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Manuale delle metodologie e tecnologie didattiche, Appunti di Storia della scuola e istituzioni educative

Riassunto completo del "Manuale delle metodologie e tecnologie didattiche" dell'edizione Simone, indispensabile strumento di preparazione in vista delle prove scritte e orali dei concorsi a cattedra.

Tipologia: Appunti

2020/2021

In vendita dal 09/03/2021

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Scarica Manuale delle metodologie e tecnologie didattiche e più Appunti in PDF di Storia della scuola e istituzioni educative solo su Docsity! Manuale delle metodologie e tecnologie didattiche PARTE 1: Fondamenti di psicologia dello sviluppo e dell’apprendimento Capitolo 1 ►Struttura del cervello e processi cognitivi 1) Il cervello e la sua struttura Il cervello è l’organo fondamentale delle attività cognitive, tutti i processi psichici dipendono dalle sue funzioni. Il cervello è composto da un numero smisurato di cellule nervose: circa 30 miliardi nell’uomo. Ciascun neurone comunica con un numero notevole di altri neuroni: da questi contatti originano mediamente da 1000 a 10.000 connessioni (o sinapsi). Le funzioni della corteccia cerebrale sono molteplici: -controllo delle attività motorie dell'organismo -produzione del linguaggio -funzioni di attenzione -elaborazione del pensiero e organizzazione della mente nel suo complesso. La corteccia cerebrale si caratterizza per la sua plasticità. La nozione di “plasticità” implica la capacità, tipica dei circuiti nervosi, di mutare le loro caratteristiche funzionali e strutturali in ragione delle stimolazioni sensoriali esterne, e di adattarsi progressivamente l'ambiente. Il cervello è plastico soprattutto nella prima fase della vita neonatale. Prima infanzia Tra la nascita e l'inizio del funzionamento degli apparati sensoriali esiste un periodo di particolare sensibilità del sistema nervoso centrale alle funzioni del mondo esterno, denominato periodo critico. Il periodo critico si può definire come un fenomeno di progressiva sintonizzazione tra il mondo cerebrale e il mondo esterno. Si tratta di un evento complesso che implica forme di accomodamento e di selezione di determinati circuiti cerebrali al fine di generare un comportamento che garantisca la sopravvivenza dell'organismo in un certo ambiente. La riprova è che l'assenza di stimolazione nel periodo critico produce danni, spesso irreversibili. Sviluppo del sistema nervoso nell’adulto Una teoria largamente diffusa fino a non molti anni fa riteneva che il cervello tendesse inesorabilmente a stabilizzarsi. Ricerche recenti mostrano invece che esistono zone di plasticità anche nel cervello adulto. Questo fenomeno è probabilmente alla base della capacità di apprendimento continuo (lifelong learning) che dura per tutta l'esistenza dell'essere umano. Il fatto che il cervello rimanga plastico, cioè sensibile alle molteplici tipologie di input provenienti dall'esterno, pone naturalmente la questione dell'utilità di un esercizio cerebrale preventivo volto a migliorare, o a garantire la stabilità nel tempo, delle nostre performance. 2) I processi cognitivi e l’intelligenza: la percezione Per percezione si intende il processo cognitivo che ci permette di trarre informazioni dal mondo in cui viviamo attraverso l'integrazione tra le sensazioni che raccogliamo mediante gli organi di senso e le nostre esperienze pregresse. L’atto di percepire non è un'operazione del tutto obiettiva; esso viene influenzato da una serie di fattori, come il proprio bagaglio di esperienza, lo stato d'animo in quel dato momento, la presenza di altre persone etc. Si tratta quindi di un fenomeno complesso che implica il concorso di elementi fisiologici e condizioni soggettive che intervengono tra le informazioni sensoriali e la presa di coscienza di esse. È, quindi, impossibile una coincidenza piena tra la realtà fisica e quella che noi percepiamo: esiste sempre uno scarto dovuto all’intervento delle variabili soggettive durante i processi di elaborazione. Si tratta in ampia misura di processi inconsapevoli ma fondamentali per la costruzione del nostro mondo. Il processo percettivo è, dunque, un meccanismo complesso, in cui entrano in gioco molti aspetti, che coinvolge non solo l’elaborazione sensoriale, ma anche l'intelligenza, l’affettività, ovvero l'intera personalità dell'individuo. 1 La prospettiva della Gestalt Le teorie psicologiche dominanti nel primo decennio del 900 sostenevano che la percezione di un oggetto fosse il prodotto dell’associazione della combinazione di elementi sensoriali distinti. La teoria della Gestalt (o teoria della forma) sviluppatasi dopo le ricerche di Max Wertheimer sulla percezione del movimento apparente, sostenne che la percezione non dipende dai singoli elementi, ma dalla strutturazione di questi elementi in un insieme organizzato (Gestalt=forma, struttura, pattern). L’organizzazione finale prevale sempre sugli elementi singoli, li struttura in un insieme per cui essi diventano una figura che si differenzia dal resto del campo di stimolazione: Per questa teoria, percepire è cosa diversa dal sommare le sensazioni: l'intero è cioè, più della somma degli elementi percepiti. La prospettiva funzionalistica La prospettiva funzionalistica si interessa dell'aspetto soggettivo della percezione, vale a dire del modo in cui le sensazioni vengono integrate in relazione alla personalità dell'individuo. È stato, in particolare, lo psicologo Jerome Bruner a mettere in luce le variabili che si frappongono fra la presentazione dello stimolo e la risposta dell'individuo. La valenza affettiva che un dato oggetto ha, per la persona che lo percepisce, influenza fortemente i tempi di riconoscimento, modificando i valori della sua soglia percettiva. Ciò è stato interpretato come effetto di un meccanismo messo in atto dall’individuo, il quale sicuramente elabora lo stimolo in base al suo vissuto e al suo stato emotivo. Secondo la teoria funzionalistica il soggetto interviene attivamente nel processo percettivo, mostrando implicitamente il bagaglio di esperienze passate che ne hanno determinato lo stato sociale, culturale e affettivo. 3) L’attenzione L'attenzione si può definire come la capacità cognitiva di mettere a fuoco specifici contenuti e, all’opposto, inibire informazioni valutate come irrilevanti. L’attenzione opera sull'informazione in entrata (input), selezionandola in base a interessi, motivazioni e aspettative. Lo psicologo inglese Donald Eric Broadbent ha dedicato i suoi studi ai processi di selezione che la mente opera sulle informazioni in entrata. Egli suppose che l'attenzione umana operasse in base ad un sistema di filtraggio. Il filtro agirebbe in relazione: -alle finalità -ai compiti -alle aspettative del soggetto Tale attenzione avverrebbe selezionando gli stimoli significativi e scremando quelli privi di interesse. Le ricerche della psicologia cognitiva si sono quindi spostate dallo studio dell’attenzione intesa come processo di selezione di dati, all'attenzione come abilità di differenziazione delle risorse da destinare a compiti differenti. Tra le ricerche più interessanti ci furono quelle di W. Hirst e S. Kalmar. Questi due studiosi dimostrarono che un individuo è in grado di concentrarsi efficacemente su prestazioni diverse, se esse prevedono elaborazioni cognitive dissimili (ascoltare la tv mentre si digita un sms). Compiti che richiedono elaborazioni simili, invece, generano interferenza (ascoltare la tv e parlare al cellulare). In quest'ultimo caso, secondo gli studi di Hirst e Kalmar, l'attenzione selettiva, spostandosi ora su un compito ora su un altro, si distribuirebbe con minore efficacia sulle singole prestazioni, riducendo significativamente la qualità. L'attenzione è considerata come un sistema di organizzazione di risorse cognitive che vengono dislocate in funzione della complessità del compito e delle istruzioni: -il compito che riceve la quota di risorse sufficiente per una prestazione ottimale, o che comunque viene privilegiato, è definito compito primario; -il compito che riceve la quota residua di risorse, o che perciò non sarà eseguito allo stesso livello di prestazione, viene definito compito secondario. Se nel modello di Broadbent l'attenzione costituisce un sistema di filtraggio dell’informazioni in entrata, nei modelli più recenti essa è considerata un sistema di controllo delle operazioni cognitive. Secondo il modello più noto, ossia quello proposto da Tim Shallice, l'attenzione interviene nella selezione tra un processo cognitivo e l'altro qualora questi siano in conflitto tra loro (cosiddetta selezione competitiva). 2 L'apprendimento dei principi (o regole) L’apprendimento dei principi (o regole) presuppone l'acquisizione del livello precedente di apprendimento, in quanto richiede di saper mettere in relazione due o più concetti. Ad esempio, il noto principio di Archimede non può essere compreso se non sono chiari i concetti di fluido, peso specifico ecc. Da ciò consegue che il docente, per guidare efficacemente i suoi allievi all’apprendimento di regole, dovrà innanzitutto controllare che siano stati chiaramente compresi i concetti da mettere in relazione. Tale verifica è necessaria sia che il docente abbia intenzione di procedere, successivamente, all’enunciazione della regola, sia che voglia, invece, guidare gli allievi a scoprirla. Per quanto riguarda poi la verifica dell'avvenuto apprendimento della regola nel suo complesso, non è sufficiente che l'alunno la enunci, poiché potrebbe avere imparato l’enunciazione come una catena verbale e non come una relazione tra concetti. Una prova di verifica più attendibile potrebbe consistere nel proporre all’alunno di applicare ad un caso particolare il principio o la regola appresi. Il problem solving Il problem solving (soluzione di problemi), infine, è il tipo più complesso di apprendimento, anche se, a ben vedere, si tratta della naturale estensione dell’apprendimento di regole. La situazione è problematica, nella cui soluzione il soggetto è impegnato, deve presentare per lui carattere di novità, nel senso che non deve rientrare in situazioni identiche a quelle risolte precedentemente. Quando si trova in una situazione problematica, il soggetto cerca di richiamare alla mente la regola o il principio che può offrirgli la maggiore garanzia di soluzione. Non è possibile, pertanto, ritenere che la capacità di problem solving possa essere conseguita attraverso semplici informazioni e conoscenza di regole, in quanto la “soluzione di un problema” rappresenta soltanto il momento finale di una sequenza di apprendimento che si estende, retrospettivamente, su tutta una serie di altri apprendimenti che devono averlo necessariamente preceduto. Per avere successo il problem solving deve essere basato sulla precedente conquista e sul riordino di regole; esso comporta, cioè, la combinazione di regole apprese in precedenza in una nuova regola di ordine superiore atta a risolvere il problema. Il problem solving, infatti, genera ulteriore apprendimento e favorisce l'acquisizione di nuove capacità che, proprio perché acquisite nel corso di un apprendimento autonomo, si rivelano resistenti all’oblio. 6) Pedagogia dell'adolescenza L'adolescenza abbraccia la fascia d'età che va dai 12 ai 15 anni (prima adolescenza) dai 16 ai 20 anni (seconda adolescenza). L'adolescenza rappresenta una fase di transizione cruciale nello sviluppo dell'individuo per diverse ragioni: tra le principali si possono annoverare la maturazione puberale, lo sviluppo intellettuale e l'accesso a nuovi contesti, come ad esempio quello lavorativo. Durante questo periodo il soggetto è sottoposto a considerevoli mutamenti somatici assai repentini, dai quali consegue un mutamento nell’immagine di sé e nel rapporto con gli altri. È luogo comune ritenere l'adolescenza l'età della ribellione, della turbolenza, della sregolatezza. Peraltro nel mondo occidentale la soglia della “crisi adolescenziale” sì è fortemente abbassata: la maturazione fisica dei ragazzi avviene ad un’età (11-12 anni) che, fino a qualche decennio fa, era considerata parte integrante dell’infanzia. Lo psicanalista tedesco Erik Erikson attribuisce al periodo adolescenziale una valenza fondamentale per lo sviluppo dell'identità personale adulta, sollecitata dall’ambiente che comincia a chiedere al ragazzo comportamenti adulti. Nel periodo adolescenziale il ragazzo tende a rendersi indipendente dalle figure parentali e ricerca nuove identità affettive che si estrinsecano nel gruppo. In questo contesto il docente può diventare una figura di riferimento: il suo sforzo educativo deve essere indirizzato a promuovere un apprendimento centrato sull’acquisizione dei contenuti, potenziando una didattica basata sulla ricerca e sul lavoro di squadra. Infatti, quest'ultimo tipo di apprendimento è fortemente competitivo e normalmente crea situazioni di insicurezza e frustrazione per chi non riesce a raggiungere i risultati sperati, nonché di isolamento rispetto al gruppo degli studenti che invece risultano più bravi. 5 Capitolo 2 ►Apprendimento, psicologia dello sviluppo e educazione del pensiero 1) Le teorie dell'apprendimento Per apprendimento si intendono quelle modificazioni del comportamento prodotte dall' esperienza: apprendere significa, quindi, acquisire nuove informazioni. Esso è strettamente collegato alla capacità di memorizzare. Sono comportamenti appresi quelli che avvengono per condizionamento, per prove ed errori, per imitazioni. Le teorie dell'apprendimento sono numerose ma possono raggrupparsi in due macrofiloni: -teorie stimolo-risposta (teorie sul condizionamento) -teorie cognitive in base alle quali l'apprendimento non avviene per tentativi, ma grazie a processi cerebrali centrali, che costituiscono nuove strutture cognitive. 2) Le teorie sul condizionamento: il comportamentismo Le prime teorie sperimentali sull’apprendimento sono state dominate da due orientamenti, entrambi concentrati sull’osservazione del comportamento (cosiddetto comportamentismo), che possono essere indicate come la teoria del condizionamento classico (Pavlov) e la teoria del condizionamento operante o strumentale (Thorndike e Skinner). Il condizionamento classico di Pavlov Secondo Pavlov uno “stimolo incondizionato” (SI) (per esempio un pezzo di carne), inserito nella bocca di un cane, determina automaticamente un flusso di saliva, cioè un “riflesso incondizionato” o “risposta incondizionata” (RI). Si definisce in questo modo qualsiasi risposta che dipende solo dalle condizioni naturali dell'individuo, che è cioè un comportamento istintivo. Pavlov notò però che se uno stimolo “neutro” (per esempio, il suono di un campanello) che normalmente non determina alcuna salivazione automatica, viene presentato poco prima della somministrazione del cibo, dopo varie presentazioni dei due stimoli posti in successione, si ottiene che lo stimolo neutro (il suono del campanello) determina la risposta incondizionata (la salivazione) anche in assenza dello stimolo incondizionato (il cibo). La nuova risposta viene definita “riflesso condizionato” o “risposta condizionata” (RC), poiché non è spontanea ma indotta, quindi frutto di un apprendimento. Il condizionamento consiste, dunque, in un processo di sostituzione dello stimolo, per cui uno stimolo neutro diventa capace di produrre la risposta originariamente prodotta dallo stimolo incondizionato. Esso avviene per via associativa: è l'associazione tra i due stimoli che produce il condizionamento. Il condizionamento “operante” (o strumentale) Nel condizionamento “operante” (o strumentale) gli esperimenti sono stati condotti su animali di cui, prima veniva osservato il comportamento spontaneo, e poi, in un secondo momento, venivano offerti premi o somministrate punizioni al fine di ottenere una data risposta. I due principali studiosi del condizionamento operante furono Thorndike e Skinner Lo psicologo americano Edward Thorndike studiò l'apprendimento per prove ed errori. Thorndike pose un gatto in una gabbia (che egli chiamò puzzle box) piena di leve e di pulsanti: solo uno di questi consentiva all’animale di uscire e di raggiungere il cibo. In un primo momento, il gatto si agitava forsennatamente fino a toccare per caso la leva che gli permetteva di aprire la gabbia. Dopo una serie di volte in cui lo psicologo faceva ripetere all’animale lo stesso esperimento, il gatto impiegava sempre meno tempo a trovare la leva giusta. Thorndike arrivò così a formulare la legge dell’effetto, secondo la quale le risposte (effetto) accompagnate da soddisfazione tendono a subire un rinforzo che le fissa e le induce a guida del comportamento. Di contro, se l'effetto è spiacevole, la connessione si indebolirà e la risposta tenderà ad estinguersi. Sulla scia degli studi di Thorndike, lo psicologo Burrhus Skinner mise a punto un metodo per lo studio del comportamento operante, dimostrando l'influenza dei premi e delle punizioni sul comportamento. L’esperimento era abbastanza semplice: un topo affamato veniva collocato in una scatola, la cosiddetta “Skinner-box”, all'interno della quale era libero di muoversi. Dopo vari percorsi esploratori, il ratto cominciava a premere una levetta collocata nella scatola e, ogni volta che eseguiva questa azione, gli veniva 6 consegnato un pezzo di cibo (premio). Dopo una serie di volte in cui riceveva la ricompensa, il ratto cominciò a premere la levetta intenzionalmente per ottenere il cibo. Nel corso di questi esperimenti, e in contrasto con la somministrazione del premio (il cibo, ovvero il rinforzo positivo), vennero somministrati ai ratti anche stimoli nocivi (ad esempio le punizioni, cioè dei rinforzi negativi) ogni volta che facevano qualcosa di diverso dal premere la levetta. Questi esperimenti mostrarono che il comportamento del ratto era funzionale al procurarsi i premi o all’evitare le punizioni. Al contrario del condizionamento classico in cui il soggetto apprende in modo passivo, nel condizionamento operante, il soggetto è attivo e modifica l'ambiente attraverso il proprio comportamento. Skinner studiò inoltre anche il fenomeno del modellamento, che consiste nel premiare in maniera progressiva tutte le azioni che, man mano, portano al comportamento voluto dallo sperimentatore. Ciò avviene naturalmente anche nell'apprendimento dell'essere umano: i bambini imparano di più e più velocemente se vengono lodati o premiati ogni volta che rispondono correttamente a un input o eseguono bene le indicazioni date dagli adulti. Mentre il condizionamento classico sembra realizzarsi indipendentemente dalla volontà del soggetto, nel condizionamento operante l'individuo produce volontariamente quella risposta. Comportamentismo e apprendimento Il Comportamentismo, detto anche behaviorismo è basato sui principi del condizionamento classico e operante: considera, quindi, lo sviluppo come una serie di condizionamenti esercitati dall’ambiente. Secondo questo modello, l’oggetto della psicologia diventa non più la conoscenza o l’attività mentale, ma il comportamento, inteso generalmente come quello che l’uomo fa di visibile e osservabile. Alla coscienza viene dunque negata ogni dimensione psicologica, e anche fondamentali processi psicologici di ordine cognitivo come il linguaggio e il pensiero sono ricondotti a fatti di ordine meramente fisico e fisiologico. Per i comportamentisti, l'apprendimento si verifica lentamente attraverso una serie di prove ed errori che porta al consolidamento delle relazioni. Questo tipo di apprendimento forma memorie molto stabili, difficili da modificare. Nella prospettiva comportamentista, un apprendimento indesiderato può essere modificato solo attraverso quel processo che viene chiamato estinzione, attraverso cioè la presentazione ripetuta dello stimolo condizionato senza lo stimolo condizionante, o anche associando allo stimolo condizionante un altro stimolo condizionante, ma questa volta di genere piacevole anziché spiacevole. 3) L'apprendimento sociale e per imitazione La teoria dell'apprendimento sociale del comportamentista Bandura si pone a metà strada tra comportamentismo e cognitivismo. Lo psicologo canadese Albert Bandura dimostrò che l'apprendimento avviene anche per imitazione, in quanto esso è un processo attivo che comprende l'osservazione di un modello, l’immagazzinamento delle informazioni in memoria e la scelta di cosa tradurre in comportamento. Nel corso di uno studio fatto per valutare l'influenza dei mass media sui bambini, Bandura selezionò tre gruppi: -Al primo mostrò un filmato in cui un bambino picchiava una bambola e veniva premiato; -al secondo gruppo mostrò un filmato in cui lo stesso bambino picchiava la bambola e veniva punito; -al terzo gruppo fece vedere un filmato in cui un bambino giocava tranquillamente con la bambola. Alla fine della proiezione, Bandura notò che il primo gruppo, nel giocare, mostrava un'aggressività superiore alla norma; i bambini del secondo gruppo esprimevano un’aggressività inferiore alla media e quelli del terzo gruppo erano pienamente nella norma. Da questo esperimento si evidenziò che alcuni atteggiamenti, come l’aggressività, risentono del rinforzo sociale. Per Bandura, l’aggressività aumenta se si osserva che le condotte violente vengono ricompensate. Secondo Bandura, quindi, l'apprendimento avviene non solo attraverso esperienze dirette, ma anche osservando il comportamento di altre persone, considerate come modelli. I neuroni a specchio 7 meglio gli eventi reali. Il ragionamento si fa progressivamente complesso e il pensiero diventa formale. Il ragazzo avverte il gusto della discussione animata su problemi astratti ed esercita le proprie capacità logiche e critiche, mostrando un notevole grado di concentrazione su problemi astratti. La ricaduta delle teorie di Piaget sulle scienze dell’educazione è stata di notevole rilevanza; il punto più problematico della sua concezione rispetto alle applicazioni educative è la tesi secondo cui i tempi e la successione delle fasi di sviluppo psicologico sono sostanzialmente immodificabili, togliendo così rilevanza ed efficacia all’intervento dell’ambiente, che non può cambiare né accelerare questi aspetti. Per Piaget, dunque, l'apprendimento segue lo sviluppo e l'insegnante deve attendere che si manifestino nell’alunno i prerequisiti cognitivi necessari per la piena comprensione dei concetti che deve insegnare. 6) Lo sviluppo morale: Piaget e L. Kohlberg Lo sviluppo morale durante l'età evolutiva è intimamente legato allo sviluppo cognitivo. La morale divenuta autonoma soltanto dopo l'acquisizione del pensiero reversibile operativo. Nel bambino, secondo Jean Piaget, si possono distinguere due fonti delle regole del comportamento. Ciò si può scoprire bene nel gioco: il bambino quando non ha ancora acquisito il “gioco delle regole” (morale autonoma), si attiene a quelle impostate dai genitori e dagli adulti (morale eteronoma). Le regole del comportamento e la morale autonoma si sviluppano non solo attraverso la reciproca collaborazione tra gli adulti e i bambini, ma anche tramite i giochi che questi ultimi intraprendono tra loro. La morale non è ereditata geneticamente, ma viene acquisita attraverso l'apprendimento e la socializzazione. Il senso morale (giusto o sbagliato, bene o male e così via) si struttura in una personalità come conseguenza delle esperienze dirette e dei comportamenti indiretti degli altri. Il bambino, prima si adegua ad una morale impostata indirettamente dal mondo esterno (morale eteronoma) e, in seguito, interiorizzando le regole e i comportamenti morali del mondo esterno, incomincia a adattare le sue azioni, secondo le norme che ha interiorizzato (morale autonoma). Lo psicologo americano Lawrence Kohlberg, seguendo la tesi di Piaget, ha supposto che lo sviluppo morale fosse provvisto di precise sequenze evolutive. Egli ha formulato, attraverso le sue ricerche, l'esistenza di tre livelli di sviluppo morale, quali: 1. il livello pre-convenzionale si basa su due stadi: l'orientamento e l’edonismo strumentale. Il primo stadio si basa sull’obbedienza e sulla punizione; il secondo consente al bambino di conformarsi alle regole, per ottenere le ricompense; 2. il livello convenzionale si struttura, invece, su altri due stadi. Il primo è quello dell’ordinamento, che si basa sulle relazioni interpersonali; in tale stadio, il comportamento è quello che gli altri gradiscono e approvano. Il secondo stadio è quello che non permette all’ordine sociale di cambiare; il comportamento è, pertanto, buono quando ognuno rispetta l'autorità, agisce in conformità al dovere e opera per la stabilità dell’ordine sociale (morale eteronoma); 3. infine, gli stadi dell’ultimo livello, quello post-convenzionale, sono rappresentati dall’esigenza di sottoscrivere un contratto sociale e di orientarsi seguendo la propria coscienza e il principio etico universale. 7) Istruzione e cultura dell’educazione per Bruner Il bambino si modifica incessantemente fin dalla fase del suo concepimento. Alcune trasformazioni riguardanti sia la struttura fisica che il modo di comportarsi dipendono strettamente ed unicamente dal processo di crescita, ossia dalla sua maturazione biologica. Nella maggior parte dei casi, però, le modificazioni del comportamento sono la conseguenza di una serie di tentativi che man mano diventano sempre più riusciti, ovvero conseguono da esperienze ripetute, come accade, ad esempio, quando il bambino impara a camminare o a parlare. Però se un bambino non compie tentativi ripetuti, magari aiutato anche dai genitori, non diventerà capace di camminare, così come, allo stesso modo, non apprenderà mai a parlare se non sarà stato immesso in un ambiente di parlanti, cioè se non avrà sentito parlare intorno a sé. È dunque possibile definire l'apprendimento come un cambiamento delle attitudini e delle capacità umane che non si può attribuire semplicemente al processo di crescita. Così nella teoria dello psicologo statunitense Jerome Seymour Bruner lo sviluppo cognitivo non si realizza, al contrario di ciò che sostiene Piaget, attraverso una sequenza fissa di stadi, in quanto l'intelligenza sarebbe 10 definibile piuttosto come la capacità di mettere in atto una serie di strategie e procedure utili per risolvere problemi, analizzare le informazioni e codificarle. Sotto questo profilo Bruner attribuisce grande importanza alla situazione e al contesto in cui l'individuo apprende (ossia ai fattori sociali), ma anche alle spinte motivazionali (fattori individuali). Piaget aveva del tutto trascurato i fattori che possono agevolare lo sviluppo cognitivo, ossia il passaggio da sistemi poveri a sistemi sempre più ricchi ed efficaci nell’elaborazione delle informazioni. Tale passaggio, che avviene non in maniera regolare ma per scatti e pause, e che può essere accelerato dall'ambiente in cui l'allievo matura, avviene attraverso tre forme di rappresentazione: l'azione, l'immagine e il linguaggio. Per Bruner, tutto può essere insegnato a individui di qualsiasi età: l'importante è che le informazioni siano tradotte in forme di rappresentazione adatte allo sviluppo cognitivo del soggetto. Per Bruner esistono tre sistemi di rappresentazione della conoscenza, tre forme di pensiero: -Rappresentazione esecutiva  azione  il bambino nel primo anno di vita impara facendo. -Rappresentazione iconica  immagine  il bambino fino a 6-7 anni impara attraverso immagini visive, che gli permettono di evocare mentalmente una realtà non presente. -Rappresentazione simbolica  simbolo  dai 7 anni in poi la realtà viene codificata attraverso simboli e segni convenzionali. I modi o gli itinerari dell’apprendimento possono essere diversi e ciascuno di essi è da utilizzare prevalentemente non tanto e non solo in relazione alle diverse tappe dell'età evolutiva, ma soprattutto in rapporto all'oggetto dell’apprendimento. Ad esempio, è possibile imparare a nuotare solo facendo esperienza diretta (apprendimento pratico), ma ciò non significa che siano privi di valore l'osservazione del modo di nuotare di un esperto nuotatore (apprendimento iconico o per immagini) o i suggerimenti e le lezioni di un maestro di nuoto (apprendimento simbolico). A differenza della successione stadiale di Piaget, le 3 forme di rappresentazione di Bruner non costituiscono una sequenza fissa, ma tutte coesistono, conservando la propria autonomia. Tutti i processi mentali hanno un fondamento sociale: la struttura della conoscenza umana è influenzata dalla cultura attraverso i suoi simboli e le sue convenzioni. In ogni fase di sviluppo l'attività è guidata sia da scopi individuali che dal bisogno di relazioni sociali. Su queste basi Bruner considera l'apprendimento come un processo attivo, in cui il soggetto costituisce nuove idee o concetti a partire dalle proprie conoscenze passate e presenti. Gli strumenti che permettono all’individuo di crescere all'interno di una cultura vengono forniti dal sistema stesso a cui egli appartiene. In definitiva, l'apprendimento e il pensiero sono collocati in un certo contesto e si sviluppano sempre a partire dall’uso delle risorse culturali disponibili. 