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"Manuale di diritto penale - Parte generale" - C. F. Grosso, M. Pelissero, D. Petrini, P. Pisa, Sintesi del corso di Diritto Penale

Riassunto del manuale di diritto penale, terza edizione, Giuffré Francis Lefebvre. Il riassunto comprende solo gli argomenti indicati dal Professor E. Amati per le lezioni di lineamenti di diritto penale per il corso Diritto per le imprese e le istituzioni. Gli argomenti trattati sono: capitoli da I a VII (compresi), da IX a XVI (compresi), XXVII e XXXI.

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

In vendita dal 06/04/2021

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Scarica "Manuale di diritto penale - Parte generale" - C. F. Grosso, M. Pelissero, D. Petrini, P. Pisa e più Sintesi del corso in PDF di Diritto Penale solo su Docsity! RIASSUNTO MANUALE DI DIRITTO PENALE 1. DIRITTO PENALE, REATO, PENA Il diritto penale e gli altri settori dell’ordinamento giuridico Il reato è punito con sanzioni consistenti in pene e misure di sicurezza. L’illecito civile è sanzionato con le sanzioni del risarcimento del danno e delle restituzioni. L’illecito amministrativo è punito con sanzioni amministrative (sanzioni pecuniarie, interdizioni, ecc.). Il reato si distingue dall’illecito civile perché è caratterizzato dalla specifica tipizzazione di ciascun illecito. La funzione del diritto penale: la tutela dei beni giuridici Il diritto penale sarebbe considerato come extrema ratio di protezione giuridica, utilizzabile, a garanzia degli interessi giudicati di maggiore rilievo individuale o sociale, solo quando non fossero utilmente esperibili strumenti extrapenali di protezione giuridica (concezione illuministica utilitaristica). Nell’Ottocento, a fianco dell’impostazione utilitaristica, sono nate concezioni autoritarie del diritto penale, che individuano nella commissione del reato, un attentato all’autorità dello Stato che giustificava l’intervento penale nei confronti del colpevole. Verso la metà degli anni Sessanta, la concezione del diritto penale inteso come protezione degli interessi è tornata al centro del dibattito penalistico. Nella seconda metà dell’Ottocento viene elaborata l’idea secondo la quale erano rinvenibili nella società beni e bisogni di importanza primaria, preesistenti alla disciplina giuridica, che il legislatore doveva necessariamente proteggere sul terreno del diritto penale. Con la Costituzione del 1948 vengono enunciati i valori fondanti del nuovo Stato: si possono così individuare i valori, preesistenti alle scelte del legislatore ordinario, ai quali esso poteva ispirarsi nel predisporre le linee della protezione giuridico penale. Il concetto di offesa dell’interesse che la norma penale mira a proteggere è tornato a costituire snodo centrale nella teoria generale del reato: nessuna condotta prevista come reato che non avesse determinato la lesione o la messa in pericolo dell’interesse protetto poteva essere punita. La nozione di reato: criteri formali e criteri sostanziali di definizione Reato → fatto vietato dalla legge penale la cui commissione comporta l’applicazione di una sanzione penale. Sarà individuabile come reato il fatto illecito con una delle pene tipiche. In una dinamica di valutazione più moderna il reato potrebbe essere definito come l’illecito che offende beni che, alla luce dei valori costituzionali, devono essere considerati di maggiore importanza e perciò meritevoli di essere protetti sul terreno del diritto penale. Gli artt. 6 e 7 CEDU prevedono le garanzie sostanziali (irretroattività, determinatezza, ecc.) e procedurali (diritto di difesa e contraddittorio) relative alla materia penale. Questo serve anche per evitare la “truffa delle etichette”, ossia che uno Stato, qualificando come “non penale” una certa infrazione, sottragga quel fatto e la relativa sanzione alle più elevate garanzie che la CEDU riserva alla materia penale. L’art. 4 del Protocollo 7 della CEDU dispone che nessuno può essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato a seguito di una sentenza definitiva conformemente alla legge e alla procedura penale di tale Stato. La sanzione è caratterizzata da un contenuto sostanzialmente punitivo e/o da una dimensione intrinsecamente afflittiva. La sanzione penale: criteri di identificazione e funzioni della pena Le sanzioni penali si dividono in: 1. pene → prevenzione generale; 2. misure di sicurezza → servono a recuperare alla società gli autori di reato socialmente pericolosi attraverso la rimozione delle cause della loro pericolosità sociale. Entrambe sono tassativamente elencate nella parte generale del codice penale e vengono applicate dal giudice penale all’interno di un processo penale. Funzione della pena: ● prevenzione generale; ● funzione rieducativa (garantita dall’art. 27 Cost.). 2. EVOLUZIONE STORICA DEL DIRITTO PENALE Illuminismo e diritto penale Il diritto penale moderno nasce con l’illuminismo (‘700). Numerose regole enunciate in quell’epoca costituiscono tuttora i principi cardine delle legislazioni penali europee (es. principio di irretroattività). Questi definiscono il quadro delle garanzie individuali che l’illuminismo prima, e poi il pensiero liberale dell’800, organizzarono in un assetto razionale del sistema penale fondato sui diritti dei cittadini. Cesare Beccaria (ne “Dei delitti e delle pene”) sostiene che il diritto penale deve fornire una protezione forte dei beni umani fondamentali; deve essere usato solo quando strettamente necessario a questa tutela. Il cittadino ha diritto di conoscere preventivamente ciò che è vietato; la pena deve essere retributiva (colpire l’autore del reato in maniera proporzionale alla gravità del fatto commesso); le pene devono essere inflitte con rapidità ed ineluttabilità e devono essere uguali per tutti; la pena di morte e la tortura devono essere abolite. Questi principi hanno connotato le codificazioni degli ultimi decenni del ‘700. All’impostazione rigorosamente utilitaristica dell’illuminismo si sono affiancate, nello stesso pensiero liberale, impostazioni che si richiamavano ad astratti criteri di giustizia: es. all’idea del diritto penale inteso quale ultima ratio di tutela sostituivano l’idea di un diritto penale espressione di una giustizia di tipo etico-morale. Questa impostazione ideologico- giuridica, seguendo il modello del codice penale napoleonico (1810) ha caratterizzato, con vicende alterne, le codificazioni liberali europee ed italiane dell’800. Es. sono state talvolta introdotte fattispecie di reato prive di offesa. La scuola classica Le legislazioni liberali dell’800 hanno trovato supporto nella scuola classica (primi decenni dell’800), con principale esponente Francesco Carrara. Tale scuola si caratterizza da un lato per la sua continuità rispetto all’illuminismo, dall’altro per il ribaltamento dell’impostazione utilitaristica che aveva caratterizzato il pensiero liberale e la sostituzione al concetto di utile sociale di una visione metafisica e astorica del diritto penale. Secondo questa scuola il compito del giurista è la costruzione del sistema dei reati e delle pene secondo criteri di razionalità scientifica generali, senza tenere conto delle spinte che possono provenire dalla società. I classici ripropongono i capisaldi delle idee liberali: irretroattività della legge penale, certezza del diritto, ecc. La scuola classica e i lavori del Carrara hanno influenzato l’elaborazione del codice penale Zanardelli del 1889. La scuola positiva Mentre i classici privilegiavano l’analisi del reato e della pena, i positivisti hanno posto al centro della loro attenzione l’uomo delinquente e la personalità dell’autore dell’illecito. I classici pensavano che il reo, dotato di libero arbitrio, era libero di scegliere fra l’osservanza o la violazione del diritto, e se sceglieva il male doveva essere punito in proporzione alla gravità dell’illecito commesso. I positivisti invece hanno negato l’esistenza del libero arbitrio, affermando che la commissione di un reato è sintomo di devianza e che il suo autore è un anormale che deve essere curato e rieducato. Per questo la pena è stata sostituita da una misura di natura preventivo-sociale. La sua durata doveva essere indeterminata, e destinata a durare fino a che fosse venuta a cessare la pericolosità sociale del reo. Nella seconda decade del ‘900 si è impostata come scuola vincente, tanto che Enrico Ferri è stato incaricato di redigere un progetto preliminare di codice penale con una commissione formata nella sua interezza da positivisti. Questo progetto di codice penale, pubblicato nel 1921, non ebbe seguito a causa dell’avvento del fascismo. Tecnicismo giuridico Si manifesta un nuovo orientamento culturale che ha come “manifesto” prolusione all’Università di Sassari svolta da Arturo Rocco nel 1910. Secondo Rocco, il diritto penale è in crisi a causa della sovrapposizione tra diritto, antropologia psicologia, statistica, politica, ecc. Entrambe le scuole perciò sono inaccettabili. Compito del giurista deve essere solo di interpretare correttamente le leggi e costruire dogmaticamente gli istituti giuridici in conformità agli enunciati legislativi. Scienza giuridica e politica criminale diventano mondi separati. Questo indirizzo giuridico diventò presto metodo di lavoro dominante fra i