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MANUALE DI DIRITTO PENALE - PARTE GENERALE, Sintesi del corso di Diritto Penale

Diritto Penale ItalianoPrincipi Fondamentali del Diritto PenaleLegge Penale Italiana

Sintesi del manuale di Grosso, Pelissero, Petrini, Pisa. Divisa in capitoli e paragrafi seguendo l'impostazione del manuale. Pagine numerate. Edizione 2019.

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

In vendita dal 15/09/2020

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Scarica MANUALE DI DIRITTO PENALE - PARTE GENERALE e più Sintesi del corso in PDF di Diritto Penale solo su Docsity! 234 MANUALE DI DIRITTO PENALE Grosso, Pelissero, Petrini, Pisa CAPITOLO 1 DIRITTO PENALE, REATO, PENA IL DIRITTO PENALE E GLI ALTRI SETTORI DELL’ORDINAMENTO GIURIDICO Il diritto penale disciplina i fatti che costituiscono reato e le relative sanzioni. Esso si distingue dal diritto civile, che regola i diritti dei cittadini e i rapporti fra privati, e dal diritto amministrativo, che disciplina l’organizzazione e il funzionamento delle amministrazioni pubbliche e il rapporto fra pubbliche amministrazioni e cittadini. Il reato è punito con sanzioni consistenti in pene e misure di sicurezza. L’accertamento della sua commissione e l’inflizione della relativa sanzione sono affidati a giudici penali imparziali ed indipendenti da ogni altro potere dello Stato, che giudicano secondo regole processuali penali fortemente rispettose delle garanzie degli imputati. Per quanto riguarda la tipologia, il reato si distingue dall’illecito civile in quanto è caratterizzato dalla specifica tipizzazione di ciascun illecito. Meno marcate sono le differenze tipologiche fra l’illecito penale e l’illecito amministrativo: nel nostro ordinamento infatti sono presenti sanzioni pecuniarie amministrative e sanzioni pecuniarie penali. Sebbene queste sanzioni impongono sempre un esborso di denaro, la loro differenza si apprezza sul terreno delle garanzie previste, dell’autorità competente, della procedura di applicazione e per la disciplina applicabile in caso di mancato pagamento della sanzione per insolvibilità del suo destinatario: in caso di sanzioni amministrative, per ottenere il pagamento della somma dovuta la pubblica amministrazione non potrà che procedere con l’esecuzione forzata; in caso di multe o ammende non pagate, le stesse si convertono in una sanzione limitativa della libertà personale. Ai sensi dell’originario art 136 cp si convertivano rispettivamente in reclusione e arresto; poiché la disciplina della conversione è stata dichiarata in contrasto con l’art 3 Cost, in ragione della disparità di trattamento che si veniva a realizzare tra cittadini abbienti e meno abbienti, il legislatore ha disposto con la ln 689/1981 che la multa e l’ammenda non pagate si convertissero in un certo numero di giorni di libertà controllata. L’illecito civile viene sanzionato con le sanzioni del risarcimento del danno e delle restituzioni, normalmente affidate alle valutazioni del giudice. 234 L’illecito amministrativo viene punito con sanzioni amministrative, normalmente applicate, quantomeno in prima istanza, dalla stessa pubblica amministrazione. FUNZIONE DEL DIRITTO PENALE: LA TUTELA DEI BENI GIURIDICI La funzione del diritto penale è la tutela degli interessi umani (funzione utilitaristica, ‘800). Il diritto penale dovrebbe essere comunque interpretato come extrema ratio di protezione giuridica, utilizzabile a garanzia degli interessi giudicati di maggiore rilievo individuale o sociale soltanto quando non fossero esperibili strumenti extrapenali di protezione giuridica. Sempre nell’800 si sono sviluppati filoni teorici che invece sostengono una funzione retributiva del diritto penale: per essi, giustificazione della sanzione penale è la punizione del colpevole, il ripristino del diritto violato e la retribuzione del male col male. Si è anche aperta la strada a concezioni autoritarie del diritto penale, le quali ritengono che la ragione della sanzione penale sia la punizione della sola disobbedienza come attentato all’autorità dello Stato indipendentemente dagli interessi in gioco. Nel secondo dopoguerra, la concezione del diritto penale inteso come protezione degli interessi è tornata al centro del dibattito penalistico. Negli Stati democratici di diritto, il diritto penale si è affermato come strumento da utilizzare solo nei confronti delle infrazioni che offendono beni di primaria importanza; di qui nascono i valori del diritto penale liberale: extrema ratio di protezione giuridica, sussidiarietà dell’intervento penale, diritto penale minimo, bando di tutti i reati cosiddetti bagatellari (la cui repressione dovrebbe essere spostata sul piano del diritto amministrativo), frammentarietà dell’intervento penale. Si sono individuati i beni giuridici, ovvero i beni di maggiore rilievo individuale o sociale, preesistenti alla disciplina giuridica, che il legislatore deve necessariamente proteggere sul terreno del diritto penale. Il concetto di offesa dell’interesse che la norma penale mira a proteggere è tornato a costituire snodo centrale nella teoria generale del reato: ragionevolmente, nessuna condotta prevista come reato che non determina la lesione o la messa in pericolo dell’interesse protetto può essere punita. Il fatto tipico inoffensivo deve essere considerato penalmente irrilevante, in quanto gli scopi di protezione giuridica del diritto penale non sono stati frustrati dall’infrazione formalmente compiuta (Gallo). LA NOZIONE DI REATO: CRITERI FORMALI E CRITERI SOSTANZIALI DI DEFINIZIONE Da un punto di vista formale il reato è un fatto vietato dalla legge penale la cui commissione comporta l’applicazione di una sanzione penale. Tale definizione è di tipo formale in quanto fa riferimento solo al modo con il quale l’ordinamento 234 CAPITOLO 2 EVOLUZIONE STORICA DEL DIRITTO PENALE ILLUMINISMO E DIRITTO PENALE Il diritto penale moderno nasce con l’illuminismo nella seconda metà del ‘700. Numerose regole enunciate in quell’epoca costituiscono tuttora principi cardine delle legislazioni penali europee: principio di stretta legalità, divieto di applicazione analogica, certezza del diritto, principio di irretroattività, personalità della responsabilità penale, reato inteso come lesione dei beni, divieto di pene disumane e proporzione fra gravità del reato e qualità e quantità della pena, presunzione di innocenza, bando ad ogni inutile rigore nella limitazione della libertà personale. Per cogliere il significato originale del pensiero illuministico in materia penale è sufficiente ricordare quanto sostenne Cesare Beccaria nel celebre “Dei delitti e delle pene”. Il diritto penale non deve realizzare un astratto modello di regole morali, bensì fornire una protezione forte dei beni umani fondamentali; in questa prospettiva esso deve essere utilizzato soltanto quando si riveli strumento strettamente necessario a tale esigenza di tutela (extrema ratio). Delitti e pene devono essere individuati con chiarezza prima della commissione del fatto, in modo che il cittadino possa conoscere preventivamente e precisamente ciò che è vietato e ciò che è consentito. La pena deve essere retributiva, colpire cioè l’autore del reato in maniera proporzionale alla gravità del fatto commesso, e non superare il limite necessario per impedire il reato. Nel quadro delle pene deve essere privilegiata quella carceraria, in quanto sanzione uguale per tutti e che si presta ad essere graduata in proporzione alla gravità dell’illecito. Le pene non devono essere necessariamente severe, ma devono essere inflitte con rapidità ed ineluttabilità. La pena deve essere uguale per tutti, indipendentemente dalle condizioni sociali e personali del reo. La pena di morte deve essere abolita. Inoltre Beccaria rivolge critiche durissime all’impiego della tortura come strumento di acquisizione della prova. Questi principi hanno connotato in parte le codificazioni degli ultimi decenni del ‘700. Queste idee hanno trovato definitiva consacrazione con la rivoluzione francese del 1789. Questa impostazione ideologico-giuridica, seguendo il modello del codice penale napoleonico del 1810, ha caratterizzato le codificazioni liberali europee e italiane dell’800. 234 LA SCUOLA CLASSICA La scuola classica di diritto penale si è affermata in Italia a partire dai primi decenni dell’800. Il suo esponente di maggior spicco è stato Francesco Carrara. Caratteristica della scuola classica è stato il tentativo di costruire un sistema astratto di diritto penale, indipendentemente dalle contingenze politico-sociali, ed ancorato ai valori della ragione assoluta. Il compito del giurista è la costruzione del sistema dei reati e delle pene secondo criteri di razionalità scientifica: quindi al giurista non deve interessare l’analisi delle legislazioni positive quanto procedere all’elaborazione del sistema giuridico su basi logiche generali. Nella costruzione del sistema penale, Carrara e i classici propongono i capisaldi delle idee liberali. Le garanzie della legalità e dell’irretroattività della legge penale sono indiscutibili. Nessuno deve essere punito per i soli pensieri e le sole azioni; si dà per scontato che reato responsabilità penale presuppongano la realizzazione di un fatto e di un elemento psicologico (doloso o colposo); si subordina la possibilità di configurare tale responsabilità alla presenza della capacità di intendere e di volere del soggetto agente (libero arbitrio), e cioè alla libera capacità di scegliere tra il bene e il male. Il rapporto di proporzione che deve intercorrere fra reato e sanzione penale viene impostato solo sul terreno della retribuzione giuridico-morale. Inoltre la scuola classica si caratterizza per il perfezionamento degli strumenti di analisi tecnica. L’elaborazione della scuola classica ha influenzato il codice penale Zanardelli del 1889: esso rappresenta un’elevata espressione del complesso di garanzie illuministico-liberali ed ha rappresentato un significativo passo avanti nella configurazione dei presupposti generali della responsabilità penale: è stata eliminata la pena di morte; il sistema delle pene è stato articolato, oltrechè nelle pene privative della libertà personale e pecuniarie, in un complesso di sanzioni diverso dal carcere; nella parte speciale, il codice Zanardelli è stato attento a punire soltanto fatti lesivi di interessi, a costruire i reati di pericolo in termini di pericolosità concreta, a rispettare il principio di tassatività delle fattispecie, soprattutto ad evitare livelli eccessivi di pena. LA SCUOLA POSITIVA Con la scuola positiva si assiste ad un cambiamento radicale nell’approccio al tema del diritto penale. I positivisti hanno cambiato innanzitutto il metodo: mentre i classici utilizzavano il metodo deduttivo, ricostruendo il sistema penale sul terreno di una rigorosa impostazione logica, i positivisti hanno seguito il metodo induttivo tipico della ricerca sul campo. I classici privilegiavano l’analisi del reato e della pena, 234 e poco o nulla si occupavano del delinquente; i positivisti invece hanno posto al centro della loro attenzione la personalità dell’autore. Sono mutati inoltre idea e presupposti della responsabilità penale: i classici sostenevano che il reo, dotato di libero arbitrio, se sceglieva il male doveva essere punito in base alla gravità dell’illecito commesso; i positivisti hanno negato l’esistenza del libero arbitrio, affermando che la commissione di un reato è sintomo di devianza e che pertanto il suo autore è un anormale che, in quanto tale, non può essere chiamato a rispondere di ciò che ha commesso, ma deve essere curato, rieducato, aiutato a recuperare il suo equilibrio psichico. La pena è stata sostituita pertanto da una misura di natura preventivo-sociale, specificamente destinata a rimuovere le cause della devianza. La sua durata quindi non può essere predeterminata, in quanto destinata a durare fino a che non fosse venuta a cessare la situazione di pericolosità sociale. La scuola positiva si è posta come alternativa alla scuola classica ed è riuscita ad influenzare profondamente la cultura giuridico-penale italiana ed europea. Nella seconda decade del ‘900 si è imposta come scuola vincente, tanto che il guardasigilli Mortara incaricò Enrico Ferri di redigere un progetto di codice penale, il quale fu pubblicato nel 1921 ma non ebbe seguito a causa delle vicende politiche italiane. TECNICISMO GIURIDICO Questo nuovo orientamento culturale trovò la prima enunciazione organica, una sorta di manifesto, nella prolusione all’università di Sassari svolta da Arturo Rocco nel 1910. Secondo Rocco il diritto penale era in crisi a causa della sovrapposizione tra diritto, antropologia, psicologia, statistica, sociologia, filosofia del diritto e politica, della scarsa attenzione che presta alla realtà legislativa vigente e del disprezzo per la costruzione dogmatica degli istituti penali in base ai principi del diritto positivo in vigore. Entrambe le scuole pertanto erano inaccettabili: la scuola classica per aver preteso di elaborare un diritto penale assoluto e immutabile; la scuola positiva per aver affermato che il diritto penale non è altro che un capitolo della sociologia. Per la scuola del tecnicismo giuridico, compito del giurista deve essere esclusivamente di interpretare correttamente le leggi e costruire dogmaticamente gli istituti giuridici in conformità agli enunciati legislativi. Scienza giuridica e politica criminale diventano mondi separati: la prima si deve occupare soltanto della realtà normativa scelta dal legislatore, la seconda è appannaggio esclusivo dei politici, politologi e sociologi. Il giurista non deve interessarsi di politica e di società ed eventualmente valutare criticamente le leggi alla luce delle esigenze politico-sociali: il suo compito è soltanto interpretare le leggi dello Stato ed, eventualmente, procedere ad elaborazioni dogmatiche di quanto desumibile dal 234 notare che ai beni giuridici classici sono stati affiancati beni giuridici nuovi di sicura rilevanza costituzionale, quali: l’integrità del territorio, la salubrità dell’ambiente, la salute dei cittadini, la sicurezza sui luoghi di lavoro, la tutela dei consumatori, l’economia pubblica e privata. Un cenno merita inoltre il tema fondamentale del sistema sanzionatorio. La Costituzione, stabilendo che anche le pene devono tendere alla rieducazione del condannato, ha posto le premesse per una trasformazione della disciplina della sanzione penale. Su questo terreno si è sviluppata un’intensa elaborazione dottrinale diretta a modificare i contenuti esecutivi della pena carceraria, a sostituire il carcere con sanzioni non detentive, a superare l’anacronistico sistema del doppio binario, eliminando le misure di sicurezza e prevedendo un’unica sanzione penale destinata ad assicurare sia la prevenzione generale sia la prevenzione speciale. L’EVOLUZIONE DEL DIRITTO PENALE IN EPOCA REPUBBLICANA Dal dopoguerra ad oggi la riforma del codice penale, tentata varie volte, non è mai stata realizzata. Il testo originario del 1930 ha subito tuttavia nel corso degli anni delle abrogazioni e delle modificazioni di sue norme od istituti. Una riforma organica del codice sarebbe comunque auspicabile. Nel trattare gli interventi che si sono succeduti nel tempo giova rilevare che una importante funzione nel rinnovamento di alcuni principi cardine della parte generale e della parte speciale del codice sono stati realizzati dagli interventi della Corte Costituzionale e della giurisdizione ordinaria.  Legge 127/1958 ha modificato la disciplina della responsabilità penale per i reati commessi col mezzo della stampa, eliminando nei confronti del diretto responsabile la responsabilità oggettiva originariamente prevista dal codice Rocco  Leggi 191/1962 e 1634/1962 hanno modificato gli istituti della sospensione condizionale della pena e della liberazione condizionale in una prospettiva di maggiore apertura nei confronti della funzione preventivo-speciale assegnata dalla Costituzione alla pena  Legge 689/1981 ha affrontato il tema della depenalizzazione dei reati bagatellari ed ha enunciato alcune regole generali destinate ad operare nei confronti degli illeciti depenalizzati, in larga misura mutuate da principi di garanzia da tempo enunciati nei confronti dei reati. Questa legge inoltre, a fianco della depenalizzazione, ha previsto sanzioni sostitutivi delle pene detentive brevi, formulato una nuova disciplina delle pene pecuniarie, ampliato l’ambito della querela e modificato il sistema delle pene accessorie. 234 La scelta di consentire l’eliminazione delle pene detentive brevi attraverso la loro sostituzione con sanzioni non detentive, da un punto di vista politico- criminale è stata particolarmente felice  Legge 220/1974 è il primo intervento consistente di modifica della parte generale del codice; si è estesa la possibilità del giudizio di comparazione a tutte le circostanze aggravanti e attenuanti, ha ampliato i limiti della sospensione condizionale della pena  Legge 354/1975 (riforma dell’ordinamento penitenziario) mira ad assicurare i diritti dei condannati, rendere l’esecuzione penitenziaria coerente con la funzione rieducativa della pena e prevedere sanzioni alternative in grado di assicurare la rieducazione anche attraverso forme di esecuzione penale non carceraria.  D.lgs. 231/2000 ha introdotto la responsabilità amministrativa da reato delle persone giuridiche, che ha sostanzialmente infranto il principio secondo cui “societas delinquere non potest” Riforme poco felici sono state invece le due leggi che hanno modificato la disciplina della legittima difesa (intervenute rispettivamente nel 2006 e nel 2019), e la cosiddetta Legge Cirielli, che ha ridotto i tempi della prescrizione senza però assicurare nel contempo una più veloce celebrazione dei processi, determinando così una dannosa esplosione di reati prescritti e di casi abnormi di denegata giustizia, ed ha anche inasprito la disciplina dell’ordinamento penitenziario. È da ricordare inoltre il d.lgs. 28/2015, che ha inserito nel codice penale l’art 131-bis intitolato “esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto”. Numerosi sono stati anche gli interventi di modifica della parte speciale, ma è mancata un’organica riforma dell’intero codice. I tentativi sono stati in realtà numerosi; ricordiamo soprattutto il progetto Pagliaro e il progetto Grosso (quest’ultimo in particolare ha ulteriormente curato l’adeguamento del codice ai principi costituzionali ed alle più moderne tendenze di politica criminale. 