8) Ambiente e sviluppo secondo Vygotskij Anche le tesi dello psicologo russo Lev Vygotskij divergono in misura netta dalla contemporanea psicologia genetica di Piaget. Infatti, Vygotskij considera centrale lo sviluppo della psiche, non tanto l'aspetto della maturazione biologica e della costruzione attiva di conoscenze, quanto l'influenza specifica del contesto sociale. Lo sviluppo mentale non è un fatto individuale, ma un processo di interiorizzazione di forme culturali. Vygotskij sostiene, ad esempio, che la prima attività intellettiva del bambino è da considerarsi sostanzialmente pratica e concreta, non isolata dal contesto sociale, ma sempre interna all’interazione con l'ambiente. Per Vygotskij l'interazione tra individuo e ambiente avviene attraverso due tipi di strumenti: -strumenti materiali, consistenti in oggetti più o meno complessi di cui l'individuo si serve per entrare in contatto con l'ambiente; -strumenti psicologici, a loro volta rappresentati dal linguaggio, da sistemi di numerazione e di calcolo, dalla scrittura, dall'arte etc. Tali strumenti, insieme all'interpretazione con i propri simili, mettono il soggetto in condizione di sviluppare funzioni psichiche elevate, fra cui: il ragionamento, la volontà, il pensiero e la memoria logica, i concetti astratti, le capacità progettuali in rapporto al raggiungimento di un obiettivo. Il ruolo dell’ambiente esterno nella psicologia cognitiva 11 Il risultato che offrono gli studi della psicologia cognitiva è che il modo in cui un pensiero (e il conseguente apprendimento) si determina dipende da due elementi: -la struttura cerebrale geneticamente determinata; -l'influsso culturale dell'ambiente esterno sul cervello. Il vantaggio che ha l'uomo rispetto ad altri esseri viventi è proprio in questa maggiore influenzabilità da parte dell'esterno: vale a dire che evolutivamente è vantaggioso che il cervello sia meno vincolato alla propria formazione biologica, in favore di una maggiore formazione sinaptica in dipendenza dall'ambiente di vita. 9) Il Costruttivismo Nel corso degli anni '80 i fondamenti teorici del cognitivismo di prima generazione incominciarono ad essere contestati: si andò così diffondendo l'idea che il mondo sia una costruzione che deriva dalla nostra esperienza: il soggetto che apprende, compie, infatti, un’azione di attiva costruzione della conoscenza. Secondo la teoria costruttivista la conoscenza non è mai oggettiva, ma è sempre una soggettiva costruzione di significato, in base a proprie sensazioni, conoscenze, credenze, emozioni. La conoscenza è quindi sempre individuale e non è possibile trasmettere il significato che si attribuisce ad un concetto, in quanto questo è sempre influenzato dall’esperienza personale. Il sistema di costrutti di un individuo varia, dunque, in base alla sua esperienza e all'ambiente in cui vive. Nell’ambito didattico, il costruttivismo rinnega qualsiasi forma di metodologia di insegnamento trasmissivo (no lezione frontale). Ciò significa anche che l'apprendimento individuale non può rispondere a standard o fasi predefinite e lineari e che la scuola deve permettere a tutti di seguire un proprio percorso individuale di apprendimento. Uno dei maggiori esponenti del costruttivismo fu G. A. Kelly. La teoria dei costrutti personali di Kelly Secondo lo psicologo statunitense George Alexander Kelly, ciascuno percepisce e interpreta il mondo in base a un proprio punto di vista, dal quale dipendono non solo le opinioni ma anche i comportamenti. Secondo questa teoria, la personalità degli individui può essere considerata come un organismo dinamico che, sulla scorta dell'esperienza, elabora specifici “costruzioni mentali” che determinano poi atteggiamenti esteriori. Per “costrutto” Kelly intende gli schemi che l'individuo costruisce per conoscere gli eventi. I costrutti hanno essenzialmente questa caratteristica: -costituiscono delle modalità di percezione, di interpretazione e di anticipazione dei fatti e dei fenomeni; -sono dinamici e non statici; -sono delle astrazioni mentali in base alle quali l'individuo attribuisce significati alle proprie esperienze. Secondo Kelly, l'individuo costruisce gli eventi della realtà, nella misura in cui mostra una capacità creativa che gli permette di rappresentarsi l'ambiente, di modificarlo, costruirlo e adattarlo alle proprie esigenze. Kelly propone la metafora dell’individuo come scienziato: come questi nella sua attività di ricerca mira a definire la condizione di verità, controllo e verifica delle sue ipotesi di partenza (dei suoi costrutti teorici), così anche l'individuo comune orienta la propria attività comportamentale e conoscitiva verso forme di previsione e controllo del corso degli eventi che lo coinvolgono. L’individuo allora, come lo scienziato, è in grado di elaborare attivamente teorie e proporre ipotesi confermabili dall'evidenza sperimentale o falsificabili alla luce di nuove esperienze. Il Sociocostruttivismo Kelly è considerato uno dei padri fondatori del costruttivismo: secondo questa teoria la conoscenza non viene trasmessa, ma viene “costruita” creativamente da ciascun individuo in base al contesto in cui avviene l'apprendimento. Un’evoluzione di questa teoria è il sociocostruttivismo che pone l'accento sul ruolo che le relazioni sociali rivestono nell’apprendimento. In base a questa teoria, l'attività cognitiva dell'essere umano si esprime quasi interamente nel rapporto con il mondo esterno, e solo dallo scambio tra l'individuo e il suo ambiente si può crescere ed imparare. L’apprendimento dell'individuo è il risultato di due fattori: la cooperazione con gli altri (fattore sociale) e le caratteristiche del compito (fattore ambientale) da svolgere. La conoscenza è quindi una costruzione che 12 3. Intelligenza spaziale: si tratta della capacità di percepire il mondo visivo con precisione, di eseguire trasformazioni e modifiche delle proprie percezioni iniziali e di riuscire a creare aspetti della propria esperienza visiva, persino in assenza di stimoli fisici rilevanti. (tipica degli scultori, pittori) 4. Intelligenza corporeo cinestetica: consiste nella capacità di usare il proprio corpo in modi differenti, per fini espressivi oltre che concreti. (tipica di sportivi) 5. Intelligenza musicale: ha a che fare con i principali elementi costitutivi della musica, vale a dire il tono e il ritmo. (tipica di compositori, cantanti) 6. Intelligenza interpersonale: si tratta dell’abilità di interpretare le emozioni, le motivazioni e gli stati d'animo degli altri. (tipica dei politici, psicologi) 7. Intelligenza intrapersonale: implica capacità di accesso alla propria vita affettiva, consiste nel discriminare istantaneamente i propri sentimenti e di classificarli. (tipica degli attori) A questi tipi di intelligenza, Gardner ha aggiunto successivamente: -l'intelligenza naturalistica, relativa alla capacità di riconoscere e classificare gli oggetti naturali; -l'intelligenza esistenziale, che riguarda l'abilità di riflettere su questioni fondamentali dell'esistenza. Gli studi di Gardner influiscono in maniera significativa sulla pedagogia: se è vero che esistono diversi tipi di intelligenza, la scuola non può concentrarsi solo nella valorizzazione solo dell’intelligenza logico- matematica e linguistica, in quanto ciò non fa che demolire tutti quegli studenti che potrebbero sviluppare altre forme di intelligenza. L'intelligenza emotiva di Goleman La cultura moderna ha riconosciuto l'importanza della componente emotiva del comportamento e dell’identità umana: l’affettività, intesa come sfera dei sentimenti e delle relazioni emotive, condiziona l'apprendimento e i processi cognitivi. Lo psicologo statunitense Daniel Goleman definisce intelligenza emotiva la capacità di gestire e monitorare i propri sentimenti e quelli altrui al fine di raggiungere obiettivi. Egli distingue, inoltre, tra: -intelligenza emotiva personale, che riguarda quelle capacità in grado di cogliere i diversi aspetti della propria vita emotiva: consapevolezza di sé, consapevolezza delle proprie emozioni, gestione dei propri stati emotivi, autocontrollo. -intelligenza emotiva sociale che si riferisce a quelle caratteristiche che ci permettono di relazionarci positivamente con gli altri: empatia, valorizzazione degli altri, rispetto per le diversità. L'apprendimento nasce attraverso un processo che è affettivo e cognitivo insieme. Solo l'insegnante che permette ai propri allievi attraverso la partecipazione attiva, di sviluppare i propri interessi otterrà una maggiore fissazione di quanto appreso perché laddove si realizza una partecipazione affettiva, l’apprendimento si lega maggiormente alla rete cognitiva dell’allievo. Il docente che intende realmente aiutare l'alunno in modo da attuare la pienezza del suo potenziale educativo è mosso da amore pedagogico; è pertanto un insegnante affettivo. 13) Le forme di pensiero Insieme alle teorie sull’intelligenza, nella seconda metà del secolo scorso si sono sviluppate anche molte teorie sul pensiero. Il primo a fare del pensiero il suo oggetto di studio fu Morin, partendo dallo studio della scienza classica: quest'ultima riduce la complessità della realtà a poche leggi universali. Al pensiero “semplificante” va invece contrapposto il pensiero complesso di Morin, unica forma di pensiero in grado di analizzare la complessità del reale. Il pensiero complesso La teoria della complessità ha, come detto, tra i suoi principali esponenti il filosofo Edgar Morin, che, nel suo testo “i 7 saperi necessari all'educazione del futuro” specifica quali sono gli elementi che caratterizzano un approccio educativo di tipo “complesso”, e cioè che tiene conto di tutti gli aspetti e delle relazioni che formano il tessuto sociale: -Il contesto: è l'insieme di elementi, idee e fatti che danno senso a un evento. 15 -Il globale (le relazioni tra tutto e parti) “è più del contesto” e rappresenta “l'insieme contenente parti diverse che a esso sono legate”. -Il multidimensionale è rappresentato dalle “unità complesse, come l'essere umano o la società”. Il pensiero complesso, dunque, intende la realtà come composta da relazioni. Esso deve affrontare la difficoltà di misurarsi con quell’unità molteplice che è la relazione stessa. Per Morin “il pensiero complesso è consapevole in partenza dell'impossibilità della conoscenza completa: uno degli assiomi della complessità è l'impossibilità, anche teorica, dell’omniscienza. Il pensiero laterale e il pensiero verticale di de Bono La teoria del pensiero laterale, elaborata alla fine degli anni '60 dallo scrittore maltese Edward de Bono, poi accettata in tutto il mondo, viene applicata per cercare di risolvere i problemi utilizzando metodi non ortodossi o “apparentemente illogici”. Il “pensiero laterale”, infatti, pur apparendo “illogico”, segue in realtà la logica della percezione. Volendo operare una contrapposizione tra il pensiero verticale e il pensiero laterale va detto che: -il pensiero verticale è logico, selettivo, sequenziale. -il pensiero laterale è generativo, esplorativo, può “fare dei salti” e consente di essere creativi individuando soluzioni originali. Essendo il “pensiero laterale” una forma strutturata di creatività, che può essere adoperata in modo sistematico e deliberato, fra le varie tecniche di utilizzo si possono citare: -la ricerca di alternative; -l'entrata casuale (come generare nuove idee partendo da input casuali) -la provocazione, consiste nel produrre idee (folli, assurde, illogiche) sotto forma, appunto di provocazione. A fronte di una determinata problematica, la nostra valutazione cambia a seconda del punto di osservazione: la mente umana, infatti, è in grado di cambiare a piacimento la maniera di considerare un fatto. Possiamo immaginare di indossare un cappello diverso in base alle situazioni: ebbene, indossare un cappello in presenza di un problema significa assumere volontariamente un certo atteggiamento, che cambia in virtù del cappello indossato (atteggiamento del pensiero). Il pensiero convergente e il pensiero divergente La creatività è un “modo particolare di pensare”, una maniera di pensare che rompe con i modelli esistenti, introducendo qualcosa di nuovo. A partire dalle teorie dello psicologo statunitense J.P. Guilford l'espressione “pensiero divergente” è quella più strettamente connessa all’atto creativo. Lo studioso, infatti, sosteneva che il pensiero divergente è la capacità di produrre una gamma di possibili soluzioni alternative per una nuova questione, in particolare per un problema che non preveda un'unica risposta corretta. Secondo Guilford, il pensiero divergente è misurato da 3 indici: -la fluidità, parametro quantitativo, basato sull’abbondanza delle idee prodotte; -la flessibilità, ovvero la capacità di cambiare strategie e l’elasticità nel passare da un compito all'altro; -l'originalità, ossia l’attitudine a formulare soluzioni uniche e personali. Nei suoi studi, Guilford si soffermava anche su un secondo modello di pensiero, quello che lui chiamava pensiero convergente, tramite il quale gli individui “convergono”, appunto, invece che discostarsene, su l'unica risposta accettabile a un problema e producono efficacemente la soluzione. Il pensiero convergente, in sostanza, è il ragionamento logico e relazionale, e consiste: -in un procedimento sequenziale deduttivo; -nell’applicazione meccanica di regole apprese; -nell’analisi metodica di informazioni. Questo pensiero si adatta a problemi chiusi, quelli, cioè, che prevedono un'unica soluzione; il più delle volte è la forma di pensiero maggiormente sollecitata dalle scuole. Non esiste, comunque, una forma di “superiorità” di un modello di pensiero rispetto all'altro. Ciò che Guilford e altri tentarono di dimostrare è che, dando maggior rilievo al pensiero convergente, siamo inclini a trascurare completamente l'altra tipologia di pensiero e, di conseguenza, non facciamo abbastanza per l'insegnamento (e lo sviluppo) della creatività nelle scuole. 16 Capitolo 3 ►Stili di apprendimento e pratiche didattiche per individuarli 1) Stili di apprendimento e intelligenza L'apprendimento e l'acquisizione di conoscenze in vista di uno scopo. L’apprendimento è, infatti, un processo complesso e multifattoriale, che si compone di elementi verbali, emotivi, motori, percettivi e di abilità nella risoluzione di problemi. Oggi le teorie pedagogiche più condivise ritengono che l'apprendimento sia un processo continuo e progressivo a partire dalla vita neonatale e lungo tutto l'arco di vita, che tuttavia non esclude atti creativi: questi sono resi possibili dalla qualità degli apprendimenti precedenti. Lo stile di apprendimento è invece l’insieme di strategie prevalentemente usate per apprendere, cioè il modo in cui ciascuno impara. Conoscere lo stile di apprendimento prediletto da ciascuno studente è fondamentale per l'efficacia dell'azione didattica. Anche se spesso vengono usati come sinonimi “apprendimento” e “studio” non possono identificarsi. Apprendere significa modificare la struttura delle conoscenze possedute, tra le stesse, così da poter costruire nuovi concetti utilizzabili in funzione di scopi differenti sempre nuovi; quindi comprendere e mantenere nel tempo le conoscenze (memoria) e saperle utilizzare in altri contesti (trasferimento). Lo studio è invece solo un tipo di apprendimento, in particolare una forma di apprendimento intenzionale che si realizza quando ci si concentra nell’apprendimento di una cosa e che si vuole contrapporre a quello incidentale che si verifica quando, pur senza intenzione, ci troviamo a memorizzare qualcosa. Il concetto di apprendimento è, quindi, molto più ampio di quello di studio. Lo stile di apprendimento tiene conto: -delle caratteristiche individuali nell’approccio ai problemi; -delle differenti strategie nell’elaborare le informazioni; -dei diversi modi di categorizzare ed utilizzare le informazioni; -delle differenze cognitive e motivazionali; -delle differenze di personalità. Dunque, ogni persona adotta particolari processi per arrivare ad apprendere, strategie personali preferenziali di apprendimento indipendenti dalle caratteristiche specifiche del compito. Ma accanto alle strategie individuali, occorre tener conto anche della dimensione sociale dell'apprendimento: dal confronto e dall’interazione con gli altri nascono, infatti, nuovi input per la riorganizzazione delle esperienze e dei contenuti da elaborare. Gli stili di apprendimento dipendono, perciò, da diversi fattori, quali: le preferenze ambientali, i canali sensoriali, gli stili cognitivi e i tratti caratteriali. 2) Stili cognitivi Per stile cognitivo si intendono le modalità preferenziale con cui gli individui elaborano l'informazione nel corso di compiti diversi: uno stile di apprendimento è un aspetto particolare del concetto più ampio di stile cognitivo. Gli stili cognitivi di ognuno influenzano la strategia adottata per cercare di imparare (il proprio stile di apprendimento) e determinano anche il processo di acquisizione della conoscenza e la probabilità che tale processo abbia successo in relazione alle caratteristiche del compito. Gli stili cognitivi evidenziano quindi le differenze individuali in relazione al tempo di apprendimento, agli spazi di apprendimento, agli altri, agli strumenti di lavoro, alle valutazioni, alla memoria e l’organizzazione dello studio e alla percezione di fenomeni. Ogni persona apprende quindi in maniera diversa elaborando una propria strategia adeguata alla sua personalità e i suoi bisogni. Sono state individuate strategie preferenziali, efficaci per categorie di individui; accanto ad esse, comunque, vi sono strategie sempre diverse, da scoprire, sperimentare e valutare. Tali strategie vanno pianificate per ottenere le migliori condizioni di studio in uno specifico contesto. L’individuazione delle strategie si deve necessariamente basare sulla relazione sistematica tra i risultati conseguiti, con i metodi usati per ottenerli. Propedeutica alla definizione delle strategie è la individuazione dei suoi rapporti che la condizionano. 17 Accanto a questi viene individuato anche lo stile compulsivo, che si riferisce alla tendenza ad affrontare un compito in modo incontrollato. 3) Altri fattori che incidono sull’apprendimento I tratti della personalità Le caratteristiche della personalità incidono in maniera significativa sui processi di apprendimento. Ciascun allievo, infatti, porta in classe i tratti peculiari del suo temperamento che, inevitabilmente, influenza il suo modo di apprendere e concorrono a determinare le dinamiche di relazione interne al gruppo. Hans Jurgen Eysenck ha analizzato la personalità in base a due parametri: introversione/estroversione e stabilità/instabilità. Dalla combinazione di tali parametri emergono quattro tipologie di personalità: -Estroverso e stabile: un profilo che appartiene a una persona equilibrata, espansiva, accomodante e socievole; -Estroverso e instabile: tipico di un individuo che tende ad essere eccitabile, impulsivo, irrequieto e irascibile; -Introverso e stabile: ovvero una personalità orientata alla serenità, alla calma, alla riservatezza e alla riflessività; -Introverso e instabile: tratti che definiscono uno stile improntato alla rigidità, alla tendenza ad essere lunatico e ansioso. A tali parametri, nel 1952 Eysenck ne ha aggiunto un terzo, definito psicoticismo, che attiene ai tratti relativi all’asocialità, all’aggressività e, nelle forme più estreme, alle psicosi vere e proprie. A partire dalla teoria di Eysenck sono stati elaborati gli studi successivi riguardanti l'elaborazione di testi questionari, di cui il più noto è l’EPQ (Eysenck Personality Questionnaire) volti alla misurazione dei tratti della personalità. L’iterazione sociale Lo psicologo belga Willem Doise ha studiato i processi psicosociali mediante i quali l'uomo costruisce la sua personalità, apprende orienta il suo atteggiamento verso gli altri. Egli sostiene che l'interazione tra individuo e contesto possa essere studiata su quattro dimensioni: -Analisi intraindividuale: consiste nel valutare i processi sociocognitivi che l’individuo utilizza per processare le informazioni in suo possesso. -Analisi interindividuale: si osserva il modo in cui i rapporti interpersonali influenzano i meccanismi individuali di elaborazione dei dati. -Analisi posizionale: in questa fase si studia come la posizione sociale degli individui che partecipano a un gruppo, influenza l'acquisizione degli apprendimenti individuali. -Analisi relativa alle norme sociali e alle componenti ideologiche: si valuta come e quanto si modificano le abilità individuali in base all'adesione a determinate ideologie, norme e valori del gruppo di riferimento. La mediazione didattica: il metodo Feuerstein Il metodo di Feuerstein consente di sviluppare la consapevolezza dei traguardi raggiunti, durante il percorso al termine del processo di apprendimento. In particolare, l’approccio del pedagogista rumeno Reuven Feuerstein è di tipo sistematico ed è basato sulla teoria della modificabilità cognitiva. Feuerstein ritiene che le facoltà intellettive dell'individuo possano essere accresciute sia nell'età evolutiva che durante tutto l'arco della vita. A qualsiasi età e in qualsiasi condizione fisica o psicologica è quindi possibile sviluppare le abilità cognitive e migliorare la qualità dei rapporti con l'ambiente. Le strutture cognitive, se opportunamente stimolate, possono incrementare le proprie potenzialità. Secondo Feuerstein, l'apprendimento si verifica in seguito a stimoli diretti, ma soprattutto in seguito all’azione di un mediatore. Per l'applicazione corretta del metodo elaborato da Feuerstein e definito PAS (Programma di arricchimento strumentale) bisogna rispettare tre vincoli: tempo, metodo e contesto. -Il tempo: lo sviluppo di esperienze di apprendimento mediato deve essere adeguatamente lungo; -Il metodo: Solo formatori esperti, che conoscano adeguatamente le diverse sfaccettature del metodo, possono operare con successo; 20 -Il contesto: deve esistere un ambiente favorevole e collaborativo, che condivida le aspettative create nel rapporto allievo-mediatore e riconosca e valorizzi i processi, anche i più piccoli, del soggetto. La preparazione dei mediatori didattici garantisce uno svolgimento adeguato e pertinente dell'esperienza. Se i formatori non sono in grado di proporre correttamente i processi di apprendimento mediato, il metodo non può che fallire. 4) L’apprendimento significativo di Ausubel Lo psicologo statunitense David Ausubel ha, invece, concentrato i suoi studi sulla qualità degli apprendimenti da parte degli studenti. Per lui solo l'apprendimento significativo è degno di attenzione, riferendosi a quel tipo di conoscenza che, per realizzarsi, richiede la messa in campo di percorsi cognitivi complessi e non riconducibili alla mera accumulazione mnemonica di nozioni. Affinché un apprendimento sia significativo, ovvero dotato di senso, è necessario, secondo Ausubel, che le nuove informazioni vadano ad “agganciarsi” a esperienze e cognizioni pregresse del discendente. L’apprendimento significativo, inoltre, avviene per scoperta: il docente non deve limitarsi a trasferire contenuti, bensì è opportuno che induca lo studente a comprendere da sé i processi e le dinamiche che regolano i fenomeni oggetto di studio. 5) L’apprendimento esperienziale di Kolb Il pedagogista statunitense David Kolb ha indirizzato i suoi studi in direzione del collegamento esistente tra apprendimento e pratica esperienziale. Secondo l'autore americano si impara a partire dalla pratica, e l'apprendimento si realizza a seguito della teorizzazione dell’esperienza fatta, in un processo circolare (learning cycle) sintetizzato in quattro fasi: 1. esperienza concreta 2. osservazione riflessiva 3. concettualizzazione astratta 4. sperimentazione attiva Nella prima fase (esperienza concreta), gli individui sperimentano sul campo le loro abilità, agendo sull’ambiente e confrontandosi tra di loro. Nella seconda fase (osservazione riflessiva), un’attività metacognitiva, ovvero la riflessione su quanto messo in atto e la condivisione di tali impressioni in gruppo, attraverso confronti, dibattiti o attività di brainstorming. Durante la concettualizzazione astratta, le informazioni vengono sistematizzate in un quadro teorico più ampio, generalizzando i dati dell’esperienza a modelli di funzionamento e di comportamento globali. Infine, la sperimentazione attiva prevede “il ritorno sul campo”, con la messa in pratica delle conoscenze acquisite e delle competenze sviluppate. Nell'ambito del processo di apprendimento teorizzato da Kolb (e definito ex-periential learning), il docente ha un ruolo di predisporre situazioni laboratoriali e di contatto con la realtà, di coordinare il lavoro di metacognizione che segue l'esperienza pratica e favorire la sperimentazione successiva alla contestualizzazione dei dati acquisiti. 