penalisti italiani. La politica criminale durante il fascismo Il ministro Alfredo Rocco (fratello del penalista Arturo Rocco) e la Commissione che ha redatto tra il 1925 e il 1930 il nuovo codice penale hanno cercato di mettere in luce i tratti di continuità e di discontinuità della nuova legislazione rispetto alla codificazione liberale del 1889. Per la riforma del codice penale era necessario integrare e completare le norme del codice del 1889, più che sopprimere o radicalmente modificare quelle norme. C’è chi ha sostenuto che esso sarebbe stato segnato dal nuovo concetto di Stato e dai rapporti tra autorità e libertà del fascismo. C’è chi ha affermato invece che il codice del 1930 non appare interamente o prevalentemente permeato dall’ideologia del regime; piuttosto, la ricerca delle sue ascendenze politiche e culturali rimanderebbe ad influenze e filoni diversi. Se pure nel codice Rocco vengono riprodotti istituti e alcuni principi fondamentali di garanzia propri del pensiero liberale (irretroattività della legge penale per es.), e se pure buona parte dell’impalcatura della parte speciale riflette la precedente Il principio di offensività si è espresso attraverso il principio di ragionevolezza: una fattispecie non offensiva di alcun bene giuridico è irragionevole e viola l’art. 3 Cost. Il riconoscimento del principio di offensività in astratto produce effetti positivi in termini di limitazione della tutela penale. Esclude la legittimità del diritto penale d’autore, nel quale rilevano non i fatti offensivi ma le condizioni e le qualità personali dell'autore del fatto. Il principio di offensività consente anche di escludere la rilevanza penale di condotte che possono eventualmente essere oggetto di disapprovazione morale, ma che non offendono interessi di terzi o della collettività. Il principio di offensività fonda la distinzione tra diritto penale e morale. Non sempre la categoria del bene giuridico è riuscita ad essere un baluardo sicuro contro le infiltrazioni della morale. Il rapporto tra diritto penale e morale è oggi reso ancor più complesso dalla pluralità dei codici di comportamento presenti nell’attuale società pluralista e multiculturale nella quale è la stessa percezione del disvalore di alcuni fatti a diventare relativa; ne risente anche l’individuazione dei comportamenti da vietare penalmente. I principi di proporzionalità, sussidiarietà ed efficacia della tutela penale E’ necessario che per la tutela del bene appaia proporzionato il ricorso alla sanzione penale, che incide sulla libertà personale → principio di proporzionalità o di meritevolezza della pena. Nel giudizio di meritevoleza della reazione penale va considerata la proporzionalità rispetto al tipo di bene offeso e alle modalità di aggressione allo stesso. Il principio di proporzione trova fondamento nell'interpretazione di alcune norme della Costituzione: ● Art. 13 → nel proclamare il carattere inviolabile della libertà personale, giustifica il ricorso alla sanzione penale solo a tutela di beni di un certo rilievo; ● Art. 27, comma 3 → la funzione rieducativa della pena presuppone il rispetto del principio di proporzione; ● la proporzione costituisce un “test” per valutare il rispetto del principio di ragionevolezza garantito dall’art. 3. Quand’è che un bene può essere considerato meritevole di tutela penale? Le norme costituzionali, se non riescono a imporre un vincolo rigido alle scelte di incriminazione, costituiscono comunque criteri direttivi per il legislatore. Inoltre, possono essere considerati meritevoli di tutela penale quegli interessi che godono di riconoscimento nel contesto sociale. Questo comporta due conseguenze: 1. necessità di considerare i beni giuridici alla luce dei rapporti sociali nei quali si inseriscono → i principi costituzionali svolgono una funzione di limite alle istanze repressive; 2. delegittimazione del diritto penale: il legislatore non potrebbe inculcare, tramite la sanzione penale, il rispetto di valori nei quali la comunità non crede. A giustificare il ricorso alla sanzione penale non basta la meritevolezza della pena in relazione al bene e alle modalità di aggressione, perché il sacrificio imposto alla libertà personale dalla sanzione penale richiede che sussista anche un effettivo bisogno di pena: è cioè necessario che risultino inefficaci altri strumenti di tutela meno afflittivi → principio di sussidiarietà. Il fondamento costituzionale di questo principio risiede negli artt. 13, 27 comma 3 e 3 della Costituzione. Frammentarietà → in ragione della sua incidenza su beni fondamentali dell’individuo, il diritto penale non può assicurare una tutela totale ai beni giuridici, ma deve intervenire solo laddove le offese appaiano più gravi. Principio di efficacia della tutela → solo un diritto penale efficace in termini di scopo è in grado di giustificare il sacrificio della libertà personale a tutela del bene (copertura costituzionale negli artt. 13 e 27 comma 3 C.). Obblighi di tutela penale? Esistono obblighi costituzionali di tutela penale? E’ possibile dare una risposta positiva solo nei casi in cui sia la stessa norma costituzionale a prevedere espressamente tale obbligo (obblighi costituzionali espressi di tutela penale), come l’art. 13 comma 4 Cost., che prevede che sia punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizione di libertà. Non sono presenti, invece, obblighi costituzionali impliciti di tutela penale che impongono il ricorso alla sanzione penale in ragione dell’importanza di alcuni beni giuridici. Gli obblighi di incriminazione di fonte sovranazionale si traducono in un vincolo di ordine costituzionale ex. art. 117, comma 1 Cost. Essi si traducono, così, indirettamente in un obbligo costituzionale, a condizione che gli obblighi di incriminazione rispettino i principi generali dell’ordinamento costituzionale che fungono da contro-limiti. Il principio di colpevolezza Un altro limite alle scelte di incriminazione del legislatore è costituito dal principio di colpevolezza, che esprime il rifiuto di fondare la responsabilità penale su basi esclusivamente oggettive e richiede anche un’imputazione soggettiva (sent. 364/1988 Corte costituzionale): il dolo o la colpa devono investire gli elementi più significativi della fattispecie incriminatrice. La legge penale deve essere conoscibile da parte dei consociati e il legislatore deve attivarsi per fare in modo che essi possano conoscerne il contenuto. Tendenze in atto della legislazione penale: ipertrofia del diritto penale, diritto penale della prevenzione e populismo penale L’ipertrofia del sistema penale si traduce negativamente sul piano processuale, perché compromette la tenuta del principio di obbligatorietà dell’azione penale, che del principio di legalità sostanziale costituisce il completamento. L’efficacia della repressione penale passa, in primo luogo, attraverso una rigorosa selezione dei fatti ritenuti meritevoli in astratto di pena; questa scelta va fatta attraverso il filtro della depenalizzazione dei reati bagatellari (fattispecie che costituiscono fatti del tutto marginali) → da tempo il legislatore è intervenuto a depenalizzare alcuni. Allo stesso tempo, è in atto una tendenza opposta a quella della depenalizzazione nella prospettiva di potenziamento dello strumento penale attraverso la progressiva anticipazione delle soglie di punibilità. Si spiegano così alcune linee di tendenza della politica criminale: la proliferazione dei reati di pericolo, l’ingresso dei nuovi beni giuridici strumentali, la riscopertura delle misure di sicurezza, la proliferazione delle misure di prevenzione. 4. RISERVA DI LEGGE Il principio di legalità e i suoi sotto principi Il principio di legalità costituisce una conseguenza imprescindibile della divisione dei poteri. L’esigenza di limitare la potestà punitiva dello Stato trova sbocco sicuro nell’idea che i precetti penali siano frutto dell'attività normativa dell’organo elettivo, dove sono rappresentate sia la maggioranza che le minoranze (riserva di legge). Il fatto che la legge debba sempre essere previa ai fatti commessi garantisce i cittadini dell'incriminazione ex post di condotte che erano lecite al momento del fatto (irretroattività della legge penale). La certezza del diritto pretende che i precetti penali siano chiari, tassativi, precisi, cioè comprensibili a tutti i consociati (principio di determinatezza). Principio di tassatività → impone al giudice di limitare l’ambito di operatività della legge penale ai soli fatti in essa tassativamente descritti, vietando qualsiasi forma di interpretazione analogica in malam partem. La riserva di legge: il problema delle fonti del diritto penale La materia penale è di esclusiva prerogativa legislativa, con la conseguenza che nessuna fonte subordinata può emanare leggi penali, né con riferimento al precetto né alla pena (ratio di garanzia). La legge prevede delle forme di pubblicazione che ne garantiscono la conoscibilità da parte di tutti (ratio di certezza). A livello costituzionale il principio è esplicitamente contenuto nell’art. 25, c.2. Nella legislazione ordinaria, la riserva di legge è imposta dagli artt. 1, c. 1 cp e 119 cp, nonchè dall’art, 14 delle preleggi. Possono essere fonti del diritto penale le leggi costituzionali, le leggi ordinarie e i decreti governativi in tempo