234 CAPITOLO 3 PRINCIPI GENERALI DI POLITICA CRIMINALE DIRITTO PENALE E POLITICA CRIMINALE Per politica criminale si intende l’insieme degli strumenti che un sistema predispone per contrastare la criminalità e la ricerca di quelli che si presentano più efficaci (c.d. razionalità di scopo). La politica criminale NON coincide con la politica penale, che affronta il problema della criminalità attraverso il ricorso a strumenti strettamente penali: quindi, la politica criminale comprende la politica penale ma ha un ambito di applicazione più ampio. Si pensi, ad esempio, alla lotta alla criminalità organizzata, che richiede sanzioni penali ma anche interventi di tipo non penale (limiti all’iscrizione nell’albo degli appalti). A sua volta, la politica criminale costituisce un aspetto della più ampia politica sociale, che ha per oggetto qualunque fenomeno sociale e deve intervenire in via preventiva per contrastare i fattori predisponenti alla commissione del reato, i cosiddetti fattori criminogeni. Nell’ambito della politica criminale il diritto penale è costituito dall’insieme delle regole che disciplinano i presupposti della responsabilità penale e le conseguenze sanzionatorie che seguono alla commissione di un reato. Franz von Liszt elevò il diritto penale alla qualità di magna charta del reo: in effetti il diritto penale, ricorrendo alle sanzioni più afflittive di cui il sistema disponga, costituisce un’arma a doppio taglio di tutela dei beni giuridici attuata attraverso la lesione di beni giuridici; le sue norme, quindi, costituiscono un limite alla politica criminale. Se la politica criminale è alla ricerca delle strategie più efficaci per contrastare un fenomeno criminale, il diritto penale con il suo complesso di garanzie costituisce un argine alla logica puramente preventiva. Il diritto penale, da questo punto di vista, assicura all’autore del reato garanzie su due versanti: da un lato gli garantisce che non sarà punito se non nel rispetto delle regole previste dall’ordinamento (tutela dagli abusi del potere punitivo), dall’altro lato, nella misura in cui la potestà punitiva spetta allo Stato, lo tutela da arbitrarie forme di vendetta privata attuate dalla vittima o da altri per essa (tutela dagli abusi dell’autodifesa privata). 234 essere accessibili e devono essere prevedibili, sia nel loro contenuto sia nelle conseguenze sanzionatorie. - Principio di materialità: il principio di materialità impone al legislatore di incriminare solo comportamenti umani esteriormente percepibili: il diritto penale NON può accedere al foro interno del soggetto. Tale principio trova fondamento nell’art 25 c2 Cost secondo il quale nessuno può essere punito se non in forza di una legge entrata in vigore prima del fatto commesso; questo riferimento al fatto commesso esprime proprio la necessità di una condotta che sia esternamente percepibile. Non contrastano con il principio di materialità i reati omissivi , in quanto la condotta omissiva è rilevante solo nella misura in cui sussista un obbligo di attivarsi o di impedire l’evento. È invece incompatibile con il principio di materialità il cosiddetto diritto penale della volontà, proposto dalla Scuola di Kiel, secondo la quale la sanzione penale non deve intervenire per reprimere fatti dannosi ma per colpire volontà cattive. Sono altresì incompatibili con il principio di materialità il diritto penale dell’atteggiamento interiore che pone al centro della relazione penale l’atteggiamento spirituale del soggetto rispetto ai beni giuridici più che il comportamento diretto ad offenderli, e il diritto penale della pericolosità nel quale si punisce non l’autore di un fatto ma l’autore pericoloso, la cui condotta di vita appare sintomatico di rischio di commissione di reati. - Principio di offensività: è anche necessario che la pena sia rivolta nei confronti di fatti offensivi dei beni giuridici. Possiamo distinguere tra offensività in astratto, che in primis si rivolge al legislatore, e offensività in concreto, che si rivolge al giudice. Questa distinzione consente di precisare da subito che spetta al principio di offensività in astratto la funzione di limite alle scelte di incriminazione del legislatore. La necessità che il reato consista in un fatto offensivo di un bene giuridico deriva dalle riflessioni degli illuministi che avevano evidenziato l’esigenza di limitare la potestà penale anche ai soli fatti dannosi per la società. L’idea, però, che il reato debba costituire un fatto offensivo di beni giuridici è stata elaborata nel 1834 dal giurista tedesco Birnbaum, secondo il quale il bene giuridico deve presentare due caratteristiche: deve costituire un’entità pre-normativa che il legislatore non crea attraverso l’introduzione della norma penale ma che trova già nel contesto sociale; ed è necessario che presenti il requisito dell’ offendibilità, ossia il bene deve poter essere offeso da una condotta. Tale concezione è criticata dalla scuola di Kiel, che al reato offensivo di un bene giuridico sostituisce il reato come violazione di un dovere di obbedienza, violando conseguentemente l’obbligo di fedeltà allo Stato. Questa impostazione 234 teorica si accordava al diritto penale della volontà. Bisogna aspettare gli anni ’60 del secolo scorso per vedere nuovamente valorizzata la funzione del bene giuridico. Il tentativo più articolato di vincolare in termini giuridici la teoria del bene giuridico è stato compiuto da Franco Bricola negli anni Sessanta: questo autore, partendo dal presupposto che la sanzione penale incide direttamente sulla libertà personale, ha sostenuto che il sacrificio di un bene di rilevanza costituzionale, che l’art 13 Cost dichiara inviolabile, giustifica il ricorso alla sanzione penale solo per tutelare beni dotati anch’essi di rilevanza costituzionale. Tale rilevanza non spetta solo ai beni espressamente citati in Costituzione, ma anche ai beni impliciti, che possono cioè essere desunti da quelli oggetto di espressa menzione, ed ai beni presupposti, la cui tutela è in rapporto di presupposizione necessaria rispetto a quella dei beni espressamente menzionati in Costituzione. Ad esempio, così, dall’espressa menzione del paesaggio nell’art 9 Cost, Bricola dedusse la rilevanza anche del bene ambiente che allora la Costituzione non contemplava. La teoria dei beni giuridici costituzionali prevista da Bricola intendeva dare base normativa al bene giuridico, al fine di garantirgli un’effettiva potenzialità critica che sino ad allora questa categoria giuridica non era riuscita ad esprimere. L’importanza della tesi di Bricola risiede nel fatto che il principio di offensività in astratto da principio argomentativo di mero indirizzo di politica criminale viene assunto a principio dimostrativo in grado di fondare un giudizio di legittimità costituzionale sulle scelte di incriminazione fatte dal legislatore. L’importanza del bene è direttamente proporzionale all’anticipazione della punibilità: il rispetto del principio di offensività è garantito non solo dalle fattispecie di lesione, ma anche da quelle di semplice messa in pericolo del bene offeso e l’importanza del bene giuridico giustifica la maggiore o minore anticipazione della tutela; sul piano sanzionatorio, poi, quanto più è rilevante il bene sul piano costituzionale, tanto più si giustifica un corrispondente inasprimento sanzionatorio. La teoria dei beni giuridici costituzionali è andata incontro alle critiche della maggioranza della dottrina italiana: taluni ganno ravvisato il rischio di dirigismo nei confronti del legislatore da parte di un testo costituzionale che rischia di diventare obsoleto a fronte delle nuove esigenze di tutela; altri hanno sostenuto che la teoria finisce per essere o troppo selettiva (se la tutela penale è limitata ai soli beni espressamente menzionati in Costituzione) o poco vincolante (se dà rilevanza anche ai beni impliciti e presupposti, che rischiano di compromettere la funzione del bene giuridico); altri ancora hanno evidenziato la debolezza del presupposto argomentativo dell’art 13 Cost che dichiara inviolabile la libertà personale ma allo stesso 234 tempo consente la sua limitazione nel rispetto della duplice riserva di legge e di giurisdizione. Nonostante queste obiezioni non v’è dubbio che il richiamo alla tutela dei beni giuridici costituzionali debba svolgere un’imprescindibile funzione di direzione delle opzioni di politica criminale. Anche la giurisprudenza costituzionale ha riconosciuto al principio di offensività in astratto il valore di limite di rango costituzionale alla discrezionalità del legislatore ordinario, limite fondato sull’art 25 c2 Cost, riconoscendo alla Corte stessa il compito di accertarne il rispetto da parte delle norme penali. In alcuni casi il principio di offensività si è espresso attraverso il principio di ragionevolezza: una fattispecie non offensiva di alcun bene giuridico è irragionevole, e in quanto tale viola l’art 3 Cost (in tal senso va letta la sentenza con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale della contravvenzione di mendicità non invasiva). Il riconoscimento del principio di offensività in astratto produce effetti positivi in termini di limitazione della tutela penale: anzitutto, esclude la legittimità del diritto penale d’autore, nel quale rilevano non i fatti offensivi ma le condizioni e le qualità personali dell’autore del fatto; altresì, il principio di offensività consente di escludere la rilevanza penale di condotte che possono eventualmente essere oggetto di disapprovazione morale, ma che non offendono interessi di terzi o della collettività, in quanto si risolvono in fatti che appartengono a insindacabili scelte individuali. Il principio di offensività, quindi, fonda la distinzione fra diritto penale e morale, in quanto i precetti dell’uno non possono essere fondati sui precetti dell’altra. Questa questione ha assunto rilevanza nel dibattito internazionale tra i sostenitori di due visioni opposte del diritto penale, quella liberale e quella paternalista: secondo la prima, l’ordinamento deve garantire sfere di libertà individuale in relazione a quelle condotte che non producono danno a terzi; la seconda invece muove dal presupposto che il diritto penale debba tutelare i beni giuridici anche rispetto alle condotte autolesive che i loro titolari liberamente decidessero di tenere, con la conseguenza che il diritto penale diventa uno strumento coercitivo di limitazione delle scelte individuali (vedi tema della prostituzione). È indubbio che il richiamo al bene giuridico come oggetto della tutela penale abbia permesso un’interpretazione evolutiva degli stessi interessi tutelati alla luce dei principi costituzionali e dell’evoluzione del contesto socio-culturale. - Principi di proporzionalità, sussidiarietà ed efficacia della tutela penale: la dottrina oggi riconosce in modo unanime la necessità di delimitare l’intervento penale alla tutela di beni che appaiono essere meritevoli di tutela attraverso la più grave delle sanzioni di cui l’ordinamento dispone: è 234 Un altro limite alle scelte di incriminazione del legislatore è costituito dal principio di colpevolezza. Questo principio esprime il rifiuto di fondare la responsabilità penale su basi esclusivamente oggettive e richiede anche un’imputazione soggettiva che la Corte Costituzionale, nella fondamentale sentenza 364/1988, ha considerato imprescindibile per garantire il rispetto del principio di personalità della responsabilità penale: il dolo o la colpa devono investire gli elementi più significativi della fattispecie incriminatrice, poiché solo l’imputazione soggettiva evita che sia chiamato a rispondere penalmente di un fatto colui al quale non può essere mosso soggettivamente alcun rimprovero. Il principio di colpevolezza si traduce quindi in un limite alla politica criminale in quanto il legislatore non può prevedere forme di imputazione oggettiva del fatto. Con la stessa sentenza la Corte Costituzionale ha espresso il principio secondo cui la legge penale deve essere conoscibile da parte dei consociati e il legislatore deve attivarsi per fare in modo che i consociati possano conoscerne il contenuto. Questa istanza di conoscibilità si traduce anche in un limite alle scelte di incriminazione: si tratta del principio di determinatezza della norma penale e della prevedibilità del loro contenuto. TENDENZE IN ATTO DELLA LEGISLAZIONE PENALE L’ipertrofia del sistema penale si traduce negativamente sul piano processuale, perché va a compromettere la tenuta del principio di obbligatorietà dell’azione penale di cui all’art 112 Cost. La garanzia sottesa al principio di legalità dell’azione penale è di fatto vanificata se il continuo ampliamento della sfera penale rende impossibile l’avvio dei procedimenti penali per tutte le notizie di reato pervenute all’autorità giudiziaria, con inevitabile prescrizione di alcuni reati. L’efficacia della repressione penale passa in primo luogo attraverso una rigorosa selezione dei fatti ritenuti meritevoli in astratto di pena; questa scelta va fatta attraverso il filtro della depenalizzazione dei reati bagatellari : sono tali le fattispecie che già ad una valutazione astratta costituiscono fatti del tutto marginali; rispetto a questi fatti può essere sufficiente l’intervento di sanzioni di natura diversa, sempre che non si decida di renderli del tutto leciti. Va detto che da tempo il legislatore è intervenuto a depenalizzare alcuni reati bagatellati: con la ln 689/1981 si sono trasformati i delitti e le contravvenzioni puniti con la sola pena della multa o dell’ammenda in illeciti amministrativi puniti con sanzione amministrativa pecuniaria (c.d. illecito depenalizzato-amministrativo). Questa strada è stata continuata anche nel 1999, nel 2006 e nel 2014 e 2017 il legislatore ha depenalizzato alcuni reati puniti con pena pecuniaria trasformandoli in illecito amministrativo ed alcuni reati sono stati trasformati in illeciti civili. A contenere l’ipertrofia del sistema penale hanno 234 contribuito anche gli istituti di depenalizzazione in concreto: ci riferiamo ai casi in cui, pur non venendo meno la qualificazione del fatto come reato, la legge esclude la punibilità in presenza di alcune condizioni che tengono contro della particolare tenuità del fatto o del buon esito della messa alla prova del soggetto o dell’intervento di condotte riparatorie. Allo stesso tempo però è in atto una tendenza opposta a quella della depenalizzazione nella prospettiva di potenziamento dello strumento penale attraverso la progressiva anticipazione delle soglie di punibilità. Si spiegano così alcune linee di tendenza della politica criminale: la proliferazione dei reati di pericolo, l’ingresso di nuovi beni giuridici strumentali, la riscoperta delle misure di sicurezza, la proliferazione delle misure di prevenzione. L’elemento più preoccupante di sviluppo attuale del diritto penale è però il populismo penale, che indica la tendenza ad utilizzare lo strumento penale in chiave di comunicazione politica, suscitando e dirigendo paure collettive con la finalità di ottenere consensi elettorali; tutto ciò è connotato dall’inefficienza dell’intervento, che diventa puramente simbolico. 234 CAPITOLO 4 RISERVA DI LEGGE IL PRINCIPIO DI LEGALITA’ E I SUOI SOTTOPRINCIPI In forza del principio di legalità, frutto della Rivoluzione francese, i precetti penali devono provenire non più dall’arbitrio di un sovrano assoluto ma solo e sempre da una legge emanata da un Parlamento democraticamente eletto; legge che, inoltre, deve essere previa al fatto commesso, chiara e precisa, in modo tale che tutti i cittadini possano cogliere senza incertezze i contorni ed i limiti dei fatti penalmente vietati. L’esigenza di sottrarre all’arbitrio del potere assoluto la produzione normativa penale trova origine nel contratto sociale: i cittadini (non più sudditi) mettono a disposizione dello Stato anche la loro libertà personale al fine di garantire la pace sociale, fondata sul rispetto dei beni e degli interessi fondamentali di tutti i consociati. Pertanto, solo una norma che sia frutto dell’organo elettivo e rappresentativo rende legittima la scelta dei fatti da vietare, nonché delle relative sanzioni. D’altra parte, il principio di legalità costituisce una conseguenza imprescindibile della divisione dei poteri. Sorto in ambito politico ed istituzionale, il principio acquista, poi, una sua autonomia in campo più strettamente penalistico, alla luce del suo profondo significato di garanzia: l’esigenza di limitare la potestà punitiva dello Stato trova uno sbocco sicuro nell’idea che i precetti penali siano frutto dell’attività normativa dell’organo elettivo, ove sono rappresentate le istanze di tutti i cittadini, anche delle minoranze (primo corollario del principio di legalità è 234 legge statale, introdurre nell’ordinamento regionale o provinciale delle modifiche, anche in materia penale, alla legislazione ordinaria dello Stato. L’ultima questione, con riferimento alla potestà normativa penale delle Regioni, concerne la possibilità, per una legge dello Stato, di munire di tutela penale una legge regionale. La soluzione del problema varia a seconda che la legge regionale proceda o segua la legge statale che le attribuisce rilevanza penale. Nel primo caso non si pongono particolari problemi: la norma statale munisce di sanzione penale un precetto che già esiste, e che viene, in qualche misura, fatto proprio dall’organo parlamentare, nel pieno rispetto del principio di legalità. Se invece la legge regionale non è ancora stata emanata, il rinvio da parte del Parlamento avrebbe, per così dire, al buio, e la definizione complessiva del precetto penale sarebbe totalmente rimessa alla discrezionalità del Consiglio regionale. LA CONSUETUDINE Per consuetudine si intende un modo consueto ed abituale di operare, che ingenera nei cittadini la convinzione della sua corrispondenza ad una norma giuridica. In ambito civile, alla consuetudine viene attribuita una significativa rilevanza: le Disposizioni sulle leggi in generale, implicitamente, ammettono che gli usi abbiano rilevanza quando la materia non sia regolata né dalle leggi né dai regolamenti. I problemi sono invece ben più complessi in materia penale. In questa materia esistono quattro tipi di consuetudine, che pongono differenti questioni di legittimità. Innanzitutto, è assolutamente pacifico che non