6) Tecniche e attività per individuare gli stili di apprendimento Gli studi e le ricerche sull’apprendimento esposte sin qui evidenziano l'importanza di andare incontro agli stili educativi degli studenti al fine di realizzare apprendimenti che risultino per loro significativi. Ciò significa, per il docente, anzitutto partire da un lavoro metacognitivo orientato al riconoscimento del proprio stile, in modo da non esserne condizionato durante la progettazione e la pratica didattica. Il passo successivo consiste nell’individuare gli stili di apprendimento degli studenti, così da valorizzare le potenzialità di ciascuno e indirizzare tutto il gruppo classe verso il successo formativo. L’apprendimento è influenzato dai tratti della personalità: uno studente estroverso trae maggiori benefici da un lavoro interattivo con la classe rispetto a un suo collega più introverso, il quale preferirà probabilmente approfondire in solitudine quanto trattato in classe. L’obiettivo del docente è, dunque, quello di intercettare gli stili e le caratteristiche della personalità di ciascuno studente. Lo scopo verso cui tendere è fare in modo che i ragazzi acquisiscano consapevolezza del 21 proprio stile (metacognizione) e che, al tempo stesso, allarghino le proprie competenze dal confronto e dall’interazione con gli altri, così da imparare ad apprendere anche in quelle modalità meno congeniali. Per individuare gli stili di apprendimento degli studenti può essere utile somministrare questionari mirati ad indagare le abitudini di studio. Molto utile si rileva anche l'osservazione da parte del docente delle interazioni e delle modalità di svolgimento dei lavori di gruppo. Approccio multisensoriale e metodo VAK L’approccio multisensoriale si basa sull’idea che, sollecitando i vari sensi contemporaneamente, il docente ha maggiori possibilità di andare incontro ai diversi stili di apprendimento dei suoi allievi. Tra i modelli più noti che si fondano su questo assunto figura il VAK, acronimo di visivo, auditivo e kinestetico. Andando a solleticare tutte e tre queste dimensioni (coinvolgendo anche il tatto, il modello assume l’acronimo di VAKT), l'insegnante risulta più efficace in termini di potenziamento delle capacità di comprendere e memorizzare per il maggior numero degli studenti. Ricordiamo nel dettaglio i canali coinvolti nell’applicazione del VAK sono: -Visivo. È proprio di un individuo che elabora le nuove informazioni associandole ad immagini mentali; in questo caso l'utilizzo di figure, disegni, mappe faciliterà il lavoro. -Auditivo. Caratterizza il soggetto che apprende ascoltando; le narrazioni, i filmati o i file audio con le sintesi gli approfondimenti delle lezioni ne agevolano lo studio. -Kinestetico. È tipico di coloro che imparano facendo e che trovano dunque particolarmente utili le attività pratiche e laboratoriali. L’approccio multisensoriale consente di andare incontro anche alle esigenze di studenti con bisogni educativi speciali. Il modello Felder-Silverman Si tratta di un modello elaborato da due docenti americani Richard Felder e Linda Silverman, allo scopo di migliorare i percorsi formativi degli studenti universitari. Gli stili di apprendimento individuati dai due docenti sono suddivisi in 5 coppie: -Sensoriale/intuitivo: i sensoriali prediligono la concretezza e la pragmaticità, gli intuitivi tendono alle soluzioni creative. -Visivo/verbale: i visivi si concentrano su immagini, schemi, mappe, figure diagrammi; mentre quelli verbali su testi scritti, narrazioni, ripetizione a voce alta. -Induttivo/deduttivo: gli induttivi procedono dal particolare al generale, mentre i deduttivi apprendono a partire dal generale per arrivare ai fenomeni specifici e concreti. -Attivo/riflessivo: gli attivi prediligono la sperimentazione e la pratica, mentre riflessivi prediligono lo studio teorico e solitario. -Sequenziale/globale: i sequenziali apprendono in maniera lineare, procedendo per fasi graduali, mentre i globali si avvantaggiano dall'avere dapprima informazioni sul concetto generale per poi approfondire i particolari contenuti da studiare. 22 Eppure, nonostante questa innegabile varietà, gran parte del disagio può essere causato proprio da un eccesso di autoritarismo che può determinare all'interno della classe un clima ansiogeno ed una eccessiva tensione emotiva che finisce col compromettere l'efficacia di molte prestazioni cognitive. A una pedagogia fondata sull’intransigenza e sull’autoritarismo vecchia maniera, dovrebbe, al contrario, corrispondere una pedagogia dell'incoraggiamento (es: bravo stai facendo progressi, continua così, non ti preoccupare se sbagli) condizione indispensabile per creare in classe un clima che stimoli la partecipazione attiva dell'alunno al processo di apprendimento. Comunicazione con il gruppo docente L'area dei rapporti interpersonali tra docenti assume una grande rilevanza in un sistema non più impostato su regole rigide individuali, ma su scelte responsabili e condivise. Il gruppo docente si pone pertanto come importante soggetto di responsabilità educativo-didattica. Spesso però esso viene considerato soltanto come un aggregato di persone che poco condividono tra loro. Questa difficoltà a lavorare in un team produce, spesso, nei soggetti disaffezionati del proprio ruolo, un’atomizzazione e particellizzazione degli interventi. Essere capace di lavorare insieme ai colleghi significa mettere in atto un processo di conoscenza, di incontro, di scambio, di messa in comune di ipotesi e idee rappresentative di individualità e personalità anche molto differenti. Il gruppo docente, infatti, è chiamato a realizzare un progetto educativo-didattico fortemente unitario, che lo coinvolge a vari livelli: -come membro di un collegio dei docenti; -come membro di un Consiglio di classe; -come responsabile di una disciplina. Questo spiega perché tutti i progetti di riforma della scuola hanno ribadito la necessità di dare all’azione di insegnamento/apprendimento un carattere unitario. Le ragioni su cui si fonda tale esigenza sono da ricercarsi in motivazioni di ordine scientifico e di ordine pedagogico. Per quanto riguarda il riferimento agli aspetti scientifici, possiamo affermare che le discipline di studio rappresentano una modalità di lettura della realtà sempre più specifica, specializzata e analitica e, in tal senso, tendono a restringere progressivamente il loro campo di indagine e a utilizzare codici sempre più settoriali. Perché la realtà sia conosciuta e interpretata ha bisogno, però, di punti di vista diversi e di ricorrere alla collaborazione tra i vari saperi. Mentre sul piano teorico sono chiare le ragioni di vicinanza e di collegamento tra le diverse discipline, sul piano pedagogico/didattico ci sono notevoli difficoltà a far dialogare tra di loro i saperi. Ci si muove spesso in un’ottica prevalentemente disciplinare senza considerare gli agganci e le relazioni della propria disciplina all'interno del più generale processo di conoscenza. Primo passo per favorire un'impostazione unitaria è partire da una discussione e da una riflessione sul significato che oggi assumono le diverse discipline, sulle strutture profonde che costituiscono, vale a dire “dei concetti, nodi epistemologici e metodologici che strutturano una disciplina”, facilitando così la selezione dei contenuti in termini di essenzialità e significatività. L’unità del sapere, infatti è strettamente connessa all'unità della persona che tale sapere apprende. Se speriamo di vivere non semplicemente di momento in momento, ma realmente coscienti della nostra esistenza, la necessità più forte e l'impresa più difficile per noi consistono nel trovare un significato alla nostra vita. L'educazione è l’itinerario privilegiato per aiutare gli allievi alla scoperta di significato. In questa ricerca il docente è direttamente chiamato in causa a diversi livelli: il livello delle relazioni interpersonali, non solo quelle che si vivono all'interno della classe, ma anche quelle che essi stessi vivono nel gruppo docente, che gli alunni devono percepire come positive; quello della didattica che deve essere in grado di unificare e non parcellizzare le diverse esperienze di apprendimento. 25 Comunicare con le famiglie La comunicazione tra scuola e famiglia non è semplice e la qualità dell’interazione, della partecipazione e del dialogo è talvolta ridotta a rito artificiale ed inutile. Motivo della carenza partecipativa della famiglia al processo formativo è costituito dal fatto che essa non sempre riesce a star dietro ai cambiamenti della scuola, né riesce ad avere piena consapevolezza dei nuovi compiti, delle nuove finalità da conseguire sul piano degli apprendimenti e su quello più generale dell'educazione. La difficoltà a stabilire all'interno della famiglia relazioni interpersonali basate sul rispetto reciproco tra genitori e figli senza interferenze e confusioni di ruolo, sfocia in una pluralità di stili educativi che influenzano fortemente la crescita e lo sviluppo della personalità dei giovani. Sarebbe opportuno, perciò, coinvolgere i genitori in incontri formativi che abbiano l'obiettivo di: -sviluppare una affettività positiva verso la funzione della scuola; -omogeneizzare stili e modelli educativi; -percepirsi utili nella gestione del processo formativo; -collaborare con la scuola alla crescita culturale ed umana. Intorno agli anni '70 la psicologa statunitense Diana Baumrin definisce lo stile educativo come quel complesso di atteggiamenti che un genitore ha e che mette in atto nei confronti dei propri figli che determinano il clima emotivo della famiglia; è l'insieme di gesti, obiettivi, valori, convinzioni che ciascuna mamma e ciascun papà portano con sé quando si relazionano al proprio figlio. Vengono individuati e descritti quattro fondamentali stili educativi: -Stile autoritario: è lo stile educativo assunto da quei genitori che per cause socio-ambientali, per divario culturale, o per difficoltà a intraprendere il loro vero ruolo di educatori, impongono scelte di vita e modalità di comportamenti fondati sull’autoritarismo, soffocando ogni forma di autonomia e di indipendenza. -Stile permissivo: la famiglia rinuncia al suo ruolo di agenzia educativa, assume atteggiamenti deboli, improntati all’accondiscendenza, a comportamenti deresponsabilizzanti determinati dal convincimento che chiedere, imporre, ordinare possa compromettere la libertà individuale, o peggio, essere troppo faticoso. -Stile alterno: è lo stile educativo caratterizzato da instabilità di comportamento che ora sono improntati a eccessivo permissivismo, ora ad autoritarismo esasperato. Cioè crea disorientamento e confusione e insicurezza nella formazione armonica del ragazzo. -Stile autorevole: i genitori si pongono come guida, stabiliscono regole e linee di comportamento che il figlio è tenuto a seguire, ma che si adattano per mezzo del confronto e dell’ascolto. È superfluo dire che questo dovrebbe essere lo stile educativo preferibile perché favorisce nel ragazzo l’autocontrollo e l'autostima, il senso di iniziativa personale e di responsabilità, come pure la curiosità e la sicurezza in sé stessi. Due errori che ricorrono spesso nell’educazione dei figli sono il giovanilismo e il paternalismo. Il primo si verifica quando il genitore si pone sullo stesso piano del figlio considerandosi suo amico e annullando così le distanze generazionali; il secondo consiste nel porsi in una posizione di benevolenza, nell’accettazione di modelli e stili di vita che magari non si condividono ma che vengono comunque giustificati e compresi. Comunicare con il territorio e gli enti locali La scuola è un sistema sociale aperto, legato alle attese e ai bisogni del territorio, pertanto, il docente non può non tener conto della cultura che l'ambiente sociale esprime e nella quale l'alunno è immerso. Tutti i documenti programmatici pongono come obiettivo prioritario la promozione, il coordinamento, lo scambio con tutte le istituzioni presenti sul territorio, sottolineando l'importanza di operare all'interno delle strutture produttive, culturali del proprio ambiente di vita, puntando sull’idea di una scuola che non si chiude in sé stessa ma che esce continuamente nel sociale. È sicuramente importante per un docente capire quanto la conoscenza del territorio può dare all’allievo in termini di apprendimento e di partecipazione sociale. Questa nuova prospettiva rende necessaria un'attività progettuale più ampia, che superi le pareti della scuola e che coinvolga tutte le agenzie preposte all'educazione in una sorta di policentrismo educativo: famiglia, enti locali, istituzioni che possono diventare risorse importanti per il miglioramento e la qualità dell'offerta culturale e formativa della scuola. 26 Tre sono i punti-qualità che la scuola può accumulare quando si apre al territorio. Sono punti di grande innovazione del proprio modello didattico, perché: -l'ambiente stimola la motivazione e la partecipazione attiva degli allievi; -permette agli allievi di verificare direttamente le conoscenze acquisite; -coinvolge integralmente (emotivamente, socialmente, affettivamente) nell'avventura cognitiva. Tutto questo per dire che occorre dare via libera ad una sorta di territorio copernicano in cui le strade naturali e sociali pedalino, insieme, alla scuola e alle offerte culturali e formative che il territorio offre. 5) La competenza metodologico-didattica Se l'istruzione, come sostiene Bruner, non è un prodotto, ma un processo, alla scuola della teorizzazione della trasmissione del sapere deve sostituirsi, allora, la scuola dei processi. Il processo fondamentale da attivare è quello del “sapere imparare”. Imparare ad imparare: la metacognizione Lo studente deve imparare a imparare, deve possedere, insomma, un metodo di studio che possa aiutarlo a sviluppare le proprie capacità di apprendimento per tutto l'arco della sua vita e, quindi, oltre i confini scolastici. Spesso si sente parlare del metodo come qualcosa di rigido, ingabbiato. C'è metodo, invece, dove c'è naturalezza, inventiva, capacità di sintonizzarsi su l'imprevisto. “L'essenza del metodo non è la sistematicità, ma la creatività. Ecco perché l'insegnamento/apprendimento di un metodo di studio non è questione di addestramento o di conoscenza di qualche tecnica in più da trasmettere agli allievi, ma è soprattutto un fatto culturale. Ciò che si chiede, quindi, al docente è di modificare il proprio punto di vista e di orientare il proprio atteggiamento educativo-didattico non soltanto verso l'acquisizione di conoscenze e di competenze, ma anche, e soprattutto, verso il saper apprendere. Lo sviluppo delle abilità di studio, naturalmente, non va conseguito come fine a sé stesso, avulso dal cosa studiare e dal suo valore. Attività per le quali gli allievi non provano interesse, infatti, possono diventare appassionanti se si riesce a cambiare il modo in cui le percepiscono e ad incanalare nel senso giusto le loro energie. Tutto ciò spiega l'esigenza di ricercare percorsi contenutistici che, sul piano metodologico/progettuale, possono diventare alternativi a quelli tradizionali. Ci riferiamo alla necessità di introdurre attività modulari di laboratorio quali il teatro, la fotografia, la musica, che permettono ai ragazzi di “liberare le loro energie” e di giungere all’acquisizione di abilità e competenze che si costruiscono soprattutto con l'esercizio, il fare, all'interno di un percorso metodologico di ricerca-azione in cui l'allievo deve affrontare le situazioni esercitando tutte le capacità di invenzione, progettazione, problem solving. Questo implica che non è l'attività in sé a creare esperienza, quanto il riflettere su di essa, interpretarla, confrontarla, valutarla. È in questo impegno riflessivo che il “fare” diventa esperienza e che può venir colto il senso, il significato del lavoro che si compie insieme. È in questo impegno riflessivo che la cognizione diventa metacognizione, cioè quell’imparare ad imparare che costituisce uno degli aspetti più qualificanti della scuola e dell’essere docente in questo momento. Rispondere a questi nuovi e più complessi compiti richiede al docente conoscenza disciplinare, ma anche capacità di armonizzare questa conoscenza con una serie di altre conoscenze: progettazione delle attività, organizzazione delle unità di apprendimento, verifica, valutazione. 27 Ciò richiede una didattica centrata sull’apprendimento piuttosto che sull’insegnamento ed esige una cultura profonda del contesto di apprendimento. Pur nel rispetto della libertà di insegnamento, vengono così individuate, alcune coordinate metodologiche di fondo: -valorizzare l'esperienza e le conoscenze degli alunni; -attuare interventi adeguati nel riguardo della diversità; -favorire l'esplorazione e la scoperta; -incoraggiare l'apprendimento collaborativo; -promuovere la consapevolezza sul proprio modo di apprendere; -realizzare percorsi in forma di laboratorio. 3) La didattica laboratoriale La necessità di adottare una didattica di tipo laboratoriale è particolarmente rimarcata proprio per l'importanza che essa assume per lo sviluppo e il consolidamento delle competenze utili al cittadino di domani. Le competenze, infatti, non sono un obiettivo puramente cognitivo che possa essere raggiunto con didattiche trasmissive, ma implicano didattiche partecipative che rendano il sapere concreto e spendibile anche nella realtà esterna. Nonostante la metodologia dei laboratori abbia radici lontane, spesso il termine laboratorio è stato utilizzato per indicare attività non incluse nella normale attività didattica, come qualcosa ad esse aggiunto. Si parla di laboratorio quando si vuole avvicinare gli alunni a una determinata tematica: laboratorio di educazione ambientale, di teatro, di informatica, oppure quando si pensa di far produrre o costruire loro qualcosa. Le attività di classe, pertanto, sono considerate nettamente distinte da quelle di laboratorio. Le prime rimandano a immagini stereotipate di lezioni frontali, mentre le seconde avrebbero il compito di rendere più “interessante” e significativo il lavoro scolastico. È raro, invece, che si pensi a un laboratorio come una modalità di lavoro utile a sviluppare la capacità di risolvere un problema o di padroneggiare una tecnica, come “spazio mentale attrezzato, forma mentis”, modo di interagire con la realtà per comprenderla e modificarla. Il laboratorio didattico prevede un lavoro personale, attivo su un determinato problema o tema, la creazione di percorsi cognitivi, la produzione di idee rispetto a un determinato compito, la soluzione di un problema. In senso lato, allora, si può definire laboratorio qualsiasi situazione didattica che presenta il carattere dell’apprendimento attivo, dell'imparare facendo. Per questo, anche percorsi didattici di tipo disciplinare possono diventare laboratoriali, nel senso che inducono l'alunno a “dare senso” a quello che sta facendo e a sperimentare la possibilità di applicare conoscenze e abilità specifiche in contesti reali. 4) La didattica per scoperta La didattica per scoperta è quella metodologia che guida l’apprendimento dell'alunno attraverso la scoperta del mondo. Ispirato all’attivismo di Dewey, si tratta di un metodo incentrato sull’alunno e sui suoi bisogni, che si realizza mediante l'esplorazione di territori fisici, di comportamenti e campi disciplinari, destinati ad attivare processi deduttivi. La caratteristica essenziale dell’apprendimento mediante scoperta è che il contenuto da apprendere non è dato ma è scoperto dallo studente prima che egli lo faccio proprio. Questo tipo di apprendimento comporta, infatti, un processo completamente diverso da quello della ricezione passiva delle conoscenze. L'allievo deve riordinare le informazioni, integrarle con il bagaglio cognitivo preesistente e riorganizzarle o trasformare questo insieme di conoscenze “scoperte” in modo da raggiungere il risultato finale. Dopo che il processo di scoperta personale si è concluso, il contenuto scoperto assume un significato identico a quello raggiunto con l'acquisizione passiva. Se ne deduce che se la didattica per scoperta è particolarmente efficace nelle prime fasi dell'apprendimento, lo è molto meno quando applicata a campi disciplinari complessi, richiedendo tempi di apprendimento lunghissimi e quindi è sostanzialmente impossibile da perseguire. 30 5) La didattica metacognitiva “Imparare a imparare” è una delle 8 competenze chiave individuate nelle Raccomandazioni UE del 2006 e 2018: imparare ad imparare e l'abilità di perseverare nell'apprendimento, di organizzare il proprio apprendimento anche mediante una gestione efficace del tempo e delle informazioni, sia a livello individuale che in gruppo. Questa competenza comprende la consapevolezza del proprio processo di apprendimento e dei propri bisogni, l'identificazione delle opportunità disponibili e la capacità di sormontare gli ostacoli per apprendere in modo efficace. La didattica più adeguata all’acquisizione di questa competenza è quella metacognitiva. Metacognizione significa letteralmente “oltre la cognizione” e indica la capacità di riflettere sulle proprie capacità cognitive. Da alcune ricerche in ambito psicologico è emerso che, trovandosi di fronte a un problema, ciò che crea difficoltà non è tanto non avere le risposte per risolverlo, ma non sapere dove cercarle. L’approccio metacognitivo rappresenta una modalità privilegiata per trasmettere contenuti e strategie, a qualsiasi età, poiché mira alla costruzione di una mente aperta. Esso privilegia non cosa l’alunno apprende, ma come l'alunno apprende e attiva la propensione a far riflettere gli studenti su aspetti riguardanti la propria personale capacità di apprendere, di stare attenti, di concentrarsi, di ricordare. Le principali strategie didattiche metacognitive sono: 1. Selezione: comporta la scelta delle informazioni ritenute rilevanti, sulle quali è importante soffermarsi. 2. Organizzazione: comporta la connessione fra i vari pezzi di informazione. Perciò si organizza l’informazioni in ordine logico (per esempio con un riassunto o con una mappa concettuale) 3. Elaborazione: comporta il legame della nuova informazione con quanto già si conosce ed è la modalità più efficace di apprendimento. 4. Ripetizione: si basa sulla ripetizione dell’informazione sino ad una completa padronanza. 6) La didattica per progetti Il termine progettare deriva dal latino proicere = gettare avanti, prefigurare un cammino che si propone il raggiungimento di una o più mete che porteranno alla realizzazione di un prodotto che sarà prevedibile, verificabile, spendibile con caratteristiche di accettabilità definibili a priori. Progettare vuol dire negoziare, discutere, battersi con l'incognito che si ricostruisce senza sosta, giacché ogni soluzione di un problema produce una nuova questione. La didattica per progetti è stata introdotta da William Heard Kilpatrick nel 1918 quando, sulla base dell’attivismo di Dewey, propose di impostare tutto il lavoro scolastico come percorso progettuale. Il lavoro per progetti è incentrato sullo studente, e l'insegnante assume il ruolo di chi: -incoraggia; -facilità; -coordina senza ordinare; -creare le condizioni perché gli studenti operino al meglio; -aiuta a dare significato al lavoro svolto. Nel lavoro per progetti, infatti, l'allievo viene coinvolto e chiamato a realizzare un prodotto finale in cui sono in gioco le sue competenze, il suo saper fare, il suo saper essere soggetto attivo in un lavoro di gruppo. Secondo l'associazione statunitense “Project Management Institute”, il progetto può essere definito come “una combinazione di uomini, risorse e fattori organizzativi, riuniti temporaneamente, per raggiungere obiettivi unici, definiti e con vincoli di tempo, costo, qualità e risorse”. Lavorare per progetti significa, quindi, pianificare, organizzare e coordinare tali risorse nello svolgimento di attività tra loro correlate e finalizzate al raggiungimento di un obiettivo predefinito, in presenza di condizioni di rischio e di vincoli. Le fasi per la stesura di un progetto La stesura di un progetto è preceduta da una: -Fase preliminare: ogni progetto si configura come un percorso trasversale che, utilizzando i diversi apporti disciplinari, parte da un bisogno, affronta un problema reale, pone ipotesi, realizza azioni ed interventi che 31 possano essere utili alla sua soluzione. Condizione preliminare alla stesura di un progetto è, quindi, l'individuazione del problema o del bisogno su cui si decide di intervenire. È indispensabile per questo, che i soggetti chiamati a realizzarlo ne facciano parte integrante. -Fase della negoziazione: è opportuno che la proposta iniziale di un progetto sia poco strutturata in modo che possa, poi, accogliere tutte le integrazioni che si riterranno necessarie in corso d'opera. Un primo segnale, infatti, della validità operativa della progettazione iniziale è relativo all'uso che se ne fa. Se, dopo la stesura, quelle pagine non vengono più ricercate per trovare spunti, esse diventano inutili, rispondono forse, più l’esigenza di ottemperare ad un adempimento burocratico piuttosto che ad una funzione di orientamento del lavoro quotidiano. Una progettazione iniziale, correttamente intesa, dovrebbe assumere perciò le caratteristiche della sinteticità, della chiarezza e dell’orientatività. Il Consiglio di classe è il vero destinatario della proposta progettuale. È bene che la proposta sia conosciuta e condivisa e che tutti i docenti possono integrarla. Analogamente per gli alunni occorrerebbe presentare il progetto non come qualcosa di definito e concluso in sé, ma come un quadro che essi contribuiranno a riempire. Bisogna far sentire loro che saranno ascoltati e che le osservazioni e le proposte che fanno verranno prese in considerazione. Questa fase denominata fase della negoziazione o del contratto, accompagna tutti i momenti della progettazione e lo svolgimento dell'azione e richiede ai soggetti coinvolti di: -mettere in comune i pensieri, idee, proposte; -agire insieme formulando ipotesi; -individuare strategie ed interventi per la co-gestione dell'itinerario. Essa si configura, perciò, come un processo di conoscenza, di incontro, di scambio, di messa in comune di ipotesi, di idee rappresentative di individualità e di personalità anche molto differenti. 