in bilico fra la ricezione di modelli greci secondo un gusto neoclassico e un realismo popolare spesso crudo. La concezione artistica più autenticamente romana si trova nell’inclinazione cronachistica e in uno spirito più concretamente terreno che divino, più storico e attuale che mitico, in sostanza più utilitaristico (come quello espressosi nella costruzione di acquedotti, ponti, magazzini, terme) che dedito a una fruizione estetica delle opere. Per Arte romana, per pura convenzione, si intendono le produzioni a Roma ed entro i confini dello Stato romano lungo la sua durata nel tempo. Per quanto riguarda i confini cronologici al di là delle diverse opinioni degli studiosi, la storia dell’arte, almeno per Roma e l’Italia, abbraccia approssimativamente i secoli dalla cultura materiale laziale del secolo X a.C. sino ai mosaici di S. Vitale a Ravenna (547 d.C. circa fig 1-3 p 8). I confini geografici si estendono dall’Urbe al vasto territorio dell’impero, le periferie, caratterizzate da un’estrema varietà di ambienti multietnici e culturali. L’arte romana si fonde con le tradizioni dei vari territori che erano sotto l’impero romano, ma che conservavano anche le loro tradizioni e i loro costumi. Vediamo infatti il Sarcofago di Palmyra fig 4 p 10 in cui il defunto rappresentato sul coperchio del sarcofago indossa vesti partiche, mentre su un lato della cassa indossa tunica e toga tipiche dei cittadini romani, ma non porta il capo velato come essi. Il Lenzuolo funebre da Saqqara fig 5 p11 mostra il defunto con il viso incorniciato da una folta acconciatura di moda in età antoniniana ed è ritratto secondo la tradizione greco-romana, mentre al suo fianco il dio Anubi e la mummia, nell’iconografia di Osiride, sono raffigurati alla maniera egizia. Nel territorio dell’Impero circolavano le stesse formule iconografiche per temi ripetitivi, tuttavia le stesse immagini ebbero declinazioni diverse di luogo in luogo sia per la diversità dei committenti sia per le tradizioni artigianali con differenti capacità tecniche. L’arte romana è stata considerata a lungo, condizionata dalle posizioni di Winckelmann, una degenerazione dell’arte greca già partire dalla morte di Alessandro Magno. Fu la Scuola di Vienna a fine 800 a rivalutare l’arte romana e a riconoscerle un processo non di degenerazione della perfezione greca, bensì di sviluppo (Franz Wickhoff). Riegl nel 1901 proseguì sulla via della rivalutazione dell’arte romana con il concetto di Kunstwollen, una legge sistematica e suprema ricavabile dalla considerazione dell’oggetto come forma e colore nel piano e nello spazio, indipendentemente dallo scopo utilitario, dalla tecnica e dalla materia prima. Per Riegl il Kunstwollen degli Antichi progredì in tre stadi: il primo, tattile, per una visione da vicino senza scorci e ombre, con l’accento su contorni per quanto possibile simmetrici (arte egiziana); il secondo, tattile-ottico, per una visione normale a metà tra una da vicino e una da lontano, con un collegamento delle cose aggettanti con il piano di fondo e con l’introduzione di ombre mai profonde dal compito tattile, ossia per delimitare le superfici parziali (arte greca, ellenistica e arte del primo periodo imperiale); il terzo, puramente ottico per una visione a distanza, da 1 Costantino in poi, con un proprio autonomo Kunstwollen completamente positivo. Dopo le teorie di Riegl ogni ragionamento sul riconoscimento di una forza specificatamente italica e romana nonché aliena da influssi greci è cessato poco a poco. Tuttavia resistevano vecchi cliché. Nel 1964 Ranuccio Bianchi Bandinelli denunciava l’assenza di metodi consoni per affrontare il problema relativo alla storia dell’arte romana per più cause: il suo proverbiale relegamento in una sfera subordinata alla greca; l’oggettiva difficoltà nel potere ridurre a un discorso logico, quindi storico, un fenomeno discontinuo e differenziato; la lentezza con cui era stato accolto a livello italiano e internazionale lo sforzo di rivalutazione compiuto dalla Scuola di Vienna per uscire dagli schemi neoclassici; la persistenza di un generico concetto di decadenza. Le altre teorie: Teorie dualistiche. Le teorie dualistiche individuano due filoni all’interno dell’arte romana, con prevalenza dell’uno o dell’altro o secondo percorsi anche coesistenti ma separati. Se l’arte aulica e ufficiale della grande architettura statale è più classicistica (quindi più greca), l’arte popolare per Gerhart Rodenwaldt rispecchia la tradizione nazionale non classica, come la resa di ritratti e azioni sulle stele e are funerarie e altre opere minori. Si tratta di una corrente priva di eleganza ma espressiva, una sorta di arte provinciale dentro l’Urbe, le cui caratteristiche sono la frontalità dei personaggi principali; composizioni simmetriche rispetto a un punto centrale; dimensioni delle figure variate a seconda dell’importanza e non della prospettiva o delle proporzioni naturali; subordinazione degli elementi di contorno alle figure più importanti; resa con brio dei dettagli di azioni e oggetti. Esempio fig 8 pag 15 il rilievo funerario con una scena di corsa nel circo Massimo: le dimensioni delle figure variano a seconda della loro importanza, la testa del togato è più grande del corpo, il cavallo a destra è più piccolo del personaggio. La definizione fu rivista da Bianchi Bandinelli che valutò il termine arte popolare impreciso e ambiguo e preferì arte plebea, in contrasto ad arte aulica o ufficiale, determinazione critica e storica e non sociologica di un filone promosso da un ceto medio – la plebs – con esclusione di patrizi e senatori. E’ un filone riscontrabile nei sepolcri municipali con raffigurazioni di cortei magistratuali o ludi gladiatori e mestieri. Esempio fig 9 p 16 monumento funerario di Lusius Storax con un fregio gladiatorio e immagini di togati investiti di incarichi ufficiali sul frontone. Tale corrente, immune alle influenze dei modelli greci, qualitativamente poco apprezzabile ma più autenticamente romana, poté avere per Bianchi Bandinelli un proprio svolgimento stilistico con connessioni con il passato, il presente e il futuro, ovvero: con la tradizione preromana della penisola italica; con l’arte provinciale extraitalica; con l’arte ufficiale tardoantica, che ne costituiva una continuazione e una conseguenza. L’espressione arte plebea ha in genere prevalso su quella di arte popolare. È ormai definitivamente compiuto il superamento dell’esatta separazione tra due correnti autonome. Sono infatti significative le compenetrazioni tra l’arte plebea e quella ufficiale: singole componenti dell’arte plebea miranti all’esaltazione delle res gestae dei committenti fig 11-12 p 18 possono infiltrarsi nelle espressioni figurative più ufficiali. Di conseguenza non sono mancati negli anni tentativi di introduzione di concetti più neutri come arte sub-antica o stile presentativo. Le teorie pluralistiche hanno maggiormente valorizzato le convivenze di più indirizzi, smorzando sia le opposizioni fra greco e romano sia le idee di un Kunstwollen unitario. Tali teorie sostengono che blocchi coesi nei singoli periodi dell’arte romana sono un’illusione ma in ogni periodo si riscontrerebbe il fenomeno delle molteplicità tra i poli estremi dell’arte statale e di quella popolare, determinate da stili di genere dipendenti dai temi, dal medium adoperato e dai formati delle opere. Tuttavia anche all’interno dello stesso genere si incontrano differenze notevoli. Ciò nonostante in ogni periodo domina o sembra dominare uno stile d’epoca risultante dalla predominanza di un determinato stile di genere sugli altri. Fu Otto Brendel nel 1953 a prendere atto della varietà di libere scelte per l’espressione di aspirazioni pubbliche e sentimenti privati e delle oscillazioni di gusto. Egli fece propria la definizione di stili di genere condizionati dai soggetti delle opere, dalle loro finalità e 2 Stili. Da non confondere con le iconografie, lo stile indica l’habitus formale o la maniera complessiva di eseguire gli schemi iconografici; ed è una componente che può sia soccorrere nella definizione della cronologia dei manufatti, della loro origine geografica, delle officine e persino delle mani al loro interno, sia concorrere a comunicare significati. Per certe classi di manufatti, o persino per l’intera produzione figurativa (e architettonica) di un periodo, gli Studiosi credono di potere cogliere uno stile d’epoca: un denominatore comune da intendere come una realtà in grado di lasciare segni ovunque, su marmi, metalli, stucchi, affreschi e argille e non solo. Gli stili variavano nel tempo e potevano reagire a sperimentazioni precedenti, incidevano fattori come le relazioni con i temi e le funzioni degli oggetti nonché con gli intenti e i mutevoli gusti dei committenti; e mutevoli erano poi anche i gusti delle officine. Stile poi si abbina ad aggettivi attinti agli studi di storia dell’arte moderna, come barocco (per i rilievi dell’arco di Tito, per alcune espressioni figurative del III secolo d.C. o per le tendenze pittoriche del IV stile), ma l’aggettivo più usato in assoluto è classicistico. Classicismo. I significati di classicismo sono differenti a seconda dei manufatti (architettura inclusa). In modo disomogeneo il termine può indicare la ripresa, letterale o libera, di precisi modelli figurativi di un periodo ristretto; le composizioni pacate, equilibrate ed eleganti ricollegabili a quella tradizione; ancora, la ricezione dell’arte greca nella sua totalità; oppure, le forme naturalistiche e organiche (per esempio nel Tardoantico). Sono state rimarcate singole componenti e correnti classicistiche, piuttosto costanti ma non confondibili l’una con l’altra, che distinguono nel tempo le varie produzioni dai secoli IV-III a.C. passando per i secoli I-II d.C., per la rinascenza gallienica del secolo III d.C. e per quella teodosiana della fine del secolo IV d.C. sino alla conservazione delle immagini di dei ed eroi del secolo VII d.C. nelle argenterie. 2. Il sistema delle immagini nell’arte di età romana Le nozioni di arte popolare, arte aulica e stile d’epoca sembrano ormai prive di senso nel momento in cui l’interesse critico è rivolto verso le immagini, verso il loro potere e il loro valore in sé, non come surrogato delle parole. La svolta iconica (iconic turn o pictorial turn) sviluppatasi nel campo della visual culture nell’ultimo ventennio ha rivendicato il ruolo autonomo delle immagini, mostrando che il mondo a cui dà forma la parola è assai differente. La visual culture, inoltre, non distingue più tra arte e non arte, tra bello e brutto, tra significativo e banale, ma prende in considerazione tutto il patrimonio visivo. L’iconologia, disciplina che indaga e interpreta il significato delle immagini nel loro contesto storico, ha trasferito la propria esplorazione sul potere che queste hanno di influenzare le abitudini e i comportamenti umani. È l’inevitabile punto di arrivo di una ricerca che ha le sue origini nel mondo greco, quando le immagini erano, o volevano essere, una mimesi del vero, e quindi avere una propria vita, come una natura parallela. Il mito della nascita del ritratto a opera di una fanciulla di Corinto che, perduta d’amore per un giovane in procinto di partire per un viaggio lungo e periglioso, dall’ombra dell’amante dormiente proiettata sulla parete di casa, aveva ricavato un suo disegno a silhouette, è l’espressione diretta del significato dell’arte per i Greci. La fanciulla aveva “clonato” l’amante per tenerlo per sempre al suo fianco. I grandi artisti ne erano ben coscienti, e avevano gareggiato con la natura: “clonandola” . Il termine è oggi utilizzato per indicare tutte quelle riproduzioni digitali che hanno alterato completamente i nostri modi di vedere e percepire le immagini; ma è anche termine metaforico che denuncia un timore sotterraneo, un senso di disagio verso tutto ciò che sembra stravolgere le nostre vecchie concezioni di copia, imitazione o riproduzione secondo natura. Le immagini appaiono con una loro vita autonoma, con la capacità di sovrapporsi e di surrogare il reale. Esempi di clonazione nell’antichità: monete, ritratti, rappresentazioni storiche che sono caratterizzati da immagini stereotipate, archetipi e ripetizioni in serie. C’è una sola grande differenza rispetto al mondo contemporaneo: 5 non è rimasta quasi nessuna traccia di una visione alternativa, di una critica al potere costituito se non, evidentemente, in quelle forme di damnatio memoriae che cancellano – e/o sostituiscono – non solo i tratti facciali dei personaggi caduti in disgrazia, ma cercano di sopprimere anche la testimonianza della loro partecipazione a eventi epocali – per esempio distruggendo i monumenti da loro costruiti, o usurpandoli con la semplice erosione del loro nome e la trascrizione su di esso di un altro nome, del vincitore. A Roma l’operazione era relativamente facile perché, dalla Repubblica in poi, la rappresentazione degli eventi storici per lo più non aveva avuto carattere narrativo, ma era sintetizzata in schemi simbolici reiteranti sempre gli stessi messaggi, attraverso gli stessi mezzi di comunicazione. Solo così si spiega il riadopero, e quindi la rifunzionalizzazione dei rilievi claudi per l’arcus Novus sulla via Lata, di quelli adrianei per l’arco di Portogallo, o di altri traianei, adrianei e antoniniani per l’arco di Costantino all’inizio del secolo IV d.C.. In questo caso si trattava di alcuni tra i migliori imperatori, ma sui rilievi gli eventi storici di cui erano stati protagonisti si erano trasformati in codici semantici tranquillamente usurpabili da un altro imperatore senza che mutasse il loro significato simbolico originario, sebbene con un riferimento ad altri eventi storici. Lo studio delle forme di comunicazione attraverso le immagini ci permette di renderci conto del lavoro necessario da un lato per comprendere quale messaggio il produttore d’immagini volesse trasmettere, dall’altro per adeguarsi alla mentalità di lettura del loro destinatario. Un esempio fra tanti: l’arte romana non rappresenta mai il punto di vista dei vinti, ma solo dei vincitori, anche quando sembra percepirsi nelle immagini una sorta di simpatia nei riguardi del nemico sconfitto. La partecipazione emotiva alla loro sofferenza è frutto dell’odierna percezione, che non ha nulla a che fare con quella dei Romani che, invece, volevano enfatizzare l’ardimento dei nemici per accentuare, forse anche con una punta di esagerazione, la difficoltà dell’impresa e, di conseguenza, il valore romano. Sulle nozioni stile d’epoca, arte popolare/plebea, stili di genere. Stile d’epoca è un concetto secondo cui in ogni Stato nazionale ogni periodo storico ha avuto un suo stile specifico, nel senso che si riconoscerebbe nel linguaggio artistico un inconfondibile denominatore comune che permette di stabilire la contemporaneità di opere d’arte prive di una sicura cronologia basata su documenti incontrovertibili. Insieme con i concetti di arte aulica e arte popolare, lo stile d’epoca era una novità venutasi a costruire nell’alveo dei crescenti nazionalismi della storia europea tra i secoli XIX e XX. A un carattere specifico di un popolo, secondo la visione nazionalista, avrebbero corrisposto forme di espressione appartenenti a quel popolo e solo ad esso. Si è naturalmente discusso in cosa consistesse tale denominatore comune, senza potere giungere a una soluzione né convincente né univoca. Il concetto di Kunstwollen (“volontà artistica”), elaborato da Riegl, contiene in sé, appunto, il senso di un impulso che, indipendente dall’artista, il quale agirebbe nell’ambito dello stile d’epoca senza rendersene conto, sembra orientare tutte le produzioni di un determinato periodo storico, coinvolgendo anche quelle anonime artigianali nelle quali, anzi, lo stile appare più evidente. Il significato, che si perde nel termine italiano, nel quale l’atto di volontà è a carattere più personale, descrive ma non spiega il fenomeno che, tuttavia, permette a Riegl di giungere alla constatazione che i vari stili d’epoca non sono confrontabili tra loro, né si possono giudicare le opere d’arte di un periodo storico con il metro di giudizio formale proprio di un altro: ciò ha permesso di rivalutare alcuni periodi dell’arte romana che, nella logica del giudizio comparativo avente come pietra di paragone l’arte greca di età classica, erano considerati di decadenza. Sfera del vivere. l’esame dell’opera d’arte giudicata come parte integrante e costitutiva della coeva Lebenswelt (sfera del vivere) è un nuovo approccio critico in contrasto all’approccio 6 formale considerato sempre più spesso discutibile e comunque incapace di offrire un giudizio riferito alla mentalità dell’epoca in cui l’opera è stata realizzata. La novità consiste nell’esame globale non solo di quanto è definibile “opera d’arte”, ma di tutto quel che ha un rapporto diretto con la visualità e che, prodotto nell’ambiente in cui l’uomo vive, ne determina l’identità: non solo, quindi manufatti di qualsiasi genere preservati, ma anche la descrizione, o la memoria, di cerimonie, di rituali, di spettacoli teatrali, di eventi pubblici e privati che abbiano una forte componente visuale. Arte popolare. In un celebre articolo del 1940 l’archeologo tedesco Rodenwaldt aveva definito quelle che, secondo il suo parere, erano le differenze tra arte greca e romana, e che al giorno d’oggi potrebbero essere precisate con maggiore proprietà come differenze di mentalità: l’una, pervasa da un talora assillante naturalismo, tesa a costruire rappresentazioni secondo una ferrea logica organicistica e ipotattica, dove ogni evento è relazionato all’onnipresente mito; l’altra tendente all’astrazione e al simbolismo. Gli elementi fondanti dell’arte popolare fino al Tardoantico per Rodenwaldt sono: frontalità, composizione centralizzata, rapporto proporzionale dei personaggi secondo la loro importanza, separazione della figura principale dalla sua precipua attività, o trasformazione di tale attività ad attributo della persona. Questi elementi, che sembrano differenziare questo filone dell’arte romana da quella greca, s’incontrano più facilmente in composizioni di piccolo formato: quanto più è grande il formato, tanto più greco è il sistema d’insieme, mentre in quello più piccolo si evidenzia in modo esemplare la vitale mobilità dell’arte romana. Esempio di opera di arte popolare è il Rilievo con raffigurazione del trionfo partico di Traiano, da Praeneste Fig 1 p 46. Quasi tutte le figure sembrano voltarsi verso lo spettatore. L’imperatore è sul carro trionfale, con il torso frontale e la testa girata di tre quarti. Un servus publicus gli pone sul capo una corona gemmata. Il carro, decorato con una Vittoria alata che regge una palma e una corona, è tirato da quattro striminziti cavalli, proporzionalmente del tutto incongrui. Al fianco di questo, e in parte coperti dalla ruota, sono due littori di piccola misura. Davanti ai cavalli c’è un giovane di spalle che volge il capo verso Traiano; dietro, in duplice fila, si contano altri otto littori in veduta frontale, di misura maggiore rispetto a quelli davanti al carro, ma comunque più piccoli dell’imperatore. Uno solo si gira verso Traiano, ma complessivamente vige una rigida disposizione paratattica in duplice fila dei personaggi, dei quali è enfatizzata la testa. Seguono altre figure, di