vi sia spazio per la cosiddetta consuetudine incriminatrice, dal momento che l’introduzione di un nuovo precetto penale è riservato alla legge. La medesima conclusione vale per la consuetudine abrogatrice: quando una norma resta disapplicata, anche per molto tempo, ciò non significa che essa sia stata implicitamente abrogata. La terza ipotesi riguarda la funzione integratrice, in virtù della quale la consuetudine potrebbe, in materia penale, attribuire rilievo a determinate situazioni, sulla base degli usi e del convincimento del loro valore giuridico. L’esclusione della consuetudine integratrice non deve essere confusa con la rilevanza che il diritto penale deve attribuire al sentire sociale in materia di elementi normativi di carattere extragiuridico: si si pensi ai termini “osceno” e “pudore”, rilevanti ad esempio ai sensi del delitto di atti osceni in luogo pubblico, ovvero concetti che variano a seconda dei periodi e delle epoche storiche. Occorre anche ricordare come, in alcuni casi, sia la stessa legge penale a far riferimento alla consuetudine, ed in queste ipotesi ovviamente il giudice dovrà tenere conto degli usi, ma il principio di legalità resta salvo in virtù del richiamo esplicito da parte della norma. È il caso della circostanza aggravante del furto (art 234 625 cp) che prevede un aumento di pena quando la cosa mobile altrui sottratta sia esposta alla pubblica fede (es: autovettura parcheggiata per strada). L’ultima ipotesi attiene alla cosiddetta consuetudine scriminante: secondo la giurisprudenza di legittimità il giudice non può applicare una causa di giustificazione non codificata ma ritenuta rilevante dai consociati in virtù di un uso consolidato, generalizzato e diffuso. RISERVA DI LEGGE ASSOLUTA O RELATIVA La normazione penale è di esclusivo appannaggio legislativo; ma la legge può rinviare, per la descrizione di uno o più degli elementi costitutivi della fattispecie penale, ad una fonte di rango inferiore (es: regolamento ministeriale)? Nei primi anni immediatamente successivi all’entrata in vigore della Costituzione, una parte della dottrina riteneva che la riserva di legge sarebbe stata rispettata anche se, nella descrizione degli elementi della fattispecie, fosse intervenuta una fonte regolamentare, purchè ciò avvenisse sulla base di un esplicito rinvio operato dalla legge stessa (cosiddetta riserva di legge relativa). Ragionando in tal modo si finiva per snaturare la ratio di garanzia. Si è quindi consolidata, anche nella giurisprudenza della Corte Costituzionale, un’idea di riserva assoluta di legge, in virtù della quale tutti gli elementi costitutivi del fatto tipico, nonché le relative sanzioni, devono essere indicati dalla legge. Ne deriva pertanto che una norma penale che contenga un rinvio da parte della legge ad un regolamento deve essere ritenuta illecita. Se invece la legge rinvia ad un precedente regolamento, la riserva di legge è rispettata nel caso del cosiddetto rinvio recettizio, quando cioè l’amministrazione non possa più modificare l’atto regolamentare dopo l’entrata in vigore della legge che lo richiama nel precetto penale. Qualora invece l’amministrazione possa modificare il proprio regolamento anche dopo l’entrata in vigore della legge penale che lo richiama (cosiddetto rinvio mobile) allora la riserva di legge è violata, dal momento che una successiva modifica del regolamento potrebbe incidere sugli elementi costitutivi del reato, sottraendo alla legge la scelta esclusiva dei fatti da vietare e dei loro elementi costitutivi. Una diversa ipotesi attiene all’integrazione, da parte della fonte subordinata, di elementi del fatto che non coinvolgono alcuna discrezionalità perché relativi ad aspetti tecnici del reato, per esempio, in materia di stupefacenti il d.p.r. 309/1990 rimanda, per l’individuazione delle sostanze psicotrope oggetto delle condotte vietate ad una tabella che viene periodicamente aggiornata dal Ministero della salute; in questo caso la fonte subordinata si limita ad inserire nella tabella le molecole di tutte le sostanze che hanno principio psicoattivo, sulla base di quelle che sono le acquisizioni scientifiche, senza che vi sia l’esercizio di un qualche 234 potere discrezionale da parte del Ministero. L’ultima questione attiene alle cosiddette norme penali in bianco, cioè quelle fattispecie incriminatrici che richiamano, tra gli elementi costitutivi, un provvedimento amministrativo. Un tipico esempio è costituito dalla contravvenzione di inottemperanza dei provvedimenti dell’autorità (art 650 cp), che punisce chi non osserva un provvedimento legalmente dato dall’autorità per ragione di giustizia o di sicurezza pubblica, o d’ordine pubblico o di igiene. L’ordine dell’autorità costituisce un elemento fondamentale nella struttura della fattispecie incriminatrice suscitando fondate riserve sul reale rispetto del principio di riserva di legge. In altre parole, il rinvio alla fonte subordinata sarebbe legittimo ogni qual volta vi sia una sufficiente specificazione del precetto da parte della norma di legge. Attualmente si tende a distinguere a seconda che il provvedimento amministrativo richiamato sia di ordine generale o particolare e specifico: solo in quest’ultima ipotesi il principio di legalità sarebbe salvo. L’INTERAZIONE DELL’ORDINAMENTO PENALE NAZIONALE CON L’ORDINAMENTO COMUNITARIO L’incidenza delle fonti comunitarie: i trattati istitutivi dell’Unione Europea hanno posto con sempre maggior urgenza il problema dell’interazione tra diritto penale interno degli Stati membri e disciplina sovranazionale. In un sistema improntato rigidamente al principio di legalità, appare evidente che gli organi sovranazionali non possono avere potestà normativa in materia penale, dal momento che solo il Parlamento nazionale può legittimamente individuare i fatti vietati e le relative pene. Questa assenza di potestà normativa penale, cosiddetta diretta, si fonda oltre che sull’art 25 Cost anche sulla considerazione che i tre Trattati istitutivi dell’Unione (Trattato CEE, Trattato di Maastricht e Trattato di Lisbona) non prevedono una competenza penale diretta degli organi comunitari. Non si può dimenticare che gli organi comunitari non hanno base democratica ed elettiva, pertanto la tutela diretta di interessi comunitari può avvenire solamente attraverso la previsione di sanzioni amministrative che non sono riservate dalla nostra Costituzione alla legge del Parlamento. La tutela penale degli interessi di rilevanza comunitaria: il problema della tutela degli interessi comunitari si è posto con grande rilevanza. Le fonti comunitarie, infatti, possono imporre agli Stati membri l’introduzione di nuove fattispecie incriminatrici a tutela di interessi comunitari o di interessi di particolare rilievo, soprattutto sovranazionale. L’esercizio di questa potestà è divenuta, nel corso degli anni, sempre più pressante, ed ha trovato un momento di particolare sostegno con il Trattato di Lisbona, che prevede che il Parlamento ed il Consiglio, attraverso 234 Ancora, il vincolo sovranazionale è reso particolarmente forte dalla necessità di subordinare l’interpretazione delle norme interne, anche penali, non solo alla luce delle previsioni della Convenzione, ma anche della giurisprudenza della Corte europea. CAPITOLO 5 SUCCESSIONE DI LEGGI PENALI NEL TEMPO PRINCIPIO DI IRRETROATTIVITA’ Il secondo fondamentale corollario del principio di legalità è il divieto di retroattività della legge penale, in virtù del quale nessuno può essere punito per un fatto che non fosse già previsto come reato al tempo in cui il fatto è stato commesso. È evidente la ratio di garanzia di questo principio, ma l’irretroattività della legge penale svolge anche una fondamentale funzione di certezza dal momento che i cittadini devono essere messi in grado di conoscere in anticipo, con chiarezza, quali sono le possibili conseguenze penali dei loro comportamenti, per poter orientare con consapevolezza il proprio agire. Questo principio di irretroattività è fermamente previsto dall’art 25 Cost e dall’art 7 CEDU. Di particolare interesse è l’interpretazione che la Corte europea ha dato del principio di quest’ultimo articolo, con riferimento al divieto di applicare retroattivamente non solo una fattispecie incriminatrice, ma anche un orientamento giurisprudenziale nuovo che non fosse prevedibile al tempo della commissione del fatto (sentenza Contrada). 234 PRINCIPIO DI RETROATTIVITA’ DELLA LEGGE PENALE PIU’ FAVOREVOLE L’art 25 c2 Cost impone il divieto di retroattività di una nuova fattispecie incriminatrice, mentre l’art 2 cp introduce una disciplina della successione delle leggi penali nel tempo improntata al canone della retroattività delle disposizioni penali più favorevoli al reo. La nostra giurisprudenza costituzionale ha individuato nel principio di uguaglianza, di cui all’art 3 Cost, sotto lo specifico profilo della ragionevolezza, un possibile recepimento del principio in questione. Se infatti il legislatore interviene ad abrogare una fattispecie incriminatrice, oppure modifica in senso favorevole al reo una norma penale, non sarebbe ragionevole continuare ad applicare, sotto la vigenza della nuova legge, le precedenti e più severe norme a chi viene giudicato oggi, anche se ha commesso il fatto sotto il vigore della legge precedente. Pertanto, anche la retroattività della legge penale più favorevole è imposta dalla Costituzione, ma non senza un limite: il legislatore, infatti, potrebbe introdurre una deroga al principio ma solo se l’eccezione è giustificata da una qualche ragionevolezza, quale, ad esempio, la necessità di bilanciare tra due interessi contrapposti entrambi meritevoli di considerazione. Nel dettaglio, la disciplina in materia di successione delle leggi penali nel tempo, di cui all’art 2 cp, appare piuttosto complessa. Una prima ipotesi è quella dell’abolitio criminis, che si verifica quando una legge successiva abroga una precedente fattispecie incriminatrice. Al riguardo, l’art 2 c2 cp prevede che non possano essere puniti coloro che hanno commesso il fatto sotto la vigenza della precedente legge incriminatrice (che, per l’appunto, è stata abrogata), ed anzi se vi è già stata sentenza di condanna, anche definitiva, ne debbano cessare immediatamente l’esecuzione e gli effetti penali. La ratio di questa previsione è piuttosto evidente: non avrebbe senso continuare a far espiare una sanzione detentiva a colui che ha commesso un fatto che non è più considerato meritevole di pena. L’art 2 c4 cp disciplina la successione di leggi penali nel tempo, ovvero il caso in cui il fatto è considerato reato sia nella legge precedente che in quella successiva, ma la disciplina è diversa; la regola dettata dal codice è che, in questi casi, il giudice debba applicare la legge più favorevole al reo. Occorre però distinguere tra abolitio criminis e successione di leggi penali nel tempo. Può parlarsi di abolitio criminis solo quando, in concreto, il fatto incriminato dalla norma previgente non rientri più, a nessun titolo, nella nuova fattispecie. Se invece vi è quella che la nostra dottrina e giurisprudenza chiamano criterio strutturale (= dal raffronto strutturale tra le due norme si evince che il fatto concreto rientra, pur con una disciplina diversa, sia nella prima che nella seconda fattispecie) allora si dovrà ritenere che vi sia successione di leggi penali nel tempo. Quando invece il raffronto strutturale tra le due norme porti ad escludere la continuità del tipo di illecito, allora vi è abolitio criminis. Comunque, 234 il criterio strutturale non è l’unico, potendo cedere il passo qualora la volontà del legislatore sia da intendersi nel senso dell’abolitio criminis. In questo confronto strutturale tra norme, può ben avvenire che solo alcune delle condotte precedentemente incriminate mantengano rilevanza penale: risulta allora esserci abolitio criminis per i fatti non più penalmente rilevanti, e successione delle norme penali per i fatti ancora penalmente rilevanti. Bisogna tenere a mente che, nel caso di successione di leggi penali nel tempo, il giudice, nel scegliere la disciplina più favorevole al reo, deve tenere conto della legge vigente al tempo di commissione del fatto e di tutte quelle successive; pertanto non si tratta di un raffronto tra due soli termini di paragone, ma tra tutte le leggi che si sono succedute nel tempo. Pertanto può avvenire che la norma più favorevole al reo sia quella “intermedia”, non in vigore né al momento del fatto né al momento del giudizio. Ancora, l’espressione “più favorevole” utilizzata dal codice può porre problemi nel momento nel quale la legge successiva sia più favorevole per alcuni aspetti ma meno favorevole per altri; in questi casi il giudice non potrà prendere una parte di una norma ed una parte dell’altra norma, ma dovrà valutare il favor rei in concreto. Bisogna infine chiarire che, mentre l’abolitio criminis spiega i suoi effetti positivi anche nel caso di sentenze definitive di condanna, la successione di leggi penali nel tempo trova un limite nel giudicato. L’unica eccezione a questa regola è data dall’art 2 c3 cp, in virtù del quale, quando la modifica legislativa prevede la sostituzione di una pena detentiva con una pena pecuniaria, la pena detentiva deve immediatamente cessare ed essere convertita nella corrispondente pena pecuniaria, anche per coloro i quali siano già stati giudicati con sentenza definitiva di condanna. LEGGI ECCEZIONALI E TEMPORANEE Ai sensi dell’art 2 c5 cp la disciplina dell’abolitio criminis e della successione delle leggi penali nel tempo non si applica alle leggi eccezionali e temporanee. Le leggi eccezionali sono quelle dettate dalla necessità di affrontare un evento straordinario e grave (es: terremoto, virus) e sono destinate a mantenere la loro vigenza fin tanto che dura la situazione di emergenza che le ha giustificate ed imposte. Le leggi temporanee sono invece quelle che prevedono, al loro interno, un termine di durata, oltre il quale cesseranno di avere effetto. Entrambe pertanto sono leggi a tempo, il cui termine è indicato in maniera implicita o esplicita. È necessario quindi che le eventuali previsioni penali contenute in una legge che è già destinata, ab origine, ad avere efficacia limitata nel tempo, si applichino ultrattivamente, cioè anche quando sarà venuta meno la situazione di eccezionalità o scaduto il termine di vigenza previsto, perché, altrimenti, la certezza di vedersi applicare, 234 SUCCESSIONE DI LEGGI PENALI E CRIMINI INTERNAZIONALI Si definiscono crimini internazionali i crimini di guerra, il genocidio, i crimini contro l’umanità e contro la pace. Essi sono stati, nella storia del secolo scorso, oggetto di processi penali che hanno dato origine ad una sorta di diritto penale internazionale, che, cioè, prescinde dalla normativa vigente in ogni Stato. L’evoluzione del diritto penale internazionale ha visto, nel 2002, la creazione della Corte Penale Internazionale, istituita dallo Statuto di Roma. Quest’ultima prevede sia il rispetto del principio di legalità che di irretroattività della legge penale. CAPITOLO 6 PRINCIPIO DI DETERMINATEZZA RATIO DI GARANZIA DEL PRINCIPIO DI PRECISIONE DELLE NORME PENALI Il principio di legalità impone che la tecnica di redazione delle fattispecie incriminatrici individui con precisione tutti gli elementi costitutivi della fattispecie incriminatrice, e più in generale, delle norme penali. Non basta, infatti, che le norme penali siano previste da una legge, ma occorre anche che sia concretamente possibile per i cittadini individuarne tutti gli elementi costitutivi. Infatti, solo norme chiare e precise possono orientare realmente l’agire dei cittadini nella scelta dei comportamenti leciti, rendendo efficace il sistema penale sotto il profilo della sua funzione general preventiva. Tale esigenza è espressamente manifestata dall’art 1 cp quando si prevede che nessuno possa essere punito se non per un fatto espressamente previsto dalla legge come reato. Inoltre, anche l’individuazione certa dei limiti del penalmente rilevante costituisce un presupposto indefettibile del 234 principio di colpevolezza, dal momento che solo in presenza di un precetto penale chiaro e privo di ambiguità nell’individuare i fatti vietati sarà possibile muovere un rimprovero a colui che lo abbia violato. Il principio di determinatezza deve altresì garantire i destinatari della legge penale da possibili abusi del potere giudiziario, che sarebbero consentiti da fattispecie descritte in termini generici, con esagerati margini di interpretazione, anche estensiva. I destinatari del principio di determinatezza sono pertanto il Parlamento, il giudice ed i cittadini. CRITERI DI TECNICA LEGISLATIVA Il principio di tassatività, per poter costituire un serio limite ad eventuali abusi del potere giudiziario, impone al legislatore di utilizzare tecniche legislative che, nell’individuare tutti gli elementi costitutivi della fattispecie incriminatrice, chiarisca al massimo grado possibile i confini dell’illecito penale. Al riguardo si distingue tra normazione casistica e normazione sintetica. La normazione casistica tende ad elencare tutti i possibili aspetti della realtà empirica che rientrano nella fattispecie incriminatrice (es: delitto di associazione di stampo mafioso – art 416 bis cp). Questa tecnica legislativa, assai rispettosa del principio di legalità, finisce per appesantire esageratamente la norma penale e, se consente di rispettare il principio di frammentarietà, rischia di lasciare impunite condotte che, pur offendendo il bene tutelato, non sono state inserite dal legislatore fra gli elementi costitutivi della fattispecie. Pare pertanto più opportuno il ricorso alla normazione sintetica, che è in grado di definire con certezza i limiti della rilevanza penale dei comportamenti dei cittadini, alla stregua di due criteri: da un lato vi deve essere un oggetto giuridico ben definito, ovvero il bene tutelato dalla fattispecie incriminatrice deve poter essere afferrato con chiarezza; inoltre, i termini che il legislatore utilizza devono poter essere oggetto di una verificabilità empirica, che consenta di individuarne il contenuto in termini concreti, reali, anche scientifici e non sulla base di mere valutazioni discrezionali operate dal giudice. Quando ricorre alla tecnica della normazione sintetica, il legislatore inevitabilmente ricorre ad elementi di carattere descrittivo oppure normativo. Questi ultimi, a loro volta, possono essere giuridici o extra giuridici cioè basati su definizioni normativo-sociali. Gli elementi descrittivi possono essere concetti numerici (es: 30 giorni), quantitativi (es: limiti di interesse stabiliti dalla legge) oppure termini descrittivi tratti dall’esperienza (es: i termini “uomo”, “sostanza alimentare”). La normazione sintetica basata su elementi normativi di carattere giuridico garantisce elevati livelli di determinatezza della fattispecie incriminatrice. I problemi maggiori in ordine alla determinatezza delle fattispecie incriminatrici si pongono con riferimento ai cosiddetti elementi normativi 234 extra giuridici, quali per esempio i concetti di “osceno”, “pudore”, “atti sessuali” ecc. il ricorso a questa tecnica legislativa è imprescindibile non solo per evitare una sorta di elefantiasi della descrizione delle fattispecie incriminatrici, ma anche perché attraverso gli elementi normativi extra giuridici è possibile adeguare l’interpretazione delle norme penali ai mutamenti del comune sentire. GLI ORIENTAMENTI DELLA CORTE COSTITUZIONALE La Corte Costituzionale è sempre stata restia a declaratorie di illegittimità basate sulla scarsa precisione del disposto normativo. In particolare, la Corte ha ritenuto sufficientemente determinati i termini rispetto ai quali sia possibile un rinvio al normale significato linguistico, soprattutto se valutati non in sé ma nel contesto testuale della fattispecie incriminatrice, intesa nel suo complesso. In seguito è intervenuta una fondamentale sentenza della Corte EDU secondo la quale uno dei requisiti derivanti dall’espressione “prevista dalla legge” è la prevedibilità, e pertanto una norma non può essere considerata una legge se non è formulata con sufficiente precisione in modo da consentire ai cittadini di regolare la loro condotta; essi devono essere in grado di prevedere le conseguenze che un determinato atto può comportare. La Corte Costituzionale si è adattata a tale visione. Talora il riferimento al significato linguistico del termine viene arricchito dalla lettura che il giudice ne deve dare, non tanto alla luce degli altri elementi di fattispecie, quanto di principi generali di carattere costituzionale. In altre occasioni si è ritenuto rispettato il parametro della determinatezza, facendo riferimento al cosiddetto diritto vivente, cioè all’interpretazione di un certo termine consolidatisi nella giurisprudenza di legittimità. 