7) La didattica cooperativa o cooperative learning La didattica cooperativa (cooperative learning) si rifà alla teoria del sociocostruttivismo, secondo la quale la conoscenza è il prodotto di una costruzione attiva del soggetto ed è ancorata al contesto in cui si svolge attraverso particolari forme di collaborazione e negoziazione sociale. Può essere definita “un metodo di apprendimento-insegnamento in cui la variabile significativa è la cooperazione tra gli studenti. La didattica cooperativa punta al miglioramento dei processi di apprendimento e socializzazione attraverso la mediazione del gruppo, i cui membri devono agire sentendosi positivamente interdipendenti tra di loro, in maniera tale che il successo di uno sia il successo di tutti. Come osserva Vygotskij, “diventiamo noi stessi attraverso gli altri”. Per Vygotskij ogni individuo possiede potenzialità cognitive latenti che si possono esprimere solo attraverso l'interazione con gli altri. È questo quello che l'autore chiama zona di sviluppo prossimale: Vygotskij considera un individuo, e soprattutto il bambino, dotato di un potenziale che gli permette di acquisire nuove conoscenze nel momento in cui entra in contatto con altri individui con una maturazione cognitiva e una cultura maggiori. Nella didattica collaborativa, il docente assume un ruolo di tutor: favorisce l'interazione tra gli studenti, stimola la discussione, facilita l'apprendimento ricorrendo a continue sollecitazioni, utilizza il gruppo in cui gli alunni lavorano insieme per migliorare reciprocamente il loro apprendimento, puntando su una mediazione sociale, contrapposta alla mediazione dell'insegnante. Nelle metodologie di insegnamento/apprendimento la mediazione sociale, come appunto l'apprendimento cooperativo, le risorse e l'origine dell'apprendimento sono soprattutto gli allievi, che si aiutano reciprocamente. Qui la figura dell'insegnante si riduce al ruolo di semplice facilitatore e organizzatore delle attività. Caratteristiche positive del lavoro cooperativo sono: -Sviluppo di un legame concreto tra gli studenti; -Interazione faccia a faccia; -Stimolo alla responsabilizzazione sia verso di sé che verso gli altri; -Importanza dello sviluppo delle cosiddette “abilità sociali”. Il cooperative learning sembra poter risolvere molti dei grandi problemi dei nostri sistemi scolastici: -recupero allievi problematici; -integrazione allievi disadattati, diversi; -valorizzazione degli allievi bravi; 32 Il procedimento del problem solving viene schematizzato i vari modi. Uno dei più noti è il F.A.R.E., acronimo che indica i quattro momenti di questa procedura. La seconda schematizzazione si basa sulle cinque W due H: -Who: a chi ci si rivolge; -What: che cosa si deve fare (progetto); -Where: dove si deve intervenire; -When: quando va fatto; -Why: perché si fa (obiettivo); -How: come si deve fare; -How Much: quanto si può spendere? Le risposte, la ricerca di soluzioni a un dato problema alimentano il pensiero produttivo, la creatività intellettuale. 10) L'insegnamento capovolto: flip teaching L'insegnamento capovolto o flip teaching è una metodologia didattica che si attua con un’inversione delle modalità di insegnamento tradizionale: Normalmente il docente insegna e l'alunno ascolta per poi studiare e ripetere a casa. Il termine flip (capovolgere) sta ad indicare la modalità in cui vengono proposti i contenuti e i tempi utili per l'apprendimento. La flipped classroom, infatti, ribalta la logica dello studiare in classe con l'insegnante e del ripetere passivamente a casa quando sentito/letto in classe. La lezione è flipped perché inverte l’ordine tradizionale che è strutturato nel flusso: attività di informazione attività di appropriazione dell’informazione. Lezione tradizionale: a scuola lo studente ottiene informazioni a casa c’è l’appropriazione, il momento in cui lo studente sviluppa apprendimento a partire dalla spiegazione dell’insegnante. Lezione flipped: a casa lo studente attinge l’informazione a scuola c’è l’appropriazione, il momento in cui lo studente sviluppa l’apprendimento. Nel momento in cui apprende lo studente non è da solo e l’insegnante è maggiormente significativo nel momento in cui lo studente ne ha più bisogno, ossia nel momento della riflessione sull’informazione. In una flipped classroom la responsabilità del processo di insegnamento viene in un certo senso trasferita agli studenti, i quali possono controllare l’accesso ai contenuti in modo diretto, avere a disposizione i tempi necessari per l’apprendimento e la valutazione. L’insegnante ha il ruolo di guida che incoraggia gli studenti alla ricerca personale e alla collaborazione e condivisione dei saperi appresi. Le attività avvengono in modalità simile a quelle usate nei corsi di formazione professionale, quindi con ampio utilizzo delle nuove tecnologie. Il primo step per un'attività di Flip teaching consiste nell'identificare una piattaforma di e-learning, quale ambiente dove raccogliere, organizzare e condividere risorse. Il processo segue diverse fasi: -L’insegnante seleziona o prepara molto attentamente risorse video, risorse multimediali, libri o e-book che devono essere catalogati all’interno di un’apposita piattaforma on-line creata per gli studenti; -L’insegnante assegna per casa agli studenti i video o le risorse su un argomento che successivamente sarà trattato in classe; 35 -Gli studenti a casa si collegano allo spazio virtuale nel quale hanno a disposizione i materiali didattici che il docente ha selezionato o creato proprio per loro; -Successivamente l’insegnante a scuola fornisce chiarimenti, effettua esercitazioni e qualsiasi attività funzionale ad una migliore comprensione. -Gli alunni in classe riferiscono le conoscenze acquisite, rispondono alle domande poste dal docente, producono testi dimostrando così di aver compreso l’argomento; -L’insegnante testa il livello raggiunto attraverso quiz on-line. La tecnologia nella flipped classroom assume un ruolo importante in quanto: - Aiuta gli studenti ad accedere ai materiali da casa, a prendere appunti, a scambiare informazioni. - Aiuta i docenti ad ottenere un feedback dagli studenti, tracciare il loro progresso e supportare la collaborazione. Non mancano, tuttavia, i punti di debolezza: -Vengono certamente penalizzati i rapporti interpersonali; -È richiesta una particolare attenzione nella fase di programmazione delle attività e di selezione dei materiali didattici da sottoporre ai discenti; -La registrazione delle lezioni richiede molto tempo e la capacità di utilizzare gli strumenti adeguati alla realizzazione di un podcast; -Gli studenti possono sentirsi smarriti quando utilizzano i materiali on-line; -È necessario rivedere il curriculum scolastico. 11) Educazione tra pari o peer education Una delle modalità alla base della didattica relazionale è la peer education (educazione tra pari, tra coetanei), una metodologia volta ad attivare un naturale passaggio di conoscenze, emozioni ed esperienze da parte di alcuni membri di un gruppo ad altri individui dello stesso gruppo, mettendo così in moto un processo di comunicazione globale che diviene una vera e propria occasione di arricchimento e di scambio per il singolo adolescente. Nell’ambito della classe, gli alunni più maturi e preparati (peer educator) insegnano a quelli che hanno bisogno di supporto e di tempi più lunghi per l’apprendimento. Questo metodo di lavoro rappresenta, quindi, una rottura con i modelli tradizionali centrati sulla figura dell’adulto esperto e competente. Al docente spetta il compito di supervisione. Il peer education è un sistema che: - Rende più maturo il peer educator che ripete anche lui i concetti; - Insegna a tutti che il rapporto tra i coetanei può avere anche scopi più alti del semplice gioco; - Facilità l’apprendimento; - Aiuta il docente a conoscere meglio le reali dinamiche e le esigenze del gruppo. L’educazione tra pari inoltre può essere un valido modello di lavoro con e per gli adolescenti; essa riconosce gli adolescenti quali primi attori nella promozione del loro benessere e nella realizzazione di azioni di prevenzione di comportamenti a rischio. 12) Tutoring o mentoring Tutoring è ogni intervento che sostiene o aiuta un individuo in condizioni di disagio o difficoltà di apprendimento. In ambito scolastico il tutor è un docente che si pone a disposizione del singolo alunno per venire incontro alle esigenze psichiche e cognitive. Oggi piuttosto che di tutoring si preferisce parlare di mentoring. È facile che per un giovane una figura adulta esterna all’ambito familiare rappresenti un punto di riferimento, un modello di comportamento e uno stimolo forte per la crescita personale. Parliamo in questo caso di “natural mentoring”. Il mentoring è, quindi, un tipo di relazione formale, che nasce casualmente ma si sviluppa con uno scopo di crescita e miglioramento personale. L’aspetto principale di questo processo è la relazione “mentore-mentee”. Si tratta in sostanza di una metodologia di formazione basata sulla relazione tra un soggetto con più esperienza, chiamato Senior o Mentor, e uno con meno esperienza con lo scopo di promuovere in quest’ultimo lo sviluppo di competenze che riguardano la sfera personale, professionale e sociale. 36 Il Mentor è una persona che rappresenta una forte motivazione a fare da guida e da Consigliere al mentee; in ambito scolastico è ovviamente un docente. Il mentee, o allievo, è colui che si fa guidare Consigliare nell’apprendimento; insieme creano il rapporto di mentorship, segnato soprattutto da grande fiducia e da un sincero dialogo. Oggi nell’ambito dei programmi di prevenzione, il termine mentoring viene usato per indicare: - Un tipo particolare di relazione uno a uno, all’interno della quale una persona con specifiche abilità e competenze (il mentor) mette un giovane (il mentee) nelle condizioni di sviluppare le proprie. - Una relazione personale stretta in un processo di lavoro comune per raggiungere obiettivi concordati; - Una relazione reciproca, un’alleanza dalla quale sia mentor che mentee traggono beneficio. 37 I modelli context-oriented Nei modelli didattici context-oriented (denominati anche dell'oggetto mediatore) l'azione didattica viene rivolta agli spazi dedicati all'apprendimento, in particolare alla loro organizzazione, e allo sviluppo del potenziale formativo tramite la cosiddetta trasposizione didattica. In tali modelli didattici giocano un ruolo preponderante i contenuti disciplinari fondamentali, i cosiddetti “oggetti culturali”, che vengono considerati come delle amplificazioni delle strutture cognitive dei destinatari dell’azione didattica. Gli oggetti culturali consentono una personalizzazione e un'attività di “modellazione” del soggetto coinvolto ed è proprio a tal fine che i modelli didattici context-oriented prendono anche la denominazione di modelli “dell'oggetto mediatore”. In altri termini si consente una mediazione fra l'attività di insegnamento e quella di apprendimento tramite gli oggetti culturali sui quali sia gli insegnanti che gli allievi convergono. Insegnamento Mediazione tramite gli oggetti culturali Apprendimento Nei modelli didattici orientati al contesto la creazione della conoscenza avviene tramite la partecipazione attiva dei destinatari dell’apprendimento e un'azione costruttiva costante nel tempo che permette di raggiungere i contenuti alla propria formazione. L'attività di costruzione del sapere viene orientata e guidata dal docente al quale viene richiesto un elevato grado di professionalità. La funzione principale dell'insegnante è da ricercarsi nel supporto durante l'attività di costruzione della conoscenza e del sapere, tramite la trasmissione del suo stesso sapere agli allievi. Tra le metodologie didattiche aderenti al modello orientato al contesto ricordiamo: -L'educazione ai media (Media Education, ME) fortemente incentrata sull'utilizzo dei media e dei mezzi di comunicazione di massa per agevolare l’ideazione di messaggi, linguaggi e contenuti. - I modelli ispirati al S.O.F.E. (Sistema Obiettivi Fondamentali Educazione) in cui la programmazione didattica viene suddivisa in obiettivi educativi generali valutabili, che vengono direttamente ricollegati al sapere superando la cosiddetta divisione interna del sapere e consentendo di passare dagli obiettivi generalmente valutabili ad obiettivi via via più specifici. -Il modello del paradigma narrativo che concettualmente “traduce” la conoscenza e la memoria in una narrazione, vista da Bruner come lo strumento ideale su cui organizzare e gestire la conoscenza. -Il modello dello sfondo integratore che permette di focalizzare l'attenzione sul continuo processo di verifica, valutazione ed autovalutazione da parte dell'allievo che è in una posizione di continua mediazione rispetto all'insegnante. 3) Metodi didattici di apprendimento attivo Nell'ambito dei metodi didattici merita un approfondimento la parte dell'insieme delle metodologie e delle tecniche relative all’apprendimento attivo. Il metodo espositivo (rappresentato dalla tradizionale lezione frontale) potrebbe non rilevarsi propriamente efficace in relazione a specifici contesti educativi; è per tali motivi che nel corso degli anni si sono sviluppate diverse tecniche di apprendimento partecipato. Tradizionalmente si distinguono diversi tipi di metodi: -metodi operativi, caratterizzati da un’importante attività di laboratorio; -metodi euristico-partecipativi, basati sulla ricerca-azione; -metodi investigativi che si basano sulla ricerca sperimentale; -metodi individualizzati, basati sulle singole peculiarità individuali. 40 Metodi Operativi I metodi operativi pongono in risalto la figura dell'allievo che diventa compartecipe dell’azione didattica. In tali metodi si fa in modo di inserire l'alunno in un contesto pratico e si agevola il processo di learning by doing permettendogli di partecipare praticamente all’azione. Il metodo operativo per eccellenza è costituito dal laboratorio quale attività di rielaborazione e reinvenzione delle conoscenze. Metodi euristico-partecipativi: la ricerca-azione Alla base di tale metodologia didattica si realizza una condivisione di risorse intellettive ed una cooperazione tale da creare un ambiente di lavoro comune per la risoluzione di un determinato problema o per l'analisi di un fenomeno. L'espressione principali di tale metodologia è costituita dalla ricerca-azione seguita dalla ricerca di gruppo. La ricerca-azione è un metodo per costruire la conoscenza partendo da un problema: non si parte da un sapere già codificato, ma si agisce, si riflette sull’azione e poi la si formalizza. Lo scopo della ricerca-azione è il cambiamento delle persone, delle relazioni, del contesto. Metodologicamente il ciclo della ricerca-azione comprende le seguenti fasi: -identificazione dei problemi da risolvere; -raccolta dei dati e formulazione delle ipotesi di cambiamento e dei piani di implementazione; -applicazione delle ipotesi nei contesti-obiettivo dei piani formulati; -valutazione dei cambiamenti intervenuti e revisione dei progetti e dei piani adottati; -approfondimento, istituzionalizzazione e diffusione capillare delle applicazioni con valutazione positiva o identificazione di nuovi aspetti problematici che danno inizio a un nuovo ciclo. La ricerca-azione è una particolare modalità operativa di condurre l'attività educativa, fondandola sulla verifica continua, nella prassi didattica, delle teorie professionali o personali; Il docente e così anche attivo ricercatore e diretto produttore di strategie e/o di materiali didattici. Fulcro della ricerca-azione è il concetto di partecipazione che implica una fitta circolazione di informazioni e idee, coniugata con l'attività pratica sul campo. Metodi investigativi: la ricerca sperimentale Oltre alla ricerca-azione che si avvale del metodo euristico partecipativo, l’apprendimento per ricerca può attivarsi attraverso la ricerca sperimentale classica. Il metodo investigativo segue il percorso della ricerca sperimentale comune a molte scienze: -descrizione del problema; -analisi e selezione delle ipotesi; -delimitazione del campo di ricerca; -selezione degli elementi rappresentativi; -Selezione delle fonti da cui rilevare le informazioni; -Registrazione ed elaborazione dei dati raccolti; -confronto e verifica delle ipotesi; -Definizione del principio generale. Un esempio di ricerca è il webquest, un progetto di ricerca guidata di risorse internet con le quali svolgere autonomamente una serie di attività finalizzate alla risoluzione di un problema posto a monte. Metodi individualizzati Nei metodi di apprendimento individualizzati ci si sofferma sulle peculiarità dei singoli soggetti dell’apprendimento, dei tempi e dei ritmi necessari ad apprendere sull’evoluzione dei processi metacognitivi. Tali metodi didattici presuppongono una preliminare opera di individualizzazione, intesa come attività 41 necessaria per fare in modo che i discenti siano in grado di raggiungere uno stesso obiettivo di apprendimento con modalità e tempi diversi tra loro, tenendo in considerazione le caratteristiche individuali dei componenti del gruppo classe. Le risorse, non solo fisiche ma anche intellettuali, vengono efficientate dal momento che tra i compiti del docente vi è la determinazione della miglior soluzione di apprendimento per un certo individuo. Anche l'attività di personalizzazione risulta essere di rilievo cruciale per porre in risalto le qualità intellettive degli allievi. Tra le principali metodologie individualizzate si rinvengono l'apprendimento per padronanza (cd. mastery learning) e l'insegnamento capovolto (cd. flipped classroom). Apprendimento per padronanza: il mastery learning Il mastery learning è una metodologia didattica di ispirazione comportamentista, perlopiù afferente ai modelli didattici product-oriented, elaborata dallo psicologo e pedagogista statunitense B. Bloom, si basa sul principio che la maggior parte degli studenti possa raggiungere un elevato livello di apprendimento se vengono create le condizioni corrispondenti alle caratteristiche individuali. Per Bloom tutti gli studenti possono apprendere qualsiasi tipo di conoscenza e competenza qualora venga garantito loro tempo necessario e un’adeguata motivazione. In sostanza si tengono in considerazione le caratteristiche proprie dei singoli alunni e si adattano alle loro esigenze le proposte formative, nell'ottica di una didattica personalizzata. Nel mastery learning i risultati non sono perseguiti secondo una linea temporale, bensì essendo la didattica impostata per obiettivi, consente a ciascuno studente di raggiungere gli obiettivi in momenti diversi dell’anno scolastico. Il contenuto è così articolato in microunità didattiche in cui a uno stimolo corrisponde una risposta precisa. Ad ogni alunno viene concesso il tempo per lui necessario per apprendere questi piccoli segmenti di conoscenza, segue poi per ciascuno la fase di verifica e valutazione. 4) Modelli didattici e nuove tecnologie La diffusione delle Tecnologie dell'Informazione e Comunicazione TIC agevola e meglio definisce i processi di apprendimento ed il mercato del lavoro. L'utilizzo di tecnologie sempre più avanzate, ha consentito la condivisione e la diffusione del sapere anche dei classici modelli didattici che sono diventati sempre più dinamici ed evoluti. Nell’esperienza dei nativi digitali (coloro che hanno assistito alla nascita delle tecnologie) l'apprendimento risulta non essere più centralizzato ma frammentato e sempre più esternalizzato e improntato ad altre attività che potrebbero non essere contemplate in un modello didattico di stampo classico-tradizionale. In particolare, anche l'uso di un semplice computer consente di aumentare le proprie capacità di ricerca, esplorazione e scoperta. Si assiste ad una progressiva svalutazione dello strumento didattico principale qual è il libro di testo che lascia il passo ad altri strumenti più complessi come connessione internet, tablet, Lim etc. Un sempre crescente utilizzo di strumenti didattici informatici consente non soltanto di agevolare l'innovazione didattica, che risulta sempre più condizionata dalla tecnologia, ma anche di personalizzare e di specificare l'offerta didattica al fine di renderla differente a seconda del caso concreto. Non a caso i modelli didattici pensati appositamente per favorire l'inclusione di alunni con BES oppure con disabilità presuppongono un cospicuo utilizzo di dispositivi e strumenti tecnologici per meglio rispondere alle sempre più mutevoli esigenze educative. L’e-learning L'adozione di tecniche e metodologie basate sull’e-learning è fortemente influenzato dai costi di gestione relativi alla predisposizione ed alla manutenzione delle piattaforme didattiche ed in tal fine si rendono rilevanti i free software e open source che possono essere adottati anche gratuitamente. Anche l'Unesco ha auspicato il Free Software Movement per ridurre il digital divide e rendere l'impatto tecnologico multi- contesto sempre più fruibile dall’utenza, anche ammnistrativa. Per ciò che riguarda il modello didattico basato sull’e-learning occorre sottolineare che il nucleo fondamentale dell’azione didattica è costituito dalla piattaforma che consente lo sviluppo cognitivo sulla base di strumenti e risorse comuni. In particolare, la piattaforma deve consentire un utilizzo che preveda la comunicazione: 42 Capitolo 4 ►Modelli di scuola e tecniche di progettazione 1) La scuola del programma L'istituzione della scuola media unica nel 1962 sancisce ufficialmente il diritto-dovere di fruire di una formazione scolastica della durata di 8 anni. Alla scuola viene associato il concetto di un'unica istruzione in grado di trasformare la realtà e di assicurare benessere per tutti senza distinzione di classe e di contesti socio-culturali. Le condizioni, che avrebbero potuto favorire il conseguimento di questo obiettivo, potevano essere solo quelle di una scuola governata dal centro, secondo regole imprescindibili, prescrittive e valide per tutto il territorio nazionale. L'espressione più marcata di questo sistema scolastico fortemente centralizzato è il programma. Esso designa contenuti da svolgere in maniera uniforme su tutto il territorio nazionale. Agli insegnanti e alle scuole non resta che adeguarsi alle indicazioni date. Sul piano professionale si richiede agli insegnanti un atteggiamento impiegatizio: i programmi danno istruzioni, i docenti sono chiamati ad applicarle ed eseguirle. Anzi l'applicazione e lo svolgimento del programma diventano gli elementi più significativi per designare il bravo docente. La scuola del programma è statica, definitiva, valida per tutti. Nonostante ciò, i programmi hanno avuto meriti storici che non si possono disconoscere: -consolidare l'unità nazionale sul piano storico, politico, sociale; -favorire la formazione e l'atteggiamento dei docenti; -combattere l'analfabetismo. La lezione frontale Espressione tipica della scuola del programma è la lezione. Le tipologie di lezione più frequentemente utilizzate nel tempo sono state la lezione frontale e la lezione dialogica. La lezione frontale appartiene ai metodi denominati espositivi, ed è un tipico esempio di “comunicazione unidirezionale”, la cui principale caratteristica è un’esposizione prevalentemente verbale. Essa si basa su una concezione sostanzialmente ricettiva dell’apprendimento. L'insegnante spiega e gli studenti ascoltano. Può essere così visualizzata: Contenuti  Spiegazione  Interrogazione Il ruolo dello studente consiste prevalentemente nell’apprendere un sapere codificato di tipo disciplinare. Lo svantaggio principale della lezione frontale è l'impossibilità di verificare il feedback dell’apprendimento da parte della classe. Essa è caratterizzata da uniformità della comunicazione didattica oltre che dalla verticalità della comunicazione; gli allievi svolgono un ruolo prevalentemente passivo, secondo uno schema tradizionale in cui l'insegnamento era il semplice trasferimento di conoscenza da docente a studenti. Nel tempo, molte sono state le critiche rivolte a questo metodo di insegnamento che: -insegna solo a riprodurre e non a costruire il sapere; -limita la strada del pensiero critico; -confonde il comprendere con il memorizzare; -crea dipendenza e docilità nel senso che spesso si ritiene che sia meglio dire ciò che il docente vuole che si dica, piuttosto che avanzare critiche e riflessioni sulle informazioni apprese; -determina scarsa partecipazione. Mentre le intelligenze convergenti si trovano a loro agio, quelle più divergenti e critiche incontrano difficoltà e disperdono gran parte delle loro risorse creative. Nonostante ciò, la lezione frontale presenta anche alcuni vantaggi: -permette di trasferire i contenuti in maniera logica e consequenziale; -permette di mantenere un maggior controllo degli allievi che tendenzialmente sono costretti al silenzio; -l'organizzazione della lezione è sicuramente più facile, in quanto lo sforzo è limitato a “spiegare”. Lezione dialogica 45 La lezione dialogica usa il dialogo come strumento per la trasmissione del sapere. È centrata sullo studente il quale, riflettendo sulle domande e formulando le risposte, a poco a poco si appropria delle conoscenze. Elemento di riferimento principale non è la disciplina, bensì il soggetto che apprende, alla luce dei suoi bisogni e dei suoi interessi. L'obiettivo della lezione dialogica non è la trasmissione di determinati contenuti, ma soprattutto lo sviluppo delle capacità di ragionamento e di analisi dei concetti, nonché lo sviluppo delle capacità espositive relazionali. Il docente deve non solo stimolare le domande e le risposte degli studenti nonché l'interazione della classe, ma deve saper “improvvisare” e riprogettare in corsa il suo percorso didattico. Egli deve, in particolare, preoccuparsi di garantire un costante coinvolgimento del gruppo e l'interazione costante con gli allievi seguendo più o meno uno schema di questo tipo: Problema Conversazione esplorativa Individuazione di ipotesi di soluzione Soluzione del problema Verifica Di fatto questo modello di lezione presenta però anche alcuni svantaggi: -in primo luogo esso è concretamente applicabile solo per argomenti analizzabili in via logico-deduttiva (ad es. la filosofia); -il docente deve avere inoltre ben chiari gli aspetti su cui i ragazzi dovranno focalizzarsi; -la discussione porta con sé il rischio di divagazioni e di generare confusione; -richiede tempi lunghi per l'apprendimento. 