cui due, a rilievo più basso, sono di profilo, volte verso destra. Dietro questo gruppo di teste appare sullo sfondo un trofeo composto da una tunica alla cui manica è applicata una faretra. Il rilievo prenestino è una summa di elementi di solito considerati pertinenti all’arte popolare: tendenza verso la frontalità, composizione paratattica e additiva, disinteresse nei confronti delle giuste proporzioni non solo nei corpi visti singolarmente, ma anche nel rapporto tra le varie componenti del rilievo, scomparsa delle gambe e, in determinati casi, con disorganiche distorsioni degli arti. Vi si riscontrano, insomma, quei caratteri che nei monumenti pubblici di produzione urbana sono relegati per lo più alle parti decorative meno evidenti, e che invece in quelli di area municipale s’impongono in piena evidenza visiva. Stili di genere La teoria dello stile di genere è basata in parte sulla constatazione che opere d’arte realizzate nel medesimo periodo possano essere stilisticamente assai differenti. Ciò dipende dal fatto che ogni spazio temporale è multidimensionale, in quanto comprende, nello stesso arco cronologico, più di una generazione. La “non contemporaneità del contemporaneo”, secondo la definizione del medievista Wilhelm Pinder, può spiegare perché gli artisti coevi producano, nello stesso arco di tempo, opere assai spesso così diversificate stilisticamente che, se non se ne conoscesse la cronologia, si direbbero prodotte a distanza di anni se non di decenni. Il concetto di stile di genere afferma perciò che ogni genere – architettura, scultura, pittura, ma all’interno dei macro-generi, anche le entità minori, i motivi decorativi nelle architetture, gli stucchi sulle pareti e sui soffitti delle case, l’importanza gerarchica dei rilievi distribuiti su un 7 (sul modello della casa greca a pastàs). Un nuovo modello residenziale signorile, la casa ad atrio, pare comparire a Roma dalla fine del secolo VI a.C. con una serie di ambienti disposti secondo un asse principale longitudinale. Siccome tale forma, definita canonica, è attestata anche in Etruria circa nello stesso periodo, ciò può significare che la tipologia della domus poté essere elaborata già almeno alla fine del secolo VI-inizio del secolo V a.C. per poi disseminarsi e standardizzarsi sempre più nell’ambito dell’insediamento delle colonie di Roma dalla fine del secolo IV a.C. con l’Urbe nel ruolo di mediatrice. Tale forma canonica tese a scomparire dopo l’età augustea. Le più antiche menzioni di artigiani riguardano stranieri giunti in Italia centrale nel contesto del commercio aristocratico, a partire dai tre modellatori, Euchino (dalla buona mano), Diopo (colui che traguarda) ed Eugrammo (dalla buona pittura), e da un pittore, Ecfanto, i quali verso la metà del secolo VII a.C. accompagnarono il ricco mercante Damarato, padre del futuro re Tarquinio Prisco. Sotto il regno di Tarquinio Prisco, da Veio fu chiamato Vulca per la grande statua di culto del tempio di Giove Capitolino. Era l’unico artista etrusco noto per via letteraria, sappiamo anche che plasmò un Ercole in terracotta. Non stupisce il riscorso a un veiente, visto che la città da tempo aveva instaurato rapporti culturali con l’Urbe tanto da avere accolto anche il culto di Enea come fondatore. Veio deteneva infatti il primato nella coroplastica confermata dal ritrovamento nel santuario di Portonaccio di gruppi acroteriali e votivi attribuiti a diversi artefici chiamati Maestri, tra cui il Maestro del gruppo di S, Omobono autore dell’acroterio del tempio presunto di Mater Matuta con un gruppo di Ercole e Minerva fig 7 p 139. Invece il “Maestro di Apollo” ideò l’intera decorazione coroplastica del tempio nel santuario del Portonaccio caratterizzata da una selva di statue sul tetto in funzione di acroteri, raffiguranti episodi del mito. Tav 1 Poco dopo a Roma i modellatori e pittori Damofilo e Gorgaso decorarono il tempio della triade plebea sull’Aventino, Cerere, Libero e Libera, legato ad un culto officiato secondo il rito greco. Prima di allora le decorazioni dei templi erano tuscaniche, ossia dovute a maestranze etrusche. Con Damofilo e Gorgaso lo stile rimanda al mondo greco mentre tecnica, materiale e uso dei colori alla Magna Grecia. A riprova dell’”ellenizzazione” del Lazio arcaico, alla fine del secolo VI a.C., nelle iscrizioni latine la scrittura cambiò direzione per divenire destrorsa, parallelamente a quanto verificatosi in tutto il mondo greco, mutamento tanto più significativo giacché in quelle etrusche si usava invece la sinistrorsa. Sempre alla fase iniziale della Repubblica risale la Lupa Capitolina fig 8 p 141, monumento molto probabilmente pubblico a celebrazione della saga delle origini. Malgrado la proposta di una sua datazione medievale, ne sono state rimarcate le tangenze iconografiche e stilistiche con l’arte persiana, filtrate sempre dalla cultura figurativa ionica. Una terza possibilità è che l’opera sia una copia dei secoli XII-XIII riprodotta attraverso calchi appunto da un originale etrusco- italico. Dal secondo quarto del secolo V a.C. in Etruria iniziò un secolo di “crisi” che provocò una diminuzione delle possibilità rappresentative e dell’esibizione della ricchezza. La cultura figurativa sino alla metà del IV secolo a.C. accolse le coeve conquiste greche in modo non sistematico per cui la coesistenza di tante esperienze non facilita la definizione di chiare sequenze cronologiche. La critica si è avvalsa della nozione di “attardamento” per descrivere la relazione tra “centro” , il luogo delle innovazioni (la Grecia), e “periferia”, il luogo del ritardo (l’Italia). Uno dei fattori che determinò un assorbimento a singhiozzo delle novità greche in Italia fu l’infiacchimento delle committenze pubbliche, fenomeno che impedì alle officine di aggiornarsi. Neppure Roma nel secolo V a.C. poté vantare un Partenone, perché non si costruirono templi tra il 484 a.C. e il 431 a.C. 10 Le cose cambiarono con la ripresa dell’opulenza aristocratica alla fine del secolo V e l’inizio del secolo IV a.C. Da Orvieto provengono testimonianze fra le più vistose del “classico” nella coroplastica. A Falerii Veteres l’avvio intorno al 380 a.C. della più antica ceramica nella tecnica a figure rosse trasse stimolo dalla presenza di maestranze greche forse attiche e dall’importazione di vasi attici a figure rosse. Infine nella bronzistica, la “Chimera di Arezzo”, opera votiva di matrice attica, è stata accostata a una protome leonina fittile dall’officina di Fidia a Olimpia. A Roma la scarsa documentazione è compensata d alla scultura fittile ritrovata grazie alla stipe, lo scarico di oggetti offerte alle divinità giacenti sparsi in uno spazio limitato, del santuario a Lavinium . Tra questi oggetti una statua di Minerva fig 9 p 142 con un’iconografia anonima: scudo nella sinistra e spada nella destra, corpo appiattito, volto schematico, pieghe del chitone appena ondulate. Attesta la volontà di semplificazione dei modelli greci e può dare l’idea dell’aspetto di una statua di culto. Artigianato e monumenti onorari a Roma e in Italia centrale nei secoli IV-III a.C. A poco prima della metà del secolo IV a.C. risale la “cista Ficoroni” fig 10 p 143, scoperta a Praeneste e alta più di 70 cm. La cista, un contenitore di forma cilindrica destinato a custodire il corredo femminile, ha un’iscrizione che riporta il nome di un certo Novius Plautios, non l’incisore, ma il proprietario dell’officina. Fu eseguita su ordinazione di una dama prenestina, Dindia Macolnia, che donò l’oggetto alla figlia. La decorazione figurata a bulino ricalca i motivi della grande pittura greca, a cui rinvia anche il soggetto (un episodio della saga degli Argonauti) e forse della ceramica italiota che svolse un ruolo intermediario. Infine, le statuette di Libero e dei satiri sul coperchio, oltre a rivelare la popolarità dei soggetti bacchici in Italia centrale, furono in passato attribuite a un’officina etrusca. A Roma dalla seconda metà del secolo IV a.C., in seguito alla conquista della Sabina, Roma visse un periodo di crescita e di ricchezza che le consentirono di espandersi ma anche di riorganizzare gli spazi, come il foro Romano, specialmente nell’area del Comizio, luogo delle assemblee politiche, di cerimonie religiose e di funzioni giudiziarie. Alla fine del secolo IV a.C. assunse forse una forma circolare ispirandosi a modelli architettonici greci. Il Foro Romano, elevato a luogo di rappresentanza civile e politica sul modello dell’agorà greca, guadagnò in dignitas grazie alla sostituzione delle botteghe dei macellai con le tabernae dei banchieri e alla costruzione delle basiliche (Porcia e Fulvia/Emilia) funzionali allo svolgimento di attività giudiziarie, finanziarie o amministrative e atte a ospitare banchieri e commercianti. L’Urbe diventò anche un centro produttivo, soprattutto di ceramica. Produzione romane erano i piattelli del tipo Genucilia decorati a figure rosse con teste femminili di influenza italiota, i vasi cultuali a vernice nera. In tre casi compare una decorazione eccezionale con un elefante fig 11 p 145, messa in relazione con la spedizione in Italia meridionale di Pirro. L’artigianato in Italia centrale, pur spezzettato in numerose sfaccettature “dialettali”, in genere fu qualitativamente eccellente raggiungendo l’allineamento con la cultura figurativa greca. Il boom della religiosità popolare italica e latina portò all’intensificazione della pratica di dedicare nei santuari anche doni in terracotta, ex voto anatomici, raffiguranti parti del corpo umano nonché in teste spesso ricavate da matrici e, più di rado, in statue e busti, raffiguranti per lo più i dedicanti in modi non personalizzati. Le tante teste rielaborano, semplificano e impoveriscono motivi formali “prassitelici” e “lisippei”, tra cui anche la criniera leonina (anastolè) alla Alessandro fig 12 p 146. Stili pittorici Il frammento di affresco a carattere storico proveniente da una tomba dell’Esquilino mostra una tecnica “a macchia” tav 2. Gli affreschi della necropoli di Spinazzo a Paestum presentano invece figure con sicura linea di contorno e documentano l’acquisizione delle tecniche greche nella riproduzione degli effetti di luce, come nell’uso di segnare l’ombra dietro gli oggetti appesi alle pareti. 11 Nei secoli IV-III a.C. l’arte per i Romani fu uno dei mezzi più vantaggiosi per la celebrazione del potere e della religione statale: la statua di Giove sul Campidoglio è talmente grande da risultare visibile sin dal santuario di Giove Laziale sulla sommità di Monte Calvo nei Colli Albani. Sempre in quel periodo si perfezionarono specifiche tipologie rappresentative romane. Allora l’élite politica e il popolo s’impegnarono nella formazione di una memoria monumentale negli spazi pubblici mediante la dedica di templi, archi, spoglie di guerra e statue onorarie sul Campidoglio e al foro Romano, nell’area del Comizio. L’impatto dei monumenti testimoni del potere di Roma poteva crescere in occasione delle processioni funerarie o trionfali. Si eressero quindi statue onorarie in bronzo concesse dal popolo e dal senato per celebrare le vittorie militari di membri della nuova nobiltà e di personaggi benemeriti nei confronti della patria. Persino due personaggi greci, Alcibiade e Pitagora, ricevettero delle statue alle estremità del Comizio: la decisione del senato aderì al responso di un oracolo che aveva ingiunto ai romani di onorare il più valoroso e il più saggio dei Greci, esempi rispettivamente dei valori cardinali della società romana, fortitudo e sapientia. Per esempio dalla tomba gentilizia degli Scipioni proviene il grande sarcofago in peperino (roccia magmatica) a forma di ara con metope figurate del console Cornelio Scipione Barbato fig 13 p 147, che riporta in saturni l’elogio al defunto, uomo forte e sapiente. Delle statue onorarie/votive in bronzo che si andavano innalzando in quei decenni resta pochissimo, salvo il Bruto Capitolino fig 14 p 148 datato alla fine del IV sec ac. Se ancora è incerta l’origine dello scultore, i confronti con coeve opere greche consentono di stabilire che il ritratto fu prodotto da un artefice in contatto con le soluzioni del ritratto greco individuale, cui si sommarono formule proprie del bagaglio figurativo centro-italico, come la chioma appiattita e la barba con ciocche a fiammella. Nelle processioni trionfali sfilavano le tabulae triumphales, resoconti visivi dei fatti salienti di guerra, che al termine venivano deposte all’interno di templi o presentate in pubblico in modo permanente. Il sacco di Siracusa e l’età delle conquiste nel secolo II a.C. La presa di Siracusa nel 212 a.C. costituì un momento di svolta per l’ellenizzazione dell’arte e dei costumi. M. Claudio Marcello trasferì nell’Urbe statue e quadri in grande quantità in occasione della sua ovatio, una forma meno solenne di trionfo, del 211 a.C.. Da quel momento ogni trionfatore cercò di superare, con armi e opere d’arte sottratte ai nemici che andavano a ornare templi e luoghi pubblici, il predecessore. A ogni bottino di guerra si accompagnò l’infiltrazione del linguaggio figurativo e architettonico greco sia grazie agli stimoli portati dalle opere depredate sia grazie al trasferimento di artefici dall’oriente e dalla Grecia, sempre più attratti da committenze di prestigio. Con l’epoca delle vittorie in Asia Minore di L. Cornelio Scipione nel 189 a.C. e di Manlio Vulsone sui Galati nel 187 ac si fa coincidere l’introduzione della luxuria Asiatica. I Romani nel giro di cinquantasette anni, ossia sino il 133 a.C., quando Attalo III di Pergamo lasciò a Roma in eredità il suo tesoro, avrebbero imparato ad ammirare e ad amare l’opulenza straniera. Insieme alla luxuria e con l’arrivo di artefices orientali si diffusero anche le tematiche asiatiche come le celtomachie e i modelli figurativi detti pergameni”, avvertibili nella statuaria in pietra, come le figure in piperino della via Tiburtina fig 15 p 150 con soggetti non definibili, nella coroplastica templare e nelle urne volterrane. In questo periodo fu scolpita per la committenza romana una statua in pietra alta più di 2 m detta Giunone Cesi fig 16 p 151, riportabile agl’ambiente microasiatico per la resa delle pieghe del chitone e mantello, per le proporzioni e la presenza di un setto verticale sulla nuca, dettaglio ricorrente nei ritratti del I sec ac. Grazie alle diverse vittorie riportate nel mondo greco sino al 146 a.C., anno della distruzione di Corinto e Cartagine, Roma partecipò a un orientamento già nato nelle corti ellenistiche che aveva portato alla rivalorizzazione della Grecia e di Atene come centro culturale. L. Emilio Paolo 12 Questa nuova visione è direttamente legata alla concezione della nuova età dell’oro, uno dei motivi decisivi augustei. La stessa formula linguistica si riscontra in una lunga serie di rilievi di diverso formato che dovevano decorare le pareti di lussuose domus e ville in luogo di affreschi o di dipinti, con raffigurazioni a carattere ora mitologico, ora pastorale, comunque in un ambiente naturale. In questo ambito culturale hanno origine i rilievi “Grimani” fig 15 p 181 pertinenti a un ninfeo realizzato nel foro di Praeneste ed applicati sulla pareti insieme ai calendari riformati, con la rappresentazione di femmine di animali domestici e selvaggi con la loro prole. Viene qui rappresentato l’amore materno in maniera simbolica all’interno del discorso augusteo della pace e della fertilità. Dal punto di vista artistico i pannelli raggiungo un’elevata qualità artistica. Sebbene si possa riconoscere una derivazione da modelli greci, è chiara la capacità degli artisti di età augustea nell’utilizzo di spunti della tradizione per giungere a soluzioni del tutto innovative. La cultura augustea, insomma, non è “classicistica”, ma nei suoi momenti più alti modifica i codici artistici desunti dalla tradizione greca rinnovandone il significato e procedendo alla costruzione di una nuova forma “classica” rispondendo al concetto di decor, dignità. Naturalmente i Romani in età giulio-claudia fecero largo uso nelle loro dimore di originali greci e di copie da opere illustri greche, per innestarle però in un differente contesto che ne mutava l’originaria valenza e funzione. I rilievi funerari attici e ionici venero così inseriti in giardini e Horti. L’imitazione però non è mai fine a se stessa ma costruisce nuovi legami con la tradizione. Nei casi più interessanti l’imitazione diventa emulazione, volontà di realizzare qualcosa che possa essere di pari livello, se non superiore, sotto il profilo artistico, al modello. Gli artisti in età romana attinsero da tutto il repertorio figurativo greco, dall’età arcaica fino alla piena età ellenistica. I Romani considerarono che la forma arcaica fosse la più idonea a rappresentare i principali dei dell’Olimpo e la personificazione di concetti astratti come la Spes. Su alcuni rilievi la triade delia: Apollo, Diana, Latona è rappresentata alla maniera arcaica, eppure la componente arcaica, sebbene dominante, è ridimensionata in virtù dell’elaborazione naturalistica del panneggio e del complessivo decorativismo formale. Probabilmente questo modo di procedere ha le sue premesse nella produzione delle scuole di Pasitele e Ancesilao sviluppatasi nell’età di Pompeo e Cesare ma attive anche nell’età augustea. Stefano, allievo di Pasitele, ha firmato la statua di un efebo fig 16 p 182 a lungo considerata copia di un originale greco di stile severo ma un’analisi dettagliata l’ha interpretata come un’emulazione di modelli greci con un’interpretazione innovativa per l’allungamento degli arti e la morbidezza della struttura anatomica. Così il gruppo di Oreste ed Elettra fig 17 p 183. Nell’ambito di questa tradizione artistica si potrebbero inserire anche il celebre “Spinario” in bronzo e la Venere dell’Esquilino (cap 3 fig 22 p 93) una figura giovanile dalle forme piene rappresentata con efficace naturalismo mentre esce dall’acqua annodandosi una fascia intorno al capo. In ambedue i casi i corpi derivano da modelli di età ellenistica, ma i volti dipendono da modelli di stile severo. Si tratta di risultati complessi, amalgama di stili di epoche differenti. Anche dove la copia è fedele nei minimi dettagli, come nella riproduzione delle due Korai della loggetta dell’Eretteo dell’acropoli di Atene per la decorazione dei portici del foro di augusto, il risultato non coincide con quello delle opere originali. Queste infatti vengono estrapolate dal loro contesto e fra esse viene inserito il clipeo con la testa di Giove Ammone fig 18-19 p 184, forse opera di maestranze rodie ed espressione della tradizione patetica di età ellenistica. Le copie assumono un differente significato e impongono alla piazza un senso di sacralità e pace. L’arte augustea è quindi il risultato di un impasto di molte componenti di matrice greca, non solo il gusto per il patetismo. Simili componenti sono comunque miscelate di modo che il risultato artistico è di profondo controllo e misura. Durante il secolo I a.C. il gusto per forme patetiche a Roma aveva subìto forse un ridimensionamento con la 15 diffusione della corrente neoattica, ma non era mai stato rimosso del tutto. Un linguaggio tendente al “barocco” fu adottato per quei soggetti che la cultura artistica di derivazione neoattica non era capace di rappresentare in modo efficace, come nella decorazione