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Manuale di Diritto Penale (Parte Generale), Sintesi del corso di Diritto Penale

Riassunto del Manuale di Diritto Penale di C.F. Grosso, M. Pelissero, D. Petrini, P. Pisa.

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019
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Caricato il 09/05/2019

giulia.casatibusca
giulia.casatibusca 🇮🇹

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Scarica Manuale di Diritto Penale (Parte Generale) e più Sintesi del corso in PDF di Diritto Penale solo su Docsity! C.F. GROSSO, M. PELISSERO, D.PETRINI, P.PISA RIASSUNTO MANUALE DI DIRITTO PENALE (parte generale) PARTE PRIMA - INTRODUZIONE AL DIRITTO PENALE E ALLA POLITICA CRIMINALE CAPITOLO I - DIRITTO PENALE, REATO, PENA Il diritto penale disciplina i fatti che costituiscono reato e le relative sanzioni. Il reato è un fatto vietato dalla legge penale la cui commissione comporta l’applicazione di una sanzione penale. Tale definizione è di tipo formale, poiché fa riferimento al modo con il quale l’ordinamento reagisce alla sua realizzazione. È possibile individuare i reati anche attraverso dei criteri sostanziali; da questo punto di vista è reato ciò che turba gravemente l’ordine etico, che rende impossibile o pone in grave pericolo l’esistenza o la conservazione della società. Spinte verso valutazioni di natura sostanziale della realtà che possono, o devono, essere considerate materiale penale sono rinvenibili sia nella Costituzione che nella Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU). Il codice vigente si avvale del sistema del doppio binario sanzionatorio, che è caratterizzato dalla compresenza di due categorie di sanzioni penali distinte per funzioni e disciplina: le pene e le misure di sicurezza. Le pene vengono determinate in concreto dal giudice in sede di giudizio e sono destinate ad assicurare la prevenzione generale; con la minaccia di una sanzione giustamente proporzionale alla gravità del reato si tende a disincentivare i consociati del delinquere. La Costituzione ha stabilito che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato (art. 27, comma 3 Cost.). Le misure di sicurezza vengono inflitte dal giudice di cognizione, ma la loro esecuzione viene seguita da un giudice diverso al quale compete ogni valutazione in ordine alla cessazione dei presupposti della loro applicazione, e sono destinate a recuperare alla società gli autori di reato socialmente pericolosi attraverso la rimozione delle cause della loro pericolosità sociale. L’illecito civile è sanzionato con le sanzioni del risarcimento del danno e delle restituzioni, normalmente affidate alla valutazione del giudice civile. L’illecito amministrativo viene a sua volta punito con sanzioni amministrative. !1 CAPITOLO III - PRINCIPI GENERALI DI POLITICA CRIMINALE Per politica criminale si intende l’insieme degli strumenti che un sistema predispone per contrastare la criminalità. La politica penale affronta il problema della criminalità attraverso il ricorso a strumenti strettamente penali. Politica criminale e politica penale vengono incluse nella politica sociale, che ha come oggetto ogni fenomeno sociale. I principi costituzionali espressamente dedicati alla materia penale sostanziale sono: - art. 25, con riferimento al principio di legalità; - art. 27, che riguarda il principio di responsabilità penale personale e indica i limiti al contenuto delle pene e ne fissa il fine; - art.13, che riconosce l’inviolabilità della libertà personale e prescrive le condizioni per la sua limitazione; - artt. 10 e 26, in tema di limiti all’estrazione; - art. 90, che riguarda le immunità del PdR; - art. 117, che esclude la potestà legislativa in materia penale. I limiti di ordine costituzionale alle scelte di politica criminale possono essere distinti in: 1. Divieti d’incriminazione; 2. Limiti d’incriminazione; 3. Obblighi d’incriminazione. 1) Al legislatore è fatto divieto d’incriminazione condotte che costituiscono l’esercizio di diritto e libertà costituzionali. Questi divieti si rivolgono sia al legislatore, che non può prevedere come reato gli atti che integrano l’esercizio di diritti e libertà, sia all’interprete, al quale spetta il compito di interpretare le norme penali in modo da salvaguardare l’esercizio dei diritti e delle libertà, qualora ciò non sia possibile, sollevare la questione di legittimità costituzionale. 2) Costituiscono limiti d’incriminazione i principi di determinatezza, materialità, offensività, proporzionalità, efficacia della tutela penale ed infine il principio di colpevolezza. - Il principio di determinatezza costituisce un limite che si rivolge al legislatore, imponendogli un limite nella formulazione delle norme penali, questo limite è però solo strutturale. - Il principio di materialità, trova fondamento nell’art 25. comma 2 Cost., secondo il quale nessuno può essere punito se non in forza di una legge entrata in vigore prima del fatto commesso. !2 La riserva di legge è rispettata nel caso del rinvio recettizio, quando cioè l’amministrazione non può più modificare l’atto regolamentare dopo l’entrata in vigore della legge penale che lo richiama. La riserva di legge è violata invece nel caso del rinvio mobile, quando cioè l’amministrazione può modificare il proprio regolamento anche dopo l’entrata in vigore della legge penale che lo richiama. L’ultima questione attiene alle cosiddette norme penali in bianco, caratterizzate dal fatto che il precetto è formulato in modo generico, dovendo essere integrato, specificato, completato da una fonte normativa diversa dalla legge, quale ad esempio un regolamento od un provvedimento amministrativo. Alle regioni è impedito creare nuove fattispecie di reato, abrogare una fattispecie incriminatrice, prevedere nuove sanzioni penali, sostituire una sanzione penale con una sanzione amministrative, introdurre nuove cause di non punibilità o di estinzione del reato. Per quanto riguarda la potestà normativa diretta, in un sistema improntato rigidamente sul principio di legalità, appare evidente che gli organi sovranazionali non possono avere potestà normativa in materia penale, dal momento che solo il Parlamento può legittimamente individuare i fatti vietati e le relative pene. Per quanto riguarda la potestà normativa indiretta, le fonti comunitarie possono imporre agli Stati membri, l’introduzione di nuove fattispecie incriminatrici, a tutela di interessi comunitari, o di interessi di particolari rilievi, sopratutto sovranazionale. A seguito delle modifiche introdotte nel 2007, infatti, l’art. 83 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) prevede che il Parlamento ed il Consiglio, attraverso direttive possono stabilire ‘norme minime relative alla definizione dei reati e delle sanzioni in sfere di criminalità particolarmente grave’. La Corte di Giustizia della Comunità ha affermato e radicato il principio della preminenza del diritto comunitario, in virtù del quale, ogni qual volta vi sia un contrasto tra norme interne e norme europee, queste ultime devono prevalere. Quanto agli strumenti attraverso i quali i paesi europei recepiscono le direttive dell’Unione, si sono individuati tre diversi modelli: - Il primo, quello dell’unificazione appare ancora ben difficile da attuare, in virtù di un evidente ritrosia da parte dei paesi europei a rinunciare, sia pure solo in alcune materie, alla propria tradizione giuridica privatistica. - Con l’assimilazione, l’Unione invita ai paesi membri di estendere la tutela penale già presente nei loro ordinamenti interni a specifici interessi dell’Unione stessa, secondo gli schemi di modelli penalistici tipici di ciascun sistema giuridico. - Tramite l’armonizzazione, invece gli Stati membri sono chiamati ad introdurre nuove fattispecie incriminatrici. !5 Se si tratta di un contrasto dell’ordinamento interno con una norma di un trattato, in un regolamento, o di una direttiva specifica e dettagliata, il giudice penale è tenuto a disapplicare la normativa interna. Se il contrasto è solo parziale, allora il giudice dovrà disapplicare solamente quella parte della norma interna in contrasto con la disciplina sovranazionale. La convenzione europea per la protezione dei diritti dell’uomo delle libertà fondamentali riveste un ruolo assolutamente centrale. Anche rispetto a questa convenzione occorre preliminarmente ridire che non vi possono essere fattispecie penali introdotte direttamente nel nostro ordinamento da atti sovranazionali. Peraltro, ai sensi di un’altra norma costituzionale, l’art. 117, la potestà legislativa dello Stato esercitata nel rispetto non solo della Costituzione, ma anche dei vincoli derivanti dell’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali. Pertanto, nell’esercizio del potere legislativo, il Parlamento non potrà emanare norme penali che si pongono in contrasto con una revisione della convenzione europea dei diritti dell’uomo. !6 CAPITOLO V - SUCCESSIONE DI LEGGI PENALI NEL TEMPO L’irretroattività della legge penale svolge anche una fondamentale funzione di certezza, dal momento che i cittadini devono essere messi in grado di sapere in anticipo, con chiarezza, quali sono le possibili conseguenze penali dei loro comportamenti, per poter orientare con consapevolezza il proprio agire. L’art 25, comma 2 Cost. impone il divieto di irretroattività di una nuova fattispecie incriminatrice, mentre l’art 2 c.p. nei commi successivi al primo, introduce una disciplina della successione delle leggi penali nel tempo improntata al canone della retroattività delle disposizioni penali più favorevoli al reo. La nostra giurisprudenza costituzionale ha individuato nel principio d’uguaglianza (art.3 Cost.), sotto lo specifico profilo della ragionevolezza, un possibile recepimento del canone in questione. Se, infatti, il legislatore interviene ad abrogare una fattispecie incriminatrice, oppure modifica, in senso favorevole al reo una norma penale, non sarebbe ragionevole continuare ad applicare, sotto la vigenza della nuova legge, le precedenti e più severe norme a chi viene giudicato oggi, anche se ha commesso il fatto sotto il vigore della legge precedente. Pertanto, anche la retroattività della legge penale più favorevole è imposta dalla Costituzione, ma non senza un limite: il legislatore, infatti, potrebbe introdurre una deroga al principio (prevedendo cioè, che una legge più favorevole successiva non si applichi retroattivamente) ma solo se l’eccezione è giustificata da una qualche ragionevolezza. L’abolitio criminis (prima ipotesi della successione delle leggi penali nel tempo) si verifica quando una legge successiva abroga una precedente fattispecie incriminatrice. Al riguardo, l’art 2, comma 2, c.p. prevede che non possano essere puniti coloro che hanno commesso il fatto sotto la vigenza della precedente legge incriminatrice (abrogata), ed anzi, se vi è già stata sentenza di condanna, anche definitiva, ne debbano cessare immediatamente l’esecuzione e gli effetti penali. Il comma 4, invece, disciplina la diversa ipotesi della successione delle leggi penali nel tempo: il fatto è considerato reato sia nella vigenza della legge precedente che in quella successiva, ma la disciplina è diversa. La regola dettata dal codice è che, in questi casi, il giudice debba applicare la legge più favorevole del reo. Un problema che si pone è quello di distinguere tra abolitio criminis e successione di leggi penali nel tempo. Pertanto, può parlarsi di abolitio criminis solo quando, in concreto, il fatto, incriminato dalla norma previgente, non rientri più, a nessun titolo, nella nuova fattispecie. Se, invece, vi è quella che la nostra dottrina e giurisprudenza chiamano ‘criterio strutturale’ - se cioè dal raffronto strutturale tra le due norme, si evince che il fatto concreto rientra, pur con una disciplina diversa, sia nella prima che nella seconda fattispecie, allora si dovrà ritenere che vi sia successione di leggi !7 CAPITOLO VII - INTERPRETAZIONE DEL DIRITTO PENALE E DIVIETO DI ANALOGIA Per quanto il legislatore si sforzi di scrivere norme penali precise, chiare, rispettose del principio di determinatezza, sarà sempre necessario interpretare il testo normativo. Quest’interpretazione è detta autentica, quando promana dallo stesso legislatore, che interviene per chiarire il senso di una norma di legge, o ufficiale, se proviene dall’autorità amministrativa o dagli organi dello Stato interessati. Sempre dal punto di vista del soggetto da cui promana, si distingue un’interpretazione giudiziale, operata dalla magistratura, o dottrinale cioè frutto della riflessione e del confronto scientifico tra i giuristi che studiano le norme vigenti. I due criteri interpretativi fondamentali paiono essere il significato letterale delle parole e l’intenzione del legislatore. Il problema della rilevanza dei canoni interpretativi per quanto attiene alla norma in oggetto nulla dice riguardo alla soluzione dei casi nei quali i due citati risultino essere in contrasto tra loro. Il primo, ovvio criterio interpretativo è quello semantico. In altre parole, il primo sforzo dell’interprete deve essere quello di chiarire il senso lessicale dei termini utilizzati del legislatore. Un secondo canone interpretativo, che attiene al cosiddetto criterio storico, cioè alla necessità di rifarsi alla volontà del legislatore, non tanto intesa soggettivamente quanto piuttosto come l’oggettivazione, nel testo di legge, di una volontà storica, espressa dal Parlamento attraverso l’esercizio del proprio potere legislativo. Un terzo criterio interpretativo è quello logico-semantico, che consiste nel cercare, tra tutti i possibili significati della norma penale quello più coerente con l’ordinamento nel suo insieme, cioè quello che non crea disomogeneità o contraddizioni evidenti nel sistema complessivamente considerato. Infine, l’ultimo criterio interpretativo da prendere in considerazione è quello teologico, in virtù del quale occorre individuare lo scopo della fattispecie incriminatrice. Per analogia si intende l’integrazione dell’ordinamento giuridico attraverso l’applicazione, ad un caso non regolato dalla legge, della disciplina prevista per i casi simili. Pacificamente legittima negli ambiti dell’ordinamento giuridico, l’analogia è certamente vietata nel diritto penale. !10 CAPITOLO VIII - LIMITI SPAZIALI ALLA EFFICACIA DELLA LEGGE PENALE In termini generali, i criteri alla stregua dei quali valutare l’obbligatorietà della legge penale italiana nello spazio sono quattro. - Secondo il principio di universalità, è punito alla stregua del diritto penale italiano qualsiasi delitto, commesso da chiunque, a danno di chiunque, anche all’estero. - Il principio di territorialità, al contrario limita l’applicazione della nostra legge penale ai soli fatti commessi nel territorio dello Stato. - Il principio di personalità passiva prevede l’applicazione della nostra legge penale dello Stato cui appartiene il titolare del bene offeso dal reato. - Infine, alla stregua del principio di personalità attiva, si applica la legge penale dello Stato di appartenenza del reo. Occorre subito precisare che nessun sistema applica uno di questi criteri nella sua versione pura, pertanto, ogni ordinamento giuridico disciplina l’efficacia della legge penale nello spazio attraverso la combinazione di tutti e quattro i criteri indicati. Principio di territorialità : Ai sensi dell’art 3, comma 1, c.p. “la legge penale obbliga tutti coloro che, cittadini o stranieri, si trovano nel territorio dello Stato”, con le uniche, tassative eccezioni previste dal diritto pubblico o internazionale (per esempio, le immunità consolari). Conseguenza di quest'obbligatorietà della legge penale è che tutti coloro che si trovano nel territorio dello Stato sono tenuti ad osservarla, e che, pertanto, com’è ovvio “chiunque commette un reato nel territorio dello Stato è punito