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M. Tanca, Marx e la geografia, in Geografia e filosofia. Materiali di lavoro, Milano, Franco Angeli 2012, Sintesi del corso di Geografia

Saggio di Geografia umana (il presunto apporto che Marx ha dato alla geografia umana)

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

Caricato il 27/01/2020

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Isidoro_di_Siviglia 🇮🇹

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Scarica M. Tanca, Marx e la geografia, in Geografia e filosofia. Materiali di lavoro, Milano, Franco Angeli 2012 e più Sintesi del corso in PDF di Geografia solo su Docsity! 1 Geografia e Filosofia Karl Marx e la globalizzazione 1. Marx Renaissance Fino a non molto tempo fa Marx sembrava scomparso dal panorama culturale. Dopo il crollo del muro di Berlino, la fine della contrapposizione tra capitalismo e “socialismo reale”, ha anche liberato Marx dall’identificazione con i comunismi del Novecento, ponendo le basi per un recupero del suo pensiero attento a discernerne il nucleo autentico dalle incrostazioni che gli si sono sovrapposte nel tempo e che hanno dato vita ai vari marxismi. Dall'affermazione del capitalismo come nomos imperiale di un nuovo ordine globale sembra emergere un mondo che presenta straordinarie affinità con la previsione marxista dell'universalizzazione del mercato come esito finale del capitalismo. Se non si è mai smesso di scrivere su Marx è così dopo il crollo del muro che si è assistito in ad un ritorno dell'interesse per il suo pensiero. L'assolutizzazione del suo pensiero in una spiegazione integrale del mondo, così come è stata operata da Engels, e si è cristallizzata nel cosiddetto marxismo ortodosso, ha prodotto effetti negativi. Distinguere tra Marx e marxismo significa prendere atto che nella sua opera non sono contenute tutte le risposte e prendere atto anche dell’ambiguità, limiti e del carattere impraticabile e insoddisfacente delle sue soluzioni; ma significa anche riconoscere che sia solo con marx che anche senza alcun marx non si va da nessuna parte. Chi vuole interpretare le vicende storiche solo con la visione di Marx capirà poco, ma questa è allo stesso tempo necessaria: Marx continua ad essere un nostro contemporaneo, il mondo da lui sottoposto a critica è il nostro mondo, il mondo del modo di produzione capitalistico. La conseguenza è che non si può capire l'epoca moderna se non si passa attraverso Marx. Questa tesi riecheggia in geografi come Harvey, storici come Hobsbawm e economisti e sociologi come Arrighi. Del primo, l’enigma del capitale, un lavoro recente, fa un’analisi impietosa del modello di produzione capitalistico e dei suoi limiti strutturali che deve molto alla “critica sistematica, ancorchè incompleta, del capitalismo e delle sue tendenze alla crisi”. Mentre Harvey invita i suoi lettori a riappropriarsi di un pensiero critico, Arrighi e Hobsbawn mettono l’accento sulle capacità profetiche delle analisi marziane, specie quelle contenute nel Manifesto del partito comunista. Questi autori hanno il merito di ricordarci che, se la consapevolezza del fatto che il marxismo è stato in parte una creazione di Engles non è nuova né recente, la riscoperta di Marx si è imposta parallelamente all'esigenza di ripensare un capitalismo il cui modello economico e sociale attraversa una profonda crisi. Marx appare come un nostro contemporaneo, che si è confrontato con problemi che sono anche i nostri e il cui pensiero critico può contribuire a far luce sulle modalità attuali di organizzazione territoriale e sui lati oscuri di una crisi i cui sconvolgimenti scuotono il sistema dell'economia globale. Una rilettura del suo pensiero in chiave geografica non può però non fare i conti con le difficoltà cui è andata incontro la penetrazione delle sue idee nella geografia, una vicenda tortuosa e complessa la cui ricostruzione deve partire da una premessa fondamentale. Non è facile definire in concreto la penetrazione dell'ideologia e della metodologia marxista nella geografia, né lo è stabilire con sicurezza fino a che punto si sia prodotto un certo livello di identificazione concettuale e strumentale tra l’una e l’altra. Soprattutto non è facile farlo in maniera consapevole per il fatto che l’esistenza di una terminologia marxista e l’uso di alcuni dei suoi principi più importanti è più frequente tra i geografi, ma solo come risultato di un’infiltrazione spontanea non programmata del marxismo. 2 Detto questo è possibile schematicamente ripercorrere le tappe essenziali del rapporto tra Marx e la Geografia, se ne possono individuare tre: Nella prima fase, immediatamente successiva la sistemazione engelsiana, Marx appare come lo scopritore delle leggi storiche dell'evoluzione umana e in particolare della legge di movimento della società capitalistica. Nonostante la grande sensibilità per le questioni geografiche di figure chiave a cavallo tra ‘800 e ‘900 quali Rosa Luxemburg, Lenin, Bucharin, Trotsky e Bauer, il marxismo rimase ancorato allo storicismo, ciò solo parzialmente per il modo in cui lo stesso Marx aveva impostato la sua analisi del capitalismo ma probabilmente anche come conseguenza della struttura positivistica dei saperi e del clima culturale tra 1880 e 1920, in cui la rifondazione delle scienze sociali come teoria del mondo umano in quanto storico, implicava la svalutazione dello spazio di naturalismo. Coerentemente con quanto affermato nel Manifesto il motore della vita sociale era individuato nella lotta di classe, la geografia in questo processo restava largamente inesplorata e vista come vincolo esterno. La geografia accademica stretta tra discipline storiche e fisico-geologiche, non sembrava particolarmente favorevole ad accogliere le idee di Marx tra i propri strumenti. Durante questa fase è possibile individuare nel rapporto tra geografia e paradigma marxista una doppia estraneità. Da un lato il marxismo occidentale, nonostante il fenomeno dell’imperialismo, ha considerato poco rilevante ai fini della propria interpretazione della storia la messa a punto di una lettura materialista dello spazio capitalistico; dall’altro non si può parlare di materialismo geografico1. La seconda fase si colloca verso la fine degli anni ‘60 e inizio ’70, in un contesto storico generale segnato