2) La scuola della programmazione La legge 4 agosto 1977 numero 517 introduce ufficialmente nella scuola italiana la programmazione didattica, più dettagliatamente ratificata dal D.M. 9 Febbraio 1979. Con le nuove disposizioni legislative vengono introdotti nella cultura scolastica due voci nuove, ossia programmazione e curriculo. Anzi, il dispositivo legislativo unifica i due termini in programmazione curriculare. Il termine curriculo ha assunto nel corso del tempo significati diversi. In un primo momento considerato sinonimo di piano di studi e quindi incentrato soprattutto su obiettivi e contenuti d'insegnamento, via via che l'attenzione si spostava dai contenuti all’allievo, ha assunto il significato quasi di piano di apprendimento. Stenhouse sostiene che abbiamo a che fare con due concezioni diverse del curriculo: da una parte esso si configura come intenzione, programma o indicazione, cioè come idea di ciò che si aspira possa ottenersi a scuola, dall'altro rappresenta invece un quadro reale della situazione scolastica, di ciò che in effetti avviene. Il curriculo è incentrato sulla relazione tra questi due aspetti: enunciazione di intenzioni e realtà di fatto. Il suo scopo è quello di far progredire la scuola mediante il miglioramento delle condizioni di insegnamento e di apprendimento, insistendo soprattutto sul fatto che le idee devono incontrarsi con la pratica e che la pratica è sottoposta al controllo delle idee. La scuola della programmazione curriculare è una scuola che si fa in situazione, vuol dire una scuola in cui ci si serve del programma nazionale per fare un discorso che è voluto dalla situazione. Ciò comporta una professionalità docente capace di reinterpretare il programma in funzione della situazione. La programmazione è questo: è dare consapevolezza, metodo e possibilità di verificare la nostra azione. Ma è anche coordinamento intenzionale degli apprendimenti nel curriculo. La programmazione per obiettivi 46 La legge precisa anche quale tipo di programmazione si debba fare riferimento indicando le fasi che devono essere seguite: -individuazione delle esigenze del contesto socio-culturale; -definizione degli obiettivi finali, intermedi, immediati; -organizzazione delle attività e dei contenuti in relazione agli obiettivi stabiliti; -sistematica osservazione dei processi di apprendimento; -continue verifiche del processo didattico ed adeguamento degli interventi; -ritorno agli obiettivi per riassumere le risultanze e programmare i nuovi interventi formativi. Il modello di programmazione proposto è, dunque, quello per obiettivi. Una programmazione, cioè, che assume gli obiettivi come elementi di regolazione di tutte le fasi del curriculo: i contenuti, i metodi, gli strumenti di verifica e di valutazione hanno senso solo se correlati con gli obiettivi che si intendono perseguire. Alla scuola del programma si contrappone la scuola della programmazione, vale a dire dell'organizzazione del piano delle azioni che si intendono attuare in vista del raggiungimento di uno scopo. L’antitesi programma-programmazione è andata via via attenuandosi nel senso che si è ritenuto importante sia il programma che assicura l'unità e la stabilità del progetto educativo sul piano nazionale, sia la programmazione attraverso la quale si definiscono i diversi itinerari che, in rapporto alla varietà delle situazioni specifiche di ogni scuola, devono garantire una sostanziale equivalenza dei risultati. Nel tempo, molte sono state le critiche mosse a questo tipo di pianificazione del processo formativo: eccessivo schematismo, astrattezza degli obiettivi, considerati spesso lontani dalla pratica d'insegnamento e/o eccessivamente generici. Le differenze fondamentali tra la scuola del programma la scuola della programmazione possono essere così sintetizzate: Unità didattica, Modulo, Unità di apprendimento L'unità didattica costituisce l'unità minima di programmazione ed è finalizzata al perseguimento di un obiettivo formativo specifico. Il modulo è una parte significativa, altamente omogenea ed unitaria di un più esteso percorso formativo disciplinare o pluri-multi-inter-trasversale, una parte del tutto in grado non solo di assolvere ben specifiche funzioni ma anche di far perseguire ben precisi obiettivi, non solo cognitivi, verificabili, documentabili e capitalizzabili. Esso, in genere, è costituito da un insieme di unità didattiche componibili fra loro. L'unità di apprendimento presenta una struttura modulare, di tipo globale, che assume il percorso didattico nella sua complessità. Si configura come parte di un percorso altamente omogenea e unitaria che tiene presente la complessità ma è autonoma rispetto alla complessità stessa. La programmazione per sfondo integratore o per contesto Lo sfondo integratore è una particolare metodologia di programmazione, che prende le mosse dalle riflessioni di Gregory Bateson e di tutta la scuola di Palo Alto. In Italia, è stata introdotta negli anni '80 da Andrea Canevaro e Paolo Zanelli ed applicata soprattutto nella scuola dell'infanzia e nella scuola primaria. 47 Capitolo 5 ►Le competenze: dalla teoria all’applicazione pratica 1) Le competenze in Europa Nel contesto europeo, il tema dell’apprendimento per competenze ha assunto una grande rilevanza, perché ritenuto fondamentale per permettere ai giovani di affrontare con maggiore consapevolezza la sfida di un mercato che diventa sempre più globale, e per fare dell’Unione europea la “società della conoscenza più competitiva e dinamica al mondo”. Il rapporto “Educazione e competenze in Europa” segna la svolta verso un sistema di istruzione non più legato unicamente alla crescita scientifica e culturale, ma orientato essenzialmente all’acquisizione di competenze lavorative. Anche l'UNESCO, con il Rapporto Delors, insiste sull’importanza dell'educazione come investimento sociale e identifica “quattro pilastri dell'educazione”: 1. apprendere a conoscere 2. imparare a vivere insieme 3. imparare a fare 4. imparare ad essere Nella risoluzione del Consiglio d’Europa di Lisbona del 2000 venivano indicati come obiettivi strategici: -l'incremento del livello di istruzione dei giovani; -l'apprendimento lungo tutto l'arco della vita; -l'attenzione alle nuove tecnologie dell'informazione; -l'integrazione sempre più salda tra istruzione/formazione; 50 e si raccomandava agli Stati membri una ridefinizione dei curricoli scolastici nel senso dell’apprendimento per competenze, introducendo anche una riflessione sul tipo di competenze da sviluppare. La Raccomandazione UE 2006 sulle competenze chiave per l'apprendimento permanente Negli anni 2006-10, l’Unione europea ha emanato la Raccomandazione del Parlamento e del Consiglio dell'Unione europea del 18 dicembre 2006 sulle competenze chiave per l'apprendimento permanente la quale rappresenta una tappa fondamentale del processo di coordinamento e di integrazione. Per la prima volta veniva definito in modo univoco il concetto di competenza ed elencate le competenze basilari per le società moderne. Per facilitarne la comprensione alla Raccomandazione erano allegate le definizioni dei principali concetti di riferimento: conoscenza, abilità, competenze. -Le conoscenze indicano “il risultato dell'assimilazione di informazioni attraverso l'apprendimento. Sono un insieme di fatti, principi, teorie e pratiche relative a un settore di lavoro o di studio”. -Le abilità sono “le capacità di applicare conoscenze ed utilizzare know-how per portare a termine compiti e risolvere problemi. Nel contesto del quadro europeo delle qualifiche le abilità sono descritte come cognitive o pratiche.” -La competenza è “la comprovata capacità di utilizzare conoscenze, abilità e capacità personali, sociali e/o metodologiche, in situazioni di lavoro o di studio nello sviluppo professionale e personale. Nel quadro europeo le competenze sono descritte in termini di responsabilità e autonomia.” La Raccomandazione del 2006 introduceva 8 competenze chiave per l'apprendimento permanente, che permettevano a tutti i cittadini il pieno sviluppo e realizzazione personale. Nella Raccomandazione si affermava che le 8 competenze chiave sono considerate ugualmente importanti. La nuova Raccomandazione UE sulle competenze chiave per l'apprendimento permanente del 2018 Il 22 maggio 2018 il Consiglio dell'Unione europea ha adottato una nuova Raccomandazione sulle competenze chiave per l'apprendimento permanente: essa rinnova e sostituisce la precedente Raccomandazione del 2006. Tenendo conto delle profonde trasformazioni economiche, sociali e culturali degli ultimi anni, il documento fa emergere una crescente necessità di maggiori competenze imprenditoriali, sociali e civiche. Le nuove competenze sono definite nella Raccomandazione 2018, come una combinazione di conoscenze, abilità e atteggiamenti, in cui: -la conoscenza si compone di fatti e cifre, idee e teorie che sono già stabiliti e che forniscono le basi per comprendere un certo settore o argomento; -per abilità si intende sapere ed essere capaci di eseguire processi ed applicare le conoscenze esistenti al fine di ottenere risultati; -gli atteggiamenti descrivono la disposizione la mentalità per agire o reagire a idee, persone o situazioni. Le competenze chiave sono quelle di cui tutti hanno bisogno per la realizzazione e lo sviluppo personale. Esse si sviluppano in una prospettiva di apprendimento permanente, dalla prima infanzia a tutta la vita adulta. Come già quelle del 2006, le competenze chiavi sono considerate tutte ugualmente importanti, poiché ciascuna di esse può contribuire a una vita positiva nella società della conoscenza. Il quadro di riferimento delinea anche stavolta 8 competenze chiave: •Competenza alfabetica funzionale È la capacità di individuare, comprendere, esprimere creare e interpretare concetti, sentimenti, fatti e opinioni, in forma sia orale sia scritta, utilizzando materiali visivi, sonori e digitali attingendo a varie discipline e vari contesti. Essa implica l’abilità di comunicare e relazionarsi efficacemente con gli altri in modo opportuno e creativo. •Competenza multilinguistica È la capacità di utilizzare diverse lingue in modo appropriato ed efficace allo scopo di comunicare. In linea di massima essa condivide le abilità principali con la competenza alfabetica: si basa sulla capacità di comprendere, esprimere e interpretare concetti, pensieri, sentimenti, fatti e opinioni in forma sia orale sia scritta (comprensione orale, espressione orale, comprensione scritta ed espressione scritta) in una gamma appropriata di contesti sociali e culturali a seconda dei desideri o delle esigenze individuali. Le competenze 51 linguistiche comprendono una dimensione storica e competenze interculturali. Tale competenza si basa sulla capacità di mediare tra diverse lingue e mezzi di comunicazione, come indicato nel quadro comune europeo di riferimento. Secondo le circostanze, essa può comprendere il mantenimento e l’ulteriore sviluppo delle competenze relative alla lingua madre, nonché l’acquisizione della lingua ufficiale o delle lingue ufficiali di un Paese come quadro comune di interazione. •Competenza matematica e competenza in scienze, tecnologie e ingegneria La competenza matematica è la capacità di sviluppare e applicare il pensiero e la comprensione matematica per risolvere una serie di problemi in situazioni quotidiane. Partendo da una solida padronanza della competenza aritmetico-matematica, l’accento è posto sugli aspetti del processo e dell’attività oltre che sulla conoscenza. La competenza matematica comporta, a differenti livelli, la capacità di usare modelli matematici di pensiero e di presentazione (formule, modelli, costrutti, grafici, diagrammi) e la disponibilità a farlo. La competenza in scienze si riferisce alla capacità di spiegare il mondo che ci circonda usando l’insieme delle conoscenze e delle metodologie, comprese l’osservazione e la sperimentazione, per identificare le problematiche e trarre conclusioni che siano basate su fatti empirici, e alla disponibilità a farlo. Le competenze in tecnologie e ingegneria sono applicazioni di tali conoscenze e metodologie per dare risposta ai desideri o ai bisogni avvertiti dagli esseri umani. La competenza in scienze, tecnologie e ingegneria implica la comprensione dei cambiamenti determinati dall’attività umana e della responsabilità individuale del cittadino. •Competenza digitale La competenza digitale presuppone l’interesse per le tecnologie digitali e il loro utilizzo con dimestichezza e spirito critico e responsabile per apprendere, lavorare e partecipare alla società. Essa comprende l’alfabetizzazione informatica e digitale, la comunicazione e la collaborazione, l’alfabetizzazione mediatica, la creazione di contenuti digitali (inclusa la programmazione), la sicurezza (compreso l’essere a proprio agio nel mondo digitale e possedere competenze relative alla cybersicurezza), le questioni legate alla proprietà intellettuale, la risoluzione di problemi e il pensiero critico. •Competenza personale, sociale e capacità di imparare ad imparare La competenza personale, sociale e la capacità di imparare a imparare consiste nella capacità di riflettere su sé stessi, di gestire efficacemente il tempo e le informazioni, di lavorare con gli altri in maniera costruttiva, di mantenersi resilienti e di gestire il proprio apprendimento e la propria carriera. Comprende la capacità di far fronte all’incertezza e alla complessità, di imparare a imparare, di favorire il proprio benessere fisico ed emotivo, di mantenere la salute fisica e mentale, nonché di essere in grado di condurre una vita attenta alla salute e orientata al futuro, di empatizzare e di gestire il conflitto in un contesto favorevole e inclusivo. •Competenza in materia di cittadinanza La competenza in materia di cittadinanza si riferisce alla capacità di agire da cittadini responsabili e di partecipare pienamente alla vita civica e sociale, in base alla comprensione delle strutture e dei concetti sociali, economici, giuridici e politici oltre che dell’evoluzione a livello globale e della sostenibilità. •Competenza imprenditoriale La competenza imprenditoriale si riferisce alla capacità di agire sulla base di idee e opportunità e di trasformarle in valori per gli altri. Si fonda sulla creatività, sul pensiero critico e sulla risoluzione di problemi, sull’iniziativa e sulla perseveranza, nonché sulla capacità di lavorare in modalità collaborativa al fine di programmare e gestire progetti che hanno un valore culturale, sociale o finanziario. •Competenza in materia di consapevolezza ed espressione culturali La competenza in materia di consapevolezza ed espressione culturali implica la comprensione e il rispetto di come le idee e i significati vengono espressi creativamente e comunicati in diverse culture e tramite tutta una serie di arti e altre forme culturali. Presuppone l’impegno di capire, sviluppare ed esprimere le proprie idee e il senso della propria funzione o del proprio ruolo nella società in una serie di modi e contesti. 2) Le competenze nel contesto scolastico italiano L'introduzione nel concetto di competenza in Italia risale al 1998 con il Regolamento relativo al nuovo esame di Stato. All'articolo 1, “Finalità dell'esame di Stato” si afferma che: “L'analisi e la verifica della preparazione di ciascun candidato tendono ad accertare le conoscenze generali e specifiche, le competenze in 52 La prima caratteristica di una conoscenza sta nella sua significatività. Gli elementi conoscitivi devono essere compresi e collegabili anche a situazioni diverse da quelle nelle quali sono state acquisite. La seconda caratteristica è la stabilità. Le conoscenze devono entrare stabilmente a far parte della memoria a lungo termine dello studente. La terza è la fruibilità. Un concetto deve poter essere utilizzato per interpretare situazioni e compiti diversi da quelli nei quali è stato presentato. Le abilità Le caratteristiche dell’abilità possono essere collegate per grandi Linee a quelle delle conoscenze. Bisogna innanzitutto far leva sulla sua significatività, perché essa è importante nell’esperienza dell'allievo. La seconda caratteristica implica che essa sia appresa in modo da diventare immediatamente disponibile, per la risoluzione di situazioni o problemi. La terza consiste nell’individuare quale abilità attivare in casi particolari e procedere correttamente nella sua applicazione. Gli atteggiamenti e le disposizioni interne Gli atteggiamenti e le disposizioni interne si sviluppano a lungo termine, sulla base di 3 modalità di azione. La prima si basa sulla persuasione verbale, con la quale si vuole influire nel mondo interiore dello studente formando in lui convinzioni positive. La seconda si basa sulla testimonianza, si creano situazioni nelle quali lo studente abbia la possibilità di osservare situazioni e condotte che si intendono promuovere. La terza consiste nel favorire l'esperienza coinvolgendo l'alunno direttamente in azioni o situazioni ricche di significato. I caratteri delle competenze Molte altre sono le caratteristiche che connotano una competenza. Essa è: -plurale nel senso che esistono varie tipologie di competenze: di base, tecnico-professionali, trasversali, risorse personali; -complessa: richiede il ricorso ad ambiti diversi del sapere per individuare le connessioni e le relazioni tra le conoscenze, selezionare le informazioni e le abilità necessarie per eseguire un compito; -dinamica: la competenza è in continua evoluzione. Non è possibile essere competenti una volta per sempre, dato che le conoscenze continuano ad arricchirsi e a variare in termini di qualità e quantità. 5) La didattica centrata sulle competenze Le molteplici riforme che si sono susseguite nel sistema scolastico italiano, hanno sottolineato l'importanza di un apprendimento rivolto all’acquisizione delle competenze. Il motivo per cui si è cominciato ad affermare che le conoscenze acquisite a scuola devono trasformarsi in “competenze” è legato alla critica rivolta ai tradizionali modi di apprendere, considerati di tipo prevalentemente mnemonico, senza averne consapevolezza e senza sapersene servire al di fuori del contesto scolastico. L'applicazione del concetto di competenza nella scuola ha incontrato notevoli resistenze e si è tradotto, spesso, solo in un cambiamento terminologico o di facciata, senza incidere sull'organizzazione complessiva della didattica. L'idea di una formazione scolastica per competenze è stata sicuramente condizionata dal fatto che il termine sia nato e si sia sviluppato soprattutto nell'ambito della formazione professionale. L’impressione generale che se ne è ricavata è stata il voler applicare alla scuola logistiche tipicamente aziendali. La scuola non può essere considerata come un'azienda, non può rinunciare alla sua azione educativa, volta a formare persone e non prodotti di un'organizzazione. Altro rischio di questo approccio didattico teso all’acquisizione delle competenze, è quello di privilegiare il saper fare rispetto al sapere, con il pericolo di un impoverimento dei contenuti culturali. Il problema, sottolinea Philippe Perrenoud, deriva dal fatto che la scuola continua concepire gli apprendimenti in termini di sapere, perché è ciò che padroneggia meglio. Inoltre, è più facile valutare 55 le conoscenze che le competenze, perché queste ultime non riguardano solo prestazioni riproduttive, ma richiedono anche la capacità di soluzione di un problema nell’applicazione in contesti reali di quanto appreso in classe. Secondo l'autore, l’approccio per competenze può costituire anche una risposta decisiva all’insuccesso scolastico, in quanto gli alunni con difficoltà hanno molto da guadagnare da una didattica centrata sulle competenze, in quanto sono stimolati ad acquisire condotte cognitive flessibili che permettono loro un’agevole acquisizione dei contenuti. La competenza, infatti, in quanto sapere in azione, rappresenta un modo globale di concepire la formazione e i suoi obiettivi, secondo un modello dinamico dove i sapere non sono più statici elenchi di nozioni, ma strumenti da utilizzare e fare agire nella vita, nella convinzione che apprendere significa anche saper vivere nel proprio tempo. La progettazione per competenze richiede un approccio metodologico molto più complesso di quello tradizionale, rivolto alla sola acquisizione di conoscenze. Possiamo semplificare dicendo che insegnare competenze significa trasformare la scuola in un centro di ricerca e considerare l'innovazione un’occasione di crescita professionale. 6) Progettare le competenze Secondo i moderni orientamenti metodologico/didattici, la forma di progettazione ritenuta più idonea a sviluppare competenze e a produrre apprendimento significativo è la progettazione a ritroso. I pedagogisti G. Wiggins e J. McTighe partono dalla considerazione che la rigorosità del processo è determinata dalla prestazione finale, per cui per la costruzione di un curricolo bisogna partire dai risultati attesi e non dai contenuti: non dalla definizione di cosa facciamo, bensì dalla precisazione del dove vogliamo arrivare, del come facciamo per arrivarci e del come facciamo a verificare che ci siamo. In sintesi, essi sostengono che progettare a ritroso significa organizzare il processo di apprendimento relativo a una determinata unità attraverso varie fasi: - 1 fase: pianificazione - 2 fase: organizzazione - 3 fase: valutazione e autovalutazione 1 Fase: pianificazione -Presentare l'unità di apprendimento (titolazione, breve descrizione ecc.) È opportuno assegnare un titolo all'unità, evidenziando non tanto il contenuto che si intende trattare, ma mettendo al centro l'alunno che apprende o meglio la comunità che apprende. -Identificare la competenza finale Competenza disciplinare o trasversale? sono interrogativi che ogni insegnante si pone prima della progettazione di un percorso formativo. Le competenze disciplinari rappresentano la meta di un percorso formativo relativo a un preciso ambito del sapere. È opportuno, per questo, che siano esplicitate in maniera chiara e precisa. L'attenzione deve essere rivolta, però, nel contempo, anche all'individuazione di competenze trasversali comuni a tutte le discipline. È importante, infatti, superare l'aspetto puramente specifico dei saperi disciplinari e tendere al conseguimento di abilità cognitive spendibili in tutti i campi. È opportuno, inoltre, nel descrivere le competenze, fare riferimento anche alle competenze chiave richiamandole di volta in volta. Questo accorgimento serve a tenere sempre presente la meta da raggiungere e a stabilire un legame continuo tra competenze disciplinari, trasversali, competenze chiave, nel senso che l’una rimanda all'altra secondo un rapporto di reciprocità e interdipendenza. Competenze disciplinari competenze trasversali competenze chiave -Descrivere i compiti di prestazione o di realtà I compiti di prestazione o di realtà possono essere definiti come situazioni di apprendimento che presentano una connessione diretta con il mondo reale e richiedono agli studenti di replicare i modi con cui le conoscenze e le abilità sono applicate in situazioni concrete. Essi rimandano a problemi complessi, a 56 situazioni significative per l'alunno e gli richiedono di mobilitare le proprie risorse per trovare delle soluzioni. -Descrivere le prove utili a verificarne e a valutarne l'acquisizione È la questione più dibattuta in quanto si tratta non solo di predisporre già in fase di progettazione le prove attraverso le quali un allievo mostrerà di aver raggiunto i risultati desiderati, ma anche di utilizzare un sistema di valutazione diverso da quello tradizionale, basato sull’accertamento delle conoscenze e delle abilità, mediante la somministrazione di test e di prove di vario tipo. In altre parole, bisogna mettere in atto quella che Mario Comoglio definisce valutazione autentica perché si propone di valutare non tanto o non solo quello che l'alunno sa (il sapere) ma soprattutto quello che sa fare con quello che sa (competenza). È opportuno definire con la classe rubriche di valutazione del compito di prestazione, vale a dire un elenco di elementi specifici che ne contraddistinguono la qualità facendo in modo che ogni singola dimensione abbia un suo criterio di valutazione coinvolgendo direttamente gli alunni. Creare rubriche di valutazione con gli alunni significa renderli partecipi del proprio percorso di apprendimento. 2 Fase: organizzazione -Declinare le conoscenze e le abilità ritenute fondamentali allo sviluppo della competenza Le conoscenze e le abilità sono elementi fondamentali per l'acquisizione di competenze e, in qualche modo, si configurano come indicatori di soluzione del problema proposto. Bisogna per questo, esplicitarle in maniera chiara e precisa al fine di offrire anche agli allievi la possibilità di riconoscere se sono state conseguite, attivando anche in itinere processi di co-valutazione ed auto-valutazione. Operare nella logica della progettazione a ritroso significa senz'altro partire dalla definizione delle competenze, ma anche correlare queste ultime ai contenuti da svolgere, passando da una visione analitica e sequenziale delle informazioni ad una più globale e reticolare. Ecco perché la ricerca di nuclei fondanti, “dei concetti, nodi epistemologici e metodologici che strutturano una disciplina”, può facilitare la selezione dei contenuti in termini di essenzialità e significatività. -Indicare le linee metodologiche e le attività didattiche È la parte in cui si indicano le linee e le strategie metodologiche ritenute più idonee e coerenti alla realizzazione delle attività. Nelle Indicazioni per il curricolo viene stigmatizzata un'impostazione trasmissiva dei contenuti “invariati e pensati per individui medi” e auspicata la realizzazione di “percorsi formativi sempre più rispondenti alle inclinazioni personali degli studenti, nella prospettiva di valorizzazione degli aspetti peculiari della personalità di ciascuno”. Ciò richiede una didattica centrata sull’apprendimento piuttosto che sull’insegnamento ed esige una cultura profonda dei contenuti di apprendimento. Guardare l'apprendimento significa mettersi dalla parte dell’alunno, tener conto della sua storia personale, capire, insomma, che la scuola di tutti e di ciascuno non si realizza nel riconoscimento dell’uguaglianza, ma nella valorizzazione della diversità. -Indicare mezzi e strumenti necessari alla realizzazione del compito Selezionare materiali, strumentazioni e supporti didattici che si ritengono indispensabili alla realizzazione del compito. 3 Fase: valutazione e autovalutazione -Strumenti di verifica e di valutazione in itinere Se le rubriche di valutazione rappresentano gli strumenti privilegiati per la valutazione finale delle competenze, per l'acquisizione delle conoscenze e delle abilità possono essere usati anche altri tipi di prove quali test del tipo vero/falso, a risposta multipla ecc. -Strumenti di autovalutazione da parte dell'alunno È l’allievo che impara, per questo motivo deve essere in grado di conoscere a fondo la procedura di apprendimento in cui è inserito ed essere coinvolto in maniera diretta nelle operazioni valutative. La valutazione si configura, così, come un processo di co-valutazione ed auto-valutazione diventando una vera e propria strategia di apprendimento. Adottare procedure di co-valutazione consente di evidenziare meglio, da parte di chi è meno direttamente implicato, le operazioni che andavano fatte attivando in tal modo anche processi di auto-valutazione. 57 3) Strategie comunicative Group Reading Activity (gruppo di lettura attiva) Il Group Reading Activity o GRA è un modello di insegnamento che ha l'obiettivo di sviluppare negli studenti la capacità di lavorare insieme oltre che fornire un sistema più efficace di linguaggio come parlare, scrivere, leggere a gruppi e lavorare armoniosamente insieme. La strategia si sviluppa in 9 fasi: 1. L’insegnante sceglie e prepara il testo. 2. L’insegnante divide la classe in gruppi. 3. Lettura un gruppo. 4. Condivisione delle riflessioni. 5. Scambio critico delle riflessioni tra i gruppi. 6. Ritorno dei critici al gruppo di partenza. 7. Attività dell'insegnante. 8. Presentazione alla classe. 