di guerra. Secondo l’opinione dominante, decreti legge e legislativi possono essere fonte del diritto penale, in quanto la conversione in legge da parte del Parlamento entro 60 giorni dalla loro emanazione garantirebbe adeguato controllo da parte dell’organo legislativo. Diritto penale e leggi regionali In passato, la nostra dottrina ha sempre escluso che le leggi regionali potessero introdurre nuove fattispecie incriminatrici. La giurisprudenza costituzionale, con la sent. n. 487 del 25 ottobre 1989, aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale di una legge della Regione Sicilia, che dettava un più favorevole regime in materia di estinzione del reato. Oggi il problema pare sostanzialmente risolto (in termini negativi) dal momento che il nuovo testo dell’art. 117 C. prevede che l’ordinamento penale sia materia di esclusiva competenza statale. Si può concludere nel senso che alle Regioni è impedito creare nuove fattispecie di reato, abrogare una fattispecie incriminatrice, prevedere nuove sanzioni penali, sostituire una sanzione penale con una sanzione amministrativa, introdurre nuove cause di non punibilità o di estinzione del reato. La consuetudine Ai sensi dell’art. 25, c. 2 e 3 C. non vi può essere alcuno spazio per la consuetudine incriminatrice. La medesima conclusione vale anche per la consuetudine abrogatrice. Per quanto riguarda la funzione integratrice (in virtù della quale la consuetudine potrebbe, in materia penale, attribuire rilievo a determinate sanzioni, sulla base degli usi e del convincimento del loro valore giuridico) tende ad essere esclusa. Consuetudine scriminatrice → può il giudice applicare una causa di giustificazione non codificata, ma ritenuta rilevante dai consociati, in virtù di un uso consolidato, generalizzato e diffuso? La tesi negativa insiste sulla necessità di preservare al massimo grado l rispetto del principio di legalità. Riserva di legge assoluta o riserva relativa? L'ingresso delle fonti subordinate La legge può rinviare, per la descrizione di uno o più degli elementi costitutivi della fattispecie penale, ad una fonte di rango inferiore? Subito dopo l’entrata in vigore della Costituzione, parte della dottrina affermava che la riserva di legge sarebbe stata rispettata anche se interveniva un fonte regolamentare, purché ciò avvenisse sulla base di u esplicito rinvio operato dalla legge (riserva relativa). Si è però consolidata un’idea di riserva assoluta di legge. Ne deriva che una norma penale che contenga un rinvio da parte della legge ad un regolamento, deve essere ritenuta illegittima. Se la legge rinvia a un precedente regolamento, la riserva di legge assoluta è rispettata nel caso del rinvio recettizio (l’amministrazione non può più modificare l’atto regolamentare dopo l’entrata in vigore della legge che lo richiama). Norme penali in bianco → fattispecie incriminatrici che richiamano, tra gli elementi costitutivi, un provvedimento amministrativo. Il rinvio alla fonte subordinata sarebbe legittimo quando vi sia una sufficiente specificazione del precetto da parte della norma di legge. L’interazione dell’ordinamento penale nazionale con l’ordinamento comunitario I Trattati istitutivi dell’UE hanno posto con sempre maggior urgenza il problema dell’interazione tra disciplina sovranazionale e diritto penale interno degli Stati membri. In un sistema improntato rigidamente al principio di legalità gli organi sovranazionali non possono avere potestà normativa in materia penale. Questa assenza di potestà normativa penale diretta si fonda anche sulla considerazione che i tre Trattati istitutivi dell’UE non prevedono una competenza penale diretta degli organi comunitari. A seguito delle modifiche introdotte nel 2007, l’art. 83 TFUE prevede che il Parlamento ed il Consiglio, attraverso direttive, possano stabilire norme minime relative alla definizione dei reati e delle sanzioni in sfere di criminalità particolarmente grave che presentano una dimensione transnazionale derivante dal carattere o dalle implicazioni di tali reati da una particolare necessità di combatterli su basi comuni. Anche prima delle modifiche introdotte con il Trattato di Lisbona, questa tutela mediata degli interessi comunitari era garantita da alcune previsioni dei due precedenti Trattati istitutivi. In un primo periodo le direttive UE si limitavano a chiedere l’introduzione di sanzioni efficaci, proporzionate e dissuasive, senza imporre il ricorso allo strumento penale. Attualmente rimane vero che l’Unione non può introdurre, negli ordinamenti degli Stati membri, nuove fattispecie incriminatrici. Attraverso quali strumenti i Paesi membri recepiscono le previsioni contenute nelle direttive europee, introducendo così nuove fattispecie incriminatrici? 1. unificazione → individuazione di un unico strumento penale vigente in tutti gli ordinamenti degli SM (difficile da attuare); 2. assimilazione → l’UE invita Paesi membri ad estendere la tutela penale già presente nei loro ordinamenti interni a specifici interessi dell’Unione stessa; 3. armonizzazione → gli SM sono chiamati a introdurre nuove fattispecie incriminatrici, modellate sulla base delle indicazioni e previsioni contenute nelle direttive dell’Unione. Nel caso in cui una norma interna si trovi in contrasto con una norma comunitaria il giudice italiano deve tenere conto della disciplina europea. Se si tratta di un contrasto dell’ordinamento interno con una norma di un Trattato il giudice penale è tenuto a disapplicare la normativa interna. Il giudizio di legittimità da parte della Corte costituzionale sulle norme interne che violano i principi contenuti in una direttiva dell’UE vale anche nei confronti delle norme di favore. Ai sensi dell’art. 117, la potestà legislativa dello Stato è esercitata nel rispetto anche dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali. Quindi, nell’esercizio del potere legislativo, il Parlamento non potrà emanare norme penali che si pongano in contrasto con la previsione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, e se ciò dovesse avvenire, la norma in questione dovrebbe essere dichiarate illegittima dalla Corte costituzionale. L’unico limite è dato dall’eventuale contrasto tra la norma pattizia e una norma costituzionale interna. in qualsiasi caso, il giudice, prima di sollevare la questione davanti alla Corte, deve tentare di dare alla nrma nionale un significato compatibile con le previsioni della Convenzione. 5. SUCCESSIONE DI LEGGI PENALI NEL TEMPO Il principio di irretroattività Nessuno può essere punito per un fatto che non fosse già previsto come reato al momento del compimento del fatto stesso. Il principio è teso a tutelare il cittadino da qualsiasi abuso di potere legislativo, e svolge una funzione di certezza. Art. 11 preleggi → la legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo. La Corte ha ritenuto sufficientemente determinati i termini rispetto ai quali sia possibile un rinvio al normale significato linguistico, soprattutto se valutati non in sé, ma nel contesto testuale della fattispecie incriminatrice intesa nel suo complesso. A volte il significato linguistico del termine viene arricchito dalla lettura che il giudice ne deve dare, non tanto alla luce degli altri elementi di fattispecie, quanto di principi generali di carattere costituzionale. In altre occasioni si è ritenuto rispettato il parametro della determinatezza facendo riferimento al diritto vigente, cioè all’interpretazione di un certo termine consolidatasi nella giurisprudenza di legittimità. 7. INTERPRETAZIONE DEL DIRITTO PENALE E DIVIETO DI ANALOGIA L’interpretazione del diritto penale L’attività di interpretazione è detta autentica quando promana dallo stesso legislatore, o ufficiale se proviene dall’autorità amministrativa o dagli organi dello Stato interessati. Sempre dal punto di vista del soggetto da cui promana, si distingue un’interpretazione giudiziale o dottrinale. Nel nostro ordinamento il precedente giudiziario non vincola l’interprete. Il sistema penale deve tendere ad un potenziale punto di equilibrio tra rispetto della legalità e attività interpretativa del giudice, che deve dare credibilmente conto della corrispondenza tra fatto tipico e fattispecie astratta. Art. 1 prel. → nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore. I due criteri fondamentali, quindi, sono il significato letterale delle parole e l’intenzione del legislatore, intesa come finalità di tutela. La norma in oggetto non dice nulla riguardo alle soluzioni dei casi nei quali i dei citati canoni risultino in contrasto tra loro. Criterio semantico → art. 12 prel.: il primo sforzo dell’interprete deve essere quello di chiarire il senso lessicale dei termini utilizzati dal legislatore. Criterio storico → necessità di rifarsi alla volontà del legislatore intesa come l’oggettivazione, nel testo di legge, di una volontà storica, espressa dal Parlamento attraverso l’esercizio del proprio potere legislativo Criterio logico-sistematico → cercare, tra tutti i possibili significati della norma penale, quello più coerente con l’ordinamento nel suo insieme. Criterio teleologico → occorre individuare lo scopo della fattispecie incriminatrice, per interpretarla alla luce dei mutamenti che le esigenze di tutela impongono nei diversi momenti storici. Il divieto di analogia Per analogia si intende l’integrazione dell’ordinamento giuridico attraverso l’applicazione, ad un cas non regolato dalla legge, della disciplina prevista per casi simili. Essa è certamente vietata nel diritto penale, e in tal senso si esprimono l’art. 14 prel. (le leggi penali e quelle che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi non si applicano oltre i casi e i tempo in esse considerati), l’art. 1 cp e l’art. 25, c. 2 Cost. Al riguardo la nostra dottrina individua un quarto corollario del principio di legalità, il principio di tassatività, ch impone al giudice di limitare l’ambito di operatività della norma penale ai soli fatti in essa tassativamente descritti. Il problema fondamentale, in proposito, attiene al confine tra analogia in malam partem (sempre vietata) e d'interpretazione estensiva del diritto penale, che sarebbe consentita, nella misura nella quale sia rispettato il limite del significato letterale della norma. Il divieto di analogia opera sempre in malam partem, mentre sono possibili, secondo una parte della dottrina, interpretazioni analogiche a favore del reo, purché non vi sia una lacuna intenzionale del legislatore, o non si tratti di norme eccezionali. 