da una profonda crisi delle scienze sociali e dall'insoddisfazione per le modalità in cui si svolgeva la ricerca, spesso basata su metodologie quantitative. In questo quadro, presso un certo numero di geografi americani e europei si diffuse un marcato interesse per il marxismo. Chiusura e arretratezza epistemologica della disciplina; assenza di una riflessione sui propri fondamenti teorici; l’approccio scarsamente critico e il suo ruolo normalizzante se non apologetico dell’esistente, è quanto si criticava alla geografia accademica. Essa sembrava incapace di rinnovare i propri metodi e strumenti di indagine nel momento in cui prendevano forma una serie di nuovi problemi sociali, politici, economici, ecologici (sottosviluppo, decolonizzazione, questione urbana, inquinamento ecc.) di fronte ai quali le categorie analitiche tradizionali si dimostravano impotenti. Richiamarsi a categorie e concetti come quelli marxiani, che offrono qualcosa in più di una mera opzione teorica con cui descrivere il mondo e che vogliono essere strumenti di trasformazione, non solo teorica e passiva ma concreta e attiva della realtà, ebbe un effetto liberatorio e distintivo molto marcato. Mentre la geografia accademica continuava a privilegiare forme fisse e statiche e a soffermarsi più sui risultati che sui processi, trascurando il dinamismo dei fenomeni che indagava, la geografia radicale si richiamava al pensiero di Marx per tracciare le coordinate di una metodologia processuale e relazionale basata “su sistemi di rapporti o di relazioni: tra sfruttamento, dominazione ed egemonia, relazioni tra formazione economica, formazione politica e formazione ideologica attraverso la formazione sociale”(Raffestin). Se si guarda al dibattito pro e contro Marx nella geografia degli anni ’70, si nota come questo si sia trasformato presto in una discussione sulla presunta assenza di riflessioni sullo spazio nella sua opera: Per gli autori più preoccupati della peculiarità della disciplina la geografia, come scienza dello spazio terrestre, necessiterebbe di una teoria spaziale marxista, tuttavia inesistente per l’attenzione che Marx attribuì soprattutto alle relazioni di produzione e alla lotta di classe. Sociologi, economisti e urbanisti, pure interessati allo spazio sono i primi a constatare questa carenza e cercano di identificare nelle opere di Marx e Engles gli elementi per una teoria marxista dello spazio e di 1 Nonostante qualche caso isolato come quello di Pierre George che conferiva un certo risalto alla dimensione economica utilizzando categorie come “proletariato industriale” o “sfruttamento capitalista”. 5 In sostanza i modi di produzione ci interessano nella misura in cui definiscono le modalità concrete di riproduzione sociale e di trasformazione della spazialità in territorialità Tutti i modi di produzione presentano per Marx una caratteristica comune: scaturiscono dalla dissoluzione della comunità primitiva, prima forma di organizzazione sociale e spaziale che l'umanità abbia conosciuto. Questa era contraddistinta da una duplice unità originaria»: a) l’unità dell'uomo con la natura (proprietà e possesso della terra di ogni membro del gruppo sociale); b) l’unità dell'uomo con gli altri uomini (fusione con una comunità che non conosceva classi sociali né divisione sociale del lavoro). Non si dà, dunque, configurazione della territorialità che non sia storicamente segnata in un modo o nell'altro dalla perdita di quest'unità primordiale: Il m.d.p. (modo di produzione) antico si caratterizzava per il ruolo centrale della città, sede delle attività commerciali e artigianali oltre che politiche, e per il suo antagonismo con la campagna, sede delle attività agricole e di sussistenza, Marx scrive nei Grundrisse dell'antichità classica è storia di città. Inoltre, mentre nella comunità tribale la proprietà della terra era collettiva, peculiare del mondo greco- romano era la distinzione tra ager publicus, proprietà collettiva, e ager adsignatus, proprietà privata, quest'ultima concentrata nelle mani di una classe che deteneva anche il potere politico. Il m.d.p. feudale o germanico, radicalizza l’organizzazione produttiva del mondo antico attraverso il frazionamento della terra in grandi lotti, i feudi, e la presenza del grande latifondo come cellula principale della vita economica e sociale. D'altra parte i modi di produzione, che per il momento chiameremo, secondo l'uso, precapitalistici, presentano una caratteristica comune che li rende un gruppo a parte distinto dal capitale. In essi la produzione non costituisce un'attività fine a sé stessa, ma avviene seguendo modalità strumentali, calibrate sui bisogni degli uomini e finalizzate alla conservazione della società nel suo complesso. Per questo Marx può dire che in questi l'uomo costituiva il fine della produzione e mai il contrario. In essi, in altre parole, le modalità attraverso le quali procedevano costruzione, organizzazione e uso del territorio erano orientate prevalentemente in funzione del valore di scambio: costituivano cioè il risultato storico di processi coevolutivi e di lunga durata tra società e ambiente a forte componente endogena poietica. La coesione essenziale per la riproduzione delle società precapitalistiche era assicurata quindi dal duplice vincolo sussistente tra lavoro e luogo e tra economia e territorio che il trapasso al m.d.p. capitalistico ha spezzato, conferendo alla produzione un ritmo inedito, finalizzato al valore d'uso, cioè al consumo (di risorse, di suolo, ecc.), e che ha come esito la mercificazione del territorio e del paesaggio. Torneremo più avanti sulle peculiarità delle strutture territoriali capitalistiche; per il momento ci interessa approfondire un particolare aspetto del contributo di Marx al quadro epistemologico della geografia. In ragione del suo carattere storico ogni m.d.p., ivi compreso quello capitalistico, è destinato ad essere "superato" dialetticamente in un processo complessivo che sfocerà infine nel "regno della libertà", la futura società senza classi. Questa transitorietà dei modi di produzione è sempre, nello stesso tempo, anche transitorietà delle configurazioni della loro territorialità. Strutture e assetti territoriali sono prassi vitali funzionali alla realizzazione degli obiettivi definiti volta per volta dalla produzione