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M. Pellegrini, Le guerre d'Italia, Sintesi del corso di Storia

le guerre d'italia,2009

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Scarica M. Pellegrini, Le guerre d'Italia e più Sintesi del corso in PDF di Storia solo su Docsity! STORIA MODERNA C LE GUERRE D’ITALIA 1494-1559 Introduzione Gli antefatti medievali Molte potenze europee, nella seconda metà del 400, tentarono di imprimere in Italia la loro presenza. Lo fecero più volte la Francia, la Borgogna, l’Impero germanico, l’Ungheria e la Spagna dei re cattolici (dal 1469 composta dalla corona d’Aragona e quella di Castiglia). Le maggiori potenze della cristianità latina, godevano a differenza dell’Italia, di maggiori dimensioni territoriali, un più alto livello demografico e una redditività dell’apparato fiscale, permettendo ai sovrani di effettuare numerose conquiste all’estero. I signori d’Italia non potevano permettersi tutto ciò e svilupparono nella seconda metà del 400 la cosiddetta “politica dell’equilibrio”, basata sulla prevenzione e sul contenimento dei conflitti. Il più grande Paese invasore fu la Francia. Gli strascichi della guerra dei Cent’anni, conclusasi a suo favore nel 1453 si protrassero fino al 1475, insieme con una serie si conflitti interni dovuti dalla sollevazione di alcuni principati regionali che non volevano annettersi alla corona di Francia. Le resistenze dei principati vennero schiacciate e il regno di Francia accrebbe la propria estensione, incorporando dalla Borgogna, occupata manu militari, approfittando della morte in battaglia del Duca Carlo il Temerario nel 1477, alla Provenza, ottenuta dalla morte senza eredi del Re Renato d’Angiò nel 1480, fino alla Bretagna, ottenuta obbligando la duchessa Anna a sposare il re di Francia, Carlo VIII. A fine 400 il regno di Francia era il più vasto stato dell’Occidente. Le annessioni portarono anche una condizione di sicurezza in quanto chiusero quei varchi (Normandia e Fiandre) attraverso i quali il Regno di Inghilterra in passato era penetrato fino al cuore della Francia. Durante l’ultima fase della guerra dei Cent’anni (1439-1445) una serie di riforme avevano permesso alla monarchia di assorbire in un unico esercito, alle dipendenze del re, tutte le compagnie mercenarie presenti sul suolo nazionale. Contemporaneamente, l’istituzione di un nucleo stabile di truppe scelte, le cosiddette compagnie d’ordinanza, gettò le basi per la creazione di un dispositivo militare permanente: esso servi in un primo tempo per liberare il Regno dagli stranieri, ma in seguito rimase utilizzabile per scopi espansionisti. Per finanziarlo venne introdotto “la taglia”, ossia una tassa sul reddito gravante su tutti i non privilegiati, che cominciò a essere riscossa a scadenze fisse. (= prima imposta diretta permanente elaborata dal mondo europeo). Fu in questo modo che la Francia del 400 divenne la prima potenza militare moderna, lasciandosi alle spalle le procedure di finanziamento della guerra in uso nelle monarchie del tardo Medioevo, le quali prevedevano che le sovvenzioni a scopo bellico venissero concesse dalle assemblee rappresentative sempre in via straordinaria e dovessero servire ad armare eserciti, che al termine delle ostilità avrebbero dovuti essere disciolti. Non stupisce cosi che furono proprio i monarchi francesi del Rinascimento a dare avvio alle guerre d’Italia. Poterono comportarsi cosi perché non furono intralciati dai vincoli che tenevano a freno i monarchi europei loro rivali, i quali non riuscivano a ottenere dai sudditi altro che stanziamenti ad hoc, bastanti a combattere un determinato conflitto per una durata di tempo circoscritta. I re francesi tenevano sempre mobilitato in assetto di guerra un vasto esercito, diviso in quattro parti, e in più disponevano di ricchezze tali da consentire loro di assoldare truppe mercenarie, utili a condurre le loro imprese all’estero. A pochi anni di distanza dalla vittoria finale sulle forze antagoniste, sopraggiunse per la corona di Francia una nuova sfida storica, rappresentata dai nuovi orizzonti geopolitici che si dischiusero in conseguenza della devoluzione della Provenza alla casa Reale nel 1480. Divenuti signori di una grande città portuale come Marsiglia, i monarchi di Parigi ritrovarono quell’impulso ad affermare la loro egemonia anche nello spazio mediterraneo che aveva animato i loro predecessori all’epoca delle Crociate e che aveva dato vita all’epopea gloriosa e tragica del venerato re Luigi IX, il santo. La memoria delle corti feudali amava rinverdire la proiezione mediterranea della monarchia francese e la mescolava volentieri con la fantasia epica, soprattutto quando si trattava di rievocare le gesta dei combattenti in Terrasanta. Aleggiavano in questo ambiente le idee espresse due secoli prima da Pierre Dubois nel suo Liber de recuperatione Terrae Sanctae, nel quale si indicava come propria della monarchia transalpina la missione storica di tornare a impossessarsi della Palestina in modo da creare un ponte tra Europa continentale e Medio Oriente. Nell’immaginario cavalleresco transalpino Italia e Terrasanta apparivano molto congiunte, ma ad acuire le ambizioni espansionistiche della Francia sull’Italia nel secondo 400 fu un complesso di cause materiali: l’estinzione della discendenza legittima della casa d’Angiò ebbe quella di causare la devoluzione alla corona di Francia dei diritti ereditari del trono di Napoli, fattore che attirò sull’Italia l’attenzione dei monarchi di Parigi. Il nuovo titolare della corona napoletana divenne nel 1442 il Re d’Aragona Alfonso V, detto il Magnanimo, già padrone di possedimenti nel Mediterraneo Occidentale e Napoli si aggiunse come la gemma più preziosa; tuttavia era troppo importante per essere ridotto a provincia dell’Impero mediterraneo della casa d’Aragona e lo scorporò lasciandolo in eredità al suo unico erede maschio Ferrante. La corona di Barcellona fu data invece al fratello minore di Alfonso, Giovanni II, e successivamente al di lui figlio Ferdinando, il futuro Re Cattolico. La suddivisione dei domini aragonesi e la costituzione di un ramo napoletano vennero formalizzate alla morte di Alfonso il Magnanimo nel 1458, ma questo documento fu subito denunciato da Giovanni II. Anche il pretendente francese al trono di Napoli, “il buon re” Renato d’Angiò, pronto a darlo al figlio Giovanni, contestò il testamento di Alfonso. I due Angiò poterono contare sulla fedeltà di una fazione interna al baronaggio del regno di Napoli, il partito angioino, che si sollevò contro Ferrante senza risultati visto l’appoggio di quest’ultimo da parte degli stati italiani e della Chiesa romana, Nel trentennio successivo debellò molte insidie, tra cui la maggiore fu la Guerra dei Baroni (1485-1486), cioè la seconda rivolta del partito filoangioino, che stavolta poté giovarsi dell’appoggio della Chiesa romana, non più d’accordo con Ferrante. Una competizione per il primato nella cristianità d’Occidente 1453: anno della fine della guerra dei Cent’anni, caduta di Costantinopoli e fine dell’Impero romano d’Oriente. Ciò era prevedibile, ma colse di sorpresa il mondo europeo occidentale, che si era assuefatto al mito dell’intramontabilità dell’Impero bizantino. I rivali d’Oriente erano guardati con un misto di vicinanza e di antagonismo dai cristiani d’occidente, i quali fecero piuttosto poco per salvarli, avendo perso la speranza di poter battere i turchi: le due spedizioni crociate inviate a soccorso nei Balcani nel 1396 e nel 1443-44 furono un disastro, tanto che i sovrani europei deposero le armi. Maometto II condusse l’assedio di Costantinopoli per terra e per mare avvalendosi di poderose artiglierie di fabbricazione occidentale che mostrarono il grande processo di adattamento della potenza ottomana. Al suo esordio nello scenario europeo infatti, avvenuto nel 300, essi avevano le caratteristiche di una potenza solo terrestre. Esemplare era l’istituzione da parte degli ottomani di un corpo di fanteria, i cosiddetti “giannizzeri” composto da giovanissime reclute che venivano fatte affluire dai paesi tributari, le quali crescevano separate dal resto del mondo e venivano addestrate per sacrificarsi in guerra. Seppero imporsi sulle altre etnie turche presenti nello spazio eurasiatico e si lanciarono alla conquista della penisola balcanica. Restarono a loro preclusi il Mar Egeo con le sue isole e la città capitale di Costantinopoli, impossibile da coalizione a tre sarebbe stata sufficiente a determinare una situazione di stallo. Sulla carta una coalizione tra Napoli, Firenze e il papato c’era, ma venuto il momento di concertare una risposta all’aggressione francese, le divergenze tra gli alleati si accrebbero, rendendo impossibile un coordinamento unitario sul piano militare. La tecnica utilizzata dagli italiani era quella della distruzione limitata visto l’altro grado di integrazione tra guerra e diplomazia era relativamente semplice per i partecipanti a un conflitto usare i canali negoziali per porre sotto costante monitoraggio il confronto militare ed eventualmente attenuarne gli esiti sul campo. Negli ultimi decenni del 400 la tattica guerresca in Italia divenne sempre meno offensiva e sempre più difensiva, ma quando nel 1494 Carlo VIII si affacciò sul palcoscenico italiano questo approccio si rivelò perdente perché il sovrano francese si rifiutò di adottare quelle regole e volle imporne altre. Sapeva che la guerra negoziata tipica degli italiani avrebbe significato allungare i tempi dell’impresa, cosi optò per una vera e propria guerra lampo. “Furia franzese” e artiglieria pesante Non appena giunto in Val Padana, Carlo VIII procedette senza indugio a regolare i primi conti con i suoi interlocutori italiani. Un grosso contingente di armati venne da lui spedito in Romagna, area nella quale il re di Napoli aveva dislocato una parte consistente del proprio esercito, ma era bastato un corpo di spedizione milanese inviato dal Moro nel 1494 a mandare in fumo i piani dei difensori. Unitosi alle truppe milanesi presenti in Romagna, il contingente francese passò al contrattacco con la precisa intenzione di dare una lezione esemplare al mondo italiano. La vittima prescelta fu la cittadina di Mordano, rea di aver opposto ai franco milanesi una resistenza alla quale aveva partecipato anche la popolazione cittadina locale. Il 19 ottobre Mordano venne conquistata e tutti i suoi abitanti vennero massacrati, fu questo il primo esempio della cosiddetta “furia franzese”, ossia un modo sanguinario di condurre la guerra che non risparmiava la popolazione civile. Paralizzato, il contingente napoletano in Romagna non osò più cercare il contatto con le forze nemiche. Carlo VIII intanto il 22 ottobre raggiunse Sarzana, la porta del dominio fiorentino. La cittadina di Sarzana era stata riconquistata nel 1487 dai fiorentini, che nel giro di pochi anni vi avevano edificato un complesso difensivo modernissimo, al fine di renderla una piazzaforte imprendibile a presidio dell’imbocco della Versilia, un’area che avevano del tutto strappato al controllo di Lucca con l’occupazione di Pietrasanta (1484). L’espansione in direzione della Versilia e della Lunigiana fu il proseguimento dell’acquisizione di Pisa (1406) e di Livorno (1421), una svolta che aveva determinato la trasformazione di Firenze a potenza anche marittima. Per questo la Firenze dell’età di Lorenzo il Magnifico intraprese una dispendiosa opera di ricostruzione di tutto il sistema difensivo, che partiva a sud da Livorno, passava per Pisa, proseguiva per Pietrasanta e culminava a Sarzana. Sarzana presentava la particolarità di appoggiarsi a un doppio circuito difensivo, urbano ed extraurbano. Il centro abitato era protetto da una robusta cerchia muraria. Al di sopra del centro abitato venne ammodernata la rocca di Sarzanello. Gli accorgimenti costruttivi che i fiorentina avevano adottato nell’edificare la fortezza di Sarzana, e nel riconsolidare quella di Sarzanello, facevano largo impiego dell’artiglieria pesante. Le loro mura erano basse ma spesse, sui loro spalti erano posizionate le postazioni per l’artiglieria minuta e un largo fossato precludeva agli aggressioni l’avvicinamento alle cortine murarie era quindi difficile espugnare in tempi brevi la cittadella di Sarzana e Sarzanello. La calata francese del 1494 riviste una particolare notorietà, poiché fu in quell’occasione che fece la sua comparsa il cannone, destinato a diventare protagonista delle battaglie fino al 900. Generalmente si ravvisa nella guerra dei 100 anni il momento in cui gli stati europei cominciarono a fare ricorso all’artiglieria pesante. Per la Francia tale momento è legato al nome dei fratelli Bureau, che allestirono il primo grande parco di artiglierie del regno. Le tecniche metallurgiche però erano talmente rudimentali da non permettere la fusione, ma solo l’assemblaggio delle bocche da fuoco di grosso calibro che risultano composte da più pezzi avvitati tra loro. La messa a punto del cannone come pezzo unico, fuso in una sola volta, avvenne intorno al 1494, su impulso dei problemi logistici dell’impresa napoletana di Carlo VIII. Un contributo fondamentale provenne dalla tecnologia metallurgica e balistica italiana, nella persona di Basilio della Scola, famoso ingegnere vicentino che lavorò in Francia. A spingere Basilio e i suoi colleghi a escogitare un elemento di artiglieria pesante che fosse meno ingombrante rispetto alla tradizionale bombarda fu una ragione pratica, visto la campagna che doveva effettuarsi molto lontano dalla patria. Si pensò di creare bocche da fuoco più piccole e più maneggevoli rispetto alle bombarde. La soluzione venne trovata partendo dal proiettile. Si vide infatti che un dosaggio ben calcolato di polvere da sparo consentiva di lanciare palle di metallo del diametro di 10 cm, le quali, pur avendo un peso pari a solo un sesto delle palle in pietra sparate dalle bombarde, erano capaci di percuotere un muro con una forza di penetrazione molto più alta. Un altro vantaggio era che le ridotte dimensioni del proiettile di metallo permettevano una maggiore velocità delle operazioni di ricarica. Ma l’impiego di maggiori quantitativi di polvere da sparo faceva reggere di meno la culatta, che tendeva spesso a esplodere, soprattutto nelle bombarde formate dall’assemblaggio di più pezzi. Per sistemare si pensò di fondere una bocca da fuoco costituita da un pezzo unico, provvista di pareti e culatta rinforzati nacque cosi il cannone, il quale fu concepito come un grosso cilindro, il cui fondo era parte costitutiva dell’insieme e non un elemento aggiunto. Il cedimento della Firenze medicea Quando