9. STRUTTURA GENERALE DEL REATO Le teorie sulla struttura del reato Fu merito della Scuola classica avere avviato in modo scientifico lo studio del diritto penale attraverso l’analisi del reato quale ente giuridico astratto: si affermò che il reato era composto di due elementi, una forza fisica, corrispondente all'elemento oggettivo, ed una forza psichica, corrispondente all’elemento soggettivo. Il modello analitico nello studio del reato aveva portato ad un eccesso di concettualismo dogmatico. La critica al modello analitico è arrivata da alcuni autori tedeschi che, negli anni Trenta, proposero di affrontare l’analisi del reato secondo un modello sintetico: l’interprete non può parcellizzare il reato in una molteplicità di elementi perché perde di vista l’essenza unitaria del reato che il giudice può cogliere solo attraverso un approccio istituzionalista che consente di comprendere l’essenza del reato. L’intuizione lascia solo spazio ad una discrezionalità giudiziale così ampia a diventare arbitrio. Secondo la concezione bipartita, il reato si compone di due elementi: ● fatto oggettivo: elementi oggettivi richiesti dalla singola fattispecie incriminatrice (elementi positivi del fatto). La presenza di tali elementi non è però ancora sufficiente ad integrare gli estremi del reato, perché possono sussistere particolari situazioni in presenza delle quali in fatto è autorizzato o imposto dall’ordinamento. Si tratta delle cause di giustificazione (elementi negativi del fatto); ● elemento soggettivo: coscienza e volontà dell’azione o omissione, dolo o colpa. Secondo i suoi sostenitori, la teoria bipartita corrisponde alla disciplina del codice penale come emergerebbe dal raffronto tra gli artt. 47 e 59 ultimo comma. Secondo la teoria tripartita, gli elementi costitutivi del reato vanno ricondotti a tre categorie: ● fatto tipico → elementi oggettivi del reato; ● antigiuridicità → cause di giustificazione; ● colpevolezza → elementi soggettivi che consentono di muovere al soggetto un rimprovero per il fatto commesso. Secondo questa impostazione le scriminanti non avrebbero natura strettamente penale, ma sarebbero norme generali dell’intero ordinamento giuridico che rendono appunto legittimo il fatto in qualsiasi settore dell’ordinamento. La concezione quadripartita utilizza le categorie del fatto tipico, dell’antigiuridicità e della colpevolezza, ma vi affianca anche quella della punibilità, alla quale vanno ricondotte particolari situazioni che, per esigenze di politica criminale, escludono l’applicazione della pena pur in presenza degli altri elementi costitutivi del reato. Si tratta delle cause personali di non punibilità (es. immunità) e delle cause sopravvenute di non punibilità. In questa teoria la punibilità è requisito costitutivo del reato: se il fatto non è punibile, il reato non sussiste. L’orientamento dottrinale prevalente è contrario. La distinzione tra delitti e contravvenzioni Il reato è quell’illecito per il quale l’ordinamento prevede come conseguenza sanzionatoria una pena. I reati si distinguono in delitti e contravvenzioni in ragione del criterio formale della pena principale per essi prevista (rispettivamente ergastolo, reclusione e multa per i delitti; arresto e ammenda per le contravvenzioni). 10. SOGGETTI Il soggetto attivo del reato. Reati comuni e reati propri Soggetto attivo del reato è chi realizza il fatto descritto dalla singola fattispecie incriminatrice. La maggior parte delle fattispecie è costruita in forma monosoggettiva, nel senso che per la commissione del reato è sufficiente l’intervento di una sola persona. Altre volte è la stessa fattispecie incriminatrici a richiedere, come elemento costitutivo del reato, la presenza di più soggetti attivi (reati a concorso necessario). Soggetto attivo del reato può essere solo la persona umana. La maggior parte dei reati può essere commessa da chiunque; in alcuni casi è la stessa norma a richiedere la presenza di particolari qualifiche personali in capo al soggetto attivo: si contrappongono così i reati comuni ai reati propri. Nei reati propri la qualifica costituisce elemento essenziale della fattispecie e delimita la sfera dei destinatari del precetto. La qualifica può essere naturalistica (qualifica di madre nel delitto di infanticidio in condizioni di abbandono morale e materiale) o giuridica (pubblico ufficiale). Le immunità Art. 3 cp → la legge penale italiana obbliga tutti coloro che, cittadini e stranieri, si trovano sul territorio dello Stato, salve le eccezioni stabilite dal diritto pubblico interno o dal diritto internazionale. Le eccezioni sono costituite dalle immunità. Non si tratta di limiti all’obbligatorietà della legge penale. Esse hanno natura giuridica di cause personali di esenzione della pena: escludono la punibilità del soggetto, sono estranee alla natura del reato e la loro applicazione è limitata al solo soggetto a cui si riferiscono e non si estendono ai concorrenti. Si distinguono in immunità di diritto pubblico interno o di diritto internazionale; in immunità funzionali ed extrafunzionali. Un’altra importante distinzione è tra immunità sostanziali (cause personali di non punibilità) e processuali (interessano il processo e consistono in ostacoli al promovimento dell’azione penale). Il legislatore ordinario non può introdurre immunità che non rispondono ad esigenze di tutela ricavabili dal dettato costituzionale. Le immunità di diritto pubblico interno Ai senso dell’art. 90 Cost. il Presidente della Repubblica non risponde per gli atti commessi nell’esercizio delle sue funzioni tranne che per alto tradimento e attentato alla Costituzione. Spetta anche al Presidente del Senato, quando esercita in supplenza le funzioni di Presidente della Repubblica. Si tratta di immunità solo funzionale che non copre gli atti commessi al di fuori dell’esercizio delle funzioni presidenziali. I parlamentari godono di una immunità sostanziale e di una immunità processuale finalizzate a consentire loro l'esercizio delle funzioni parlamentari al di fuori di condizionamenti esterni. L’immunità sostanziale interessa le opinioni espresse e i voti dati nell’esercizio delle funzioni parlamentari (art. 68, c. 1 C.). Riguarda principalmente i reati di diffamazione e vilipendio delle istituzioni. L'articolo richiede un nesso funzionale delle opinioni espresse con l’esercizio di funzioni parlamentari. L’immunità copre anche le opinioni espresse al di fuori del Parlamento, purché permanga il nesso funzionale. I commi 2 e 3 dell’art. 68 prevedono un’immunità di tipo processuale che non impedisce né le indagini del pubblico ministero né il processo penale nei confronti dei parlamentari, ma non consente l’adozione di specifici atti processuali senza autorizzazione della Camera di appartenenza. I consiglieri regionali godono di una immunità sostanziale analoga a quella dei parlamentari. A giudici della Corte costituzionale l’art. 3 l. cost. 9 febbraio 1948 n. 1 estende le garanzie previste dall’art. 68, c. 2 Cost. Godono anche di una immunità sostanziale per le opinioni espresse e i voti dati nell’esercizio delle loro funzioni. I membri del Consiglio superiore della magistratura non rispondo per le opinioni date e i voti espressi nell’esercizio delle loro funzioni. Immunità di diritto internazionale Le immunità di diritto internazionale si fondano su convenzioni internazionali alle quali è stata data attuazione con leggi ordinarie (la Corte costituzionale ha ravvisato copertura costituzionale nell’art. 10 Cost.). Godono di un'immunità assoluta, sostanziale e processuale, funzionale ed extrafunzionale, i capi di Stato estero, quando si trovano in tempo di pace nel territorio dello Stato italiano (incluso il Pontefice). Godono di immunità anche per gli atti commessi al di fuori dell’esercizio delle loro funzioni, gli appartenenti al corpo diplomatico, mentre i consoli e gli impiegati consolari hanno un’immunità funzionale e per gli atti commessi al di fuori dell’esercizio delle loro funzioni non possono essere assoggettati a custodia cautelare in carcere a meno che non si tratti di delitto punito con la reclusione