sociale; il mutare di questi obiettivi innesca una fase di riterritorializzazione, cioè di transizione verso nuove geografie più rispondenti alle rinnovate esigenze degli attori sociali. È questo in fondo il senso della critica che nell'Ideologia tedesca Marx ed Engels muovono a Feuerbach, il quale scopriva «soltanto pascoli e paludi nella campagna di Roma, dove ai tempi di Augusto non avrebbe trovato altro che vigneti «soltanto fabbriche e macchine a Manchester, dove un secolo fa erano solo filatoi e telai a mano». Feuerbach non vedeva che la forma attuale che assume il territorio non è sempre esistita 6 quale la conosciamo; pascoli macchine rispondono a dinamiche socioeconomiche differenti da quelle che hanno prodotto in passato vigneti e ville e filatoi e telai a mano. Giunti a questo punto possiamo 'saggiare' il valore euristico della prospettiva marxiana attraverso due ipotesi interpretative che ci permetteranno di chiarire ancora qualche punto rimasto finora in ombra, e metterne in evidenza l'irriducibilità a qualsiasi forma di riduzionismo, sia esso economico o ecologico. Quando parla della successione dei modi di produzione come di «epoche che marcano il progresso della formazione economica della società», Marx non sta semplicemente individuando un ordine cronologico basato sulla sequenza prima-dopo, ma sembra volergli attribuire anche un valore progressivo ed evolutivo, che rimanda all'idea di sviluppo così come è stata concepita nella cultura occidentale. Il modello forte di questa concezione sembra essere un passo della Fenomenologia dello spirito nel quale la sequenza seme-fiore-frutto, di matrice biologica, veniva calata da Hegel in uno schema teleologico (in quanto procede verso un obiettivo finale, il frutto), predittivo (dal seme posso conoscere in anticipo fiore e frutto) cumulativo (il passaggio dal seme al fiore e da questo al frutto è progressivo) e irreversibile (il fiore scaturisce dal seme, non il contrario). Sostenere che i modi di produzione rappresentano epoche ordinate in una sequenza progressiva rimanda ad una filosofia della storia basata su uno schema unilineare, in cui i modi di produzione sono "stadi di sviluppo" attraverso cui devono passare tutte le società? In questa lettura, gli stessi modi di produzione non-capitalistici rappresenterebbero soltanto versioni 'arretrate' e 'superate' del capitale, la cui sostituzione con quest'ultimo andrà comunque valutata positivamente, anche quando comportasse la perdita dei saperi, segni distintivi e soprattutto legami originari che una comunità umana intrattiene col proprio territorio: a prescindere dalle particolarità della sua storia e della sua geografia, questo diviene il mero supporto di funzioni produttive esogene. La conclusione che se ne può trarre –l’azzeramento delle identità dei luoghi, la territorialità pensata unicamente come funzione economica non può che lasciarci insoddisfatti. Quest'interpretazione, che nasce con Engels ed è rimasta in auge nel marxismo ortodosso, pur suffragata da alcuni passi dell'Ideologia tedesca e del Manifesto, non corrisponde tuttavia alle reali intenzioni di Marx. La periodizzazione dei modi di produzione indica infatti, come egli stesso ammette, soltanto la via mediante la quale, nell'Occidente europeo, l'ordine economico capitalistico usci dal grembo dell'ordine economico feudale». Al punto che egli per primo prende le distanze da chi sente il bisogno di: “metamorfosare il mio schizzo della genesi del capitalismo nell’Europa occidentale in una teoria storico- filosofica della marcia generale fatalmente imposta a tutti i popoli per giungere infine alla forma economica che, con la maggior somma di potere produttivo del lavoro sociale, assicura il più integrale sviluppo dell’uomo. È farmi insieme troppo onore e troppo torto.” Se non è corretto parlare di un 'riduzionismo economico', non meno distorta appare la posizione del “riduzionismo ecologico” che facendo leva su affermazioni marxiane sparse e isolate costruisce la tesi della derivazione deterministica dalle condizioni naturali della divisione territoriale e delle funzioni produttive. Si prenda il Capitale: Una natura troppo prodiga "tiene l'uomo per mano come si tiene un bambino con le dande", e non fa dello sviluppo dell'uomo stesso una necessità naturale. La madrepatria del capitale non è il clima tropicale con la sua vegetazione lussureggiante, ma la zona temperata. Non la fertilità assoluta del suolo ma la sua differenziazione, la molteplicità dei suoi prodotti naturali, è quel che costituisce la base naturale della divisione sociale del lavoro e che sprona l'uomo a moltiplicare i propri bisogni, capacità, mezzi e modi di lavorare, con il variare delle circostanze naturali in mezzo alle quali egli dimora. 7 Non è difficile riconoscere in queste parole, anche a livello terminologico, l'eco della tesi hegeliana della limitazione dell' ambito geografico della storia del mondo. Hegel parlava di una natura "troppo forte", Marx dice "troppo prodiga"; Hegel situava nella zona temperata il teatro della storia mondiale, Marx vi localizza la patria del capitalismo; entrambi ragionano in termini evolutivi ed eurocentrici, e individuano nell'Europa occidentale l'apice dell'evoluzione storica dell'umanità. A voler prendere alla lettera le parole di Marx, la nascita del m.d.p. capitalistico come fenomeno tipicamente occidentale, anzi europeo, sembra essere il prodotto di quella necessità naturale dalla quale altrove, a fronte di condizioni geografiche e climatiche diverse e "sfavorevoli" alla produzione capitalistica, è scaturita una diversa articolazione della vita materiale. Egli stesso non si premura di individuare le formazioni socioeconomiche attraverso una connotazione geografica? (m.d.p asiatico, greco-romano, germanico), come a suggerire che si tratta di forme specifiche di determinate regioni della Terra, contraddistinte da determinate condizioni naturali? E, dal momento che nel passo citato parla di «base naturale della divisione sociale del lavoro», perché non estendere questa nozione su scala globale, prefigurando un fondamento naturale alla divisione internazionale del lavoro, da cui scaturirebbero "primati" come, ad es., quello della Costa d'Avorio, dell'Indonesia e del Brasile, rispettivamente primi produttori mondiali di