234 DIVIETO DI ANALOGIA Per analogia si intende l’integrazione dell’ordinamento giuridico attraverso l’applicazione, ad un caso non regolato dalla legge, della disciplina prevista per casi analoghi. Pacificamente legittima negli altri ambiti dell’ordinamento giuridico, l’analogia è certamente vietata nel diritto penale. In tal senso militano l’art 14 delle Preleggi (“le leggi penali e quelle che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati”), l’art 1 cp (ove prevede che i fatti puniti debbano essere espressamente indicati dalla legge) e l’ art 25 c2 Cost. Legittimare il ricorso all’analogia, infatti, violerebbe palesemente il principio di legalità, che impone, in materia penale, l’esclusivo esercizio della produzione normativa penale da parte del Parlamento. Il problema fondamentale attiene al confine tra analogia in malam partem (che è sempre vietata) ed interpretazione estensiva del diritto penale, che sarebbe consentita nella misura nella quale sia rispettato il limite del significato letterale della norma. CAPITOLO 8 LIMITI SPAZIALI ALL’EFFICACIA DELLA LEGGE PENALE IL DIRITTO PENALE NAZIONALE ED IL RAPPORTO CON GLI ALTRI ORDINAMENTI Alcune norme del codice vigente disciplinano l’obbligatorietà della legge penale italiana (art 3 cp), il concetto di territorio dello Stato (art 4 cp) e di delitto commesso nel territorio dello Stato (art 6 cp), la nozione di delitto politico (art 8 cp), la rilevanza penale dei fatti commessi interamente all’estero (artt 7, 9 e 10 cp). Inoltre, alcuni istituti al confine con il diritto processuale penale regolano l’estradizione sia attiva che passiva (cioè concessa o richiesta, art 13 cp) nonché la rilevanza delle sentenze penali straniere (artt 11 e 12 cp). La gran parte dei fatti di reato commessi all’estero sono sottoposti alla giurisdizione italiana se commessi da un cittadino italiano o se commessi da un cittadino straniero ai danni di uno italiano, ed addirittura se commessi dallo straniero ai danni di uno straniero qualora il colpevole si trovi nel territorio dello Stato. Inoltre, i progressivi obblighi cui è sottoposto il 234 nostro ordinamento nei confronti dell’Unione Europea, nonché la creazione della Corte Penale Internazionale hanno contribuito ad aumentare, soprattutto con riferimento ai crimini transnazionali, l’ambito di operatività della nostra legge penale per i fatti commessi all’estero. In termini generali, i criteri alla stregua dei quali valutare l’obbligatorietà della legge penale nello spazio sono quattro: 1) Principio di universalità: è punito alla stregua del diritto penale italiano qualsiasi delitto, commesso da chiunque, a danno di chiunque, anche all’estero. 2) Principio di territorialità: limita l’applicazione della nostra legge penale ai soli fatti commessi nel territorio dello Stato italiano. 3) Principio di personalità passiva: prevale l’applicazione della legge penale dello Stato cui appartiene il titolare del bene offeso dal reato. 4) Principio di personalità attiva: si applica la legge penale dello Stato di appartenenza del reo. Nessun sistema applica uno di questi criteri nella sua versione pura: ogni ordinamento giuridico disciplina l’efficacia della legge penale nello spazio attraverso la combinazione di tutti e quattro i criteri indicati. In termini di estrema sintesi si può affermare che il nostro ordinamento ha esplicitamente previsto all’art 6 cp il principio di territorialità, ma ha introdotto tante e rilevanti deroghe in forza delle quali, ai sensi degli artt 7-10 cp, la legge penale italiana si applica ai fatti commessi all’estero, da registrare una significativa tendenza verso il principio di universalità, pur temperato da alcuni limiti, derivanti dalla parziale applicazione dei due altri criteri, di personalità attiva e passiva. IL PRINCIPIO DI TERRITORIALITA’ Ai sensi dell’art 3 c1 cp “la legge penale obbliga tutti coloro che, cittadini o stranieri, si trovano nel territorio dello Stato”, con le uniche, tassative eccezioni previste dal diritto pubblico o internazionale (es: le immunità consolari). Conseguenza di questa obbligatorietà della legge penale è che tutti coloro che si trovano nel territorio dello Stato sono tenuti ad osservarla, e che pertanto, “chiunque commette un reato nel territorio dello Stato è punito secondo la legge italiana” ex art 6 c1 cp. Il primo fondamentale criterio di riferimento per l’applicazione della legge penale nello spazio, pertanto, è il principio di territorialità. Ai sensi dell’art 6 c2 cp “il reato si considera commesso nel territorio dello Stato quando l’azione o l’omissione che lo costituisce, è ivi avvenuta del tutto o in parte, ovvero si è ivi verificato l’evento che è la conseguenza dell’azione o dell’omissione”. Si tratta di un criterio molto esteso: il 234 reato è punito ai sensi della legge italiana anche se solo la condotta è stata tenuta in Italia e l’vento si è verificato all’estero, oppure anche se la condotta (attiva o omissiva) è stata tenuta interamente all’estero e l’evento si verifichi nel nostro territorio. Si applicherà la nostra legge penale anche ad un fatto avvenuto quasi completamente all’estero, il cui evento si è realizzato all’estero, purchè un frammento anche minimo della condotta si sia tenuto in Italia. Infine, un reato commesso interamente all’estero non può rientrare nella giurisdizione del giudice italiano per il solo fatto che sia legato dal vincolo della continuazione con altro reato commesso in Italia, trattandosi di ipotesi non compresa tra quelle che, ai sensi degli artt 7-10 cp , comportano deroga al principio di territorialità sul quale si basa la giurisdizione dello Stato italiano. LA NOZIONE DI TERRITORIO DELLO STATO Il territorio non va inteso solo come il suolo entro i confini d’Italia (comprensivo del sottosuolo, delle acque interne e delle coste), ma identifica, ai sensi dell’art 4 c2 cp, ogni altro luogo soggetto alla sovranità dello Stato, come il mare costiero e lo spazio aereo nazionale. Ai sensi dello stesso articolo, le navi e gli aeromobili italiani sono considerati come territorio dello Stato, ovunque si trovino, salvo che siano soggetti, secondo il diritto internazionale, a una legge territoriale straniera. Infine, occorre chiarire che il codice non riserva alcuna disciplina ai reati commessi a bordo di una nave straniera che si trovi nelle acque territoriali italiane. EFFICACIA DELLA LEGGE PENALE RISPETTO AI FATTI COMMESSI ALL’ESTERO Fatti puniti incondizionatamente: il principio di territorialità, come detto, deve essere integrato con altre disposizioni del codice, che danno conto di quella tendenziale università della legge penale italiana. In particolare, l’art 7 cp prevede che una cospicua serie di delitti siano puniti anche se commessi interamente all’estero, sia da parte del cittadino italiano che dello straniero. Occorre precisare che questi reati sono puniti ai sensi della legge penale italiana incondizionatamente, cioè indipendentemente da qualsiasi condizione di procedibilità. Per alcuni di questi fatti la ratio che giustifica l’applicazione della legge penale italiana, indipendentemente da qualsiasi riferimento territoriale, è data dal principio di personalità passiva: si tratta infatti di delitti che offendono direttamente un interesse dello Stato italiano. In tal senso vengono in rilievo, ai sensi del citato art 7 cp, le seguenti fattispecie criminose: - Delitti contro la personalità dello Stato italiano 234 incondizionatamente puniti, anche se commessi all’estero, da cittadino italiano o in danno di cittadino italiano. Se commessi da uno straniero in concorso con un cittadino italiano, la punibilità dello straniero è subordinata alle condizioni che si tratti di delitto per il quale è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni, e che vi sia la richiesta del Ministro della giustizia. STRUMENTI DI COLLABORAZIONE INTERNAZIONALE Rinnovamento del giudizio: l’art 11 c1 cp prevede che il cittadino e lo straniero, che abbiano commesso un reato nel territorio dello Stato, vengano sempre giudicati in Italia, anche se vi è già stato un giudizio penale all’estero. Nel caso, invece, di delitto commesso all’estero, ma punibile in Italia ai sensi degli artt 7-10 cp, si procede alla rinnovazione del giudizio solo se vi è richiesta in tal senso da parte del Ministro della giustizia. Peraltro, l’art 138 cp dispone che quando il giudizio seguito all’estero è rinnovato nello Stato, la pena scontata all’estero è sempre computata, tenendo conto della specie di essa. Però, la Convenzione di applicazione dell’accordo di Schengen del 1985 introduce il principio “ne bis in idem”, in virtù del quale è vietato procedere una seconda volta, quando già vi sia stato un giudizio di condanna per il medesimo fatto, e la relativa pena sia stata scontata o in corso di esecuzione: “una persona che sia stata giudicata con sentenza definitiva in una Parte contraente non può essere sottoposta ad un procedimento penale per i medesimi fatti in un’altra Parte contraente a condizione che, in caso di condanna, la pena sia stata eseguita o sia effettivamente in corso di esecuzione attualmente o, secondo la legge della Parte contraente di condanna, non possa più essere eseguita”. Riconoscimento di sentenze penali straniere: corollario del rinnovamento del giudizio penale emesso all’estero è il limitato riconoscimento delle sentenze penali straniere. Ai sensi dell’art 12 cp, infatti, queste pronunce, se emesse per un delitto, possono spiegare effetti nel nostro ordinamento per quanto riguarda la dichiarazione di recidiva, abitualità, professionalità o tendenza a delinquere, oppure per l’applicazione di una pena accessoria o di una misura di sicurezza personale. Inoltre, la sentenza penale straniera può essere riconosciuta quando porta condanna alle restrizioni o al risarcimento del danno, ovvero deve comunque essere fatta valere in giudizio nel territorio dello Stato, agli effetti delle restrizioni o del risarcimento del danno, o ad altri effetti civili. Peraltro, il riconoscimento è subordinato all’esistenza di un trattato di estradizione con il Pese che l’ha emessa, ovvero, se tale trattato non esiste, alla richiesta del ministro di grazia e giustizia. L’Unione Europea, invece, ha emanato alcune decisioni quadro finalizzate al reciproco riconoscimento, tra i Paesi membri, delle sentenze penali in materia di 234 pene detentive e misure limitative della libertà personale, pene pecuniarie, confisca, misure sospensive o sostitutive. L’Italia ha percepito queste direttive quadro nella misura in cui esse non contrastino con l’ordinamento costituzionale in tema di diritti fondamentali nonché in tema di diritti di libertà e di giusto processo. In particolare, una sentenza penale di condanna emessa da un Pese membro dell’Unione Europea viene eseguita in Italia alle seguenti condizioni: - Che la persona condannata abbia la cittadinanza italiana, la residenza, la dimora o il domicilio nel territorio dello Stato, ovvero debba essere espulsa verso l’Italia a motivo di un ordine di espulsione o di allontanamento inserito nella sentenza di condanna o in una decisione giudiziaria o amministrativa o in qualsiasi altro provvedimento adottato in seguito alla sentenza di condanna; - Si trovi nel territorio dello Stato o in quello dello stato di emissione; - Abbia prestato il proprio consenso Inoltre, il fatto per il quale vi è stata condanna deve essere previsto come reato anche dalla legge italiana, indipendentemente dalla sua denominazione. Infine, la durata e la natura della pena o della misura di sicurezza applicate nello Stato di emissione devono essere compatibili con la legislazione italiana. Estradizione: l’estradizione consente nella consegna, da uno Stato ad un altro che ne fa richiesta, di un soggetto che deve essere giudicato o punito per i suoi crimini. Dal punto di vista dello stato richiedente si parla di estradizione attiva, mentre chi consegna il soggetto esercita la cosiddetta estradizione passiva. L’estradizione è istituto di diritto internazionale, e nel nostro ordinamento è regolato da alcune norme del codice di procedura penale. Il codice penale ne disciplina alcuni aspetti all’art 13, che si limita a prevedere che “l’estradizione è regolata dalla legge penale italiana, dalle convenzioni e gli usi internazionali”. La Corte costituzionale ha individuato i limiti dell’estradizione, muovendo dal divieto di estradare sia il cittadino che lo straniero per reati politici. L’estradizione, sia attiva che passiva, sia del cittadino che dello straniero, è sottoposta, nel nostro ordinamento giuridico, ad una serie di principi e di vincoli; innanzitutto, il fatto per il quale viene chiesta o concessa deve essere preveduto come reato dalla legge italiana e da quella straniera (requisito della doppia incriminazione); naturalmente non si pretende la perfetta identità di disciplina penale, ma occorre che il fatto storico sia punibile in entrambi gli ordinamenti degli Stati in questione. Un secondo requisito attiene al cosiddetto principio di specialità: la concessione dell’estradizione è subordinata alla condizione che, per un fatto anteriore alla consegna diverso da quello per il quale l’estradizione è stata concessa, l’estradato non venga sottoposto a restrizione della libertà personale in esecuzione di una pena o misura di sicurezza né assoggettato ad altra 234 misura restrittiva della libertà personale né consegnato ad altro Stato, tranne che, avendone avuta la possibilità, non abbia lasciato il territorio dello Stato al quale è stato consegnato trascorsi 45 giorni dalla sua definitiva liberazione ovvero, avendolo lasciato, vi abbia fatto ritorno volontariamente. Medesima garanzia vale per chi venga estradato in Italia da un Pese straniero. In virtù, invece, del principio di sussidiarietà, l’estradizione non può essere concessa se, per lo stesso fatto, nei confronti del soggetto è in corso procedimento penale, mentre il divieto di bis in idem impedisce l’estradizione se è stata pronunciata sentenza irrevocabile nello Stato. Infine, vengono in rilievo i limiti relativi al tipo di reato commesso: gli artt 10 e 26 Cost impediscono l’estradizione per reati politici sia dello straniero che del cittadino; ma in questo caso, per “reato politico” si intende il fatto di reato commesso per opporsi a regimi che impediscono l’esercizio dei diritti politici dei cittadini, cioè di quei diritti previsti dalla nostra Costituzione in materia di libertà civili e garanzie personali. Al contrario, chi pure abbia commesso un crimine mosso da motivazione politica, se agisce contro tali diritti e libertà, non beneficerà del divieto di estradizione. In sostanza, la nostra Carta costituzionale intende evitare che un oppositore ad un regime dittatoriale ed autoritario sia estradato in quel Paese e colpito proprio in virtù della sua militanza politica a favore della libertà e della democrazia. Tramite legge costituzionale è stata concessa l’estradizione per i colpevoli di genocidio. L’estradizione è invece impedita dal codice di procedura penale quando l’imputato o il condannato corre il rischio, nel Paese richiedente, di essere sottoposto ad atti persecutori, a discriminazioni per motivi di razza, di religione, di sesso, di nazionalità, di lingua, di opinioni politiche o di condizioni personali o sociali, a pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti, ad atti che configurano di uno o più diritti fondamentali della persona. Particolarmente rilevante è il divieto di concedere l’estradizione per un reato che, nel Paese richiedente, è punito con la pena di morte. Mandato di arresto europeo: attualmente, tra gli Stati membri dell’Unione Europea, l’estradizione è stata sostituita dal mandato di arresto europeo, ovvero un provvedimento emesso dall’autorità giudiziaria di un Paese membro, che impegna tutti gli altri a darvi esecuzione, per l’arresto di un ricercato per l’esercizio dell’azione penale o per l’esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza restrittiva della libertà personale. L’emissione e l’esecuzione del mandato d’arresto