Carlo VIII giunse a Sarzana, si rese conto che sarebbe stato impossibile occupare la città. Un assedio sarebbe stato la soluzione più ovvia, ma questo avrebbe arrestato la marcia. Intanto Ludovico il Moro aveva approfittato del subbuglio creato dal re di Francia per togliere silenziosamente di mezzo il nipote Giangaleazzo e farsi proclamare duca di Milano al suo posto (per lui la calata di Carlo VIII aveva già raggiunto l’obiettivo desiderato, ora si trattava solo di bloccare l’esercito francese lungo la via). Carlo VIII, non potendo sperare di battere Sarzana o Sarzanello, cercò un obiettivo più vulnerabile, e lo trovò in Fivizzano: era una fiorente borgata che era stata ceduta a Firenze dall’ultimo suo signore, appartenente alla famiglia dei Malaspina. Cosi Firenze era cominciata a diventare uno scomodo vicino per i marchesi Malaspina e per gli Este di Ferrara. Il 26 ottobre gli artiglieri di Carlo VIII aprirono il fuoco contro Fivizzano ed entrarono crudelmente. La notizia arrivò a Firenze e il governo mediceo cercò un modo per uscire dalla distretta, evitando danni peggiori. Nella mente del giovane Piero de Medici, passato alla storia con il soprannome di “sfortunato”, il ricordo delle gesta di suo padre fungeva da guida: Lorenzo il Magnifico alla fine del 1479 compi un viaggio a Napoli fermando un disastro militare andando a contrattare in gran segreto la pace con il nemico. Lo stesso voleva fare Piero, cosi a fine ottobre si mise in viaggio verso Sarzana. Le angusti si fecero insostenibili per lui quando seppe che i suoi cugini e rivali, Lorenzo e Giovanni di Pierfrancesco de’ Medici, si erano recati al campo di Carlo VIII per richiedere il suo benestare a un cambio di regime dentro Firenze. Il 1 novembre Piero firmò un accordo con il re: gli cedette le fortezze di Sarzana e Sarzanello, Pietrasanta, Pisa e Livorno: gli dava cosi un rapido transito verso sud. Il primo a esserne costernato fu Ludovico il Moro, che si era posto al seguito del re di Francia con l’intenzione di approfittare delle prime difficoltà per offrirsi come mediatore di pace tra lui e il mondo italiano. Ora, di fronte alla resa di Piero, anche il Moro si rese conto che la calata di Carlo VIII stava per diventare un principio di “incendio”, ovvero la proliferazione incontrollata di uno stato di belligeranza destinato ad avere ripercussioni distruttive all’interno degli stati coinvolti. Cosi il Moro velocemente tornò in Lombardia con la paura che il fuoco potesse arrivare anche a casa sua. In Toscana la comparsa dell’esercito francese provocò due conseguenze 1) la caduta del regime mediceo 2) la rivolta di Pisa. Il gesto di Piero ebbe come conseguenza che la Signoria decretò la condanna all’esilio e la confisca dei beni per lui e per la sua famiglia. Il vuoto di potere creò disordini ma questo pericolo fu scongiurato da una svolta inattesa legata all’affermazione del potere carismatico di un frate domenicano dalle attitudini di profeta, votatosi a salvare la pace interna della comunità: Gerolamo Savonarola. Savonarola e i suoi seguaci bollarono come illecito il sistema di potere che i Medici avevano forgiato e si accinsero a liquidarlo, scagliandosi contro le sue pratiche più controverse come la selezione discrezionale del personale di governo, la manipolazione delle procedure e la restrizione del potere decisionale a pochi ottimati ciò che allora vollero i suoi seguaci, detti “piagnoni” fu erigere un diverso tipo di convivenza civile, basato sulla giustizia sociale derivante dall’esercizio collettivo delle virtù cristiane. Con questo andò in fumo il processo di costruzione dello stato rinascimentale che toccò un momento molto alto nelle vita di Lorenzo il Magnifico. Il crollo dello stato rinascimentale italiano Da Pisa Carlo VIII volle recarsi in visita a Firenze al fine di assicurarsi dell’allineamento del nuovo regime “piagnone” e strappare un donativo con cui finanziare la sua impresa. Il re ottenne quando richiesto ma si rese conto che non era il caso di umiliare i fiorentini oltre dovuto e approfittò del libero transito attraverso la Toscana per calare sul Lazio entro la fine di novembre. A guardare le frontiere dello Stato della Chiesa in quella fascia geografica erano preposti gli Orsini, signori di gran parte del Viterbese. I due massimi capi dei clan Orsini, ossia Virginio e Niccolò, erano allora al soldo del re di Napoli, che li aveva distaccati al comando del corpo di spedizione in Romagna. Dopo essere stati messi sotto scacco in quell’area, i due Orsini indietreggiarono fino in Umbria dove però non riuscirono a salvare Narni Terni e Rieti. L’avanguardia transalpina avanzò fino a irrompere entro i confini del regno di Napoli. Anche il papato aveva nel frattempo perduto il controllo di parte del suo dominio nell’alto Lazio. Anziché resistere all’avanzata del grosso dell’esercito francese, gli Orsini reagirono accentuando le divisioni che contrapponevano un ramo della famiglia all’altro: essi pensarono a mettersi in salvo uno alla volta, contrattando la resa ognuno per proprio conto. I contraccolpi della diserzione dei due Orsini giunsero fino a Napoli, gettando re Alfonso II nella prostrazione. Fino a quel momento egli aveva contato di arrestare il re di Francia lungo il cammino a una notevole distanza dalle frontiere del Regno. Il compito di fermare l’esercito aggressore era stato da lui demandato ai migliori condottieri al suo servizio, quali appunto erano Virginio e Niccolò Orsini. Ora invece la casa d’Aragona si vide chiamata a prendere le armi per difendere la propria sopravvivenza. Il compito ricadde su Ferrandino, primogenito maschio di Re Alfonso II ed erede al trono, che assunse il comando di un esercito di dimensioni assai inferiori rispetto a quello nemico ma ottimamente addestrato. Ferrandino risali a Roma, dove si attestò con l’autorizzazione di Papa Alessandro VI, lui pure agitato visto che aveva saputo che Carlo VIII, durante il suo sopralluogo a Firenze aveva rinnovato il proposito di mettere mano a una riforma della Chiesa. Mentre Carlo VIII si trovava a Viterbo, la cittadinanza di Roma, preoccupata per il rischio di un assedio, cominciò a tumultuare, protestando per i disagi che stava patendo a causa dell’interruzione delle vie di comunicazione verso nord. Con il crescere dei disordini, divenne impossibile per le truppe napoletane mantenere il controllo dell’Urbe. Rinunciando a tentare la difesa, Ferrandino il 25 dicembre lasciò Roma alla testa della sua armata, mentre Alessandro VI si barricò in Castel Sant’Angelo . Il 31 dicembre 1494 il Re di Francia fece il suo ingresso a Roma, vestendo l’armatura da parata e tenendo la lancia sulla coscia: una postura da vincitore di torneo e chiamando un fronte internazionale di sostenitori. Nel corso delle guerre d’Italia la corte di Roma si affermò come il crocevia dei rapporti fra le potenze belligeranti e si può addirittura affermare che fu grazie al suo impulso che si formò la rete diplomatica che avrebbe dominato la scena europea durante la prima età moderna. Stipulata il 31 marzo 1495 a Roma, la Lega Santa fu un’unione di tre stati italiani, Venezia, Milano e papato che si appoggiò a due potenze europee come la Spagna e l’Inghilterra interessate a ostacolare i successi della Francia sul suolo italiano. Lo scopo era quello di allestire una spedizione crociata contro gli infedeli. Poco dopo la conquista di Napoli Carlo VIII aveva predisposto una spedizione in Albania, dando cosi segno di voler aprirsi una via di terra in direzione di Costantinopoli. A seguito della formazione della Lega Santa il progetto venne lasciato cadere. Il significato storico delle Lega Santa fu quello di riportare l’equilibrio all’interno dell’Occidente delle grandi monarchie nazionali. È a partire dalla sua conclusione nel 1495 che si può parlare di internazionalizzazione della questione italiana, una svolta che si pose allo stesso tempo come amplificazione di quella “politica dell’equilibrio” che aveva consentito al sistema italiano di autogovernarsi. Con la Lega Santa del 1495 nacque il sistema degli stati europei dell’età moderna. Esso si formò quando, per volontà del papato, alcune delle maggiori potenze oltremontane (Spagna, Inghilterra) vennero inserite nel ricostruito schema dell’equilibrio italico. I veneziani, convinti di poter precludere agli oltremontani qualsiasi duratura interferenza al di qua delle Alpi, ritenevano che lo spazio italiano, una volta uscita di scena la casata aragonese, fosse assoggettabile alla loro primazia. Sulla spinta di tale presupposizione, la Serenissima non esitò a esporsi anche sul piano militare, raccogliendo un esercito di più di 20 mila uomini al cui comando pose Francesco Gonzaga marchese di Mantova. Rischiando di rimanere intrappolato nel Mezzogiorno e per sottrarsi al rischio di diventare ostaggio di sudditi e vassalli davanti all’aggressione nemica, nel 1495 il re prese la decisione di ripartire. Prevedendo che il possesso dei Regno di Napoli gli sarebbe stato conteso da Ferrandino d’Aragona, Carlo VIII lasciò di stanza nel Mezzogiorno la metà del suo esercito, partendo con l’altra metà. Nel tragitto ripassò da Roma, dove Alessandro VI si era rintanato a Orvieto per fuggire, ma per la fretta passò oltre, e per viaggiare al sicuro rinsaldò i suoi rapporti tanto con i fiorentini quanto con i pisani, ingannando i primi con una finta promessa di ingannare i secondi. Il duca Luigi d’Orleans mosse da Asti per occupare Novara con la collaborazione della fazione guelfa locale, che proclamò il distacco dalla città di Milano. L’affronto venne presentato dai francesi come un castigo compiuto per aderire alla Lega Santa. Da Milano si fece appello al soccorso di Venezia che fu di larga aiuti in quanto Novara in fine si arrese. Francesco Gonzaga aveva ai suoi comandi un esercito di circa 23 mila combattenti, doppi rispetto al nemico. Tuttavia, la fama di imbattibilità che circondava i francesi continuava a incutere un timore tale da indurre il marchese di Mantova a ritardare il momento dello scontro. Attese l’armata allo sbocco del passo della Cisa, in un punto pianeggiante, ma la scelta del terreno fu controproducente, e inoltre l’opzione del Gonzaga lasciò indifesa Pontremoli che i francesi misero a sacco. Fornovo (1495) Ansioso di voler neutralizzare il massimo punto di forza dell’armata nemica, ovvero la cavalleria pesante, il Marchese di Mantova elaborò una complessa manovra che intendeva evitare l’impatto frontale. L’esercito di Carlo VIII marciava ripartito in 3 segmenti: avanguardia, centro e retroguardia. Cosi il Gonzaga divise le proprie forze in tre parti che presero posizione sulla riva sinistra del fiume. Il Marchese immaginò un attacco su ambedue i fianchi del convoglio nemico: sulla riva destra del Taro appostò la cavalleria leggera veneziana, costituita dai “stradiotti”, ossia soldati di nazionalità albanese. Ma la battaglia che ebbe luogo il 5 luglio 1495 presso Fornovo sul Taro non corrispose affatto ai piani del Gonzaga, in quanto il coordinamento mancò. Si aggiunse inoltre il maltempo, in quanto in quei giorni la portata del Taro si ingrossò e ciò rese difficoltoso il passaggio dei fiume da parte delle cavalleria pesante italiana. I francesi avevano adottato una formazione a maglio percussore, ossia molto protesa in avanti, con il parco artiglierie schierato in testa. Seguivano il centro, con il re e i cavalieri, e una retroguardia poco munita che trasportava il bottino fatto a Napoli. Ripartendo in tre formazioni di uguale consistenza la propria forza d’urto, il Gonzaga concesse un relativo vantaggio all’avanguardia francese la quale non ebbe problemi a ributtare indietro gli attaccanti. Un principio di cedimento si aprì al centro, mentre la vittoria degli assalitori fu completa sulla retroguardia francese che abbandonò i tesori. Il richiamo del bottino su irresistibile e tutti i soldati si fiondarono su quello anziché riaprire lo scontro. Cosi il segmento centrale poté unirsi all’avanguardia per riprendere la marcia verso nord. A completare il fallimento della manovra del Gonzaga sia aggiunse la condotta di Ludovico il Moro, il quale, sperando in un accordo con Carlo VII per riavere Novara, non chiuse ai francesi il transito verso la Val Padana. Carlo VIII riuscì anche in quella circostanza a rompere le file degli assalitori, infliggendo loro perdite superiori a quelle che subirono. A luglio Carlo VIII entrava ad Asti, e continuava a disporre di molti sostenitori nella penisola. Riuscì infatti a estorcere denaro a Firenze senza per questo restituirle Pisa. Con mossa a sorpresa, tra i suoi aderenti tornò ad aggiungersi Ludovico il Moro, che dopo aver recuperato Novara grazie a Venezia, gli voltò la faccia concludendo con la Francia un trattato di pace a Vercelli l’8 ottobre 1495. La restaurazione aragonese Nella tarda primavera del 1495 re Ferrandino d’Aragona sbarcò in Calabria e intraprese la risalita verso Napoli. La sua azione di riconquista fu salutata con favore dalle popolazioni locali, in quanto i francesi si erano rivelati dominatori esosi e arroganti. Il presidio che Carlo VIII aveva lasciato nel partire non fu sufficiente a mantenere il possesso di Napoli. Messe a malpartito, le truppe francesi al comando del Montpensier dovettero abbandonare la Campania e ripararono verso la Puglia. Ferrandino non diete tregua agli occupanti e li incalzò, nella sua lotta poté contare sul sostegno di Fernando il Cattolico e su quello più caloroso di Venezia. In cambio la Serenissima lucrò un guadagno cospicuo poiché si fece cedere da Ferrandino un buon numero di città portuali della costa pugliese (Trani, Monopoli, Mola, Polignano, Gallipoli, Otranto, Brindisi) che le assicurarono il controllo dell’imboccatura dell’Adriatico. L’intraprendenza veneziana e il riscatto della casa aragonese di Napoli funsero da stimoli per lo sviluppo in questi anni di un orientamento politico- ideologico all’interno dei ceti dirigenti della Penisola, al quale si alluse mediante l’espressione “buoni italiani”. Con questo termine si indicarono i fautori di una linea strategica diretta a riportare in vita gli schemi vigenti della penisola ai tempi della “politica dell’equilibrio”: un programma che prevedeva l’espulsione degli oltremontani dall’Italia e la ricostituzione di un assetto bilanciato. Nei primi decenni del 500, la corrente dei “buoni italiani” si rivelò perdente sul piano della realtà effettuale ma buona sul piano culturale. Molti suoi adepti, come Giovio e Guicciardini cercarono nella riflessione del passato una via alla redenzione intellettuale dei mali del presente e a tal fine elaborarono il tema della “libertà