dei giardini delle ville tardo repubblicane, dove l’effetto scenografico per stupire gli astanti fece uso di strumenti artistici già collaudati in età ellenistica. Negli horti del politico e oratore C. Asinio Pollione potevano trovarsi sculture colossali di artisti di Rodi, tra cui il supplizio di Dirce di Apollonio e Taurisco di Tralles in Asia Minore, identificabile con il “Toro Farnese” fig 20 p 185. Si tratta una fastosa macchina teatrale in un unico blocco di marmo che nelle figure associa elementi della più pura tradizione patetica con altri di tradizione classica e altri ancora derivati dalla tradizione idillico-sacrale. Qualche tempo dopo Tiberio, tornato dal suo ritiro a Rodi nel 2 dc, prima di essere adottato da Augusto, abitò negli horti di Mecenate e revisionò l’assetto dei giardini con l’inserimento di opere di artisti di scuola rodia. Negli horti entrarono probabilmente Laocoonte di Agesandro, Atanodoro e Polidoro fig web 6C e forse un gruppo con la rappresentazione della gara tra Apollo e Marsia di cui è pervenuta la testa del sileno fig web 6D. A Sperlonga Tiberio assegnò ad artisti rodi la realizzazione di gruppi statuari con scene mitiche aventi per principale protagonista Ulisse, a cui lavorarono i tre artisti. La componente ellenistica nella decorazione di ninfei non venne meno in età claudia. L’eco dell’arte microsiatica non era dunque spenta in età augustea. Se minore nel campo dell’arte statale, ne è comunque avvertibile la presenza nell’Ara Pacis e nella Gemma Augustea Tav 20. Rilievi di statali a Roma dalla dinastia claudia alla dinastia flavia. Nei pochi rilievi attribuibili a monumenti pubblici degli imperatori della gens Claudia, il linguaggio figurativo augusteo sembra avere subìto alcune variazioni formali, come nel caso di quelli pertinenti a un grande altare monumentale e all’arco dedicati all’imperatore Claudio. Come sull’ara Pacis, alla quale si doveva avvicinare anche per le misure, la processione sul fregio principale del recinto dell’altare, detto ara pietatis, rappresentava il ritorno di Claudio a Roma nel 43 d.C., dopo la trionfale campagna bellica in Britannia. L’imperatore è ricevuto dai principali esponenti del senato che lo conducono, attraverso un percorso tra i monumenti sacri del Palatino e del foro Romano, rappresentati sul fondo in maniera schematica ma precisa nei dettagli, come le decorazioni frontonali, fino al tempio di Marte Ultore nel foro di Augusto, dove si svolge la cerimonia del sacrificio di un toro fig 24 p 188. Il confronto con l’ara Pacis permette di riconoscere con maggiore chiarezza l’evoluzione del linguaggio formale verso una maggiore vivacità d’impostazione delle figure su più piani e verso un loro inserimento entro un contesto ambientale più articolato, e non più solo su fondo neutro. Siamo ovviamente lontani dalla raffigurazione di personaggi in un paesaggio secondo le giuste proporzioni con l’adozione di una prospettiva lineare, che sarà una conquista del Rinascimento fiorentino, che l’arte romana non applicò mai se non parzialmente negli affreschi del II stile maturo. Le figure, alte quanto il rilievo, sono pari se non superiori di misura ai templi sul fondo e l’ambiente è costruito in chiave più simbolica che naturale. Si avverte comunque un diverso modo di pensare il rilievo, con il tentativo di offrire un maggiore respiro atmosferico, che avrebbe condotto entro pochi decenni ai risultati dei pannelli sull’arco di Tito. I frammenti di rilievi attribuii all’arco dedicato a Nerone sul Campidoglio proseguivano lungo il medesimo percorso. Tra gli altri frammenti rimane una testa barbuta di un uomo partico forse pertinente ad un pannello che rappresentava un trofeo al quale erano affiancati gli sconfitti che alzavano in maniera patetica i volti con occhi infossati. Di tutt’altro stile sono i pannelli dell’arco sul versante settentrionale del Palatino eretto, come recita l’iscrizione, per il divo Tito, probabilmente tra l’82 e il 90 d.C. fig 25/26 p 189/190: un monumento dunque di consecratiofig web 10F e non trionfale. Infatti ambedue i pannelli del fornice raffigurano il trionfo giudaico, senza la presenza di Vespasiano. Le figure si protendono dal fondo del rilievo con maggiore autonomia e con volumi più corposi, 16 superando anche lo schema comune della distribuzione secondo file regolari e con una scansione uniforme. La grande novità rispetto al passato, però, è che i personaggi, a esclusione di Tito sulla quadriga fig 26 A a p 190, non coprono l’intero campo del rilievo, ma poco più della metà, cosicché circa un terzo dello spazio superiore è vuoto o coperto dai fasci o dal bottino di guerra trasportato in trionfo. La porta Trionfale è raffigurata in uno dei rilievi di scorcio fig 26B sotto cui passa la processione che dà l’impressione di piegare verso il fondo. Tutto ciò crea un effetto di maggiore profondità rispetto ai rilievi giulio-claudi e un respiro atmosferico che sembra preludere a un pieno rinnovamento della concezione spaziale del rilievo: un aggiornamento del linguaggio figurativo che però l’arte romana seguente non ebbe il coraggio di attuare fino alle sue ultime conseguenze. La ritrattistica imperiale. I tipi di Augusto: le prime forme di comunicazione di Ottaviano in campo artistico si mossero nell’ambito della tradizione degli ottimati romani, influenzata dai modelli patetici di derivazione greco-ellenica. - I primi ritratti, i tipi “Béziers/Spoleto” fig web 6G e “Lucus Feroniae” fig web 6H, realizzati dopo il suo arrivo a Roma, mostrano un viso magro e ossuto, occhi piccoli e infossati, collo piegato di lato e verso l’alto e capigliatura agitata con ciocche a fiammelle disposte in ordine apparentemente disordinato, secondo uno schema di diretta derivazione da Alessandro Magno. - Anche il terzo tipo ritrattistico, il più diffuso tra i ritratti giovanili e noto come tipo “Alcudia” fig 27 p 191, presenta caratteristiche analoghe, sebbene si noti una maggiore distensione dei tratti facciali. Pur non avendo una statua intera di Ottaviano, l’iconografia d’insieme utilizza le immagini tradizionali in toga, proprie del magistrato, quelle in nudità, quelle loricate, infine, quelle equestri. Alcune di questi tipi statuari avevano già una storia locale, anche il tipo in nudità, detta eroica, nelle due varianti con e senza mantello. A Roma l’accentuazione delle forme “realistiche” dei volti, la cui caratterizzazione in Grecia è più attenuata, crea un effetto stridente a danno della migliore fusione formale delle teste con corpo giovanili e atletici. La battaglia di Azio e la seguente conquista di Alessandria segnano come uno spartiacque nei modi di rappresentazione di Ottaviano. S’impone l’uso, che diverrà costante nella ritrattistica imperiale, di procedere a variazioni iconografiche dell’immagine del principe non tanto come segno tangibile del passaggio del tempo, quanto come memoria di eventi di particolare significato: la celebrazione del trionfo, del ritorno a Roma, dei dieci anni e dei vent’anni di principato e così via. - Agli anni 31 e 29 a.C. è stato di recente attribuito il ritratto tipo “Louvre MA 1280” fig 28 p 192, nel quale la forte tensione che caratterizzava i ritratti precedenti è assai ridotta. Gli elementi distintivi del volto, di un uomo però ormai maturo, ci sono ancora tutti, ma appare come una pacata pensosità, un equilibrio, accentuato dalla chioma non più ribelle, ma con una frangia ben ordinata, a ciocche regolari, che sottolinea l’acquisita coscienza del proprio compito di pacificazione. - L’ultimo ritratto (il tipo “Prima Porta”) creato quando Ottaviano prende il titolo di Augusto, mostra un fondamentale mutamento di direzione. Il volto ridiventa giovanile, ma perde i tratti fisionomici più dissonanti, attutiti in una visione ammorbidita e regolarizzata. La capigliatura è meno agitata rispetto ai tipi ritrattistici precedenti e sottomessa a uno schema preciso, con il gioco dei ciuffi che si dispongono con andamento a forbice o a tenaglia sulla fronte. Si è voluto vedere in questo ritratto un tentativo di adeguamento dell’immagine del principe a quella del Doriforo di Policleto soprattutto per quanto riguarda l’Augusto dalla Villa Livia a Prima Porta fig 29 p 193 che mostra il principe loricato in atto di sollevare il braccio in procinto di parlare agli astanti. Sulla corazza compare la raffigurazione della riconsegna ai Romani, personificati da Marte, dei vessilli perduti da Crasso durante la battaglia di Carre contro i Parti. Vi sono diverse figure di contorno che portano l’evento in una dimensione cosmica: la quadriga del Sole, la personificazione della rugiada, l’Aurora, Apollo sul dorso del grifo alato e Diana sulla cerva. Nel 17 bianco crema, ulteriormente delimitate da una spessa fascia nera Tav 9. Così come i quadretti paesaggistici in miniatura su fondo nero nella sala nera Tav 10. In tale fase compare un nuovo sistema decorativo che sembra sfondare le pareti delle stanze con la rappresentazione di giardini dietro semplici e basse staccionate. L’esempio migliore è rappresentato dalla sala sotterranea della villa di Livia a prima Porta in cui alberi di colore verde scuro, carichi di frutti e fiori, fanno da barriera a piante di colore più chiaro e al cielo azzurro. Lo sbarramento non permette di scrutare l’orizzonte facendo mancare la profondità spaziale, come un riferimento ad un mondo paradisiaco e irraggiungibile Tav 11. Altro esempio è la casa del Bracciale d’oro a Pompei fig 32 pag 200 e tav 24. Nulla nell’arte di età augustea esprime meglio la concezione della nuova “classicità” dell’epoca come la pittura di III stile, nella sua squisita coerenza geometrica, nel suo raffinato decorativismo che diventerà di maniera solo nelle sue ultime propaggini. - Il IV stile nasce dal precedente con un’ abbondanza decorativa che non ha più la misura classica della decorazione augustea. Rispetto agli stili precedenti non c’è neppure omogeneità di schemi figurativi, al punto che risulta difficile descriverne le componenti essenziali. Si ritrovano in parte architetture con carattere bidimensionale come nel III stile con spazi intermedi dipinti con elementi decorativi. In altri casi si ritrovano figure più grandi di non facile interpretazione o si riprende l’effetto illusorio della quinta teatrale addirittura con la presenza di personaggi del mito greco o della tragedia , come per esempio a Pompei nella casa di Pinario Ceriale, su una cui parete appaiono i personaggi mitici dell’Ifigenia in Tauride. È una pittura che dà il meglio di sé nel dettaglio ornamentale con festoni vegetali e girali. Vediamo per esempio il padiglione della domus aurea tav 13 nella decorazione del criptoportico o la Palestra di Ercolano dove sembrano essere ripresi alcuni motivi architettonici del II stile ma con sovrabbondanza decorativa. Altrettanto significativi sono gli affreschi rinvenuti in un settore del colle Oppio sotto le Terme di Traiano. Di estrema importanza è la veduta ad affresco che costituisce dei rari esempi di pittura corografica, che nel rappresentare brevi porzioni di territorio con una precisa adesione alla realtà, a funzione quindi più geografica che artistica, adopera la tecnica della topographia. Raffigura una città spopolata della quale si scorgono a basso volo d’uccello le mura, il porto con una darsena laterale, un’acropoli affacciata sul mare, un teatro con un tempio di Apollo, quartieri di abitazioni affiancati alle mura e due piazzali, uno dietro il teatro circondato da case, l’altro, un quadriportico con un tempio sul fondo alla maniera del templum Pacis tav 14. Si tratta quindi di un’immagine documento di una città romana con dettagli preziosi e con l’inserimento nel tessuto più antico di strutture monumentali più aggiornate come il teatro o il quadriportico. Ancora, a un grandioso ninfeo, o meglio ancora a un ambiente destinato forse ad audizioni poetiche e musicali, un museum, è invece pertinente una parete interamente rivestita a mosaico di tessere in pasta vitrea con una partizione decorativa di IV stile, simile agli affreschi della Casa del Pinario Ceriale a Pompei o ad alcuni della domus Aurea. 7. Il secolo II d.C. e i “buoni imperatori” Con Traiano, Adriano, Antonino Pio e Marco Aurelio si ebbe un secolo di pace e prosperità. Il dominio romano si consolidò e si garantì l’ordine interno. Fu un secolo di grande fioritura architettonica e artistica. Due i monumenti emblematici dell’epoca: il Tempio di Venere a Roma, il più grande mai realizzato, dedicato del 135 dc, e la decorazione l’Hadrianeum. Traiano e il “Maestro della colonna Traiana”. Traiano (98-117) si concentrò su molti progetti come l’ampliamento del circo Massimo, il potenziamento della rete stradale e dei porti, con conseguente intensificazione dei traffici e regolarizzazione del flusso di derrate alimentari verso l’Urbe. Traiano fu anche un imperatore-soldato che avviò una politica imperialistica aggressiva. Due guerre daciche divennero la principale fonte di finanziamento della costosa politica interna. Grazie al favoloso bottino fu costruito il foro di Traiano, con la colonna al suo interno fig 3 p 20 207, eretta per decisione del senato e del popolo su iniziativa dell’imperatore. Il foro do Traiano fu inaugurato nel 112, nella zona nord presentava la basilica Ulpia, sede dell’amministrazione della giustizia civile e penale, e due biblioteche, una greca e una latina. Tra queste due costruzioni fu eretta la colonna traiana, composta da ventinove rocchi monolitici in marmo di Luni, il suo basamento si sviluppava per 6 m circa e presentava l’altezza straordinaria, con toro e capitello dorico compresi, di 100 piedi circa. La colonna, inaugurata nel 113, è chiamata “coclide” (alla lettera “a chiocciola”) per la presenza di una scala ellittica all’interno e per lo sviluppo del fregio che lo decorava. La colonna s’inscriveva nella tradizione già repubblicana della colonna onoraria, qui coronata dalla statua loricata in bronzo di Traiano. Fu un monumento celebrativo dell’imperatore: sul fregio ricorre quasi sessanta volte, quasi sempre di profilo e a piedi e in lorica, in plurimi ruoli, religioso, civile e militare. I rilievi disposti “a nastro” costituirono un equivalente visivo dei Commentarii de bello Dacico redatti dall’imperatore in persona. Dopo la morte dell’imperatore fu anche monumento funebre, le sue ceneri furono collocate dentro un’urna d’oro in una camera ricavata nel basamento, decorato all’esterno con cataste di armi appartenenti ai vinti. L’ornamento della colonna, invisibile fuori dal foro, fu frutto di una decisione eccezionale e senza precedenti, in grado di generare una tradizione viva sino al secolo IV d.C.. Sul fregio a 23 spire i rilievi narrano, dal basso verso l’alto in ordine cronologico e con illusione di continuità, lo svolgimento delle campagne militari in Dacia, con 2570 figure. Non si tratta di una riproduzione fotografica degli eventi ma una rielaborazione grazie al ricorso di temi topici celebrativi dell’ideologia imperiale: discorsi ufficiali, sacrifici fig 4 p 208, esaltazione dell’organizzazione dell’esercito, battaglie. Nelle scene vi sono alcune corrispondenze verticali che le uniscono come la Vittoria alata fig 5 pag 209 vestita di chitone e mantello che scrive sullo scudo i successi di Traiano, che separa la prima dalla seconda campagna e il suicidio di Decebalo, re dei Daci fig 7-6 pag 209.210, punto culminante del fregio. Risulta comunque difficile la leggibilità dei rilievi, visibili dal suolo e solo fino alla sesta spira. È ormai un luogo comune il confronto con il fregio della cella nel Partenone, altrettanto poco visibile, fuori e dentro il colonnato, per l’elevata altezza e la penombra della stretta peristasi. Qualche critico vi ha perciò intravisto la libertà di un artista che, sciolto da obblighi verso il committente, lavorò solo per se stesso. Altri vi hanno letto una rappresentazione che non informava, ma esprimeva il fasto e la gloria del principe al cospetto del cielo e del tempo. Tuttavia per un fruitore antico la colonna era un monumento, leggibile per segmenti grazie alla ricorrenza e alla ridondanza delle scene, che mirava insieme al foro a impressionare con la rappresentazione di grandi imprese senza imporre di girare intorno ventitré volte. Per il progetto disegnativo preliminare è stato chiamato in causa l’ingegnere militare e architetto del foro Apollodoro di Damasco oppure in modo più neutro il “Maestro delle imprese di Traiano”: per Bianchi Bandinelli una grande personalità responsabile dell’inizio dell’arte romana più tipica e vera. Le figure dei morti e dei morenti avrebbero fornito al Maestro l’occasione per le immagini meglio riuscite, come per esempio il suicidio collettivo dei Daci fig 7 p 210, generando un equivoco di compassione per i vinti. Si tratta invece di una tendenza figurativa , già diffusa in età ellenistica, che privilegia l’espressione tragica dei sentimenti per suscitare impressioni forti, visualizzando il topos del furore eccessivo, della disperazione e del panico dei barbari contro la violenza razionale dei romani. Di fronte alla superiorità dei vinvitori non poteva esserci pietà per i vinti, quindi era impossibile che i romani potessero commuoversi di fronte a queste immagini. Arriva il “Graeculus”: Adriano. Adriano (117-138) fece costruire innumerevoli opere, con un’organizzazione quasi militare di tutti i mestieri legati all’edilizia, senza mai fare iscrivere il proprio nome a eccezione del tempio dedicato al padre Traiano. Restaurò il Pantheon fig 8 p 212 rispettando l’orientamento dell’edificio precedente. All’interno furono utilizzati marmi colorati preziosi: porfido dall’Egitto, giallo antico dalla Numidia, pavonazzetto dalla Frigia, serpentino dal Peloponneso, verde antico dalla Tessaglia; quanto ai marmi bianchi, il pentelico fu utilizzato 21 per le cornici, gli architravi e gli archivolti, mentre solo i capitelli sono in marmo lunense; le colonne monolitiche del portico sono in granito del Mons Claudianus in Egitto. Ad Apollodoro alcuni specialisti attribuiscono la concezione della struttura della cella circolare dal diametro pari all’altezza della cupola perfettamente emisferica in opera cementizia, articolata nella calotta interna in ventotto file di cassettoni prospetticamente ristretti verso l’alto. L’iscrizione dedicatoria del Pantheon ad Agrippa, presenta lettere di altezza unica di 70 cm, un tempo in bronzo Adriano ripristinò poi i recinti del voto, la basilica di Nettuno, molti templi, il foro di Augusto, le Terme di Agrippa, tutte le opere consacrate con i nomi degli antichi fondatori, astenendosi dall’apporre iscrizioni sulle opere pubbliche. Fu meno discreto nella fondazione di nuove città, come Adrianopoli in Tracia e Antinopoli in Egitto. Adriano fece costruire nell’ager Vaticanus, negli horti di Domizia, un mausoleo diverso da quello di Augusto, malgrado la coincidenza dei diametri fig 9 p 213: la struttura, ad aggiornamento della tradizione tipologica ellenistica dei sepolcri dinastici, constava di un basamento quadrato, di un imponente tamburo cilindrico con peristasi su podio e di una rotonda centrale chiusa, coronata sulla sommità dalla quadriga bronzea dell’imperatore ed è l’attuale Castel Sant’Angelo. Adriano impresse il proprio timbro sull’Urbe, pur tenendosene distante per i continui viaggi in Occidente e