fave da cacao, di olio di palma e di zucchero grezzo? Anche in questa lettura vediamo una distorsione del pensiero marxiano, che viene trasformato in un precedente della deep ecology, ma che non tiene conto di tutta una serie di elementi che vanno in direzione opposta: I modi di produzione sono modelli teorici astratti che orientano la ricerca, ma che sono sprovvisti di un preciso referente empirico. Se, ad es., cercassimo nei testi marxiani i paesi a proposito dei quali si parla del m.d.p. asiatico, ci renderemmo immediatamente conto che, curiosamente, l'Asia di Marx non si trova quasi mai in Cina e in Giappone, ma in India; e che sono altresì "asiatici" anche l'antico Egitto, l'America precolombiana (Messico e Perù) e l'Afghanistan. In altre parole, nella riflessione marxiana «esistono paesi geograficamente non asiatici fondati sul modo asiatico di produzione e paesi geograficamente asiatici che hanno conosciuto sviluppi diversi. La stessa concezione marxiana della natura come categoria sociale, cioè come insieme variabile di determinazioni concrete e di qualità ambientali mediate dall'attività dell'uomo rende piuttosto difficile, se non al prezzo di evidenti forzature, affermare la tesi di un suo ruolo determinante nella divisione e specializzazione del lavoro. È sufficiente, a questo punto, confrontare la posizione di David Ricardo, fautore di un'ingenua "armonia prestabilita" tra economia ed ecologia, ovvero tra la localizzazione di una produzione in una determinata regione e i vantaggi naturali della regione stessa, con il punto di vista di Marx, che si schiera nettamente contro l’idea che il libero scambio possa far nascere una divisione internazionale del lavoro che assegni a ciascun paese una produzione in armonia con i suoi vantaggi naturali. È interessante notare che l'ironia di Marx non è mai disgiunta dalla denuncia dei limiti ecologici delle modalità produttive inaugurate storicamente dal capitale. Il capitalismo, definendo la natura unicamente in funzione del suo valore d'uso, cioè del profitto, la trasforma in una merce o in un oggetto di consumo senza alcun riguardo neanche per i diritti delle generazioni future: [Soltanto col capitale] la natura diviene puro oggetto per l'uomo, puro oggetto dell'utilità; cessa di essere riconosciuta come potenza per sé; e la stessa conoscenza teoretica delle sue leggi autonome appare soltanto come un'astuzia per assoggettarla i bisogni umani sia come oggetto del consumo sia come mezzo della produzione. Dal punto di vista di una più elevata formazione economica della società, la proprietà privata del globo terrestre [Erdball] da parte di singoli individui apparirà così assurda come la proprietà privata di un uomo 10 Confrontandosi con questi processi da quell'osservatorio privilegiato sulla globalizzazione in atto che era Londra, Marx coglie anzitutto il salto di qualità introdotto da una mondializzazione estatica ed ipertrofica che tende a farsi diffusa, estesa, globale: «La storia universale non è esistita sempre; la storia come storia universale è un risultato». Alla presa di coscienza della storicità della globalizzazione, cioè del suo essere un fenomeno nuovo, che non è sempre esistito, si accompagna in parallelo l'insoddisfazione per il quadro teorico offerto dalla filosofia hegeliana della storia: questa, introducendo nello spazio terrestre una separazione assoluta, netta e strutturale, tra un "dentro" centralizzato (il mondo europeo) e un "fuori" periferico (America, Africa, ecc.) disegnava i tratti essenziali di una teoria insieme prescrittiva e descrittiva della mondializzazione. Il fatto che riconoscesse la tensione della società civile europea a uscire fuori di sé segnala che l'orizzonte ultimo a cui è ancorata la concezione hegeliana dello spazio terrestre è mondiale. Mentre dunque la logica cartografica che permea il discorso di Hegel identifica ancora le nozioni di esternalità e marginalità, Marx deve fare i conti con una realtà nella quale le marginalità non sono più esternalità e risultano di fatto organiche, cioè interne, al funzionamento di un sistema economico la cui scala d'azione è planetaria. La distanza teorica Hegel-Marx può essere illustrata in tutta la sua portata attraverso un confronto dialettico tra due passi, uno tratto dalle Lezioni sulla storia della filosofia, l'altro da una lettera a Engels, nei quali i differenti modelli spaziali di riferimento dei due filosofi emergono molto chiaramente nella loro inconciliabilità. Nelle Lezioni, Hegel ad un certo punto osserva: Sebbene la terra formi una sfera, la storia non compie un giro attorno ad essa, bensì possiede un Oriente ben preciso che è l’Asia Pur ammettendo la sfericità terrestre, egli non ne deduce la circolarità della storia del mondo: Oriente e Occidente non sono termini relativi, come voleva Ritter, forte di una concezione relazionale dello spazio. Se dunque Hegel non fa discendere dal riconoscimento della sfericità dello spazio fisico terrestre le conseguenze più immediate (la storia non fa il giro del mondo ma ad un certo punto o momento, termina, finendo in Europa occidentale), Marx al contrario elabora la sua teoria critica del capitale sulla circolarità della sua espansione planetaria, come si legge nella lettera ad Engels dell'8 ottobre 1858: Il vero compito della società borghese è la costituzione di un mercato mondiale, almeno nelle sue grandi linee, e di una produzione che poggi sulle sue basi. Siccome il mondo è rotondo, sembra che questo compito sia stato portato a termine con la colonizzazione della California e dell'Australia e con l'apertura della Cina e del Giappone. Marx non solo riconosce e accetta il fatto che "il mondo è rotondo", ma fa discendere da questa rotondità il carattere finito dello spazio di riferimento del Weltmarkt, il mercato mondiale (che oggi chiamerebbe globale). Ancora una volta, la fine di ogni spazio sconfinato di esternalità coincide con la fine di quell'espansione capitalistica le cui tappe terminali sono California e Australia, Cina e Giappone. Vale a dire proprio gli estremi che nella rappresentazione hegeliana, accentrata a assoluta, restavano confinati ai margini della storia senza prendervi parte. L'originalità della posizione marxiana emerge in maniera ancora più evidente a confronto col modello di organizzazione e differenziazione dello spazio proposto da Wallerstein. Oltre ad un centro nel quale si concentra prevalentemente la ricchezza prodotta, l'economia-mondo presenta, di norma, una periferia composta da quei settori la cui produzione riguarda beni di scarso valore e la cui lavorazione è meno remunerata, ma che è parte integrante della divisione del lavoro. 