d’Italia” intesa come autogoverno. Dopo la catastrofe del 1494, la “libertà d’Italia” sembrò tornare in auge tra la primavera del 1495, con il ritorno di Carlo VIII in Francia, e l’estate del 1496 quando Ferrandino completò la conquista del Regno. Ferrandino concesse il perdono agli oppositori e spense dispute all’interno della sua casata, per questo decise di sposare la 17enne zia, in modo da non permettere ai parenti del ramo iberico di intromettersi nelle trattative per il suo matrimonio. Ferdinando aveva manifestato l’intenzione di riunire sotto di sé tutti i possedimenti detenuti dallo zio Alfonso il Magnanimo e dunque di riaccorpare il Mezzogiorno alla monarchia barcellonese. A spingerlo a ciò stava il proposito di unificare le forze per proseguire la spinta vittoriosa della Reconquista. Il disegno di Ferrandino intendeva invece avvalersi della solidarietà di Venezia, per riattribuire al Mezzogiorno d’Italia la condizione di uno stato pienamente autonomo. Un intento che naufragò nel 1496 quando Ferrandino morì senza eredi diretti. Una frazione maggioritaria del baronaggio napoletano offrì la corona a Federico d’Aragona, zio del defunto re, gradito per la sua fama di uomo pacifico. Ma l’ala dissidente del baronaggio non era d’accordo, anche se era chiaro che l’alternativa era diventare provincia subalterna di Francia o Spagna. Cosi re Federico dovette aprire una campagna repressiva contro l’ala dissidente. Sulla debolezza di Federico speculò Alessandro VI, che in cambio dell’investitura apostolica puntò a strappargli Taranto per darlo a qualcuno dei suoi figli. Dopo aver represso la sollevazione baronale, Federico aprì le ostilità contro gli ultimi residui dell’esercito francese ancora presenti sul suolo italiano. Alla corte di Carlo VIII si era già messa in conto l’invio nel Mezzogiorno di una nuova armata, ma il re morì nel 1498 e l’esercito sarebbe stato utilizzato da Luigi XII per conquistare Milano. Il declassamento a viceregno Il modo in cui Federico pervenne al trono indispettì Ferdinando il Cattolico, il quale notificò che dal punto di vista giuridico il Mezzogiorno doveva considerarsi vacante e doveva essere devoluto alla corona catalana. Bisognoso di appoggi per portare a effetto la conquista di Milano, Luigi XII mise a segno un doppio successo diplomatico. Da un lato strinse a sorpresa un patto con Venezia, promettendole una parte della Lombardia se avesse partecipato a un assalto congiunto ai danni di Ludovico il Moro. Dall’altro riuscì ad attrarre a sé anche il papa, assicurandogli il sostegno militare necessario alla conquista di uno stato per Cesare Borgia in Romagna. L’adesione di Venezia e del papato ai piani di conquista di Luigi XII mise in allarme Ferdinando il Cattolico. Doveva agire innanzitutto togliendo di mezzo il debole Federico sul trono napoletano. Risoluto a intervenire subito in Italia, il cattolico allacciò con Luigi XII un’intesa che trovò espressione nel trattato di Granada, stipulato alla fine del 1500. In quella circostanza i due massimi sovrani d’Europa stabilirono in comune accordo la soppressione della dinastia aragonese di Napoli e la conseguente spartizione del Mezzogiorno in due grandi aree, un francese e una spagnola. Desideroso di prendere parte al bottino, Alessandro VI aveva nel frattempo scomunicato re Federico. Federico chiese soccorso al sultano turco, senza però ricevere aiuti. A dargli il colpo di grazia fu il riaccendersi dell’insubordinazione del baronaggio filofrancese, che nell’estate del 1500 scatenò un’ondata di sollevazioni. Nella successiva estate del 1501 ebbe luogo la calata di circa 10 mila fanti francesi e 5 mila fanti a cavallo. Lo stato governato da Federico era talmente esiguo da non avere le forze di difendersi. In questo momento sopraggiunse l’annuncio che Ferdinando il cattolico si era accordato con Luigi XII per spartirsi il regno di Napoli e Alessandro VI, per creare nuovi spazi a sui figlio Cesare, approvò tale provvedimento e dichiarò decaduto Federico. Federico allestì una difesa a Capua, ma la popolazione si arrese subito agli invasori, che però la saccheggiarono comunque. Il 25 luglio Federico si affrettò a sottoscrivere una capitolazione, con la quale lasciò Napoli e la Campania al re di Francia, tenendo però l’isola di Ischia che intendeva usare come base operativa per eseguire una lotta di resistenza contro gli spagnoli. Contrariamente a quanto si pensava però la macchina bellica iberica risultò moltiplicata da quando essa mostrò di possedere un condottiero d’eccezione nella persona di Gonzalo Fernandez de Cordoba (italianamente: Consalvo di Cordova). Sotto il suo comando le fanterie spagnole attraversarono lo stretto di Messina e intrapresero una risalita verso nord molto rapida, tanto da togliere a Federico d’Aragona ogni speranza di mantenere il controllo nella porzione rivendicata dalla Spagna. L’ultimo sovrano della dinastia aragonese si baroni napoletani che avevano parteggiato per il re di Francia. Consalvo accettò solo le prime due. Il 31 dicembre venne siglato l’accordo: i nobili cavalieri francesi lasciarono Gaeta per mare. Le fanterie svizzere invece andarono a piedi verso nord. Molti morirono di sete e fame, altri vennero trucidati dai contadini. Con ciò il Mezzogiorno era della Spagna, che lo avrebbe mantenuto per 2 secoli. Consalvo fu nominato viceré di Napoli. Capitolo 3: La caduta di Milano La porta d’Italia Deluso dall’amicizia francese, ma pronto a inseguire quella tedesca, Ludovico il Moro dal 1495 intensificò i contatti con Massimiliano d’Asburgo. Dall’angolo visuale del Reich l’Italia appariva un coacervo di poteri abusivi: urgeva un risanamento. Lo Sforza si offrì in qualità di organizzatore di una calata nella Penisola che Massimiliano avrebbe svolto anche al fine di sbrigare alcune incombenze lungo la via. La prima sarebbe stata il castigo della Repubblica fiorentina, che si ostinava a restare collegata con il re di Francia nella speranza di ricevere l’aiuto per recuperare Pisa. Venne stabilito che Massimiliano avrebbe strappato Livorno ai fiorentini e avrebbe preso Pisa sotto sua protezione. Nel 1496 Massimiliano scese in Italia ma non con più di 4 mila combattenti, perché pensava di ingrossare in loco le sue forze, ma al momento decisivo, il sostegno promesso da Milano non arrivò e subì una serie di rovesci tra Livorno, Cascina, Vicopisano e Bientina. Cosi fece marcia indietro e tornò in Austria coperto di vergogna. I veneziani si scusarono, ma mai la serenissima avrebbe contribuito all’affermazione in terra d’Italia degli Asburgo. Il programma di Ludovico il Moro non ebbe i frutti da lui sperati e anzi Venezia cresceva sempre più. La sua reputazione si accrebbe ancora quando la ribelle Pisa si volse a essa , bisognosa di un nuovo protettore dopo l’uscita di scena della potenza francese ( con l’acquisizione dello scalo pisano Venezia affermò la sua presenza anche sul mar Tirreno). Rabbioso per la crescita dell’odiata rivale, Ludovico il Moro si mise al lavoro per fomentare la seconda calata che Carlo VIII aveva in animo di compiere in Italia, per recuperare il regno di Napoli. Ludovico era molto suggestionato dalla metafora che in età rinascimentale si usava per la penisola italiana, ovvero Milano come porta d’Italia: chi la controllava deteneva la chiave d’ingresso nella penisola. Sulla base di ciò egli amava considerarsi come alleato per qualsiasi potenza. Contorsioni di Ludovico il Moro Padrona dei valichi alpini, esportatrice alimentare grazie all’agricoltura più avanzata dell’epoca, produttrice di armi richieste ovunque, l’industriosa Lombardia sforzesca vantava diversi fattori di primato, che però non riuscì mai a far fruttare sul piano della grande politica. Il demone della manipolazione della forza altrui si sviluppò nel Moro con il crescere del dubbio intorno alla vulnerabilità del suo stato alle aggressioni esterne. Il cattivo rendimento della macchina militare milanese alla fine del 400 era causata dalla cattiva qualità degli alti comandi. Questo perché durante l’usurpazione che lo portò da reggente a duca, egli aveva trovato negli alti ranghi dell’esercito un ostacolo alla propria ascesa e cosi aveva radiato i più prestigiosi capitani, sostituendoli con i propri fedelissimi (caso emblematico: l’espatrio di Gian Giacomo Trivulzio). Mai amato dai sudditi, fu circondato da odio, anche a causa dell’alto carico fiscale che chiedeva, infatti dovette vivere rinchiudo nel castello. Il momento peggiore lo raggiunse tra il 1497 e il 1498. A causa dell’odio per la questione di Pisa, intensificò i contatti con il sultano turco Bajazet II, al quale indicò l’opportunità di colpire alle spalle Venezia, ossia da est. Corsero voci che Ludovico arrivò addirittura a chiedergli in sposa una delle sue figlie e che nel 1499 gli avrebbe offerto 200 mila ducati per finanziare un attacco a Venezia. La Serenissima nel 1499 infatti subì un’aggressione turca per mare e per terra. I veneziani arrivarono a esasperazione e si prepararono a schiacciare una volta per tutte Milano. L’unione tra Francia e Venezia Con la morte di Carlo VIII sul trono di Francia salì il cugino Luigi d’Orleans (Luigi XII), pretendente al ducato di Milano, che diede il compito a Gian Giacomo Trivulzio di andare a prenderne possesso. I veneziani furono ben lieti dalla salita al trono di Luigi XII e predisposero con lui un’alleanza offensiva contro la Lombardia. Lo smembramento avrebbe consentito alla Serenissima di aggiudicarsi un altro pezzo di pianura lombarda, con l’assorbimento di Cremona e Treviglio. Ma i veneziani si sbagliarono sulla manovrabilità dei barbari in Italia e non guardavano all’occupazione della Lombardia per mano oltremontana come a una dato irreversibile, anche perché avrebbero preferito non confinare con Luigi XII. L’accordo franco-veneto fu stipulato in segreto a Blois nel 1499. Nel frattempo si era scatenata la rincorsa all’alleanza francese anche da parte di Alessandro VI, bramoso di procurare a suo figlio Cesare una parte dell’impresa italiana di Luigi XII. Per farlo entrare a pieno nei ranghi dell’alta nobiltà transalpina venne combinato un matrimonio tra Cesare e Charlotte d’Albret. Per sancire la sua trasformazione in membro della nobiltà francese al Borgia venne assegnato il contado del Valentinois nella Francia meridionale, che Luigi XII elevò a ducato. In seguito a ciò Cesare Borgia divenne adesso il Duca Valentino. Borgia individuò il primo gradino della sua ascesa nella Romagna, regione soggetta alla sovranità della sede apostolica ma frazionata in una pluralità di signorie cittadine. Una volta tramontata la potenza sforzesca in Lombardia, sarebbe stato facile per Cesare farsi concedere dal papato le due città di Fano e Cesena e da lì muovere alla conquista di Forlì Imola e Pesaro. Dopo le nozze con Charlotte nel 1499 iniziò i preparativi bellici ma dovette attendere la conquista della Lombardia di Trivulzio. L’ora della verità Ludovico il Moro era indifeso, Massimiliano d’Asburgo gli promise solo un attacco diversivo contro gli svizzeri per impedire a costoro di congiungersi alla Francia nell’aggressione alla Lombardia. Ma l’Asburgo patì una sconfitta enorme. Ludovico tentò di salvarsi per l’ultima volta offrendo a Luigi XII mezzo milione di ducati in cambio della non aggressione. Ma nell’agosto 1499 Trivulzio avanzò verso Alessandria, spazzando via i primi due ostacoli (Rocca d’Arazzo e Annone) e seminando panico. Galeazzo Sanseverino, genero del Moro fu inviato incontro al Trivulzio con dei soldati. Quest’ultimo, mise in atto una strategia basata sulla propaganda: sapendo del malcontento dei sudditi, lungo il cammino, promise pace e giustizia, quindi questi salutarono gli invasori come liberatori. Galeazzo non riuscì a trovare da nessuna parte un luogo dove opporre resistenza, in quanto gli abitanti non glielo permettevano, cosi che scappò e si rifugiò a Milano. Trovando per la strada gruppi di soldati impauriti, per Trivulzio fu facile conquistare Alessandria, e presto questo effetto a cascata arrivò fin dentro la capitale. La Serenissima era nel frattempo entrata in azione con 15 mila uomini e occupò Cremona e Treviglio. Lodovico il Moro non si fermò a dirigere i 20 mila volontari che si erano raccolti per difendere la capitale, ma scappò verso le terre austriache degli Asburgo portando con sé un tesoro di 200 mila ducati. Un’effimera ricomparsa Era un’abitudine quella dei governanti italiani di preferire la fuga alla resistenza, in quanto gli stati si abbandonavano e si riacquistavano con tanta facilità. Era però tuttavia consigliabile mantenere un caposaldo al suo interno, ovvero le fortezze. I signori fecero a gare per costruirne il maggior numero possibile, convinti che, mentre le città potevano passare da una mano all’altra, il controllo delkle fortezze andava mantenuto ad ogni costo. Con questa visione, Ludovico il Moro apprestò con ogni cura le difese del castello milanese di Porta Giovia (attuale Castello Sforzesco) i cui depositi vennero riforniti di armi, munizioni e vettovaglie per permettere a una guarnigione di 3 mila fanti di resistere per mesi. La custodia venne data a Bernardino Corti che giurò di resistere per almeno tre settimane a un eventuale assedio del castello. Ma quando il 6 settembre Trivulzio entrò in Milano, Corti si era già arreso: accettò di consegnare la fortezza dietro la promessa della propria incolumità e di quella della guarnigione. I sudditi lombardi accolsero giubilanti Luigi XII nel suo ingresso a Milano il 18 ottobre 1499. I milanesi però rumoreggiavano già: le promesso di giustizia e degli abbattimenti fiscali non si vedevano. Il 28 ottobre scoppiò un primo tumulto, quindi vennero varate importanti riforme nei giorni successivi che cambiarono la struttura di governo del ducato di Milano. La principale novità fu la creazione di un Senato, incaricato di gestire gli affari correnti di una Lombardia, provincia ricca il cui centro si trovava oltralpe. Tali riforme però non bastarono a creare una base di consenso sufficientemente solida da rendere incontrovertibile la transizione alla sovranità francese. Luigi XII lasciò Milano e un fermento di rivolta nel 1499 arrivò fino alle orecchie di Ludovico il Moro che da solo con 13 mila uomini nel 1500 irruppe nel Comasco. L’azione colse impreparati i francesi che avevano solo 9 mila uomini a Milano, e la popolazione esultava per la fine della dominazione francese. I francesi evacuarono le zone meno difendibili e ripararono tra Novara e Alessandria, ma le fortezze rimasero sotto la custodia di guarnigioni transalpine, molto leali. Ludovico entrò a Milano il 5 febbraio ma partì il giorno stesso