Oriente dove lasciò vari segni monumentali del suo passaggio. Egli amò particolarmente Atene dove gli fu concesso il privilegio unico di una statua nella cella del Partenone a fianco della statua fidiaca di Atena Parthénos in oro e avorio. Ad Atene Adriano completò l’Olympeion , avviato fin dai tempi dei Pisistratidi e inaugurato nel 131; fondò il Panellenio, un’organizzazione dedicata ai culti di Eleusi e alla celebrazione di competizioni musicali e atletiche; è adrianea la biblioteca nel centro della città vicino all’agorà romana, un edificio con funzioni pubbliche e luogo di culto dell’imperatore. Tre esempi, benché su piani molto differenti, illustrano la perfetta fusione politico-culturale di componenti elleniche e romane. Anzitutto, secondo una tipologia elaborata nella parte greca dell’Impero, nei programmi figurativi delle statue loricate dell’imperatore fig 10 pag 214; nelle immagini della Lupa Romana che si associano all’immagine “arcaistica” di Atena attorniata da una civetta, l’animale a lei sacro, e dal serpente, che rimanda all’eroe Erittonio; nell’arco di Adriano fig 11 pag 215 ad Atene che combina la formula onoraria romana con il sistema trilitico dell’architettura ellenica. Un ulteriore segno della grecofilia di Adriano è ravvisato nella sua barba. Nella ritrattistica, già con precedenti del sec I d.C. nei volti giovanili , la barba sancì una rivoluzione per la presentazione dell’uomo di potere, destinata a durare sino ad alcune versioni dei ritratti dei tetrarchi. Adriano portava i capelli arricciati e con la barba voleva nascondere le cicatrici sul viso sin dalla nascita fig 12 p 216. Possiamo anche considerare che la barba sia un’elegante nota di grecità e di valorizzazione di quella tradizione culturale in senso generale da parte di un imperatore filellenico. Villa Adriana. Nelle varie parti della villa, ufficialmente denominata “villa Tiburtis” fig 13 pag 217, costruita su un terreno collinoso nel luogo di un precedente impianto della fine del secolo II a.C., secondo la Storia Augusta Adriano aveva fatto iscrivere i nomi più rinomati delle province e dei luoghi cui s’ispiravano le architetture come il Liceo (il ginnasio dove insegnava Aristotele), Accademia (la scuola fondata da Platone), Pritaneo (l’edificio delle più alte autorità cittadine in Grecia), Canopo (città del Basso Egitto unita ad Alessandria e celebre per un tempio di Serapide e per le feste pubbliche), Pecile (il portico sul lato nord dell’agorà di Atene), Tempe (valle del nord della Tessaglia dove si situava l’accesso all’“Elisio” greco). Non una novità, visto che sin dal secolo I a.C. tra le cerchie più ellenizzate della nobilitas era dilagata la moda di dare nomi greci alle parti delle ville. La novità stava nelle dimensioni e nella varietà degli edifici, cioè nella 22 specie a partire da Marco Aurelio fig 29 p 230 e Lucio Vero. Celebre è un busto di Commodo dove i ricci finemente cesellati contrastano con la levigatezza porcellanata del viso. Un lavoro splendido, degno di un imperatore detto di bell’aspetto, con i capelli naturalmente ricci e biondi. Dalla fine del 191 d.C., tra le varie manifestazioni di quel “commodismo” volto a costruire un principato sempre più autocratico supportato dal favore divino, l’imperatore si fece chiamare Ercole figlio di Giove; depose il costume degli imperatori per portare una pelle di leone e trasformarsi, con una clava, in Hercules Romanus – assunse anche altri epiteti straordinari come Amazonius. Come nella stilizzazione reale, anche nel busto dei Musei Capitolini fig 30 p 230 , Commodo ha la pelle di leone, clava e pomi delle Esperidi; completano la simbologia le due cornucopie incrociate, simboli di pace e abbondanza, e il globo, segno di potere ecumenico, con diversi segni zodiacali. Le lunghe guerre avevano dissanguato l’erario pubblico. Inoltre, a parte diverse carestie dagli anni sessanta in poi, un’epidemia di peste si propagò dal 165 d.C. al seguito degli eserciti che avevano combattuto contro i Parti in Oriente sotto Lucio Vero, per perdurare sino al 178-180 d.C., riprendere nel 187-188 d.C. e risvegliarsi intorno alla metà del secolo III d.C. Il secolo si chiuse poi con un grande incendio, che nel 192 d.C. devastò l’area tra foro Romano e Palatino: andarono a fuoco il templum Pacis e il tempio di Vesta. I circoli senatori pensarono ad un incendio intenzionale da parte di Commodo, il quale intendeva rifondare la città quale proprietà personale, ma il 31 dicembre del 192 d.C. fu ucciso. 8. Il secolo III d.C. e la “crisi” dell’Impero. Secolo III, dall’inizio del regno di Settimio Severo 193 all’abdicazione di Diocleziano 315, è stato definito età della crisi e della decadenza. Crisi innanzitutto istituzionale (scarsa tenuta di governo, difficili rapporti con il senato, enorme potere nelle mani dell’esercito) e di natura economica, ma anche politica (pressione dei barbari ai confini), religiosa (declino della religione tradizionale, boom del cristianesimo e delle “religioni orientali”) e demografica (ondate di pestilenza e carestie). In breve, il secolo III d.C. è ritenuto responsabile dello sgretolarsi repentino del più imponente impero della storia occidentale. Fu il secolo in cui si succedettero oltre cinquanta imperatori al governo, in cui iniziarono a cadere le frontiere dell’Impero, di pesanti sconfitte e di importanti vittorie, di perdita di centralità di Roma e delle molte sedi imperiali, di notevoli riforme. In primo luogo la costituzione di Caracalla nel 212 d.C. concesse la cittadinanza romana a tutti i cittadini nati liberi dell’Impero e ne equiparava i diritti legali. Nel 285 d.C. le riforme amministrative, governative e fiscali di Diocleziano suddivisero l’Impero in quattro parti rette da Augusti e Cesari (la tetrarchia). Distinguiamo tre periodi: - I primi quarant’anni, ai tempi della dinastia di Settimio Severo (192-235 d.C.), si presentano come continuità dell’epoca precedente e l’Impero degli Antonini; - Una brusca interruzione segna i cinquanta anni successivi e l’età definita dell’“anarchia militare” (235-284 d.C.) perché al governo si susseguirono una serie di imperatori-soldati, militari esperti sollevati al soglio imperiale dai propri legionari; - I vent’anni finali e l’età tetrarchica (285-305 d.C.), videro un ulteriore cambio di passo. Anche nell’arte notiamo un mutamento formale nel III secolo con la perdita di plasticità, il disfacimento della struttura anatomica e della coesione organica delle forme, il passaggio a volumi geometrici e a superfici levigate e astratte, forme segnate da pesanti linee di contorno e da chiaroscuri fortemente contrastati. Una simile evoluzione formale non è legata a una diminuita capacità delle officine ma a un rifiuto e a una rielaborazione delle forme classiche per sperimentarne altre. 25 Secondo Bianchi Bandinelli i vari fattori di crisi della società del secolo III d.C. portarono in pochi decenni all’abbandono delle forme classiche a favore dei nuovi linguaggi ad anticipazione dell’arte bizantina. Il quadro figurativo del secolo si basa non tanto su pittura e mosaici ma principalmente sulla ritrattistica e sulla produzione di sarcofagi. Sappiamo poco degli artefici del III sec, ma diversamente dai sec I e II dominati da produzione italiche e galliche, il III sec è dominato da produzioni dall’Africa proconsolare, dove nacque Settimio Severo. L’ultima dinastia: i Severi. Settimio Severo, originario di Leptis Magna, fu acclamato imperatore a soli 39 anni. Il suo regno, durato ben diciotto anni, fu il più lungo del secolo grazie a una politica interna accorta, basata sulla pretesa di ideale continuità dinastica con la famiglia degli Antonini e un’acuta gestione dell’esercito. Settimio Severo si proclamò figlio adottivo di Marco Aurelio: vediamo infatti il suo secondo tipo ritrattistico o tipo dell’adozione che mostra un’accentuata assimilazione persino dei lineamenti del viso a quelli di Marco Aurelio fig 1 p 235 di cui barba e capelli riprendono la foggia. L’innesto sul ramo della famiglia degli Antonini è ancora molto sensibile nel nuovo ritratto, creato dopo il viaggio in Egitto nel 199-200 (tipo “Serapide”) fig 2 p 235: qui le masse dei riccioli, voluminose e ancora molto plastiche, sono pettinate sulla fronte con quattro boccoli spioventi che ricordano la divinità egizia Serapide; l’erede degli Antonini mescola così la propria immagine a quella dei prìncipi antoniniani, citando la chioma di un dio. L’intento di legittimazione coinvolgeva naturalmente tutti i membri della famiglia (moglie e figli). Fig 3 p 235 la moglie Giulia Domna si fa ritrarre con una parrucca a onde già sfoggiata dalla moglie di Commodo. Settimio Severo, consapevole dell’importanza della gloria militare si affrettò a introdurre importanti riforme riguardanti l’esercito: fu riformata la guardia pretoriana e furono erette in città imponenti caserme. In campo urbanistico mise in campo una politica di risanamento intraprendendo una vasta campagna di restauri di tutti i pubblici templi, fece erigere nuovi edifici funzionali (magazzini, terme, portici) o celebrativi. Forma urbis Romae è una pianta di Roma di enormi dimensioni incisa su lastre di marmo tra il 203 e il 211 dc, anno della morte di Settimio Severo. Originariamente erano affisse sulle pareti di un’aula del templum pacis, poste in occasione del restauro dell’edificio promosso da Settimio Severo. La pianta è orientata secondo l’uso antico con il sud est in alto e raffigura quartieri, strade, piazze, domus e insulae, edifici pubblici, templi. Utilizza una linea singola incisa per le planimetrie e una doppia per i monumenti di maggiore rilievo come le celle dei templi, gli impianti termali e i portici. Inserisce inoltre precise convenzioni grafiche per colonne, are, basi di statue, archi e acquedotti. Nel foro Romano fu inaugurato un arco a triplice fornice, svettante per più di 20 m di altezza nel punto in cui la Sacra via saliva sul Campidoglio. L’arco di Settimio Severo dedicato dal senato e dal popolo di Roma, commemorava le battaglie e le vittorie sui Parti. Due grandi iscrizioni gemelle in lettere in bronzo dorato inserite in incavi abbastanza profondi ricordano l’imperatore e i suoi figli (il nome di Geta fu poi eraso dopo la damnatio memoriae) che avevano conservato lo Stato e ingrandito l’Impero. L’intento dinastico era enfatizzato dalla presenza sull’attico di statue di bronzo dorato dell’imperatore e del figlio su un carro a 6 cavalli fiancheggiato da figure equestri. L’apparato decorativo annunciava, solo sulle fronti, una “teologia della vittoria”: immagini di soldati romani con prigionieri parti sui piedistalli; vittorie alate tropeofore e geni delle Stagioni quali segno della felicitas temporum; personificazioni di fiumi nei fornici minori, divinità, tra cui Ercole, sulle chiavi dell’arco. Sui fornici minori è scolpito un fregio con figure ad altissimo rilievo con la processione trionfale e la sottomissione dei barbari davanti alla dea Roma e sopra sono collocati 4 pannelli con la rappresentazione delle campagne in Mesopotamia, la conquista di 4 città partiche, scene di sottomissione e adlocutiones. Per il linguaggio formale la decorazione è stata considerata maldestra e riferita alla decadenza del secolo: le figure sono tozze e tarchiate, si nota una perdita complessiva di grazia, scarso 26 interesse per i rapporti spaziali delle singole figure o per gli elementi paesistici. Un’analisi più approfondita ha portato a distinguere due Maestri, uno detto antoniniano più vicino ai monumenti antoniniani e attento a una variazione nei tipi delle figure, e un altro severiano con personaggi ammassati caratterizzati da drappeggi pesanti e da una resa sommaria dei dettagli. Inizia il percorso che, solo un secolo dopo, porterà alla serialità delle forme geometriche e cubiche del fregio costantiniano dell’arco di Costantino. Settimio Severo non celebrò mail il trionfo ufficiale ma il suo ritorno fu festeggiato con spettacoli, cerimonie religiose e distribuzione di denaro. Gli altri interventi edilizi riguardarono il Palatino dove, oltre a restauri all’ippodromo-giardino della domus Augustana e sull’acquedotto, fu ampliata l’area palaziale, chiamata palatium Severi, nel settore verso il circo Massimo; si procedette alla costruzione di una quinta scenografica in forma di un fastoso ninfeo con giochi d’acqua e fontane, detto Septizodium fig 6 pag 239. Tra il 203 e il 204, banchieri e commercianti di capi bovini (argentari et negotiantes boari) votarono l’erezione di un monumento al numen di Settimio Severo e della sua famiglia, l’arco degli Argentari fig 7 p 240, un piccolo fornice architravato. Sul pannello orientale più grandi sono raffigurati Settimio Severo a capo velato in atto di offrire una libagione all’altarino; Giulia Domna con la mano destra alzata in preghiera e con il caduceo nella sinistra, in origine era presente il figlio Geta cancellato dopo la damnatio memoriae. Sul pannello occidentale Caracalla doveva essere accompagnato forse dalla moglie Plautilia e dal suocero Plauziano anch’essi cancellati. Non è eccelsa la fattura: si vede la sproporzione fra le membra delle figure tozze con teste, piedi e mani enormi, schiacciate contro il palmo di fondo del rilievo. Dal punto di vista compositivo, nei pannelli con i membri della famiglia si esaspera l’inquadratura rigidamente frontale; gli occhi sono fissi sullo spettatore. L’adozione della frontalità trasforma i personaggi in incarnazioni della maestà imperiale e i gesti compiuti divengono simboli. Sono invece differenti le figurazioni nei restanti riquadri: scene a carattere militare e soprattutto di sacrificio di un bue con personaggi disposti prevalentemente di profilo. Infine, i piccoli fregi con strumenti sacrificali ribadiscono la volontà di sottolineare la pietas dei sovrani verso gli dei. Soluzioni iconografiche non dissimili dall’“arco degli Argentari” si riscontrano nel caso di un altro monumento: l’arco dei Severi eretto tra il 205 e il 209 a Leptis Magna probabilmente dalla comunità cittadina. Ancora una volta non un arco trionfale, ma un magnifico tetrapilo onorario all’incrocio di importanti assi viari. L’apparato scultoreo , con scene cerimoniali riguardanti l’imperatore e i suoi familiari, fu eseguito con forti effetti chiaroscurali e con definizione del contorno delle figure e nel disegno del panneggio. Nell’attico nord occidentale è raffigurata la processione trionfale come simbolo della vittoria eterna degli imperatori e non come segno di un trionfo conseguito. Al centro la quadriga con Settimio Severo, Caracalla e Geta con inquadratura frontale che distorce la prospettiva complessiva . La prematura morte di Settimio Severo lasciò alla guida dell’Impero i figli, Caracalla e Geta. I loro ritratti, negli ultimi anni del regno del padre, sono volutamente indistinguibili uno dall’altro fig web 8B lasciando prevalere il concetto della concordia tra i due. I loro volti inaugurano una nuova moda, seguita per tutto il secolo dagli imperatori-soldati: barba e capelli molto corti, un enorme distacco dalla tradizione antoniniana. Una volta eliminato il fratello, Caracalla operò anche un deciso cambiamento d’immagine. Il suo ritratto più diffuso all’epoca fig 9 p 242 lo mostra estremamente energico: il collo, piegato a sinistra, doveva accentuare nelle sue intenzioni una (inesistente) somiglianza ad Alessandro Magno. Caracalla si mosse nel settore dell’arredo urbano sulle orme del padre: oltre ai lavori di restauri al Colosseo, spicca sull’Aventino, la costruzione delle thermae Antoninianae, allora il più grande complesso termale mai 27 Uno dei più celebri sarcofagi è il Grande Ludovisi fig 17 pag 249, in un blocco unico di marmo per un’altezza di 2.30 m. La fronte è decorata con un combattimento tra Romani e barbari, forse Goti, un recupero di un tema in voga in età antoniniana-protoseveriana ma passato di moda in un’epoca caratterizzata dalla forte presenza militare nell’Urbe. Le figure sono aggrovigliate e occupano tutta la superficie su 4 piani sovrapposti senza pause. Senza partecipare direttamente alla battaglia, domina al centro emergendo dal fondo un cavaliere senza elmo, segnato sulla fronte con un marchio enigmatico a X, con il braccio destro teso, identificato in passato con uno dei figli di Decio, Ostiliano o Erennio Etrusco, entrambi morti nel 251 dc.. Oggi è dubbia la committenza imperiale, si pensa più ad un legato. Gli anni dell’anarchia militare furono segnati da importanti provvedimenti in ambito religioso e da tentativi di repressione del cristianesimo con feroci persecuzioni. Simili repressioni prima di colpire il cristianesimo, erano state molto rare, il caso più noto riguarda il culto dei Baccanali a Roma e in Italia nel 186 d.C. Alcuni editti ordinavano agli abitanti dell’Impero l’esecuzione di sacrifici agli dei, pena la reclusione o la condanna a morte. Gli dei tradizionali cominciarono a impallidire, a vantaggio soprattutto delle religioni enoteiste, quelle cioè in cui un solo dio aveva la preminenza su tutti gli altri, sentite come più capaci di fornire una risposta alle ansie generalizzate dell’epoca. La circolazione di figure di predicatori di eccezionale caratura, capaci di attrarre folle, il radicamento sul territorio, oltre alla resistenza alle persecuzioni, favorirono la diffusione e l’incremento del cristianesimo, capace di proporre una visione nuova di una religione monoteista e salvifica in cui il sacro aveva una dimensione privata e non civica, riservata agli appartenenti al gruppo. Nei decenni iniziali del secolo III i primi temi cristiani sotto forma di immagini concise, più evocatrici che narrative, apparvero assieme a temi neutri (scene pastorali, di banchetto, oranti) nelle pitture delle catacombe, il cui repertorio di storie dell’Antico e del Nuovo Testamento si consolidò nel periodo della “piccola pace della chiesa” tra le persecuzioni di Valeriano (257) e Diocleziano (303-305). Da quegli anni anche le officine dei sarcofagi e delle lastre di loculo fig web 20 H iniziarono a ricorrere soggetti evidentemente cristiani (battesimo, ciclo di Giona). Di questi anni si conosce anche qualche scultura a tutto tondo come le 5 statuette dalle superfici levigate degli anni 80 del III secolo. Due di esse riproducono Giona inghiottito e poi espulso dal grande pesce fig 18 p 251 In epoca severiana erano diventati sempre più praticati anche i culti etichettati come orientali, talora radicati a Roma da parecchio tempo: divinità adorate in Egitto, Asia Minore, Siria, Persia, Tracia, in genere capaci di promettere un percorso salvifico atto a garantire una vita oltre la morte e l’instaurazione di un rapporto individuale del fedele con la divinità. Nonostante il fermento religioso nessuno dei primi imperatori-soldati sembra essere stato interessato alla costruzione di nuovi edifici sacri in città o a restauri di sacra ormai fatiscenti, né per i culti tradizionali legati alla storia più antica né tantomeno per le divinità “orientali”. Le spese si indirizzavano, in chiave demagogica, alla costruzione o al restauro di terme e balnea o del Colosseo, più volte bruciato. Diffusa in questi anni una prassi destinata a prendere piede, cioè il reimpiego di parti di rilievi di archi precedenti che venivano rielaborate adattando le fattezze ai ritratti dei nuovi imperatori. L’imperatore Gallieno, che governò dal 253 al 268, nel 260 promulgò un editto che segnava la fine della persecuzione contro i cristiani, la restituzione dei loro beni e una certa libertà di culto. L’attività edilizia promossa da Gallieno fu piuttosto limitata ma influenzata dalla sua adesione alle dottrine di Plotino. La concezione dell’anima di origine divina e la sua sopravvivenza al corpo è stata considerata determinante per la diffusione di alcuni temi su alcuni sarcofagi del III secolo. In un sarcofago destinato a un fanciullo raffigurato sul coperchio a kliné, al centro della cassa il dio plasma l’uomo con l’argilla e l’acqua fig web 8J, assistito da Atena che inserisce l’anima a forma di farfallina. Viene poi narrato il ciclo vitale dell’uomo fino alla sua morte quando l’anima vola in cielo con Mercurio. 