secondo la legge italiana”, come recita l’art. 6 comma 1, c.p. Il territorio dello Stato (principale criterio di collegamento tra fatto di reato ed ordinamento italiano) non va inteso solo come il suolo entro i confini d’Italia (comprensivo del sottosuolo, delle acque interne e delle coste), ma identifica, ai sensi dell’art. 4, comma 2, c.p. ogni luogo soggetto alla sovranità dello Stato, come il mare costiero e lo spazio aereo nazionale. Fatti puniti incodizionatamente : Il principio di territorialità deve essere integrato con altre disposizioni del codice. In particolare, l’art. 7 c.p. prevede che una cospicua serie di delitti siano puniti anche se commessi interamente all’estero, sia da parte del cittadino italiano che dello straniero. Occorre precisare che questi reati sono puniti ai sensi della legge penale italiana incondizionatamente, cioè indipendentemente da qualsiasi condizione di procedibilità (quale, per esempio, la presenza del reo nel territorio dello Stato). Si tratta di delitti che offendono direttamente un interesse dello stato. !11 Delitti politici : L’art. 8, comma 1, c.p. prevede che “il cittadino o lo straniero, che commette in territorio estero un delitto politico non compreso tra quelli indicati nel numero 1 dell’articolo precedente, è punito secondo la legge italiana”. In questo caso, però, la punibilità alla stregua dell’ordinamento italiano non è incondizionata, bensì subordinata ad una condizione di procedibilità: la richiesta del Ministro della giustizia. Se, poi, il delitto è perseguibile a querela, oltre alla richiesta del Ministro occorre anche la querela del soggetto passivo del delitto. Si considera politico qualsiasi fatto di reato che sia oggettivamente tale, cioè offende un interesse politico dello Stato, ovvero un diritto politico del cittadino. Il delitto soggettivamente politico è il delitto comune determinato in tutto o in parte da motivi politici. Delitti comuni commessi all’estero : In particolare, l’art. 9 c.p. prende in esame i delitti commessi dal cittadino italiano all’estero, prevedendo l’applicabilità della legge penale italiana per i delitti puniti con l’ergastolo o con la reclusione non inferiore nel minino a tre anni. L’art. 10 c.p. disciplina l’applicabilità della legge penale italiana ai delitti commessi interamente all’estero da uno straniero. In particolare, se il fatto è commesso contro un cittadino italiano o ai danni del nostro Stato, in virtù del principio della soggettività passiva, si applica la legge penale italiana anche per i delitti puniti con l’ergastolo o con la reclusione non inferiore nel minimo a un anno, ma sono previste le condizioni di procedibilità e la richiesta del ministro della giustizia. Una particolare disciplina è dettata, dall’art. 604 c.p. per i delitti contro la personalità individuale nonché per i delitti contro la libertà sessuale incondizionatamente puniti, anche se commessi all’estero, da cittadino italiano (principio della soggettività attiva) o in danno di cittadino italiano (principio della soggettività passiva). Rinnovamento del giudizio : L’art 11, comma 1, c.p. prevede che il cittadino e lo straniero, che abbiano commesso un reato nel territorio dello Stato, vengano sempre giudicati in Italia, anche se vi è già stato un giudizio penale all’estero. Nel caso invece, di delitto commesso all’estero, ma punibile in Italia ai sensi degli artt. 7-10 c.p. si procede alla rinnovazione del giudizio solo se vi è richiesta in tal senso da parte del Ministro della giustizia. Vi è inoltre il principio del ‘ne bis in idem’, in virtù del quale è vietato procedere una seconda volta, quando già vi sia stato un giudizio di condanna per il medesimo fatto, e la relativa pena sia stata scontata o sia in corso d’esecuzione. Riconoscimento di sentenze penali straniere : Il riconoscimento è subordinato, ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 12 c.p. all’esistenza di un trattato di estradizione con il Paese straniero che l’ha emessa, o, se tale trattato non esiste, alla richiesta del Ministro della giustizia. L’Unione Europea, ha emanato alcune Decisioni Quadro, finalizzate al reciproco riconoscimento, tra i Paesi membri, delle sentenze penali. Ai sensi dell’art. 10, d.lgs. 161/2010, una sentenza penale di condanna emessa da un Paese membro dell’Unione Europea viene eseguita in Italia con alcune !12 PARTE TERZA - IL REATO CAPITOLO IX - STRUTTURA GENERALE DEL DIRITTO Fu merito della Scuola classica aver avviato in modo scientifico lo studio del diritto penale attraverso l’analisi del reato quale ente giuridico astratto: si affermò, infatti, che il reato era composto di due elementi, una forza fisica, corrispondente all’elemento oggettivo, ed una forza psichica, corrispondente all’elemento soggettivo. Il modello analitico nello studio del reato aveva portato ad un eccesso di concettualismo dogmatico, spesso fine a se stesso, che faceva perdere di vista il significato unitario che la pluralità degli elementi del reato deve mantenere per la dichiarazione della responsabilità penale. Il modello precedente fu criticato da alcuni autori tedeschi che proposero di affrontare l’analisi del reato secondo un modello sintetico: l’interprete non può parcellizzare il reato in una molteplicità di elementi (e, magari, di sotto-elementi), perché perde di vista l’essenza unitaria del reato che il giudice può cogliere solo attraverso un approccio intuizionistico che consente di comprendere l’essenza del reato. Le due principali correnti dottrinali optano per la bipartizione o tripartizione del reato. Secondo la concezione bipartita, il reato si compone di due elementi: il fatto oggettivo e l’elemento soggettivo. Nel fatto oggettivo sono compresi tutti gli elementi oggettivi richiesti dalla singola fattispecie incriminatrice (cosiddetti elementi positivi del fatto): ad es. la sottrazione della cosa mobile altrui. La presenza di tali elementi non è però ancora sufficiente ad integrare gli estremi del reato, perché possono sussistere particolari situazioni in presenza delle quali il fatto è autorizzato o imposto dall’ordinamento giuridico. Si tratta delle cosiddette cause di giustificazione. Secondo la teoria bipartita le scriminanti costituiscono elementi oggettivi negativi del fatto che devono mancare affinché il reato sussiste (cosiddetti elementi negativi del fatto). Al fatto, composto di elementi positivi e dall’assenza di elementi negativi, si affianca l’elemento soggettivo. Secondo la teoria tripartita, gli elementi costitutivi del reato vanno ricondotti alle tre categorie del fatto tipico, dell’antigiuridicità e della colpevolezza: la prima include gli elementi oggettivi nel reato; nella seconda trovano collocazione le cause di giustificazione; la terza identifica gli elementi soggettivi che consentono di muovere al soggetto un rimprovero per il fatto commesso. La distinzione tra i due modelli teorici si riduce alla differente collocazione delle scriminanti che per la convenzione bipartita costituiscono elementi negativi del fatto e per la teoria tripartita fondano una categoria autonoma dell’antigiuridicità. A questi due principali modelli strutturali del reato si affianca la concezione quadripartita, che come la teoria tripartita utilizza le categorie del fatto tipico, dell’antigiuridicità e della colpevolezza, ma si affianca anche quella della punibilità, alla quale vanno ricondotte particolari situazioni: vi rientrano le cause sopravvenute di non punibilità. !15 Nel nostro sistema i reati si distinguono in delitti e contravvenzioni in relazione alla specie di pena per essi rispettivamente prevista: per i delitti, l’ergastolo, la reclusione e la multa; per le contravvenzioni, l’arresto e l’ammenda. La distinzione tra le due tipologie è di tipo formale, non è quindi possibile sostenere che i delitti sono più gravi delle contravvenzioni. !16 CAPITOLO X - SOGGETTI Il soggetto attivo del reato (autore) è chi realizza il fatto descritto dalla singola fattispecie incriminatrice. Soggetto attivo del reato può essere solo la persona umana, in quanto nel nostro ordinamento gli enti collettivi sono tradizionalmente esclusi dalla personalità. La maggior parte dei reati può essere commessa da chiunque: in alcuni casi, invece, è la stessa norma incriminatrice a richiedere la presenza di particolari qualifiche personali in capo al soggetto attivo: si contrappongono così i reati comuni ai reati propri. Ai sensi dell’art. 3 c.p. “la legge penale italiana obbliga tutti coloro che, cittadini o stranieri, si trovano sul territorio dello Stato, salve eccezioni stabilite dal diritto pubblico intento o dal diritto internazionale”. Il carattere obbligatorio della legge penale, vincola tutti i soggetti, eccezioni a cui fa riferimento l’art. 3 c.p. sono costituite dalle cosiddette immunità. Le immunità hanno, dunque, natura giuridica di cause personali di esenzioni della pena. Esse si distinguono in base alla fonte che le prevede in immunità di diritto pubblico interno o di diritto internazionale. Si distinguono, poi, in immunità funzionali ed extrafunzionali, a seconda che la non punibilità sia limitata ai reati commessi nell’esercizio delle funzioni o investa anche gli atti realizzati al di fuori delle funzioni. Un’altra importante distinzione è tra immunità sostanziali e processuali: le prime sono cause personali di non punibilità, mentre le seconde interessano il processo e consistono in ostacoli al proponimento dell’azione penale. Le immunità, poiché spezzano il legame tra reato e punibilità, sollevano la questione della loro compatibilità con il principio di uguaglianza: l’eccezione all’obbligatorietà della legge penale richiede una copertura costituzionale che consenta di giustificare l’esenzione della pena o gli ostacoli processuali. Il legislatore ordinario non può introdurre immunità che non rispondano ad esigenze di tutela ricavabili dal dettato costituzionale. Tra le immunità di diritto pubblico interno si segnalano quelle espressamente previste dalla Costituzione o da leggi costituzionali. Ai sensi dell’art. 90 Cost. il PdR non risponde per gli atti commessi nell’esercizio delle sue funzioni tranne che alto tradimento. I parlamentari godono di un’immunità sostanziale e di un’immunità processuale finalizzata a consentire l’esercizio delle funzioni parlamentari al di fuori di condizionamenti esterni. L’immunità sostanziale interessa le opinioni espresse e i voti dati nell’esercizio delle funzioni parlamentari. Quest’immunità interessa in particolare i reati che consistono nella manifestazione di un pensiero. !17 CAPITOLO XI - CONDOTTA DI REATO Il primo elemento del fatto tipico è costituito da una condotta umana che può essere attiva o omissiva. Nel primo caso il precetto è costituito da una norma di divieto, nel secondo caso da una norma di comando. Coscienza e volontà vanno riferite esclusivamente all’azione od omissione e non all’intero fatto di reato. L’elemento della coscienza e volontà dell’azione o omissione non sussiste in tre casi: 1. In presenza di una forza maggiore (l’art. 45 c.p. prevede che non è punibile chi ha commesso il fatto per forza maggiore). 2. In caso di costringimento fisico (l’art. 46 c.p. afferma che non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto, mediante violenza fisica, alla quale non poteva resistere o sottrarsi). 3. Quando manca la suitas, e quindi lo stato di incoscienza indipendentemente dalla volontà. Talvolta la fattispecie richiede che al momento della condotta sussistano determinati presupposti. Possono trattarsi di presupposti naturalistici e di presupposti giuridici. La nozione di evento naturalistico si identifica con le modificazioni del mondo esterno cagionate dalla condotta e considerate dalla legge come elemento costitutivo di fattispecie. La nozione di evento giuridico consiste nell’offesa dell’interesse tutelato dalla norma incriminatrice. A differenza dell’eccezione naturalistica, l’evento giuridico non è separabile dalla condotta. Possono essere distinte tipologie di reato in relazione alle particolari modalità della condotta: - Reati d’azione e reati d’omissione: nei primi è presente una condotta attiva che si estrinseca in un movimento muscolare realizzato attraverso uno o più atti, nei secondi il legislatore incrimina il ‘non agire’ del soggetto quando una norme lo impone. - Reati di pura condotta e reati d’evento: nei primi la fattispecie si esaurisce in una condotta attiva o omissiva, nei secondi nelle fattispecie è presente come elemento costitutivo un evento naturalistico. - Reati istantanei, reati permanenti e reati abituali: nei primi la condotta si realizza in un solo istante, nei secondi si richiede la protrazione nel tempo di una condotta, alla quale si accompagna il permanere dell’offesa del bene giuridico, nei terzi il fatto è descritto in modo da richiedere la reiterazione di una pluralità d’azioni che vengono considerate come una sola condotta. !20 CAPITOLO XII - REATI OMISSIVI La teoria dell'aliud agere, è una teoria secondo la quale il fondamento materiale dell'omissione consisterebbe nella condotta attiva tenuta dal soggetto quando avrebbe dovuto agire. I reati omissivi sono tradizionalmente distinti in reati propri ed impropri. Nei primi è incriminata la semplice condotta omissiva: si tratta pertanto di reati di pura condotta (come nei casi di omissione di soccorso), i secondi consistono nel mancato impedimento di un evento che il soggetto aveva l’obbligo giuridico di impedire, essi sono costituiti da un evento naturalistico. Nel nostro ordinamento penale l’omissione è rilevante solo in due casi: 1. Qualora l’omissione sia espressamente prevista come modalità della condotta in specifiche fattispecie incriminatrici; 2. Nell’applicazione dell’art. 40 cpv. c.p. Il reato omissivo proprio è un reato d’azione nel quale il fatto consiste nell’omettere la condotta imposta dal precetto (nell’omissione di soccorso è punito chi non presta soccorso o non avvisa l’autorità della persona in pericolo). Nel reato omissivo tra i requisiti del fatto va considerata la cosiddetta situazione tipica, ossia la situazione di fatto, descritta dalla norma incriminatrice, in presenza della quale sorge l’obbligo giuridico di attivarsi. Altro elemento del fatto tipico è costituito dalla condotta omissiva: nella descrizione del fatto il legislatore indica in quale direzione il soggetto debba agire per evitare di trasgredire il precetto. Un’omissione, per essere rilevante, richiede un termine di adempimento entro il quale deve essere tenuta la condotta doverosa. Infine è necessario che il soggetto abbia la possibilità d’agire. Il reato omissivo improprio consiste nel mancato impedimento di un evento che si aveva l’obbligo giuridico di impedire. La norma di riferimento è l’art 40 cpv. c.p.: essa opera come clausola di equivalenza, in quanto consente, a determinate condizioni, di equiparare la condotta omissiva a quella attiva. Il precetto del reato omissivo improprio è costituito da una norma comando, perché il soggetto risponde per aver omesso di impedire l’evento. A differenza del reato omissivo proprio, che è reato di pura condotta, il reato omissivo improprio è reato d’evento. Il reato omissivo improprio presenta problemi di struttura, in quanto sono indeterminati gli elementi che lo compongono, sollevando così dubbi sul rispetto dei principi di riserva di legge e di determinatezza. Ambito di applicazione della clausola di equivalenza : L’art. 40 cvp. c.p. si combina con le diverse fattispecie incriminatrici. La norma però, non chiarisce se la clausola di equivalenza sia !21 applicabile a tutte le fattispecie di reato. Innanzitutto, l’art. 40 cvd. c.p. è applicabile solo ai reati con evento naturalistico, in quanto inserita nella disciplina del rapporto di causalità. Vengono esclusi tutti i reati di pura condotta. La clausola di equivalenza non si applica altresì ai reati nei quali la