per Novara. Consumato però il tesoro che si era portato dietro per pagare i combattenti, decise, per mantenere una pace interna, di travestire le tasse da donazioni volontarie: inizialmente la cosa ebbe successo, ma poi calarono e i contributi non bastarono neppure per coprire le spese del secondo mese di guerra. Novara (1500) Solo il 2 marzo Ludovico il Moro pose l’assedio a Novara, chiedendo rinforzi al suo principale alleato in terra svizzera, Schinner, il quale gli mandò un contingente folto ma di bassa qualità, formato dagli scarti delle compagnie ingaggiate dal re di Francia. Comunque in totale erano 30 mila i fanti a disposizione del Moro. Quando però le truppe iniziarono a sospettare che il loro datore di lavoro non aveva soldi con cui pagarli, minacciarono di saccheggiare Novara, ma il Moro rifiutò. Ebbe comunque una vittoria apparente poiché il 20 marzo la guarnigione francese si arrese ma due giorni dopo arrivarono i rinforzi francesi guidati da La Trémoille e Ludovico si rinchiuse dentro le mura. L’8 aprile uscì, scoprendo però che la massa di fanterie al suo servizio aveva una struttura troppo caotica per essere schierata a battaglia e addirittura una parte dell’esercito non rispose ai comandi. La battaglia venne persa senza neppure essere combattuta fino in fondo, e la sera stessa Ludovico scoprì di essere caduto in ostaggio di quella parte dell’esercito che era riuscita a mettersi in salvo tra le mura: questi aprirono le trattative con i nemici per tornare a casa. Il Moro si travestì da soldato nell’uscire dalla città ma fu riconosciuto e portato in Francia dove fu rinchiuso fino alla morte nel 1508. La meteora del duca Valentino Con la caduta degli Sforza in Lombardia, nel 1499 Cesare Borgia inaugurò la sua avventura in Romagna muovendosi alla conquista di Imola. A capo della Romagna c’era la signoria dei Riario, allora governata da Caterina Sforza Riario, nipote di Lodovico. L’insoddisfazione degli abitanti era cosi alta che aprirono subito le porte a Cesare Borgia. Nel gennaio 1500 sia Imola che Forlì erano conquistate. Alcuni mesi dopo fu tempo per Pesaro, retta da un ramo di casa Sforza, che, dichiarato settembre 1504 nel castello di Blois. Con i primi due documenti venne promessa a Luigi XII l’investitura del ducato di Milano, che Luigi XII si impegnò a rendere alla casa d’Asburgo in qualità di dote. Il terzo trattato prospettava un assalto congiunto a Venezia ma senza specificare le modalità. Questo progetto dava per esistente una sinergia tra i due: Luigi XII era determinato a ricostituire nella sua integrità l’antica Lombardia Viscontea, Filippo puntava invece a impadronirsi di tutto il Veneto fino al corso del Mincio. Benché l’accordo fosse segreto, Giulio II prevedeva che qualche notizia sarebbe arrivata a Venezia, e sperava che ciò bastasse a spaventarla e a farsi ridare i territori romagnoli. I Veneziani credettero che per lenire la collera di Giulio II bastasse la cessione di alcuni centri minori della Romagna, Savignano e Sant’Arcangelo. La risoluzione finale la intavolarono nel 1505, offrendo al papa i contadi di Imola e Cesena, in cambio dell’autorizzazione a trattenere Imola e Faenza. Giulio II respinse l’offerta. Come ricompensa per i suoi buoni uffici di mediatore, aveva indotto Luigi XII ad accordagli il benestare dell’assoggettamento di Bologna alla sovranità della Sede Apostolica. A questo evento Giulio dedicò due anni durante i quali vide l’occasione di conquistare oltre a Bologna anche Perugia. Nell’estate del 1506 Giulio II si mise alla guida di un potente esercito diretto a Bologna; lungo la strada compì una deviazione a sorpresa, puntando su Perugia, dove defenestrò Baglioni, allora a capo del regime. Dopo questo primo successo proseguì verso Bologna, dove Giovanni II Bentivoglio si diede alla fuga. Un doppio acquisto di tale entità rese la chiesa romana la dominatrice dell’Italia centrale. Luigi XII si rese allora conto di aver concesso troppo spazio alla politica di ingrandimento di Giulio II. Cosi la prima contromisura consistette nel dare ospitalità in Lombardia ai Bentivoglio fuoriusciti, puntando a servirsi della minaccia di una loro restaurazione a Bologna. Ma Giulio II rispose sottraendo Genova alla dominazione francese, e infatti la città si levò a tumulto nel gennaio 1507. Per riportare Genova sotto controllo Luigi XII dovette riallacciare i rapporti con Ferdinando il Cattolico nel 1507, con un appuntamento a Savona. Si parlò anche di sostituire Giulio II con un altro papa più malleabile, ma non si fece niente perché Ferdinando il Cattolico si mise di intralcio a Luigi XII. Luigi XII si rivolse allora a Massimiliano d’Asburgo con il quale cercò anche di rinnovare il trattato stipulato a Blois nel 1504, azzerato dalla morte prematura di Filippo il Bello nel 1506. Luigi gli promise un’alleanza contro Venezia, promettendogli Friuli e Veneto in caso di vittoria ma Massimiliano volle provare a ingaggiare da solo il duello con Venezia. La lega di Cambrai Nel 1508 Massimiliano effettuò una discesa in Italia con lo scopo di sottrarre il Friuli alla Serenissima. Ma le sue truppe vennero battute dall’esercito veneziano guidato da Bartolomeo d’Alviano il quale occupò Pordenone e poi Gorizia, Trieste e Fiume. Umiliato Massimiliano riattivò la coalizione ai danni di Venezia con Luigi XII. Il trattato, stipulato a Cambrai il 10 dicembre 1508, sancì la costituzione di una grande alleanza neocrociata contro i turchi. Ciascuno dei due contraenti portò poi dentro l’intesa i propri confederati, tra i quali figuravano il papato, il regno iberico di Ferdinando il Cattolico, il regno d’Ungheria- Boemia, il regno d’Inghilterra e diversi stati italiani (Firenze, Ferrara, Mantova). Prima di passare all’offensiva contro i turchi occorreva però spegnere Venezia, che era una fattore di divisione tra gli stati della cristianità. Il bersaglio quindi era la Serenissima, che sapevano già come dividersela. La data di inizia venne fissata per l’1 aprile dell’anno successivo. Giulio II non aveva però dato il suo benestare, ma era stato dato in realtà dal cardinale Georges d’Amboise. Nonostante questo però il papa non seppe volgere le spalle alla prospettiva del guadagno immediato in quanto il trattato di Cambrai stabiliva che alla chiesa romana sarebbero spettati tutti i territori romagnoli occupati dai veneziani, dunque Ravenna, Cervia, Rimini, Faenza, Imola e Cesena. Cosi nel marzo del 1509 Giulio II notificò il suo ingresso nella lega di Cambrai. I veneziani all’inizio preoccupati, non provarono a smontare l’alleanza, in quanto scommisero sulla sua disgregazione alla prima difficoltà. L’obbligo di temporeggiare, lasciando che fossero gli avversari a esporsi attaccando i punti deboli, fu la consegna che Venezia diede ai capi del suo esercito una strategia usata spesso da Niccolò Orsini, ma in contrasto con quella di Bartolomeo d’Alviano, che riteneva invece importanti lo sorpresa e lo scontro audace e risolutivo. Agnadello Le divergenze al vertice dell’esercito veneziano cominciarono ancora prima dell’apertura delle ostilità. Alviano propose di sferrare il primo colpo portando la guerra nel ducato di Milano ma Pitigliano scartò l’idea avendo già deciso per una guerra di contenimento. La cautela del Pitigliano era dovuta al fatto che vedeva l’esercito veneto nettamente inferiore sia per qualità che per quantità a quello francese. Le truppe venete erano composte per gran parte da novizi, reclutati solo poco tempo addietro e mai messi alla prova sul campo di battaglia. Su 22 mila soldati, 9 mila erano reclute provenienti dalle zone rurali più popolose, come il Friuli e le Valli di Brescia e Bergamo. La loro preparazione militare era approssimativa ma avevano una grosso attaccamento alla Repubblica. La posizione arretrata dell’esercito veneziano permise all’avanguardia francese di occupare Treviglio. Di conseguenza Pitigliano dovette accorrere al recupero della città l’8 maggio. Nel frattempo Luigi XII mosse a Cassano e fatti gettare 3 ponti diede il via all’invasione. Alviano propose di sorprenderli durante le operazioni di transito del fiume, ma il Senato spalleggiò la strategia del Pitigliano il quale optò per seguire il nemico in costante prossimità di un centro fortificato. Il Pitigliano contava di fiaccare gli oppositori mettendosi alle loro costole. La sua strategia venne però intuita dai francesi che la neutralizzarono mediante la sorprendente rapidità dei loro spostamenti. I francesi occuparono Rivolta d’Adda e puntarono su Crema, impaurito di perdere un centro di tale importanza, i due eserciti fecero a gara su chi per primo raggiungesse Pandino, la piazzaforte che rappresentava l’antemurale di tutto il territorio cremasco e cremonese. Il 14 maggio l’avanguardia veneziana raggiunse Pandino, dove attesero l’arrivo della retroguardia. Questa era ancora lungo la strada, quando venne avvistata dall’avanguardia dell’esercito francese comandata da Trivulzio, che diede l’ordine di avventarsi contro il nemico. La retroguardia veneziana accettò ben volentieri il confronto. Intanto giunse la notizia a Pandino, cosi Alviano si precipitò indietro per aiutare i compagni, ma nel partire ricevette l’ordine da Pitigliano di disimpegnare la retroguardia e di portarla in salvo. Alviano giunto sul luogo di battaglia vide che, anziché restare compatte e aspettando di ricevere l’urto nemico prima di muoversi, si erano lanciate disordinatamente all’attacco. Ma Alviano riuscì a ributtare indietro la cavalleria avversaria e a rompere le file, aprendosi un varco verso il centro dell’esercito francese, dove si trovava Luigi XII. Alviano pensò di avere la vittoria in pugno, ma sapeva che l’esercito nemico si sarebbe ingrossato con l’arrivo dei rinforzi, mentre dalla sua parte Pitigliano si rifiutò di fornirgli qualsiasi copertura e non si mosse da Pandino. Quando tra le fanterie dell’Aviano si aprirono le prime falle, l’indisciplina si sommò al panico e determinò la fuga incomposta, mentre i francesi, rimessi in ordine, li inseguivano. Alviano si consegnò prigioniero e il resto dell’esercito venne distrutto. A seguito di ciò una cospicua parte dell’esercito veneziano a disposizione di Pitigliano se ne andò e portò il resto delle truppe tra Mestre e Marghera. L’assedio di Padova Le città della Lombardia ex viscontea aprirono le porte ai francesi e tutta la Terraferma veneta entrò in uno stato di ebollizione che fece dubitare della tenuta del dominio italiano della Serenissima. Approfittando della vittoria francese Ferdinando il Cattolico si riprese i porti pugliesi, Giulio II occupò le terre romagnole. A Venezia si sparse un’ondata di terrore apocalittico: nel tracollo militare venne vista la punizione del Cielo per la hybris con la quale la Repubblica aveva tradito il proprio status di città di mare, di traffici e di devozione religiosa per inseguire il miraggio della guerra espansionistica. La minaccia cessò ora di provenire da Luigi XII, il quale, attenendosi agli accordi di Cambrai, non era andato oltre l’occupazione di Bergamo, Brescia e Cremona. Il colpo mortale era arrivato da nord: un corpo di spedizione asburgico che occupò Verona, Vicenza, Padova, Bassano, e Feltre. Ma le popolazioni dei contadini veneti si sollevarono a favore della Repubblica di San Marco, chiedendo il ritorno sotto la sua sovranità e prestando il loro attivo contributo alla lotta di resistenza contro l’invasore oltremontano. Date le limitate dimensioni dall’avanguardia asburgica fu possibile a Pitigliano rioccupare Padova il 17 luglio. Vennero poi avviati i preparativi per reggere a un assedio inevitabile, visto l’arrivo del grosso dell’esercito asburgico. Facendo appello al concorso di tutte le componenti sociali e territoriali in grado di prestare la loro opera, venne raccolto per la difesa di Padova un totale di più di 20 mila combattenti che si sarebbe rivelata in grado di respingere l’urto dei nemici. Per ottenere aiuti dal re di Francia gli promise l’investitura di Milano, ma anche con i suoi aiuti, non riuscì a battere la Serenissima: per la fame, le malattie e la scarsità di fiducia nei suoi uomini, ordinò la ritirata. Il Pitigliano aveva vinto con la tecnica della strategia logoratrice. La svolta antifrancese di Giulio II Una Francia padrona dell’intera Val Padana non stava bene a nessuno, a cominciare da Ferdinando il Cattolico che , placato dalla riconquista dei porti pugliesi, si mostrò contrario alla distruzione totale di Venezia. Ma la più clamorosa inversione si ebbe da parte di Giulio II. Una volta ottenuta la Romagna, Giulio II inaugurò una nuova fase della sua politica temporale, basata sulla cooperazione con Venezia per arrivare ad affermare la chiesa romana come la suprema autorità regolatrice del mondo italiano. Dopo aver trionfato su Venezia, Luigi XII si accinse a porre la sede apostolica sotto tutela, programmando il prossimo cambio di pontificato. Il cardinale Georges d’Ambroise era ben predisposto per tentare la scalata al papato. Intanto Giulio II era tormentato di poter passare alla storia come il massimo artefice di un nuovo asservimento della chiesa romana alla potenza francese. Cosi non appena ebbe l’assoggettamento di Umbria, Emilia e Romagna si precipitò a demolire per ogni via la preponderanza che egli aveva permesso al re di Francia di conseguire in Italia. Ciò lo portò a siglare un trattato di pace con Venezia il 24 febbraio 1510. Con questa egli voleva preparare le condizioni preparatorie del traguardo finale della sua politica italiana, consistente nell’espulsione del regno di Francia della Lombardia. La prima tappa fu una campagna in Emilia, regione che dopo la conquista di Bologna il pontefice mostrò di considerare come un’area di propria pertinenza, percependo con ostilità la presenza al suo interno di una vera e propria isola filofrancese, formata da Ferrara e Mirandola. Lo sforzo di Venezia e del papato si sarebbe pertanto appuntato contro questi due centri. Nella battaglia della Polesella (1509) la flotta fluviale veneta venne sbaragliata dal parco di artiglierie del Duca Alfonso d’Este. Mirandola invece venne conquistata da Giulio II in persona nel 1511. Un duello nel temporale e nello spirituale Quando se ne rese conto, Luigi XII si preparò a sua volta a colpirlo e scelse l’Emilia come terreno di scontro. Luigi appoggiò la restaurazione dei Bentivoglio a Bologna, effettuata nel maggio 1511 con l’ausilio delle truppe francesi. La perdita di Bologna pregiudicò la riuscita finale dell’intera politica italiana di Giulio II e il re di Francia procedette a colpirlo anche sul piano ecclesiologico. Luigi XII istigò i cardinali filofrancesi a distaccarsi