30 Rinascenza è il termine che allude al rifiorire delle arti plastiche (ritrattistica e sarcofagi) secondo i canoni di un “classicismo” un po’ appannato nel secolo III d.C.: la materia torna dunque plastica, morbida, voluminosa, e i piani levigati, benché non senza effetti coloristici ottenuti attraverso l’abile uso del trapano. La nuova tendenza stilistica è esemplificata dal ritratto di Gallieno fig 19 p 252 secondo il tipo dell’imperatore unico. Sull’Urbe ebbero maggiore impatto i cantieri avviati sotto il regno di Aureliano (270-275). Una nuova cinta muraria lunga quasi 19 km, alta 7.80 m e in opera laterizia fu un capolavoro di ingegneria militare: nel disegno complessivo di una stella a sette punte, il suo tracciato inglobò edifici preesistenti. Dopo la costruzione delle mura, fu ampliato il pomerio. La vittoria su Zenobia, regina di Palmira, nel 272 dc, fornì l’occasione per la costruzione di un grande tempio forse dedicato nel 275 dc al Sole. L’edificio ospitava i bottini di guerra e una stata d’argento di Aureliano. Attorno si estendeva portici che custodivano botti di vino distribuito alla plebe a cadenza periodica. Venne inoltre istituito il collegio dei pontifices solis festeggiato nel giorno dell’inaugurazione (19 ottobre o 25 dicembre, data mutuata a festeggiare il Natale di Cristo) con un grande agone, l’ultimo introdotto a Roma. Verso un nuovo ordine: Diocleziano e l’età tetrarchica. Nel 286 l’ascesa al trono del dalmata Diocle, comandante di cavalleria acclamato imperatore dalle sue truppe (occasione nella quale mutò il proprio nome in Diocleziano) chiuse il cinquantennio dell’anarchia. Diocleziano divise formalmente l’Impero dapprima in due metà, grazie all’associazione di Massimiano quale Cesare e poi Augusto, poi in quattro parti, con l’aggiunta dei più giovani Costanzo Cloro e Galerio quali Cesari. L’Italia fu articolata in dodici province, Roma perse la centralità, con lo spostamento del baricentro politico-militare verso le frontiere. I ritratti dei nuovi Augusti e Cesari esprimono il nuovo mondo della tetrarchia: i loro volti si somigliano a coppie senza essere identici, espressione di una concordia di governo. I gruppi in porfido alla Biblioteca Vaticana tav 16 e a S. Marco fig 20 p 254 raffigurano rispettivamente i membri della prima e forse della seconda o terza tetrarchia. Vistose differenze emergono dalla resa dei corpi, negli attributi e nei visi. Il primo gruppo presenta ritratti con forte tendenza all’astrazione, ravvisabile nella forma cubica con grandi occhi spalancati, con pieghe nasolabiali marcate e con corte barbe nettamente delimitate sulle guance; le teste sul secondo hanno un contorno ovale e forme più armonizzate. I volti individualmente indistinti comunicano una forma di potere imperiale collettivo. I regnanti della tetrarchia non avevano legami di sangue e l’abbraccio fu perciò una trovata inedita per l’arte statale, poiché in precedenza la concordia era stata visualizzata tramite la dextrarum iunctio, cioè la stretta delle mani destre. Nonostante la perdita di centralità di Roma, gli interventi urbanistici di Diocleziano in città furono notevoli. Venne ripreso l’uso di segnare i laterizi con bolli iscritti, uso che si era perso alla fine dell’età dei Severi. Fu costruito un nuovo impianto termale, il più fastoso del mondo romano: le terme, costruite sul modello delle thermae Antoniniane ma ora capaci di una ricettività doppia, si estendevano in un’area densamente abitata che richiese espropriazioni, demolizioni e modifiche degli assi viari. Altro notevole intervento fu la risistemazione dell’area centrale del foro Romano fig 21 p 255, in gran parte interessato dall’incendio di Carino del 283: oltre che al restauro dei singoli edifici, si provvide alla risistemazione dell’intera piazza, il cui spazio centrale, ridotto, fu delimitato sui quattro lati da nuove quinte architettoniche per fungere da palcoscenico del nuovo ordine politico. In occasione dei vicennalia degli Augusti e dei decennalia dei Cesari venne eretto un monumento a cinque colonne, decorate sui quattro lati con motivi della tradizione: vittorie, processioni dei suovertaurilia, libagioni offerte dal Cesare a capo velato, sormontate dalle loro statue affiancate da Giove fig 22 p 256 . Il linguaggio stilistico accentua tendenze già viste, toghe e tuniche sono segnate da un uso abbondante del trapano, il volume di ogni figura è segnato da una profonda linea di contorno, le parti in secondo piano sono rese a rilievo negativo. 31 Per la decorazione dell’arcus Novus, eretto sulla via Lata, furono riadoperati frammenti di monumenti claudi, con minimi adattamenti nei ritratti dei tetrarchi per mezzo della rilavorazione di barba e capelli e l’aggiunta di un’iscrizione celebrativa. Nel 303, a Nicomedia, Diocleziano emanò un editto che scatenò l’ultima grande persecuzione contro i cristiani: essi poterono essere sottoposti a tortura e a qualsiasi tipo di azione legale, privati dei diritti civili e messi a morte, mentre si procedette alla distruzione delle chiese e all’incendio delle Sacre Scritture. In età costantiniana si diceva che l’insuccesso di fronte al dilagare del cristianesimo portò Domiziano all’abdicazione. Come sede di ritiro Diocleziano scelse Spalato in Dalmazia: fu qui eretto in pochi anni un palazzo di enormi dimensioni, costruito a imitazione di un castrum, con muro di cinta, torrioni e vie colonnate che partivano dalle quattro porte centrali. La morte di Costanzo Cloro nel 306 aprì il problema della successione che Costantino e Massenzio vollero reimpostare su base dinastica. Dopo quasi un ventennio di guerre civili, solo nel 324, con la definitiva vittoria di Costantino su Licino e la sua proclamazione a unico imperatore, si avviò un’altra epoca. 9. Secoli IV-VI d.C.: il Tardoantico L’età di Costantino (e dei successori): monumenti pubblici e privati. Un monumento chiave è costituito dall’arco di Costantino, dedicato a Roma dal senato e dal popolo romano presso il Colosseo, in occasione dei decennali dell’imperatore e in memoria della vittoria conseguita su Massenzio nel 312: un arco a tre fornici, di cui il centrale più ampio, e con colonne libere sulla fronte fig 5 p 268. L’iscrizione di dedica non nomina esplicitamente il nemico, Massenzio, chiamato il “tiranno”, e quale garante della vittoria chiama in causa una generica suprema divinità o la forza divina immanente in Costantino. Il monumento voluto da un senato ancora per lo più “pagano” enfatizza il legame con Sole, raffigurato su un lato breve. Secondo un costume già sperimentato l’arco ricorse al riutilizzo di materiali di spoglio da monumenti di imperatori precedenti: i “buoni” imperatori del secolo II, Traiano, Adriano e Marco Aurelio. Oltre che su parte della decorazione architettonica, il reimpiego è testimoniato dalle otto statue traianee di Daci sulla sommità delle colonne; dai quattro rilievi pertinenti al “grande fregio” traianeo sui lati corti dell'attico e all'interno del passaggio del fornice centrale; dagli otto tondi adrianei con scene di caccia posti a due a due al di sopra dei fornici minori; dagli otto rilievi aureliani visibili a due a due sull'attico ai lati dell'iscrizione. Le teste degli imperatori del fregio traianeo e dei tondi furono rilavorate nelle sembianze di Costantino e del padre Costanzo Cloro o Licinio. A un'officina costantiniana sono invece da ascrivere i tondi sui lati con il Sole e la Luna sul carro; i bassorilievi dei plinti delle colonne; le chiavi degli archi con divinità; le divinità fluviali sui fornici laterali; i busti loricati di imperatori e di divinità nei passaggi dei fornici minori. Infine, su questi ultimi e sui lati dell'arco, il lungo fregio a mezz'altezza offre eventi in sequenza: l'imperatore parte da Milano; assedia Verona e affronta vittorioso l'esercito di Massenzio a Ponte Milvio; fa il suo ingresso a Roma seduto su una cathedra sopra un carro privo di ogni caratteristica trionfale; sulla facciata volta all'interno egli tiene il discorso al popolo dai rostra nel foro Romano fig 6 p 269 e in toga cura la distribuzione di denaro al popolo. La composizione privilegia l’immediatezza espressiva e comunicativa, rendendo anche più agevole una lettura dal basso. Viene a abbandonatala concezione naturalistica a vantaggio di una simbolica e la prospettiva naturalistica a vantaggio di una ribaltata; i volti sono espressivi e sovradimensionati; domina la tendenza alla rigida frontalità e l’assunzione di proporzioni gerarchiche delle figure a seconda dell’importanza. Diversamente un’impostazione più classicistica si rileva nelle figurazioni allegoriche, nelle Vittorie sui plinti e nelle divinità fluviali. Lo spoglio di edifici più antichi a fini pratici era una prassi diffusa dalla seconda metà III d.C. e sempre più nel Tardoantico non solo per una volontà di risparmio sui costi ma anche per una 32 aveva dunque già elaborato un proprio repertorio iconografico, a cui mancarono però la coerenza e l’universalità imposte in età imperiale dalla presenza di un solo sovrano e di un unico centro di elaborazione. Non si trattò soltanto della rappresentazione di eventi storici in sé, ma anche della creazione di modelli ideologici, compositivi e iconografici, poi adottati anche nei monumenti romani adeguandoli alle mutate condizioni politiche. Per esempio la riproduzione di costumi come indicatore geografico, che in Grecia portò alla creazione di iconografie standard come la persianomachia e la galatomachia, fu sfruttata nell’arte figurativa romana per l’immagine del barbaro anche se adattata estendendo il costume galata ai Galli e ai Germani e quello persiano ai Parti e Sasanidi. Il pilastro di cui L. Emilio Paolo si appropriò a Delfi dopo Pidna per diritto di conquista può essere definito un monumento di raccordo tra arte greca e romana fig 1 p293. Collocato presso il tempio di Apollo, il pilastro divenne simbolo dell’egemonia romana in Grecia. Era infatti accompagnato da una iscrizione latina che ne prendeva possesso in nome di Emilio Paolo, sosteneva la statua equestre dorata del generale ed era completato sulla sommità da un fregio corrente su tutti i lati e raffigurante una battaglia tra Romani e Macedoni, evidentemente quella di Pidna. Il fregio era caratterizzato da un’estrema cura nel riprodurre uniformi e armi dei contendenti, tipica delle rappresentazioni storiche ellenistiche; lo sfondo neutro e la suddivisione in piccole mischie era invece influenzata dalla tradizione attica del V sec ac. Il fregio mostrava l’esito della battaglia, ma non ne raccontava lo svolgimento reale, al quale alludeva forse solo l’immagine di un cavallo “scosso” la cui fuga dalle file romane aveva dato inizio al combattimento. Al tempo di Pidna la tradizione ellenistica delle scene di battaglia era comunque già nota anche in Italia grazie al tramite delle città italiote e siceliote. In particolare nei secoli III-II a.C. la galatomachia era entrata anche nel repertorio delle urne e dei sarcofagi etruschi per alludere ai nemici gallici. Per esempio il fregio fittile del tempio di Civitalba nel Piceno, romana già dai primi decenni del secolo II ac, raffigura la fuga di guerrieri celtici carichi di bottino dopo la razzia del santuario. La raffigurazione si riallaccia alle immagini greche del sacco del santuario di Apollo delfico e costituisce un raro esempio di ricezione in Italia di un evento storico greco. I modelli d’ispirazione, scultorei o pittorici, furono così adattati per ribadire l’empietà delle popolazioni celtiche, un concetto nato a sua volta in Grecia per condannare i Galati alla sconfitta, ma facilmente applicabile anche ai Galli nel nuovo contesto della romanizzazione della penisola. Nello stesso periodo i fregi fittili continui iniziarono a ospitare rappresentazioni storiche mutuate dal repertorio pubblico anche in contesti domestici, come si vede negli atri e nei tablini di alcune ricche domus della colonia latina di Fregellae, sulle cui pareti erano inserite le lastre di terracotta raffiguranti Vittorie, trofei e battaglie terrestri e navali. Trionfo e cerimonie di Stato in età repubblicana. All’influenza dei modelli greci si aggiunse l’esigenza della nobilitas di documentare le imprese belliche sulle quali si basava il conseguimento dell’onore del trionfo e di vedere garantita nel tempo la memoria delle proprie res gestae in ogni possibile contesto. Alla base della tradizione della commemorazione storica nell’arte romana si trova la pittura trionfale, categoria comprendente i quadri su tavola raffiguranti le vicende belliche ed esibiti in pubblico durante e dopo i trionfi. Essi svolgevano la funzione insieme didascalica e documentaria di fornire l’evidenza concreta della vittoria ai cittadini romani. Essi svolgevano la funzione di fornire l’evidenza concreta della vittoria ai cittadini romani. Le immagini, realizzate spesso a breve distanza dagli eventi, dovevano riprodurre la sequenza e, se possibile, i siti delle res gestae e avevano uno scopo informativo a integrazione dei resoconti scritti dei comandanti militari. L’unico documento superstite esempio di pittura trionfale è un frammento di affresco proveniente dalla decorazione forse esterna di una tomba, databile ai primi decenni del III sec ac. Si conservano 4 registri orizzontali raffiguranti episodi forse di una guerra sannitica con 35 l’uso della proporzione gerarchica che eguaglia l’altezza dei personaggi più importanti a quella delle mura cittadine. La costruzione di una narrazione continua derivava da esperienza ellenistiche ma lo scopo di presentare l’evidenza della vittoria era un’esigenza romana. Scene cerimoniali Si affermò rapidamente anche una differente tradizione che mostrava piuttosto il rango o i doveri assolti dai protagonisti. I monumenti funerari che dovevano presentare l’intera carriera e i meriti pubblici del defunto illustravano, oltre alle consuete scene belliche, anche processioni funebri e pubbliche, cortei trionfali, sacrifici, immagini dei banchetti o dei ludi di solito gladiatori offerti al popolo. L’esposizione dei momenti cerimoniali della vita pubblica, che celebravano i ruoli civico e religioso del defunto, finirono per costituire un filone autonomo rispetto alla narrazione degli eventi di guerra vittoriosa. Per esempio nel frontone fittile trovato in via S. Gregorio a Roma, datato intorno alla metà del sec II ac e attribuito al tempio della Fortuna recipiens, la presenza di vittime sacrificali permette di riconoscere il rito sacro, probabilmente della fondazione del tempio, compiuto da un magistrato in toga alla presenza di 3 divinità. La rappresentazione fedele di una cerimonia poteva quindi costituire il fulcro del programma decorativo di un edificio, verosimilmente allo scopo di glorificare ancora di più il suo costruttore il cui ruolo era esaltato dalle divinità verso le quali rivolgeva la sua devozione. Allo stesso filone appartiene l’ara di Cn. Domizio Enobarbo che poté servire da basamento per le statue di culto forse in un tempio nel campo Marzio fig 2-3 p 296-7. Il monumento, di forma rettangolare, è decorato su ogni lato da un rilievo inquadrato da pilastrini: tre lastre illustrano un tema mitologico, il corteo nuziale di Poseidone e Anfitrite, mentre la quarta rappresenta un tema romano, lo svolgimento di un censimento, lustrum, e del sacrificio a Marte che lo accompagnava e che aveva lo scopo di purificare i partecipanti in previsione del sangue che sarebbe stato versato durante le future campagne militari. I rilievi di soggetto marittimo sono più antichi e giunsero probabilmente a Roma dalla Grecia come bottino bellico, quello censorio fu invece realizzato nell’Urbe e forse commissionato dal censore protagonista della scena, identificabile nella figura togata al centro che liba presso l’altare di Marte del Campo Marzio alla presenza dello stesso Marte in lorica. L’iconografia, molto scrupolosa nel riprodurre diversi aspetti delle procedure e dei costumi militari romani del tempo, condivide lo stesso linguaggio di molti rilievi votivi greci ellenistici, caratterizzati da una moderata gerarchia delle proporzioni. La scena riproduce i momenti salienti di una cerimonia di Stato che si ripeteva ogni cinque anni nel Campo Marzio, lo scopo dell’immagine non era di mostrare il funzionamento di una cerimonia pubblica, ma di celebrare il censore stesso, ossia il (probabile) committente del monumento, che intendeva comunicare che l’edificio era stato da lui realizzato mentre era in carica. In questo senso l’immagine benché stereotipata, non era priva di un riferimento concreto in quanto celebrava il census e il lustrum del committente, forse al culmine della sua carriera. Nel quasi generale tracollo della celebrazione storica repubblicana, risulta preziosa anche la testimonianza dell’attività dei triumviri monetali che nel corso del secolo I a.C. scelsero spesso di rappresentare le vicende delle proprie famiglie sulle monete coniate in loro nome. Riconosciamo così molte grandi figure della storia romana. Queste immagini documentano l’esistenza di un ricco patrimonio di scene storiche gentilizie, che perse di attualità in età imperiale, lasciando come eredità schemi figurativi e consuetudine a simili narrazioni. Lo stretto collegamento tra queste memorie familiari e i monumenti pubblici è inoltre documentato dal “fregio” scultoreo della basilica Emilia. Nei pannelli all’interno dell’edificio e dedicati alla rievocazione dei primordi di Roma, le scene del supplizio di Tarpea fig 4 p 298 e del ratto delle Sabine riprendevano gli stessi schemi iconografici rappresentati nelle monete coniate da Tiburio Sabino verso l’89 ac per ricordare l’origine della propria gens. La narrazione alternava scene di battaglia, di fondazione e di culto per costruire un racconto continuo di carattere eziologico delle origini della città. 