11 L'economia-mondo, però, si definisce anche in relazione allo spazio esterno che la limita e delimita. Per questo, oltre questa struttura binaria tutto sommato semplice, imperniata sul dualismo centro-periferia, il modello prevede un terzo modulo, l'area esterna, data dagli altri sistemi economici sufficientemente forti per non perdere la propria autonomia sul piano politico e culturale e dai rapporti commerciali che questi intrattengono con una data economia-mondo. Le Americhe appartenevano alla periferia dell'economia- mondo europea; l'Asia (a sua volta un'altra economia-mondo) rimase tra le aree esterne ad essa. Con la globalizzazione le cose si complicano, innanzitutto perché in un'economia globale non ci sono più, in senso stretto, aree esterne. Certo, questo non significa che non si possano distinguere, al suo interno, macroaree geografiche con funzioni e velocità differenti. Alcune, come l'America settentrionale, l'Europa occidentale e l'Asia orientale possono essere definite aree attive, poiché rivestono un ruolo dominante all'interno dei processi di globalizzazione in quanto originano i flussi transnazionali e con le loro scelte economiche sono in grado di orientare il resto del pianeta. Altre, come l'America Latina, l'Africa settentrionale, I'Europa dell'est, ecc, sono aree passive che partecipano ai processi di globalizzazione in conseguenza del ruolo attivo di altre realtà economiche, ad es. dei processi di decentramento produttivo e territoriale prodottisi nelle aree attive; Infine i "sud del mondo", ossia le aree escluse, situate prevalentemente nella restante parte del continente africano (Burkina Faso, Burundi, Guinea, Kenya, ecc.) o in Asia occidentale e meridionale (Nepal, Yemen, Filippine, ecc.), che partecipano in maniera marginale ai processi produttivi globali, poiché non rivestono alcun ruolo strategico agli occhi delle aree attive. Questa tripartizione va comunque assunta con molta cautela: sia perché, nessun paese possa considerarsi, in senso stretto, escluso o passivo nei confronti della globalizzazione; sia perché l'esclusione e la passività di alcune aree sono indotte,2 e il risultato è la crescita dell'accumulazione di capitale nelle economie dominanti, e la conservazione-amplificazione dei meccanismi di sviluppo-sottosviluppo. Infine, non va sottovalutata la presenza all'interno delle stesse aree attive di regioni con funzione periferica, caratterizzate da squilibri carenze infrastrutturali, scarso dinamismo economico, ecc. Ora, se è lecito utilizzare i termini "globalizzazione" e "capitalismo globale" come sinonimi, il merito di Marx sta nell'aver fissato, man mano che si distaccava dalla prospettiva hegeliana, i tratti essenziali di una teoria critica della globalizzazione che interessa il geografo nella misura in cui può fornirgli preziosi strumenti di lettura dei meccanismi di esclusione sociospaziale e delle contraddizioni ecologiche e territoriali del sistema-globo. Agli occhi di Marx, il capitale globale appare, fin dal principio, dotato di una natura intimamente contraddittoria: da un lato, esso è un fenomeno tipicamente occidentale, legato com'è a determinate condizioni storiche, socioeconomiche, politiche e tecnologiche che non trovano riscontro fuori d'Europa; dall'altro, è contraddistinto dall'esigenza di universalizzarsi, ampliare il proprio raggio d'azione fino a dar vita a un sistema territorialmente disincarnato. L'insistenza con la quale torna sulla relazione molto stretta tra m.d.p. capitalistico e processi di concentrazione spaziotemporale merita attenzione, è necessario soffermarsi su quello che appare uno snodo cruciale del pensiero marxiano. Per farci dunque un'idea sufficientemente precisa della capacità, propria di Marx, di sintetizzare in pochi tratti una mole impressionante di dettagli storici, economico-sociali e tecnologici, possiamo isolare e circoscrivere, all'interno della sua opera, tre categorie di fattori di globalizzazione del capitale: 2 prodotte cioè da uno scambio ineguale in cui i paesi economicamente più deboli pagano le merci d'importazione dalle economie più forti, a prezzi molto più alti di quelli con cui vendono loro le materie prime. 12 a) fattori di compressione spaziotemporale: esplorazione della Terra in tutte le direzioni, accumulazione di prodotti di tutti i climi e di tutti i paesi, abbattimento di tutte le barriere, dissolvimento dei preesistenti sistemi di produzione, nascita di una letteratura mondiale; La scoperta dell'America, la circumnavigazione dell'Africa crearono alla sorgente borghesia un nuovo terreno. Il mercato delle Indie orientali e della Cina, la colonizzazione dell'America, gli scambi con le colonie, l'aumento dei mezzi di scambio e delle merci in genere diedero al commercio, alla navigazione, all'industria uno slancio fino allora mai conosciuto, e con ciò impressero un rapido sviluppo all'elemento rivoluzionario entro la società feudale in disgregazione [...]. La grande industria ha creato quel mercato mondiale, ch'era stato preparato dalla scoperta dell'America. Il mercato mondiale ha dato uno sviluppo immenso al commercio, alla navigazione, alle comunicazioni per via di terra. All'antica autosufficienza e all'antico isolamento locali e nazionali subentra uno scambio universale, una interdipendenza universale fra le nazioni. E come per la produzione materiale, così per quella intellettuale. I prodotti intellettuali delle singole nazioni divengono bene comune. L'unilateralità e la ristrettezza nazionali diventano sempre più impossibili, e dalle molte letterature nazionali e locali si forma una letteratura mondiale. Il periodo storico borghese ha creato le basi materiali del mondo nuovo, da un lato, lo scambio di tutti con tutti, basato sulla mutua dipendenza degli uomini, e i mezzi per questo scambio; dall'altro lo sviluppo delle forze produttive umane e la trasformazione della produzione materiale in un dominio scientifico sui fattori naturali. L'industria