da Giulio II e a convocare a Pisa per il 1 la verità questa vittoria si dovette soprattutto all’indebolimento di Venezia. Giocò a favore di Firenze anche la rinuncia di Francia e Spagna a intromettersi nella questione pisana. I soldati fiorentini crollarono però miseramente 3 anni dopo, contro i 6 mila spagnoli condotti dal cardinale de’ medici. Le truppe della repubblica non riuscirono a coordinarsi per sbarrare il passo agli spagnoli e commisero un errore quando permisero a costoro di avvicinarsi indisturbati a Prato. Lì vi trovarono solo 2 mila soldati e la saccheggiarono. Il sacco era un monito inviato ai fiorentini perché non si ostinassero in una contrapposizione ai piani papali. Il messaggio fu afferrato e il governo di Pier Soderini crollò all’istante. Machiavelli si ritrovò senza lavoro e ebbe molto tempo libero da dedicare alla scrittura. Ritornati al potere i Medici badarono a mostrarsi devotamente allineati a Giulio II, il quale, dopo la battaglia di Ravenna, si concentrò soprattutto sul destino della Lombardia, adoperandosi affinché essa recuperasse la dignità di stato sovrano. Lo strumento prescelto fu la restaurazione di casa Sforza, attraverso l’insediamento di Massimiliano, figlio di Ludovico il Moro, come nuovo duca di Milano. Giulio II ottenne questo risultato a pochi mesi dalla morte che avvenne nel 1513. Leone X e i dilemmi del papato A ogni conquista di Giulio II però corrispose l’apertura di un problema che non fece in tempo a risolvere. La gestione degli effetti della Lega Santa venne demandata a Giovanni de’ Medici che venne letto papa nel 1513 con il nome di Leone X. Durante i suoi primi mesi di pontificato Leone X si attenne alla rotta stabilita da Giulio II e confermò l’indirizzo antifrancese della chiesa romana. In ciò fu incoraggiato dalle sconfitte che Luigi XII collezionò nel corso del 1513. L’ultimo colpo gli fu inferto dagli inglesi che dopo aver sconfitto il filofrancese, re di Scozia, Giacomo IV, sbarcarono nelle Fiandre e batterono la cavalleria francese a Guinegatte nel 1513. Cosi entro la fine del 1513 Luigi XII fu costretto a capitolare, sconfessando il conciliabolo e facendo atto di sottomissione alla chiesa romana. Per rendere il primato di casa Medici indipendente dalle fluttuazioni congiunturali Leone X ritenne opportuno radicare i suoi parenti come signori di un territorio situato all’esterno dei confini dello stato fiorentino. In questo modo i Medici sarebbero diventi detentori di un duplice ruolo: principi civili e capifazione dentro Firenze, ma principi territoriali e padroni di eserciti privati in territori prossimi allo stato fiorentino. Leone X individuò nella Francia la controparte provvista di maggiori attrattive, al fine di procurare l’innalzamento della propria parentela. Cosi Leone X intavolò privatamente un negoziato matrimoniale con Luigi XII e nel 1514 fece sposare il proprio fratello, Giuliano de Medici con Filiberta di Savoia, zia di Francesco d’Angouleme, genero di Luigi XII ed erede al trono. Con il matrimonio Luigi XII credette di aver ricevuto il benestare a un’operazione di riconquista della Lombardia. Leone X ipotecò il sostegno francese a un disegno ancora più ardito: alla morte di Ferdinando il Cattolico, ormai prossima, egli intendeva revocare l’investitura del regno di Napoli alla Spagna e fare valere i diritti di sovranità vantati dalla Sede apostolica sopra il Mezzogiorno, e in caso di opposizione spagnola, sarebbe stato pronto a invocare l’intervento armato del regno di Francia. Intendeva poi collocare sul regno di Napoli il fratello Giuliano de Medici. A Roma si era già messo in conto che una volta scomparso Ferdinando il Cattolico, tutta l’Italia sarebbe stata invasa dal ciclone mediceo, Giuliano con Napoli e Lorenzo de Medici, nipote diretto del papa, sarebbe partito all’assalto di Urbino e Ferrara. Ma entrambi sarebbero morti nel giro di pochi anni. Le aspirazioni medicee alla corona di Napoli non vennero assecondate da Luigi XII che, ormai prossimo alla morte, preferì lasciare il mezzogiorno alla Spagna piuttosto che conquistarlo per poi regalarlo al fratello del papa. Cosi Leone frustrato fece garantire la successione papale al cardinal Giulio de Medici, suo cugino, che infatti nel 1523 sarebbe stato eletto con il nome di Clemente VII. Francesco I e la ripresa del progetto italiano Il legame parentale con la casa di Francia, che Leone aveva stretto al fine di nobilitare casa Medici, produsse la conseguenza di rafforzare nella monarchia transalpina la volontà di compiere una nuova discesa in Italia contando sulla neutralità del papato. Morto Luigi XII, l’impresa venne abbracciata dal nuovo re, Francesco I. L’impresa ricevette il forzato benestare di Leone X anche se era chiaro che una nuova calata francese avrebbe gettando il mondo italiano ancora nella sottomissione. Ai corposi interessi politici ed economici che premevano per una riapertura della politica di espansione in Italia, si aggiungeva la personalità di Francesco I, bramoso di compiere grandi imprese. Coniugando tradizione e innovazione, Francesco I continuò a valorizzare la cavalleria pesante, l’arma francese per eccellenza, raggiungendo con lui 11 mila combattenti e a esse aggiunse un corpo di fanteria di più di 30 mila unità. Dato che non gli fu possibile ingaggiare le milizie della confederazione elvetica, che anzi avrebbe dovuto affrontare, arruolò 10 mila fanti guasconi e affiancò ad essi 23 mila lanzichenecchi, rivali delle fanterie svizzere. Nel 1515 si avvicinò a Milano ma attese a Marignano, prima di attaccarla, l’esercito che l’alleata Venezia aveva promesso di mandargli con a capo Bartolomeo d’Alviano. Il contributo di quest’ultimo sarebbe stato determinante per il trionfo di Francesco I nel 1515. Formalmente il papato stava dalla parte di Massimiliano Sforza, ma per ragioni di vincolo parentale era legato anche alla Francia, infatti Francesco I gli ordinò di abbandonare lo Sforza a se stesso. Schinner, visto lo scarso contingente inviato da Roma solo per apparenza, seppe che dovette contare solo sulle sue forze. Marignano (1515) Schinner volle anticipare i tempi, visto anche i contrasti che si erano aperti tra un membro e l’altro della confederazione elvetica per il possesso della Lombardia. Soprattutto i cantoni della parte occidentale avrebbero preferito rinunciare alla Lombardia e tornare alla tradizionale amicizia con il re di Francia. Schinner sperò che una tempestiva vittoria sul re di Francia avrebbe messo a tacere gli oppositori e indotto i veneziani a recedere dal conflitto. Il 13 settembre lasciò Milano e si diresse a Marignano con 22 mila fanti svizzeri. Le truppe elvetiche giunte al campo formarono tre quadrati della stessa grandezza e avanzarono all’attacco. L’urto della cavalleria pesante francese venne respinto senza difficoltà e al calare della sera la battaglia non si interruppe. All’alba del 14 settembre il combattimento riprese. I comandanti svizzeri passarono all’attacco e premettero soprattutto su uno dei due lati, dando al nemico l’impressione di essere più debole sull’altro lato, per poi lanciare l’attacco proprio su questo secondo lato. Ma la manovra fallì perché proprio quella mattina l’esercito veneziano giunse da Lodi e intrappolarono uno dei tre quadrati svizzeri. L’armata svizzera perse il 30% dei soldati, percentuale doppia rispetto ai francesi. Il trionfo permise a Francesco I di entrare indisturbato a Milano. Il duca Massimiliano Sforza rinunciò ai suoi diritti in cambio di un vitalizio e accettò di trasferirsi a Parigi dove morì nel 1530. Schinner andò alla corte di Massimiliano d’Asburgo e d’Alviano stremato morì da li a poco. Dopo la riconquista della Lombardia, Francesco I fissò con Leone X un appuntamento a Bologna nel 1515. Ne derivò un accordo che, sul piano ecclesiologico, chiuse la lunga fase tardo medievale della contrapposizione giuridica tra Chiesa gallicana e Chiesa romana. Sul piano della politica italiana però i frutti racimolati da Leone X furono ben più magri. Francesco I pretese indietro Parma e Piacenza e non restituì Modena e Reggio alla casa d’Este. Le uniche ambizioni dei Medici che Francesco appoggiò furono: la protezione alla loro preminenza in Firenze e accordò il benestare all’acquisizione del ducato di Urbino per Lorenzo de Medici il giovane. Quest’ultimo voleva anche ampliare con Lucca e Siena e costituire il Regno di Toscana. Inseguendo tali progetti, diede il tempo a Francesco Maria della Lovere (capo di Urbino) di riorganizzarsi con il segreto aiuto di Venezia. Leone X diede molti soldi al nipote per il conflitto, cosa che mise in evidenza l’inettitudine di Lorenzo de’ Medici. Si concluse la lotta nel 1517 con un compromesso che lo lasciò in possesso di Urbino, ma che consentì al della Lovere di conservare intatto l’esercito che avrebbe poi usato alla morte di Leone X. L’Italia chiave della governabilità tedesca Morto Ferdinando il Cattolico, gli subentrò il nipote Carlo d’Asburgo, il quale prese il nome di Carlo I di Spagna ed ereditò il patrimonio della Casa di Castiglia, d’Aragona e i possedimenti italiani. Il re di Francia intanto aveva pretese su Napoli ma anche sulla Spagna, cosi in cambio dell’impegno a non intervenire negli affari iberici, Carlo I era disposto a lasciargli l’intera Italia. Ma poi riuscì comunque a trovare un punto di accordo con Francesco I senza lasciargli Napoli: la pace di Noyon, stipulata nel 1516 tra Carlo I di Spagna e Francesco I di Francia doveva fungere da preliminare per un piano di completa spartizione dell’Italia, che ovviamente includeva la conquista del Veneto. Con il trattato di Cambrai nel marzo 1517 stesero un calendario delle operazioni belliche ai danni di Venezia, ma da li a poco i piani sarebbero saltati in conseguenza dei piani familiari elaborati nel frattempo da Massimiliano d’Asburgo. Convintosi che fosse ormai tempo di demandare alla generazioni future la conduzione della lotta antifrancese, l’anziano Massimiliano decise di riversare su suo nipote Carlo il patrimonio domestico. Cosi su di lui sarebbe confluita anche l’eredità asburgica e con essa, la candidatura al titolo di sacro romano imperatore. Nell’ottica di Massimiliano l’intromissione del mondo tedesco nelle guerre peninsulari doveva costituire la chiave della governabilità del mondo germanico. Il progetto non colse il successo sperato: l’Italia risultò uno spazio impervio per la potenza tedesca e il potere esercitato da Massimiliano sopra il Sacro romano impero rimase debole. Lo si vide per l’ultima volta nel 1518 quando Massimiliano cercò di ottenere dai principi elettori l’autorizzazione a trasmettere a Carlo la corona di re dei Romani. Quando morì nessuna garanzia di successione risultava in possesso di Carlo d’Asburgo. Questo posto iniziò a essere ambito da Francesco I, anche se era in netta contraddizione con il titolo di Sacro romano impero della nazione Germanica, ma ciò sembrò di poca importanza a Francesco I, anche perché era l’unico modo per mantenere il controllo sull’Italia. Francesco I offrì moltissimi soldi ai principi elettori ma anche Carlo d’Asburgo non si tirò indietro e intromise nella campagna elettorale i Fugger, banchieri fiduciari della sua casata questi presero monete d’oro da Francesco I e cambiali da riscuotere dopo le elezioni da Carlo I. Essi incassarono denaro contante dal primo e votarono in favore del secondo. L’elezione di Carlo V Carlo venne eletto il 28 giugno 1519 con il nome di Carlo V, tra l’esultanza del mondo germanico che vide in lui un paladino in grado di sfidare la preponderanza conquistata dalla Francia tra l’Italia e l’Europa. Poco prima dell’elezione imperiale, Leone X si era unito con un patto segreto di alleanza difensiva tanto con Francesco I tanto con Carlo I, all’insaputa l’uno dell’altro. Ansioso di accattivarsi la benevolenza di Carlo mediante un gesto riparatorio, il pontefice gli promise un documento che gli avrebbe consentito di mantenere la corona di Napoli anche qualora fosse stato eletto imperatore, chiudendo cosi però il papato in due fuochi. Nel consegnargli il documento, Leone X ribadì il veto papale a qualsiasi estensione del dominio diretto del sacro Romano impero in Lombardia e in Toscana. In ogni caso Leone X non si azzardò a uscire dall’intesa con la Francia e anzi, riconfermò nel 1519 l’alleanza difensiva che intratteneva con Francesco I. Leone X però si rese conto che finché la Francia rimaneva padrona di Milano, il dominio della chiesa in Emilia e quello in Romagna, sarebbero rimasti precari e non avrebbero conosciuto ulteriori ampliamenti. Il Ferdinando d’Avalos, marchese di Pescara, il quale si ricoprì di gloria nel 1524, quando fu mandato verso le frontiere piemontesi a parare una nuova invasione francese. Egli ricacciò il nemico alla battaglia di Romagnano per inseguirlo poi fino a Gattinara e qui morì Baiardo, la migliore spada di Francia. Fu questo il primo scontro in cui il fuoco di fila delle fanterie spagnole ebbe la meglio sulla carica della cavalleria pesante francese. Borbone, trascinato dall’istinto vendicativo (era un dignitario della corte di Francia e aveva avuto uno screzio con il re) decise di varcare i confini della Provenza e arrestarsi sotto le mura di Marsiglia. Andò in salvataggio a Marsiglia Francesco I in persona e dopo averlo sconfitto li inseguì fino alle Alpi, penetrando in Val Padania nel 1524. Trovò sgombra la strada verso Milano, perché Borbone e il suo esercito si era sparpagliato nelle piazzeforti di Lodi, Pavia e Soncino in attesa di rinforzi. Aiutato dal partito guelfo, Francesco I entrò a Milano e occupò buona parte del ducato. Pavia fu quella che fece maggiore resistenza. Pavia (1525) Francesco I a fine novembre 1524 pose il campo a Pavia mettendosi nel parco ducale, che si estendeva dal retro del castello visconteo fino alla Certosa ed era circondato da un muro. Dentro al castello la guarnigione spagnola assistette impotente alle scariche di proiettile che l’artiglieria francese rovesciò dentro le mura cittadine. Dalla Germania vennero apprestati i soccorsi per i difensori nel 1525, 8-9 mila lanzichenecchi si congiunsero a Lodi con le truppe spagnole del marchese di Pescara. Questi, non appena ricevuti i rinforzi, si mise in marcia e dopo aver occupato Sant’Angelo Lodigiano, il d’Avalos marciò verso Pavia. Il numero di uomini dei due eserciti era simile, ma i francesi disponevano di una cavalleria pesante assai valida. Ma fondamentale in quella battaglia fu l’uso delle armi da fuoco portatili. Dopo tre settimane il marchese decise di attaccare, anche vedendo lo stato in cui riversavano le sue truppe: era meglio agire se no il suo esercito si