non inferiore nel massimo a 5 anni. I parlamentari europei non sono punibili per le opinioni espresse e i voti dati nell’esercizio delle loro funzioni. I militari di uno Stato espero presenti sul territorio italiano sono assoggettati alla legge dello Stato di appartenenza per reati commessi in servizio. Il soggetto passivo del reato Soggetto passivo del reato è il titolare del bene giuridico tutelato dalla fattispecie (persona offesa). Può essere sia una persona fisica che una persona giuridica o un ente collettivo anche privo di personalità giuridica. Può essere anche lo Stato. Nei reati plurioffensivi, ossia che offendono più beni giuridici, vi sono più soggetti passivi. Il soggetto passivo va distinto dall’oggetto materiale del reato, costituito dalla persona o dalla cosa su cui cade la condotta del reato. Il danneggiato è chi ha subito dal reato un danno risarcibile, considerato che l’art. 185 cp prevede che ogni reato obbliga alle restituzioni e al risarcimento del danno. Il sistema penale conferisce rilevanza alla persona offesa a diversi fini: ● in alcuni casi è richiesta, come elemento costitutivo di fattispecie, una qualifica in capo al soggetto passivo; ● altre colte le qualifiche del soggetto passivo rilevano come elemento circostanziale; ● il soggetto passivo può fondare una causa di non punibilità; ● il consenso del soggetto passivo alla lesione di diritti disponibili costituisce una causa di giustificazione; ● nei diritti procedibili a querela, il soggetto passivo è il titolare del diritto di presentare querela; ● la persona offesa rileva anche sul piano della disciplina processuale. 11. CONDOTTA ED EVENTO La condotta nell'ambito degli elementi costitutivi del fatto di reato Nella struttura del reato gli elementi oggettivi essenziali della fattispecie integrano il fatto tipico, che costituisce il primo elemento oggetto di accertamento da parte del giudice. Il fatto tipico è composto: dalla condotta; dai presupposti della condotta, talvolta richiesti dalla fattispecie; dalle qualifiche soggettive del soggetto attivo e del soggetto passivo; dall’oggetto materiale della condotta; dall’evento e dal rapporto di causalità che lega quest’ultimo alla condotta dell’autore. Condotta e suitas Il primo elemento del fatto tipico è costituito da una condotta umana che può essere attiva o omissiva. E’ attiva quando si estrinseca in un movimento muscolare, è omissiva quando consiste in un non facere. Nel primo caso il precetto è costituito da una norma di divieto, nel secondo caso da una norma di comando. La condotta costituisce requisito indefettibile del resto: non esistono reati senza azione. Art. 42, c. 1 cp → nessuno può essere punito per una azione od omissione provveduta dalla legge come reato, se non l’ha commesso con coscienza e volontà. Coscienza e volontà vanno riferite esclusivamente all’azione od omissione e non all’intero fatto di reato. In alcuni casi corrispondono ad un dato psicologico effettivo (coscienza e volontà reali). Al di sotto della zona lucida della coscienza alcune condotte possono essere controllate con un maggiore sforzo del volere. In questi casi siamo in presenza di coscienza e volontà potenziali, che rilevano ne reati di natura colposa. E’ ciò che accade negli atti abituali e negli atti automatici. Vi possono essere atti per i quali non è possibile ravvisare alcuna coscienza e volontà perché il soggetto non avrebbe potuto impedire l’azione o l’omissione (atti istintivi e riflessi). individua i soggetti obbligati ad impedire l’evento attraverso le posizioni di garanzia. L’ordinamento individua la figura di un garante in modo da offrire tutela al bene. E’ necessario che esso sia titolare di obblighi impeditivi, perché si risponde del mancato impedimento dell’evento che si aveva l’obbligo di impedire. Non si richiede che il soggetto disponga dei poteri per impedire direttamente l’evento, ma sono sufficienti anche i poteri di natura sollecitatoria, da lui esigibili, volti a far intervenire chi dispone del potere di impedire l’evento. Nella prassi applicativa la distinzione tra obblighi impeditivi ed obblighi di mera sorveglianza ha interessato la responsabilità di amministratori e sindaci all’interno delle società per il mancato impedimento di reati realizzati degli amministratori esecutivi in seno al consiglio di amministrazione. E’ altresì necessario che la titolarità dei poteri impeditivi si accompagni la capacità di esercitarli. La titolarità dei poteri impeditivi deve essere sempre precostituita rispetto alla situazione di pericolo in cui il bene viene a trovarsi: la posizione di garanzia non si costituisce con la situazione di pericolo, ma deve precederla. E’ infine necessario che la posizione di garanzia abbia carattere specifico, ossia che il garante sia tale in relazione a specifici beni di specifici soggetti: non sono ammissibili posizioni di garanzia a contenuto generale. La teoria mista Accoglie i principi elaborati dalla teoria funzionale , ma richiede una base legale delle posizioni di garanzia. Spetta alla legge individuare le posizioni di garanzia ma è necessario che queste ultime presentino i caratteri della precostituzione e della specificità e diano al garante i necessari poteri impeditivi o sollecitanti. E’ compito dell’interprete differenziare gli obblighi di impedimento, che fondano le posizioni di garanzia, dai meri obblighi di sorveglianza: questi ultimi prevedono doveri di sorveglianza su certe situazioni, ma non attribuiscono al loro titolare poteri impeditivi, con la conseguenza che, in loro presenza, la clausola di equivalenza dell’art. 40 cpv cp non può operare. Tipologia delle posizioni di garanzia La posizione d protezione impone di preservare il bene protetto dai rischi che possano ledere l’integrità: il garante ha sotto la sua sfera di protezione un bene che deve salvaguardare da possibili offese (es. rapporto tra genitori e figli minori). Le posizioni di controllo impongono, a chi sotto la sua sfera di controllo una fonte di pericolo, di neutralizzare i rischi che da tale fonte possono derivare ai terzi (es. proprietario di un animale o di un edificio che minaccia rovina). A queste due categorie, una parte della dottrina ne ha aggiunta una terza che ha ad oggetto il mancato impedimento di reati commessi da terzi. Tuttavia esse possono essere ricondotte alle due categorie tradizionali: talune sono assimilabili a posizioni di protezioni, perché il soggetto ha sotto la sua sfera di vigilanza un bene di cui deve assicurare la salvaguardia (es. guardia del corpo). Altre volte l’obbligo giuridico di impedire la condotta illecita altrui assume tratti di una posizione di controllo, nella quale l'autore del reato è la fonte del pericolo. Il tradizionale ricorso alle posizioni di garanzia per spiegare l’art. 40 cpv cp è stato più d recente rivisitato dalle Sezioni unite della Corte di cassazione che, per spiegare la posizione del garante, hanno fatto riferimento all’area di rischio che il soggetto è chiamato a governare. Trasferimento e successione delle posizioni di garanzia. Assunzione volontaria e posizioni di fatto Le posizioni di garanzia possono essere originarie o derivate. Nelle prime il garante individuato da una norma di legge: in relazione ai figli minori, la posizione di garanzia dei genitori è fondata sull'art. 147 cc. Esse possono essere trasferite, dando così origine a posizioni derivate. La fonte del trasferimento può essere la legge o il contratto. E’ più corretto parlare di trasferimento degli obblighi inerenti alla posizione di garanzia, in quanto la posizione non si trasferisce in toto, ma il garante originario cede a quello derivato parte degli obblighi ad essa inerenti. Non basta che una fonte trasferisca la posizione di garanzia, ma è necessario che vi sia stata la concreta presa in carico del bene da parte del garante derivato: la concreta assunzione da parte del garante dei poteri-doveri impeditivi non solo giuridici, ma anche fattuali dell’evento dannoso o pericoloso. Particolarmente complessa può risultare l'individuazione dei limiti della responsabilità penale nel caso di successione nella posizione di garanzia, come nel caso della cessione di una azienda con conseguente successione degli amministratori. La giurisprudenza esclude che il primo garante si liberi dell’eventuale responsabilità derivante dalla condotta da lui posta in essere per il solo fatto che gli sia subentrato un successore. La questione va affrontata considerando che la successione ei garanti equivale ad una successione di aree di garanzia, per cui solo un errore nuovo, idoneo ad aprire nuovi scenari, nuove aree di rischio rispetto a quella innescata nello scenario di rischio del primo garante potrebbe portare ad escludere la responsabilità del primo garante. Un secondo requisito per il trasferimento delle posizioni di garanzia è costituito dalla volontà del titolare del bene o del garante originario al suo trasferimento. La Cassazione ha però dato rilevanza ex art. 40 cpv cp anche all’assunzione volontaria di una posizione di garanzia. Particolarmente controversa è la possibilità di fondare le posizioni di garanzia su situazioni di mero fatto. La giurisprudenza ritiene che la posizione di garanzia sia generata non solo dalla investitura formale del garante, ma anche dall’esercizio di fatto nelle funzioni tipiche delle diverse figure di garante mediante un comportamento concludente dell’agente, consistente nella presa in carico del bene protetto. Non sono dunque le regole cautelari a fondare la posizione di garanzia, ma è la titolarità della posizione di garanzia a delimitare l’ambito delle norme cautelari esigibili dal garante. E’ possibile riconoscere la sussistenza di una posizione di garanzia fondata su situazioni di fatto nei casi in cui la stessa legge riconosca rilevanza all’assunzione di fatto di poteri inerenti agli obblighi di tutela: in tema di sicurezza sul lavoro, il d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81 equipara ai soggetti di diritto del datore di lavoro, del dirigente e del preposto chi, pur sprovvisto di formale investitura, esercita in concreto i poteri giuridici corrispondenti a tali qualifiche. 