condotta omissiva è già prevista dal legislatore. Una terza limitazione è costituita dall’inapplicabilità ai reati con condotta a tipizzazione necessariamente attiva. L’ambito di applicazione della clausola di equivalenza è allora limitata ai reati causali puri, nei quali il legislatore considera rilevante qualsiasi condotta che sia causale rispetto alla realizzazione dell’evento. Nella struttura del reato omissivo improprio svolge una funzione essenziale l’obbligo giuridico di impedire l’evento, perché solo per i titolari di tale dovere l’omissione è equiparata alla condotta attiva. I reati omissivi impropri sono dunque reati propri, in quanto presuppongono una particolare qualifica personale definita dalla titolarità dell’obbligo giuridico di impedire l’evento che deve preesistere alla situazione di pericolo per il bene. L’individuazione dell’obbligo giuridico di impedire l’evento non è risolta nell’art. 40 cvd. c.p. che si limita a richiedere un obbligo giuridico: è in tal modo esclusa la rilevanza di obblighi di natura meramente morale o di solidarietà sociale. Per individuare gli obblighi di impedire l’evento sono state proposte diverse teorie: - La teoria formale: si fonda sulle fonti formali dell’obbligo, la legge, il contratto e la precedente attività pericolosa. - La teoria funzionale (o sostanziale): individua i soggetti obbligati ad impedire l’evento attraverso la cosiddetta posizione di garanzia. Considerato che vi sono casi nei quali il titolare di un bene giuridico non è in grado di tutelarlo adeguatamente, l’ordinamento giuridico individua la figura di un garante in modo da offrire una tutela adeguata. È innanzitutto necessario che il garante sia titolare di obblighi impeditivi, perché il garante risponde del mancato impedimento dell’evento che aveva l’obbligo giuridico di impedire. È altresì necessario che alla titolarità dei poteri impeditivi si accompagni la capacità di esercitarli. La titolarità dei poteri impediti deve essere sempre precostituita rispetto alla situazione di pericolo in cui il bene viene a trovarsi: la posizione di garanzia non si costituisca con la situazione di pericolo, ma deve precederla. È, infine, necessario che la posizione di garanzia abbia carattere specifico, ossia che il garante sia tale in relazione a specifici beni di specifici soggetti: non sono ammissibili posizioni di garanzia a contenuto generale, sia perché ciò contrasterebbe con il principio di determinatezza sia perché il garante sarebbe gravato da un obbligo così ampio di impedire eventi lesivi da rendere inesigibile il suo adempimento. - La teoria mista: accoglie i principi elaborati dalla teoria funzionale, ma richiede al contempo una base legale delle posizioni di garanzia: è sempre necessaria, cioè, la presenza di una legge che preveda la posizione del garante originario, cui ancorare la responsabilità per il mancato !22 momento. (Es: un medico, a fronte della richiesta di un malato, pratica allo stesso un’iniezione letale, che procura il decesso del paziente, il quale sarebbe comunque morto di lì a poco a causa delle gravi condizioni di salute. In questo caso l’applicazione dell’eliminazione mentale dovrebbe condurre ad escludere il nesso di causalità, in quanto eliminando la condotta non viene meno l’evento morte.) Le obiezioni della causalità alternativa ipotetica non colgono nel segno, perché impostano l’accertamento del nesso di causalità partendo da una nozione di evento in astratto, mentre, un punto fondamentale nell’accertamento del nesso causale, sta, invece, proprio nel prendere come secondo termine del rapporto l’evento in concreto, così come si è verificato nella particolare situazione di vita (evento hic et nunc). Critiche alla teoria condizionalistica sono derivate anche dalla cosiddetta causalità addizionale: quando l’evento deriva da azioni congiunte (si pensi alla contemporanea azione omicida di due condotte), tali che, se anche una venisse meno, non verrebbe meno l’evento, il procedimento di eliminazione mentale dovrebbe portare ad escludere il nesso di causalità. Alla causalità addizionale si è però risposto che il procedimento di eliminazione mentale va verificato rispetto al complesso dei fattori causali e non alle singole condotte. La teoria condizionalistica è parsa a buona parte della dottrina incapace di esprimere la specificità che il nesso causale pone in ambito penale: poiché in questo settore dell’ordinamento si pone un problema di accertamento della responsabilità penale, la causalità non potrebbe essere risolta in termini naturalistici, come propone la teoria condizionalistica, ma dovrebbe essere affrontata come problema d’imputazione di un evento ai fini della responsabilità penale: ossia l’evento che, da un punto di vista puramente naturalistico, è riconducibile ad una condotta umana (la condotta è dunque condizione dell’evento) non necessariamente deve essere imputato all’autore della condotta ai fini della responsabilità penale. Questa scissione tra causalità naturalistica ed imputazione giuridica sta alla base di alcune teorie (causalità adeguata, causalità umana, imputazione oggettiva dell’evento) che non costituiscono modelli alternativi alla causalità condizionalistica, ma si propongono come correttivi della stessa, in quanto restringono l’imputazione di un evento ad una condotta di cui va comunque accertato il carattere di condicio sine qua non dell’evento. La teoria della causalità adeguata accoglie i principi della teoria condizionalistica secondo i quali la condotta umana deve costituire condizione dell’evento, ma limita la responsabilità penale esclusivamente alla condotte che si presentano come idonee a produrlo: la valutazione d’idoneità va effettuata secondo un giudizio ex ante, ossia accertando se, al momento della condotta, questa costituiva, in base alle massime d’esperienza, un fattore probabile di determinazione dell’evento. Le esigenze di limitare la responsabilità penale, alle quali intese venire incontro la teoria della causalità adeguata, possono essere meglio soddisfatte sul terreno dell’elemento soggettivo, che deve essere sempre accertato con giudizio ex ante, al momento della condotta: rispetto agli effetti atipici della !25 condotta sarà escluso il dolo, salvo che il soggetto abbia intenzionalmente sfruttato tali effetti atipici per produrre l’evento; quanto all’accertamento della colpa, il problema dell’atipicità degli effetti della condotta deve essere più correttamente risolto in sede di giudizio di prevedibilità dell’evento, alla luce delle leggi scientifiche e delle massime d’esperienza disponibili al momento in cui il soggetto ha agito, o avrebbe dovuto agire. La teoria della causalità umana afferma che la causalità delle condotte dell’uomo presenta proprie specificità, in quanto l’uomo, in forza dei propri poteri conoscitivi e volitivi, ha una sfera di signoria che gli consente di dominare una serie di circostanze nelle quali si inserisce la sua condotta: i fattori che rientrano in questa sfera di signoria possono essere considerati causati dall’uomo, perché dominabili dallo stesso; i fattori che, invece, fuoriescono da questa sfera non possono essere imputati al soggetto, perché si tratta di fattori eccezionali, del tutto imprevedibili. Pertanto, la sussistenza del rapporto di causalità richiede due elementi, uno positivo ed uno negativo: è necessario anzitutto che la condotta costituisca condicio sine qua non dell’evento mediante giudizio controfattuale, secondo l’impostazione data dalla teoria condizionalistica; è però necessario altresì che non sia intervenuto un fattore eccezionale il quale interrompe il nesso di causalità. La teoria dell’imputazione oggettiva dell’evento afferma che affinché un evento possa essere imputato ad una condotta sono necessari tre requisiti: 1. La condotta deve essere condizione dell’evento; 2. La condotta deve aver creato un pericolo riprovato dall’ordinamento. 3. L’evento deve essere la realizzazione del rischio non consentito. La teoria dell’imputazione oggettiva sposta sul piano oggettivo la soluzione di un problema d’imputazione che la maggior parte della dottrina risolve sul piano dell’elemento soggettivo. Ai fini dell’affermazione della responsabilità penale non basta accertare il nesso di causalità, ma è necessaria anche la presenza di una componente psichica, in termini di dolo o colpa. I principi della teoria condizionalistica costituiscono la base del rapporto di causalità giuridica: anche le teorie che a questa si sono affiancate l’hanno comunque accolta, apportando dei limiti all’imputazione penale. Torniamo ancora alla teoria condizionalistica. Il procedimento di eliminazione mentale, di cui la stessa si avvale, funziona nella misura in cui si conosca la legge di copertura che spiega che ad un certo fattore ne segue un altro. L’accertamento del nesso di causalità si complica in presenza di eventi di natura multifattoriale. È quindi necessario che il rapporto di causalità sia spiegato facendo riferimento alle leggi scientifiche che giustificano la causalità di un certo fattore rispetto ad un altro (cosiddetta sussunzione sotto leggi scientifiche di copertura). !26 Il giudice deve passare da un metodo individualizzante ad un metodo generalizzante nella spiegazione del nesso causale: deve necessariamente partire dal caso concreto, ma questo deve essere ridescritto (cosiddetta descrizione dell’evento), astraendo da talune delle connotazioni della vicenda concreta e dando rilevanza alle sue modalità tipiche e ripetibili rilevanti ai sensi della legge scientifica secondo la quale a fattori generali del tipo A, analogo al fattore che in concreto si è verificato (a), segue un evento generale di tipo B, analogo a quello che in concreto si è verificato (b). Il giudice non crea, dunque, le leggi scientifiche per spiegare il rapporto tra avvenimenti, ma è fruitore di leggi scientifiche, in modo da garantire il massimo di certezza nell’accertamento del nesso di causalità e assicurarne la controllabilità. Talvolta le leggi sono universali, ossia affermano che ad un fattore segue nel 100% dei casi un certo evento. Tuttavia, le leggi scientifiche sono, nella maggior parte dei casi, statistiche, perché consentono di affermare che ad A segue B solo in una percentuale di casi. Oltre che alle leggi scientifiche, il giudice può ricorrere alle generalizzate regole di esperienza, ossia alle massime d’esperienza che stabiliscono una connessione tra avvenimenti secondo attendibili risultati di generalizzazioni del senso comune. Il giudice deve altresì accettare l’esistenza di cosiddette assunzioni tacite, ossia di principi che si assumono per dimostrati o alcuni passaggi causali che la scienza non riesce a dimostrare. Un’ultima importante notazione: agli effetti del nesso di causalità, il giudice deve considerare sempre lo stato delle conoscenze presenti al momento del giudizio, perché si tratta di accertare un elemento di natura oggettiva ed il giudizio di causalità è sempre ex post. Un ragionamento diverso, deve essere sviluppato dal giudice quando, accertato il nesso causale, si chiede se l’autore abbia agito con colpa: qui la prevedibilità ed evitabilità sono accertate con giudizio ex ante, facendo riferimento alle conoscenze scientifiche disponibili al momento della condotta. I problemi sollevati dal rapporto di causalità si amplificano in presenza di una condotta omissiva: quando il soggetto omette di intervenire, gli eventi si sviluppano secondo un decorso naturale e l’evento è l’effetto di una serie di fattori tra i quali non rientra la condotta omissiva; solo dopo aver accertato l’efficacia causale di questi fattori ci si potrà interrogare sull’omissione della condotta doverosa. Si spiega così il dettato dell’art. 40 cvp. c.p., secondo il quale non impedire un evento che si aveva l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo. Si sostiene che la causalità omissiva ha natura ipotetico-normativa. Ha anzitutto natura normativa, poiché è la legge a considerare equivalente alla condotta attiva quella di omesso impedimento dell’evento da parte di chi aveva l’obbligo giuridico di impedirlo. Ha altresì natura ipotetica, in quanto l’accertamento del nesso causale in presenza di una condotta omissiva richiede un ragionamento di tipo ipotetico, anzi doppiamente ipotetico: è necessario individuare quale azione doverosa il titolare di garanzia avrebbe dovuto tenere (primo !27 d’offensività). Ciò che, però, preme mettere in evidenza è che entrambi gli orientamenti sostengono la necessità di garantire il rispetto del principio di offensività in concreto: il reato, per essere punibile, richiede sempre che ne si accerti la necessaria offensività. La Corte costituzionale riconosce la stretta connessione tra offensività in astratto ed offensività in concreto. Così il principio d’offensività opera su due piani, rispettivamente, della previsione normativa, sotto forma di precetto rivolto al legislatore di prevedere fattispecie che esprimano in astratto un contenuto lesivo, o comunque la messa in pericolo, di un bene o interesse oggetto della tutela penale (offensività in astratto), e dell’applicazione giurisprudenziale (offensività in concreto), quale criterio interpretativo-applicativo affidato al giudice, tenuto ad accertare che il fatto di reato abbia effettivamente leso o messo in pericolo il bene o l’interesse tutelato. Il principio d’offensività in concreto consente di escludere la rilevanza penale del fatto nei casi in cui sia del tutto assente l’offesa all’interesse protetto. Può accadere che in concreto il fatto sia offensivo del bene giuridico tutelato, sebbene l’offesa arrecata non sia così significativa. Si tratta dei cosiddetti reati bagatellari in concreto (o reati bagatellari impropri), dove la scarsa significatività non sta nel tipo di bene offeso, come nei cosiddetti reati bagatellari in astratto (o reati bagatellari propri), nei quali non si giustifica l’intervento del diritto penale per assenza di meritevolezza del bene da tutelare, ma nell’esiguità dell’offesa in concreto arrecata ad un interesse ritenuto meritevole di tutela. L’offesa al bene giuridico non costituisce un elemento rigido che c’è o non c’è, con la conseguenza di giustificare l’intervento penale nel primo caso e di escluderlo nel secondo. L’offesa è un entità graduale, tanto che si parla di gradualità del reato. Dobbiamo allora chiederci se l’offesa all’interesse tutelato, anche se scarsamente significativa, giustifichi comunque l’intervento penale. L’offesa al bene giuridico è assicurata sia dalla lesione che dalla messa in pericolo del bene giuridico tutelato. È possibile quindi distinguere tra: - Reati di danno, nei quali il bene giuridico è, in tutto o in parte, pregiudicato nella sua consistenza. - Reati di pericolo, nei quali è presente solo una probabilità di lesione al bene giuridico tutelato. I reati di pericolo vengono tradizionalmente distinti in due categorie: - Reati di pericolo in concreto, nei quali il pericolo è elemento costitutivo espresso di fattispecie. Sebbene la dottrina abbia a lungo discusso sulla nozione di pericolo, prevale l’orientamento che lo identifica con un giudizio di relazione tra una certa situazione ed un evento futuro dannoso da prevenire: non basta a qualificare il pericolo un giudizio in termini di mera possibilità di verificazione dell’evento futuro, ma si richiede una più consistente probabilità (o rilevante !30 possibilità) che tale evento si realizzi. Nell’accertamento del pericolo è fondamentale distinguere il momento, la base e il metro di giudizio. Il momento di giudizio indica il tempo nel quale deve essere compiuta la valutazione di probabilità dell’evento pregiudizievole. La base del giudizio indica gli elementi della situazione concreta dei quali il giudice deve tener conto per esprimere la prognosi: secondo il giudizio a base parziale si tiene conto delle condizioni di