e il commercio borghesi creano queste condizioni materiali in un mondo nuovo alla stessa guisa che le rivoluzioni geologiche hanno creato la superficie della terra. Non vi è dubbio alcuno, [...] che nel sec. XVI e XVII le rivoluzioni profonde che si verificarono nel commercio in seguito alle scoperte geografiche e che intensificarono rapidamente lo sviluppo del capitale commerciale, costituiscono momento fondamentale, accelerando il passaggio dal modo feudale di produzione a quello capitalistico. L'improvvisa espansione del mercato mondiale, la molteplicità delle merci in circolazione, la rivalità fra le nazioni europee per impadronirsi dei prodotti dell'Asia e dei tesori dell'America, il sistema coloniale, contribuirono fondamentalmente a spezzare i limiti feudali della produzione. [...]E se nel sec. XVI ed ancora in parte nel secolo XVII l'ampliamento improvviso del commercio e la creazione di un nuovo mercato mondiale esercitavano un’influenza decisiva sulla rovina dell'antico modo di produzione e sullo slancio del modo capitalistico, ciò accadeva perché il modo capitalistico di produzione esisteva già. Il mercato mondiale costituisce esso stesso la base di questo modo di produzione. D'altro lato la necessità immanente del capitalismo di produrre su una scala sempre più ampia, trascina ad una estensione continua del mercato mondiale, cosicché non è il commercio che qui rivoluziona l'industria ma l'industria che rivoluziona continuamente il commercio. Dunque esplorazione dell'intera natura per scoprire nuove proprietà utili delle cose; scambio universale dei prodotti di tutti i climi e i paesi stranieri; nuova preparazione (artificiale) degli oggetti naturali mediante la quale si conferiscono loro nuovi valori d'uso. L'esplorazione della terra in tutte le direzioni per scoprire sia nuovi oggetti utili, sia nuove proprietà utili dei vecchi; come pure nuove proprietà che essi hanno come materie prime ecc.; lo sviluppo delle scienze naturali al suo punto più alto; come pure la scoperta, la creazione e il soddisfacimento di nuovi bisogni generati dalla società stessa; la formazione di tutte le qualità dell'uomo sociale e la produzione di esso come uomo per quanto è possibile ricco di bisogni perché ricco di qualità e di relazioni – la sua produzione come prodotto sociale possibilmente totale e universale (giacché per avere un'alta gamma di godimenti dev'esserne capace, ossia colto in alto grado) - tutto ciò è condizione della produzione fondata sul capitale. Mentre quindi da un lato il capitale deve tendere ad abbattere ogni ostacolo locale che si frappone al traffico, ossia allo scambio, e a conquistare la terra intera come suo mercato, dall'altro esso tende ad 15 antagonismi e delle ingiustizie sociali; prima però che questo accada, è necessario che il capitale distrugga i rapporti non-capitalistici di produzione nelle loro varianti locali, sostituendosi ad essi. Questa convinzione è la radice dell’atteggiamento ambivalente di Marx nei confronti di vicende come quelle del colonialismo inglese, e che troviamo esemplificato in due passi, nettamente discordantı, tratti dagli articoli che egli andava pubblicando sul «New York Daily Tribuney: L’intervento inglese, avendo collocato il filatore nel Lancashire e il tessitore nel Bengala, o spazzato via tanto il tessitore quanto il filatore indù, ha distrutto queste comunità semibarbare e semicivili, facendone saltare in aria la base economica e in tal modo causando la più grandiosa, e a dire il vero l’unica, rivoluzione sociale che l’Asia abbia mai conosciuto. Ora, per quanto sia sentimentalmente deprecabile lo spettacolo di queste miriadi di laboriose comunità sociali, patriarcali e inoffensive, disorganizzate e dissolte nelle loro unità, gettate in un mare di lutti, e i loro membri singoli privati ad un tempo della forma di civiltà tradizionale e dei mezzi ereditari di esistenza, non si deve dimenticare che queste idilliache comunità di villaggio, sebbene possano sembrare innocue, sono sempre state la solida base del dispotismo orientale; che racchiudevano lo spirito umano entro l’orizzonte più angusto facendone lo strumento docile della superstizione, privandolo di ogni grandezza, di ogni energia storica[…] È vero: nel promuovere una rivoluzione sociale nell'Indostan, la Gran Bretagna era animata dagli interessi più vili, e il suo modo di imporli fu idiota. Ma non è questo il problema. Il problema è: può l'umanità compiere il suo destino senza una profonda rivoluzione nei rapporti sociali dell'Asia? Se la risposta è negativa, qualunque sia il crimine perpetrato dall'Inghilterra, essa fu, nel provocare una simile rivoluzione, lo strumento inconscio della storia. Al tempo stesso però riconosce che: Tutto ciò che la borghesia inglese potrà essere indotta a fare non emanciperà né migliorerà materialmente le condizioni sociali delle masse, che dipendono non solo dallo sviluppo delle forze produttive, ma dalla loro appropriazione da parte del popolo indiano. [...] La profonda ipocrisia, l’intrinseca barbarie della civiltà borghese ci stanno dinanzi senza veli, non appena dalle grandi metropoli, dove esse prendono forme rispettabili, volgiamo gli occhi alle colonie, dove vanno in giro ignude (...] Gli effetti distruttivi dell'industria inglese, visti in rapporto all'India-un paese grande come tutta l'Europa - si toccano con mano, e sono tremendi. Ma non dimentichiamo ch'essi non sono che il risultato organico dell'intero sistema di produzione com'è costituito oggi. Questa produzione si fonda sul dominio assoluto del capitale. Marx appare scisso qui tra due atteggiamenti contrastanti: alla condanna del colonialismo europeo si accompagna l'esaltazione della sua funzione civilizzatrice, persino rivoluzionaria. Si tratta di una posizione quantomeno ambigua che, com'è facile immaginare, ha suscitato reazioni contrastanti tra gli interpreti. Certo, se riesce difficile attribuirgli un atteggiamento benevolo nei confronti del colonialismo («l'intrinseca barbarie della civiltà borghese»), è altrettanto difficile vedere in lui un "terzomondista" («il problema non è se gli Inglesi avessero il diritto di conquistare l'Asia»). Le critiche colgono nel segno nella misura in cui Marx ha effettivamente visto, in una determinata fase della sua riflessione, un dato più positivo che