36 La Roma di Augusto: un nuovo inizio. La nascita del principato e il passaggio del potere nelle mani del solo Augusto ebbero un impatto significativo anche sulla rappresentazione storica, poiché il focus della celebrazione si concentrò proprio sul princeps e sui membri della sua famiglia, riducendo in ambito pubblico la pluralità di voci. Si può parlare in questo senso di un nuovo inizio per le rappresentazioni storiche nei monumenti ufficiali da allora in poi connesse alla rappresentazione di qualità e meriti dell’imperatore.. Nell’ara Pacis, il fregio raffigurante una processione, decorava entrambi i lati lunghi del recinto esterno, probabilmente l’immagine ideale del ritorno a Roma di Augusto dal viaggio nelle province occidentali il 4 luglio del 13 a.C. Il fregio illustrava chiaramente la posizione dominante della famiglia imperiale. Se infatti Augusto era raffigurato nella parte più ufficiale del corteo, insieme ai membri dei collegi sacerdotali più importanti dello Stato, al corteo partecipavano anche tutti i suoi parenti, donne e bambini compresi. Il loro ingresso nell’iconografia di un rito era una novità per le immagini storiche ufficiali, ma l’ambizione di Augusto di fondare una dinastia rendeva i suoi familiari indispensabili alla legittimazione stessa del suo potere, la cui continuità dinastica sarebbe stata garantita proprio da loro. Anche la rappresentazione storica di Enea sacrificante e della Lupa allattante Romolo e Remo nel Lupercale, poste nei pannelli sul lato d’ingresso a ovest del recinto, ponevano l’accento sulle origini illustre della gens iulia e facevano confluire il mito romano nella sua persona. La solennità del corteo era inoltre enfatizzata anche dalla scelta di un linguaggio formale alto, ispirato all’arte classica, che si distingue da quello più didascalico del “piccolo fregio” che correva intorno all’altare posto all’interno del recinto con gli inservienti e le vittime del sacrificio. La centralità della figura del princeps e della sua famiglia appare evidente anche nella gestione della cerimonia del trionfo che Augusto sottrasse riservandola a se stesso e alla propria famiglia. L’iconografia del trionfo compare spesso nei monumenti augustei pubblici e non, ribadendo la connessione tra la famiglia giulia e la vittoria. In particolare il corteo trionfale del 29 ac guidato dall’imperatore rappresentato in quadriga, era al centro di una decorazione del grande altare del monumento eretto a Nicopoli, nello stesso luogo in cui fu posto l’accampamento di Ottaviano al momento della battaglia di Azio del 31. L’altare era posto al centro di un’area porticata e ospitava la raffigurazione di una processione trionfale, un fregio d’armi e un’amazzonomachia. In una lastra del fregio si riconosce la quadriga guidata da Augusto che portava con sé due bambini identificati con Giulia e Druso Maggiore o meglio con i figli di Cleopatra e Marco Antonio, Alessandro Helios e Cleopatra Selene fig 5 p 299: la scena era quindi un’eco immediata di quanto accaduto a Roma, segno della rapidità con cui l’evento fu celebrato e comunicato. Altre lastre mostrano il corteo trionfale formato da prigionieri, littori, cavalieri e da un gruppo di togati che mostra dipendenza dalla tradizione iconografica tradorepubblicana. Il complesso costituisce anche un importante esempio di realizzazione in provincia di un monumento di Stato decorato con rilievi storici, il primo di una lunga serie che aiutò la diffusione del messaggio imperiale. I monumenti di Stato augustei sopravvissuti sono pochi, ma in alcuni casi i loro contenuti si possono ricostruire a partire dalle scene storiche rappresentate in altri media di differente circolazione, all’interno della corte e in ambito privato. Due tazze d’argento trovate a Boscoreale riproducono iconografie del repertorio ufficiale. In una tazza fig 6 p 300 viene rappresentato il trionfo di Tiberio del 7 a.C associato a una scena di sacrificio davanti al tempio di Giove. Nella seconda tazza fig 7 p 301 il protagonista è Augusto, raffigurato due volte: sul campo, mentre accorda la sua protezione (clementia) ai figli dei barbari che avevano accettato il dominio romano e in un contesto allegorico mentre Venere gli offre una statuetta di Vittoria in presenza delle personificazioni delle province, accompagnate da Marte. La seconda scena ha valore esemplare in quanto non intende illustrare un evento concreto, mentre la prima scena si riferisce probabilmente alla visita del princeps in Gallia forse nel 13 ac. 37 l’imperatore compie l’offerta agli dei. Solo il fregio traianeo, grazie alla profondità di campo, mostra il percorso reale del corteo nello spazio e può evidenziare lo scopo del corteo, cioè la purificazione dei soldati nell’accampamento. All’estensione della spirale della colonna si oppone la sinossi del “grande fregio” di Traiano, rilievo monumentale reimpiegato in parte nell’arco di Costantino. Dai frammenti possiamo ricostruire una sequenza centrata sulla carica di cavalleria guidata da Traiano preceduta dalla scena di conquista di un villaggio dacico e seguita dal suo ingresso a Roma. Rispetto alla colonna, in cui Traiano era presentato come il generale che organizza l’esercito, lo motiva e non mette mai a rischio la sua vita in prima linea, il “grande fregio”, nello scontro equestre , riafferma la virtus personale dell’imperatore, paragonandolo ad Alessandro Magno fig 14 p 309. Il carattere più encomiastico che storico di questa immagine si deduce dalla costruzione della scena in cui non c’è alcuna resistenza dei barbari, già in fuga, ma un guerriero dace è supplice prima ancora che l’assalto si concluda. Il resoconto informativo ma non privo di elementi simbolici della colonna poteva coesistere con la rappresentazione allegorica e fortemente encomiastica del grande fregio. I due monumenti appartengono a due generi differenti paragonabili l’uno ai commentarii (colonna, narrativa) e uno ai panegirici (fregio, decorativo). Entrambi però evocavano lo stesso accadimento storico, ovvero la conquista della Dacia. -Il trofeo (Tropaeum Traiani) è il terzo importante monumento traianeo, realizzato in Mesia e dedicato a Marte Ultore nel 109 (fig web 10H). La guerra è rappresentata in una serie di cinquantaquattro metope del fregio dorico sul tamburo dell’edificio. Le metope celebravano la vittoria dacica nel complesso, in modo molto semplificato e influenzato dalla tradizione locale nella resa delle figure. Esistono tuttavia alcune somiglianze e differenze rispetto alla colonna e al fregio urbani. In particolare il rapporto di Traiano e i suoi ufficiali, la molteplicità dei ruoli e il nesso tra daci e l’ambiente boscoso si trovano sia nella colonna sia nel trofeo, mentre l’annientamento del nemico è rappresentato in modo più crudo in Mesia, per effetto della volontà di commemorare in loco anche i legionari caduti al tempo di Domiziano e anche dalla scelta di ridurre ogni scena a un duello in cui il romano risulta subito vincitore I monumenti di stato traianei celebravano, oltre le vittorie, i meriti civici dell’imperatore e la sua generosità verso i sudditi. I grandi plutei di Traiano, posti nell’area della curia del foro romano, commemoravano due provvedimenti imperiali, la distribuzione alimentare (congiarium) e la cancellazione dei registri dei debiti. Il primo provvedimento è annunciato dai rostra antistanti il tempio del divo Giulio davanti all’imperatore. Entrambe le scene si svolgono sullo sfondo di diversi edifici che servivano a collocare nel foro gli eventi rappresentati e a mostrare che si trattava di decisioni prese in favore del popolo romano. Gli edifici sullo sfondo delle rappresentazioni indicano che sono provvedimenti presi per il popolo; particolare enfasi è data all’albero ficus romanus (che simboleggiava l’eternità di Roma) e la statua del sileno Marsia presso la cui statua si risolvevano le liti e gli affari. Il più ampio programma assistenziale di Traiano è quello commemorato nell’arco di Benevento fig 16 pag 309, fatto costruire nel 313 d.C. dopo l’inaugurazione della via Appia Traiana. Rappresenta il culmine della decorazione figurata dei monumenti pubblici e della sofisticazione del linguaggio del panegirico imperiale. In una serie di rilievi, ciascuno con una scena conclusa in sé e riferita al principe, questo grande monumento voleva illustrare la politica assistenziale dell’imperatore dall’inizio del suo regno, sfruttando abilmente la visione complessiva e il linguaggio allegorico. Sono raffigurate l’istitutio alimentaria fig 17 pag 309 nella quale distribuiva alimenta a padri e figli e l’inaugurazione della via Appia Traiana (109 d.C.) nella scena di sacrificio, mentre le imprese belliche avevano spazi ridotti. In questo caso, solo un piccolo fregio rappresentava il trionfo di Traiano sui Daci e alcuni pannelli ricordavano le campagne in Germania e Dacia. Continuità e differenze da Adriano a Marco Aurelio. L’età traianea coincise con la piena maturità della rappresentazione storica romana: il repertorio iconografico si era arricchito nel corso del I secolo d.C. e anche le forme di narrazione e composizione delle scene offrivano un ampio ventaglio di possibilità. Il legame con il trionfo restava comunque centrale, come 40 mostrato dalla diminuzione di rilievi urbani in età adrianea e antoniniana, quando mancò l’occasione di realizzare nuovi grandiosi monumenti di Stato. I rilievi urbani si concentrarono su nuovi soggetti: i tondi adrianei raccontavano per esempio un tema inedito per l’arte ufficiale come quello venatorio, di per sé pertinente al mondo dell’otium, ma adottato da Adriano quale testimonianza del suo coraggio personale (virtus), del suo amore per la caccia e forse anche per emulare Alessandro Magno fig 18 p 311. La cronaca di una caccia multipla si dispiegava in rilievi alternanti le scene venatorie a quelle di sacrificio, collegate tra loro dalla rappresentazione della stessa preda, prima cacciata e poi offerta alla divinità. Altro tema che ebbe più spazio fu l’apoteosi degli imperatori defunti. Per esempio una coppia di rilievi adrianei effigiava Adriano mentre annunciava l’apoteosi della moglie Sabina e poi l’ascesa in cielo della nuova diva. Il “monumento partico” di Efeso prova che le singole città dell’Impero continuavano a dimostrare la propria lealtà alla famiglia imperiale, celebrandone le imprese mediante rappresentazioni storiche. L’edificio presenta una sequenza tematica con l’adozione di Lucio Vero e Marco Aurelio da parte di Antonino Pio in presenza di Adriano, una scena di battaglia “eroica” contro i nemici nordici e orientali, una serie di personificazioni e l’ apoteosi di un imperatore loricato pronto a salire in cielo su una quadriga insieme al Sole e a Selene sui rispettivi carri (fig web 10I). La partecipazione dell’imperatore sul carro dimostra che il monumento ebbe carattere celebrativo più che narrativo, simile alla concezione del “grande fregio” di Traiano. Il tema della vittoria militare accompagnava quello della celebrazione della dinastia degli Antonini. Durante il secolo II d.C. anche lo sviluppo di una forma di racconto suddivisa in una serie di rilievi, ciascuno dedicato a un momento della narrazione, mostra il prevalere della componente allegorica su quella più narrativa anche nei resoconti strettamente bellici. Almeno dodici rilievi decoravano in origine un arco eretto per Marco Aurelio nei pressi della curia Iulia. Otto, reimpiegati nell’arco di Costantino, raffiguravano la campagna militare in Germania nel 173. La narrazione continua è stata suddivisa in una serie di scene per il loro carattere esemplare e con iconografie standard: partenza da Roma, sacrificio, adlocutio dell’imperatore alle truppe, cattura dei nemici, clemenza dell’imperatore per i sottomessi, designazione di un nuovo re vassallo, ritorno a Roma e distribuzione dei novativi al popolo per festeggiare la vittoria. Fig 19 p 312. I rilievi, soffermandosi sulle cerimonie e sulle virtù personali di Marco, inscenavano una sorta di campagna militare ideale in assenza di ogni riferimento a episodi bellici specifici, come se la ripetizione di determinate azioni fosse diventata più importante del singolo e risolutivo a livello militare. Il peso maggiore della componente allegorico-simbolica si coglie anche nella colonna Aureliana del 176. Nella nuova colonna coclide le guerre danubiane combattute da Marco Aurelio sono narrate in forma continua, ma alcune scene esemplari e cerimoniali (sacrificio, marcia, sottomissione e adlocutio) sembrano talvolta inserite soprattutto per illustrare un ruolo e virtù dell’imperatore, con minore attenzione allo sviluppo lineare del racconto, privo di quei nessi interni caratteristici della colonna Traiana, come se si volesse creare un effetto di ridondanza proprio insistendo sulla ripetizione di determinate azioni. Unici elementi risolutivi riconoscibili: scene dei “miracoli”; la vittoria si traduce nell’annientamento brutale del nemico, donne e bambini compresi. Dai Severi al Tardoantico: nuovi linguaggi. La nuova dinastia, bisognosa di legittimazione, diede grande rilievo alla celebrazione delle proprie vittorie, a Roma, Napoli e nella natia Africa. Le rappresentazioni storiche potevano decorare anche altri tipi di edificio come nel caso dei rilievi attribuiti all’attico delle Terme di Caracalla, luogo dove si esprimevano la magnificenza e la provvidenza imperiale nei confronti del popolo. Il più importante monumento urbano fu l’arco di Settimio Severo del 203 eretto nel foro romano per celebrare la guerra partica: quattro grandi pannelli furono posti, due per facciata, sui fornici laterali per rappresentare ciascuno la presa di una città partica nemica. Su questi il racconto 41 procede dal basso verso l’alto e perlopiù da sinistra a destra e sembra trasportare sulla superficie dell’arco il tipo di narrazione continua spiraliforme adottato nelle colonne coclidi fig 20 p 314. Le scene mettevano inoltre in evidenza l’organizzazione dell’esercito romano rispetto al caos del nemico. Nei pannelli dell’arco di Settimio Severo la funzione divulgativa attribuita a queste scene storiche non le trasformava in reportage della guerra o in fonti documentarie. La selezione degli episodi di contorno associati alle grandi scene d’assedio conferma inoltre l’idea che il racconto di una campagna militare vittoriosa dovesse ormai necessariamente prevedere la ripetizione di alcune situazioni fisse. La presentazione perlopiù frontale dell’imperatore contrapposta alla massa dei suoi soldati era un ulteriore effetto dell’accentuazione della componente simbolica già rilevata per l’età aureliana e si rifletteva sempre di più sulle strategie compositive. La stessa frontalità è visibile anche nell’arco degli Argentari fig 21 p 315, i cui rilievi celebravano la dinastia in scene di sacrifici. La committenza non statale in questo caso escluse il tema bellico presente invece nei rilievi di natura pubblica. Anche nell’arco di Leptis Magna la visione frontale è applicata ai grandi quadri dinastici con Settimio Severo e i figli in processione trionfale sulla quadriga, con una scena di sacrificio con Giulia Domna e con la concordia degli Augusti fig 22 p 316. I temi bellici ebbero qui meno spazio a favore della celebrazione della concordia familiare, manca quindi l’interesse per una disposizione in sequenza delle scene. Inoltre su un pilone dell’arco la coppia imperiale è già assimilata a Giove/ Serapide e Giunone affiancata da Minerva e Tyche di Leptis Magna. Nel periodo dopo i Severi, le testimonianze concrete di nuove rappresentazioni storiche diminuiscono. Tra le poche eccezioni si ricordano le tavole dipinte che Massimino il Trace fece affiggere nella curia per documentare le sue imprese belliche germaniche tra il 235 e il 237. Con l’istituzione della tetrarchia monumenti di Stato ebbero di nuovo immagini realizzate ad hoc. Nel foro Romano nel 303 d.C. furono innalzate 5 colonne sormontate da statue; il programma decorativo ripropone il repertorio delle cerimonie di Stato del I secolo d.C. cercando di formare una narrazione coerente : scena di processione di togati, tre vittime dei suovetaurilia e sacrificio a Marte da parte di un tetrarca. Questo mostra la lunga durata di queste iconografie. Non molto dopo nell’arco di Costantino questi stessi modelli furono modificati: un fregio narrava la guerra civile tra Costantino e Massenzio e in altri due la presa del potere del vincitore mediante il discorso forense e la concessione di donativi al popolo. Il fregio si staccava dalle iconografie tradizionali non solo nella drammatica battaglia di Ponte Milvio fig 23 p 317, ma anche per il ricorso a temi più convenzionali (marcia, assedio, ingresso a Roma e scene urbane) alla ricerca di chiarezza per mezzo della gerarchia delle proporzioni, della frontalità e del ribaltamento della prospettiva. Nel secolo IV d.C. Roma aveva cessato di essere l’unico centro dell’Impero. La suddivisione del potere tra i componenti della tetrarchia ebbe come esito anche la scelta di nuove “capitali”, oggetto di programmi edilizi ambiziosi per adeguarle al ruolo di residenze imperiali. A Tessalonica (Salonicco), intorno al 303 d.C., Galerio fece costruire una sorta di doppio tetrapilo che serviva da padiglione d’ingresso e di smistamento tra il palazzo e la Rotonda in corso di costruzione. I frammenti rimasti sviluppano la narrazione della sue guerre persiane. I rilievi presentano la guerra condotta in Assiria e in Armenia e conclusa nel 298 d.C., alternando episodi specifici, come la cattura dell’harem persiano, scene ormai tradizionali in questi racconti bellici fig 24 p 318 (battaglie, clemenza sottomissione) e altre invece celebrative della tetrarchia nel suo complesso – in particolare il legame tra Galerio e il suo Augusto, Diocleziano, effigiati insieme in una scena di sacrificio. Queste scene di fatto interrompono la narrazione ma servivano a celebrare il funzionamento dell’istituzione e la condivisione del potere imperiale. In seguito toccherà alla nuova Roma, Costantinopoli, accogliere gli ultimi esempi di monumenti ufficiali decorati da rilievi storici: la colonna coclide istoriata fu riportata in auge a imitazione di Roma da Teodosio I 42 L’arte di intagliare le pietre in negativo, nelle gemme, o a rilievo, nei cammei, la glittica da glypho= incidere, si avvalse delle maestranze specializzate giunte a Roma dall’Asia Minore e dall’Egitto al seguito dei conquistatori. Dall’età augustea le rotte marittime tra l’Egitto e l’India si fecero più intense, così da garantire un più facile approvvigionamento di materie prime. Le gemme venivano incise anche con immagini in modo che a costituire il pregio fosse l’arte o il materiale; il valore più alto era dato ai diamanti, alle perle dell’India e dell’Arabia, agli smeraldi, agli opali e alle sardoniche. Le gemme avevano anche altri utilizzi. Anche le pareti delle dimore di alto livello potevano essere fastosamente ornate di gemme come nel caso del ritrovamento a Roma nell’area della residenza degli horti lamiani che prevedeva una lamina in rame dorato con forme ornamentali vegetali intarsiate di pietre preziose tav 26 oppure un dettaglio di un affresco parietale nella villa detta di Poppea a Oplonti che mostra colonne avvolte da viticci dorati con fiori dai bottoni gemmati tav 27. Uno dei principali centri di produzione e di smistamento di gemme e cammei fu Aquileia, dove gli scavi dell’abitato hanno restituito eccezionali quantità di pietre semilavorate e blocchi ancora grezzi. Gli influssi stilistici e le tecniche tipiche dell’arte ellenistica giungevano qui attraverso l’Adriatico, ma le officine glittiche dovettero presto diffondersi in tutto l’Impero, anche in centri minori come Pompei, dove un grafito parietale nella casa di Giulia Felice mostra un gemmarius che incontra un cesellatore. Le gemme romane derivarono dal mondo ellenistico la funzione principale di sigilli personali. A imitazione dei dinasti orientali anche gli alti magistrati romani e gli imperatori facevano incidere in anelli-sigillo il proprio