fatto conoscibili da una persona avveduta posta nelle medesime condizioni, integrate da eventuali conoscenze specifiche che la stessa abbia; il giudizio a base totale prende invece in considerazione la totalità delle circostanze del caso concreto presenti al momento del giudizio. Infine il metro del giudizio indica i parametri che il giudice deve utilizzare nell’accertamento del pericolo: si tratta delle stesse leggi scientifiche di copertura e regole di esperienza che si utilizzano nell’accertamento del nesso di causalità. - Reati di pericolo in astratto, nei quali il pericolo non compare come elemento costitutivo di fattispecie, ma si limita a costituire la ratio della norma, ossia il legislatore descrive un fatto che, ad una valutazione astratta, mette in pericolo il bene giuridico tutelato. A differenza dei reati di pericolo in concreto, queste fattispecie sono più precise, in quanto la situazione pericolosa è descritta dal legislatore; possono però, essere problematiche in relazione al rispetto del principio d’offensività, laddove il fatto concreto, pur riproducendo gli elementi della fattispecie astratta, non costituisca alcun pericolo per il bene tutelato, ossia la valutazione di pericolosità astrattamente fatta dal legislatore, non può trovare corrispondenza nel fatto concreto. !31 CAPITOLO XV - CAUSE DI GIUSTIFICAZIONE Non sempre la realizzazione di un fatto corrispondente alla fattispecie di un reato comporta responsabilità penale per il comportamento posto in essere. In alcune situazioni un fatto, che normalmente costituirebbe un illecito penale, non è considerato tale in quanto giustificato dall’ordinamento. È affermazione condivisa che le cause di giustificazione (dette anche scriminanti) siano collegabili a norme che autorizzano o addirittura impongono la realizzazione del fatto che normalmente costituirebbe reato. Le cause di giustificazione sono considerate, secondo un’impostazione teorica minoritaria, elementi negativi del fatto: la loro presenza fa sì che il fatto non possa essere considerato tale. L’opinione prevalente le considera invece cause di esclusione dell’antigiuridicità. È fondamentale, peraltro, tenere ben distinte le scriminanti dalle mere cause di non punibilità. Queste ultime sono situazioni nelle quali il legislatore stabilisce la non punibilità di un soggetto per semplici ragioni di opportunità, mentre il fondamento delle cause di giustificazione risponde a criteri di natura sostanziale imperniati sul bilanciamento degli interessi contrapposti. Sul piano formale si può fondare larga parte delle cause di giustificazione sul principio di non contraddizione, come emerge in tema di esercizio del diritto o adempimento del dovere previsti dall’art 51 c.p.: se una norma autorizza o addirittura impone una certa condotta non è possibile ammettere che essa possa dare luogo contraddittoriamente ad una responsabilità penale. Sul piano sostanziale alla base delle principali cause di giustificazione è presente una valutazione dell’ordinamento che risolve ipotesi di conflitto tra interessi contrapposti. Così nella legittima difesa si privilegia, pur entro certi limiti, l’interesse di chi si difende da un’ingiusta aggressione con correlativo sacrificio del bene dell’aggressore colpito dalla reazione; nell’uso legittimo delle armi, art. 53 c.p., si attenua la tutela di chi realizza una violenza o resistenza alla pubblica autorità. La disciplina delle cause di giustificazione non è delineata in maniera organica dal codice penale. Essa è desumibile in parte da principi generali, in parte da disposizioni collocate in settori diversi dal codice. In relazione ai principi generali va sottolineato che le cause di giustificazione devono rispettare il principio di riserva di legge, nei limiti in cui esso opera per gli altri elementi costitutivi del reato. Quindi né la legge regionale né atti dell’esecutivo possono costruire ex novo una causa di giustificazione o modificare l’assetto delle scriminanti disegnate dal legislatore statale. Ciò non esclude che fonti non statali o infralegislative possano influenzare l’ambito di applicazione di quelle cause di giustificazione a struttura aperta. Un profilo importante di disciplina è costituito dalle disposizioni in tema di errore. L’art. 59 c.p. comma 4 si riferisce al cosiddetto errore di fatto, una non corretta percezione della realtà esterna che genera la convinzione in chi agisce di trovarsi in una situazione che consentirebbe, se !32 La scriminante dell’adempimento del dovere è classica espressione del principio di non contraddizione. L’adempimento del dovere può derivare da: - Una norma giuridica; - Un’ordine dell’autorità. Anche il riconoscimento esplicito dell’efficacia scriminante dell’esercizio di un diritto trova giustificazione alla luce del principio di non contraddizione. Si ritiene che l’art. 51 c.p. faccia riferimento non solo ai diritti soggetti in senso stretto ma a qualsiasi situazione giuridica soggettiva che consenta ad una persona di realizzare un comportamento che astrattamente corrisponde ad una fattispecie incriminatrice. Occorre interpretare correttamente la norma che riconosce il diritto o la facoltà il cui esercizio ha efficacia scriminante: la condotta giustificabile è solo quella corrispondente al diritto o alla facoltà legittima e non può allargarsi a condotte strumentali all’esercizio del diritto. In molti casi occorre identificare i limiti entro cui un diritto, pur proclamato in generale, deve essere esercitato; ciò comporta talvolta la ricerca di un punto di equilibrio tra diritti in conflitto. Tra le ipotesi ambigue in cui talvolta si è parlato di esercizio del diritto, in particolare del diritto di proprietà, si colloca il problema degli offendicula, cioè quelle forme di difesa passiva che possono andare dalla predisposizione di reticolati con energia elettrica al più banale inserimento di cocci di vetro appuntiti situati alla sommità di muri perimetrali. In realtà non si può sostenere che sia espressione dell’esercizio di diritto di proprietà cagionare conseguenze lesive nei confronti di ipotetici aggressori, in quanto le norme in materia di proprietà non autorizzano esplicitamente tali casi. Gli offendicula, devono, invece, esse ricompresi nell’ambito dell’applicazione della scriminante della legittima difesa alla luce del principio di proporzione o della necessità. La causa di giustificazione storicamente più collaudata ed universalmente riconosciuta è la difesa legittima. L’art. 52, comma 1 c.p. delinea la legittima difesa classica: “non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio o altrui contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa”. Nel 2006 il legislatore ha ritenuto di affiancare ad essa una seconda ipotesi: la cosiddetta legittima difesa domestica o allargata. La legittima difesa ordinaria presenta una serie di requisiti attinenti sia al pericolo di offesa sia ai limiti della difesa. Il pericolo deve essere attuale, nel senso che l’offesa deve essere in corso di attenuazione o quantomeno imminente. Il pericolo deve investire un diritto proprio o altrui. Di regola si tratta del pericolo di lesione di un vero e proprio diritto soggettivo. La difesa deve essere necessaria: se è possibile sottrarsi al pericolo senza alcun rischio e con modalità diverse dalla commissione di un reato nei confronti dell’aggressore deve essere privilegiata tale scelta. Infine, la !35 reazione deve essere proporzionata. Il rapporto di proporzione deve essere instaurato tra il bene aggredito e quello pregiudicato dalla reazione. Proprio in relazione al requisito della proporzione il legislatore ha ritenuto di intervenire nel 2006 introducendo due nuovi commi nell’art. 52 c.p. L’intento dichiarato era quello di mettere al riparo da un’incriminazione chi si fosse difeso contro un’aggressore all’interno della propria abitazione. Il codice penale italiano dedica una norma specifica all’uso dei mezzi di coazione da parte dei pubblici ufficiali. L’art. 53 c.p. delinea, una scriminante propria: i soggetti non qualificati possono fruirne solo alle condizioni previste dal comma 2 (persona che, legalmente richiesta dal pubblico ufficiale, gli presti assistenza). Benché la norma si riferisca in generale ai pubblici ufficiali, è opinione consolidata che la causa di giustificazione si applichi solo ai pubblici ufficiali ai quali siano esplicitamente conferiti poteri e strumenti di coazione, sinteticamente individuati con l’espressione ‘forza pubblica’ (polizia, carabinieri, guardia di finanza, corpo forestale dello Stato, polizie locali). Gli strumenti utilizzabili sono le armi in dotazione e quegli altri mezzi di coazione fisica legittimamente utilizzabili dai predetti soggetti in base alla disciplina dei corpi di appartenenza. L’uso di detti strumenti è legittimo in presenza di alcuni requisiti: - Al fine di adempiere ad un dovere del proprio ufficio; - La necessità di respingere una violenza o di vincere una resistenza all’Autorità per adempiere alla funzione, o, in alternativa, per impedire la consumazione di alcuni reati. !36 CAPITOLO XVI - PRINCIPIO DI COLPEVOLEZZA La riconducibilità soggettiva e la rimproverabilità del fatto al suo autore sono imposti, nel nostro sistema penale, dal principio di colpevolezza. Tale principio impedisce, in primo luogo, la responsabilità penale per fatto altrui. Inoltre, impone di punire solo quando il soggetto abbia agito con dolo o colpa, cioè quando il fatto sia concretamente rimproverabile. Ne deriva che vanno decisamente respinte tutte quelle tendenze a declinare il giudizio di colpevolezza non sul fatto storico, ma sulla personalità dell’autore, intesa come colpa per il carattere - incapacità di controllare le pulsioni aggressive, che rendono “malvagio” uomo - che per la condotta di vita. In epoca meno recente era diffusa, tra gli studiosi del diritto penale, una concezione cosiddetta psicologica della colpevolezza, intesa quale relazione tra fatto e autore. Si è, pertanto, progressivamente imposta una diversa idea di colpevolezza, cosiddetta normativa, quale mero giudizio di rimproverabilità per il fatto, che impone di non realizzare, volontariamente (dolo) o per violazione di regole cautelari (colpa), fatti vietati. In ottica retributiva la pena veniva intesa proprio come corrispettivo della colpevolezza, in una prospettiva che rischiava di confondere diritto penale e morale, proponendosi, appunto di ricompensare, con la sofferenza della pena, il male commesso. La progressiva crisi dell'idea retributiva della pena, con il conseguente affermarsi del paradigma preventivo ha assegnato diversa funzione alla colpevolezza: la necessità di prevenire (attraverso la minaccia di piena) il compimento di gravi fatti offensivi di beni o interessi dei cittadini della collettività, non può mai superare il limite del concreto disvalore del fatto, anche sotto il profilo della sua rimproverabilità. Esiste un aggancio costituzionale, per il principio di colpevolezza? Nel rispondere al quesito la nostra Corte costituzionale, in assenza di una previsione esplicita al riguardo, ha elaborato un articolato e complesso ragionamento, sopratutto attraverso due fondamentali sentenze, entrambe del 1988. La prima, è stata emessa con riferimento al principio originariamente contenuto nell’art. 5 c.p. in materia di inescusabilità dell’ignoranza della legge penale. La Corte ha esplicitamente attribuito rango costituzionale al principio di colpevolezza, con riferimento all’art. 27, commi 1 e 3, Cost. La piena affermazione del principio di colpevolezza può essere colta proprio attraverso una lettura del comma 1, alla luce della finalità rieducativa della pena: collegando il comma 1 al comma 3 dell’art.27, agevolmente si scorge che non avrebbe senso la rieducazione di chi, non essendo almeno in colpa, rispetto al fatto, non ha certo bisogno di essere rieducato. La fondamentale pronuncia della Corte conclude nel senso che, alla luce il principe di colpevolezza, è necessaria quanto meno la colpa, con riferimento agli elementi più significativi della fattispecie incriminatrice. !37 tende, invece, a prevalere una diversa teoria, detta della volontà, secondo la quale - in maniere forse più aderente al reale atteggiamento psicologico di chi agisce con dolo - le conseguenze dei comportamenti umani, sia quando intenzionalmente prodotte, che quando rappresentate come certe, o anche solo possibili, ma delle quali si accetta il rischio della verificazione, sono accettate dalla volontà umana, e pertanto, volute. Se è vero che tutti gli elementi del fatto devono essere oggetto di volizione, non si può dimenticare che il momento nel quale valutare la presenza del dolo è proprio la condotta, o meglio il momento nel quale l’agente compie l’ultimo atto di dominio sullo svolgimento del fatto. Si dice, in tal senso, che il dolo deve essere concomitante alla condotta. Non rileva pertanto, il dolo antecedente (es: tizio vuole uccidere la fidanzata e la sta conducendo, in auto, sul luogo del delitto programmato, ma durante il percorso, a causa della velocità eccessiva, esce di strada e la vittima muore per le ferite riportate nell’incidente; omicidio colposo e non doloso), e né può rilevare il dolo susseguente (es: se caio porta distrattamente a casa un ombrello molto simile al suo, prelevato dal portaombrelli del ristorante nel quale ha cenato, e giunto a casa, accortosi dell’errore, si tiene, con soddisfazione, l’oggetto altrui, che è in miglior stato del suo; nessun reato, perché manca il dolo al momento dell’impossessamento - il furto, infatti, non è punito a titolo di colpa). Infine, non rileva il cosiddetto dolus generalis, cioè quella situazione nella quale l’agente si rappresenta e vuole l’evento naturalistico, ma in termini astratti e generici, senza che l’atteggiamento psicologico sia specificatamente rivolto a tutti gli elementi concreti del fatto storico. (es: se sempronio ferisce a bastonate la vittima e poi, credendola morta, le da fuoco, ma la polizia accerta che essa è morta soffocata dal fumo delle fiamme; non omicidio doloso e distruzione di cadavere, perché manca il dolo al momento nel quale si cagiona la morte, ma tentato omicidio e omicidio colposo). Con riferimento alla condotta attiva, occorre distinguere tra: - Reati a forma libera, nei quali il momento volitivo del dolo deve investire l’ultimo atto, tra quelli che causano l’evento morte, che sia sotto il dominio diretto dell’agente. - Reati a forma vincolata, occorre che l’agente voglia proprio la particolare modalità del fatto descritta dalla fattispecie incriminatrice. Si parla di dolo generico, quando la rappresentazione e la volontà di commettere un fatto coincide in tutti i suoi elementi con una fattispecie incriminatrice, si parla invece di dolo specifico quando tra gli elementi di fattispecie, compare anche una particolare finalità che deve muovere l’agente. Il dolo si dice intenzionale quando il soggetto agisce perché intende realizzare la condotta o causare l’evento (quest’intenzionalità, non deve essere confusa con il movente, che costituisce, invece, la ragione interiore, intima, la motivazione personale che spinge il reo a realizzare il delitto, per conseguire un qualche suo scopo). !40 Nel dolo diretto, il soggetto pur non avendo di mira come finalità primaria la realizzazione del fatto vietato dalla norma penale, agisce con la consapevole certezza di realizzarlo. Nel dolo eventuale, l’agente si configura come possibile (non come certo o altamente probabile) il verificarsi di un reato, e ciò nonostante agisce anche a costo di realizzarlo. Ai sensi dell’art. 133 c.p. l’intensità del dolo è uno degli elementi del quale il giudice deve tener conto, per graduare la pena tra il minimo e il massimo previsti a livello edittale. Deve quindi essere possibile una sorta di graduazione del dolo, in termini di maggiore o minore gravità. Con riferimento