europeo sono di esclusiva competenza giurisdizionale, e prescindono pertanto da qualsiasi intervento dell’autorità governativa. Inoltre, con riferimento ad alcune decisioni quadro, non è previsto il requisito della doppia incriminazione. Il mandato d’arresto europeo non può essere emesso per reati politici, tranne che per i fatti di genocidio e per i delitti di terrorismo. L’esecuzione del mandato d’arresto europeo è 234 l’esistenza di un elemento negativo che deve mancare affinchè il fatto costituisca reato. Secondo la teoria tripartita, gli elementi costitutivi del reato vanno ricondotti alle tre categorie del fatto tipico (include gli elementi oggettivi del reato), dell’antigiuridicità (qui trovano collocazione le cause di giustificazione) e della colpevolezza (identifica gli elementi soggettivi che consentono di muovere al soggetto un rimprovero per il fatto commesso). Secondo i suoi sostenitori, questa ricostruzione del reato offre due vantaggi. In primo luogo, sembra adeguarsi meglio al procedimento di accertamento giudiziale del reato, in quanto il giudice accerta in primo luogo l’elemento oggettivo (Caio ha ucciso Tizio), poi l’assenza di causa di giustificazione (mancanza di legittima difesa, stato di necessità, uso legittimo di armi ecc), ed infine l’elemento soggettivo (Caio ha agito con dolo o con colpa). In secondo luogo, la tripartizione consente di far emergere le specifiche funzioni a cui rispondono le tre categorie dogmatiche. Secondo questa impostazione, le scriminanti non avrebbero natura strettamente penale, ma sarebbero norme generali dell’ordinamento giuridico nella sua interezza, che rendono appunto legittimo il fatto in qualsiasi settore dell’ordinamento. La distinzione tra i due modelli teorici, a ben vedere, si riduce alla differente collocazione delle scriminanti che per la concezione bipartita costituiscono elementi negativi del fatto e per la teoria tripartita fondano la categoria autonoma dell’antigiuridicità. A questi due principali modelli strutturali del reato si affianca la concezione quadripartita, che come la teoria tripartita utilizza le categorie del fatto tipico, dell’antigiuridicità e della colpevolezza, alla quale si affianca anche la punibilità, a cui vanno ricondotte alcune particolari situazioni che, per esigenze di politica criminale, escludono l’applicazione della pena pur in presenza degli altri elementi costitutivi del reato. Si tratta delle cause personali di non punibilità, come le immunità, che per ragioni politiche escludono la punibilità dell’autore per alcuni reati; vi rientrano anche le cause sopravvenute di non punibilità, nelle quali la ragione del “non punire” risiede nell’incentivare la condotta antitetica a quella diretta a produrre l’offesa. Nella teoria quadripartita la punibilità è requisito costitutivo del reato: se il fatto non è punibile il reato non sussiste. A prescindere dalla collocazione dogmatica della punibilità, è indubbio che la teoria quadripartita ha messo in evidenza l’importanza che la categoria della non punibilità riveste nelle scelte di politica criminale, alle quali il legislatore presta particolare attenzione: diversi istituti intervengono ad escludere, a determinate condizioni, la punibilità di un fatto costitutivo di reato per ragioni di sussidiarietà della risposta penale rispetto a fatti non particolarmente significativi sul piano dell’offesa al bene giuridico o per i 234 quali sono immaginabili percorsi alternativi alla classica applicazione della sanzione penale. Ora, esclusa la teoria quadripartita, l’opzione a favore della concezione bipartita o tripartita non riveste un ruolo così significativo nell’interpretazione delle norme penali, come dimostra il fatto che nella prassi applicativa la giurisprudenza tralasci ogni questione sulla struttura dogmatica del reato. La scelta del modello teorico nel quale incasellare gli elementi del reato costituisce un’opzione essenzialmente dottrinale e di appartenenza a scuole di diritto penale. DISTINZIONE TRA DELITTI E CONTRAVVENZIONI Il reato è quell’illecito per il quale l’ordinamento prevede come conseguenza sanzionatoria una pena; i reati si distinguono in delitti e contravvenzioni in ragione del criterio formale della pena principale per essi prevista: per i delitti, ergastolo, reclusione e multa; per le contravvenzioni ammenda e arresto. La distinzione, dunque, non è data dalla gravità delle sanzioni. Alla distinzione tra delitti e contravvenzioni corrispondono differenti regole di disciplina, che si analizzeranno in relazione ai diversi istituti. In prospettiva di riforma, parte della dottrina propone di superare la dicotomia tra delitti e contravvenzioni in favore di una unitaria categoria di reati. La scelta sul modello da adottare coinvolge necessariamente anche gli illeciti amministrativi a carattere punitivo, in quanto si dovrebbe capire quale spazio assicurare a questa tipologia di illecito rispetto ai reati: parte della dottrina, infatti, ritiene che sarebbe preferibile se il sistema si orientasse nel prevedere un’unica tipologia di reati (i più gravi), evitando così la proliferazione delle contravvenzioni che attualmente invadono il sistema sanzionatorio e che dovrebbero essere convertite in illeciti amministrativi. CAPITOLO 10 SOGGETTI IL SOGGETTO ATTIVO DEL REATO: REATI COMUNI E REATI PROPRI 234 Soggetti attivo del reato (autore) è chi realizza il fatto descritto dalla singola fattispecie incriminatrice. La maggior parte delle fattispecie è costruita in forma monosoggettiva, nel senso che per la commissione del reato è sufficiente l’intervento di una sola persona (es: art 575 cp: “chiunque cagiona la morte di un uomo”). Altre volte, invece, è la stessa fattispecie incriminatrice a richiedere, come elemento costitutivo del reato, la presenza di più soggetti attivi (es: rissa, corruzione). Poiché la pluralità dei soggetti attivi è elemento costitutivo del reato, queste fattispecie sono anche definite reati a concorso necessario . In ogni caso, soggetto attivo del reato può essere solo la persona umana, in quanto nel nostro ordinamento gli enti collettivi sono tradizionalmente esclusi dalla responsabilità penale. La maggior parte dei reati può essere commessa da chiunque; in alcuni casi invece è la norma incriminatrice a richiedere, quale elemento costitutivo della fattispecie, la presenza di particolari qualifiche personali in capo al soggetto: si contrappongono così i reati comuni ai reati propri. L’individuazione della natura comune o propria del reato dipende dalla struttura della singola fattispecie incriminatrice, perché nei reati propri la qualifica costituisce elemento essenziale di fattispecie e delimita la sfera dei destinatari del precetto. Non sempre è indice della natura di reato comune il fatto che il legislatore identifichi l’autore con espressioni tipo “chi”, “chiunque”, in quanto la struttura del fatto di reato può indicare una delimitazione dei destinatari del precetto: si pensi, ad esempio, al delitto di abbandono di persone minori o incapaci che non può essere commesso da chiunque, come sembrerebbe evincersi dalla norma, ma solo da chi abbia un dovere di cura e di custodia nei confronti del soggetto abbandonato. La qualifica può essere naturalistica (la madre nel delitto di infanticidio in condizioni di abbandono morale e materiale) oppure giuridica (pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio nei delitti contro la pubblica amministrazione). Alla base della scelta del legislatore di richiedere in capo al soggetto attivo la titolarità di qualifiche personali vi sono diverse ragioni; nella maggior parte dei casi la qualifica personale denota un particolare legame con il bene giuridico tutelato (vuoi perché solo il titolare della qualifica è in grado di offendere il bene giuridico, vuoi perché si trova in una posizione particolare che gli consente di aggredire il bene giuridico). La qualifica può però essere anche indice del particolare rimprovero di colpevolezza che la qualifica riflette (es: infanticidio è meno rimproverabile di omicidio doloso). Tra i reati propri va considerata una particolare sottocategoria nella quale è necessario che sia sempre il soggetto titolare della qualifica a tenere la condotta tipica anche quando il fatto è commesso in concorso da più persone: i reati di mano propria (es: per l’incesto sono necessari legami di tipo parentale). 234 costituzionale in quanto l’immunità è rigorosamente circoscritta alle sole manifestazioni del pensiero funzionali all’esercizio dei poteri-doveri costituzionalmente spettanti ai componenti del CSM. Il cosiddetto lodo Alfano (ln 124/2008) aveva previsto la sospensione del processo penale nei confronti delle alte cariche dello Stato fino alla cessazione della loro carica, anche per fatti antecedenti l’assunzione della stessa, coprendo quindi anche i reati non connessi all’esercizio delle funzioni. La legge prevedeva la possibilità di rinunciare alla sospensione. La Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di questa disciplina per violazione degli artt 3 e 138 Cost in quanto, essendo stata introdotta con legge ordinaria, mancava una copertura costituzionale idonea a giustificare la disparità di trattamento. - Immunità di diritto internazionale: le immunità di diritto internazionale si fondano su convenzioni internazionali alle quali è stata data attuazione con leggi ordinarie. La Corte Costituzionale ha ravvisato la copertura costituzionale di queste immunità nell’art 10 Cost, perché le leggi ordinarie attuano norme internazionali generalmente riconosciute. Godono di un’immunità assoluta, sostanziale e processuale, funzionale ed extrafunzionale, i Capi di Stato estero quando si trovano in tempo di pace nel territorio dello Stato italiano, incluso il Pontefice, che è il capo della città del vaticano. Godono invece di immunità anche per gli atti commessi al di fuori dell’esercizio delle funzioni gli appartenenti al corpo diplomatico, mentre i consoli e gli impiegati consolari hanno un’immunità funzionale e per gli atti commessi al di fuori dell’esercizio delle loro funzioni non possono essere assoggettati a custodia cautelare in carcere a meno che non si tratti di delitto punito con la reclusione non inferiore nel massimo a 5 anni. I parlamentari europei non sono punibili per le opinioni espresse e i voti dati nell’esercizio delle loro funzioni. Anche a loro la giurisprudenza riconosce l’immunità per le dichiarazioni rese fuori dall’esercizio delle funzioni svolte nel Parlamento europeo, ma solo a condizione che sussista un chiaro nesso tra le dichiarazioni ed il ruolo rivestito all’interno del Parlamento europeo. I militari di uno Stato estero presenti sul territorio italiano sono assoggettati alla legge dello Stato di appartenenza per i reati commessi in servizio. IL SOGGETTO PASSIVO DEL REATO 234 Soggetto passivo del reato è il titolare del bene giuridico tutelato dalla fattispecie (la persona offesa). Soggetto passivo può essere sia una persona fisica che una persona giuridica, o un ente collettivo anche privo di personalità giuridica (es: una s.p.a.). Soggetto passivo può anche essere lo Stato (nei delitti contro la pubblica amministrazione). Vi possono anche essere più soggetti passivi: i reati plurioffensivi offendono più beni giuridici e quindi più titolari di quei beni giuridici (es: calunnia, che ha come soggetti passivi la persona calunniata e lo stato). Il soggetto passivo va distinto dall’oggetto materiale del reato, costituito dalla persona o dalla cosa su cui cade la condotta del reato; può comunque esservi coincidenza tra soggetto passivo e oggetto materiale (es: reato di sequestro). Il soggetto passivo non va neanche confuso con il danneggiato, ossia chi ha subito dal reato un danno risarcibile, considerato che l’art 185 cp prevede che ogni reato obbliga alle restituzioni e al risarcimento del danno: il soggetto passivo è normalmente anche danneggiato dal reato, ma vi possono essere casi di soggetti danneggiati che non sono soggetti passivi (nel delitto di omicidio soggetto passivo è la persona uccisa, mentre i familiari della vittima sono i danneggiati). Il sistema penale conferisce rilevanza alla persona offesa a diversi fini: a) In alcuni casi è richiesta, come elemento costitutivo di fattispecie, una specifica qualifica in capo al soggetto passivo (es: nel delitto di oltraggio, il soggetto passivo deve essere un pubblico ufficiale) b) Altre volte le qualifiche del soggetto passivo rilevano come elemento circostanziale (es: l’attentato per finalità di terrorismo o di eversione è aggravato se il fatto è commesso contro persone che esercitano funzioni giudiziarie o penitenziarie o di sicurezza pubblica) c) Il soggetto passivo può fondare una causa di non punibilità (es: i delitti contro il patrimonio commessi senza violenza alla persona non sono punibili se commessi in danno del coniuge non legalmente separato, dalla parte dell’unione civile tra persone dello stesso sesso, di un ascendente, di un ascendente, di un affine in linea retta, dell’adottante o dell’adottato, di un fratello o di una sorella conviventi) d) Il consenso del soggetto passivo alla lesione di diritti disponibili costituisce causa di giustificazione e) Nei delitti procedibili a querela, il soggetto passivo è il titolare del diritto di presentare querela f) La persona offesa rileva anche sul piano della disciplina processuale (es: è titolare del diritto di fare opposizione alla richiesta di archiviazione del pubblico ministero, diritto che non spetta al soggetto danneggiato) 234 Per lungo tempo la persona offesa dal reato è stata estromessa dalle indagini penalistiche. Più recentemente è stata invece riscoperta l’importanza della vittima, anche grazie agli studi di una branca della criminologia nota come vittimologia. Le indagini vittimologiche hanno mostrato che i rapporti tra autore e vittima non sempre presentano una separazione netta tra ruoli: le complesse interazioni psicologiche tra questi soggetti evidenziano come la vittima non si ponga sempre in posizione passiva di sottomissione, ma tenga talvolta un comportamento operante, contribuente se non addirittura istigante, provocante e sollecitante. Queste riflessioni hanno condotto una parte della criminologia a sollecitare la stessa vittima ad adottare strumenti di autodifesa in funzione di prevenzione della criminalità. La valorizzazione dell’importanza della vittima ha integrato almeno su tre versanti del sistema sanzionatorio. Anzitutto, i più recenti orientamenti del neoretribuzionismo sollecitano a tener conto delle istanze di punizione che emergono dalla società, ma così si rischia di giustificare risposte sanzionatorie ingiustificate. In secondo luogo, nasce dall’importanza riconosciuta alla soddisfazione delle esigenze della vittima la valorizzazione del risarcimento del danno in funzione sostitutiva della tradizionale risposta sanzionatoria. In questa prospettiva si spiega anche la valorizzazione delle condotte riparatorie come causa di estinzione del reato. Ad esempio, per i reati attribuiti alla competenza del giudice di pace, il giudice può dichiarare estinto il reato quando l’imputato dimostra di aver proceduto, prima dell’udienza di comparizione, alla riparazione del danno cagionato dal reato, mediante le restituzioni o il risarcimento, e di aver eliminato le conseguenze dannose o pericolose del reato. In questa direzione si è mossa anche la disciplina della causa di estinzione dei reati procedibili a querela. Infine, la valorizzazione dell’importanza del ruolo della vittima è ben presente nella cosiddetta giustizia riparativa che, partendo dal presupposto che il reato crea una frattura tra autore e vittima, privilegia la composizione del conflitto tra i soggetti in luogo della repressione attraverso la sanzione penale che risulta meno efficace in termini di prevenzione generale e speciale (es: nella giustizia minorile, il ravvicinamento del minore, autore del reato, con la vittima costituisce un elemento fondamentale nella sospensione del processo con messa alla prova). 234 ebrezza, stanchezza o indigestione causate dal soggetto stesso prima di mettersi al volante). Questi tre casi evidenziano bene come in assenza di coscienza e volontà la condotta non possa essere considerata propria del soggetto; mancando coscienza e volontà viene meno la stessa condotta penalmente rilevante: viene dunque a mancare un elemento oggettivo del reato, ovvero la condotta. Ne consegue che il soggetto va assolto con la più ampia formula “perché il fatto non sussiste”. I PRESUPPOSTI DELLA CONDOTTA Talvolta la fattispecie richiede che al momento della condotta sussistano determinati presupposti. Può trattarsi di presupposti naturalistici (es: i delitti di aborto presuppongono che sussista una gravidanza), oppure di presupposti giuridici (definiti attraverso il richiamo ad elementi normativi; es: nel delitto di bigamia si presuppone che il soggetto che contrae matrimonio sia già legato da matrimonio ad un’altra persona). Anche i presupposti costituiscono elementi costitutivi del fatto di reato, e rientrano nell’oggetto del dolo. LA NOZIONE DI EVENTO Il codice penale utilizza in diversi articoli il termine evento, ma non lo definisce mai. All’epoca della redazione del codice Rocco, la dottrina era divisa sulla nozione di evento. La nozione di evento naturalistico si identifica con le modificazioni del mondo esterno cagionate dalla condotta e considerate dalla legge come elemento costitutivo di fattispecie. In tale accezione l’evento è temporalmente e logicamente staccato dalla condotta ed è assente nei reati di pura condotta, cioè quei reati in cui la legge si limita ad incriminare una condotta attiva od omissiva. A questa nozione si contrappone quella di evento giuridico, consistente nell’offesa dell’interesse tutelato dalla norma incriminatrice. A differenza dell’accezione naturalistica, l’evento giuridico non è separabile dalla condotta, perché è lo stesso fatto di reato visto sotto il profilo dell’offesa al bene giuridico; ne consegue che tale evento è presente in tutti i reati, anche nei reati di pura condotta, sprovvisti di evento naturalistico. Spetta all’interprete, valutando caso per caso, nel contesto della disciplina e alla luce dello scopo della singola norma, capire se sia da privilegiare l’accezione naturalistica o quella giuridica. 