ritratto o i simboli del potere. Oltre ai ritratti e ai segni politici, l’ampio repertorio tematico, con differenti intensità a seconda dei periodi, prevede scene di miti greci e saghe “romane” (come la fuga di Enea da Troia), singoli eroi e divinità, eroi e personaggi del corteo bacchico o marino, temi legati alla paideìa (filosofi), scene pastorali ed erotiche. Augusto per sigillare documenti ufficiali usò prima l’immagine della sfinge poi l’effigie di Alessandro Magno e infine la propria realizzata dal greco Dioscuride, che restò il sigillo utilizzato anche dai successivi imperatori. Dioscuride firmò anche una corniola raffigurante il ratto di Palladio da parte di Diomede secondo uno schema molto diffuso nella glittica fig 11 p 414 e altre gemme le cui figure si ispirano alla grande statuaria come la citazione di Atena parthenos di Aspasio come intaglio in diaspro rosso (fig web 15F). Alcune gemme con figure di origine orientale ed “egittizzanti” e iscrizioni che si confrontano con i testi magici dei papiri egiziani erano poi utilizzate come amuleti: erano incise per essere viste direttamente in positivo e non, come avviene di solito, in negativo. Il principale centro di produzione delle gemme magiche era probabilmente Alessandria. Cammei. A differenza delle gemme incise, i cammei solo di rado vennero usati come sigilli personali, e perciò il loro ritrovamento in contesti funerari, come simbolo di riconoscimento dei defunti, è poco documentato. Ottenuti, in prevalenza, con la lavorazione di pietre policrome o zonate, e cioè costituite da strati di diversa composizione e tonalità come la sardonica, l’agata, l’onice, il calcedonio, i cammei richiedevano una tecnica di esecuzione più difficile e costosa dell’intaglio: l’abilità dell’artefice consisteva, oltre che nella raffinatezza del rilievo, anche nella capacità di sfruttare i diversi strati di colore per ottenere contrasti cromatici che evidenziano i dettagli, facendo emergere dal fondo le figure. In età giulio-claudia i cammei furono intesi come creazioni di particolare prestigio, non più destinate a un pubblico generico ma riservate all’ambito della corte e di una ristretta élite. Già con Augusto si affermò la produzione di “Cammei di Stato”, pietre di dimensioni talvolta eccezionali decorate con complessi temi politici, tra cui quello della continuità dinastica. Il tema della legittimazione dell’erede al trono è centrale nei due maggiori “cammei di Stato”. A parte la Gemma Augustea, un’onice a due strati attribuita all’officina di Dioscuride (tav 20) nel 45 Gran cammeo di Francia fig 12 p 415, ricavato da una sardonica indiana a cinque strati e di dimensioni mai più superate (31x26.5 cm), il messaggio è molto più complesso, soprattutto per i dubbi i relativi al riconoscimento dei singoli personaggi. La scena si distribuisce su tre registri: • In quello inferiore, come nella “Gemma Augustea”, si concentrano barbari sconfitti e trofei militari, simbolo del dominio militare romano; • In quello centrale sono probabilmente ritratti i membri viventi della famiglia di Tiberio; • Quello superiore è riservato alla sfera celeste e agli antenati defunti: tra questi è ben individuabile il divo Augusto, con corona radiata e scettro, sulle spalle forse di Iulo Ascanio figlio di Enea, vestito all’orientale con il globo fra le mani. Ai suoi lati Druso Minore con scudo e corazza e Germanico in groppa a un cavallo alato. La continuità della famiglia passa attraverso Iulo e Augusto a Tiberio, seduto in trono nel registro centrale con il lituo (bastone ricurvo) e il mantello egida. Il cammeo, realizzato in età tiberiana, visualizza la coesione della gens Iulia quasi suggerendo la linea dinastica all’imperatore regnante. Il messaggio di continuità della gens Iulia passa anche attraverso la combinazione di ritratti nella Gemma claudia fig 13 pag 426 attribuita ad un artefice della scuola di Dioscuride probabilmente nel 49 dc per il matrimonio tra Claudio, con egida e corona di quercia, e Agrippina minore con corona turrita e ghirlanda di spighe e papaveri (a sinistra). Di fronte a loro Germanico con corona di quercia e mantello militare (paludamentum) e Agrippina maggiore con elmo attico . Per la delicatezza dell’intaglio e la preziosità della pietra i cammei non dovevano essere esposti al pubblico, ma conservati come oggetti “da camera” all’interno dei palazzi. La limitata circolazione di cammei di Stato giustifica l’adozione di iconografie più encomiastiche di solito assenti nella statuaria a destinazione pubblica. Cammei come gioielli. Dopo il regno di Caracalla la committenza dei grandi “cammei di Stato” si riduce drasticamente, fino a scomparire, ma per tutto il secolo III d.C. si registra l’improvvisa fortuna di una produzione minore di carattere seriale, standardizzata nei motivi figurativi e di fattura più sommaria. I cammei furono ora utilizzati soprattutto come gioielli, di preferenza come orecchini e pendenti, e i temi preferiti erano quelli più adatti a un pubblico femminile, come le dee, le personificazioni beneauguranti, gli eroti e le teste femminili ispirate ai ritratti delle principesse. Solo con Costantino riprese la lavorazione dei cammei secondo tecniche e modelli della tradizione giulio claudia. Nel cammeo conservato a Belgrado fig 14 p 417 l’intaglio ad altorilievo sfrutta le diverse gradazioni cromatiche della sardonica, la scena mostra l’imperatore loricato a cavallo al galoppo mentre travolge i nemici. In ambito costantiniano emerse anche la prassi del riutilizzo di pietre e cammei più antichi, ne è esempio un grande cammeo oggi a Treviri in cui i ritratti giulio claudi sono stati trasformati nelle effigi di Costantino e della sua famiglia. Fig 15 p 427 17. Il vetro. La rivoluzione in età augustea e lo sviluppo della produzione a Roma e in Occidente nella prima età imperiale. Anche nel campo della produzione vetraria l’età di Augusto segnò una svolta epocale. L’artigianato e il commercio, favoriti dal lungo periodo di pace, videro allora un’espansione senza precedenti, mentre la conquista dei regni ellenistici determinò un afflusso in Occidente di artigiani esperti anche nella lavorazione del vetro, portatori di una tradizione che aveva reso famosi i centri dell’Oriente e dell’Egitto. Nel corso di pochi decenni il patrimonio e gli impianti vetrari si diffusero in Italia e nelle province occidentali, in un processo di emancipazione delle “periferie” che caratterizzò tutta l’economia antica. I vetri erano eseguiti con il metodo della semplice matrice: le coppe, con o senza costolature, di derivazione ellenistica, ma ora realizzate con colori smaglianti tav 29; i servizi da mensa ispirati alle argenterie e alla sigillata italica (tipo di ceramica da mensa) contemporanee fig 2 p 455; i vasi eseguiti nella tecnica del vetro mosaico, di eredità ellenistica. Per vetro mosaico si intende un 46 materiale composto da piccoli elementi giustapposti che realizza diverse varietà: millefiori (le moderne murrine) reticelli, nastri tav 30, bande d’oro, marmorizzati tav 31.Tutte lavorazioni che esaltano il gusto per la policromia ed erano ottenute formando un disco con vari pezzi che poi veniva riscaldato per unire i pezzi e disposto sulla matrice. Tra le più alte espressioni dell’artigianato di alto livello in età augustea va considerato il vetro cammeo. Si tratta di un vetro per lo più a due strati di colore contrastante, tipicamente il fondo blu coperto da bianco, probabilmente lavorato secondo la tecnica della glittica, asportando lo strato superiore per creare raffigurazioni che risaltavano sul fondo scuro: celebri sono il “vaso Portland” pag 456 o il “vaso blu” con eroti vendemmianti dalla nicchia di una camera sepolcrale a Pompei. Il vaso Portland al British Museum raffigura due scene sullo sfondo di un albero. Nella prima si vede una struttura architettonica alle spalle di un giovane che unisce il suo braccio a quello di una figura femminile. La donna seduta su una bassa roccia circonda con la mano un serpente e segue un uomo barbuto in atteggiamento pensoso. Nella seconda scena un uomo seduto su un piano roccioso volge lo sguardo verso una donna adagiata sullo stesso piano con il braccio portato sulla testa mentre si gira verso un altro personaggio femminile. Questa complessa iconografia è stata diversamente interpretata con allusione al principato di Augusto e all’inizio di una nuova era per Roma oppure come rappresentazione di Teti e Peleo, genitori di Achille. Il vetro cammeo è molto raro: se ne conoscono attualmente poco meno di quattrocento esemplari e si stima che la produzione abbia superato di poco il migliaio. Gli studi più recenti suggeriscono che la produzione abbia avuto una durata molto breve, dal 15 a.C. al 25 d.C. circa, svolgendosi in poche e piccole officine altamente specializzate. In vetro cammeo si realizzarono contenitori a forma aperta (coppe, skyphoi, calici) ma anche chiusa come brocche, bottiglie. Si realizzarono anche pannelli destinati forse a essere inseriti nelle pitture parietali come pìnakes o, piuttosto, a essere esposti in modo che la luce li attraversasse, per fare risaltare il colore del vetro di fondo tav 32. Il vetro cominciò ad avere un ruolo importante anche in architettura. Infatti, con l’inizio dell’età imperiale si diffuse il vetro da finestra che, consentendo una maggiore introduzione di luce negli edifici determinò non solo un notevole miglioramento nella qualità della vita, ma anche la possibilità di valorizzare i volumi e gli apparati decorativi degli interni. Per realizzare una lastra il vetro veniva colato su un supporto, in genere con bordi rialzati, spianato con spatole e poi tagliato secondo la forma e le dimensioni volute. A partire dal secolo III d.C. la tecnica della soffiatura, introdotta anche nel caso del vetro da finestra, rese le lastre più sottili e quindi anche più trasparenti. La scoperta, forse avvenuta per caso, che un bolo di vetro allo stato viscoso potesse espandersi se s’introduceva aria al suo interno, fu davvero clamorosa. La tecnica consisteva nel soffiare entro cannucce di vetro chiuse all’estremità ed esposte a una fonte di calore. Il bulbo così formato veniva poi staccato dal resto della cannuccia fig 3 p 457 e web 17 Cd-D. Con questo sistema si potevano produrre solo oggetti di piccole dimensioni ma con l’introduzione della canna da soffio si crearono oggetti di tutte le dimensioni. Le prime produzioni realizzate con tecniche evolute di soffiatura comparvero simultaneamente in Oriente e in Occidente, testimoniando la rapidità e la facilità con cui le idee, gli artigiani e i loro prodotti potevano diffondersi ormai entro i confini dell’impero. Oltre alla soffiatura del tipo descritto, definibile “a canna libera”, all’inizio del secolo I d.C. le officine della costa siro-palestinese misero a punto un’altra tecnica, consistente nel soffiare il vetro all’interno di una matrice: un procedimento non semplice, che richiedeva abilità da parte sia del soffiatore sia dell’esecutore delle matrici, composte da più parti. I contenitori realizzati somigliano a oggetti in metallo sbalzato, le forme, in genere dai colori vivaci, sono molto articolate e cariche di valenze simboliche: bottigliette, unguentari e bicchieri prendono l’aspetto di grappoli d’uva, pigne, teste di Medusa, datteri resi in modo molto realistico, questi ultimi in particolare preziosi equivalenti dei frutti che si donavano all’inizio dell’anno come simbolo di dolcezza fig 4 p 458. 47 ambienti per accogliere da un lato i pari del dominus, cui erano destinate innovazioni decorative, e dall’altro i subalterni, cui si riservavano invece composizioni più conservatrici. Verso l’apertura della parete. Se finora l’illusione architettonica si limita alla sovrapposizione di 3 piani, nel cubicolo 16 della Villa dei Misteri a Pompei, lo sguardo può spingersi ben oltre il confine dell’ambiente mediante l’apertura, per ora limitata alla zona superiore della parete, di vedute su uno spazio esterno, dove si erge, sullo sfondo blu del cielo, un edificio circolare, un tholos tav 40. Gli elementi architettonici riprodotti sono solidi e illusionistici, in grado di ingannare l’occhio dello spettatore. Volume e tridimensionalità sono esaltati dalle ombreggiature che sottolineano la campitura interna, gli aggetti delle mensole, il rilievo degli architravi. Gli affreschi della villa di Poppea a Oplonti tav 5 e del cubicolo “M” nella villa di P. Fannio Sinistrore a Boscoreale mostrano l’evoluzione estrema della tendenza illusionistica: elaborate architetture e ampie vedute di città smaterializzano del tutto la parete in aperture e prospettive senza precedenti, la gamma cromatica si arricchisce con cinabro e blu. L’aspetto illusionistico è sempre ben delimitato entro la cornice della parete introdotta da elementi che segnano la discontinuità con l’ambiente come lo zoccolo o pilastri laterali. Le prospettive architettoniche non adottano un punto di fuga unico, ma fanno riferimento a diversi assi visivi per essere osservate da diversi punti nella stanza. In questi contesti potevano inserirsi dal I sec ac anche soggetti figurati come i grandi dipinti con scene dell’ Odissea nella domus di Via Graziosa sull’Esquilino fig 3 p 473. Dietro un colonnato illusionistico di doppi pilastri si apre lo scenario dei vagabondaggi di Ulisse dove le notazioni paesistiche tendono a sovrastare le figure. Forti affinità si colgono tra queste pitture e i paesaggi idillico sacrali del I sec ac ben distinte dalle megalografie, pitture a grandi figure. A questo genere vengono invece riferite le pitture nel salone H della villa a Boscoreale e la sacra rappresentazione, mescolante la sfera umana e quella divina, nella parte urbana della Villa dei Misteri fig 4 p 474 in cui compaiono raffigurazioni bacchiche con sileni e figure femminili. Sulla parete nord sono raffigurati un sileno immerso in un’atmosfera pastorale e una donna atterrita in corsa, su quella di fondo un sileno è colto nell’atto di porgere una brocca a un giovane satiro, mentre un altro alza una maschera teatrale, sulla parete sud si trova una donna flagellata e una baccante. Numerosi i tentativi di spiegazione delle raffigurazioni come solenni riti misterici bacchici a partecipazione femminile, in generale le atmosfere legate alla figura di Bacco sono una costante all’interno delle abitazioni romane e declinate diversamente come espressione della gioia di vivere. Verso la chiusura della parete. Nel corso di pochi anni l’illusionismo architettonico conosce un’improvvisa battuta d’arresto, come documentano le pitture nelle proprietà imperiali sul Palatino: il podio di sostegno delle colonne, ancora esistente, diventa una superficie da decorare e la zona mediana della parete, con aperture limitate agli spazi laterali o superiori, si struttura attorno a grandi quadri centrali con paesaggi idillico-sacrali o temi mitologici, che assumono un ruolo preponderante nella composizione. Alle prospettive di villa Oplonti subentra una graduale tendenza a chiudere di nuovo la superficie della parete accentuandone mano a mano l’aspetto ornamentale. Così nella stanza delle maschere della casa di Ottaviano sul Palatino tav 6 i fusti delle colonne si assottigliano e sostengono una trabeazione su un fondo bianco e pendono ghirlande stilizzate. Elementi architettonici come il timpano dell’edicola di Polifemo e Galatea della casa di Livia sul Palatino (fig 5 p 475), privi di significato strutturale, acquisiscono valore. Intorno alla metà del I sec ac si diffonde la moda di motivi egittizzanti, riconducibili al gusto alessandrino e forse dovuta alla presenza di Cleopatra a Roma tra 46 e 44 ac. Fiori di loto, obelischi, sfingi sono visibili nell’Aula Isiaca sotto la basilica della domus Augustana (fig web 18c) e nel cubicolo superiore della casa di Ottaviano tav 41, sia sulle pareti sia sul soffitto dove alle forme quadrate dei lacunari che ricoprivano uniformemente l’intera superficie, subentrano losanghe, cerchi inscritti, poligoni. L’introduzione di sfumature pastello su fondo bianco attenua i forti contrasti delle pareti, caratterizzate da colori accesi esaltati dal trattamento a specchio delle superfici, lisce e dipinte con pennellate leggere e di grande finezza. Il nuovo gusto 50 cromatico si affianca a quello più antico che porta a un appiattimento della parete nelle monocromie nere e bianche. Esempio Villa Farnesina tav 7-8 Dall’età augustea all’età claudia: un raffinato “manierismo”. Le pitture della casa di Ottaviano e della Villa Farnesina preannunciano il decorativismo della prima età imperiale, entro cui si colloca il III stile o stile ornamentale. Le pareti della villa già di Agrippa e poi del figlio a Boscotrecase tavv 9-10 sono una raffinata espressione dell’epoca. Sullo zoccolo del cubicolo 16, che forti contrasti coloristici separano nettamente dalla zona mediana, crescono esili piante o poggiano nature morte; le articolazioni del basamento si dissolvono in linee e figure geometriche come piccoli rombi con fiore centrale; una sovrapposizione di due sottili bande lo delimita superiormente. Il registro mediano, sulla parete di fondo organizzato intorno a un grande quadro con paesaggio idillico-sacrale, è scandito da colonnine con fusto a corteccia di palma e infiorescenze o ricoperte da collarini e pseudo-gioielli. Candelabri vegetali e prospettive architettoniche da cui pendono pinakes con figurine egittizzanti di maschere campiscono il registro superiore. Gli effetti disegnativi hanno preso il sopravvento su quelli pittorici. Le scelte cromatiche si orientano in una duplice direzione: forti contrasti tra tinte sature da un lato, fondo neutro e colori pastello dall’altro. Ne è esempio la villa di Castel di Guido (fig web 18D) di età giulio claudia dove ghirlande, uccellini e figure in volo riempiono gli spazi vuoti, l’edicola centrale è affiancata da due quinte laterali che preludono alle composizioni della casa di Lucrezio Frontone a Pompei tav 42. Qui le pareti del tablino H (ambiente posto fra l'atrio e il peristilio, per lo più adibito al ricevimento) mostrano un apparente ritorno all’impianto architettonico, in realtà sopraffatto da elementi ornamentali privi di funzione strutturale. La zona mediana è introdotta da una predella viola, molto comune all’epoca, consistente in un fregio con motivi animalistici, floreali, nature morte o scene narrative, a cui corrisponde un fregio superiore con le tesse decorazioni. La rappresentazione centrale è di dimensioni molto ridotte da sembrare un quadretto alla parete e nei pannelli laterali campeggiano piccoli paesaggi. Le fasce di delimitazione orizzontali sono caratterizzate da sequenze di fiori di loto, conchiglie, cuoricini tav 43 A. I quadri mitologici, apparsi già, sul finire del II stile, si moltiplicano a partire dalla piena età augustea, con una collocazione al centro delle pareti, ad altezza di sguardo. I soggetti sono scelti sia per ostentare la cultura del dominus sia per traslitterare il quotidiano nel linguaggio poetico dei miti con dei ed eroi greci, all’insegna di valori come pietas, pudor, virtus e otium. Anche su volte e soffitti il tradizionale sistema a cassettoni si smaterializza in cornici puramente decorative appiattendosi su fondi spesso monocromi in bianco o nero che si tramutano talvolta in veri e propri tappeti floreali, “reticoli” e