al momento intellettivo, costituiranno elementi di maggiore intensità un elevato grado di certezza della rappresentazione del fatto e la più spiccata coscienza dell’offesa all’interesse tutelato. Correlativamente, daranno conto di minore gravità il dubbio su alcuni degli elementi costitutivi del fatto, o la mancanza di consapevolezza di offendere un interesse protetto. Sotto il profilo volitivo, oltre alla distinzione tra dolo intenzionale e dolo diretto ed eventuale, acquista rilevanza la distinzione tra: - Dolo d’impeto, il soggetto agisce in un momento assai prossimo a quello nel quale ha preso la decisione. - Dolo di proposito, tra determinazione ed esecuzione trascorre un certo lasso di tempo, che dà conto ad un maggiore consolidamento del proposito criminoso e quindi di una superiore intensità del dolo. !41 CAPITOLO XVIII - COLPA La seconda forma di responsabilità colpevole è costituita dalla colpa, cioè dalla causazione di un fatto vietato dalla legge penale per violazione di regole cautelari. Proprio per questa sua natura, l’illecito colposo assume gravità minore, rispetto a quello doloso. La regola generale dettata per i delitti colposi è l’art. 42 c.p. che prevede che la punibilità a titolo di colpa necessiti di un’esplicita previsione normativa, in assenza della quale il fatto potrà essere sanzionato solo se commesso con dolo. L’art. 43 c.p. definisce come colposo il delitto “quando l’evento, anche se preveduto, non è voluto dall’agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline”. La definizione di cui all’art. 43 c.p. deve essere integrata con le norme che, in materia di errore di fatto (art. 47 c.p.), o in materia di cause di giustificazione (artt. 55 e 59 c.p.), consentono di affermare che la definizione di colpa deve abbracciare tutti gli elementi costitutivi del fatto tipico. Dalla definizione dell’art. 43 c.p. è possibile individuare tre espliciti elementi costitutivi della colpa: - L’elemento negativo della mancanza di volontà del fatto; - L’elemento oggettivo dell’inosservanza di regole cautelari; - L’evitabilità dell’evento. - Infine, un quarto elemento, ricavato per via interpretativa da parte della dottrina, è dato dalla cosiddetta doppia misura della colpa, della sua misura soggettiva, cioè dell’elemento della esigibilità del rispetto delle regole cautelari nel caso concreto. Questo primo elemento, esplicitamente richiesto dall’art. 43, c.p. consente di distinguere la colpa dal dolo. La mancanza di volontà non va limitata all’evento del delitto ma può concernere qualsiasi altro elemento del fatto tipico. La mancanza di volontà del fatto non esclude, però, che l’agente del delitto colposo, possa prevedere l’evento. L’art. 43 c.p. distingue due diverse ipotesi, a seconda che si tratti di imprudenza, imperizia, negligenza, oppure violazione di leggi, ordini, regolamenti e discipline. Nel primo caso (cosiddetta colpa generica) vi è una violazione di norme di prudenza, perizia ed attenzione non scritte, ma derivanti da fonti sociali delle quali l’ordinamento pretende il rispetto da parte di tutti i cittadini. La seconda ipotesi (cosiddetta colpa specifica) attiene invece alle regole cautelari, individuate e scritte una volta per tutte. !42 nell’esercizio del potere discrezionale del giudice. In particolare, il giudice dovrà tenere conto del divario tra la condotta che sarebbe stata imposta dalla regola cautelare ed il concreto comportamento tenuto dall’agente. Oltre a questa prima valutazione di carattere oggettivo si dovrà poi, ulteriormente prendere in considerazione la misura soggettiva della colpa. Ai sensi dell’art. 45 c.p. non è punibile chi ha commesso il fatto per caso fortuito, cioè un accadimento essenziale ed assolutamente imprevedibile, che viene ad interferire con la condotta dell’agente. !45 CAPITOLO XIX - DISCIPLINA DELL’ERRORE Nell’ambito della colpevolezza assume rilievo la tematica dell’errore e dell’ignoranza che consiste in una falsata percezione della realtà o della normativa vigente. In primo luogo, viene in rilievo l’errore sul fatto. L’errore sul fatto, a sua volta può essere di fatto e di diritto. Si pensi al delitto di furto, che punisce chi si appropria di una cosa mobile altrui. L’agente può credere, per errore (sul fatto) che la cosa sia, in realtà, di sua proprietà, per esempio perché porta via dal guardaroba di un ristorante un soprabito del tutto simile al suo, che invece appartiene ad un altro commensale (errore di fatto; ossia erronea percezione della realtà). Diverso dall’errore sul fatto è l’errore sul diritto, che verte sulla fattispecie penale, oppure su una norma extrapenale. Il caso di colui che si appropri di una cosa altrui molto simile alla sua, credendola erroneamente propria è disciplinato dall’art. 47, comma 1, c.p. in virtù del quale “l’errore sul fatto che costituisce reato esclude la punibilità dell’agente”. La ragione di tale esclusione è evidente: l’errore consiste in una falsa rappresentazione della realtà, che incide sul processo di formazione della volontà, e pertanto esclude il dolo. Prosegue, infatti, la norma in questione, disponendo che “se si tratta di errore determinato da colpa, la punibilità non è esclusa se il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo”. Diverso, ovviamente, il caso di un delitto per il quale non è prevista la punibilità a titolo di colpa. Pertanto, colui che si appropri della cosa altrui, simile alla sua, ritenendola propria, non sarà punito, neppure se il giudice dovesse ritenere che la falsa rappresentazione della realtà sia dovuta a colpa. L’errore sul fatto, oltre che da una falsata percezione della realtà, può essere frutto di una non corretta interpretazione (o conoscenza) di una norma di legge extrapenale. Ai sensi del comma 3 dell’art. 47 c.p. questo tipo di errore esclude la punibilità. L’errore sulla legge extrapenale potrà riguardare tanto gli elementi normativi della fattispecie incriminatrice, quanto quelli di natura normativa etico-sociale. La disciplina dettata dall’art. 47 c.p. prevede, poi, un’ultima ipotesi, relativa al cosiddetto errore sugli elementi specializzanti o differenziali tra fattispecie incriminatrici. Il comma 2, infatti, dispone che l’errore sul fatto - che, ai sensi del comma 1, esclude la punibilità dell’agente - non esclude la punibilità per un reato diverso. In concreto, si possono prospettare tra diverse situazioni: 1. Se l’agente ignora, per errore, l’esistenza di un elemento della fattispecie concreta che rende diversa e più diversa e più grave l’ipotesi delittuosa, deve applicarsi l’ipotesi meno grave. (cosiddetto errore su un elemento aggravante o elevante). !46 2. Ugualmente poco problematica la situazione relativa all’ignoranza di un elemento che rende meno grave la fattispecie. 3. Molto più complessa, invece, l’ipotesi nella quale l’agente crede, sempre per errore, che nella situazione concreta sia integrato un elemento che degrada la punibilità, che, cioè, porterebbe a realizzare una meno grave fattispecie di reato. Anche in assenza di una specifica previsione al riguardo, dovrebbe valere la regola dettata dal codice all’art. 59, comma 4, c.p. in materia di erronea supposizione di una causa di esclusione della pena. Solo tale soluzione, infatti, consente di rispettare appieno il principio di colpevolezza, dal momento che tiene nel debito conto l’esigenza di punire in base ad un rimprovero del disvalore del fatto che sia proporzionato al concreto atteggiamento doloso dell’agente. Può avvenire che l’errore sul fatto sia frutto dell’inganno di una terza persona. In questo caso, all’autore materiale del falso si applica l’art. 47 c.p. (egli, in sostanza, non potrà essere punito) ma, ai sensi dell’art. 48 c.p. “del fatto commesso dalla persona ingannata risponde chi l’ha determinata a commetterlo”. Per inganno si deve intendere qualsiasi condotta che abbia concretamente tratto in errore l’autore materiale del reato: una menzogna, la produzione di un documento falso, o qualsiasi altro artificio. L’art. 48 c.p. rinvia alla disciplina di cui all’art. 47 c.p. nel suo insieme; pertanto, qualora il soggetto ingannato abbia tenuto la condotta criminosa per essere stato tratto in inganno, ma gli si possa rimproverare di non aver utilizzato tutta la diligenza che l’ordinamento impone ai soggetti che svolgono quel tipo di attività, egli risponderà del fatto a titolo di colpa, sempre che tale imputazione soggettiva sia prevista per quel delitto. Ai sensi dell’art. 49, comma 1 c.p. “non è punibile chi commette un fatto non costituente reato, nella supposizione erronea che esso costituisca reato”. L’art. 49, comma 1, c.p. descrive un errore del soggetto ma speculare ed inverso a quello di cui agli artt. 5 e 47, comma 1 e 3, c.p.: il soggetto, infatti, non ritiene, per errore che manchi un elemento del fatto tipico, o una norma giuridica che rende penalmente rilevante il suo comportamento; al contrario, l’erronea rappresentazione attiene proprio alla presunta putativa commissione di un fatto di reato. Come detto a proposito dell’oggetto del dolo, la coscienza dell’illiceità penale del fatto non deve essere oggetto di rappresentazione e volizione da parte dell’agente. Ma quale disciplina detta, il nostro codice, nei confronti di un soggetto che ignora l’esistenza di una legge penale, o cade in errore sui limiti o sulla corretta interpretazione di una fattispecie incriminatrice? L’originaria formulazione dell’art. 5 c.p. prevedeva un’assoluta ed invincibile presunzione di conoscenza (o meglio, conoscibilità) della legge penale, in virtù della quale nessuno può invocare a propria scusa l’ignoranza della legge penale. !47 un errore nell’esecuzione, in un contesto in cui l’autore conosce benissimo l’identità del vero bersaglio e non vuole colpire la vittima effettiva. Il comma 1 dell’art. 82 c.p. precisa che il reo risponde come se avesse commesso il reato in danno della persona che voleva offendere ma fa “salve, per quanto riguarda le circostanze aggravanti e attenuanti, le disposizioni dell’art. 60 c.p.” Il significato effettivo di questa norma è controverso. L’autore dell’aberratio ictus sarebbe chiamato a rispondere con le pene dei delitti dolosi per un fatto che doloso non è: l’art. 82, comma 1 avrebbe la funzione di sanzionare con le pene dei reati dolosi fatti che sarebbero realizzati solamente per colpa o, addirittura, in previsione di un mero rapporto di causalità materiale (responsabilità oggettiva). Per attutire la durezza di questa disciplina si propone, in via interpretativa, di subordinare l’operatività dell’art. 82, comma 1 c.p. all’individuazione di un coefficiente colposo per evitare problemi di illegittimità costituzionale per contrasto con l’art. 27, comma 1 Cost. Si tratterebbe pur sempre, comunque, di responsabilità anomala: il reato sarebbe sostanzialmente colposo ma verrebbe punito con le pene del delitto doloso. Non ha rilevanza, invece, una terza forma di aberratio, concernente il rapporto di causalità e definita aberratio causae. L’espressione fa riferimento ad una particolare divergenza tra voluto e realizzato che emerge nella fase esecutiva: un soggetto vuole realizzare un determinato evento ed effettivamente lo cagiona ma attraverso un iter causale diverso da quello previsto. Si ritiene che questa forma di errore nell’esecuzione non incida sull’elemento soggettivo e quindi la responsabilità sia dolosa, essendo irrilevante che la causa dell’evento sia diversa da quella programmata. Controversa è invece la soluzione di vicende, apparentemente simili alla precedente, in cui l’autore del fatto cagiona effettivamente l’evento che voleva cagionare ma attraverso una successione di condotte: di esse solo l'ultima determina realmente l’evento finale ma quando è posta in essere il reo è convinto di aver già cagionato l’evento con la condotta precedente. La definizione codicistica delle condizioni obiettive di punibilità è contenuta nell’art. 44 c.p. in base al quale quando per la punibilità del reato la legge richiede il verificarsi di una condizione di cui il colpevole risponde anche se l’evento, da cui dipende il verificarsi della stessa, non è da lui voluto. Si tratta di eventi naturalistici o giuridici, dai quali non dipende l’esistenza del reato ma è condizionata la mera punibilità. Le condizioni dell’art. 44 c.p. sono obiettive dal momento che esse non costituiscono l’oggetto di un giudizio di responsabilità ma rilevano giudizialmente. !50 PARTE QUARTA - L’IMPUNIBILITÀ CAPITOLO XXI -IMPUNIBILITÀ L’impunibilità nel nostro codice la definisce all’art. 85 c.p. come “capacità di intendere e di volere”. La capacità di volere è l'attitudine ad autodeterminarsi, indirizzando i propri comportamenti verso fini e obiettivi scelti consapevolmente. Naturalmente, la capacità di volere (che, inesorabilmente, presuppone la capacità di intendere) non va intesa con il libero arbitrio assoluto, così come intendevano gli illuministi, dal momento che l'uomo è per definizione soggetto a condizionamento di vario genere, quanto piuttosto come quella relativa libertà di scegliere come agire e comportarsi, che consente di controllare le passioni e gli impulsi. Entrambi i requisiti devono essere presenti, perché un soggetto possa essere ritenuto imputabile, dal momento che la mancanza di anche uno solo dei due renderebbe non rimproverabile il fatto commesso, nonché inefficace la minaccia di pena, con la conseguenza che, in prospettiva generale preventiva, non si deve punire chi non può comprendere correttamente la realtà esterna e non è in grado di compiere scelte autodeterminate. L’art. 85 c.p. chiarisce esplicitamente che la capacità di intendere di volere deve essere presente al momento del compimento di fatto, perché questo costituisce il riferimento temporale rispetto al quale domandarsi se il soggetto fosse in grado di comprendere e volere i propri comportamenti (criminosi). Inoltre, l’imputabilità deve essere accertata proprio con riferimento al reato commesso. Può infatti, accadere che, nel medesimo istante, un soggetto sia in grado di percepire il disvalore del proprio comportamento rispetto ad un fatto e non ad un altro. Minore di età : Il diritto penale, necessità, nel rispetto del principio di legalità, di indicazioni e di termini tassativi precisi, che consentono di individuare con certezza quando, cioè a partire da quale età, un minore debba rispondere penalmente dei propri atti. Per dar conto di questa esigenza, il nostro codice penale individua tre diverse fasce di età, e per ciascuna di esse definisce regole diverse. Al di sotto dei 14 anni, infatti, vige ai sensi dell’art. 97 c.p. una presunzione assoluta ed invincibile di non imputabilità. Al di sopra dei 18 anni vige, invece, una presunzione, egualmente invincibile, ma di segno contrario: il maggiorenne è sempre imputabile, e la capacità di intendere di volere potrà essere esclusa solo dalla presenza di un’altra e diversa tra le cause indicate del vigente ordinamento penale. !51 Com’è ovvio, la fascia di età più delicata è quella tra i 14 e 18 anni, rispetto al quale il conseguimento della capacità di intendere di volere può essere significativamente influenzata da molteplici fattori. Ebbene, proprio in virtù di tale difficoltà, l’art. 98 c.p. prevede che il giudice debba valutare caso per caso la capacità di intendere di volere ci colui che commette un reato tra il 14 e i 18 anni di età. Certo, quanto più si avvicina alla soglia dei 18 anni, tanto più eccezionale diventa il giudizio di non imputabilità del minore. Quanto agli esiti del giudizio, il codice vigente prevede che, se il minore è non imputabile, egli non sia punibile, cioè non possa essere proposto a pena. Ma, se ritenuto socialmente pericoloso, potrà essere sottoposto alla misura di sicurezza della libertà vigilata o del riformatorio giudiziario. Se, invece, il minore tra 14 e 18 anni viene ritenuto imputabile, potrà essere