13. RAPPORTO DI CAUSALITÀ Il rapporto di causalità in ambito giuridico e i limiti della disciplina codicistica Nei reati con evento naturalistico costituisce elemento essenziale di fattispecie il nesso di causalità tra la condotta e l’evento. Il nesso di causalità in ambito penale s traduce in un problema di imputazione di un evento ad una condotta umana. Art. 27, c. 1 Cost. → la responsabilità penale personale richiede un coefficiente soggettivo minimo di imputazione, presuppone anzitutto una responsabilità per fatto proprio, ossia per un fatto che sia oggettivamente imputabile al suo autore. Art. 40, c. 1 cp → nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l’evento dannoso o pericoloso, da cui dipende l’esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione o omissione. Più articolata è la disciplina delle concause: il primo comma dell’art. 41 cp stabilisce che il concorso di cause preesistenti o simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall’azione od omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità fra l’azione od omissione dell’evento. Art. 41, c. 2 → le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità quando sono state da sole sufficienti a determinare l’evento. In tal caso, se l’azione od omissione precedentemente commessa costituisce per sé un reato, si applica la pena per questo stabilita. La teoria condizionalistica Secondo la teoria condizionalistica (o della condicio sine qua non) causa è l’insieme delle condizioni necessarie per la produzione dell’evento. Ai fini dell’accertamento della responsabilità penale, è sufficiente che la condotta umana costituisca una delle condizioni dell’evento. La causalità della condotta si accerta attraverso il procedimento di eliminazione mentale: a) la condotta è condizione necessaria se, eliminando mentalmente dal novero dei fatti realmente accaduti la condotta, l’evento non si sarebbe verificato; b) la condotta non è condizione necessaria se, eliminata mentalmente, l’evento si sarebbe ugualmente verificato. Questa teoria è andata incontro alle critiche di una parte della dottrina: ● rischio di estensione eccessiva della responsabilità penale attraverso il regresso all’infinito: se causali sono tutte le condizioni dell’evento, saranno a loro volta causali anche le condizioni delle condizioni e così via; ● causalità alternativa ipotetica → prende in considerazione l’intervento di un fattore causale che avrebbe, comunque, prodotto l’evento all’incirca nello stesso momento in cui è intervenuta la condotta rispetto alla quale va accertata la causalità. Le obiezioni ad essa non sono corrette perché impostano l’accertamento del nesso di causalità partendo da una nozione di evento astratto, quando invece un punto fondamentale dell’accertamento del nesso causale sta nel prendere come secondo termine del l’apporto l’evento concreto; ● causalità addizionale → quando l’evento deriva da azioni congiunte tali che, se anche venisse meno una, non verrebbe meno l’evento, il procedimento di eliminazione mentale va verificato rispetto al complesso dei fattori causali e non alle singole condotte. Teoria della causalità adeguata Essa accoglie i principi della teoria condizionalistica, secondo i quali la condotta umana deve costituire condizione dell’evento, ma limita la responsabilità penale esclusivamente alle condotte idonee a produrlo: la valutazione va di idoneità va effettuata secondo un giudizio ex ante, ossia accertando se, al momento della condotta, questa costituiva, in base alle massime di esperienza, un fattore probabile di causazione dell’evento. Questa teoria finisce per restringere eccessivamente la responsabilità penale, in quanto viene escluso il nesso causale tra la condotta e gli effetti atipici che la condotta stessa abbia comunque prodotto. Teoria della causalità umana E’ stata elaborata da Francesco Antolisei. Secondo esso la causalità delle condotte dell’uomo presenta proprie specificità, in quanto l’uomo, in forza dei propri poteri conoscitivi e volitivi, ha una sfera di signoria che gli consente di dominare una serie di circostanze nelle quali si inserisce la sua condotta: i fattori che rientrano in questa sfera possono essere considerati causati dall’uomo perché dominabili dallo stesso; i fattori che fuoriescono non possono essere imputati al soggetto, perché si tratta di fattori eccezionali. E’ necessario innanzitutto che la condotta costituisca condicio sine qua non dell'evento mediante giudizio controfattuale, ed è necessario anche che non sia intervenuto un fattore eccezionale il quale interrompe il nesso di causalità. Teoria dell’imputazione oggettiva dell’evento introduce il criterio dell’aumento del rischio in funzione della imputazione penale dell’evento. Affinché un evento possa essere imputato ad una condotta sono necessari tre requisiti: 1. la condotta deve essere condizione dell’evento; 2. la condotta deve aver creato un pericolo riprovato dall’ordinamento; 3. l’evento deve essere la realizzazione del rischio non consentito. Le critiche mosse a questa teoria sono principalmente due: 1. si obietta di spostare sul piano oggettivo del nesso di causalità un problema di imputazione che può essere risolto sul piano dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa; 2. timore che l'aumento del rischio come criterio di delimitazione della condotta penalmente rilevante conduca ad allentare l’accertamento del nesso di causalità. La sussunzione sotto leggi scientifiche Nella spiegazione del nesso causale il giudice deve passare da un metodo individualizzante ad un metodo generalizzante: deve necessariamente partire dal caso concreto, ma questo deve essere ridescritto astraendo da talune delle connotazioni della specifica vicenda. Il giudice non crea le leggi scientifiche per spiegare il rapporto tra avvenimenti, ma ne è fruitore. Possono essere leggi universali o statistiche. Nell’accertamento del nesso di causalità, la giurisprudenza ammette anche il ricorso a generalizzate regole di esperienza.. Agli effetti del nesso di causalità il giudice deve considerare sempre lo stato delle conoscenze presenti al momento del giudizio, perché il giudizio di causalità è sempre ex post. La causalità omissiva e l’approdo della giurisprudenza alle Sezioni Unite (sentenza Franzese) I problemi sollevati dal rapporto di causalità si amplificano in presenza di una condotta omissiva: quando il soggetto omette di intervenire, gli eventi si sviluppano secondo un decorso naturale e l’evento è l’effetto di una serie di fattori tra i quali non rientra la condotta omissiva. Si sostiene che la causalità omissiva ha natura ipotetico-normativa. Ha natura normativa perché è la legge a considerare equivalente alla condotta attiva quella di omesso impedimento dell’evento. Ha natura ipotetica in quanto l’accertamento del nesso causale in presenza di una condotta omissiva richiede un ragionamento di tipo ipotetico: è necessario individuare quale azione doverosa il titolare della prestazione di garanzia avrebbe dovuto tenere e poi chiedersi se l’evento sarebbe venuto meno. Nel settembre del 2000 si è assistito ad un importante ad un importante mutamento di orientamento nella giurisprudenza della Corte di cassazione che, in tre sentenze, ha richiesto che l’accertamento della causalità omissiva abbia lo stesso grado di quella attiva e che le leggi di copertura utilizzate possiedono un coefficiente percentualistico vicino a 100. Queste pronunce hanno avuto l’effetto di restringere la responsabilità penale. Importante è stata anche una pronuncia della Cassazione a sezioni Unite (sentenza Franzese). Probabilità statistica → attiene alla verifica empirica circa la misura della frequenza relativa nella successione degli eventi. Probabilità logica → contiene la verifica aggiuntiva, sulla base dell’intera evidenza disponibile, dell’attendibilità dell’impiego della legge statistica per il singolo evento e della persuasiva e razionale credibilità dell’accertamento giudiziale. Secondo il giudizio di probabilità logica, sussiste il rapporto di causalità tra una condotta ed un evento concreto, se si può affermare, al di là di ogni ragionevole dubbio, che la condotta è stata causa dell’evento. 