9. Verifica e memorizzazione finali. Argomentazione. L'argomentazione è una particolare strategia il cui obiettivo è quello di convincere qualcuno di una determinata tesi, portando a conferma argomenti o prove. Alla base della documentazione c'è: -un problema; -una o più tesi che rappresentano la risposta al problema; -la presentazione di una tesi contraria detta antitesi che viene confutata; -alcuni elementi di prova o argomenti mediante i quali si sostiene la teoria o le tesi; -la conclusione in cui si giustifica la fondatezza della tesi. Il Debate Un dibattito ha bisogno di regole certe perché possa funzionare, mettendo a confronto opinioni diverse. Il debate consiste in un confronto dialettico e formale nel quale due squadre sostengono e controbattono un'affermazione o un argomento proposto dall’insegnante o liberamente scelto dagli alunni, apportando tesi a favore o contro. L'utilizzo della strategia può essere preceduto da una serie di attività che allineano gli allievi a sostenere una discussione. L'applicazione vera e propria si articola in alcune fasi: Fase 1: individuazione del problema/tema sul quale si intende dibattere -ricerca e selezione delle informazioni relative al tema; -elenco degli argomenti che giustificano la tesi; -elenco delle possibili obiezioni o antitesi. -ordine dell'esposizione che può essere: crescente (gli argomenti deboli sono presentati per primi mentre i forti concludono il ragionamento); decrescente (si comincia con gli argomenti più forti e si termina con quelli meno convincenti). Fase 2: Organizzazione dell’ordine di esposizione I materiali raccolti vengono poi riorganizzati per l'esposizione. Si possono imitare le regole della retorica classica e cioè: -premessa: si presenta il tema/problema; -introduzione riassuntiva: si elencano i temi nell'ordine in cui saranno esposti; -sviluppo dei temi: si espongono gli argomenti, si citano le fonti; -prove e conferme: si dimostra attraverso prove la tesi che si intende dimostrare e si confuta l’antitesi; -conclusione: si dà una valutazione complessiva. 60 Fase 3: Sintesi Si fissano in una mappa di sintesi i concetti principali del tema oggetto di dibattito. Fase 4: Valutazione L'insegnante o la classe valutano attraverso rubriche di valutazione la presentazione sotto vari aspetti. Il circle time Ideato negli anni '70 nell'ambito della psicologia umanistica, il circle time è un gruppo di discussione su argomenti diversi, con lo scopo principale di migliorare la comunicazione e di far acquisire ai partecipanti le principali abilità comunicative. Il Circle time è rivolto a tutti i gruppi che abbiano uno scopo comune e si rivela particolarmente efficace per aumentare la vicinanza emotiva e per risolvere i conflitti. Gli obiettivi del Circle time si possono così sintetizzare: -riconoscere e gestire le proprie emozioni e quelle degli altri; -creare un clima di serenità e di reciproco rispetto; -imparare a discutere insieme. 4) Strategie imitative Le strategie imitative si riferiscono all’apprendimento pratico-sperimentale e consistono nel proporre all’allievo un modello concreto da imitare, eseguendo direttamente il lavoro in sua presenza e facendolo successivamente ripetere sia interamente sia scomponendo il lavoro nei suoi elementi costitutivi. Il Modeling Il modeling è incentrato sui processi di modellamento tra un modello osservato e un discente osservatore: è denominato apprendimento sociale perché si basa sul meccanismo di identificazione che lega osservatore ed osservato. Nella didattica si possono individuare due tipi di modeling: cognitivo o didattico, educativo o affettivo. Il modeling cognitivo didattico. Si suddivide in varie fasi: 61 Questa strategia può essere utilizzata in tutte le classi ed è spendibile in tutte le discipline, anche se trova un campo di applicazione privilegiato in quelle scientifiche e tecnico-operative per illustrare i procedimenti, spiegare regole ecc. Questa strategia è particolarmente efficace per gli alunni con S.D.A. (sindrome deficit attentivi). Il modeling educativo o affettivo Si fa risalire a Jerome Bruner che, nel suo libro “la ricerca del significato”, sottolinea l'importanza della narrazione come strumento educativo. I due termini del titolo del libro chiariscono il senso del contenuto: la ricerca, cioè lo studio, non può essere isolato dal suo significato. Queste due forme di pensiero sono note come pensiero logico scientifico e il pensiero narrativo. Ne consegue che la memoria autobiografica, la narrazione, il recupero del sé come noi condizione e alimenta il pensiero logico/scientifico. Da questo sapersi raccontare nasce la consapevolezza di sé, l'autostima. Proprio il metodo della narrazione è alla base del modeling educativo affettivo. Nel senso letterale il termine modeling indica una strategia con la quale viene fornito un esempio reale di come una procedura deve essere eseguita. Il modeling educativo o affettivo si suddivide in fasi che possono essere così sintetizzate: -Fase 1: L'insegnante di classe racconta una fiaba, una storia, una biografia enfatizzando gli aspetti che reputa più importanti. -Fase 2: l'insegnante invita gli alunni a compilare una tabella in cui annotare su una colonna gli aspetti significativi del testo presentato, sull'altra episodi della loro vita analoghi con quelli presentati. -Fase 3: insegnante invita gli alunni a leggere le osservazioni per socializzarle e discuterle. Questa strategia permette alla classe non solo di conoscersi, di capire che in fondo molti problemi sono comuni, ma è utile anche al docente per esplorare la vita interiore dell'alunno e capire le motivazioni di determinati atteggiamenti. Spazio comunicativo e role playing Il role playing consiste nella simulazione di comportamenti atteggiamenti della vita reale. L'insegnante affida un ruolo a ciascun studente, il quale deve comportarsi come ritiene che si comporterebbero realmente nella situazione data. Questa tecnica ha l'obiettivo di far acquisire la capacità di impersonare un ruolo e di comprendere ciò che il ruolo richiede. L'attività del gioco di ruolo si articola generalmente in quattro fasi: -warming up: attraverso tecniche specifiche si crea un clima adatto all’attività; -azione: ci si immedesima in ruoli diversi e si cerca di ipotizzare soluzioni; -cooling off: si esce dai ruoli e dal gioco; -analisi: si commenta quanto è avvenuto e si traggono le conclusioni. Gli elementi fondamentali del role playing sono: -Si predispone una scena in cui partecipanti devono agire; -i partecipanti sono al centro dell'attenzione e devono recitare spontaneamente secondo l'ispirazione del momento; -il gruppo non si limita semplicemente ad osservare, ma cerca di esaminare e di capire quanto avviene sulla scena; -il docente può avvalersi di collaboratori incaricati di favorire la recita, anche con la loro recitazione. I vantaggi del gioco di ruolo sono: -aiuta a vincere “la curva della monotonia”. -crea un clima giocoso e concreto che compensa gli aspetti teorici precedentemente trattati e spesso li conferma; -l'indice di apprendimento aumenta in quanto l’ascolto unito all’agire migliorano l'efficacia di quanto appreso. L’azione nel labirinto (action maze) 62 La valutazione diventa così strumento di riflessione, analisi, ripensamento, oltre che mezzo per regolare e modificare l'attività di insegnamento e di apprendimento. Essa è interna al processo in quanto aiuta l'alunno a riconoscere i suoi errori e il docente a regolare la sua programmazione. La valutazione si arricchisce, dunque, di nuovi significati pedagogici che ne integrano e ne espandono il senso, diventando valutazione formatrice. La nuova definizione sottolinea ulteriormente il rapporto di stretta interdipendenza tra valutazione e programmazione e incorpora direttamente l’allievo nel processo valutativo. Nel corso dei decenni si è assistito, insomma, ad un graduale cambio di prospettiva e di ampliamento di visione in tema di valutazione. Ciò ha significato un’attenzione particolare non più solo ai risultati e ai prodotti esterni dell'azione insegnamento/apprendimento, ma anche ai processi interni, alle capacità di usare, regolare, monitorare le proprie strategie di apprendimento. La valutazione ha maturato nel tempo una sorta di sistema assiomatico, che non è possibile perdere di vista qualunque siano le modifiche introdotte. I punti cardine del sistema assiomatico sono: -la funzione prevalentemente formativa della valutazione: offrire agli alunni la possibilità di promuovere una maggiore consapevolezza delle proprie capacità; -il valore del processo rispetto al prodotto: oggetto della valutazione non possono essere solo le singole prestazioni, ma tutto il percorso, le difficoltà incontrate, i passi ancora da compiere per arrivare ai traguardi prefissati; -il carattere trasparente della valutazione, che implica la chiarezza e l'informazione sui criteri di riferimento; -il carattere partecipativo in quanto coinvolge alunni, docenti, e genitori in un’azione condivisa. 2) La valutazione autentica o alternativa Tra le diverse forme di valutazione quella più idonea orientata allo sviluppo delle competenze, è la valutazione autentica o alternativa. Possiamo definire la valutazione autentica come: “la valutazione che ricorre continuamente nel contesto di un ambiente di apprendimento significativo e riflette le esperienze di apprendimento reale... L’enfasi è sulla riflessione, sulla comprensione e sulla crescita piuttosto che sulle risposte fondate solo sul ricordo di fatti isolati. L’intento della valutazione autentica è quello di coinvolgere gli studenti in compiti che richiedono di applicare le conoscenze nelle esperienze del mondo reale. La valutazione autentica scoraggia le prove “carta e penna” sconnesse dalle attività di insegnamento e di apprendimento che al momento avvengono. Nella valutazione autentica, c'è un intento personale, una ragione a impegnarsi e un ascolto vero al di là delle capacità/doti dell'insegnante.” La valutazione autentica o alternativa si fonda, pertanto, sulla convinzione che l'apprendimento scolastico non si dimostra con l’accumulo di nozioni, ma con la capacità di generalizzare, di trasferire e di utilizzare la conoscenza acquisita a contesti reali. Essa presenta le seguenti caratteristiche: 1. è realistica 2. richiede giudizio e innovazione: le conoscenze devono essere usate per risolvere i problemi 3. richiede agli studenti di ricostruire la disciplina, invece di ripetere ciò che gli è stato insegnato 4. riproduce o simula i contesti nei quali gli adulti sono controllati sul luogo di lavoro, nella vita civile e personale. 5. accetta l'abilità dello studente a usare efficientemente e realmente un repertorio di conoscenze e di abilità per negoziare un compito complesso 6. permette appropriate opportunità di ripetere, praticare, consultare risorse, avere feedback e perfezionare prestazioni e prodotti. Per essere educativa, la valutazione deve tendere a migliorare le performance. La valutazione autentica intende verificare non solo ciò che uno studente sa, ma anche “ciò che sa fare con ciò che sa”, è, pertanto, quella che meglio risponde alle diverse dimensioni correlate alla valutazione delle competenze. 3) Strumenti di verifica e valutazione delle competenze 65 Verificare significa controllare se un’ipotesi è vera o meno, confrontando l'ipotesi stessa, ossia gli obiettivi prefissati e le condizioni per raggiungerli, con i risultati ottenuti. Non si può, quindi, verificare qualcosa se prima non si è definito precisamente che cosa si intende raggiungere. Con la verifica non si conclude l'azione valutativa. I risultati di una prova di verifica sono punteggi grezzi da interpretare e comprendere. Essi rappresentano la base concreta, i dati di fatto, analitici e preventivamente quantitativi, non ancora letti in chiave formativa. Cosa diversa è la valutazione, che non è un semplice aggregato o somma delle misure emerse e neppure della loro media per l'attribuzione di un voto. Se con la verifica si punta a separare il vero dal falso, ciò che conferma da ciò che smentisce le ipotesi formulate, con la valutazione il nuovo registro non è determinato dalla conferma o dalla falsificabilità delle ipotesi, ma dalla loro efficacia nell’innestare significativi processi di trasformazione, di cambiamento. Con una prova di verifica, ciò che viene sottoposto a valutazione non è l'apprendimento, ma alcuni risultati possibili dell'apprendimento, non è lo studio, ma l'effetto dello studio. Per valutare l'apprendimento bisognerà valutare in modo integrato i risultati con i processi cognitivi attivati dall’allievo per apprendere. Prove oggettive e soggettive Spesso i due aspetti della verifica della valutazione vengono confusi con un’accentuata enfasi più sui risultati conseguiti che sui processi attivati. Intorno agli strumenti di verifica e di controllo degli apprendimenti, la contrapposizione è da sempre molto netta tra chi sostiene che essi debbano essere costruiti prevalentemente da prove oggettive e chi afferma, invece, che debbano basarsi su prove soggettive. I sostenitori di strumenti di verifica oggettivi si rifanno all’insieme di ricerche e di studi relativi alla valutazione scolastica, conosciuti con il termine docimologia “scienza che ha per oggetto lo studio sistematico degli esami, in particolare dei sistemi di votazione, del comportamento degli esaminatori e degli esaminati”. Essi vedono nell’utilizzo delle prove soggettive tradizionali un eccessivo prevalere dell'intuizione e della soggettività dell'insegnante. Basta considerare come esempio l'interrogazione orale. Si mescolano a caso domande di natura e difficoltà diversa ad alunni diversi, procedendo con grande elasticità, fondando il giudizio sulle impressioni senza alcun criterio oggettivo. Alla luce di queste considerazioni, si è ritenuto necessario applicare il concetto di misura anche al controllo degli apprendimenti scolastici partendo dal presupposto che “tutto ciò che esiste in natura esiste proprio come quantità. E se esiste come quantità può essere misurato. E la misura in educazione è antica come fatto, medievale come procedimento, moderna come scienza” (Thorndike). La misura, in quanto descrizione quantitativa dei fenomeni educativi, fa riferimento a modelli matematico- statistici e presuppone l'esistenza di una quantità empirica per cui è necessario stabilire delle regole ben precise per la costruzione di prove oggettive. In particolare, una prova è scientificamente corretta se è universale, oggettiva, necessaria e feconda: -universale quando ha il medesimo valore per tutti gli insegnanti -oggettiva quando il risultato non dipende solamente dall'insegnante che corregge -necessaria per costruire nuovi interventi -feconda per aggiungere alla valutazione intuitiva dell'insegnante elementi nuovi. Elementi costitutivi di una prova oggettiva sono: -la definizione degli obiettivi -la costruzione di una tavola di specificazione della prova -l'individuazione della scala di misurazione -l'individuazione di una soglia di accettabilità. Nel tempo, molte sono state le critiche rivolte a questo tipo di prove. Si afferma che esse “consentono di riconoscere la correttezza della risposta, non la sua comprensione profonda”. Buona parte della conoscenza rimane inerte o rituale e difficilmente diventa mezzo, espressione del processo di assimilazione della cultura o del contesto che le ha prodotte. Si può aver compreso, ma non 66 appreso in profondità. Per poter parlare di apprendimento è necessario usare e far pratica di una conoscenza in contesti e situazioni reali diversi. Gli strumenti di verifica e di valutazione tradizionali, rivolti prevalentemente al controllo dell’acquisizione di conoscenze e di abilità, non bastano, perciò, da soli a valutare una competenza. Se si considera la competenza come la risultante della dimensione soggettiva, intersoggettiva e oggettiva, ne consegue che per la sua valutazione occorre riferirsi a un sistema di strumenti che possa consentire di osservare ciascuna dimensione per integrarla, poi, con le altre in una sintesi unitaria. Al centro delle tre dimensioni, si pone la rubrica di valutazione, che rappresenta il dispositivo attraverso il quale viene esplicitato il significato attribuito alle competenze oggetto di osservazione. Le rubriche di valutazione Le rubriche di valutazione sono strumenti utilizzati per valutare presentazioni complesse. Esse sono costituite da una serie di elementi specifici che contraddistinguono la qualità di una prestazione e di scale per misurarla. Spesso le rubriche di valutazione sono accompagnate da esempi di prestazioni o prodotti per illustrare i criteri dei punteggi: questi esempi sono detti “ancore”. Vale a dire: -le dimensioni o tratti: indicano le caratteristiche peculiari di una presentazione; -i criteri: gli strumenti di misurazione della qualità di una prestazione; -i descrittori e gli indicatori: i descrittori indicano che cosa si deve osservare di una prestazione, gli indicatori designano misure specifiche; -le ancore: gli esempi concreti riferiti agli indicatori considerati; -i livelli: il grado di raggiungimento dei criteri considerati, sulla base di una scala graduata dal livello più alto a quello più basso. Le rubriche più comunemente usate sono quelle analitiche e olistiche. La rubrica analitica osserva e valuta tutti i tratti di una prestazione. La rubrica olistica viene utilizzata per compiti in cui non sempre è possibile distinguere gli aspetti specifici. La rubrica rappresenta uno strumento che l'insegnante può utilizzare per fare una riflessione sulla sua modalità di insegnamento e allo studente offrire l'occasione di partecipare attivamente alla sua costruzione. Un procedimento utile per la costruzione di una rubrica può essere il seguente: -Raccogliere e mostrare esempi di lavori. -Elencare le caratteristiche. -Articolare sfumature della qualità. -Provare ad applicare. -Usare l'autovalutazione e quella con i pari. -Revisionare. Le rubriche di valutazione presentano numerosi vantaggi sia per gli insegnanti che per gli studenti e i genitori. Esse, infatti, rendono trasparenti le attese degli insegnanti, relativamente al compito da svolgere e alle abilità da possedere, e migliorano la qualità dell’apprendimento. Aiutano gli studenti a sviluppare capacità di aiuto ed etero valutazione, rendendoli capaci di individuare e risolvere i problemi che si presentano. Infine, sono molto utili per stabilire una proficua relazione tra la scuola e la famiglia. 67 Gli indicatori esplicativi dei livelli sono identici per il modello della primaria e del primo ciclo di istruzione: A – Avanzato L’alunno/a svolge compiti e risolve problemi complessi, mostrando padronanza nell’uso delle conoscenze e delle abilità; B – Intermedio L’alunno/a svolge compiti e risolve problemi in situazioni nuove, compie scelte consapevoli, mostrando di saper utilizzare le conoscenze e le abilità acquisite. C – Base L’alunno/a svolge compiti semplici anche in situazioni nuove, mostrando di possedere conoscenze e abilità fondamentali. D – Iniziale L’alunno/a, se opportunamente guidato/a, svolge compiti semplici in situazioni note. 70 PARTE 3: Inclusione a scuola Capitolo 1 ►La scuola dell’integrazione e dell’inclusione: gli alunni disabili 1) L’inclusione Nel linguaggio comune spesso si tende ad usare termini integrazione e inclusione come sinonimi. In realtà, possiamo dire che l’integrazione è un concetto superato. Esso fa riferimento, infatti, a un modello, risalente agli anni 70 in cui si incentivava l’inserimento del disabile in una classe comune, in una classe però pensata per alunni normodotati. Dal 2009, inseguito ad alcuni interventi normativi, si è passati al concetto di inclusione: non è l’alunno con problemi che deve “integrarsi” all’interno di una classe di normodotati, ma è la scuola, la classe che deve includerlo, accoglierlo, rimodellando il suo stesso approccio didattico e valorizzando la diversità che diventa risorsa anche per il gruppo. Le sole norme non bastano a risolvere il problema dell’inclusione, essa richiede un impegno faticoso in cui la posta in gioco non è solo la convivenza tra i soggetti diversi l’uno dall’altro, ma la progressiva capacità di intendersi, condividere progetti, coltivare speranze comuni. Per parlare di inclusione è necessario il riconoscimento e il rispetto di attitudini personali, di storia e tradizioni. L'inclusione degli allievi stranieri, ad esempio, potrebbe essere per la scuola una preziosa occasione di mettere a confronto storie diverse, recuperare il senso della nostra memoria e di quella altrui. Ad una società segnata dall’indebolimento dei valori tradizionali, dovrebbe far riscontro una scuola che faccia riscoprire alle nuove generazioni innanzitutto il senso della memoria, elaborato dalle generazioni precedenti, che costituisce un elemento fondante ed integrante del tessuto delle relazioni sociali. Sappiamo, infatti, che una persona, una comunità cresce e si sviluppa se sa raccontare la sua storia. Storia che non serve per conoscere soltanto il passato, ma per indirizzare il presente verso il futuro caratterizzato da evoluzione ed apertura. Partire dalla propria storia significa ricavare dall'intreccio biografico di esperienze passate e presenti disegni che ci indichino quali sono le nostre attitudini e quali direzione intraprendere. Solo se siamo consapevoli della nostra storia, potremmo confrontarci ed accogliere altre storie collettive e altre esperienze culturali. Ciò richiede per i docenti un profondo cambiamento di stile e di comportamento e una precisa capacità di progettare percorsi formativi in stretta collaborazione con tutti coloro che sono responsabili dell'educazione dei giovani, famiglie, territorio, enti locali, sviluppando una struttura formativa sistemica in cui tutti i soggetti predisposti alla formazione dei giovani si configurino come decentrati, proiettati cioè verso altro diverso da sé. La didattica inclusiva Una scuola può dirsi veramente inclusiva quando normalità e specialità si influenzano modificandosi e arricchendosi a vicenda, quando coinvolge tutti i docenti e non solo quello di sostegno, quando si rivolge a tutto il gruppo classe. Tutti i docenti devono essere in grado di programmare e declinare la propria disciplina in modo inclusivo, adottando una didattica creativa, adattiva, flessibile e più possibile vicina alla realtà. Il lavoro progettato dovrebbe poggiare, pertanto, su un riferimento metodologico comune e utilizzare una pluralità di strategie che permettano anche agli allievi BES di applicare quelle che meglio si adattano ai loro bisogni e al loro stile di apprendimento. Nel documento “Profilo dei docenti inclusivi”, elaborato nel 2012, vengono delineati quattro valori di riferimento che delineano il profilo del docente inclusivo: -valutare la diversità degli alunni -sostenere gli alunni -lavorare con gli altri -garantire l'aggiornamento professionale continuo. 71 Sul piano più spiccatamente operativo una didattica inclusiva dovrebbe poi far leva su alcuni punti, vale a dire: •Favorire la cultura dell’accoglienza Orientare il percorso didattico verso la realizzazione di attività che hanno come oggetto la propria storia, la riflessione sui propri comportamenti e sui propri valori e sentimenti può offrire una prima preziosa opportunità per riconoscersi, crescere consapevolmente, maturale affettività e coscienza di sé. È importante, perciò, che si lasci largo spazio agli allievi di potersi raccontare, in modo che ciascuno abbia la possibilità di proporre se stesso, i propri desideri senza forzature o obblighi. Ciò può diventare strumento di conoscenza reciproca e mette le basi per quella dimensione relazionale dell'apprendimento, definita “piattaforma comunicativa”, che è elemento fondamentale per essere riconosciuti dagli altri, affermare la nostra identità e accrescere l'autostima. •Favorire la didattica personalizzata/individualizzata Personalizzare significa attuare un lavoro corale e soggettivamente interconnesso in modo che ciascuno possa crescere culturalmente in maniera originale e diversa stabilendo un contatto sociale con tutti gli altri membri della classe. Personalizzare significa anche agire contestualmente su più piani: il primo è quello didattico, che si traduce in rompere il modello tradizionale di insegnamento costituito da uniformità di contenuti e metodologie con modello più innovativo che renda fattibile la diversificazione dei processi di apprendimento. Il secondo piano è quello metodologico finalizzato ad utilizzare strategie di tipo metacognitivo che possano permettere a ciascun allievo di diventare strategicamente intelligente, vale a dire di riflettere sul proprio apprendimento, di fare un monitoraggio di quanto gli accade. •Realizzare attività che favoriscano la socializzazione e la relazione di aiuto L’allievo si appropria pienamente di un sapere solo se è integrato in un contesto che dà senso a ciò che apprende. A tal fine è importante che gli allievi possano conoscersi attraverso una dimensione interattiva dell’apprendimento, sviluppando, nel contempo, le loro potenzialità naturali, la loro curiosità, la loro creatività. Per questo è opportuno proporre attività che coinvolgano l'intera classe per veicolare il messaggio che, in quanto persone inserite in un gruppo, ogni emozione, sentimento o difficoltà di un compagno ci appartiene e costituisce una risorsa per noi e per l'altro. Chi si sente al sicuro all'interno di un gruppo è più propenso a chiedere e a fornire aiuto, a mettersi dal punto di vista dell'altro, a riconoscere bisogni e stati d'animo. •Utilizzare tecnologie informatiche Per favorire l'inclusione degli allievi in difficoltà un valido aiuto può venire dall’utilizzo delle tecnologie informatiche. L'utilizzo delle tecnologie multimediali nella scuola diventa occasione per sperimentare nuove strategie didattiche e formative per agevolare l'acquisizione e lo sviluppo di abilità cognitive e metacognitive, aiutando l’alunno nell’organizzazione e sistematizzazione del proprio sapere, fondato prevalentemente sullo scambio comunicativo. 2) Gli alunni disabili Negli anni '70 con la L.517/1977 il principio costituzionale dell'uguaglianza sostanziale di cui all'articolo 3 della Costituzione trovò riscontro concreto anche nell'ambito scolastico: in una scuola realmente democratica e, per volontà del Costituente, aperta a tutti, avevano trovato posto anche alunni handicappati, accanto ad alunni normodotati, e la progettazione di attività scolastiche ed iniziative di sostegno a favore degli alunni portatori di handicap doveva essere realizzata con appositi docenti in possesso di particolari titoli di specializzazione. La legge 104/1992 tuttora in vigore (seppur con le modifiche introdotte dal D.Lgs. 66/2017, di attuazione della buona scuola) ha affrontato problematiche dell’handicap anche a livello scolastico: in particolare, l'articolo 13 della legge quadro garantisce il diritto all'educazione e all'istruzione della persona handicappata nelle scuole di ogni ordine e grado. La formazione educativa del disabile è diventata, da allora e tutt’oggi, oggetto di un piano educativo individualizzato (PEI), alla cui definizione provvedono congiuntamente, con la collaborazione dei genitori della persona disabile, gli operatori delle aziende sanitarie locali, e per ciascun grado di istruzione, il personale specializzato della scuola. 