sottoposto a pena, diminuita sino ad un terzo. Vizio di mente : Ai sensi dell’art. 88 c.p. infatti, chi si trovi, per infermità, in uno stato di mente tale da escludere la sua capacità di intendere o di volere, non è imputabile. La norma successiva prevede che se l'infermità produce uno stato mentale che non esclude del tutto, ma scema grandemente la capacità di intendere di volere, il reo risponde per il reato commesso, ma la pena sia diminuita. Anche l'infermità di mente deve essere presente al momento del fatto, per esplicita previsione normativa. Inoltre, essa deve aver casualmente influito sulla commissione del reato, alla quale il reo deve essere stato determinato proprio a causa del vizio di mente. Una prima delimitazione importante il concetto di infermità di mente, rilevante ai sensi degli artt. 88 e 89 c.p. è che essa può consistere anche in uno stato patologico di tipo fisico. Ciò distingue il concetto di infermità, rilevante sullo stato mentale, da quello di infermità psichica, di cui all’art. 222 c.p. disciplina le modalità del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario. L’infermità può essere anche non permanente, cioè può consistere in una patologia che regredisce, purché non sia di così breve durata da non poter neppure assumere le forme di uno vero e proprio stato patologico. Assunzione di sostanze alcoliche o stupefacenti : La disciplina nel codice vigente in materia di reati commessi sotto l'effetto di sostanze alcoliche e stupefacenti, è dettata dall’art. 85 c.p. che imporrebbe di considerare non imputabile chi sia privo, al momento del fatto, della capacità di intendere e volere. Peraltro la disciplina codicistica attribuisce l'effetto di escludere l'incapacità solo a due situazioni (ubriachezza o intossicazione di sostanze stupefacenti incolpevole; intossicazione cronica da sostanze alcoliche o stupefacenti), mentre in tutte le altre ipotesi il soggetto autore di un reato viene ritenuto imputabile, in virtù di una vera e propria finzione. !52 L’art. 70 c.p. definisce circostanze oggettive quelle che concernono la natura, la specie, i mezzi, l’oggetto, il tempo, il luogo e ogni altra modalità dell’azione, la gravità del danno o del pericolo, ovvero le condizioni e le qualità personali dell’offeso; sono circostanze soggettive quelle che concernono l’intensità del dolo o il grado della colpa, le condizioni e le qualità personali del colpevole, o i rapporti fra il colpevole l’offeso, ovvero che sono inerenti alla persona del colpevole. Sono circostanze tipiche quelle in cui i elementi costitutivi sono descritti in materia tassativa dalla norma. Sono invece circostanze indefinite quelle in cui l'individuazione degli elementi costitutivi è rimessa alla discrezionalità del giudice. Con la locuzione circostanze privilegiate (o anche blindate), nel giudizio di bilanciamento si intende fare riferimento a quelle particolari ipotesi circostanziali di cui viene sempre garantita l’applicazione. Ai sensi del comma 1 dell’art. 59 c.p. ‘le circostanze che attenuano....la pena sono valutate a favore dell’agente anche se da lui non conosciute, o da lui per errore ritenute inesistenti”. Con la riforma, ai sensi del comma 2 dello stesso articolo, le circostanze che aggravano la pena sono valutate a carico dell'agente soltanto se da lui conosciute ovvero ignorate per colpa o ritenute inesistenti per errore determinato da colpa. L’art. 60 c.p. introduce delle deroghe alla disciplina dell'imputazione delle circostanze nell'ipotesi di errore sulla persona offesa dal reato. Nel caso di errore sulla persona offesa dal reato non sono poste a carico dell'agente le circostanze aggravanti che riguardano le condizioni qualità della persona offesa, o i rapporti tra offeso e colpevole. Ai sensi del comma 2 dello stesso articolo, sono invece valutate a suo favore le circostanze attenuanti. Bisogna distinguere a disciplina del computo a seconda che vi sia in presenza di una sola circostanza o di un concorso (omogeneo o eterogeneo) di circostanza. In presenza di una sola circostanza è differente la modalità di computo della circostanza a seconda della tipologia della stessa. In presenza di una circostanza ad effetto comune, l'aumento o la diminuzione si opera sulla quantità di pena che il giudice applicherebbe se non concorresse alcuna circostanza (pena base). Quando ricorre una sua circostanza gravante ad effetto comune la pena è aumentata fino ad un terzo; la pena per la reclusione da applicare per effetto dell'aumento non può superare gli anni 30. Quando ricorre una sola circostanza attenuante ad effetto comune, la pena è diminuita fino a un terzo e alla pena dell'ergastolo è sostituita la reclusione da 20 a 24 anni. In presenza di circostanze indipendenti o ad effetto speciale, l’aumento o la diminuzione di pena per le altre circostanze non opera sulla pena base del reato ma sulla pena stabilita per le predette circostanze. !55 Il concorso di circostanze può essere omogeneo e eterogeneo a seconda che concorrano più circostanze dello stesso o di diverso segno. In caso di concorso the circostanza ad effetto comune, opera la regola contenuta nel comma 2 dell’art. 63 c.p. secondo la quale l’aumento o la diminuzione di pena va operata sulla quantità di essa risultante dall'aumento o dalla diminuzione precedente. In caso di concorso di circostanze ad efficacia speciale il comma 4 dello stesso articolo, stabilisce che si applica solo la pena stabilita per la circostanza più grave, con la facoltà del giudice di aumentarla fino ad un terzo nel rispetto dei limiti dell’art 64 c.p. In caso di concorso di circostanza ad efficacia comune e speciale, opera la regola indicata nel comma 3 dell’art. 63, secondo la quale l'aumento o la diminuzione operano sulla pena stabilita per la circostanza ed efficacia speciale. L'art. 66 c.p. individua i limiti degli aumenti di piena nel caso del concorso di più circostanze aggravanti: la pena da applicare non può superare il triplo del massimo stabilito dalla legge, salvo le ipotesi di circostanza ad effetto speciale. L’art. 67 c.p. individua i limiti di diminuzione della pena nel caso di concorso di più circostanze attenuanti: la pena non può essere inferiore a 10 anni di reclusione, se per il delitto la legge stabilisce la pena dell’ergastolo, per le altre pene la pena non può essere applicata in misura inferiore ad un quarto. II giudizio di bilanciamento assolve in pieno alla funzione di individualizzazione della pena al caso concreto, ed è “un giudizio complessivo sintetico sulla personalità del reo e sulla gravità del reato”. II giudice dovrà procedere ad una valutazione unitaria ed integrale dell'episodio criminoso, che consenta il pieno rispetto dei principi di proporzione tra la pena da comminare e il fatto criminoso. 
 L'obbligatorietà della valutazione comparativa delle circostanze eterogenee garantisce la funzione di adeguamento della pena al caso concreto, attraverso una valutazione integrale della personalità del colpevole e dell'entità dei fatti realizzati. II legislatore ha introdotto con sempre maggiore frequenza delle circostanze blindate a cui ha riconosciuto un particolare privilegio nel giudizio di bilanciamento. La blindatura del giudizio di bilanciamento può avere due contenuti alternativi: a base totale o base parziale. Nel primo caso si verifica 1'esclusione della dichiarazione di prevalenza o di equivalenza delle circostanze attenuanti, nella seconda alternativa invece viene preclusa al giudice la sola dichiarazione di prevalenza delle circostanze attenuanti, rimanendo in pregiudicata la possibilità che le stesse siano valutate equivalenti, con la conseguenza della vanificazione dell’aumento di pena riconnesso alla contestazione dell’aggravante. Rientra tra le circostanze blindate anche l'ipotesi della minore età : il privilegio però non ha un’efficacia generale ma opera solo quando l'attenuante concorra con aggravanti che comportano la !56 pena dell’ergastolo. Infatti il privilegio opera per una circostanza attenuante e non deriva da una particolare disposizione di legge ma si deve ad una sentenza della Corte costituzionale. La Corte si è limitata a stabilire che debba essere garantita la diminuzione della pena nel caso in cui si verifica un concorso con circostanze che prevedono direttamente la pena dell’ergastolo: tale possibilità non viola i principi di uguaglianza in quanto il giudice, nell'esercizio del suo potere discrezionale, è in grado di determinare in ogni fattispecie concreta la pena più adeguata alle condizioni oggettive e soggettive del fatto realizzatosi. L'art. 62-bis c.p. contempla una particolare categoria di circostanze attenuanti indefinite, le cosiddette attenuanti generiche: il giudice, indipendentemente dalle circostanze previste dell’art. 62 c.p. può prendere in considerazione altre circostanze diverse, qualora le ritenga tali da giustificare una diminuzione della pena. II legislatore è intervenuto a limitare la discrezionalità del giudice con due interventi di riforma. Con la legge ex Cirielli vengono introdotte dalle tali limitazioni al riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche per alcune ipotesi di recidività. Invece, con il decreto.-legge n. 92/2008 viene introdotto un ultimo comma all'et 62-bis c.p., in cui Si afferma che “in ogni caso, l'assenza di precedenti condanne per altri reati a carico del condannato non può essere, perciò solo posta a fondamento della connessione delle circostanze di cut. al primo comma”. Tra le circostanze inerenti la persona del colpevole l’art.70 c.p. ricomprendere anche la recidiva, disciplinata dall’art. 99 c.p. L'istituto della recidiva, oggetto di una profonda riforma (cd. ex Cirielli), si caratterizza per la previsione di un aumento di pena in cui il soggetto dopo essere stato condannato per un reato nel commetta un altro. Esistono diverse forme di recidiva: recidiva semplice, recidiva aggravata e la recidiva reiterata. 1. Semplice: Ai sensi dell'art. 99, comma 1 c.p., chi è stato condannato per un delitto non colposo, ne commette un altro può essere sottoposto ad un aumento di un terzo della pena da infliggere per il nuovo delitto non colposo. 2. Aggravata: Il comma 2, dello stesso articolo, disciplina le diverse forme di recidiva aggravata, in cui la pena può essere aumentata fino alla metà. 3. Reiterata: Il comma 4 dell’art. 99 c.p. disciplina la recidiva reiterata: se il recidivo commette un altro delitto non colposo, l’aumento della pena, nel caso di recidiva semplice è della meta e, nei casi della recidiva aggravata è di due terzi. II comma 5, dello stesso articolo, prevede un’ipotesi di recidiva reiterata obbligatoria individuata attraverso un rinvio al catalogo di reati per i quali è previsto un termine più ampio di durata nei termini di custodia cautelare: l'aumento della pena recidiva è obbligatorio, e nei casi indicati al secondo comma, non può essere inferiore ad un terzo della pena da infliggere per il nuovo delitto. !57 CAPITOLO XXIII - DELITTO TENTATO L'individuazione del momento consumativo è di estrema importanza, e varia a seconda delle diverse categorie di reati. I reati ad evento ad naturalistico si consumano nel momento nel quale si realizza 1'evento stesso. Quando il compimento di un reato ad evento naturalistico avviene in ipotesi di predisposizione della forza pubblica, non è sempre agevole distinguere tra consumazione e tentativo. I reati di mera condotta istantanei giungono a consumazione quando si esaurisce la condotta tipica, cioè quando l’agente compie l'ultimo atto che la realizza. I reati permanenti, invece, giungono a compimento quando cessa la condotta criminosa descritta dalla fattispecie. Nei reati abituali, infine, la consumazione coincide con il compimento dell'ultimo fatto. Peraltro, può succedere che lo svolgimento dell'attività criminosa non giunga a compimento. Ebbene, anche in questi casi, pur in assenza della realizzazione di tutti gli elementi descritti dalla fattispecie incriminatrice, l'ordinamento penale reagisce con una sanzione, dal momento che il fatto, pur se non consumato, è rilevante sia sotto il profilo oggettivo che soggettivo: il colpevole manifesta una certa capacità criminale, indipendentemente dal fatto che, per ragioni che non dipendono dalla sua volontà, l’iter criminis non sia giunto a compimento. II tentativo è sanzionato con una pena significativamente ridotta rispetto alla corrispettiva ipotesi consumata: l'ergastolo è sostituito con la reclusione non inferiore a 12 anni, mentre le altre pene sono ridotte da un terzo alla metà. In un sistema improntato il principio di legalità, un primo problema che si pone è quello di individuare i presupposti normativi che legittimano l'inflizione di una pena a colui che non abbia portato a termine la condotta o non abbia comunque realizzato l’evento. Le fattispecie incriminatrici, infatti, descrivono sempre condotte compiute, o fatti realizzati: la norma che prevede 1'omicidio, infatti, punisce chi cagiona la morte di un uomo. Quando, invece, la punibilità del tentativo sia estesa a tutte le fattispecie delittuose, come nel nostro ordinamento, è opportuno introdurre una norma (art. 56 c.p.) che, combinandosi con le singole fattispecie incriminatrici dia origine ad una nuova ed autonoma fattispecie criminosa: il delitto tentato. La nuova fattispecie penale così individuata, pur se punita con una pena ridotta rispetto al fatto consumato, non costituisce una mera circostanza attenuante, ma un'ipotesi di reato dotata di propria autonomia. La questione più delicata attiene all'individuazione del momento dal quale è legittimo, oltre che doveroso, punire il colpevole per un fatto che non è giunto a compimento. Alcune vicende hanno introdotto la modifica dalla disciplina legislativa in materia di tentativo, finalizzata, nelle intenzioni dei compilatori del codice del 1930, a punire chi ha intenzione di uccidere. !60 Si risponde a titolo il delitto tentato, solo se non si verifica la consumazione del reato. Si distingue, a riguardo, tra tentativo incompiuto, nel quale la condotta non giunge a compimento, e tentativo compiuto, ove l'agente porta a termine la condotta tipica descritta dalla fattispecie incriminatrice, ma l'evento non si realizza. Il primo dei due requisiti oggettivi positivi è l'idoneità degli atti. Gli atti sono idonei quando probabile che, nell'ordinario svolgimento dei fatti che nel loro concatenarsi, porti alla consumazione del delitto. Con riferimento al punto di osservazione nel quale porsi, per valutare l'idoneità degli atti, vi è una sostanziale convergenza di vedute: il giudice dovrà operare una cosiddetta prognosi postuma, cioè collocarsi, idealmente, al momento nel quale la condotta di tenuta, per domandarsi se valutati ex ante gli atti compiuti potevano portare alla consumazione del delitto. Qualsiasi valutazione ex post, infatti, porterebbe sempre ad escludere l'idoneità dell'atto, dal momento che, nel tentativo, la condotta non deve aggiungere a compimento o l'evento verificarsi. Più complessa l'individuazione della base del giudizio che deve essere operato dal giudice. Al riguardo, si contendono il campo due soluzioni: secondo una prima impostazione (base parziale) il giudice deve prendere in considerazione solo le circostanze del fatto conosciute o conoscibili dal reo. La valutazione a base totale, invece, tiene conto anche di quelle evenienze del fatto che, non erano conoscibili dal reo o da un terzo estraneo, e sono state scoperte sono in seguito. Più problematico l'accertamento del secondo elemento oggettivo positivo, alla stregua del quale si risponde del delitto tentato solo se gli atti sono diretti in modo non equivoco a commettere un delitto. II requisito, in sé, significa che gli atti devono portare a far comprendere di essere indirizzati al compimento di una, e una sola, specifica ed individuabile fattispecie incriminatrice. Secondo la