14. FATTO TIPICO E OFFENSIVITÀ Il principio di offensività. Il dibattito in dottrina sull’offensività in concreto Necessità che costituiscano reato fatti offensivi di beni giuridici → offensività in astratto. Si rivolge: ● al legislatore, al quale spetta descrivere fattispecie incriminatrici a tutela di beni giuridici; ● all’interprete, che deve interpretare le norme penali in modo da garantire il rispetto del principio di offensività in astratto. Non sempre un fatto concreto, che formalmente riproduce gli elementi costitutivi di una fattispecie incriminatrice,è anche offensivo del bene giuridico: in alcuni casi si può assistere alla discrasia tra fatto tipico ed offesa al bene giuridico. La dottrina si è chiesta se sia ragionevole che il diritto penale intervenga a reprimere un fatto tipico, ma in concreto non offensivo dell'interesse tutelato. Una parte ne ha escluso la rilevanza penale in applicazione dell’art. 49, c. 2 cp, che prevede la non punibilità del reato impossibile per inidoneità dell’azione. Secondo la lettura tradizionale questa forma di Cause di giustificazione e cause di non punibilità In alcune situazioni di fatto, che normalmente costituirebbe un illecito penale, non è considerato tale in quanto giustificato dall’ordinamento. E’ affermazione condivisa che le cause di giustificazione siano collegabili a norme che autorizzano o addirittura impongono la realizzazione del fatto che normalmente costituirebbe reato. L’opinione prevalente le considera cause di esclusione dell’antigiuridicità. E’ fondamentale tenere ben distinte le scriminanti dalle mere cause di non punibilità. Queste ultime sono situazioni nelle quali il legislatore stabilisce la non punibilità di un soggetto per semplici ragioni di opportunità, mentre il fondamento delle cause di giustificazione risponde a criteri di natura sostanziale imperniati sul bilanciamento degli interessi contrapposti. Il fondamento delle cause di giustificazione Le singole scriminanti individuano situazioni particolari di non punibilità che limitano l’applicazione di norme incriminatrici di portata generale. Sempre sul piano formale le si può fondare in gran parte sul principio di non contraddizione. Sul piano sostanziale è presenta una valutazione dell’ordinamento che risolve ipotesi di conflitto tra interessi contrapposti. La disciplina generale delle cause di giustificazione Essa non è delineata in maniera organica dal codice penale. E’ desumibile in parte da principi generali, in parte da disposizioni collocate in settori diversi dal codice. In relazione ai principi generali va sottolineato che le cause di giustificazione devono rispettare il principio di riserva di legge, nei limiti in cui esso opera per gli altri elementi costitutivi del reato. In linea teorica è ammissibile un’estensione in via analogica di una causa di giustificazione; il problema, tuttavia, è fortemente ridimensionato dalla difficoltà di riscontrare i presupposti dell’analogia. Art. 59, c. 4 cp → se l’agente ritiene per errore che esistano circostanze di esclusione della pena, queste sono sempre valutate a favore di lui. Tuttavia, se si tratta di errore determinato da colpa, la punibilità non è esclusa, quando il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo. L’articolo si riferisce all’errore di fatto, non all’errore di diritto, che può consistere nell’erronea credenza dell'esistenza di una causa di giustificazione. Eccesso nelle cause di giustificazione → la causa di giustificazione esiste ma ne vengono travalicati i limiti. Esistono tre forme di eccesso: ● eccesso doloso → Tizio viene aggredito con spintoni da Caio (disarmato) durante una discussione al bar e reagisce estraendo una pistola con la quale spara più colpi in direzione dell’aggressore uccidendolo: Tizio si rende pienamente conto di aver superato il limite della proporzione. In questo caso Tizio risponde di omicidio doloso, in base ai principi generali; ● eccesso colposo (art. 55 cp) → Sempronio è aggredito a mani nude da Mevio, intende per difendersi minacciarlo con un’arma dalla quale lascia partire inavvertitamente un colpo che causa la morte dell’avversario: sarà imputato per omicidio colposo; ● eccesso incolpevole → un rappresentante di gioielli è aggredito per strada da un rapinatore che impugna un’arma giocattolo, che nell’oscurità sembra un’arma vera; l’aggredito reagisce uccidendo il rapinatore. Ha ecceduto dai limiti della legittima difesa in quanto la reazione è obiettivamente sproporzionata ma l’eccesso è dovuto ad un’erronea percezione della realtà a lui non rimproverabile. Chi si è difeso non è punibile. Consenso dell’avente diritto L’art. 50 cp dispone che non è punibile chi lede o pone in pericolo un diritto con il consenso di chi può validamente disporne. Possiamo affermare che il consenso dell’avente diritto costituisce in ambito penale una manifestazione di volontà con la quale il titolare del diritto rinuncia alla tutela dello stesso. Anche il termine diritto va inteso non in senso civilistico ma come interesse tutelato. Anche quest causa di giustificazione può essere spiegata con il principio del bilanciamento degli interessi. In alcuni casi il consenso interviene come elemento del fatto tipico, nel senso che la sua presenza esclude in radice l’offesa al bene protetto. Talvolta è la norma stessa a prevedere espressamente quest elemento (es. nella violazione di domicilio è necessario che il fatto sia commesso con il dissenso del titolare del domicilio stesso). Altre volte il consenso è implicito nella struttura della fattispecie (es. il consenso del proprietario della cosa mobile alla sua sottrazione esclude ab origine lo stesso reato di furto). Il consenso ha invece natura giuridica di causa di giustificazione, quando interviene in relazione ad un fatto tipico offensivo del bene giuridico, giustificano la lesione. La natura giuridica del consenso come causa di esclusione del fatto tipico o come causa di giustificazione dipende dal significato che assume la libertà di autodeterminazione del titolare del bene. L’art. 50 cp indica in modo sintetico i requisiti della scriminante: ● deve trattarsi di diritti disponibili; ● devono sussistere le condizioni per la valida rinuncia alla tutela del diritto. Il legislatore non indica quali siano i beni disponibili. La dottrina indica un criterio generale: sono disponibili quei beni rimessi all’esclusivo interesse del singolo, che di essi può disporre; sono indisponibili quelli rispetto ai quali prevale l’interesse pubblico alla loro tutela. Sono considerati beni indisponibili ad es. l'ordine pubblico e la pubblica amministrazione. Sono beni disponibili gli interessi patrimoniali, salvo che la libertà di disporne entri in conflitto con un prevalente interesse pubblico. Altri beni sono invece disponibili, ma è discusso il limite della loro disponibilità (es. integrità fisica). L’art. 5 cc stabilisce un limite invalicabile alla intangibilità dell’integrità fisica in presenza di un atto di disposizione a favore di un terzo. Quanto al bene vita, tradizionalmente se ne desume l’indisponibilità dagli artt 579 (omicidio del consenziente) e 580 cp (istigazione o aiuto al suicidio). Il consenso non deve anzitutto essere viziato da violenza o da errore, e può essere sottoposto a condizioni. In presenza di una lesione protratta nel tempo, il consenso dell’avente diritto espresso nel momento iniziale della condotta deve essere presente per l’intero sviluppo della stessa. E’ necessario che il soggetto abbia la capacità di consentire alla lesione del bene: in alcuni casi la legge definisce ei limiti di età. Laddove la legge non dispone nulla, è necessario che il giudice accerti, nel singolo caso concreto, se il soggetto aveva la capacità di comprendere il significato dell'atto di disposizione. In caso di soggetti incapaci di intendere e di volere, il consenso può essere prestato dal legale rappresentante, salvo che si tratti di beni personalissimi. Se vi sono più titolari, l’art. 50 cp opera a condizione che il consenso sia prestato da tutti. Si ha consenso putativo quando il consenso non è stato dato, ma chi lede il bene ritiene che lo stesso sia stato prestato. il consenso è invece presunto quando chi lede il bene sa che il consenso non è stato dato, ma presume che lo avrebbe ottenuto qualora lo avesse richiesto al titolare del bene. Un ruolo importante del sistema penale è costituito dal consenso del paziente agli interventi medici. Qui il consenso non opera come scriminante, ma costituisce piuttosto condizione di liceità dell’intervento medico. Per operare come condizione di liceità del trattamento medico il consenso deve essere informato. La giurisprudenza ha da tempo valorizzato il fondamento costituzionale della libertà di autodeterminazione del paziente in ordine alle cure ed agli interventi medici, che gode di copertura costituzionale agli artt. 13 e 32 Cost. La funzione imprescindibile del consenso informato ha come risvolto il riconoscimento del diritto a rifiutare le cure, anche nei casi in cui la terapia avrebbe la possibilità di salvare la vita del paziente. Gli effetti del riconoscimento della libertà di autodeterminazione del paziente hanno due importanti effetti: ● il bene vita è diventato un bene parzialmente disponibile, a esclusivamente nei limiti del legittimo esercizio della libertà d rifiutare le cure; ● nei limiti in cui il paziente legittimamente rifiuta le cure, cessa la posizione di garanzia del medico, la cui condotta omissiva non rileva penalmente ai sensi dell’art. 40 cpv cp. Più recentemente si è posto il problema della libertà di autodeterminazione