sarebbe ben presto sfasciato. Nel massimo silenzio della notte gli spagnoli aprirono tre brecce nel muro del parco ducale attraverso le quali passarono l’avanguardia degli archibugieri e il grosso delle truppe. Si accamparono nelle selve boscose tutt’intorno al campo nemico. Francesco I all’alba si rese conto di tutto e partì all’attacco con la cavalleria pesante lasciando che il grosso dell’esercito finisse di prepararsi e si unisse in un secondo momento al combattimento. La cavalleria francese però giunse alla portata di tiro degli archibugieri spagnoli e una pioggia di proiettili colpì i baroni più illustri e lo stesso sovrano venne fatto prigioniero. Arrivò però poi la fanteria svizzera che formò due grandi quadrati e si lanciò all’attacco anche se in ritardo. Ma entrò in azione anche la guarnigione del castello come da accordo con gli spagnoli, e i quadrati svizzeri dovettero difendersi sia dietro che davanti. I vincitori misero a sacco l’accampamento nemico e di francesi ne morirono tra i 6 e i 10 mila. L’ultimo palpito della “libertà d’Italia” Rimasto senza rivali sul territorio italiano, Carlo V iniziò a essere visto malamente, in quanto si temeva potesse instaurare una “monarchia universale”. Cosi Clemente VII si schierò tra gli avversari di Carlo V. La parola d’ordine che iniziò a circolare in questo contesto storico fu la locuzione “libertà d’Italia”. Un luogo comune del discorso politico allora circolante voleva che la configurazione più adatta alla Penisola fosse quella che prevedeva la sua sostanziale autonomia e la sua articolazione in una molteplicità di stati, governati da sovrani autoctoni. A farsi promotori del riscatto del mondo italiano furono nella primavera del 1525 i veneziani, timorosi di Carlo V. nel sondare la disponibilità degli stati peninsulari alla coalizione antiasburgica, i veneziani fecero uso della quiete e dell’equilibrio d’Italia, richiamandosi ai trascorsi quattrocenteschi. L’obiettivo era quello di arrivare a una nuova unione tra gli stati peninsulari che risultasse sufficientemente solida da inibire qualsiasi proposito di sopraffazione di Carlo V. il referente al quale i veneziani si rivolsero fu Clemente VII. Il pontefice però era più preoccupato della famiglia Colonna, capofila del ghibellinismo laziale, che aspettava solo un pretesto per balzare su Roma e saccheggiarla. Preoccupato delle conseguenze di un suo possibile pronunciamento antimperiale, Clemente VII diede una risposta deludente ai sondaggi veneziani. Aderì invece Francesco II di Sforza, che non si rassegnava al trattamento che Carlo V intendeva impartire alla Lombardia, riducendola a satellite. Cosi lo Sforza aderì segretamente al disegno veneziano utilizzando da tramite il primo ministro Girolamo Morone. Il progetto a cui quest’ultimo lavorò prevedeva la formazione di una triplice lega fra Milano Venezia e il papato, alla quale Francia e Inghilterra avrebbero dato il loro appoggio. Gli stati italiani avrebbero lanciato la sfida all’Asburgo mettendo in discussione il suo possesso del Mezzogiorno. Ma in realtà nascosti c’erano altri programmi: il papa meditava di annullare l’investitura del regno di Napoli solo per conferirla a qualcuno dei suoi parenti dei de Medici, il Morone, preoccupato di trovare un portaspada del riscatto italiano, si illuse di trovarlo nel marchese di Pescara. Ma questo lo fece arrestare nel 1525 e diede ordine alle sue truppe di occupare il ducato di Milano per conto dell’imperatore, al quale denunciò il tradimento per conto di Francesco II Sforza. Ma la morte del marchese di Pescara fece rientrare la situazione, ma i rapporti tra Carlo V e l’Italia erano ormai rotti. Francesco I, liberato dalla prigionia, aderì alla Lega antiasburgica stretta a Cognac il 22 maggio 1526 tra Venezia, Milano, Firenze e Clemente VII. La lega santa (per la presenza del papato) prese contatti anche con il sultano Solimano II il Magnifico, proprio per limitare del tutto la potenza di Carlo V. La parte di bottini di Francesco I in caso di vittoria fu limitata ad Asti e al protettorato su Genova, per il regno di Napoli si decise che l’attuale possessore avrebbe potuto conservarlo solo se l’avesse riconosciuto come feudo della Chiesa. Titubanze fatali Nel 1526 Venezia e il papa fecero convergere sulla Lombardia un esercito di 22 mila uomini mentre il contingente imperiale era piuttosto sguarnito. Alla guida della campagna antimperiale era stato preposto Francesco Maria della Lovere, duca di Urbino, il quale ebbe sotto di sé Giovanni dalle Bande Nere, ma neanche quest’ultimo riuscì a smuovere il duca di Urbino dalla sua lentezza. I piani della lega di Cognac prevedevano una avanzata su Milano dove prevenire l’occupazione della città da parte del connestabile di Borbone. Questi però, battendo il nemico sul tempo, portò le sue truppe dalla Liguria fin dentro la capitale Lombarda. Il duca Francesco II ebbe appena il tempo di rinchiudersi nel castello, in attesa di soccorsi che non arrivarono mai in quanto il della Rovere rinunciò a marciare su Milano. Occupò invece Lodi e Cremona. Intanto il papato di Clemente VII aveva tentato un colpo su Genova e Siena senza però riuscirvi. Cosi Roma dovette subire la rappresaglia per mano dei Colonna che penetrarono a sorpresa con le loro milizie partigiane dentro le mura. Questo Sacco Colonnese anticipò solo quello che avverrà poi. Ciò sottolineò l’inettitudine del pontefice e delle sue truppe. Conseguito il pieno controllo di Milano Carlo V ne fece la base di partenza per una controffensiva che si sarebbe avvalsa di un corpo di spedizione di 12 mila lanzichenecchi, allestito nel 1526 e posto sotto il comando di Georg von Frundsberg. Occorreva tenere il più lontano possibile da Milano le milizie lanzichenecche, e del compito si occupò Giovanni delle Bande Nere che pensò di sfiancarle mediante continue scaramucce. Il duca di Mantova e il duca di Ferrara però parteggiavano per l’imperatore e quando dunque i lanzichenecchi entrarono in territorio mantovano, il transito venne loro facilitato dall’aiuto fornito da Federico Gonzaga. Nel frattempo l’Este fece arrivare dal Ferrara pezzi di artiglieria leggera che Frundsberg mise da parta come arma segreta. Il 25 novembre presso Governolo Giovanni riuscì ad agganciare la retroguardia lanzichenecca, ma poi i nemici tirarono fuori le armi stupendo Giovanni. Morì pochi giorni dopo a Mantova, lasciando un figlio piccolo, Cosimo, che sarebbe diventato il primo granduca di Toscana. Il sacco di Roma (1527) I lanzichenecchi passarono il Po’ e si misero in contatto con il connestabile di Borbone. Inoltre della Rovere, addolorato per la morte del Medici, aveva sospeso ogni attività offensiva. Il pessimo stato delle truppe spagnole e tedesche, che reclamavano soldi tramite il saccheggio, fece sì che il Borbone raggiunse Frundsberg nel Piacentino e insieme a lui si mise in marcia verso sud. Non si può stabilire con certezza se i due comandanti avviarono la spedizione punitiva di Roma con il segreto beneplacito di Carlo V. Ripresosi dal sacco colonnese di Roma, Clemente aveva aperto le ostilità contro Napoli per cacciare la Spagna dall’Italia, ma poi si affrettò a stipulare una tregua il 15 marzo 1527 sapendo che non poteva vincere. Ordinò poi il disarmo delle sue truppe, sperando cosi che Carlo V richiamassi indietro i due comandanti in cammino. Clemente si illuse che a tenere sotto controllo la discesa dei lanzichenecchi sarebbe bastata la sorveglianza del della Lovere, che però aveva ben stampata in testa la memoria della guerra di Urbino, mossagli da Leone X, e inoltre a riaprire la ferita era il rifiuto di Clemente VII a restituirgli la roccaforte romagnola di San Leo, occupata dalle truppe papali. Il duca di Urbino frazionò il suo esercito in tre unità per tallonare l’armata tedesca senza però pensare di sbarrarle il passo. Pensò che la meta del connestabile fosse Firenze, che si adoperò a proteggere da più lati. Cosi facendo lasciò però libera ai lanzichenecchi la via per il Lazio. Lo scoppio di una rivolta antimedicea dentro Firenze lo costrinse però ad accorrere nella città e ciò permise al Borbone di acquisire un enorme vantaggio nella corsa verso Roma. Durante il cammino l’esercito raddoppiò, tra disertori dell’esercito della Lega, soldati disoccupati, briganti ecc. E questi 30 mila si sarebbero aggiunti i Colonna con le loro bande. Gli assalitori calarono sul vaticano all’alba del 6 maggio 1527, investendo le antiche mura nel tratto compreso tra l’attuale porta Cavalleggeri e il bastione di Santo Spirito. Si trovarono di fronte poche migliaia di fanti volontari guidati da Lorenzo Orsini a cui Clemente VII aveva affidato il coordinamento delle difese. Il primo attacco fu respinto ma non il secondo, dove però trovò la morte il connestabile di Borbone. In questo secondo attacco molti dei difensori si diedero alla fuga. Clemente VII si rifugiò dentro Castel Sant’Angelo e quel giorno si contarono 6 mila morti tra i romani. L’ondata di aggressori si arrestò davanti alle ben presidiate mura di Castel Sant’Angelo che insieme al papa ospitava 3 mila notabili. I lanzichenecchi presero possesso dell’intera città, la quale venne ripartita in zone di saccheggio che gli occupanti si distribuirono tra loro. In molti casi il denaro era nascosto in tombe e latrine, cosi che ciò distrusse il sistema fognario e tra sporco e cadaveri insepolti si diffuse una grossa epidemia di peste. Le case dopo essere state derubate venivano incendiate e la popolazione calò di 30 mila unità. Ci fu anche la profanazione dei luoghi sacri, di San Pietro e dei Palazzi apostolici si fecero alloggiamenti e stalle per cavalli. Le reliquie vennero disperse. Il 21 maggio il della Rovere giunse a Roma ma si ritirò vedendo la situazione. Cosi il pontefice si arrese agli occupanti che non lo ammazzarono ma vollero una taglia di 400 mila ducati. Continuò a vivere chiuso in Castel Sant’Angelo ma poi a dicembre scappò a Orvieto con uno stratagemma. A liberare i romani dai saccheggiatori ci pensò la peste, anche se per tutta la seconda metà del 1527 Roma rimase sotto il controllo dei lanzichenecchi. Solo nel gennaio 1528 un corpo di spedizione francese comandato da Lautrec, scese verso il Lazio e liberò la città, prima di proseguire verso sud per tentare la conquista del regno di Napoli. Pax imperialis feudi imperiali situati in Piemonte, il marchesato di Ceva e la contea di Asti. Negli anni precedenti Carlo II aveva cercato di ingraziarsi Francesco I, di cui era zio, ma poi, per proteggersi dalle mira espansionistiche della Francia, il duca Carlo II cercò in Carlo V un appoggio che nel 1521 venne solennizzato attraverso il matrimonio portoghese. Con la pacificazione generale del 1530 e con l’estromissione dei francesi dalla Lombardia, il ducato di Savoia diventò satellite della casa d’Asburgo. Nel 1533 quando il marchesato del Monferrato rimase vacante, Carlo V anziché accontentare le richieste della casa di Savoia, lo assegnò ai Gonzaga di Mantova, pronti a sborsare in cambio fiumi di denaro. Lo stesso accadde con gli Este di Ferrara che nel 1531 si videro loro Modena e Reggio, grazie a una lauta contropartita in denaro, rubandole alla Chiesa romana. Cosi Clemente VII, dopo questo gesto, si ritenne libero di accostarsi a Francesco I e combinò il matrimonio tra sua nipote Caterina de’ Medici e il duca Enrico d’Orléans, secondogenito del re di Francia. Il centro della contesa franco-imperiale rimase come sempre il ducato di Milano. Francesco II Sforza aveva un cattivo stato di salute ed era privo di eredi. Era tuttavia prevedibile che una decisione unilaterale in merito a Milano avrebbe moltiplicato i risentimenti nei confronti dell’imperatore. Cosi Carlo V indisse un convegno a Bologna nel quale propose la stipula di una lega generale tra l’impero e tutti gli stati d’Italia, tranne Venezia, visti i suoi legami con Francia e ottomani. Ma l’iniziativa, che ebbe luogo tra il 1532-33 si rivelò un fiasco, soprattutto quando i signori d’Italia compresero che l’imperatore voleva scaricare su di loro i costi del mantenimento delle guarnigioni spagnole nella Penisola. Visto anche lo scontento, Francesco I riprese a volere Milano. Fece sapere di essere disposto a mantenere il ducato lombardo separato dal patrimonio della corona di Francia, per darlo a suo figlio, il quale avrebbe fondato un lignaggio a sé. Ma il programma saltò quando nel 1534 morì Clemente VII e nel 1535 anche Francesco II Sforza. Cosi tutto venne a dipendere da Carlo V, in quanto alto sovrano. ( Intanto come nuovo papa fu eletto Paolo III Farnese, un aristocratico laziale che non avrebbe tardato a distinguersi come campione del “grande nepotismo”). Quando Beatrice del Portogallo provò a chiedere a Carlo V di dare Milano al piccolo Luigi di Savoia, suo primogenito, le venne negato. L’imperatore voleva dare Milano al figlio Filippo, erede al trono di Spagna, ma ciò avrebbe causato problemi con Paolo III e Francesco I. al re di Francia non serviva che un pretesto per riattaccare guerra in Italia, sapendo di poter contare sull’appoggio di Paolo III. Inoltre la grande risorsa di cui disponeva ora era l’alleanza con il sultano Solimano il Magnifico. L’asse franco-ottomano venne formalizzato nel 1536 e diede luogo a un piano di guerra che prevedeva un assalto congiunto alla Penisola, seguito da una spartizione che avrebbe lasciato il centro-nord ai francesi e il sud agli ottomani. Paolo III però, a differenza del suo predecessore, era preoccupato a salvare Roma. Restava infatti non chiara nella spartizione franco-ottomana, la sorte che sarebbe toccata all’Urbe, ambita molto da Solimano. Cosi Paolo III fu cauto nel modulare il sostegno che, pure, continuò ad accordare alla Francia per bilanciare la preponderanza della casa d’Asburgo. L’attacco franco-ottomano non ebbe mai luogo, anche perché ostacolato indirettamente da Paolo III, mentre si effettuò quello franco-asburgico. Certo di avere il papato dalla sua, il sovrano francese organizzò una spedizione che pose sotto il comando dei suoi figli Francesco e Enrico. I due avrebbero prima dovuto puntare sul Piemonte con la previsione che, Carlo V, per non abbandonare Carlo II, avrebbe accettato di cedere la Lombardia. Ceresole d’Alba (1544) Nel 1536 l’esercito francese irruppe in Piemonte. Insieme a Torino venne occupata una gran parte del territorio subalpino a eccezione di una manciata di centri urbani (Vercelli, Biella, Ivrea, Asti, Cuneo, Fossano) e di territori (Canavese, Val d’Aosta), che rimasero fedeli al duca Carlo II. Ma un imprevisto nell’estate 1536, bloccò la macchina bellica: la morte del primogenito diciottenne Francesco e la