negativo nell'equazione "instaurazione del capitalismo" = "distruzione delle strutture socioeconomiche non-capitalistiche". Quest'equazione, tuttavia, riassume una posizione provvisoria e destinata a mutare sensibilmente in concomitanza con gli sviluppi della questione irlandese e gli interessi antropologici ed etnografici che contraddistinguono gli ultimi anni di vita del filosofo. Per comprendere appieno il senso di questo vero e proprio "cambio di rotta", che rappresentò per l'ultimo Marx l'occasione per misurarsi con nuovi problemi teorici, occorre tenere conto di un elemento fondamentale: l'auspicata "crisi generale" del sistema capitalistico, data come imminente da lui ed Engels, 16 tardava a manifestarsi, imponendo la rielaborazione di alcuni punti teorici e la ricerca di linee alternative alla visione eurocentrica e ai modelli produttivi dominanti nel mondo capitalistico. Se all'epoca della prima edizione del Capitale, nel 1867, Marx poteva ancora permettersi di scrivere, in un'ottica tipicamente evolutiva ed eurocentrica, che «il paese industrialmente più sviluppato non fa che mostrare al meno sviluppato l'immagine del suo avvenire», negli anni '70 dell’800 questa prospettiva muterà sensibilmente; mentre all'epoca degli articoli per il «New York Daily Tribune» pensava ancora che gli effetti distruttivi del capitale industriale britannico avrebbero accelerato, in India, lo sviluppo delle forze produttive, ora «è arrivato a capire che la distruzione del vecchio mondo da parte del capitale britannico, lungi dal creare la base materiale per lo sviluppo di nuove forze produttive come si aspettava tende alla distruzione e al saccheggio dello stesso meccanismo che assicura lo sviluppo delle forze produttive». L'ultimo Marx non è più così sicuro che la cancellazione delle peculiarità storico-culturali delle società non-capitalistiche e la loro integrazione forzata nel sistema dell'economia capitalistica siano in assoluto un fatto di per sé positivo, né strettamente necessario. Alla critica dell'economia politica si sostituirà allora lo studio dell'organizzazione sociale di popoli extraeuropei e civiltà non-capitalistiche (irochesi, celti, indù) alimentato dalla lettura delle opere di antropologi ed etnologi come L.H. Morgan - definito dallo stesso Marx un autore americano tutt'altro che sospetto di tendenze rivoluzionarie, e finanziato nei suoi lavori dal governo di Washington» e H.S. Maine. Il Capitale rimase cosi un'opera incompiuta: dopo averne pubblicato il primo libro, Marx smise di lavorare al manoscritto dei restanti due, che verranno editi solo dopo la sua morte da Engels. Questa "svolta" ha avuto una scarsa eco, sia a causa della frammentarietà e dell'incompiutezza dei suoi appunti, sia perché meno spendibile agli occhi del marxismo ortodosso sul piano politico. Si tratta di una grave menomazione, e questo per almeno un buon motivo: Ancient Society, l'opera di Morgan, giocando la carta della relativizzazione storica delle istituzioni fondanti l'ordine borghese (Stato, proprietà, famiglia) minava le basi dello storicismo evoluzionista ottocentesco e del suo eurocentrismo, e «apriva cosi la possibilità di una diversa storia, scoprendo altresì una forma diversa della società umana». In altre parole, la svolta etnografica di Marx implica non solo una diversa valutazione nei confronti del colonialismo (gli anni '80 del 1800 videro i principali Stati europei, compresa l’Italia, lanciarsi in una nuova fase di espansione coloniale) e a ben guardare va al di là della questione teorica del rapporto tra mondo capitalistico e mondo non-capitalistico; la posta in gioco è ancora più alta. Di fronte agli effetti nefasti di marginalizzazione e di distruzione delle culture e dei saperi locali messi in atto dalla globalizzazione, il recupero della polifonia del mondo richiede la messa a punto di nuove strategie, pratiche, materiali e simboliche, di costruzione del locale. La lotta di classe confluisce nella lotta dei luoghi. 17 4. Dalla coscienza di classe alla coscienza di luogo Se partiamo dall'assunto che il capitalismo è il principale e più diffuso fattore di trasformazione geografica della Terra e che i fenomeni che prendono forma nel quadro dell'economia-globo richiedono categorie esplicative complesse per essere compresi nelle loro dinamiche essenziali, si fa stringente l'esigenza di recuperare il nucleo teorico della critica marxiana della globalizzazione. È marxista quella geografia che riconduce le disuguaglianze e le disparità territoriali non alle proprietà metriche dello spazio euclideo, ma a quelle dello spazio sociale. Questo non costituisce un blocco compatto e pacificato, ma è attraversato da scontri, antagonismi e conflittualità; i rapporti sociali non sono di fatto simmetrici, poiché non risultano di reciproco vantaggio agli attori che vi prendono parte. Ora, che le forme redistributive di beni e risorse immateriali, nel favorire determinati attori sociali e nello sfavorirne degli altri riproducano, nel territorio, la logica e le dinamiche del m.d.p. capitalistico, è tipicamente un problema di giustizia sociospaziale. C'è un però: quando Marx descrive il funzionamento del capitale, tutto ci dice che si tratta della descrizione di un sistema sociale ingiusto; nonostante questo, non troveremo in Marx «nemmeno il tentativo» di fornire un argomento sull'ingiustizia del sistema capitalistico, né l'esplicita pretesa che esso sia ingiusto o iniquo, o che violi il diritto di qualcuno. Ciò non significa ovviamente che Marx non lo consideri ingiusto, ma che le nozioni di giusto/ingiusto gli appaiono insufficienti, o comunque non decisive, per fondare una corretta critica del capitale. Questo accade per l'evidente difficoltà di definire in astratto uno standard ideale di giustizia. La definizione di cos'è giusto socialmente difatti muta e coincide storicamente con ciò che, di volta in volta, non si trova in contraddizione con un dato m.d.p. della vita materiale, ma lo favorisce. L'esempio tipico è quello della schiavitù: il fatto che nell'antichità l'esistenza degli schiavi non venisse considerata non solo ingiusta ma persino legittima anche da pensatori come Platone e Aristotele continuerà ad apparirci incomprensibile finché non la metteremo in relazione con il suo ruolo organico al m.d.p. antico. Allo