234 DISTINZIONE DEI REATI IN RELAZIONE ALLA CONDOTTA Possono essere distinte diverse tipologie di reato in relazione alle particolari modalità della condotta. - Reati di azione e reati di omissione: nei reati di azione è presente una condotta attiva che si estrinseca in un movimento muscolare realizzato attraverso uno o più atti; nei reati di omissione il legislatore incrimina il non agire del soggetto quando una norma impone al soggetto di agire - Reati di pura condotta e reati di evento: sono reati di pura condotta quelli nei quali la fattispecie si esaurisce in una condotta attiva o omissiva; sono invece reati di evento le fattispecie nelle quali è presente come elemento costitutivo un elemento naturalistico (non rilevano eventuali eventi derivanti dal reato che non siano considerati dalla legge tra i requisiti di fattispecie) - Reati a condotta vincolata e reati a forma libera: sono a condotta vincolata quelle fattispecie nelle quali la legge richiede specifiche modalità della condotta (es: nel delitto di estorsione è necessaria la violenza o la minaccia). Sono invece a forma libera i reati nei quali la legge attribuisce rilevanza a qualsiasi condotta che cagiona l’evento (es: omicidio o lesioni personali). Nei reati a condotta vincolata la tipicità della condotta è delimitata dalla scelta fatta dal legislatore in sede di descrizione della fattispecie (es: nella truffa rileva solo la condotta che integri gli estremi del raggiro o dell’artifizio). Nei reati a forma libera, invece, il criterio di tipizzazione della condotta è costituito dal nesso di causalità: è tipica qualsiasi condotta che sia condizione dell’evento; per questa ragione, questi reati sono anche definiti reati causali puri o reati causalmente orientati ). La scelta del legislatore nel prevedere l’una o l’altra specie di reati riflette un’opzione di politica criminale a favore della tutela del bene giuridico più ristretta o più ampia. La scelta è ovviamente condizionata dall’importanza del bene giuridico tutelato. Si spiega così perché la tutela della vita e della incolumità fisica sia affidata a reati a forma libera, mentre la tutela del patrimonio sia realizzata attraverso un complesso di fattispecie a condotta vincolata che prendono in considerazione specifiche modalità di aggressione al bene. - Reati istantanei, reati permanenti e reati abituali: la distinzione tra reati istantanei e reati permanenti prende in considerazione le modalità della condotta tipizzate dalla fattispecie incriminatrice. Nei primi la condotta si realizza in un solo istante, il reato si consuma in uno specifico momento (es: 234 furto, diffamazione). Nei reati permanenti, invece, la condotta si protrae nel tempo e alla stessa si accompagna il permanere dell’offesa al bene giuridico (es: sequestro di persona). In questi reati sono presenti due momenti: quello iniziale e quello finale della permanenza. Il momento iniziale della permanenza (detto anche perfezione) si realizza quando la protrazione della condotta per un certo lasso di tempo consolida l’offesa al bene giuridico tutelato. La permanenza cessa quando l’autore della condotta liberamente interrompe l’azione, o quando circostanze esterne la fanno cessare: si parla di momento finale della permanenza (detto anche consumazione). Se il primo momento segna l’inizio dell’offesa al bene giuridico, il secondo ne segna la cessazione e definisce il grado più intenso di offesa al bene tutelato. La particolare struttura del reato permanente rende lo stesso compatibile con i beni giuridici comprimibili: si tratta di beni che la condotta non pregiudica in modo definitivo, ma che tornano nella disponibilità del loro titolare una volta cessata la condotta lesiva. I reati permanenti rilevano a diversi fini: nella disciplina sulla successione di leggi penali nel tempo agli effetti della determinazione del tempus commissi delicti; la permanenza influisce sui limiti del concorso di persone nel reato, sulla determinazione della decorrenza del termine di prescrizione del reato e sui limiti di applicazione delle leggi di amnistia e indulto. I reati permanenti non vanno confusi con i reati abituali: nel reato abituale il fatto è descritto in modo da richiedere la reiterazione di una pluralità di azioni che, agli effetti della legge penale, vanno considerate come una sola condotta (es: maltrattamenti contro familiari o conviventi). Il reato abituale può essere proprio o improprio: nel reato abituale proprio i singoli comportamenti, considerati di per sé, non costituiscono necessariamente reato, ma la loro valutazione unitaria integra l’offesa al bene tutelato. Nel reato abituale improprio le singole condotte costituiscono di per sé reato, ma la loro reiterazione dà luogo ad una fattispecie di reato abituale (es: relazione incestuosa). Alcuni reati possono essere realizzati indistintamente attraverso un’unica condotta o la reiterazione di più condotte: in tal caso si parla di reati eventualmente abituali (es: molestie). Parte della dottrina ha evidenziato che nei reati abituali la rilevanza riconosciuta alla reiterazione delle condotte nel tempo esprime una tendenza a dare prevalenza al modo di essere dell’autore, perché l’offesa al bene giuridico si arricchisce del disvalore connesso ad una condotta di vita (es: relazione incestuosa, il cui disvalore sta nella parentela). 234 il soggetto abbia la possibilità di agire, ossia non sia impossibilitato per ragioni oggettive a tenere la condotta doverosa. REATO OMISSIVO IMPROPRIO Il reato omissivo improprio consiste nel mancano impedimento di evento che si aveva l’obbligo giuridico di impedire. La norma di riferimento è l’art 40 cpv cp, a tenore del quale “non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo”. La norma opera come clausola di equivalenza, in quanto consente, a determinate condizioni, di equiparare la condotta omissiva a quella attiva. Il reato omissivo improprio nasce, dunque, dal combinato disposto di questa norma con le singole fattispecie di parte speciale (es: cagionare la morte di un uomo – art 575 cp – è equivalente a non impedirla). Gli elementi che compongono il reato omissivo improprio sollevano fondate perplessità in ordine al rispetto dei principi di riserva di legge e determinatezza. In particolare, le questioni più controverse riguardano tre profili: - L’ambito di applicazione della clausola di equivalenza - L’individuazione dell’obbligo giuridico di impedire l’evento - L’accertamento del nesso causale tra condotta emissiva ed evento non impedito L’AMBITO DI APPLICAZIONE DELLA CLAUSOLA DI EQUIVALENZA L’art 40 cpv cp non chiarisce se la clausola di equivalenza possa operare in relazione a tutte le fattispecie di reato oppure solo in relazione ad alcune. Innanzitutto, l’art 40 cpv cp è applicabile solo ai reati con evento naturalistico, in quanto si tratta di norma inserita all’interno della disciplina del rapporto di causalità. Vanno, quindi, esclusi tutti i reati di pura condotta. Non si applica altresì ai reati nei quali la condotta omissiva è già prevista dal legislatore in sede di tipizzazione della condotta. Una terza limitazione è costituita dall’inapplicabilità ai reati con condotta a tipizzazione necessariamente attiva: se la legge incrimina la sola condotta attiva, l’applicazione dell’art 40 cpv rappresenterebbe un’estensione indebita della condotta in violazione della scelta del legislatore, in contrasto con il principio di riserva di legge. L’ambito di applicazione della clausola di equivalenza è allora limitato ai reati causali puri nei quali il legislatore considera rilevante qualsiasi condotta che sia causale rispetto alla realizzazione dell’evento: trattandosi di 234 fattispecie che assicurano una tutela ampia del bene giuridico, le stesse sono compatibili anche con la realizzazione a mezzo di una condotta omissiva. L’OBBLIGO GIURIDICO DI IMPEDIRE L’EVENTO Nella struttura del reato omissivo improprio svolge una funzione essenziale l’obbligo giuridico di impedire l’evento, perché solo per i titolari di tale dovere l’omissione è equiparata alla condotta attiva. I reati omissivi impropri sono dunque reati propri, in quanto presuppongono una particolare qualifica personale definita dalla titolarità dell’obbligo giuridico di impedire l’evento, obbligo che deve preesistere alla situazione di pericolo per il bene. L’individuazione dell’obbligo giuridico di impedire l’evento non è risolta dall’art 40 cpv cp che si limita a richiedere un “obbligo giuridico”: è in tal modo esclusa la rilevanza di obblighi di natura meramente morale o di solidarietà sociale. Per individuare l’obbligo giuridico di impedire l’evento sono state proposte diverse teorie: 1) Teoria formale: individua l’obbligo giuridico in fonti formali: la legge, il contratto, la precedente attività pericolosa. A causa del richiamo a queste tre fonti, si è parlato anche di teoria del trifoglio. Parte della dottrina ha aggiunto a queste fonti anche la consuetudine e la negotiorum gestio. Questa impostazione è andata incontro ad una serie di rilievi critici. Se l’obbligo giuridico di impedire l’evento si fonda su una fonte formale, allora questa manca nell’ipotesi della precedente attività pericolosa. Peraltro, in quest’ultimo caso, per fondare la responsabilità penale non è necessario ricorrere al reato omissivo improprio, perché la responsabilità di chi ha posto in essere una precedente attività pericolosa si fonda già sulla condotta attiva che ha posto le condizioni della situazione di rischio. Il richiamo poi a qualunque fonte legale rischia di produrre una eccessiva dilatazione della responsabilità penale, perché attraverso l’art 40 cpv cp qualsiasi obbligo di natura extrapenale si traduce in un obbligo penale. Anche la fonte del contratto, interpretata alla luce della rigorosa lettura della teoria formale, conduce a soluzioni inappaganti, perché basterebbe l’invalidità formale della fonte ad escludere l’obbligo giuridico di impedire l’evento. 2) Teoria funzionale o sostanziale: individua i soggetti obbligati ad impedire l’evento attraverso le cosiddette posizioni di garanzia. Considerato che vi sono casi nei quali il titolare di un bene giuridico non è in grado di tutelarlo adeguatamente, l’ordinamento individua la figura del garante in modo da offrire tutela al bene (es: figli minori – genitori). La posizione di garanzia è connotata da tre requisiti. 234 a) È necessario che il garante sia titolare di obblighi impeditivi, perché risponde del mancato impedimento dell’evento che si aveva l’obbligo giuridico di impedire. Non è quindi sufficiente a fondare la responsabilità ex art 40 cpv cp la presenza di meri obblighi di sorveglianza non accompagnati da poteri impeditivi di natura tale da consentire al garante di evitare il verificarsi dell’evento. Non si richiede, però, che il soggetto disponga dei poteri per impedire direttamente l’evento, ma sono sufficienti anche poteri di natura sollecitatoria, da lui esigibili, volti a far intervenire chi dispone del potere di impedire l’evento. Alla titolarità dei poteri di impeditivi si accompagna la capacità di esercitarli: non risponde, pertanto, di omesso impedimento dell’evento morte il genitore, incapace di nuotare, che non soccorra il figlio che sta annegando; ad ogni modo, ciò non lo esime dal chiamare i soccorsi, in quanto la mancata attivazione dei poteri di natura sollecitatoria fonda la responsabilità per mancato impedimento dell’evento. La titolarità dei poteri impeditivi deve essere sempre precostituita rispetto alla situazione di pericolo in cui il bene viene a trovarsi: la posizione di garanzia non si costituisce con la situazione di pericolo ma deve precederla. È infine necessario che la posizione di garanzia abbia carattere specifico, ossia che il garante sia tale in relazione a specifici beni di specifici soggetti: non sono ammissibili posizioni di garanzia a contenuto generale, sia perché ciò contrasterebbe con il principio di determinatezza sia perché sul garante graverebbe un obbligo così ampio di impedire eventi lesivi da essere di fatto inesigibile. - Teoria mista: entrambe le teorie precedenti colgono profili importanti di struttura del reato omissivo improprio: la teoria formale evidenzia la necessità di una base normativa dell’obbligo giuridico di impedire l’evento; la teoria funzionale coglie l’aspetto essenziale della precostituzione di garanti per salvaguardare beni non adeguatamente tutelati dal loro titolare. La teoria mista accoglie i principi elaborati dalla teoria funzionale ma, al contempo, richiede una base legale delle posizioni di garanzia: è sempre necessaria, cioè, la presenza di una legge che fissi la posizione del garante originario, cui ancorare la responsabilità per il mancato impedimento dell’evento, nel rispetto della riserva di legge. Spetta, pertanto, alla legge individuare le posizioni di garanzia ma, in conformità alla teoria funzionale, è necessario che queste ultime presentino i caratteri della precostituzione e della specificità e diano al garante i necessari poteri impeditivi o sollecitativi. È compito dell’interprete differenziare, sulla base ddella disciplina penale ed extrapenale, gli obblighi di impedimento che fondano le posizioni di garanzia, 234 posizione di garanzia sia generata non solo dalla investitura formale del garante, ma anche dall’esercizio di fatto delle funzioni tipiche delle diverse figure di garante mediante un comportamento concludente dell’agente, consistente nella presa in carico del bene protetto. È possibile, invece, riconoscere la sussistenza di una posizione di garanzia fondata su situazioni di fatto nei casi in cui la stessa legge riconosca rilevanza all’assunzione di fatto di poteri inerenti agli obblighi di tutela: così, in tema di sicurezza sul lavoro, si equipara ai soggetti di diritto del datore di lavoro, del dirigente e del preposto chi, pur sprovvisto di formale investitura, esercita in concreto i poteri giuridici corrispondenti a tali qualifiche. Queste norme che espressamente equiparano ai soggetti muniti di formale investitura coloro che di fatto esercitano gli stessi poteri, consentono non solo di applicare i reati propri dei soggetti di diritto ai soggetti che di fatto esercitano le stesse funzioni, ma altresì di estendere a questi ultimi le posizioni di garanzia di cui i primi sono investiti. Sia chiaro che la titolarità di una posizione di garanzia ancor nulla ci dice sulla responsabilità del garante per l’evento verificatosi, in quanto è necessario accertare la sussistenza del nesso di causalità tra condotta emissiva ed evento, e dell’elemento soggettivo richiesto dalla fattispecie incriminatrice. PROBLEMI APERTI NELL’INDIVIDUAZIONE DELLE POSIZIONI DI GARANZIA I problemi che solleva l’individuazione della responsabilità penale per reato omissivo improprio stanno nell’inadeguatezza della disciplina prevista dall’art 40 cpv cp: l’indeterminatezza di questa norma non è colmata dal diritto giurisprudenziale vivente, che registra soluzioni non sempre uniche in relazione all’individuazione dei garanti, dei beni oggetto di tutela e delle stesse fonti della posizione di garanzia. Quanto all’individuazione dei garanti, si registrano difficoltà nel fondare le posizioni di garanzia all’interno delle società. Quanto all’ampiezza dei beni oggetto di tutela, non minori sono le incertezze che emergono anche in ambiti ampiamente consolidati come quello delle posizioni di garanzia che originano dal diritto di famiglia. Infine, la giurisprudenza tende ad espandere le posizioni di garanzia, fondandole su rapporti di mero fatto o sull’assunzione volontaria, mentre la dottrina è molto più scettica a riguardo. Il progetto della commissione Grosso di riforma della parte generale del codice penale aveva proposto di tipizzare con previsione espressa di legge le diverse posizioni di garanzia, individuando le posizioni, i soggetti responsabili e l’ambito della responsabilità. 