tralci vegetali. Ne sono esempi gli arabeschi di vite e melograno con eroti su sfondo bianco del colombario del liberto Pomponio Hylas; la volta della piramide di Cestio a Roma organizzata intorno a una figura centrale e 4 Vittorie svolazzanti su fondo bianco. In questo periodo infatti sono rilevanti le decorazioni pittoriche sia di sepolcri singoli, come la piramide Cestia, sia di sepolture collettive, come i colombari. Nonostante la funzione ne condizioni inevitabilmente gli schemi dispositivi, soggetti e scelte stilistiche sono gli stessi della decorazione domestica. Sulle pitture del colombario di Villa Doria Pamphilji si susseguono uccellini, ghirlande e scene mitologiche fig 6 p 477 forse dipinte dalla stesse maestranze attive nelle abitazioni coeve. Da Nerone ai Flavi: eclettismo e massificazione. “Manierismo” ornamentale e riscoperta architettonica sono le principali caratteristiche della produzione pittorica dei decenni centrali e finali del secolo I d.C. Molte sono tuttavia le varianti, lo stesso Mau, parlando di IV stile o ultimo stile pompeiano, denunciò la difficoltà nell’estrapolarne tratti peculiari univoci. La sola pittura non è ora sufficiente a soddisfare il gusto delle committenze più elevate, che si rivolgono spesso all’uso di altri materiali, in particolare del marmo. Nella domus Aure la combinazione di marmo e dipinti diventa strumento di gerarchizzazione delle stanze e di distinzione funzionale: agli ambienti più importanti si riserva un rivestimento parietale in opus sectile, l’intonaco 51 dipinto decora i vani secondari come corridoi e criptoportici. La diffusione della tecnica del mosaico parietale e l’utilizzo di diversi materiali in combinazione con la pittura, come le paste vitree, compensano la diffusione della decorazione dipinta in età flavia cui corrisponde uno scadimento sia nella fattura sia nella tecnica. Tappezzerie e schemi architettonici. Il processo risulta evidente nell’evoluzione di cornici e fasce ornamentali da cui si sviluppano da un lato grottesche con elementi vegetali o animali, dall’altro bordi a tappeto standardizzati sul piano tipologico e cromatico tavv 43b e 43c. Posti in sequenze ripetitive e monocromatiche che lasciano trasparire il fondo uniforme, i bordi delimitano frequentemente i pannelli della zona mediana e disegnano lo schema decorativo sostituendo talvolta cornici e bande su pareti, volte e soffitti. In una sorta di horror vacui, esili figurine, pìnakes, ghirlande e motivi vegetali completano il già esuberante repertorio ornamentale, come nei criptoportici della domus aurea dove si uniscono ad architetture semplificate prive di solidità fig 7b p 479. Nella composizione della parete, agli elementi di continuità con la pittura di III stile si aggiungono rielaborazioni del repertorio architettonico della tarda Repubblica: lo zoccolo, rosso o nero, può essere variamente decorato da forme geometriche con bordure e racemi, ciuffi di piante e animali; la zona mediana può strutturarsi architettonicamente attorno a un’edicola affiancata da vedute prospettiche e arricchita da pannelli appesi a mo’ di drappi o appiattirsi in sequenze lineari e paratattiche di campi con decorazione centrale; nella zona superiore alle architetture, talvolta organizzate come prolungamento della parte mediana, si alternano motivi a carta da parati che richiamano le decorazioni di soffitti e volte fig 7A p 479. Un posto a parte occupano le raffigurazioni scenografiche della domus aurea fig 7c che rompono la tripartizione della parete . Sulla composizione illusionistica in età flavia predomina l’aspetto ornamentale che appiattisce bidimensionalmente la parete fig 7d I forti contrasti tra i toni caldi di giallo, rosso, nero e oro stabiliscono il predominio dell’effetto pittorico su quello disegnativo, soprattutto nei soggetti figurati. Sia nelle nature morte e nei paesaggi sia nei più complessi quadri a tema mitologico, rapidi colpi di pennello esaltano gli effetti luministici delineando forme e volumi in maniera compendiaria, cioè a macchia, maniera già sperimentata dai pittori della fine del secolo IV ac. e recepita nell’Italia centrale andando a esasperarsi in epoca neroniana. Ne sono esempio le decorazioni pittoriche della domus aurea tra cui il dipinto dello svelamento di Achille a Sciro sulla volta dell’omonima sala. Si accostano tinte contrastanti, come il rosso, il blu e l’oro, la composizione è a rapidi colpi di pennelli e a tocchi di luce, idonea per una visione da lontano. Tav 44-45 Decorazioni di volte e soffitti. Articolate e variabili sono anche le decorazioni di volte e soffitti, dove grottesche, bordi di tappeto e motivi vegetali di andamento curvilineo disegnano schemi centralizzati a incastri concentrici attorno a un elemento mediano, talvolta enfatizzati da altri diagonali. Ancora diffuse le decorazioni a reticolo fig 7 a p 479 perché adattabili a ogni superficie e dimensione strutturale Più eterogenee le pitture “popolari”, con soggetti peculiari e con un linguaggio figurativo senza particolari finezze, ma di chiarezza espressiva, che si serve di formule come la proporzione gerarchica e la prospettiva ribaltata. Queste pitture, di esecuzione ora sommaria e affrettata ora più accurata, possono decorare ambienti interni o facciate esterne di domus, tabernae, lupanari e sepolcri e illustrano momenti di vita quotidiana spaziando da temi religiosi, ai ludi, passando per episodi di cronaca, mestieri e scene erotiche fig 8-9 p . 480 Interludio: dopo Pompei. Tra l’età flavia e antoniniana l’Italia centrale vede esaurirsi il suo predominio quale centro di produzione e di irradiazione culturale ed importa dalle province marmi colorati, che tendono a sostituire la pittura nei contesti di prestigio delle classi egemoni. L’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. decreta il tramonto di Pompei e dei centri vesuviani e il seppellimento dei loro edifici quindi una riduzione della documentazione della pittura parietale 52 decorazione a motivi ripetitivi, che evoca la carta dipinta o la tappezzeria (“wallpaper pattern” o “tapetenmuster”), occasionalmente comparsa in Italia nelle pareti e nei soffitti di IV stile. Si tratta di rivestimenti in cui sono giustapposte forme geometriche, quadrangolari, esagonali o arrotondate e decori vegetali o floreali stereotipati. Tra le pitture più tarde del tempio di Bel a Dura Europos in Siria si distingue, sul muro settentrionale di un pronao, una scena di sacrificio di un ufficiale romano, il tribuno Giulio Terenzio, identificato come tale da un’iscrizione latina, dietro il quale su più file sono disposti gli omini della sua coorte; nella parte sinistra del quadro in basso le due Tychai dalle teste turrite e nimbate di Palmira e Dura Europos, in alto le statue della triade palmirena. Sono soprattutto le pitture della celebre sinagoga di Dura Europos che segnano l’incontro di due tradizioni, occidentale e orientale, costituendo un rilevante ciclo di immagini bibliche in contrasto con il presunto carattere aniconico della religione ebraica. Sopra uno zoccolo con imitazioni marmoree, la decorazione parietale è tripartita in 3 registri con pannelli di dimensioni variabili che illustrano varie storie della Bibbia tav 54. Un gruppo di pitture di fine secolo II-inizio III d.C. è legato a un culto orientale molto radicato nel mondo romano, quello del dio Mitra, all’interno di “grotte” dotate di podi per riunioni e banchetti di conventicole. Le scene in cui dentro una grotta Mitra uccide un toro, momento clou della sua vita, sono documentate a Roma , in Italia e in altre zone dell’impero tutte con uno schema base con alcune varianti. Nell’edicola centrale del mitreo Barberini fig 11 p 487 Mitra in costume orientale sgozza il toro con il ginocchio sinistro sul dorso secondo uno schema iconografico standard per il dio, divergente dalla raffigurazione dei sacrifici greco romani; lo scorpione, il serpente, il cane e i due assistenti di Mitra sono sempre vestiti all’orientale e partecipano alla scena con fiaccole. Il Tardoantico verso la cultura bizantina. Accanto a un incremento nell’uso di decorazioni imitanti i lussuosi rivestimenti in marmo, alla fine del secolo III e all’inizio del IV d.C. la pittura recupera modi tradizionali, compresi trompe l’oeil e megalografie. Esempi: - la dea Barberini , una monumentale figura femminile assisa su una trono riccamente decorato e munito di due figurine sui braccioli fig 12 p 487. La ricchezza degli abiti, degli ornamenti e degli attributi consente di riconoscere una dea, forse Venere. - pitture di un soffitto a cassettoni scoperte sotto la basilica paleocristiana di Treviri in cui sono raffigurati busti maschili e femminili, strumenti musicale e coppie di Amorini sul cielo azzurro tav 55. – cicli ispirati alla vita quotidiana alle pareti di una corte rustica della villa Morena lungo l’antica via Latina che presentano su più registri le attività svolte dalla familia in una residenza agricola.- ipogeo di Trebio Giusto sulla via Latina fig 13 p 488 ancora indica attività della familia e presenta un buon pastore sulla volta. La coesistenza di temi “pagani” e cristiani, non è sorprendente nella Roma del secolo IV d.C. ed è ben documentata anche in pittura, anzitutto nell’ipogeo di via Dino Compagni, pur se in spazi distinti. Se la maggior parte delle scene dipinte nei molteplici cubicoli rimanda spesso a cicli di episodi dell’Antico e Nuovo Testamento che convivono con episodi salienti delle fatiche di Ercole, il cubicolo N presenta gli episodi salienti delle fatiche di Ercole tav 56. Nel sepolcreto salario di cui resta un’aula ipogea, sulla parete di fondo si trova una nicchia decorata con affreschi che imitano incrostazioni marmoree, sulla calotta un vaso da cui zampilla acqua e dove si posano due colombe, ai lati due figure diverse di Diana. Dalla seconda metà del secolo IV d.C. il codice prevalse sul rotolo, sostituendolo quasi del tutto e divenendo il tipo di libro comune. Fu così destinata a un notevole successo la soluzione di abbinare al testo scritto l’illustrazione mediante la miniatura, che poteva occupare la pagina intera a differenza che nei rotoli, costituendo così una fonte rilevante per ricostruire anche l’arte pittorica. L’esempio più illustre è rappresentato dalle miniature dell’Iliade Ambrosiana, residuo di un codice intero dell’Iliade forse del V-Vi sec dc fig web 18L: 58 miniature superstiti distinte da Bianchi Bandinelli in vari gruppi eseguiti da un’unica mano con fonti di matrici pittoriche come modello. 55 La “cappella sistina del secolo VIII d.C.”. Nella rimodellazione cristiana degli spazi del foro Romano risalta la chiesa di S. Maria Antiqua, che conobbe varie decorazioni tra i secoli VI e VIII, ben ricostruibili soprattutto sulla parete absidale fig web 4D: si tratta della parete palinsesto, così chiamata per analogia con la pratica amanuense di riadoperare lo stesso foglio di pergamena per scritture successive e caratterizzata da una stratificazione di ben sette intonaci dipinti. Nella prima metà del secolo VI quando era ancora una cappella, a destra di una nicchia rettangolare fu dipinta la scena dell’aurum coronarium, cioè l’offerta di corone d’oro con pietre preziose da parte di due angeli al Signore in grembo alla madre seduta in trono abbigliata e ornata come una imperatrice. 20. Decorazione e arredi dei sepolcri Secoli II-IV d.C. (e rinascite “post-antiche”): i sarcofagi. La progressiva sostituzione della cremazione con l’inumazione incentivò dall’età traianea-adrianea la fabbricazione su grande scala di sarcofagi litici: a oggi se ne conoscono più di 15mila sino all’epoca costantiniana, e i dati sono parziali. Già alla prima età imperiale risalgono i primi esperimenti, per lo più urbani privi di affinità tipologiche con coeve produzioni in Grecia e in Asia. I non moltissimi esemplari a cassa liscia con angoli interni brevi stondati presentano, quale unico elemento decorativo, un’incorniciatura semplice modanata sui quattro lati: le pareti esterne potevano essere animate da un ornamento pittorico policromo, da una decorazione a ghirlande; ancora rari in questa fase i temi mitologici strettamente legati all’aldilà. Alcuni sarcofagi sono decorati con motivi quali festoni vegetali, fiori e frutta sostenuti da bucrani (Motivo ornamentale architettonico, consistente in un teschio di bue che si alterna a festoni; deriva, pare, dall'uso antico di appendere i crani degli animali sacrificati attorno all'ara o sull'alto dei templi) Esempio il monumentale sarcofago Caffarelli fig 17 p 529. Non siamo in grado di recuperare identità e stato sociale dei primi acquirenti delle casse, possiamo pensare che la scelta del marmo indichi la capacità di affrontare una spesa notevole. Durante il principato di Tiberio e per tutto il secolo I furono prodotti in serie anche sarcofagi fittili che comportavano un costo più sostenuto. Dal secolo II d.C. tende a prevalere la forma a basso parallelepipedo, la cui base è molto più allungata rispetto all’altezza: in questi esemplari le immagini sono caratterizzate da figure distribuite sulla superficie in modo chiaro e separate da spazi fig 18 p 530. Con il passare del tempo si assiste allo sviluppo in altezza delle casse, aumenta lo spazio a disposizione per la decorazione e le figure si disporranno su più piani sovrapposti in intricati rapporti reciproci. Durante il secolo III d.C. comparve un nuovo tipo di cassa, piuttosto alta e con angoli arrotondati: è la lenòs simile alla tinozza per il vino con chiari riferimenti bacchici fig 19 p 530. Anche le tipologie dei coperchi potevano variare: a tetto spiovente, con uno o più personaggi distesi su klìnai, a semplice fregio continuo chiuso da mascheroni agli angoli, a copertura piana e alzata. Spesso sul coperchio era previsto l’inserimento di un pannello epigrafico con l’indicazione delle generalità dei defunti. La scelta della decorazione dipendeva dal gusto e dalla disponibilità finanziaria del committente, comunque la maggior parte dei sarcofagi era adorna di ornamenti non narrativi (semplici ghirlande e festoni o più economiche strigilature) fg 20 p 531. Infine i sarcofagi marmorei potevano accogliere più di un defunto e furono perfino sovente riutilizzati, semplicemente riattualizzandone ritratti o dati onomastici. All’interno delle camere i sarcofagi potevano essere disposti negli arcosoli su semplici piattaforme, allineati lungo le pareti in asse con l’entrata principale o direttamente sul pavimento. Fin dall’inizio la produzione su grande scala privilegiò nella decorazione la scelta dei miti per lo più greci. Facile riconoscere il mito ma difficile capirne il significato nel contesto funerario. Attualmente si tende a concentrare l’attenzione più sul versante iconografico e tipologico poi sui 56 messaggi veicolati. Inoltre le casse vengono considerate in rapporto all’intero ambiente e alle relazioni visive con altri sarcofagi nello stesso luogo. A seconda dei periodi, si registrano novità e abbandoni nella selezione dei soggetti. Nelle prime casse dal 130-140 d.C. predominano le ghirlande (in uso fino all’età tardoantoniniana), al di sopra delle quali si possono succedere vignette con scene mitiche fig 21 p 532. In seguito prevalgono le scene mitologiche, suscettibili di una lettura analogica, atta a trasformare le vecchie storie mitiche in exempla mortalitatis. Per esempio il tema della dedizione coniugale ricorreva alla storia di Admeto e Alcesti, il tema dell’amore si avvaleva della coppia Venere Adone o Marte Rea Silvia. Molto attestate sono poi le “visioni di felicità”: i festosi cortei marini e bacchici, con oltre 400 esemplari ciascuno, dagli inizi del secolo II alla fine del III d.C. Dalla prima metà del secolo III d.C. divenne sempre più frequente la sostituzione del volto dell’eroe mitico con il ritratto dei defunti e dei congiunti: un chiaro espediente per innestare su di loro le virtù eroiche, stabilendo un legame ancora più diretto con miti per lo più centrati sulla morte e sull’amore Esempi fig 22 p 533 Admeto e Alcesti e fig 23 p 534 sarcofago con amazzonomachia con al centro Achille e Pentesilea che adottano le teste ritratto dei defunti. In alcuni casi in sarcofagi di fine II sec fino al IV i volti dei defunti non sono ultimati, le superfici sono piatte e lisciate o a uno stadio intermedio della lavorazione con volti da rifinire nei dettagli. Probabilmente si tratta di esemplari in magazzino che attendevano l’acquisto al dettaglio e quindi l’inserimento dell’effigie del defunto. Dall’inizio del III secolo d.C. si registra un graduale abbandono dei soggetti mitologici. Spazio sempre maggiore fu allora lasciato alle Stagioni che simboleggiano abbondanza e il ciclo periodico del tempo fig 24 a p 535 e alle scene bucoliche che prospettano al defunto un’esistenza idilliaca fig 24 b. Anche le raffigurazioni degli individui concorsero all’abbandono del mito, infatti dalla seconda metà del II secolo e per tutto il III furono popolari sulle casse i temi classificati come vita humana fig web 8E. La selezione di soggetti per la decorazione di pareti e soffitti è solo in minima parte sovrapponibile a quella dei sarcofagi. In pittura prevalgono soggetti tipici del rituale funerario, rose, ghirlande, corone , candelabri, soggetti allegorici o figure mitiche estrapolate da sequenze narrative. Le officine urbane adattarono le produzioni alle nuove mode, passando dalla manifattura di stele, rilievi e are a quella di sarcofagi monumentali: quelli scolpiti direttamente a Roma non furono però gli unici a circolare in città. Il passaggio delle proprietà delle cave al fisco imperiale portò ad un’organizzazione centralizzata per lo sfruttamento dei marmi e all’esportazione di prodotti semilavorati completati arrivati a destinazione da maestranze itineranti. Le lavorazioni avvenivano a tappe: la sbozzatura nei pressi della cava, la rifinitura nei depositi (in Grecia o in Asia Minore) e, infine, piccoli interventi di ritocco e completamento nel luogo di collocazione finale. Una delle manifatture più eleganti e costose fu quella attica. I sarcofagi monumentali scolpiti ad Atene in marmo pentelico erano concepiti per essere decorati sui quattro lati, a differenza degli esemplari di produzione urbana, in particolare con miti vari, talvolta fianchi e retro non furono mai completati: segno che, una volta a destinazione, i sarcofagi furono utilizzati senza fare ricorso al personale specializzato. Intorno alla metà del secolo III d.C. un sarcofago attico oggi ai Musei capitolini fig 25 p 536 fu decorato su ben quattro lati con scene della vita di Achille; le figure, dal linguaggio formale classicistico per modellazione e superfici levigate, sono tanto fitte da fare quasi scomparire il fondo del rilievo: sul coperchio, gli sposi sono sdraiati su kliné. Intorno al 150 d.C. fu scolpito il sarcofago di Velletri fig 26 p 537 estraneo alla tradizione delle officine urbane. Eccezionali sono sia l’impiego di tre blocchi unici di marmo differenti (pentelico per il basamento e lunense per la cassa), sia la selezione di più miti offerti sulle quattro facce e legati alla morte, all’aldilà e alle speranze di salvezza dei defunti, sia la stessa disposizione delle figure: i due registri, con partizione architettonica a imitazione delle scene teatrali, si 57
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