stesso modo, interrogarsi sulle forme di redistribuzione di cui la società dovrebbe dotarsi per divenire più o meno "giusta" significa, dal punto di vista di Marx, misconoscere la profonda unità che in un sistema capitalistico lega tra loro “struttura della distribuzione” e “struttura della produzione” e che fa sì che non si possa intervenire sulla prima lasciando inalterata la seconda. Come si legge nella Critica al programma di Gotha: «Che cos'è "giusta distribuzione"? Non affermano i borghesi che l'odierna distribuzione è "giusta"? E non è essa in realtà l'unica distribuzione "giusta" sulla base dell'odierno modo di produzione?». Richiamarsi a Marx in geografia significa allora assumere l’idea che le disuguaglianze e le disparità che caratterizzano gli odierni assetti territoriali non possano essere sradicate «senza alterare in maniera sostanziale i meccanismi del capitalismo» al quale sono connaturate. L'ingiusta distribuzione delle risorse non è un "incidente" isolato, ma il prodotto coerente di quell'unità strutturale ribadita continuamente nei Grundrisse che lega tra loro produzione e distribuzione. 20 In De la lutte des classes à la hutte des places, Michel Lussault osserva che «il mondo contemporaneo ha visto la lotta dei luoghi [la lutte des pla ces] sostituirsi a poco a poco alla lotta di classe». In questa riflessione sul carattere sociale e politico dell'emplacement, la lotta dei luoghi è la reazione alla spaziofagia, il consumo di spazio che è uno dei tratti distintivi del sistema produttivo capitalistico. Place (e non lieu), indica infatti sia la componente materiale che quella ideale dei nostri spazi di vita: non, dunque, una lotta per mere localizzazioni topografiche, né per posizioni nello spazio sociale, ma per entrambe le cose, insieme e nello stesso tempo: «Un posto [place], per come lo concepisco io, mette in relazione, per ciascun individuo, la sua posizione [position] sociale, le norme in materia di assegnazione e di utilizzo dello spazio in corso in un qualunque gruppo umano e le aree [emplacements] che io chiamo luoghi [endroits), che questo individuo può occupare nello spazio materiale in ragione della sua stessa posizione sociale e delle norme spaziali». Lottare per "prendere posto" (nella società, nel mondo) significa, materialmente e idealmente, sviluppare delle pratiche rispetto alle quali lo spazio non è una mera superficie sulla quale queste, in un secondo momento, vanno a depositarsi, ma "mettere alla prova" (Lussault parla di épreuve spatiale, prova spaziale) queste pratiche nella loro capacità di fondare i luoghi e, con essi, il nostro mondo comune. In maniera analoga, e riprendendo un'espressione di Becattini, Alberto Magnaghi teorizza a sua volta un passaggio dalla "coscienza di classe alla coscienza di luogo". La coscienza di luogo, antitetica allo sradicamento territoriale e sociale e alla perdita dei saperi contestuali, consiste sostanzialmente nella «consapevolezza di una comunità insediata del modo in cui i luoghi, intesi come patrimonio collettivo, garantiscono la riproduzione biologica e sociale della comunità. SE la costruzione del territorio obbedisce a regole che sono le leggi del mercato e persegue obiettivi e finalità progettualmente esogene ed eterodirette, che non hanno cioè alcuna relazione con le specificità dei luoghi; SE il risultato è la trasformazione della deterritorializzazione, da fase di transizione ad una nuova territorialità, in una condizione strutturale permanente; SE, ancora, con ciò il valore d'uso dei luoghi, prodotto socialmente, viene ridotto al loro valore di scambio mediante la mercificazione e la privatizzazione di beni e servizi pubblici, ALLORA si tratta di mettere a punto modalità di resistenza e di opposizione che recuperando la centralità del territorio come luogo e mezzo di produzione di valore sfocino in forme di gestione democratica (collettiva, condivisa) dei beni comuni. L'esigenza di coniugare giustizia sociale e giustizia ambientale e di ridefinire lo statuto di luoghi cosi come l'esperienza che noi ne facciamo nel quadro dei cambiamenti indotti dalla globalizzazione, è avvertita da un geografo direttamente riconducibile alla matrice culturale marxista come David Harvey. In lavori come Justice, Nature & the Geography of Difference, la traduzione in chiave sociospaziale della nozione di "classe" assume il valore di un vero e proprio atto fondativo: «lo preferisco definire la classe come radicamento (situatedness] posizionalità (positionality] in relazione ai processi di accumulazione capitalistica». In questa riscrittura del 'radicamento' convergono sia il carattere "situato" delle nostre biografie individuali sia quei tratti della produzione dei luoghi [making of places] che sono riconducibili alla traiettoria storica del capitalismo. Il radicamento va inteso allora come un processo costruito socialmente che trascende la mera condizione personale, pur incidendo in profondità su di essa (si pensi al rapporto, negli Stati Uniti, tra la concentrazione geografica di soggetti afroamericani e di basso reddito e la localizzazione di discariche e di rifiuti tossici). 21 Essere radicati significa trovarsi all'interno di una «relazione dialettica di potere tra oppressore e oppresso». O, in altri termini, tra chi globalizza e chi viene inglobato. Questi esempi attestano che non solo è possibile, ma è necessario, ripartire da Marx scavando attraverso il cumulo di sovrapposizioni che si sono sedimentate nel tempo e riprendendo pazientemente il filo del suo discorso dal punto in cui si era interrotto. La costellazione di problemi sui quali Marx si è interrogato e che ne hanno alimentato il pensiero è d'altronde la stessa con la quale dobbiamo confrontarci noi oggi: il capitale domina più che mai come incontrastato agente modificatore della faccia della Terra, e l'idea che possano darsi forme di territorialità alternative e differenti da quelle che comunemente pratichiamo, assume facilmente tratti utopistici. Ma l'utopia, come ci insegna Dematteis, non è una geografia dell'inesistente, semmai una antigeografia dell'esistente. Marx è uno spettro che torna, e ritorna proprio perché ha ancora qualcosa da dirci: «un fantasma non muore mai, ma resta sempre a venire e a rivenire».
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