234 CAPITOLO 13 RAPPORTO DI CAUSALITA’ IL RAPPORTO DI CAUSALITA’ IN AMBITO GIURIDICO E I LIMITI DELLA DISCIPLINA CODICISTICA Nei reati con evento naturalistico costituisce elemento essenziale di fattispecie il nesso di causalità tra la condotta e l’evento. Il problema della causalità non è tipicamente penalistico, poiché anche altre branche del sapere se ne occupano. Quando però la riflessione si colloca in ambito penalistico, è necessario considerare le particolari esigenze che devono essere soddisfatte in questo settore, dove si pone il problema dell’imputazione di un evento ad un autore ai fini dell’accertamento della responsabilità penale: sebbene un evento non sia mai la risultante di un solo fattore, ma di una pluralità di fattori interagenti, non va persa di vista la prospettiva del diritto penale al quale interessa accertare il ruolo svolto dalla condotta umana nella produzione dell’evento, ossia se tale condotta costituisca uno dei fattori causali. Dunque, il nesso di causalità in ambito penale si traduce in un problema di imputazione di un evento ad una condotta umana. Nei reati ad evento, la presenza del nesso causale costituisce presupposto indefettibile per garantire il rispetto dell’art 27 c1 Cost: la responsabilità penale personale, che richiede un coefficiente soggettivo minimo di imputazione, presuppone anzitutto una responsabilità per fatto proprio, ossia per un fatto che sia oggettivamente imputabile al suo autore; non può essere considerato proprio del soggetto un reato nel quale l’evento non è stato cagionato della condotta dello stesso, perché, se così fosse, ci troveremmo di fronte ad un caso di responsabilità per fatto altrui in violazione dell’art 27 c1 Cost. L’art 40 c1 cp prevede che “nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l’evento dannoso o pericoloso, da cui dipende l’esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione o omissione”. Si tratta di una disposizione che si limita a richiedere il nesso di causalità nei reati ad evento. L’ art 40 c2 cp prevede che “non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”. Più articolata si presenta la disciplina delle concause: l’art 41 cp stabilisce che “il concorso di cause preesistenti o simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall’azione od omissione del colpevole, non esclude il 234 rapporto di causalità fra l’azione od omissione e l’evento”. Il legislatore parte dal presupposto che l’evento non è mai la risultante di un solo fattore, e ciò che rileva è l’efficacia causale della condotta umana, il cui significato causale non viene meno anche quando la causa preesistente o simultanea o sopravvenuta consiste nel fatto illecito altrui. Il vero punto critico della disciplina dell’art 41 cp risiede nel comma 2, a tenore del quale “le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità quando sono state da sole sufficienti a determinare l’evento; in tal caso, se l’azione od omissione precedentemente commessa costituisce di per sé reato, si applica la pena per questo stabilita”. Parte della dottrina ha evidenziato la contraddittorietà della norma che, pur disciplinando un concorso di cause, finisce in questo caso per escluderlo, in quanto il solo fattore determinante è costituito dalle cause sopravvenute: se queste sono state da sole sufficienti a determinare l’evento, significa che sono state l’unica causa determinante. Le cause sopravvenute sono state da taluni identificate nelle serie causali del tutto autonome rispetto alla condotta. Di fronte a queste difficoltà, la dottrina ha preferito indagare il problema della causalità elaborando impostazioni teoriche a prescindere dalla disciplina normativa priva di disposizioni in tema di causalità. In merito vanno considerate le tradizionali teorie della causalità condizionalistica, della causalità adeguata e della causalità umana, alle quali si è affiancata la teoria dell’imputazione oggettiva dell’evento. LA TEORIA CONDIZIONALISTICA Secondo la teoria condizionalistica (o della condicio sine qua non), la causa è l’insieme delle condizioni necessarie per la produzione dell’evento: dunque, ogni condizione ha efficacia causale rispetto all’evento (ogni condizione è necessaria, ma non sufficiente). Ai fini dell’accertamento della responsabilità penale, è sufficiente che la condotta umana costituisca una delle condizioni dell’evento. La causalità della condotta si accerta attraverso il procedimento di eliminazione mentale: a) La condotta è condizione necessaria se, eliminando mentalmente la condotta dal novero dei fatti realmente accaduti, l’evento non si sarebbe verificato b) La condotta non è condizione necessaria se, eliminata mentalmente, l’evento si sarebbe ugualmente verificato. Si parla anche di giudizio contro-fattuale, per intendere che si tratta di un ragionamento ipotetico che si sviluppa contro i fatti. Questo metodo di accertamento evidenzia il carattere logico della causalità condizionalistica. Questa teoria della causalità è andata incontro alle critiche di una parte della dottrina. Un 234 anche alle cause preesistenti, simultanee o sopravvenute che consistono nel fatto illecito altrui. Infine, le cause sopravvenute da sole sufficienti a determinare l’evento, di cui al comma secondo, consistono proprio in quei fattori eccezionali che interrompono il nesso causale. Quanto agli eventuali fattori eccezionali preesistenti o concomitanti alla condotta, non richiamati dal comma secondo, possono rilevare attraverso l’estensione analogica di tale comma, in quanto si tratta di analogia in bonam partem. Questa soluzione è stata accolta dalla giurisprudenza. La Cassazione riconosce l’intervento del fattore eccezionale solo in pochi casi: non considera, solitamente, eccezionale l’errore del medico; è stato invece riconosciuto carattere eccezionale alla condotta della vittima che abbia attraversato improvvisamente la strada con il semaforo rosso. 234 CAPITOLO 14 FATTO TIPICO E OFFENSIVITA’ IL PRINCIPIO DI OFFENSIVITA’ È necessario che costituiscano reato fatti offensivi di beni giuridici, in quanto solo l’offesa ad interessi che i consociati ritengono meritevoli di tutela penale giustifica l’intervento della sanzione più pesante di cui l’ordinamento disponga; è ciò che la corte di Cassazione definisce principio di offensività in astratto, che si rivolge in primo luogo al legislatore (al quale spetta descrivere fattispecie incriminatrici a tutela di beni giuridici) e in secondo luogo all’interprete, in particolare al giudice (che deve interpretare le norme penali in modo da garantire il rispetto del principio di offensività in astratto, adeguando il bene tutelato ai principi costituzionali o, qualora ciò sia impossibile, sollevando questione di legittimità costituzionale). Tuttavia, non sempre un fatto concreto, che formalmente riproduce gli elementi costitutivi di una fattispecie incriminatrice, è anche offensivo del bene giuridico: in alcuni casi si può assistere alla discrasia tra fatto tipico ed offesa al bene giuridico (es: furto di un acino d’uva). La dottrina si è chiesta se sia ragionevole che il diritto penale, che dispone delle sanzioni più afflittive, intervenga a reprimere un fatto tipico ma in concreto non offensivo dell’interesse tutelato. Una parte della dottrina italiana ne ha escluso la rilevanza penale in applicazione dell’art 49 c2 cp, che prevede la non punibilità del reato impossibile per inidoneità dell’azione. Marcello Gallo ha proposto una diversa lettura dell’art 49 c2 cp, che esclude la punibilità “quando, per l’inidoneità dell’azione, è impossibile l’evento dannoso o pericoloso”: il termine azione indica non gli atti diretti alla consumazione del reato, ma l’intero fatto tipico; l’evento dannoso o pericoloso va inteso come evento giuridico, ossia come un’offesa all’interesse tutelato dalla norma incriminatrice. In questa prospettiva la norma prevede dunque la non punibilità del fatto tipico ma in concreto non offensivo del bene giuridico (concezione realistica del reato). In tal modo l’art 49 c2 cp diventa la base normativa del principio di necessaria offensività del reato. I sostenitori della concezione realistica del reato riconoscono al principio di offensività in concreto rilievo costituzionale: se la norma penale dovesse essere 234 applicata anche a fatti che in concreto non offendono l’interesse a tutela del quale la norma è posta, la pena si ridurrebbe a punizione della mera disobbedienza o colpirebbe un fatto meramente sintomatico di pericolosità soggettiva, assolvendo impropriamente alla funzione che è propria delle misure di sicurezza, in contrasto quindi con gli artt 25 e 27 Cost, che distinguono le pene dalle misure di sicurezza. Il merito della concezione realistica del reato consiste nell’aver garantito una base normativa al principio di necessaria offensività in un contesto culturale (anni ’60 del secolo scorso) ancora profondamente segnato dal metodo del tecnicismo giuridico e, quindi, nell’aver valorizzato il ruolo del bene giuridico nella dinamica punitiva. La cosiddetta concezione realistica del reato è stata criticata da una parte della dottrina, che preferisce risolvere l’assenza di offesa in concreto al bene giuridico nei termini di assenza dello stesso fatto tipico: ci troveremmo di fronte ad un caso di tipicità apparente. Il tratto differenziale tra le due concezioni teoriche sta nel diverso ruolo riconosciuto al principio di offensività nel rapporto con il fatto tipico: secondo la concezione realistica l’offensività costituisce un elemento del reato che si aggiunge agli elementi del fatto tipico ( concezione strutturale del principio di offensività); secondo la teoria della tipicità apparente, invece, l’offensività diventa criterio di interpretazione del fatto di reato (concezione interpretativa del principio di offensività). IL PRINCIPIO DI OFFENSIVITA’ IN GIURISPRUDENZA Anche la giurisprudenza ha mostrato di prestare sempre più attenzione alle dimensioni dell’offensività in concreto del reato. La Corte costituzionale fa operare l’offensività sia sul terreno della previsione normativa sia su quello dell’applicazione giudiziale: alla lesività in astratto, intesa quale limite alla discrezionalità del legislatore nell’individuazione di interessi meritevoli di essere tutelati mediante lo strumento penale, suscettibili di essere chiaramente individuati attraverso la formulazione del modello legale della fattispecie incriminatrice, fa riscontro il compito del giudice di accertare in concreto, nel momento applicativo, se il comportamento posto in essere lede effettivamente l’interesse tutelato dalla norma. La carenza di offensività in concreto, per quanto costituisca un principio di rilevanza costituzionale, essendo un giudizio di merito devoluto al giudice. La questione può, invece, essere sollevata in relazione al diverso profilo dell’offensività in astratto: quando una norma incriminatrice non tutela beni giuridici meritevoli di protezione penale, viene in rilievo il vizio della manifesta irragionevolezza. Anche la Corte di cassazione si mostra sempre più sensibile nel garantire il rispetto del principio di offensività in concreto. 234 bene giuridico è, in tutto o in parte, pregiudicato nella sua consistenza, es: omicidio) e reati di pericolo (nei quali è presente solo una probabilità di lesione del bene giuridico tutelato, es: tentato omicidio). Lo sviluppo dei reati di pericolo è l’effetto diretto delle scelte di politica criminale indotte dalla proliferazione delle fonti di pericolo per i beni giuridici; il legislatore ricorre allora a tecniche di anticipazione della tutela penale: non si attende che il bene giuridico sia leso, ma si anticipa la soglia di punibilità già alla sola messa in pericolo del bene, al fine di prevenire la lesione. È l’adeguamento della politica criminale a quella che i sociologi chiamano società del rischio: alla moltiplicazione dei rischi che gravano sui consociati il legislatore risponde con le fattispecie di pericolo. I reati di pericolo vengono tradizionalmente distinti in due categorie: reati di pericolo concreto e reati di pericolo astratto, in ragione della tecnica di tipizzazione del fatto. REATI DI PERICOLO CONCRETO Nei reati di pericolo concreto il pericolo è l’elemento costitutivo espresso di fattispecie. Spetta al giudice accertare in concreto la presenza di questo elemento. Sebbene la dottrina abbia a lungo discusso sulla nozione di pericolo, prevale l’orientamento che lo identifica con un giudizio di relazione tra una certa situazione ed un evento futuro dannoso da prevenire. Nell’accertamento del pericolo concreto è fondamentale distinguere il momento, la base ed il metro del giudizio. Il momento del giudizio indica il tempo nel quale deve essere compiuta la valutazione di probabilità dell’evento pregiudizievole. La valutazione va sempre collocata ex ante, secondo il cosiddetto giudizio di prognosi postuma: il giudice deve mentalmente porsi al momento della situazione da qualificare in termini di pericolo e chiedersi se, allora, apparisse probabile la verificazione dell’evento. La base del giudizio indica gli elementi della situazione concreta dei quali il giudice deve tener conto per esprimere la prognosi: secondo il giudizio a base parziale si tiene conto delle condizioni di fatto conoscibili da una persona avveduta posta nelle medesime condizioni, integrate da eventuali conoscenze specifiche che la stessa abbia; il giudizio a base totale prende invece in considerazione la totalità delle circostanze del caso concreto presenti al momento del giudizio. Considerato che il pericolo costituisce un elemento della fattispecie oggettiva, appare più corretto utilizzare la base totale. Infine, il metro del giudizio indica i parametri che il giudice deve utilizzare nell’accertamento del pericolo: si tratta delle stesse leggi scientifiche di copertura e massime di esperienza che valgono per accertare il nesso di causalità. Poiché il pericolo costituisce un elemento oggettivo della fattispecie, il giudice utilizza le leggi disponibili al momento del giudizio. 234 REATI DI PERICOLO ASTRATTO Nei reati di pericolo astratto il pericolo non compare come elemento costitutivo di fattispecie, ma si limita a costituire la ratio della norma, ossia il legislatore descrive un fatto che, ad una valutazione astratta, mette in pericolo il bene giuridico tutelato. Il giudice si deve limitare ad accertare che il fatto concreto sia conforme alla fattispecie astratta, senza accertare che lo stesso abbia messo in pericolo il bene tutelato (es: contravvenzione di guida in stato di ebrezza). A differenza dei reati di pericolo concreto, queste fattispecie tendono ad essere più precise, in quanto la situazione pericolosa è descritta nella norma incriminatrice; possono però essere problematiche in relazione al rispetto del principio di offensività, laddove il fatto concreto, pur riproducendo gli elementi della fattispecie astratta, non fonda alcun pericolo per il bene giuridico tutelato. Per questa ragione, parte della dottrina considera incostituzionali i reati di pericolo astratto, per contrasto con il principio di offensività in violazione degli artt 25 e 27 Cost. La Corte costituzionale ha avallato la legittimità del ricorso ai reati di pericolo astratto che non sono tout court da considerare incompatibili con il quadro delle garanzie costituzionali: spetta al legislatore l’individuazione sia delle condotte alle quali collegare una presunzione assoluta di pericolo, sia della soglia di pericolosità alla quale far riferimento, purchè l’una e l’altra determinazione non siano irrazionali od arbitrarie, ciò che si verifica allorquando esse non siano ricollegabili all’id quod plerumque accidit (ciò che accade più spesso). I reati di pericolo astratto possono quindi essere dichiarati costituzionalmente illegittimi solo in caso di manifesta irragionevolezza, ossia se il legislatore ha descritto una fattispecie incriminatrice in modo arbitrario, del tutto sganciata dalla prospettiva del pericolo che intende prevenire. Secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale, nei reati di pericolo astratto l’accertamento della conformità del fatto concreto alla fattispecie astratta non esaurisce il compito del giudice, il quale deve verificare anche l’offensività in concreto. Esistono, però, settori dell’ordinamento refrattari alla tecnica del pericolo astratto. Si tratta dei casi nei quali la fattispecie penale entra in conflitto con libertà e diritti di rilevanza costituzionale: queste sfere di libertà, per non essere ingiustificatamente sacrificate, possono essere compresse solo a condizione che sia in concreto messo in pericolo l’interesse a tutela del quale la norma penale è posta (es: delitto di apologia). 234 CAPITOLO 15 CAUSE DI GIUSTIFICAZIONE CAUSE DI GIUSTIFICAZIONE E CAUSE DI NON PUNIBILITA’ Non sempre la realizzazione di un fatto corrispondente alla fattispecie di un reato comporta responsabilità penale per il comportamento posto in essere. In alcune situazioni, un fatto che normalmente costituirebbe illecito penale, non è considerato tale in quanto giustificato dall’ordinamento. Le cause di giustificazione (o scriminanti) sono collegabili a norme che autorizzano o addirittura impongono la realizzazione del fatto che normalmente costituirebbe reato. Le cause di giustificazione sono considerate elementi negativi del fatto: la loro presenza fa sì che il fatto non possa essere considerato tale. L’opinione prevalente le considera invece cause di esclusione dell’antigiuridicità, nel quadro della concezione tripartita del reato. È fondamentale peraltro tenere ben distinte le scriminanti dalle mere cause di non punibilità. Queste ultime sono situazioni nelle quali il legislatore stabilisce la non punibilità di un soggetto per semplici ragioni di opportunità, mentre il fondamento delle cause di giustificazione risponde a criteri di natura sostanziale imperniati sul bilanciamento degli interessi contrapposti. La distinzione, non sempre agevole, ha conseguenze di rilievo. Riconoscere che dietro la generica formula utilizzata dal legislatore (“non è punibile”) si rinviene una vera causa di giustificazione comporta l’applicazione della specifica disciplina delle scriminanti, una disciplina che invece non è applicabile alle semplici cause di non punibilità. IL FONDAMENTO DELLE CAUSE DI GIUSTIFICAZIONE 234 persona offesa (es: truffa), poiché in questi casi il consenso è viziato. Il consenso ha invece natura giuridica di causa di giustificazione quando interviene in relazione ad un fatto tipico offensivo del bene giuridico, giustificandone la lesione. L’art 50 cp indica in modo sintetico i requisiti della scriminante; sono necessari due elementi: deve trattarsi di diritti disponibili e devono sussistere le condizioni per la valida rinuncia alla tutela del diritto. Il legislatore non indica quali siano i beni disponibili. La dottrina indica un criterio generale: sono disponibili quei beni rimessi all’esclusivo interesse del singolo, che di essi può disporre. Sono invece indisponibili quei beni rispetto ai quali prevale l’interesse pubblico alla loro tutela. Sono considerati beni indisponibili l’ordine pubblico, la pubblica amministrazione, l’amministrazione della giustizia, la fede pubblica, la famiglia. Sono invece beni disponibili gli interessi patrimoniali, salvo che la libertà di disporne entri in conflitto con un interesse pubblico. Altri beni sono invece disponibili, ma è discusso il limite della loro disponibilità; così, l’integrità fisica ex art 5 cc è disponibile solo se gli atti di disposizione del proprio corpo non cagionano una diminuzione permanente dell’integrità fisica o sono altrimenti contrari all’ordine pubblico o al buon costume. Si noti che la nozione di integrità fisica va intesa nell’ampio senso di integrità psico- fisica. Quanto al bene vita, non vi è dubbio sulla sua indisponibilità. Con riferimento ad altri beni di natura personale, come la libertà personale, la giurisprudenza, in assenza di indicazioni espresse nel sistema, individua il limite di disponibilità del bene nel rispetto della dignità umana. Il consenso non deve essere anzitutto viziato da violenza o da errore, e può essere sottoposto a condizioni. In presenza di una lesione protratta nel tempo, il consenso dell’avente diritto espresso nel momento iniziale della condotta deve essere presente per l’intero sviluppo della stessa. È necessario che il soggetto abbia la capacità di consentire alla lesione del bene: in alcuni casi, tale capacità è definita da limiti di età fissati dal legislatore. Laddove la legge nulla disponga, è necessario che il giudice accerti, nel singolo caso concreto, se il soggetto aveva la capacità di comprendere il significato dell’atto di disposizione, tenendo conto del grado di maturità del soggetto e del tipo di bene coinvolto. In caso di soggetti incapaci di intendere e di volere, il consenso può essere prestato dai legali rappresentanti, salvo che si tratti di beni personalissimi, rispetto ai quali l’interesse rimane nella disponibilità esclusiva del titolare. Se vi sono più titolari del bene, l’art 50 cp opera a condizione che vi sia il consenso di tutti. Non sono richieste particolari