candidatura al ducato di Milano passò al terzogenito Carlo che assunse il titolo di duca d’Orleans. Uno sguardo alla situazione indusse Solimano a non effettuare per quell’estate uno sbarco in Puglia, ma aspettò di avere in mano tutte le precondizioni per il successo. Carlo V, rinunciando a intervenire in sostegno del duca di Savoia, optò per un attacco in privanza che avrebbe dovuto costringere gli occupanti francesi a evacuare il Piemonte. Una mosse che non portò a nulla, se non quella di offrire a Paolo III la possibilità di interporsi in qualità di mediatore di pace. Cosi nel 1538 venne organizzato un congresso a Nizza dal papa con Carlo V e Francesco I per discutere i termini della tregua: da questo incontro Carlo II di Savoia non guadagnò nulla, mentre Paolo III fu felice di scongiurare l’alleanza ottomana da parte di Francesco I. Questi fu gratificato mediante il riconoscimento degli acquisti che aveva fatto in Piemonte. Lo stato di guerra intanto aveva costretto la famiglia ducale sabauda alla diaspora. Carlo II si era rifugiato a Vercelli, la duchessa e i figli andarono a Nizza ma questi e la madre morirono tutti, tranne Emanuele Filiberto, entro il 1538. Su di lui si appuntarono tutte le speranze di sopravvivenza della casata. A otto anni ricevette il titolo di principe di Piemonte. Fra il 1540 e 1541 Carlo II accompagnò in Germania l’imperatore nell’intento di rendere la lotta di liberazione della Savoia un affare di pertinenza del mondo germanico. Alla dieta di Ratisbona del 1541 provò a esporre ai delegati le ragioni di un deciso sforzo antifrancese in Val padana, ma incontrò deboli adesioni, cosi come l’offensiva marittima che Carlo V intendeva guidare contro lo stato barbaresco di Algeri, vassallo di Solimano. Rientrato in Italia, l’imperatore mise mano alla spedizione in Africa settentrionale, ma l’impresa, compiuta fuori stagione, fu fatale: giunto in prossimità di Algeri, una tempesta disperse la flotta. La sventura risvegliò Francesco I che nel 1542 aprì le ostilità su ben 3 fonti: Perpignano, Lussemburgo e Piemonte. L’anno dopo la flotta turco-algerina mosse su Nizza che venne presa nel 1543. Cosi Carlo II rimise le sue sorti al successo delle iniziative di Alfonso III d’Avalos, governatore di Milano e marchese del Vasto. Questi nel 1543-44 ebbe da Carlo V l’autorizzazione di andare a rompere guerra in Piemonte in risposta alla discesa di un esercito francese al comando di Francesco di Borbone, duca di Enghien. L’armata di quest’ultimo conquistò Susa e Pinerolo e poi mosse contro Carignano, forzando il nemico a intervenire. Il governatore di Milano ricevette l’apporto di un contingente tedesco di lanzichenecchi e occuparono Ceresole d’Alba, presso Carmagnola, pensando di usarla come base da cui assalire il nemico impegnato dell’assedio di Carignano. Ma il duca di Enghien non si fece prevenire e andò in cerca del contatto con il nemico, presentandosi nel 1544 nella piana di Ceresole in assetto da battaglia ultimo scontro di grandi proporzioni che si tenne nel corso delle guerre d’Italia. Entrambi gli eserciti adottarono una formazione che presupponeva un alto grado di integrazione tra reparti a piedi e reparti a cavallo, erano state le armi da fuoco portatili a modificare il tutto. I comandanti non smisero di presenziare in campo su una sella di un cavallo, ma schierarono in seconda fila protetti da una serie di tiratori. Di conseguenza la cavalleria pesante non entrava più in azione per prima, ma lo facevano le falangi della fanteria. Ciascun esercito si presentò in battaglia diviso in diverse sezioni, il centro e le due ali e ciascuna parte costituiva un esercito interarmi a sé. Il terreno pianeggiante favorì il dispiegamento di manovre a vasto ingombro che videro il susseguirsi di tentativi di aggiramento. Il marchese del Vasto era convinto che le raffiche delle armi da fuoco dei suoi tercios fossero in grado di arrestare qualsiasi carica della cavalleria francese. Riteneva che nessuna fanteria nemica fosse in grado di superiore quella spagnola. Effettivamente all’inizio l’esercito francese barcollò ai lati, soprattutto sull’ala sinistra che stava sfaldandosi sotto i colpi di archibugieri spagnoli. Il cedimento fu impedito dal duca di Enghien che, infilandosi con la sua cavalleria pesante tra le falle delle proprie linee, tenne aperte le sorti dello scontro. Il marchese del Vasto però aveva posizionato le sue truppe più scadenti al centro, che, quando videro le massicce proporzioni del nemico, si sottrassero al combattimento. La resistenza dell’ala sinistra durò il tempo necessario a permettere al centro di distruggere la sezione corrispondente della formazione nemica. Dopo aver conquistato la supremazia in questo settore, la massa vittoriosa di parte francese volse a sinistra e procedette ad accerchiare l’ala destra nemica. I lanzichenecchi si arresero lanciando le picche a terra, dopo aver capito che la battaglia era ormai persa, ma gli svizzeri li massacrarono senza pietà. I morti tra gli ispano-imperiali erano sui 6-7 mila, a causa di tanta ferocia. La Spagna subentra all’impero Dopo Ceresole i vincitori ebbero spalancata la strada per Milano, ma Francesco I, a corto di mezzi, non sfruttò l’occasione e lasciò a Carlo V il tempo di riorganizzarsi in Lombardia. La diplomazia papale si mise all’opera e con la collaborazione di alcuni personaggi di spicco dell’Italia asburgica, tra cui Ferrante Gonzaga, orchestrò un accordo di cessazione delle ostilità che venne siglato a Crépy il 18 settembre 1544. Esso assegnò il possesso di Milano a Carlo V e del Piemonte a Francesco I. non tutti però quelli intorno a Carlo V condividevano l’ansia di mantenere sotto il dominio diretto della casa d’Asburgo una provincia del calibro della Lombardia. Cosi i consiglieri di Carlo V si divisero in due correnti: da una parte vi furono i sostenitori della necessità di ingraziarsi la Francia cedendole Milano, fonte di spese senza fine per via delle continue guerre, ma conservando il dominio sui Paesi Bassi, che avrebbe comunque permesso di tenere Parigi sotto scacco. Dall’altro si schierarono i fautori del mantenimento della Lombardia, un serbatoio di risorse fiscale talmente cospicuo da permettere di reggere qualsiasi attrito con la Francia. Stanco di guerre Carlo V si mostrò propenso alla prima opzione e voleva dare la Lombardia in dote a sua nipote che avrebbe sposato il Duca di Orleans, ma la morte di questo nel 1545 eliminò questa possibilità e permise a Carlo V di agire in buona coscienza e concedere di nuovo, stavolta definitivamente, il ducato di Milano al proprio figlio Filippo di Spagna. Promulgato nel 1546, l’anno solenne di investitura fu mantenuto segreto per tre anni, anche perché nomignoli come quello di “tirannia” già circolavano in Italia sul suo conto. Un’area destinata a farsi sempre più critica fu la Toscana senese. Con la riduzione dell’Italia sotto l’egemonia ispano-imperiale, la “libertà” di Siena perse di peso agli occhi di Carlo V, che finì per subordinarla alle ragioni della “quiete” generale. Durante i fatti del 1529-30 i senesi contribuirono con denaro e artiglierie alla caduta della repubblica fiorentina. Nel 1532 l’Asburgo acconsentì a dare il titolo di duca di Firenze ad Alessandro de’ Medici, figlio del nipote di Clemente VII, Lorenzo. La scelta fu ripetuta anche dopo il 6 gennaio 1537, quando il duca Alessandro venne assassinato dal cugino Lorenzino, artefice di un vano tentativo di riportare in vita la Repubblica. Nell’alternativa che allora si riaprì, Carlo V ribadì la preferenza per il principato e si persuase a sostenere l’avvento al trone di Cosimo, figlio di Giovanni delle Bande Nere. Capeggiati da Filippo Strozzi, i fautori del ritorno a un reggimento oligarchico si scontrarono con le milizie di Cosimo a Montemurlo nel 1537. Ne riportarono una disfatta che Filippo pagò anche con la vita. La preminenza acquisita da Cosimo convinse Carlo V ad accordargli il titolo di duca, quello di granduca sarebbe arrivato solo nel 1569 dal papa. Margherita d’Asburgo, vedova del defunto Alessandro andò in sposa a Ottavio Farnese nel 1538 e duca Cosimo I de’ Medici dovette accontentarsi di Eleonora di Toledo, figlia del viceré di Napoli. A partire dal 1530 a Siena venne dislocato un rappresentante dell’imperatore che, senza partecipare ufficialmente al governo della città, fu preposto a orientarne le scelte in una direzione non difforme dagli interessi della Spagna. Ma più ancora l’agente imperiale dovette affannarsi a parare gli inconvenienti dell’instabilità di un sistema sempre sull’orlo di una guerra civile. Le turbolenze senesi minacciarono di produrre effetti a cascata poiché risvegliarono le ambizioni di Paolo III, il quale avrebbe volentieri preso a preteso una sollevazione popolare per accogliere la città sotto la protezione della Sede apostolica e quindi governo filofrancese di Siena. Al suo arrivo a Siena nel gennaio 1554, lo Strozzi non ebbe quasi il tempo di prendere i primi provvedimenti poiché Cosimo diede ordine al Madeghino di ammassare di nascosto verso Poggibonsi. Nella notte tra il 26 e il 27 gennaio l’armata fiorentino-imperiale si mise in marcia sotto una pioggia a dirotto e giunsero in prossimità di Siena, dove le sentinelle li avvistarono davanti a porta Camollia. Un avamposto fortificato posizionato fuori porta Camollia venne preso ma poi le difese della città risultavano inavvicinabili. Gli assedianti consumarono le settimane in un’attesa logorante e il marchese cercò di compensare la frustrazione mediante rappresaglie che lo spinsero a rendere deserto molte zone della campagna senese impiccando contadini. Per salvaguardare l’economia agricola, Pietro Strozzi passò da difensore a aggressore. L’11 giugno uscì dalla città e si unì a Lucchesia con un contingente di soccorso reclutato in Emilia. Grazie a questo esercito occupò Pescia e diverse terre della Valdinievole. Voleva puntare sull’impopolarità del regime mediceo per arrivare a liberare Siena e provocare la caduta di Cosimo. Dal re di Francia aveva avuto la promessa di arrivo di rinforzi via mare a Viareggio ma quando arrivò non vi trovò traccia. Curando di non incrociare l’armata di Marignano che stava dandogli la caccia, andò a Siena: la missione aveva registrato alcune effimere vittorie seguita da una ritirata prematura, i cui effetti disastrosi si sarebbero presto visti. Marciano della Chiana (1554) L’intervento in Valdinievole e Versilia era stato concepito come diversivo con cui attirare le truppe lontano dal territorio senese nel quale stavano per avere inizio le operazioni di mietitura. Ma la manovra, terminata troppo presto, non durò il tempo bastante a permettere la ricostituzione delle scorte alimentari che stavano andando incontro a un calo irreversibile, proprio mentre le bocche da sfamare si accrebbero con l’arrivo del tanto atteso contingente francese. Sbarcato a metà luglio a Scarlino, esso era comandato da Blaise de Monluc. Questi, affamati, cercarono subito uno scontro con le truppe nemiche, ma il Marignano non si fece adescare: puntò a logorarli. Piero Strozzi lo capì subito e ancora una volta uscì dalle mura di Siena verso Valdichiana, mentre Monluc restava a presidiare Siena. In Piero si agitava pur sempre la brama di far esplodere una ribellione che si sarebbe dovuta estendere fin dentro la capitale. Il punto di innesco della rivolta fu individuato in Arezzo, dove il 20 luglio lo Strozzi tentò un colpo di mano che tuttavia cozzò contro la vigilanza dei difensori. L’esercito franco-senese si riversò allora in Valdichiana, facendola oggetto di saccheggi. Il Marignano giunse sul teatro delle operazioni nell’ultima settimana di luglio, ma non ostacolò lo Strozzi che fu libero di occupare Marciano e accanirsi contro la cittadina di Foiano. Ma visto che persisteva nella fedeltà a Firenze, Foiano venne incendiata, e le donne violentate. Il Marignano non si lasciò però andare ad azioni sconsiderate. Riprese Marciano ed era sicuro che lo Strozzi avrebbe voluto combattere immediatamente in quanto la scarsità di vino , acqua e denaro era alta. Il 2 agosto, nei pressi di Marciano della Chiana le due armate si trovarono una di fronte all’altra separate da un torrente allora asciutto. Piero Strozzi diede l’ordine di attaccare. A entrare per primi in contatto furono i reparti a cavallo, ma i cavalieri dello Strozzi, inferiori e mal equipaggiati, si diedero alla fuga. Lo Strozzi cosi ordinò al corpo centrale, rappresentato dalla fanteria, di muovere all’assalto, abbandonando la posizione in altura. Le truppe franco-senesi però trovarono un impaccio nel greto asciutto del torrente, che non furono in grado di oltrepassare con la prevista facilità. Qui si trovarono esposte al tiro dall’alto delle artiglierie che il Marignano possedeva in buon numero. Il cumulo di errori dello Strozzi inflisse all’esercito un numero altissimo di perdite: 4000. La battaglia di Marciano della Chiana (o di Scannagallo) del 2 agosto 1554 venne ricordata come la sconfitta che mise fine all’indipendenza di Siena. Ci vollero però altri otto mesi di agonia per la città di Siena: pezzo a pezzo il Marignano procedette a occupare il dominio senese in modo da chiudere alla città ogni via di rifornimento. Le richieste di aiuto che arrivavano in Francia non vennero mai prese seriamente, anche perché sembrava che avesse la precedenza il Piemonte, che pareva una conquista facilmente conservabile al contrario di Siena. Pietro Strozzi, dileguatosi dopo il disastro di Scannagallo, aveva abbandonato la direzione della guerra nella mani di Monluc, che si piegò a trattare la resa con Cosimo de’ Medici. Dei contatti con il nemico fiorentino, Monluc tenne il più possibile all’oscuro la popolazione, ormai consapevole del tramonto dell’indipendenza senese. Cosimo si dichiarò in grado di promettere il mantenimento delle istituzioni repubblicane anche dopo la sottomissione di Siena, quanto alla fortezza, il duca di Firenze assicurò che essa non sarebbe mai stata costruita senza il consenso della città. Interponendosi come garante di una almeno parziale autonomia di Siena davanti all’incognita rappresentata dalle vere intenzioni di Carlo V, il Medici poté giovarsi dell’appoggio del papato, che non desiderava da devoluzione di una porzione cosi importante dell’Italia centrale all’Impero. Non smettendo mai di recitare la parte dell’avvocato della causa imperiale in Italia, poté reclamare per sé l’affido di Siena come misura di salvaguardia dell’attuale equilibrio italiano. Ai Medici fu consentito prendere possesso di Siena, risparmiando ai perdenti il saccheggio (aprile 1555). Quel giorno le truppe del Marignano fecero il