72 Il Profilo di funzionamento Successivamente a l'individuazione della condizione di disabilità dell’alunno viene redatto un profilo di funzionamento secondo i criteri del modello bio-psico-sociale della Classificazione Internazionale ICF adattata dall’OMS. Il suddetto Profilo di funzionamento sostituisce a partire dal 1/9/2019, la diagnosi funzionale e il profilo dinamico-funzionale, e definisce la tipologia delle misure di sostegno e delle risorse strutturali necessarie per l'inclusione scolastica di cui l'alunno ha bisogno per una piena inclusione scolastica. Il Profilo di funzionamento è redatto da parte dell’unità di valutazione multidisciplinare presso l’ASL composta da medici, specialisti e assistenti sociali. Il Profilo è redatto con la collaborazione dei genitori ed è un documento propedeutico e necessario per l'elaborazione del PEI e del Progetto individuale. I documenti di progettazione dell'inclusione scolastica: il PEI Tre sono i documenti dell'inclusione scolastica per gli allievi con disabilità: il Progetto individuale, il Piano educativo individualizzato e il Piano per l’inclusione. Il Progetto Individuale (regolato dall’articolo 14 comma 2 L. n. 328/2000) è predisposto dal Comune, d'intesa con la ASL, e deve indicare i vari interventi sanitari, socio-sanitari e socio-assistenziali di cui possa aver bisogno il ragazzo disabile, ciò al fine di garantire una piena integrazione scolastica. Dal 1/9/2019, il progetto individuale comprenderà il profilo di funzionamento, il PEI realizzato dalla scuola, le prestazioni sanitarie cui il disabile ha diritto, gli eventuali sussidi economici. Il Piano educativo individualizzato (PEI), nell'ambito della progettazione integrata, è, invece, elaborato e approvato dai docenti contitolari o dal Consiglio di classe che, tenendo conto della certificazione di disabilità e del profilo di funzionamento, programma unitamente al docente di sostegno, con il supporto dell’unità di valutazione multidisciplinare, e la collaborazione dei genitori e delle figure specifiche interne, le strategie didattico-educative per il successo formativo dell’alunno. Il PEI è redatto all'inizio di ogni anno scolastico, sin dalla scuola dell'infanzia ed è soggetto a verifiche periodiche per accertare il raggiungimento degli obiettivi. Nelle scuole superiori di secondo grado, nel caso di gravi disabilità tipo cognitivo, è possibile definire anche un PEI differenziato in cui gli obiettivi sono difformi da quelli dell’ordinamento di studi tradizionali per la classe. In questo caso l'allievo non può conseguire il titolo di studi al termine del ciclo di studi. Il decreto prevede che anche il Piano per l’inclusione (PI), il principale documento programmatico della scuola in materia, viene predisposto da ciascuna scuola all'interno del PTOF, di cui è parte integrante, per definire le modalità per l'utilizzo coordinato delle risorse, compresi il superamento delle barriere e l'individuazione dei facilitatori del contesto di riferimento, e per progettare e programmare gli interventi di miglioramento della qualità dell’inclusione scolastica. Infatti, si deve tener presente anche che la qualità dell'inclusione scolastica viene riconosciuta quale elemento portante dei processi di valutazione e di autovalutazione delle scuole. L’insegnante di sostegno L’insegnante di sostegno è un docente in possesso di specializzazione per attività di sostegno, che viene assegnato alla classe in cui è stato inserito almeno un alunno con disabilità, per promuovere l’integrazione al suo interno. Per la funzione che assume il docente di sostegno nei confronti dell’alunno disabile è essenziale il suo coinvolgimento nella stesura del profilo dinamico funzionale (PDF) e soprattutto del PEI. Il decreto di riforma n.66 del 2017 introduce una nuova disciplina anche per l'accesso alla carriera di docente per il sostegno didattico nella scuola dell'infanzia e nella scuola primaria. In particolare si prevede che, per l'accesso al corso di specializzazione in pedagogia e didattica speciale si conseguono preventivamente 60 crediti formativi universitari relativi alla didattica dell’inclusione oltre a quelli già previsti nel corso di laurea. L'accesso al corso annuale di specializzazione per le attività di sostegno è subordinato al superamento del cosiddetto TFA sostegno. La modalità di accesso per il sostegno nella scuola secondaria è invece disciplinata dal decreto n.59/2017 sulla formazione iniziale, che prevede per il docente il superamento di uno specifico corso nazionale per il sostegno. 75 In merito alla formazione in servizio, sono definite, per ciascuna tipologia di personale della scuola, le attività formative che dovranno essere svolte in materia di inclusione scolastica. La formazione deve essere svolta infatti obbligatoriamente, oltre che al docente di sostegno, anche dal personale ATA e al personale dirigenziale, sia all'atto dell’immissione in ruolo che durante lo svolgimento dell'intera carriera. Il Piano per l'inclusione Il Piano per l'inclusione è un documento molto dettagliato predisposto da ciascuna istituzione scolastica all'interno del PTOF; esso definisce le modalità per l'utilizzo coordinato delle risorse umane, strumentali, finanziarie disponibili per progettare e programmare gli interventi per la qualità dell'inclusione scolastica degli alunni disabili. Anche questa disposizione non è una novità, ma una conferma che si pone in linea con quanto previsto dalla C.M. 8/2013 che inserisce tra le funzioni del GLI anche l'elaborazione di una proposta di Piano Annuale per l’inclusività (PAI) riferito a tutti gli alunni con BES. Nel PAI ogni scuola illustra tutti i progetti di inclusività che si accinge a fare. Elaborato dal GLI, deve essere approvato dal collegio dei docenti e inviato all’URS nonché ai GLI provinciale e regionale per la richiesta dei docenti di sostegno. In base al PAI, che è parte integrante del PTOF, gli URS assegnano alle scuole le risorse per il sostegno. Il piano per l'inclusione deve essere redatto entro il mese di giugno e si compone di due parti: -nella prima si individuano i punti di forza e criticità degli interventi di inclusione attuate nel corso dell'anno; -nella seconda si formulano ipotesi di utilizzo delle risorse specifiche, al fine di incrementare il livello di inclusione generale della scuola nell'anno successivo. I piani per l'inclusione delle scuole vengono approvati dal gruppo di lavoro per l'inclusione (GLI) e deliberati dal collegio dei docenti. Al gruppo per l'inclusione (GLI) spetta il compito di supportare il collegio dei docenti nella definizione e realizzazione del piano per l'inclusione e che in sede di definizione e attuazione del piano di inclusione, il GLI si avvale della consulenza e del supporto degli studenti, dei genitori e delle associazioni delle persone con disabilità maggiormente rappresentative del territorio nel campo dell’inclusione scolastica. I gruppi per l'inclusione (GLIR-GIT-GLI) Con l'approvazione del D.Lgs. 66/2017, è stato modificato l'articolo 15 L.104/1992 e sono istituiti nuovi Gruppi per l'inclusione scolastica. Nel nuovo articolo 15 sono disciplinati il: -Gruppo di lavoro interistituzionale regionale (GLIR), istituito (con decorrenza dal 1° settembre 2017) presso ogni USR; esso ha il compito di consulenza e proposta all’USR per la definizione, l'attuazione e la verifica degli accordi di programma. -Gruppo per l'inclusione territoriale (GIT) (con decorrenza dal 1° settembre 2019, in base alla modifica operata dalla legge di bilancio del 2019 – L.145/2018), istituito per ogni ambito territoriale; tale organo ha il compito di procedere ad effettuare la proposta di risorse per il sostegno didattico all’USR. -Gruppo di lavoro per l'inclusione (GLI) (con decorrenza dal 1 settembre 2017), istituito presso ciascuna istituzione scolastica, è composto da docenti curriculari, docenti di sostegno ed eventualmente personale ATA, nonché specialisti dell'azienda sanitaria locale; è nominato e presieduto dal Dirigente scolastico; ha il compito di supportare il Collegio dei docenti nella definizione e realizzazione del Piano per l'inclusione, e i docenti contitolari e i Consigli di classe nell’attuazione dei Piani educativi individualizzati (PEI). Per quanto riguarda l'aspetto concreto della quantificazione, della richiesta dell'assegnazione delle risorse per il sostegno didattico, la proposta delle ore di docenza di sostegno al GIT avviene a cura della Dirigente scolastico, dopo aver sentito il GLI e dopo l'analisi dei singoli PEI e la predisposizione del Piano di inclusione nella scuola. Il GIT, in qualità di organo tecnico degli uffici scolastici regionali, verifica la documentazione trasmessa dai genitori di ciascuna istituzione scolastica, e l'adeguatezza delle risorse di organico quantificate e richieste dalla medesima scuola, e formula una proposta all’URS che assegna le risorse nell'ambito dell'organico dell'autonomia per i posti di sostegno. All’URS spetta dunque l'ultima parola sulle risorse per il sostegno didattico. 76 Il GLI svolge le seguenti funzioni: -rilevazione dei BES presenti nella scuola; -raccolta e documentazione degli interventi didattico educativi; -confronto sui casi, consulenza e supporto ai colleghi sulle metodologie di gestione delle classi; -rilevazione, monitoraggio e valutazione del livello di inclusività della scuola; -raccolta e coordinamento delle proposte formulate dai singoli GLH (gruppi di lavoro sulle disabilità d'istituto, oggi non più previsti) -elaborazione di una proposta di Piano per l’inclusività riferito a tutti gli alunni con BES. In base alla C.M. (circolare ministeriale) 8/2013, il GLI “formulerà un'ipotesi globale di utilizzo funzionale delle risorse specifiche, per incrementare il livello di inclusività generale della scuola nell'anno successivo. Con il decreto legislativo 66/2017: -i GLI d'istituto (GLHI), sono sostituiti dai GLI. -i GLI operativi (GLHO) restano operativi in mancanza di una esplicita sostituzione, all’interno di ogni Consiglio di classe dove ci sono alunni che necessitano di sostegno. 3) La valutazione degli alunni disabili Il decreto numero 62 del 2017 che disciplina la materia della valutazione ha modificato in alcuni punti importanti la normativa esistente riguardo gli alunni con disabilità. Per il primo ciclo di istruzione, le disposizioni generali sono dettate dall'articolo 11 secondo il quale la valutazione degli alunni con disabilità certificata, espressa in decimi, è riferita: -al comportamento -alle discipline -alle attività svolte sulla base del piano educativo individualizzato. L'ammissione alla classe successiva e all'esame di Stato conclusivo del primo ciclo di istruzione avviene tenendo a riferimento il piano educativo individualizzato. Come previsto per tutti gli alunni, anche gli alunni disabili partecipano alle prove Invalsi, previste come requisito di ammissione agli esami di Stato, ma la novità consiste nel fatto che per loro il Consiglio di classe può prevedere adeguate misure compensative o dispensative per lo svolgimento delle prove e, ove non fossero sufficienti, predisporre specifici adattamenti della prova ovvero l’esonero dalla prova. La possibilità di utilizzare misure compensative o dispensative sino ad oggi era prevista dalla normativa solo per gli alunni con DSA; ora viene estesa, per le sole prove Invalsi, anche agli alunni con disabilità. Per lo svolgimento dell'esame di Stato conclusivo del primo ciclo di istruzione, la sottocommissione, sempre sulla base del PEI predispone, se necessario, delle prove differenziate idonee a valutare il progresso dell'alunno in riferimento ai livelli di apprendimento iniziali. Esse hanno valore equivalente ai fini del superamento dell’esame e del conseguimento del diploma finale. Il D.Lgs. n.62 introduce anche un’altra importante novità: all’alunno disabile assente agli esami di Stato, si rilascia un attestato di credito formativo, valido come titolo idoneo per l’iscrizione al secondo ciclo al solo fine di conseguire un altro attestato. Un’ulteriore novità riguarda la certificazione delle competenze dell'alunno disabile. Si prevede, infatti, che tale certificazione sia coerente con il suo piano educativo individualizzato. Per la scuola secondaria di secondo grado, il decreto 62 in sostanza ribadisce le norme precedenti. Ai sensi dell'art.16 L.104/1992, la valutazione degli alunni con disabilità deve essere effettuata da tutti i docenti e che deve avvenire sulla base del piano educativo individualizzato, nel quale deve essere indicato per quali discipline siano stati adottati particolari criteri didattici e quali attività integrative di sostegno siano state svolte, anche in sostituzione parziale dei contenuti programmatici di alcune discipline. Per gli alunni disabili sono consentite prove equipollenti e tempi più lunghi per la realizzazione delle prove scritte e grafiche, la presenza di assistenti per l'autonomia e la comunicazione, nonché l'uso degli ausili loro necessari. Se il Consiglio di classe ritiene che l'apprendimento sia globalmente riconducibile agli apprendimenti ritenuti idonei per la valutazione positiva, promuove l'alunno alla classe successiva. Nel caso però di disabilità gravi conseguenti soprattutto a ritardi mentali significativi, gli apprendimenti spesso non possono essere ritenuti adeguati a quelli della classe di riferimento (si ricorre a tal fine a un PEI 77 -posizione del corpo non corretta; -difficoltà a gestire lo spazio grafico (mancato rispetto delle righe e dei margini); -inadeguata pressione sul foglio; -dimensioni delle lettere molto irregolari; -difficoltà nella riproduzione grafica di figure geometriche; -alterazione del ritmo di scrittura. La disortografia si può definire come un disordine di transcodifica del testo scritto che viene attribuito a un deficit di funzionamento delle componenti centrali del processo di scrittura, responsabile della transcodifica del linguaggio orale e del linguaggio scritto. La discalculia La discalculia riguarda l'abilità di calcolo, sia nell'aria dell'intelligenza numerica basale, sia nei meccanismi di quantificazione, seriazione, comparazione, strategie di composizione e scomposizione di quantità, strategie di calcolo a mente. Sono sintomi tipici della discalculia: -errori di conteggio; -incapacità di riconoscere il valore dello zero; -errori nel recupero dei fatti aritmetici; -errori nel recupero delle procedure nelle loro applicazioni. Si parla infine di comorbilità quando in un soggetto con DSA sono presenti più disturbi del neurosviluppo, che interessano l'area del linguaggio, la coordinazione motoria, la sfera emotiva e il comportamento. In questo caso, il disturbo presenta una maggiore gravità, perché è dato dalla somma delle singole difficoltà, che influenza negativamente lo sviluppo delle abilità complessive. La diagnosi dei DSA La diagnosi di DSA può essere formulata con certezza soltanto alla fine della seconda classe della scuola primaria. I soggetti attori del percorso d'individuazione dei DSA sono: -la famiglia che fa valutare il disturbo, ne consegna la diagnosi alla scuola e ne verifica la gestione; -il docente; -il dirigente scolastico; -il referente d'istituto; -gli uffici scolastici regionali che attivano iniziative specifiche dirette a garantire il diritto allo studio degli alunni affetti da DSA. La certificazione della diagnosi da parte del servizio sanitario nazionale consente di intraprendere l’iter riabilitativo, in modo da mettere a disposizione di chi è affetto da DSA adeguate misure didattiche ed educative fra cui: -appositi provvedimenti dispensativi e compensativi; -didattica individualizzata e personalizzata; -adeguate forme di verifica e di valutazione. La L.170/2010 prevede altresì la possibilità, per i genitori degli studenti affetti da DSA che frequentano il primo ciclo di istruzione, di fruire di orari flessibili di lavoro. L'attività di identificazione del DSA si deve esplicare in tutti gli ordini e gradi di scuola: infatti, attraverso l'individuazione tempestiva è possibile mettere in atto provvedimenti didattici abilitativi che possono modificare il percorso scolastico di alunni e studenti con DSA che manifestano, in molti casi, i disturbi solo molto più avanti, durante la scuola secondaria e all'università. Per tale motivo, il maggiore interesse è rivolto alla scuola dell'infanzia e alla scuola primaria in cui durante le prime fasi degli apprendimenti scolastici, il ruolo del docente prevede che egli: -curi con attenzione l’acquisizione dei prerequisiti fondamentali e la stabilizzazione delle prime abilità relative alla scrittura, alla lettura e al calcolo; -metta in atto strategie di recupero; -segnali alla famiglia la persistenza delle difficoltà nonostante gli interventi di recupero realizzati; -prenda visione della certificazione diagnostica rilasciata dagli organismi predisposti; 80 -proceda, in collaborazione dei colleghi della classe, alla documentazione dei percorsi didattici individualizzati e personalizzati previsti; -adotti misure dispensative; -attui strategie educativo-didattiche di potenziamento; -attui modalità di verifica e valutazione adeguata e coerente; -realizzi incontri di continuità con i colleghi al fine di condividere i percorsi educativi e didattici effettuati dagli alunni, in particolare quelli con DSA. Con l'obiettivo di assicurare il diritto allo studio degli alunni e degli studenti con DSA (e BES), le istituzioni scolastiche possono avvalersi del supporto tecnico scientifico fornitogli dai Centri Territoriali di Supporto (CTS) attivati dal MIUR, che informano e coadiuvano docenti, genitori e alunni nelle modalità didattiche da utilizzare per il singolo DSA o BES. 2) Il diritto allo studio degli alunni con DSA e gli strumenti compensativi Il D.M. n. 5669/2011 contiene le Linee Guida per il diritto allo studio di alunni e studenti con DSA. Si tratta di un documento che chiarisce le indicazioni espresse nella legge 170/2010 riguardo alle modalità di formazione dei dirigenti scolastici e dei docenti, alle misure didattiche di supporto, all'uso di strumenti compensativi e dispensativi e alle forme di verifica e di valutazione previste per assicurare il diritto allo studio degli alunni e degli studenti con diagnosi di DSA. Sul piano operativo, gli strumenti di intervento per DSA previsti dall'articolo 5 della legge 170/2010 comprendono: a) L'uso di una didattica individualizzata e personalizzata, con modalità flessibili di lavoro scolastico che tenga conto anche di caratteristiche peculiari dei soggetti. Le istituzioni scolastiche possono esplicare le attività didattiche anche attraverso un piano didattico personalizzato. b) L'introduzione, per ciascuna materia, di strumenti compensativi, nonché misure dispensative dal alcune prestazioni non essenziali. L'articolo 5 comma 2 lett. c) prescrive “per l'insegnamento delle lingue straniere, l'uso di strumenti compensativi che favoriscano la comunicazione verbale e che assicurino ritmi graduali di apprendimento, prevedendo anche, ove risulti utile, la possibilità dell'esonero”. 81 Strumenti compensativi e misure dispensative Gli strumenti compensativi per gli alunni con DSA sono strumenti didattici e tecnologici che sostituiscono o facilitano la prestazione richiesta nell’abilità deficitaria. Servono a compensare la debolezza funzionale derivante dallo specifico disturbo. Tali strumenti servono a dispensare o facilitare l'esecuzione di compiti senza però costituire un vantaggio cognitivo che agevolerebbe lo studente rispetto ai compagni di classe. Tra gli strumenti compensativi figurano: -software con sintesi vocale, che consente di tradurre un compito di lettura in un compito di ascolto; -la registrazione, che evita allo studente l'onere di scrivere appunti; -computer con videoscrittura, fogli di calcolo e stampante; -i programmi di videoscrittura con correttore ortografico; -la calcolatrice, che facilita le operazioni di calcolo; -risorse audio associate a testi scolastici; -libri digitali o audiolibri; -letture ad alta voce delle consegne delle verifiche in classe; -altri strumenti tecnologici meno evoluti quali tabelle, formulari, mappe concettuali etc.. Per misure dispensative si intendono, invece, quegli strumenti che consentono allo studente di non svolgere alcune prestazioni che, a causa del disturbo, risultano particolarmente difficoltose e che non migliorano l'apprendimento. Si può così dispensare l'alunno DSA dal: -copiare lunghi testi dalla lavagna; -leggere ad alta voce; -prendere appunti o ricopiare; -eseguire compiti e verifiche in tempi rigidi prestabiliti e standardizzati; -disegno tecnico; -suonare uno strumento musicale; -studiare mnemonicamente poesie o formule. Tra le metodologie didattiche più efficaci per i DSA ricordiamo: -uso di mediatori didattici (immagini, schemi e mappe concettuali); -anticipazione dello studio degli argomenti che verranno trattati in classe; -didattica laboratoriale; -apprendimento cooperativo; -peer tutoring. Il Piano didattico personalizzato (PDP) La diagnosi di DSA può essere formulata con certezza solo alla fine del secondo anno della scuola primaria. Ricevuta la diagnosi di DSA da parte dei genitori, si può procedere alla stesura del piano didattico personalizzato da parte del Consiglio di classe. Ricordiamo che per i DSA non è previsto il supporto di un docente di sostegno, mentre è previsto un docente referente che favorisce la relazione con la famiglia e il medico e collabora alla stesura del PDP. Il piano didattico deve essere personalizzato per metodologie, tempi, strategie didattiche e strumenti compensativi e misure dispensative, ma non per obiettivi che devono essere gli stessi del gruppo classe (a differenza di quanto invece avviene con il PEI per i disabili). Il PDP va infine sottoscritto da parte dei docenti e dei genitori dello studente, e va verificato almeno due volte l'anno in sede di scrutini. Il PDP va poi consegnato alla famiglia che dovrà soprattutto seguire la modalità di prescrizione ed esecuzione dei compiti assegnati allo studente con DSA. Qualsiasi approccio didattico non può prescindere da una corretta analisi della situazione di partenza che si può iniziare ad attuare anche a settembre, nei giorni precedenti all’apertura della scuola attraverso: -analisi dei documenti clinici riguardanti i disturbi dell'allievo; -conoscenza della famiglia e dei terapisti che seguono l'alunno; -raccolta di informazioni da docenti, dirigenti scolastici ed operatori scolastici che hanno interagito con il bambino/ragazzo; -raccolta di materiale scolastico eventualmente prodotto negli anni precedenti. 82 Per le verifiche scritte in lingua straniera si possono progettare e valutare prove compatibili con le difficoltà connesse al DSA. Inoltre, è prevista la possibilità che gli alunni con DSA possano essere esonerati dallo studio della lingua straniera o dispensati dalle prove scritte. Gli studenti con DSA devono partecipare alle prove Invalsi come requisito di ammissione agli esami, se necessario, disponendo di mezzi compensativi. In conformità a quanto indicato nelle diverse parti del PDP, andranno specificate le modalità attraverso cui si intende valutare i livelli di apprendimento nelle diverse discipline. Sottolineiamo che gli obiettivi fondamentali che gli alunni con DSA devono raggiungere in ogni materia sono identici a quelli dei compagni, e anche nella fase conclusiva del periodo scolastico, in occasione degli esami di maturità, non è prevista dispensa da alcuna materia. Gli alunni con altri BES Per gli alunni con altre situazioni BES, la scuola può intervenire in modi diversi, informali o strutturati. Tuttavia, la direttiva del 27/12/2012 ha la finalità di tutelare le situazioni in cui sia presente un disturbo clinicamente diagnosticabile, ma non ricadente nell'ambito della L.104/1992 o della L.170/2010. Quindi il Consiglio di classe può prevedere l'uso di strumenti compensativi e di particolari metodologie didattiche, al fine di aiutare l'alunno nel percorso scolastico e ad affrontare gli esami conclusivi dei diversi cicli di istruzione. Nel PDP dovrà essere previsto l'utilizzo di particolari metodologie didattiche individualizzate e personalizzate. Ai fini della valutazione degli alunni con altri BES occorre tener presente i livelli di partenza degli alunni, i risultati raggiunti nei percorsi personali di apprendimento ed i livelli essenziali di apprendimento previsti per la classe. Ai fini dell'esame di Stato non sono previste differenziazioni nella verifica degli apprendimenti. 85 Capitolo 3 ►Inclusione e multiculturalità 1) Gli alunni stranieri La normativa sui BES include nell’area dei bisogni speciali gli alunni con svantaggio socio-economico, linguistico o culturale. Si tratta di difficoltà che, non essendo legate né a stati psicologici né a disabilità, possono insorgere in qualsiasi fase dell’anno scolastico e che, nella maggior parte dei casi, hanno carattere transitorio. Quanto all’inserimento di alunni stranieri in classe, le Indicazioni nazionali del 2012 prevedono che: “particolare attenzione va rivolta agli alunni con cittadinanza non italiana, i quali, ai fini di una piena integrazione, devono acquisire sia un adeguato livello di uso e controllo della lingua italiana per comunicare e avviare i processi di apprendimento, sia una sempre più sicura padronanza linguistica e culturale per proseguire nel proprio itinerario di istruzione.” Da questo documento scaturiscono gli impegni educativi a cui la scuola è chiamata per promuovere l'integrazione culturale e la valorizzazione della cultura di appartenenza, allo scopo di favorire lo scambio produttivo delle diversità come valori e occasioni formative. Ricordiamo che i bambini e i ragazzi con cittadinanza non italiana, anche se in posizione non regolare, hanno diritto all'istruzione alle stesse condizioni degli alunni italiani. Di recente la L.47/2017 riconosce il diritto all'istruzione anche ai minori stranieri non accompagnati, ossia a quei minori che arrivano in Italia senza l'assistenza dei genitori o di un altro familiare adulto. La loro iscrizione a scuola può avvenire in qualsiasi momento dell'anno scolastico. La Direttiva ministeriale del 2012 individua come BES anche coloro che sperimentano difficoltà derivanti dalla non conoscenza della lingua italiana, ed è per questo che è possibile attivare anche per loro percorsi individualizzati e personalizzati, oltre che adottare strumenti compensativi e misure dispensative. La Circolare Ministeriale 8/2013 ha chiarito che gli alunni con cittadinanza non italiana necessitano di interventi didattici relativi all'apprendimento della lingua ma solo in via eccezionale di un piano didattico personalizzato, poiché la personalizzazione va coordinata con le tematiche dell’inclusione e del riconoscimento delle diversità. A tal fine, la L. n.107/2015 ha previsto che nelle aree con una forte componente di alunni stranieri siano realizzati dei piani di integrazione, oltre a laboratori linguistici per perfezionare l'italiano come seconda lingua e laboratori di lingue non comunitarie. Le Linee guida 2014 per l’accoglienza degli alunni stranieri Le Linee guida per l'accoglienza e l'integrazione degli alunni stranieri emanate nel 2014, regolamentano le attività di accoglienza e integrazione; esse prevedono nel dettaglio le situazioni che possono verificarsi: -Alunni con cittadinanza non italiana: sono gli alunni che, anche se nati in Italia, hanno entrambi i genitori di nazionalità non italiana. -Alunni con ambiente familiare non italofono: alunni che vivono in ambiente familiare nel quale i genitori oltre a non parlare l'italiano non garantiscono nemmeno un sostegno adeguato nel percorso di acquisizione delle abilità di scrittura e di lettura. -Minori non accompagnati: alunni provenienti da altri paesi che si trovano per qualsiasi ragione nel territorio dello Stato privi di assistenza e rappresentanza da parte dei genitori. -Alunni figli di coppie miste: sono alunni con uno dei genitori di origine straniera. -Alunni arrivati per adozione internazionale: per l'inserimento di questi alunni sono da prevedere interventi specifici, che prevedano percorsi personalizzati, per consolidare l'autostima e la fiducia nelle proprie capacità di apprendimento. -Alunni rom, sinti e caminanti: sono i tre principali gruppi di origine nomade presenti in Italia, al cui interno si riscontrano molteplici differenze di lingua, religione, costumi. Nelle scuole, in generale, l'orientamento più diffuso è quello di favorire l’eterogeneità delle cittadinanze nella composizione delle classi, piuttosto che formare classi omogenee per provenienza territoriale o religiosa degli stranieri. Sono comunque previsti dei limiti massimi di presenza di studenti stranieri nelle singole classi. 