formalità per la prestazione del consenso, che può essere espresso oppure tacito. Il consenso tacito non va confuso con il consenso putativo e con il consenso presunto. Si ha consenso putativo quando il consenso non è stato dato ma chi lede il bene ritiene che lo stesso sia stato prestato; in tal caso trova applicazione la disciplina dettata dall’art 59 ultimo comma cp relativa all’erronea supposizione 234 dell’esistenza di una scriminante. Si ha invece consenso presunto quando chi lede il bene sa che il consenso non è stato dato ma presume che lo avrebbe ottenuto qualora lo avesse richiesto al titolare del bene; questa situazione non è regolata dal codice. In via generale, non vi sono preclusioni ad estendere l’art 50 cp anche ai reati colposi, a condizione ovviamente che sussistano tutti i requisiti sopra indicati per l’applicazione di questa scriminante, in particolare la disponibilità del bene. Un ruolo importante nel sistema penale è costituito dal consenso del paziente agli interventi medici. Qui il consenso non opera come scriminante, in quanto l’attività medico-chirurgica si giustifica per l’importante ruolo sociale rivestito; in tal caso, il consenso costituisce piuttosto condizione di liceità dell’intervento medico: senza il consenso del paziente, il medico non è legittimato ad intervenire. Per operare come condizione di liceità dell’intervento, il consenso deve essere informato, ossia al paziente devono essere date tutte le informazioni sul tipo di trattamento e sugli effetti dello stesso, affinchè possa essere pienamente esercitata la libertà di autodeterminazione in ordine alle proprie cure. Tale libertà gode di copertura costituzionale agli artt 13 e 32 Cost , che sanciscono rispettivamente l’inviolabilità della libertà personale ed il divieto di trattamenti sanitari obbligatori se non per disposizione di legge e in ogni caso con i limiti imposti dal rispetto della persona umana. La funzione imprescindibile del consenso informato ha come risvolto il riconoscimento del diritto di rifiutare le cure, anche quando il trattamento salverebbe la vita del paziente. Ebbene, nella misura in cui il soggetto esprime la propria libertà di autodeterminazione, non possono essergli imposti trattamenti sanitari. Gli effetti del riconoscimento della libertà di autodeterminazione del paziente hanno due importanti effetti: da un lato, il bene vita è diventato parzialmente disponibile, ma esclusivamente nei limiti del legittimo esercizio della libertà di rifiutare le cure; dall’altro lato, nei limiti in cui il paziente rifiuta le cure, cessa la posizione di garanzia del medico, la cui condotta omissiva non rileverà più penalmente ai sensi dell’art 40 cpv cp. Comunque, è escluso che il paziente possa esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali; a fronte di tali richieste, il medico non ha obblighi professionali. È però previsto il dovere del medico di alleviare le sofferenze del paziente, anche in caso di rifiuto o di revoca del consenso al trattamento sanitario. L’ADEMPIMENTO DI UN DOVERE La scriminante dell’adempimento di un dovere è classica espressione del principio di non contraddizione. L’ordinamento non può imporre, da un lato, di tenere un 234 certo comportamento e, dall’altro, incriminare tale condotta. L’adempimento del dovere può derivare da una norma giuridica o dall’ordine di un’Autorità. Nell’adempimento del dovere individuato da una norma giuridica sono esclusi i doveri scaturenti solo da imperativi di ordine morale. Si tratta di interpretare attentamente la norma che impone il dovere di agire: se l’attività è espressamente imposta, la norma che delinea il reato soccombe di fronte alla disposizione che stabilisce l’attività doverosa in quanto norma generale che è derogata dalla norma speciale. Più complessa è la disciplina dell’adempimento del dovere derivante da un ordine dell’autorità; in primo luogo occorre sottolineare che il codice penale limita la causa di giustificazione agli ordini emanati da pubblica autorità; restano pertanto privi di efficacia scriminante gli ordini impartiti da un’autorità privata (es: il padre che dà ordini al figlio). Quando l’ordine proviene dalla pubblica autorità è necessario distinguere a seconda che l’ordine sia legittimo o illegittimo. L’art 51 cp riconosce in via generale efficacia scriminante solo agli ordini legittimi. Attengono alla legittimità sia profili formali sia profili sostanziali: l’ordine è legittimo se l’ordinamento consente al soggetto di imporre a soggetti gerarchicamente sottordinati determinati comportamenti astrattamente configurabili come reato. Se l’ordine è legittimo, chi lo esegue ovviamente non risponde del fatto commesso, e non risponde, a titolo di concorso, nemmeno il soggetto che lo ha impartito. In caso di ordine illegittimo, invece, il codice penale italiano chiama a rispondere del reato non solo il superiore gerarchico che con l’ordine ha istigato alla commissione di un reato, ma anche l’esecutore. Viene in tal modo espresso il principio generale secondo cui il subordinato è tenuto a non eseguire l’ordine illegittimo che sfocia in un reato. L’unica possibilità per l’esecutore di sottrarsi alla responsabilità è delineata dall’art 51 c3 cp con riferimento alla disciplina dell’errore: se il subordinato ritiene di eseguire un ordine legittimo incorre in un errore sull’esistenza delle cause di giustificazione che esclude il dolo. È bene precisare, tuttavia, che si deve trattare di errore di fatto che faccia ritenere all’esecutore di adempiere ad un ordine che sarebbe legittimo se il contesto fattuale corrispondesse a quanto il soggetto si è rappresentato. Vi sono settori della Pubblica Amministrazione in cui l’ordinamento impone al subordinato di eseguire comunque l’ordine impartito dal superiore: si parla dei cosiddetti ordini illegittimi vincolanti. Del reato scaturente dell’ordine illegittimo risponde esclusivamente il soggetto gerarchicamente sovraordinato. L’ESERCIZIO DI UN DIRITTO Anche il riconoscimento esplicito dell’efficacia scriminante dell’esercizio di un diritto trova giustificazione alla luce del principio di non contraddizione. È evidente che 234 situazione descritta nel comma stesso. La legge del 2019 ha anche rivisto l’art 55 cp; la nuova disposizione non configura una nuova causa di giustificazione, ma disegna una mera causa di non punibilità. La nuova norma consente di non punire chi, reagendo all’aggressione nel contesto dell’art 52 cp, è andato oltre quanto richiesto dalla necessità. Il requisito della necessità non è presunto, altrimenti si dovrebbe affermare la superfluità dell’art 55 cp. LO STATO DI NECESSITA’ Per quanto riguarda lo stato di necessità, il reato che resta impunito non è compiuto nei confronti di un aggressore, come avviene nella legittima difesa, ma a danno di un soggetto estraneo al pericolo che si vuole evitare attraverso la commissione di un reato. La profonda differenza che intercorre con la legittima difesa giustifica i requisiti maggiormente restrittivi che il legislatore ha inserito nell’art 54 cp: “non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo”. Tale disposizione non si applica a chi ha un particolare dovere giuridico di esporsi al pericolo (es: vigili del fuoco). Come nella legittima difesa, l’autore del fatto commette un reato per sottrarsi ad un pericolo, che può derivare da fatti naturali o da comportamenti umani. In quest’ultimo caso, nello stato di necessità, il reato non si dirige verso un aggressore ma verso un soggetto estraneo. Sono però limitati i beni tutelabili: mentre la legittima difesa può essere invocata per qualsiasi diritto, lo stato di necessità può essere invocato solo per beni inerenti la persona. Il requisito della proporzione coincide con quanto previsto per la legittima difesa. Mentre un fatto commesso per legittima difesa non solo non è punibile ma neppure dà luogo ad alcuna conseguenza sul piano civilistico, un comportamento scriminato dallo stato di necessità obbliga a corrispondere un equo indennizzo. L’USO LEGITTIMO DELLE ARMI Il codice penale italiano dedica una specifica norma all’uso dei mezzi di coazione da parte dei pubblici ufficiali. L’art 53 cp delinea quindi una scriminante propria; i soggetti non qualificati possono fruirne solo alle condizioni previste dal comma 2: “persona che, legalmente richiesta dal pubblico ufficiale, gli presti assistenza). La causa di giustificazione si applica solo ai pubblici ufficiali ai quali siano esplicitamente conferiti poteri e strumenti di coazione, sinteticamente individuati 234 con l’espressione “forza pubblica” (polizia, carabinieri, guardia di finanza, polizie locali). Gli strumenti utilizzabili sono le armi in dotazione e quegli altri mezzi di coazione fisica legittimamente utilizzabili dai predetti soggetti in base alla disciplina dei corpi di appartenenza. L’uso di detti strumenti è legittimo in presenza di alcuni requisiti: - Il fine di adempiere ad un dovere del proprio ufficio - La necessità di respingere una violenza o di vincere una resistenza all’Autorità per adempiere a una funzione o, in alternativa, per impedire la consumazione di alcuni reati Il requisito della proporzione non è esplicitamente richiamato dalla norma ma dottrina e giurisprudenza ritengono che sia implicito. Sembrano sottrarsi al requisito della proporzione alcuni degli “altri casi” di uso delle armi previsti da norme di leggi speciali (es: contrabbando). L’ambito applicativo dell’art 53 cp è altresì condizionato dai rapporti con l’art 51 cp sotto il profilo dell’uso delle armi in esecuzione di un ordine. LE SCRIMINANTI NON CODIFICATE L’esistenza di cause di giustificazione ulteriori rispetto a quelle espressamente previste dal legislatore viene oggi negata dalla dottrina prevalente. In effetti, ammettere che il giudice possa individuare situazioni nelle quali l’operatività della tutela penale dei beni ritenuti dal legislatore meritevoli di protezione sia obliterabile sulla base di parametri vaghi ed incerti (es: utilità sociale) appare in conflitto con i principi fondamentali degli ordinamenti giuridici moderni, in primis con il principio di legalità. È opinione altrettanto consolidata, inoltre, che la teorizzazione di scriminanti non codificate sia spesso operazione inutile: le situazioni più significative e dotate di fondamento giustificativo ragionevole sono comunque riconducibili alle cause di giustificazione codificate. 234 CAPITOLO 16 PRINCIPIO DI COLPEVOLEZZA IL CONSOLIDAMENTO DEL PRINCIPIO DI COLPEVOLEZZA PER IL FATTO Accertato che un fatto storico, commesso da un essere umano, corrisponde ad una fattispecie incriminatrice in tutti i suoi elementi costitutivi, e che non è stato compiuto in presenza di una causa di giustificazione, occorre compiere un terzo passaggio, consistente nel verificare se quel fatto è soggettivamente riconducibile e rimproverabile all’agente. La riconducibilità soggettiva e la rimproverabilità del fatto al suo autore sono imposti, nel nostro ordinamento, dal principio di colpevolezza. Il principio di colpevolezza impedisce, in primo luogo, di punire un soggetto per un fatto altrui. Attualmente, esso impone anche di punire solo quando il soggetto abbia agito con dolo o colpa, cioè quando il fatto sia concretamente rimproverabile. In tale prospettiva, appaiono contrastare col principio di colpevolezza tutte quelle forme di responsabilità oggettiva. Ciò è imposto dalla natura stessa del nostro diritto penale che non può che atteggiarsi rigorosamente quale diritto penale del fatto, sia in virtù dell’esplicita previsione di cui all’art 25 c2 Cost (ove si legittima il ricorso alla sanzione penale solo con riferimento al fatto commesso) che per il connesso 234 CAPITOLO 17 DOLO L’ELEMENTO SOGGETTIVO NEI DELITTI E NELLE CONTRAVVENZIONI Il dolo costituisce la più grave forma di imputazione soggettiva: compiere un fatto volontariamente rende più pesante la responsabilità rispetto a chi abbia agito per negligenza o scarsa attenzione. Nel vigente sistema penale, il dolo costituisce la forma ordinaria di responsabilità colpevole per i delitti. Solo eccezionalmente, e a seguito di esplicita previsione normativa, questa categoria di reati è punita a titolo di colpa o di preterintenzione; questa infatti è la regola dettata dall’art 42 comma 2 cp. In particolare, delitti colposi sono previsti in materia di tutela dell’integrità fisica e della vita (omicidio, lesioni personali ecc) e nel tutolo dei delitti contro l’incolumità pubblica (delitti di incendio, disastro ecc). Molto rari sono invece i delitti colposi in altre materie, ed assolutamente esclusi in ambiti quali la tutela del patrimonio. Puniti a titolo di preterintenzione, per espressa previsione normativa, sono invece i 234 due delitti di omicidio preterintenzionale ed interruzione della gravidanza. Questa regola vale per i delitti. Per le contravvenzioni, invece, l’art 42 c4 cp prevede che ciascuno risponda della propria condotta cosciente e volontaria, sia essa dolosa che colposa. Ciò non significa affatto che il giudice non debba accertare la presenza del dolo o della colpa, ma che è, di regola, indifferente se il fatto è stato commesso con dolo o con colpa. Anche se tendenzialmente per le contravvenzioni è del tutto indifferente che il soggetto abbia agito con dolo o con colpa, la distinzione potrà essere rilevante non già ai fini dell’integrazione della fattispecie incriminatrice, ma della misura della pena. Infine non si deve dimenticare che, eccezionalmente, alcune contravvenzioni sono costruite in modo tale da essere compatibili con la sola imputazione colposa (rovina di un edificio che crolla per colpa di chi abbia avuto parte nella progettazione o nella costruzione, se dal fatto è derivato pericolo alle persone). STRUTTURA ED OGGETTO DEL DOLO Ex art art 43 c1 cp il delitto è doloso, o secondo l’intenzione, quando l’evento dannoso o pericoloso, che è il risultato dell’azione od omissione e da cui la legge fa dipendere l’esistenza del delitto, è dall’agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione. L’oggetto del dolo non va ricercato unicamente nella norma in questione; occorrono altre due norme: l’art 47 cp e l’art 59 cp. Entrambe queste norme, dettate in materia di errore, prevedono che l’erronea rappresentazione di uno degli elementi della fattispecie incriminatrice o di una causa di giustificazione escludono la punibilità dell’agente, proprio per mancanza di dolo. L’errore infatti, quale erronea rappresentazione del fatto, è il contrario speculare della corretta rappresentazione richiesta per l’imputazione dolosa. Pertanto, nell’oggetto del dolo vanno ricompresi tutti gli elementi che, in positivo o in negativo, ne definiscono la fattispecie. Il che equivale a ire che l’oggetto del dolo è costituito dal fatto tipico, conforme ad una fattispecie astratta di delitto. Occorre però chiarire che vi è un’ipotesi di errore che non esclude il dolo: si tratta dell’errore sull’identità della persona offesa. Rappresentazione e volizione costituiscono concreti, specifici e diversi atteggiamenti psicologici che danno conto del maggior giudizio di riprovevolezza del fatto doloso rispetto agli altri tipi di imputazione soggettiva (colpa e preterintenzione). Oggetto di rappresentazione devono essere sia gli elementi descrittivi che gli elementi normativi del fatto tipico. Con riferimento invece alla volontà, si contendono il campo due diverse opinioni. Secono quella più datata, detta teoria della rappresentazione, oggetto di volizione può essere solo la condotta in senso stretto. Ciascuno di noi, infatti, può 234 letteralmente volere solo i propri movimenti corporei, mentre le conseguenze dei nostri atti possono essere, al più, rappresentate e auspicate, ma non volute. Oggi tende invece a prevalere la cosiddetta teoria della volontà, secondo la quale le conseguenze dei comportamenti umani sono accettate dalla volontà umana e, pertanto, volute. Questa seconda impostazione fa rientrare nella volizione tutti gli elementi del fatto tipico, con esclusione dei presupposti della condotta e delle qualifiche personali che, essendo per definizione previe all’agire umano, non possono mai essere oggetto di volizione, ma solo di conoscenza, cioè di rappresentazione. Se è vero che tutti gli elementi del fatto devono essere oggetto di volizione, non si può dimenticare che il momento nel quale valutare la presenza del dolo è proprio la condotta, o meglio il momento nel quale l’agente compie l’ultimo atto di dominio sullo svolgimento del fatto. Si dice, in tal senso, che il dolo deve essere concomitante alla condotta. Non rileva, pertanto, il dolo antecedente. Non rileva nemmeno il dolus generalis, cioè quella situazione nella quale l’agente si rappresenta e vuole l’evento naturalistico, ma in termini astratti e generici, senza che l’atteggiamento psicologico sia specificamente rivolto a tutti gli elementi concreti del fatto storico. Con riferimento alla condotta attiva, occorre distinguere tra reati a forma libera e reati a forma vincolata. Nel primo caso, il momento volitivo del dolo deve investire l’ultimo atto, tra quelli che causano l’evento, che sia sotto il dominio diretto dell’agente. Nei reati a forma vincolata, invece, occorre che l’agente voglia proprio la particolare modalità descritta dalla fattispecie incriminatrice. Infine, nei reati omissivi, la volontà dell’agente attiene alla decisione consapevole di non compiere l’azione doverosa, cioè di non adempiere all’obbligo giuridico di agire. LA COSCIENZA DELL’OFFESA Attualmente, dopo la sentenza della Corte costituzionale n 364/1988 sull’art 5 cp, in virtù della quale l’ignoranza inevitabile della legge penale esclude la colpevolezza dell’agente, la disputa teorica ha pero parte del suo interesse: la consapevolezza dell’illiceità penale continua ad essere esclusa dall’oggetto del dolo ma, dal punto di vista pratico, non dovrà essere punito chi tale consapevolezza non potesse assolutamente avere. Diversa è, invece, la questione attinente alla consapevolezza del carattere antisociale del fatto, cioè alla coscienza che il proprio comportamento si pone in contrasto con i valori fondamentali della società civile, in un dato momento storico, in quanto offende un bene o un interesse rilevante e meritevole della più ampia protezione. Escluso che illiceità penale o carattere antisociale del fatto possano arricchire l’oggetto del dolo, si dovrebbe comunque ammettere che la
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