teoria soggettiva, l’atto è inequivoco quando vi sia la prova dell'intenzione criminosa dell’agente, desunta dalla confessione il colpevole. Da tempo, la nostra migliore dottrina ha abbracciato una teoria cosiddetta oggettiva, in virtù della quale gli atti possono ritenersi non equivoci solo se di per sé oggettivamente considerati, sono in grado di rivelare l'intenzione criminosa del colpevole. L'art. 115 c.p. impedisce di considerare punibile a titolo di tentativo ogni attività prodromica, non solo quando si manifesti nelle forme dell’accordo o dell’istigazione ma, a maggior ragione, quando si tratti di comportamenti monosoggettivi, che non raggiungono ancora la soglia dell’inizio dell’attività punibile. L’art. 115 c.p., pertanto, prevedrebbe la non punibilità dell’accordo e dell’istigazione quando non di raggiunga almeno la soglia del tentativo, intesa quale compimento di un atto esecutivo. L'unico titolo di imputazione soggettiva compatibile con il tentativo è il dolo. !61 La prima, di carattere testuale e sistematica, si muove dalla rubrica dell’art. 56 c.p. ove, si può parlare di delitto tentato. Vi è poi un ulteriore argomento, dal momento che la direzione non equivoca degli atti, pur integrando, un requisito di carattere oggettivo, pare incompatibile con un atteggiamento meramente colposo, caratterizzato dalla violazione di regole cautelari, rispetto alle quali la consumazione del reato costituisce una mera rappresentazione contenuto esclusivamente negativo. Molto più problematica la questione della compatibilità del tentativo con tutte le forme di intensità del dolo, ed in particolare con il dolo eventuale. Una prima tesi, affermativa, sostenuta da autorevole dottrina e dalla giurisprudenza meno recente, ritiene che vi sia sostanziale identità. A questa prima affermazione si ribatte, da parte dei fautori della tesi negativa, che il delitto tentato ha una sua piena e totale autonomia rispetto alla corrispondente fattispecie consumata, rendendo, pertanto, del tutto verosimile che, anche dal punto di vista dell'imputazione soggettiva, possano valere regole diverse. L'attuale orientamento giurisprudenziale che esclude la rilevanza del dolo eventuale, tende, peraltro, a salvaguardare le esigenze di prevenzione generale attraverso un allargamento della sfera di operatività del dolo diretto. Si è già detto che il nostro ordinamento prevede e punisce solo il tentativo del delitto. Sono pertanto esclusi i delitti colposi nonché le contravvenzioni. La configurabilità del tentativo, nelle fattispecie omissive improprie, è, in astratto, del tutto pacifica: colui che, gravato da un obbligo giuridico, pur potendo agire, non si attivi per impedire il realizzarsi di un evento, ne risponde a titolo di tentativo a partire dal momento nel quale ha violato l'obbligo di agire, qualora l'evento venga evitato dall'intervento di una terza persona, o da altri fattori indipendenti dalla sua volontà. Non vi è univocità di veduta, sulla possibilità di integrare il tentativo di una fattispecie omissiva di mera condotta, che si consuma con la violazione dell'obbligo di agire. Una prima posizione tende ad escludere questa possibilità dal momento che il reato omissivo prevede sempre un termine. Altri autori, invece, ritengono che il soggetto gravato dall’obbligo di agire possa rispondere a titolo di tentativo se, pur non essendo ancora spirato il termine per adempiere, abbia tenuto una condotta idonea e diretta in modo non equivoco a porsi nell'impossibilità di adempiere. Verosimilmente, questa seconda soluzione è proponibile solo quando la fattispecie incriminatrice omissiva propria descrive un termine temporale di durata. La compatibilità dei reati di pericolo, si distingue per situazioni differenti: per quanto concerne i reati di pericolo astratto, non pare legittimo anticipare in maniera tanto rilevante la punibilità. Nella fattispecie di pericolo concreto, ove il pericolo è l'evento del delitto, caratterizzante da un evento intermedio, non paiono ravvivarsi ostacoli di ordine strutturale a punire chi appicchi il !62 della pena. In altri termini, il codice sposta la differenziazione dei contributi dalla sede della tipizzazione legislativa a quella della commisurazione giudiziale della pena. Parte della dottrina (tedesca), ricorre alla teoria dell'accessorietà, secondo la quale la punibilità del contributo atipico (fatto accessorio) si giustifica in quanto accede alla condotta dell'autore che pone in essere il fatto tipico (fatto principale). Parte autorevole della dottrina italiana accoglie la teoria dell'accessorietà basandosi in particolare sull’art. 115 c.p. che prevede la non punibilità dell'accordo e l'istigazione quando agli stessi non sia seguita la commissione del reato: accordo e istigazione costituiscono, pertanto, forme di contributo concorsuale a condizione che un terzo realizzi il fatto tipico. Tuttavia, il suo accoglimento è andato incontro ad una serie di obiezioni. In primo luogo, la teoria dell'accessorietà non si concilia con la cosiddetta esecuzione frazionata che si presentano nei casi in cui nessuno dei concorrenti pone in essere per intero il fatto tipico, ma ne realizza una parte. Un diverso modello teorico è stato proposto dai sostenitori della fattispecie plurisoggettiva eventuale. Si sostiene che nel concorso di persone non deve essere ricercato il rapporto di accessorietà tra le condotte del partecipante e dell’autore, in quanto la tipicità dei contributi concorsuali deve essere valutata alla luce della fattispecie che nasce dall'incontro tra l'art. 110 c.p. e le singole fattispecie incriminatrici di parte speciale. Un’obiezione rivolta alle teorie dell'accessorietà e della fattispecie plurisoggettiva eventuale sta nel fatto che entrambe richiedono l’unicità del reato di cui tutti concorrenti rispondono, mentre può accadere che diversi concorrenti rispondono di uno stesso fatto materiale, ma sulla base di diverse imputazioni soggettive, chi per dolo chi per colpa. Parte della dottrina ha proposto la teoria delle fattispecie plurisoggettive differenziate, sostenendo che il concorso di persone dal luogo ad una pluralità di reati, tanti quante sono le condotte concorsuali. II concorso di persone richiede la presenza di quattro requisiti: la pluralità degli agenti, la realizzazione di una fattispecie di reato, il contributo concorsuale, un particolare elemento soggettivo. Affinché vi sia una pluralità di concorrenti ne sono sufficienti due. Non tutti i concorrenti, però, devono essere anche punibili: 1'ultimo comma dell’art. 112 c.p. prevede che le circostanze aggravanti previste si applicano anche se taluno dei partecipanti al fatto non è imputabile o non punibile. È sufficiente che attraverso la cooperazione plurisoggettiva il fatto concreto riproduca tutti gli elementi della fattispecie astratta. Può trattarsi di un reato consumato del delitto tentato. E quindi ammesso il concorso in un tentativo, mentre non è punibile il tentativo di concorso, ossia il fatto di tentare, senza riuscirci, di concorrere in un reato: lo si desume dall’art. 115 c.p. che prevede la non punibilità dell'accordo e all’istigazione se agli stessi non segue la commissione del reato. !65 Contributo concorsuale : Per rispondere a titolo di concorso è indispensabile l’apporto di un contributo da parte di ciascun concorrente. È proprio questo punto che si gioca la tenuta di due fondamentali principi costituzionali in ambito concorsuale: il principio di legalità e il principio della responsabilità per fatto proprio.
 In relazione al tipo di contributo si distingue tra concorso materiale, che si esplica sul piano oggettivo della preparazione dell’esecuzione del reato, e concorso morale che consiste in un contributo di carattere psichico di determinazione o rafforzamento del proposito criminoso. Nel contributo materiale si distinguono: a) L’autore: che realizza per intero il fatto tipico; b) Il coautore: se più soggetti realizzano gli elementi della fattispecie incriminatrice; c) Il complice: che da un contributo oggettivo alla realizzazione del fatto in fase preparatoria. In ambito concorsuale la causalità condizionalistica l'unico criterio in grado di garantire il rispetto dei
 principi di legalità e di responsabilità per il fatto proprio. Anzitutto, va definito il secondo termine del rapporto causale: non e l’evento, come nella causalità, ma il ratio di reato, poiché il concorso di persone e ipotizzabile rispetto qualsiasi reato, sia esso di evento di pura condotta. Nei reati permanenti il contributo concorsuale può essere prestato anche in epoca successiva alla prefazione del reato, sino a che perdura la permanenza. In conclusione, la casualità condizionalistica va mantenuta fermamente come unico criterio in grado di delimitare il contributo concorsuale materiale atipico e svolge in ambito concorsuale una duplice funzione: da un lato criterio di imputazione del fatto di reato e sotto questo profilo garantisce il rispetto del principio di responsabilità per ratio proprio; dall'altro esercita la fondamentale funzione di tipizzazione del contributo di partecipazione, contribuendo, nell'assenza di indicazioni legislative, a garantire anche in ambito concorsuale il rispetto dei principi di riserva di legge e di determinatezza della fattispecie penale. II contributo morale consiste in una inflizione psichica e si presenta nella forma della determinazione, quando si fa sorgere un proposito criminoso prima inesistente, o dall’istigazione, quando si rafforza un proposito già presente. Costituiscono forme di determinazione o di istigazione anche l’accordo, quando chi vi partecipa non prenda poi parte alla preparazione o esecuzione del reato, e il consiglio. Anche il contributo morale richiede un accertamento rigoroso della causalità psichica: cioè è necessario accertare che l'istigatore abbia influito sulla volontà di istigato, determinando o rafforzando il proposito criminoso che si è poi tradotto nella commissione di un reato. 
 A fronte delle difficoltà di accertamento della causalità psichica, la giurisprudenza ha talvolta ripiegato su un giudizio di prognosi postuma. !66 È possibile concorrere in un reato anche attraverso la condotta omissiva, nei reati omissivi propri possono rispondere della condotta omissiva coloro che abbiano l'obbligo di intervenire per effetto, dalla situazione tipica, come nel caso di pin persone che, trovando una persona in pericolo, omettono di prestare soccorso. Negli altri reati è possibile concorrere attraverso una condotta omissiva solo se sussiste un obbligo giuridico di impedire che altri commettano il reato: è quindi necessario che chi commette sia titolare di una posizione di garanzia avente ad oggetto l'impedimento di reati commessi da terzi. Orbene, le posizioni di garanzia avente ad oggetto l'impedimento del reato commesso da terzi sono riducibili a quelle di protezione e di controllo. All'art. 40 cpv. c.p. il termine "evento" assume significato diverso nel contesto di realizzazione ora monosoggettiva ora plurisoggettiva del reato, nel primo caso va inteso in senso naturalistico, nel secondo giuridico. II concorso mediante omissione va distinto dalla semplice connivenza consistente nella condotta di chi, non essendo titolare di una posizione di garanzia, non interviene dinanzi alla commissione di un reato. Tra i requisiti del concorso di persone è necessario un particolare dolo di partecipazione. Non è richiesto un previo accordo dai concorrenti. II dolo di partecipazione richiede invece la sussistenza di due requisiti: a) rappresentazione e volontà del fatto di reato; b) rappresentazione e volontà di concorrere con altri della commissione del reato. Nei reati a dolo specifico non è necessario che tutti concorrenti agiscano con la particolare finalità di richiesta della fattispecie incriminatrice, ma è sufficiente che nessuno compartecipe abbia tale finalità purché gli altri ne siano consapevoli. Discussa è la rilevanza penale della condotta di chi induce taluno a commettere un reato al fine di assicurare il colpevole alla giustizia (agente provocatore). Va detto che nella prassi l'agente provocatore costituisce una figura recessiva, mentre maggiore importanza ha acquisito la figura dell’infiltrato che realizza operazioni sotto copertura stessi nell'ambito delle indagini contro la criminalità organizzata: sebbene l'infiltrato realizzi condotte conformi a fattispecie incriminatrici, la sua non punibilità espressamente prevista, a determinate condizioni, dalla legge. II codice affida al giudice il compito di differenziare le pene tra concorrenti in relazione alla tipologia del contributo di partecipazione attraverso la previsione di circostanze aggravanti e attenuanti. L’unica circostanza che non prende in considerazione la posizione del singolo concorrente costituita dalla gravante ad effetto comune applicabile se il numero di concorrenti non inferiore a cinque. !67 limitarsi ad abbandonare volontariamente l'azione criminosa concordata, in quanto la sua condotta ha già interagito con quella degli atti concorrenti nell'ambito della preparazione o dell'inizio esecuzione della condotta. L’art. 113 c.p. disciplina la cooperazione nel delitto colposo, stabilendo che nel delitto colposo, quando l'evento è stato cagionato dalla cooperazione di più persone, ciascuna di queste soggiace alle pene stabilite per il delitto stesso. Anche nella cooperazione del delitto colposo sono necessari i requisiti generali di struttura del concorso di persone della pluralità degli agenti della realizzazione di una fattispecie di reato. Presentano invece profili specifici l'elemento soggettivo del contributo di partecipazione. Con riferimento all’elemento soggettivo, trattandosi di cooperazione in un delitto colposo, è necessario che concorrenti non vogliano fatto di reato, ma abbiano la consapevolezza dell’altrui partecipazione, ossia che la propria condotta converge comprare gli altri. Questo elemento soggettivo fa da collante tra i diversi contributi concorsuali e consente di differenziare la cooperazione nel delitto colposo dal concorso di fattori colposi indipendenti. Sia nella cooperazione nel delitto colposo che nel concorso di fattori colposi indipendenti gli autori delle condotte rispondono nel delitto colposo, ma nel primo il reato e unico ed è realizzato in forma concorsuale, nel secondo invece sussistono tanti reati quante sono le condotte colpose, accomunate dalla causazione di un unico evento. Poiché il concorso di persone disciplina la compartecipazione di più soggetti non fatto di reato, non vi sono ostacoli di natura dogmatica a prospettare diversità di imputazione soggettiva tra i concorrenti. Il concorso di persone viene distinto in concorso eventuale e concorso necessario: nel primo la realizzazione informa plurisoggettiva costituisce andato eventuale, in quanto la fattispecie incriminatrice è descritta dal regista settore in forma soggettiva. Nel concorso necessario, invece, è la stessa legge a prevedere come elemento costitutivo di fattispecie la pluralità dei soggetti attivi. Anche reati a concorso necessario vanno estese regole di disciplina previste con il concorso eventuale, a meno che la fattispecie incriminatrice non prevede regole proprie che trovano applicazione in quelle generali. La legge può prevedere fattispecie che incriminano il semplice accordo (reati-accordo). In una fattispecie legislatore legislatore incrimina il semplice incontro di volontà tra più persone finalizzato alla commissione di un reato. Rispondono ad un'analoga esigenza di anticipazione della tutela i reati associativi, nei quali il legislatore incrimina la costituzione di una struttura associativa finalizzata a commettere delitti. Nei reati associativi il registratore incrimina il solo fatto di associarsi in vista della realizzazione del programma criminoso: a differenza del reato-accordo in questa fattispecie è