loro ingresso in città mentre i resti dell’armata francese, prendevano la via di Montalcino. Qui si arroccarono nella difesa di quella che venne proclamata come repubblica senese in esilio, ma che sarebbe potuta resistere a tempo indefinito. Cosimo sapeva bene che Carlo V non intendeva cedere a lui Siena bensì al figlio Filippo, a cui l’aveva promessa nel 1554, ma contò su di un’evoluzione della congiuntura internazionale. Interazioni tra fronte italiano e fiammingo Nel novembre 1553 i francesi effettuarono un colpo di mano su Vercelli che sgomberarono dalle poche ricchezze che Carlo II di Savoia, ormai morto, aveva lasciato al figlio Emanuele Filiberto. Negli anni successivi l’espansione del Piemonte proseguì a ritmi inarrestabili: Alessandria, Ivrea, Casale, Monferrato. Nel momento in cui Carlo V compì la sua abdicazione (16 gennaio 1556) era padrone di quasi tutto il territorio subalpino. Filippo II preoccupato di garantirsi una successione quanto più pacifica alla corona di Spagna non esitò a concludere con Enrico II un armistizio, siglato a Vaucelles il 5 febbraio 1556. Malgrado i successi, durante il regno di Enrico II, la politica di occupazione del Piemonte fu materia di accesi contrasti alla corte di Francia. Caldeggiata dal duca Francesco di Guisa e da sua fratello Carlo, sostenitori di un programma di espansione in Italia, essa fu osteggiata da Anne de Montmorency, connestabile di Borbone, e da suo nipote Gaspard de Coligny, i quali volevano invece la concentrazione delle energie sul fronte continentale, soprattutto a nord verso le Fiandre, dove urgeva consolidare i confini permeabili e troppo vicini a Parigi. La linea di azione papale obbediva a due scopi, di cui il primo era la tutela della libertas Ecclesiae: una consegna che i pontefici ritennero di onorare procurando l’intromissione negli affari d’Italia delle massime potenze europee, mantenute in perpetuo antagonismo. La seconda finalità consisteva nella promozione degli interessi della famiglia del pontefice regnante la storiografia definisce ciò “grande nepotismo”, un fenomeno tipico della chiesa Romana del Rinascimento, la cui fioritura si collocò fra metà 400 e metà 500. Dopo questo momento di fulgore, che raggiunse l’acme con le casate dei Medici e dei Farnese ma registrò anche fallimenti catastrofici (come i Borgia o i Carafa), il grande nepotismo venne rapidamente espulso dalle pratiche consentite ai pontefici. Fu sostituito con il cosiddetto “piccolo nepotismo”, consistente nell’attribuzione ai parenti del papa di un cumulo di rendite finanziarie e di titoli onorifici, ma senza arrivare alla conquista di un principato pluricittadino. (Fuoriuscitismo in politica, il fenomeno per cui gli oppositori di un regime o di un governo sono costretti a riparare all’estero, dove continuano in forma aperta o clandestina l’attività di opposizione e di lotta). Il fermento del fuoriuscitismo agì da catalizzatore della politica estera non solo francese. Alla corte di Carlo V esso ebbe un esponente di altissimo livello nella persona di Emanuele Filiberto di Savoia. La questione della carriera militare del principe del Piemonte fu chiaro fin da quando egli si staccò definitivamente a 17 anni dalla patria per abbracciare la condizione itinerante di combattere al seguito dell’imperatore, suo zio. Insignito del Toson d’Oro, nel 1545 venne promosso comandante della cavalleria di Fiandra e di Borgogna. Subito nel 1547 partecipò alla grande vittoria di Muhlberg dove comandò la retroguardia imperiale. Risalgono a questa data le imprese che gli assegnarono il nomignolo di “testa di ferro”: si muoveva in campo di battaglia con fermezza, affrontando pericoli anche mortali, mentre in privato il suo carattere era modesto e giovanile, tanto che Filippo, il figlio di Carlo V, lo volle presso di lui a Bruxelles fra il 1548 e il 1550 e poi nel viaggio in Spagna nel 1551. Nell’autunno del 1552 partecipò all’assedio di Metz, ma nonostante l’esito umiliante, capì molti segreti dell’arte del comando dal duca d’Alba, facendosi nominare, dopo neanche 7 anni di servizio, comandante supremo dell’esercito imperiale nelle Fiandre il 27 giugno 1553, in quanto veniva obbedito da tutti. La tenacia del proposito di imprimere un crescendo alla rimonta antifrancese a nord non lo rese immemore dei suoi diritti ereditari sulla patria savoiarda, che egli volle salvaguardare non solo di fronte al nemico francese, ma anche davanti ai parenti della casa d’Asburgo. Egli curò di avere da Carlo V un solenne atto di investitura del ducato di Savoia, in data 15 luglio 1554. Gran parte del territorio sabaudo risultava in mano agli occupanti i quali, dopo essersi assicurati la fedeltà di una parte rilevante della popolazione, avevano dato il via a un processo di assorbimento delle nuova provincia entro la compagine della monarchia francese. Nulla poteva fare in quel momento un principe espatriato come Emanuele Filiberto al fine di rovesciare tale tendenza. Da circa un decennio però all’interno del Consiglio di Stato, si era affacciata l’ipotesi di condurre la guerra in Piemonte secondo un nuovo intendimento: non più a sostegno di casa Savoia, ma a diretto beneficio della casa d’Asburgo. Nel Piemonte e non più nella Lombardia, venne ravvisata la chiave del dominio d’Italia, di cui occorreva assicurarsi il possesso. Questo non voleva dire che si dovesse rinunciare a Milano. Ovviamente non si trascurò di vagliare i modi con cui risarcire Emanuele Filiberto, al quale si sarebbe offerto un onorevole “baratto di Stato”, magari facendogli sposare Maria, figlia naturale di Carlo V, che gli avrebbe portato in dote quei Paesi Bassi che Emanuele Filiberto già reggeva in qualità di comandante militare. La cessione degli opulenti Paese Bassi contro l’assai meno redditizio Piemonte, avrebbe implicato una situazione di scambio disuguale. Un groviglio di calcoli che indusse l’imperatore a mostrarsi accondiscendente verso le insistenze con cui Emanuele Filiberto reclamava il Piemonte a lui, in quanto erede della dinastia sabauda. Il pronunciamento venne compiuto con qualche riserva, come attesta una clausola separata che Emanuele Filiberto acconsentì a sottoscrivere quale supplemento dell’atto di investitura del 1554. L’accordo stabilì che in caso di morte senza eredi di questo, il ducato di Savoia sarebbe passato al principe Filippo, suo cugino consentendo cosi alla monarchia di Spagna di mantenere il controllo sopra le Penisola Italiana. Fine ingloriosa del “grande nepotismo” papale Se al futuro Filippo II risultò facile pervenire a un’intesa con Emanuele Filiberto, disposto a conferire al suo Piemonte il ruolo di satellite della potenza spagnola in Italia, assai più arduo era ottenere il beneplacito del papato. Alla vigilia del suo avvento al trono spagnolo, Filippo dovette far fronte alla risorgenza del “grande nepotismo” destinata ad avere effetti preoccupanti per la tenuta della pax imperialis, imposta all’Italia da Carlo V nel 1530 e poi mutata in pax hispanica. La sfida si profilò a partire dal 1555, quando fu eletto Paolo IV Carafa, uno dei pontefici più rappresentativi alle risorse della vicina Inghilterra, in virtù del matrimonio tra Filippo II e la regina Maria Tudor nel 1554. La necessità di ricacciare il nemico da una zona situata a poche giornate di marcia da Parigi mise in sottordine il sogno delle facili conquiste in terra d’Italia. Le ostilità sul fronte franco- fiammingo si aprirono nel 1557. L’armata spagnola, con cavalieri inglesi, tedeschi, spagnoli e italiani era arrivata a 60.000 uomini in totale. A capo c’era Emanuele Filiberto che attuò una tattica annientatrice, ma nello stesso tempo ingannò l’avversario ostentando esitazione. Il duca di Savoia individuò la città di Saint-Quentin come luogo per provocare il nemico, uno dei massimi capisaldi delle difese del regno di Francia. Coligny ebbe appena il tempo di asserragliarsi dentro le mura. Il resto dell’armata francese, al comando del Montmorency, si mosse subito a soccorso della cittadina assediata, che fece da esca per lo scontro studiato da Emanuele Filiberto. Gli assedianti posero il campo sotto le mura di Saint-Quentin, dietro di loro scorreva il fiume Somme, transitabile in un solo punto rappresentato da un ponte esiguo. Il comandante francese voleva venire subito a duello e pose la sua avanguardia a bordo di barconi, lanciandola all’assalto del nemico per via d’acqua. Emanuele Filiberto diede ordine ai suoi archibugieri di allinearsi sulla sponda opposta e scaricare una tempesta di fuoco sulle truppe nemiche che vennero decimate. Mentre il tentativo di sbarco veniva respinto, il grosso dell’esercito asburgico ricevette l’ordine di passare le Somme utilizzando non solo il ponte preesistente ma anche un secondo ponte fatto di barche. Cosi il Montmorency si ritrovò di fronte il nemico, schierato in perfetto ordine di battaglia. Emanuele Filiberto distrusse i francesi in campo aperto a Saint-Quentin il 10 agosto 1557, festa di San Lorenzo. La vittoria era dovuta non solo dal numero di combattenti, ma anche sul piano tattico: attraverso l’uso innovativo della cavalleria leggera munita di pistola a canna lunga, estenuò la formazione nemica. Infine lanciò l’attacco e fece prevalere la preponderanza di una massa d’urto sull’altra. I morti francesi furono 5.000 e 6.000 i prigionieri, tra cui il Montmorency, per il cui riscatto vennero pagati 200.000 scudi. Cosi il regno di Francia, esposto al pericolo di invasione, dovette richiamare indietro tutte le forze disponibili sul teatro italiano, spegnendo quei focolai di conflittualità. Vista la situazione, Paolo IV si affrettò a fare pace con Filippo II sottoscrivendo il trattato di Cavi (12 settembre 1557). La quiete divenne ora sinonimo di indiscussa sudditanza a una fonte di autorità situata al di fuori della Penisola. A essa si dovettero piegare non solo i sopravvissuti delle guerre d’Italia, come Venezia, ma anche il papato, che chiuse per sempre la stagione del “grande nepotismo”. Non sarebbe mai stato possibile però arrivare a una vera pace nella Penisola senza arrivare a una risoluzione delle pendenze che restavano aperte tra la monarchia francese e quella spagnola. Il regno di Francia risorse dalle ceneri nel 1558 e passò al contrattacco cogliendo un successo con la presa di Calais, seguita da Thionville. Le speranze di rimonta di Enrico II vennero però fiaccate da una sconfitta spagnola a Gravelines nel luglio 1558. Due mesi dopo scomparve il vero ostacolo alla pacificazione delle due casate di Asburgo e Valois, rappresentato dalla persona di Carlo V che nel settembre 1558 morì. Egli non aveva mai smesso di comportarsi da sovrano, impartendo direttive a Filippo II, il quale si sentì adesso libero di arrivare a un punto con la casa di Francia. In cambio della pace acconsentì a rinunciare a parti essenziali dell’eredità della casa di Borgogna, tra cui lo stesso ducato di Borgogna, che rimase alla Francia. Le attenzioni di Filippo II andarono in Italia, perché non avrebbe mai permesso di lasciarla in mano a Enrico II. Questi però si mostrò propenso solo a cedere la Savoia, ma si mostrò tassativo nel voler tenersi il Piemonte. Emanuele Filiberto però, conscio dell’autorevolezza conquistata sui campi di battaglia e nell’appoggio diplomatico che Filippo II non gli fece mancare, reclamò il patrimonio dinastico dei suoi antenati nella piena integrità. Le contrattazioni si conclusero con un compromesso che non soddisfecero completamente le pretese di Filiberto, ma sancirono il ritorno di casa Savoia nelle sue mani. Questo non volle dire che al duca fosse consentito il recupero della sovranità sopra uno stato reintegrato nelle sue condizioni passate. Al contrario la mappa del Piemonte di cui egli riprese possesso era tratteggiata di piazzeforti (Torino, Pinerolo, Chieri, Chivasso, Villanova d’Asti) destinate a rimanere in mano ai francesi per tre anni. Dal canto loro gli spagnoli si riservarono la custodia di Asti e Santhià, il marchesato di Saluzzo rimase alla Francia e quello del Monferrato tornò ai Gonzaga. Le guerre d’Italia però ebbero per i Savoia un epilogo inverso rispetto a quello delle altre casate regnanti. Attraverso Emanuele Filiberto la casata uscì rafforzata dalla restaurazione poiché si ritrovò a essere depositaria di un prestigio che avrebbe indotto le maggiori potenze d’Europa a ricercarne l’amicizia. Egli si dichiarò neutrale tra Francia e Spagna, anche se con un patto segreto si obbligò a restare fedele a Filippo II. Enrico II fu anche obbligato a evacuare il Lussemburgo, ricevendo in cambio il diritto di tenersi Calais cosi, senza più ostacoli, la pace tra Spagna e Francia venne siglata nella cittadina di Cateau-Cambrésis il 3 aprile 1559. Per quanto riguarda Siena, Filippo II nel 1558 riconfermò l’investitura a Cosimo de Medici compiuta due anni prima. La pace consentì il tranquillo scioglimento del nodo costituito dall’esistenza di una repubblica senese in esilio a Montalcino: privata dalla protezione di Enrico II, essa dovette compiere un atto di sottomissione a Filippo II e a Cosimo, cerimonia che ebbe luogo il 4 agosto 1559. Ai fuoriusciti di tendenza filofrancese, venne esclusa qualsiasi concessione di rimpatrio, vietata da Filippo II. Cosimo perdonò i fuoriusciti di Siena ma non quelli di Firenze. In ogni caso molti furono quelli che abbandonarono l’Italia perché inasprì il suo volto intollerante. Tornando a parlare del Piemonte, Enrico II strappò a casa Savoia l’obbligo per Filiberto di sposare la sorella del re di Francia Margherita, 36 enne. In caso di zero eredi lo stato sabaudo sarebbe tornato alla monarchia francese. Non andò cosi perché la coppia mise al mondo Carlo Emanuele I (1562-1630). Oltre a questo matrimonio, Enrico II combinò anche l’unione tra sua figlia Elisabetta e Filippo II. Inoltre nei mesi precedenti c’era stato il matrimonio tra il duca Carlo III di Lorena e Claudia, altra figlia di Enrico II. Nel giugno 1559 però Enrico II fu ferito a morte e nei 9 giorni di agonia obbligò Margherita e Filiberto a sposarsi. La sua morte fu seguita dallo scoppio delle guerre di religione che avrebbero paralizzato la Francia per tutta la seconda metà del 500. La sovrapposizione di guerra civile e crisi dinastica inibì per oltre mezzo secolo qualsiasi risveglio dell’espansionismo oltralpe della monarchia francese anche in questo si deve vedere lo spegnimento della conflittualità in terra italiana. Cosi la Penisola andò in mani spagnole che iniziò a volgere lo sguardo su altri scenari, dall’Europa settentrionale all’Atlantico. Anche in ciò va visto un fattore di disinnesco.
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