86 La Circolare MIUR 2/2010 prevede che il numero degli alunni con cittadinanza non italiana presenti in ciascuna classe non possa superare, di norma, il 30% del totale degli iscritti, al fine di realizzare un’equilibrata distribuzione degli allievi stranieri tra istituti dello stesso territorio. Il limite del 30% può comunque essere innalzato, con determinazione del direttore generale dell’Ufficio scolastico regionale, qualora gli alunni stranieri siano già in possesso di adeguate competenze linguistiche. Accoglienza, inserimento e orientamento Il momento dell’accoglienza e del primo inserimento è fondamentale per un corretto processo di integrazione, e in questa fase assume notevole importanza la relazione con le famiglie degli alunni. È, infatti, necessario da parte della scuola instaurare un rapporto di ascolto con la famiglia per comprenderne le specifiche condizioni ed esigenze e per renderla partecipe delle iniziative e delle attività della scuola, condividendo un progetto pedagogico che valorizzi le specificità dell'alunno. Ma ancor prima dell’inserimento, c'è il momento dell’orientamento. Per le famiglie di origine immigrata, il problema dell’orientamento nasce già con la scuola dell'infanzia in quanto per molte famiglie di immigrati la frequenza della scuola dell’infanzia non è considerata importante. Per quanto riguarda il passaggio alla scuola secondaria di secondo grado, per tutti gli alunni, l'orientamento deve iniziare almeno dall’inizio dell’ultimo anno della secondaria di primo grado. È della massima importanza che nelle attività di orientamento le scuole e gli insegnanti curino con grande attenzione l'informazione delle famiglie straniere sulle diverse opzioni e opportunità formative, incoraggiando sempre scelte coerenti con le capacità e le vocazioni effettive dei ragazzi. Il protocollo di accoglienza e integrazione degli alunni stranieri Il protocollo di accoglienza e integrazione degli alunni stranieri è un documento che viene deliberato dal Collegio dei docenti e inserito nel PTOF. Predispone e organizza le procedure che l'istituto scolastico intende mettere in atto per facilitare l'inserimento degli alunni stranieri attraverso tre attenzioni pedagogiche specifiche: -l'accoglienza del singolo alunno e della sua famiglia; -lo sviluppo linguistico in italiano L2; -la valorizzazione della dimensione interculturale. Il protocollo contiene criteri e principi riguardanti l'iscrizione e l'inserimento degli alunni stranieri, definisce i compiti e i ruoli degli insegnanti, del personale amministrativo e dei mediatori culturali, e disciplina le fasi di accoglienza e le attività di facilitazione per l'apprendimento della lingua italiana. Il protocollo di accoglienza e integrazione delinea: -attività amministrative e informative che riguardano l'iscrizione e l'inserimento a scuola degli alunni stranieri; -attività comunicativo-relazionali riguardanti i compiti e i ruoli degli operatori scolastici nelle fasi di accoglienza a scuola; -attività educativo-didattiche relative a: assegnazione della classe, insegnamento dell'italiano come seconda lingua, accoglienza; -attività sociale che individua i rapporti e le collaborazioni con il territorio in particolare con i servizi sociali del comune. Molte scuole inseriscono nel PTOF anche un protocollo di accoglienza per gli alunni con bisogni educativi speciali (o per alunni con DSA) come strumento di inclusione all'interno dell’istituzione scolastica. L’insegnamento dell’italiano come lingua seconda (L2) Negli ultimi decenni le scuole e gli insegnanti hanno cercato di mettere a punto modalità organizzative di intervento per rispondere in maniera sempre più efficace soprattutto ai bisogni linguistici più immediati proprio di chi si trova a dover imparare l’italiano come seconda lingua. In tale prospettiva appare decisiva soprattutto nelle classi della scuola secondaria, l'apprendimento dell'italiano come L2, diventato cruciale ai fini dell’inserimento positivo e di una storia di buona integrazione. 87 Capitolo 4 ►Bullismo, devianza e dispersione scolastica 1) Devianza e delinquenza minorile La scuola è in prima linea nell'individuazione e nel contrasto di quegli episodi di devianza che, in molti casi, sfociano in una vera e propria delinquenza minorile. Alla base della devianza giovanile troviamo certamente una molteplicità di fattori, la cui interazione produce una situazione per cui l’iter di disagio esistenziale e disadattamento non è il risultato di una somma di condizionamenti endogeni ed esogeni, ma assume il significato di una struttura profonda e generalizzata. Il passaggio dalla devianza, con comportamenti di violenza sistematica e consapevole di norme e aspetti sociali, non avviene necessariamente in relazione a fatti molto gravi, ma presuppone una “preparazione” ampiamente collegata con l'ambiente di sviluppo. Un contributo negativo in questo senso può anche essere dato da ambienti educativi come la famiglia e la scuola, quando non si dimostrano flessibili e sensibili verso i comportamenti giovanili. Il rischio è quello di trattare come “caratteri devianti”, atteggiamenti occasionali e sporadici compiuti dai ragazzi che possono avere agito in un contesto che favoriva tali azioni per vari motivi. Entra così il gioco il fenomeno sociologico dell'etichettamento (labelling) mediante il quale l'attribuzione di un ruolo negativo produce emarginazione e bassa autostima che rendono sempre più consolidato ed esteso la condotta deviante. Secondo la teoria dell'etichettamento (labelling Theory) quando la reputazione di cui un individuo gode ha una connotazione negativa, questa diventa una forma di etichettamento morale che produce una sorta di circolo vizioso. L'espressione di forme di aggressività e violenza fisica della devianza è veicolata, talvolta, anche da una serie di modelli propagati dai mass-media senza alcun alone di biasimo, ma anche proposti come vincenti e come valida alternativa al dialogo. Nella maggior parte dei casi, alla base della delinquenza minorile vi è una storia di disagio. Tra le cause di disadattamento più diffuse vi sono certamente le condizioni ambientali: la povertà può agire in senso deviante, così come l'emigrazione, che genera talvolta un cortocircuito culturale e linguistico. Anche i fattori familiari possono essere causa di atteggiamenti devianti: carenze affettive, fattori ereditari, maltrattamenti in famiglia e un'atmosfera casalinga prima di serenità possono tramutarsi in una mancata costruzione di interrelazioni sociali equilibrate. Tuttavia più che di cause vere e proprie di disadattamento è più corretto parlare di condizioni che possono influenzare o determinare uno sviluppo in senso deviante della personalità. Tale fenomeno, infatti, non è quasi mai riconoscibile ad un solo fattore, ma piuttosto è determinato da molteplici variabili. Una sintetica elencazione delle più comuni relazioni a situazioni frustanti può aiutare a schematizzare gli atteggiamenti devianti maggiormente riscontrati nei giovani: -aggressione: il soggetto attacca, fisicamente e/o verbalmente, le persone legate alla situazione frustrante; -disturbi psicosomatici: manifestando alcuni disturbi fisici il soggetto si sottrae dalla situazione frustante; -compensazione: il soggetto compensa le proprie frustrazioni con fantasticherie o forme di esibizionismo; -razionalizzazione: l’insuccesso viene giustificato addossandone la colpa a qualcuno, o manifestando disinteresse verso lo scopo perseguito invano; -ritirata: la situazione frustrante viene abbandonata cercando rifugio in atteggiamenti apatici o fantasticherie; -regressione: il soggetto torna a forme di comportamento infantile. Anche il gruppo può incentivare comportamenti devianti, agendo come un branco che legittima, con il proprio sostegno, atti che un individuo da solo non compirebbe. In determinati casi la devianza assume le forme del bullismo, in altri si arriva a vera e propria delinquenza minorile, un fenomeno purtroppo in espansione. 90 2) Dall'insuccesso l'abbandono scolastico L’insuccesso scolastico e la devianza sono spesso fenomeni strettamente collegati. È molto frequente che i soggetti con difficoltà vadano incontro a cali di rendimento durante il proprio percorso formativo. Un alunno portatore di disagio quando non opportunamente seguito e supportato dalla famiglia e dalla scuola, rischia infatti, più facilmente di reagire male di fronte all’insuccesso. Prendere brutti voti, avere difficoltà di relazione col gruppo classe o con i docenti, rappresentano per l'alunno in condizioni di svantaggio, un aggravante di quello stato di disagio già di per sé doloroso e pesante. Tale situazione, se non affrontata in tempo, può portare all'abbandono scolastico, una condizione che non fa altro che acutizzare la posizione di marginalità assoluta dall'individuo nel gruppo sociale di riferimento. Interrompere questo percorso è compito della famiglia e delle istituzioni, prima fra tutte la scuola. Intercettare il disagio a scuola I docenti hanno numerosi strumenti da mettere in campo per individuare le situazioni di disagio vissute dai propri alunni e rafforzare la loro motivazione allo studio. Promuovere attività basate sulla narrazione e sul lavoro di gruppo, ad esempio, aiuta il singolo a esprimersi e confrontarsi con gli altri e consente all'insegnante di ricevere un feedback molto utile sul modo di raccontarsi e di relazionarsi dei suoi studenti. Altre strategie da applicare in classe allo scopo di far emergere e superare situazioni che ostacolano il benessere dello studente e che incidono negativamente sul suo rendimento sono: -ricorrere a premi e incentivi: lodare lo sforzo a prescindere dal risultato è già un buon punto di partenza per motivare l’allievo; -attribuire incarichi di tutoraggio tesi a rafforzare l'autostima; -promuovere la cooperazione tra gli studenti attraverso progetti in classe e compiti di gruppo da svolgere a casa; -ricorrere ad attività laboratoriali che valorizzano l'esperienza e la sua condivisione; -incentivare le uscite didattiche e il confronto tra i pari; -strutturare attività di problem solving; -promuovere l'auto consapevolezza: la capacità di riconoscere le proprie capacità e le proprie emozioni è determinante ai fini del successo scolastico. Compito del docente è fare il modo che il singolo studente si senta compreso nella sua individualità, e non un semplice elemento del gruppo. A tale scopo, spiegare le ragioni di una determinata valutazione anziché limitarsi alla comunicazione di un voto può essere una valida strategia per rendere l'alunno protagonista attivo del suo percorso formativo e promuovere in lui capacità critiche e abilità metacognitive. 3) Bullismo a scuola Per bullismo si intende un comportamento aggressivo ripetuto nel tempo contro un individuo, con intenzione di ferirlo fisicamente o moralmente. È caratterizzato da certe forme di abuso con le quale una persona tenta di esercitare un potere su un'altra persona. Può un manifestarsi con l'uso di soprannomi offensivi, di insulti verbali o scritti, escludendo la vittima da certe attività, da certe forme di vita sociale, con aggressioni fisiche o angherie. I cosiddetti bulli possono talvolta agire in questo modo per rendersi popolari o per essere considerati dei “duri” o per attirare l'attenzione. Il problema del bullismo si configura come un fenomeno estremamente complesso, non riconducibile alla sola condotta di singoli ma riguarda il gruppo dei pari nel suo insieme. Tra i coetanei, il fenomeno spesso si diffonde grazie a dinamiche di gruppo, soprattutto in presenza di atteggiamenti di tacita accettazione delle prepotenze ai danni dei più deboli. Si ha un vero e proprio bullismo solo quando l'azione aggressiva del bullo è continua e sistematica e deliberatamente volta a danneggiare sempre la stessa vittima. Il singolo atto di violenza isolata, quindi, se può avere ripercussioni di carattere sociale addirittura penale, non può considerarsi atto di bullismo. Ancora, possiamo distinguere due forme di bullismo: -bullismo diretto in cui sono evidenti le prepotenze fisiche o verbali e che è più facilmente individuabile. -bullismo indiretto, in cui il bullo non affronta direttamente la vittima ma agisce diffondendo dicerie sul conto della stessa, escludendola dal gruppo dei pari, diffondendo calunnie e pettegolezzi, isolandolo quindi socialmente. Nel bullismo vi è una relazione diretta tra il bullo e la vittima, addirittura una interdipendenza. 91 Il bullo è, di solito, un soggetto apparentemente sicuro di sé ma non necessariamente aggressivo; è invece un soggetto che tende a ostentare la sua supremazia di fronte al gruppo dei coetanei prevaricando su un soggetto più debole. La vittima al contrario è sempre un soggetto di per sé con un basso livello di autostima e che di fronte al bullo risulta impotente. La vittima può isolarsi dal gruppo evitando di rispondere alle provocazioni del bullo (vittima passiva), oppure in alcuni casi provocare essa stessa le aggressioni nei suoi confronti (vittima provocatrice). In alcuni casi la vittima, per non rimanere isolata dal gruppo dei pari, sottostà volontariamente agli atteggiamenti provocatori e deridenti del bullo (vittima collusa). Gli atti di bullismo possono essere di varia natura: fisica, verbale o psicologica e in generale hanno tutti lo stesso obiettivo: isolare la vittima, escluderla dal gruppo, indebolirla dal punto di vista psicologico. La scuola è chiamata in prima linea a contrastare ogni forma di bullismo: le linee di orientamento per il contrasto al bullismo (nota MIUR n.2519, Aprile 2015) impongono alla scuola di adottare misure atte a prevenire e a combattere tali fenomeni, in collaborazione con le famiglie, rafforzando e valorizzando il patto di corresponsabilità educativa. 3) Il cyberbullismo Il cyberbullismo è una forma di bullismo indiretto la cui diffusione va di pari passo con la diffusione delle nuove tecnologie. È un particolare tipo di aggressività intenzionale che si manifesta attraverso i social network. È una forma di prevaricazione particolarmente insidiosa perché non solo non consente a chi la subisce di sfuggire o nascondersi, ma perché ha un’immediatezza e una capacità di diffusione di cui spesso lo stesso bullo non ha contezza. “La tecnologia consente infatti ai bulli di infiltrarsi nelle case e nella vita delle vittime, di materializzarsi in ogni momento, perseguitandole con messaggi, immagini, video offensivi pubblicati sui siti web”. La normativa di contrasto e le Linee di orientamento del 27 ottobre 2017 Quello del bullismo è un fenomeno che può trovare le più efficaci azioni di contrasto proprio nella scuola. Non è un caso quindi che nel tempo il percorso della prevenzione del contrasto al fenomeno abbia normativamente coinvolto in primis le istituzioni scolastiche. A tal proposito possiamo menzionare: -le citate Linee di orientamento per la prevenzione e il contrasto del cyberbullismo del 2015; -il Piano nazionale per la prevenzione del bullismo e del cyberbullismo a scuola del 2016 per creare una rete nazionale tra le scuole, istituzioni pubbliche, ONG, associazioni del terzo settore e aziende private dell'ITC; -da ultimo la L.71/2017, in ottemperanza della quale sono state emanate le nuove linee di orientamento, e dovrà essere redatto un nuovo piano di azione integrato per il contrasto e la prevenzione del cyberbullismo; -le nuove linee di orientamento del MIUR per la prevenzione e il contrasto del cyberbullismo che si pongono in continuità con le precedenti del 2015. Il 18 giugno 2017 è entrata in vigore la nuova legge sul cyberbullismo: L.29 maggio 2017 n.71, Disposizioni a tutela dei minori per la prevenzione e il contrasto del fenomeno del cyberbullismo. La nuova normativa impone a tutte le scuole il compito di promuovere l'educazione all'uso consapevole della rete internet. Essa è diretta: -ai docenti e al personale scolastico, in quanto principalmente attraverso l'osservazione quotidiana dei comportamenti degli alunni e degli studenti si possono individuare e prevenire gli atti di bullismo e cyberbullismo; -ai dirigenti scolastici, che devono agire in caso di incidenti ed episodi violenti che possono verificarsi nelle scuole. In particolare, la legge n.71/2017 prevede che: -Ciascun minore ultraquattordicenne che sia stato vittima di cyberbullismo può inoltrare al titolare del trattamento, al gestore del sito internet o dei social un’istanza per l'oscuramento, la rimozione o il blocco dei contenuti diffusi nella rete. -Ogni istituto scolastico deve individuare fra i docenti un referente per il coordinamento a scuola delle iniziative di prevenzione e di contrasto del cyberbullismo. 92 consumo di determinate sostanze e le forme di dipendenza fisica e psichica, che fanno sì che gradualmente questi prodotti diventino “il centro” stesso dell'esistenza, lo scopo e la preoccupazione principale di un individuo. Solo in questo caso, infatti, si può parlare di dipendenza o tossicomania, cui si legano spesso comportamenti delinquenziali finalizzati alla ricerca di denaro per l'acquisto clandestino delle sostanze. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha elencato alcuni tra i fattori principali che contribuiscono a sviluppare il consumo di sostanze stupefacenti: -identità sessuale; -l'età; -la pressione del gruppo; -l'automedicamento (ossia l'uso di sostanze con lo scopo di allontanare l'ansia o la depressione) -le difficoltà familiari; -i problemi e i profili di personalità; -i fattori economici e sociali. La psicologia sociale ha studiato il nesso fra condizione giovanile, frustrazione, e consumo di droghe e di alcol come forma di rivolta e “controcultura” e, allo stesso tempo, fuga dal senso di colpa e forma di socializzazione normale all'interno di determinati tipi di gruppo. Esiste però anche la colpa sociale di proporre obiettivi e modelli di vita spesso irrealizzabili, di emarginare chi fa abuso di droghe o di alcolici fino a spingerlo alla vera e propria dipendenza. Il problema del consumo di sostanze e delle dipendenze viene attualmente affrontato anzitutto a livello di prevenzione, pertanto sulla base di un approccio educativo o rieducativo. I programmi di prevenzione che possono essere sviluppati a scuola si distinguono in tre modelli principali: -Il modello informativo: basato sulla convinzione che una corretta informazione sugli effetti, sui danni e sulle implicazioni legali del consumo di droghe e alcol possa allontanare dal loro uso. -Il modello della drug education: ritiene che alla base del consumo vi sia una sostanziale difficoltà a livello di autogestione e dei rapporti sociali, a partire dalla quale è possibile costruire dei soggetti in grado di evitare il consumo mettendo anche in atto specifiche strategie di difesa. -Il modello dell’educazione sanitaria: è caratterizzato dall’idea che la prevenzione delle tossicodipendenze trovi posto nel più vasto ambito di educazione a un corretto rapporto fra organismo, ambiente e società. Il fenomeno della dipendenza può essere vinto soprattutto attraverso un richiamo educativo alla responsabilità del singolo, piuttosto che attraverso messaggi puramente informativi, esclusivamente mirati al comportamento di consumo e magari allarmistici. L'obiettivo è quindi quello di mettere in atto una sorta di “vaccinazione psicologica generale”. Ciò non significa tralasciare l’approccio informativo, ma integrarlo in un percorso ragionato, che deve consistere in almeno 5 punti: •la fonte di informazione deve essere una persona vicina ai giovani con esperienza specifica sul campo; •il contesto deve essere adatto, cioè caratterizzato da una precedente disponibilità al dialogo aperto sui problemi sociali; •il metodo deve essere quello di una discussione guidata, in cui sono i soggetti stessi a giungere alle conclusioni desiderate; •i contenuti devono di volta in volta essere adattati al gruppo, ma essere sempre corretti e oggettivi, non terroristici, non banalizzanti, legati alla ricerca comunitaria delle cause e delle soluzioni; •il messaggio fondamentale che deve essere trasmesso non è l'immagine dei soggetti come potenziali consumatori, ai quali raccomandare “di non drogarsi o di non fare abuso di alcol”, quanto piuttosto come soggetti responsabili e degni di fiducia, cui dire: “ti devi impegnare per affrontare positivamente la vita”. Il presupposto fondamentale delle varie forme di prevenzione resta, comunque, la capacità di ascolto e di empatia che permette di affrontare e di evitare le forme di disadattamento e di emarginazione che sono alla base dell'uso di droghe e del consumo smisurato di alcolici. L'attuale normativa italiana prevede per la scuola un forte coinvolgimento sul tema delle tossicodipendenze, tanto sul piano organizzativo che su quello didattico, nel più generale quadro di una educazione alla salute. In particolare, viene previsto che la scuola assicura un ambiente capace di prevenire le condizioni ritenute agevolanti il comportamento da consumo e dipendenza da sostanze. La condizione di dipendenza da droghe è tale da richiedere anche una serie di interventi specifici che non possono essere condotti efficacemente all'interno degli ambienti di vita come la famiglia, la scuola, il gruppo 95 di pari e così via. Ciò dipende in parte anche dal fatto che molto spesso i tossicodipendenti sono in una grave condizione di emarginazione rispetto a questi contesti. Sorge così la necessità di ambienti alternativi, capaci di assicurare quelle condizioni concrete e affettive che sono necessarie a un percorso di uscita dalla droga. Le comunità terapeutiche possono dunque costituire in vari modi un contesto educativo fondamentale per il recupero delle tossicodipendenze, grazie alla loro capacità di inserire la persona in un insieme di rapporti implicanti partecipazione, valori, progetti, responsabilità. Il rischio concreto presente in alcune di esse è tuttavia quello di diventare un luogo in cui la dipendenza dalla droga venga sostituita con una dipendenza dal gruppo: obiettivo contrario rispetto a quel valore dell'autonomia che sta al centro di ogni autentico rapporto educativo. 96 Capitolo 5 ►Continuità educativo-didattica e orientamento 1) Riferimenti psico-pedagogici tra continuità e discontinuità Il concetto di continuità educativa e didattica è un tema complesso, fatto di molteplici sfaccettature che investe il sistema formativo nel suo complesso. La diffusione capillare di istituti comprensivi ha reso, inoltre, sempre più obbligatorio affrontare il tema in un’ottica sistemica, dal momento che essi rappresentano la sede privilegiata per la costruzione di un progetto in continuità, in grado di vincere le sfide educative e garantire migliori opportunità di formazione a tutti i ragazzi in età evolutiva. Nell’istituto comprensivo si richiedono la progettazione e l'attuazione di forme di cooperazione tra insegnanti che precedentemente lavoravano separatamente all'interno dei diversi cicli, e soprattutto la diffusione delle responsabilità in gruppi di lavoro che assolvono funzioni necessarie per il coordinamento delle diverse attività. La continuità anche sotto il profilo pedagogico è stata variamente interpretata. Sergio Hessen ne prospetta una visione organica e compatta, secondo la quale l'evoluzione dei tre gradi di sviluppo dell'educazione (anomia, eteronomia, autonomia) e quella dei tre gradi di istruzione (episodica, sistematica e scientifica) sono correlati tra loro secondo una dialettica di sviluppo. Il grado precedente rappresenta un momento propedeutico del grado successivo ma è anche presente nel periodo che precede. Secondo Maria Montessori la continuità è soprattutto di tipo metodologico e, come tale, si realizza attraverso la continuazione del metodo. Piaget afferma che lo sviluppo cognitivo si verifica attraverso l'assimilazione di informazioni e gli scambi che avvengono direttamente con l'ambiente, permettendo in questo modo di strutturare delle rappresentazioni mentali e schemi cognitivi ben organizzati. Piaget ha quindi della continuità una concezione organica, compatta, naturale che non conosce fratture, alla quale L. Vygotskij contrappone il concetto di continuità potenziata dalla presenza del docente della didattica. La molteplicità delle concezioni e dei punti di vista intorno al tema mette bene in evidenza la difficoltà di realizzare un’efficace pedagogia dei raccordi e una programmazione degli interventi. In questo senso, la continuità va vista come un filo conduttore che sostiene e accompagna lo sviluppo della personalità di ogni allievo, tenendo presente che non vi sono situazioni statiche; ogni esperienza effettuata offre qualcosa in più o qualcosa di diverso e il cambiamento è continuo. Accanto al diritto alla continuità è possibile perciò richiamare anche il diritto alla discontinuità. Il cambiamento da un tipo di scuola un altro significa che si è concluso un ciclo e se ne avvia un altro. Il passaggio da un grado all'altro, da uno stile all'altro può anche essere il segno che si sta crescendo. Continuità, dunque, si può coniugare con la discontinuità. L'apprendimento, la crescita, lo sviluppo sono legati a nuove imprese a sfide continue, tanto che si potrebbe cominciare a parlare di discontinuità utile. 2) Riferimenti normativi Sotto il profilo normativo, l'anno 1992 può essere definito come l'anno della continuità in quanto sono stati varati tre provvedimenti fondamentali. Il primo riguarda la legge 104/1992 relativa ai diritti degli handicappati per i quali vengono previste forme obbligatorie di consultazione tra i docenti dei diversi ordini di scuola. Il secondo riguarda il D.M. del 16/11/1992 che disciplina gli itinerari della continuità nella scuola dell'infanzia, elementare e media. Il terzo, il più noto, è rappresentato dalla C.M. 339 del 16/11/1992 e rimanda la necessità di inserire nella programmazione educativa e didattica itinerari tesi a favorire la continuità. La continuità nasce dall’esigenza primaria di garantire il diritto dell'alunno ad un percorso formativo organico e completo, che mira a promuovere uno sviluppo articolato e multidimensionale del soggetto. 97
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