necessaria la costituzione di un’associazione. !70 Gli associati rispondono del reato associativo indipendentemente dalla commissione dei delitti- scopo: anche se il programma criminoso non viene attuato, costituisce reato il fatto stesso di aver formato un organismo associativo finalizzato perseguirlo. La condotta di associazione, consiste nel svolgere un ruolo all'interno dell’organizzazione. Rispetto reato associativo, ci si chiede se le norme in concorso di persone possono svolgere una funzione incriminatrice, ossia se consentono di estendere la punibilità rispetto a condotte che, non integrando la condotta di partecipazione, diamo comunque un contributo alla vita dell’associazione: si tratta del cosiddetto concorso esterno. !71 PARTE SETTIMA - IL SISTEMA SANZIONATORIO CAPITOLO XXVII - FUNZIONI DELLA PENA Il diritto penale partecipa alla funzione di controllo sociale al pari degli altri istituti di socializzazione in forza della sua capacità di influire sulle condotte umane tramite norme che impongono divieti o comandi. Nel diritto penale, le sanzioni sono costituite dalle pene. A differenza di altre sanzioni presentano carattere afflittivo, ossia si traducono nella privazione o limitazione dei diritti. Al carattere afflittivo delle pene si accompagna il loro personalismo, che trova un espresso rilievo costituzionale nell’art. 27, comma 1 Cost.: la responsabilità penale personale fonda non solo la necessità che il reato sia assistito da coefficienti soggettivi minimi che assicurino la responsabilità per fatto proprio colpevole, ma anche la dimensione personale della pena che si traduce in una serie di connotati della sanzione penale. Il personalismo della pena e, in primis, la sua capacità di incidere sui fondamentali dell’individuo, danno ragione della previsione di garanzie sostanziali e processuali da forzate rispetto a quelle che caratterizzano l'applicazione di altre sanzioni. Tradizionalmente nel dibattito sulle funzioni della pena si contrappongono le teorie assolute alle teorie relative della pena. Secondo le teorie assolute, l’inflizione della sanzione a seguito della commissione di un reato si giustifica di per sé, per il semplice fatto che il reato è stato commesso dell'autore risulta responsabile. Secondo le teorie relative, la pena si giustifica in relazione allo scopo di prevenire la commissione di reati, ora rivolgendosi alla generalità dei consociati affinché commettano reati, ora all'autore del reato affinché non commetta in futuro altri reati. La teoria retributiva attribuisce alla pena la funzione di compensare la colpevolezza del reo. Si afferma che questa categoria, richiedendo l'equivalenza tra reato e pena, rappresenta la razionalizzazione della vendetta privata. Della teoria retributiva sono state formulate le varianti. Secondo una prima impostazione proposta da Kant, la pena costituirebbe un imperativo categorico con funzione di compensare la violazione del principio etico realizzata con la commissione del reato. Uno sviluppo della teoria retributiva, privata di ogni riferimento etico, si ha in Hegel, per il quale la pena si giustifica in funzione di riaffermazione simbolica della giuridico violato. La teoria retributiva, è andata incontro a fondate critiche. Lo stato di diritto è improntato al principio di laicità: perché in ogni caso scopo dello Stato è assicurare le condizioni di esistenza di sviluppo della convivenza associata. Della teoria retributiva devono, però, essere evidenziati due profili positivi. Anzitutto, il divieto di strumentalizzazione dell'autore del reato a fini di prevenzione della criminalità valorizza la dignità della persona umana. In secondo luogo, asse portante della teoria retributiva è il principio di !72 CAPITOLO XXVIII - PENE Ovviamente il principio della riserva di legge investe non soltanto la descrizione del fatto costituente reato ma anche le conseguenze sanzionatone, in primo luogo le pene (art. 25, comma 2, Cost.) Vi è la distinzione tra pene principali (pene previste indefettibilmente per ciascun reato) e pene accessorie (sanzioni che non possono essere applicate isolatamente ma hanno un ruolo ancillare rispetto alle pene principali). Le prime sono costituite secondo lo schema duale rappresentato dalle pene detentive (ergastolo, reclusione, arresto) e delle pene pecuniarie (multa, ammenda). I reati possono essere sanzionati sia con la previsione esclusiva della pena detentiva o della pena pecuniaria, sia con pena congiunta (detentiva e pecuniaria) o alternativa (detentiva o pecuniaria). Il panorama cambia con il nuovo ordinamento penitenziario varato nel 1975: con esso fanno la comparsa le misure alternative alla detenzione: sanzioni sostitutive delle pene sentite brevi; la pena pecuniaria si arricchisce con la permanenza domiciliare ed il lavoro di pubblica utilità. Ai sensi dell’art. 17 c.p. le pene principali sono: per i delitti l’ergastolo, la reclusione e la multa, e per le contravvenzioni l’arresto c rammenda. La pena per l'ergastolo, è prevista per alcuni reati contro la personalità dello Stato, contro l'incolumità pubblica e contro la vita, secondo quanto indicato dall’art. 22 è perpetua. Infatti ai sensi dell’art. 176, comma 3, c.p. è prevista la possibilità per il condannato all'ergastolo di usufruire della liberazione condizionale, quando abbia scontato almeno 26 anni di pena. Infine ai sensi degli artt. 30-ter, comma 4, lett. d) e 50, comma 5 Ord. penit. è consentito ai condannati alla pena dell'ergastolo di usufruire, dopo l'espiazione di almeno 10 anni, dei permessi premio e, dopo 20 anni, della semilibertà. Le due tipologie si differenziano in merito alla possibilità di accedere alle misure alternative, alla detenzione e sul piano della ripartizione dei detenuti. Gli artt. 23 e 25 c.p., prevedono per entrambe le tipologie di limiti minimi e massimi e edittali generali: ai sensi dell’art. 23 c.p. la reclusione “si estende da 15 giorni a 24 anni e, ai sensi dell’art. 25 c.p.m l’arresto si estende da cinque giorni a tre anni ”. Ai sensi dell’art. 17 c.p. la pena pecuniaria per i delitti è la multa e per le contravvenzioni è l’ammenda. Esse consistono entrambe nel pagamento allo Stato di una somma di denaro. Ai sensi dell’art. 24, comma 1, c.p. la multa può oscillare da un minimo di € 50 ad un massimo di € 50.000, ai sensi dell’art. 26, comma 1, c.p. l'ammenda può variare da un minimo di € 20 ad un massimo di € 25.000. Anche la pena pecuniaria assolve ad una finalità rieducativa. L’art. 24, comma 2, c.p. dispone che “per i delitti determinati da motivi di lucro, se la legge stabilisce solo la pena della reclusione, il giudice può aggiungere la multa da 50 a € 25.000”. !75 Il giudice può disporre, in relazione alle condizioni economiche del condannato, che la multa o l'ammenda venga pagata in rate mensili da tre a trenta. La rateizzazione della pena pecuniaria può essere concessa sia coloro che versano in una temporanea difficoltà di pagamento sia ad un soggetto non abbiente. La conversione è disciplinata dagli artt. 102 e 105 della 1. 24 novembre 1981, i quali stabiliscono che le pene da conversione della pena pecuniaria non sono più la reclusione o l'arresto ma la libertà controllata e il lavoro sostitutivo. L’art. 30 individua i limiti massimi di durata delle sanzioni da convertire: la durata complessiva della libertà controllata non possono superare un anno sei mesi, se la pena convertita è quella della multa, e nove mesi se la pena convertita e quella dell’ammenda. Le pene accessorie hanno tendenzialmente carattere interdittivo, dal momento che consistono in una privazione di determinati diritti o facoltà o nella limitazione del loro esercizio. Sono previste pene accessorie specifiche per i delitti e per le contravvenzioni. Caratteristica delle pene accessorie, oltre al loro (tendenziale) inevitabile collegamento con le principali, è quella di un maggior automatismo. Ai sensi dell’art. 37 c.p. “quando la legge stabilisce che la condanna importa una pena accessoria temporanea, e la durata di questa non è espressamente determinata, la pena accessoria una durata è uguale a quella della pena principale inflitta, o che dovrebbe scontarsi, nel caso di una conversione, per insolvibilità del condannato”. Sei in tema di pene accessorie, la discrezionalità del giudice è fortemente limitata, essa appare in dimensioni più ampie nella commisurazione delle pene principali. Fanno eccezione, ovviamente, l’ergastolo e le rare ipotesi di pena fissa. Negli altri casi il legislatore delinea una cornice edittale, fissando un minimo ed un massimo, all'interno della quale è attribuito al giudice il potere di stabilire discrezionalmente la pena concretamente inflitta secondo quanto stabilito dagli artt. 132-133 c.p. I criteri indicati per l'esercizio del potere discrezionale da parte del giudice sono stabiliti dall’art. 133 c.p.,che li raggruppa all'interno delle categorie della gravità del reato e della capacità a delinquere del soggetto. Il legislatore ha previsto con la legge 24 novembre 1981, n. 689 che il giudice può sostituire una pena detentiva di breve durata con altre sanzioni espressamente indicate dall’art. 53 della predetta legge. La funzione delle sanzioni sostituite è quella di evitare il contatto con l'ambiente carcerario per autori di reati di scarsa gravità. Le sanzioni sostitutive sono la semidetenzione, la libertà controllata e la pena pecuniaria. La semidetenzione può sostituire le pene detentive fino a due anni e consiste nell'obbligo di trascorrere almeno 10 ore al giorno in un carcere e in una serie di limitazioni quali il divieto di !76 detenere a qualsiasi titolo armi, munizioni ed esplosivi, anche se è stata concessa la relativa autorizzazione di polizia; la sospensione della patente di guida; il ritiro del passaporto. La libertà controllata può sostituire le pene detentive fino ad un anno e consiste nel divieto di allontanarsi dal comune di residenza, salvo autorizzazione concessa di volta in volta ed esclusione per motivi di lavoro, studio, famiglia o salute; presentarsi almeno una volta al giorno presso il locale ufficio di pubblica sicurezza. La pena pecuniaria può sostituire le pene detentive fino a sei mesi e viene disposta nella specie corrispondente alla pena detentiva sostituita. La pena detentiva, se è stata comminata per un fatto commesso nell'ultimo decennio, non può essere sostituita: a) Nei confronti di coloro che sono stati condannati più di due volte per reati della stessa indole; b) Mi confronti di coloro ai quali la pena detentiva sostitutiva è stata convertita, ovvero nei confronti dei quali sia stata revocata la concessione del regime di semilibertà; c) Nei confronti di coloro che hanno commesso il reato mentre si trovavano sottoposti alla misura di sicurezza della libertà vigilata o alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale. Mentre le sanzioni sostitutive della pena detentiva breve sono applicate dal giudice della cognizione, le misure alternative intervengono nella fase di esecuzione della sentenza e sono di competenza della magistratura di sorveglianza. Le misure alternative previste dall'ordinamento penitenziario sono l'affidamento in prova al servizio sociale, la semilibertà e la detenzione domiciliare, adesso se si affianca una misura semialternativa prevista al codice penale, la liberazione condizionale. Presupposti per la sua applicazione sono essenzialmente: la durata della pena da espiare non superiore a tre anni. La competenza è del tribunale di sorveglianza quale collegiale. L'esito positivo del periodo di prova estingue la pena detentiva ed ogni altro effetto penale. Può, altresì, essere dichiarata estinta dal tribunale di sorveglianza, qualora l'interessato si trovi in disagiate condizioni economiche, la pena pecuniaria che non sia stata già riscossa. Ulteriore presupposto per la concessione era semilibertà è lo svolgimento di attività risocializzante. La pena della reclusione non superiore a quattro anni può essere espiata nella propria abitazione o in un altro luogo di privata dimora ovvero il luogo pubblico cura, assistenza o accoglienza quanto trattasi di: a) Donna incinta o madre di prole di età inferiore ad anni 10 con lei convivente; b) Padre, esercente la potestà, di prole di età inferiore ad anni 10 con lui convivente; c) Persona in condizioni di salute particolarmente gravi; d) Persona di età superiore a 60 anni, se inabile anche parzialmente; e) Persona minore di anni 21 per comprovate esigenze di salute, di studio, di lavoro e di famiglia. !77 CAPITOLO XXIX - CAUSE DI ESTINZIONE DEL REATO E DELLA PENA Il codice penale prevede le cause di estinzione, suddividendole in cause di estinzione del reato e le cause di estinzione della pena. Secondo l’impostazione tradizionale le prime escludono la cosiddetta punibilità in astratto, operando anticipatamente rispetto alla pronuncia della sentenza di condanna e precludendo l’applicazione della pena; le seconde invece, escludono la cosiddetta punibilità in concreto, presupponendo l’emanazione di una sentenza di condanna e, pertanto, incidendo sull’esecuzione della sanzione penale. Sono collocate tra le cause di estinzione del reato sono la morte del reo (art. 150 c.p.), l’amnistia ( art. 151 c.p.), la remissione della querela ( artt. 152-156 c.p.), la prescrizione del reato (artt. 157-161 c.p.), l’oblazione (artt.162-162-bis c.p.), la sospensione condizionale (artt. 163-168 c.p.), il perdono giudiziale (art. 169 c.p.). Sono cause di estinzione della pena la morte del reato dopo la sentenza di condanna (art. 171 c.p.), la prescrizione della pena (artt. 172-173 c.p.), l’indulto e la grazia (art.174 c.p.), la non menzione nel casellario giudiziario (art. 175 c.p.), la liberazione condizionale (art. 176-177 c.p.), la riabilitazione (artt. 178-181 c.p.). Le cause di estinzione possono essere classificate: - Generali e Speciali; - Condizionate o Incondizionate; - Legate ad accadimenti naturali o alla manifestazione della volontà. !80 CAPITOLO XXX - MISURE DI SICUREZZA Il codice penale prevede, accanto alle pene, anche le misure di sicurezza in funzione di controllo e prevenzione della pericolosità dell’autore. Le misure di sicurezza sono prive di contenuto punitivo ed il loro scopo è la prevenzione sociale, intesa come difesa sociale, ossia come tutela della collettività del rischio di recidiva dell’autore del reato. L’applicazione delle misure di sicurezza personali richiede la presenza di due presupposti, uno oggettivo e l’altro soggettivo. Il primo funge da limite alle istanze preventive del legislatore, il secondo è costituito dalla pericolosità sociale (art. 203, comma 1 c.p.). Le misure di sicurezza personali si dividono in detentive e non detentive. Sono misure di sicurezza detentive: - L’assegnazione a una colonia agricola o casa di lavoro per i delinquenti abituali, professionali e per tendenza; - Il ricovero in una casa di cura o di custodia; - Il ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario; - Il ricovero in un riformatorio giudiziario. Sono misure di sicurezza non detentive: - La libertà vigilata (art. 228 ss. c.p.); - Il divieto di soggiorno in uno o più comuni, o in una o più province; - Il divieto di frequentare osterie o pubblici spacci di bevande alcoliche; - L’espulsione dello straniero extracomunitario dallo Stato e l’allentamento dal territorio dello Stato del cittadino appartenente ad uno Stato membro dell’Unione Europea. Le misure di sicurezza hanno una durata minima, differenziata in relazione alle diverse misure ed ai destinatari delle stesse. Non è prevista una durata massima delle misure di sicurezza, che non possono essere revocate se le persone ad esse sottoposte non hanno cessato di essere socialmente pericolose. Hanno dunque una durata non predeterminata che si prolunga attraverso il sistema del riesame della pericolosità. !81
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