in relazione alla decisione di accedere al suicidio assistito (es. caso Cappato). L'adempimento di un dovere L’adempimento del dovere può derivare: ● da una norma giuridica; ● da un ordine dell’Autorità. L’adempimento del dovere individuato da una norma giuridica appare a prima vista non problematico. Occorre valutare se la norma che stabilisce una determinata attività doverosa impone realmente la condotta che si intende scriminare. Se l’attività è espressamente imposta la norma che delinea il reato soccombe di fronte alla disposizione che stabilisce l’attività doverosa in quanto norma generale che è derogata dalla norma speciale. Più complessa è la disciplina dell’adempimento del dovere derivante da un ordine dell'autorità. il codice penale limita la causa di giustificazione agli ordini emanati da pubblica autorità. E’ necessario distinguere a seconda che l’ordine sia legittimo o illegittimo. L’art. 51 cp riconosce in via generale efficacia scriminante solo agli ordini legittimi. Attengono alla legittimità sia profili formali sia soprattutto profili sostanziali: l’ordine è legittimo se l’ordinamento consente al soggetto di imporre a soggetti gerarchicamente sottordinati determinati comportamenti astrattamente configurabili come reato. In caso di ordine illegittimo il codice penale chiamato a rispondere del reato non solo il superiore gerarchico che con l’ordine ha istigato alla commissione di un reato, ma anche l’esecutore. L’unica possibilità per l’esecutore di sottrarsi alla responsabilità è delineata dall’art. 51, c. 3: se il subordinato ritiene di eseguire un ordine legittimo incorre in un errore sull’esistenza delle cause di giustificazione che esclude il dolo (non rileva un errore di diritto sulla legittimità dell’ordine). Al principio dell’inefficacia scriminante dell’ordine illegittimo viene prevista una deroga nell’ultimo comma dell’art. 51 cp: non è punibile chi esegue l'ordine illegittimo, quando la legge non gli consente alcun sindacato sulla legittimità dell’ordine (ordini illegittimi vincolanti). Esiste un principio di carattere generale in base al quale va sempre rifiutata l’esecuzione di un ordine manifestamente criminoso. L’esercizio di un diritto Si ritiene che l’art. 51 cp faccia riferimento non solo ai diritti soggettivi in senso stretto, ma a qualsiasi situazione giuridica soggettiva che consenta ad una persona di realizzare un comportamento che astrattamente corrisponde ad una fattispecie incriminatrice. La condotta giustificabile è solo quella corrispondente al diritto o alla facoltà legittima e non può allargarsi a condotte strumentali all’esercizio del diritto. La legittima difesa L’art. 52, c. 1 delinea la legittima difesa classica: non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio od altrui contro il pericolo attuale di un'offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all'offesa. Nel 2006 il legislatore ha ritenuto di affiancare ad essa una seconda ipotesi, la difesa domestica o allargata. La legittima difesa ordinaria presenta una serie di requisiti: 1. il pericolo deve essere attuale, nel senso che l’offesa deve essere in corso di attuazione o quanto meno imminente; 2. il pericolo deve investire un diritto proprio o altrui. Di regola si tratta del pericolo di lesione di un vero e proprio diritto soggettivo. La dottrina specifica che può trattarsi anche di situazioni giuridiche soggettive diverse dal diritto nonché di interessi legittimi; 3. l’offesa che si tende a prevenire o bloccare deve essere ingiusta, nel senso che essa non deve essere autorizzata dall’ordinamento. Se non può considerarsi ingiusta la reazione proporzionata di chi si difende, qualora il difensore ecceda il limite della proporzione si delinea un’offesa ingiusta che consente al primitivo aggressore di reagire. L’ingiustizia va valutata in termini obiettivi e quindi prescinde dalla buona fede dell’aggressore; 4. la difesa deve essere necessaria: se è possibile sottrarsi al pericolo senza alcun rischio con modalità diverse dalla commissione di un reato nei confronti dell’aggressore deve essere privilegiata tale scelta; 5. la reazione deve essere proporzionata. Il rapporto di proporzione deve essere instaurato tra il bene aggredito e quello pregiudicato dalla reazione: non è possibile tutelare un bene patrimoniale cagionando la morte dell’autore dell’aggressione. La proporzione è un rapporto che deve essere effettuato nel momento in cui l’aggredito percepisce il pericolo: non è lecito lasciare crescere artificiosamente il pericolo per reagire con modalità maggiormente lesive. La legittima difesa “domiciliare” Il legislatore ha ritenuto di intervenire con la l. 13 febbraio 2006, n. 59, introducendo due nuovi commenti nell’art. 52 cp. In realtà il campo operativo della difesa allargata è più ampio in quanto il comma 2 dell’art. 52 fa riferimento ai casi previsti dall’art. 614 commi 1 e 2 e quindi a tutti i fatti posti in essere, a fini difensivi, non solo nell’abitazione ma in ogni luoghi di privata dimora. L’ampliamento di operatività della scriminante viene realizzato attraverso una sorta di presunzione della sussistenza del requisito della proporzione. Vengono stabiliti alcuni presupposti: ● chi reagisce a difesa di sé stesso o di altri deve essere legittimamente presente nel domicilio e se fa uso di un’arma deve essere legittimo detentore della stessa; ● la difesa deve essere finalizzata a difendere la propria o altrui incolumità oppure i beni propri o altrui, quando non vi è desistenza e vi è pericolo di aggressione. Occorre a questo punto valutare l’incidenza delle modifiche introdotte con la legge del 2019. Di non semplice interpretazione è la modifica del quarto comma: nei casi di cui al secondo e al terzo comma agisce sempre in stato di legittima difesa colui che compie un atto per respingere l'incursione posta in essere, con violenza o minaccia di uso di armi o di altri mezzi i coazione fisica, da parte di una o più persone . In questo contesto l’utilizzazione dell’avverbio sempre evidenzia l’intenzione dei riformatori di allargare ulteriormente l’ambito applicativo della causa di giustificazione. La legge del 2019 ha anche investito l’art. 55 (nei casi di cui ai commi secondo, terzo e quarto dell’art. 52, la punibilità è esclusa se chi ha commesso il fatto per la salvaguardia della propria o altrui incolumità ha agito nelle condizioni di cui all’art. 61, primo comma, n. 5 ovvero in stato di grave turbamento, derivante dalla situazione di pericolo in atto). La nuova norma consente di non punire chi, reagendo all’aggressione nel contesto dell’art. 52, è andato oltre quanto richiesto dalla necessità. Lo stato di necessità In questo caso il reato che resta impunito non è compiuto nei confronti di un aggressore, come avviene nella legittima difesa, ma a danno di un soggetto estraneo al pericolo che si vuole evitare attraverso la commissione di un reato. teorie relative la pena si giustifica in relazione allo scopo di prevenire la commissione di reati, rivolgendosi alla generalità dei consociati o all’autore del reato affinché non ne commetta altri in futuro. Retribuzione La teoria retributiva attribuisce alla pena la funzione di compensare la colpevolezza del reo e per ciò solo se ne giustifica l’applicazione: assumere che la pena assolva a scopi di prevenzione significherebbe violare la dignità dell’autore del reato. Della teoria retributiva sono state affermate due varianti: 1. secondo una prima impostazione proposta da Kant, la pena costituirebbe un imperativo categorico con funzione di compensare la violazione del principio etico realizzata con la commissione del reato (retribuzione morale); 2. uno sviluppo della teoria retributiva si ha in Hegel, per il quale la pena si giustifica come riaffermazione simbolica dell’ordine giuridico violato (retribuzione giuridica); La teoria retributiva è andata incontro a fondate critiche: la retribuzione morale si basa sul presupposto illiberale della coincidenza tra diritto e morale e non si concilia con i compiti di uno Stato di diritto improntato al principio di laicità, perché scopo dello Stato non è retribuire alcunchè, ma assicurare le condizioni di esistenza e sviluppo della convivenza associata. La stessa idea retributiva rischia i dare spazio alle istanze punitive emergenti dal contesto sociale che sollecitano l’inflizione di “pene giuste”. Di questa teoria devono essere evidenziati due profili positivi: 1. il divieto di strumentalizzazione dell’autore del reato ai fini di prevenzione della criminalità valorizza la dignità della persona umana; 2. l’asse portante della teoria retributiva sta nel principio di proporzione tra la pena ed il disvalore del fatto e la colpevolezza del soggetto per il fatto. Questo principio svolge un’essenziale funzione di argine alle istanze preventive del potere statale. Prevenzione generale Secondo la teoria della prevenzione generale la pena ha la funzione di distogliere i consociati dalla commissione di reati. Secondo il modello tradizionale la pena opera come intimidazione e deterrenza (prevenzione generale negativa). Essa è andata incontro ad alcune critiche: è apparsa una strumentalizzazione dell’autore del reato; la sua efficacia presuppone un essere razionale, capace di valutare costi e benefici derivanti dalla commissione del reato; e una pura logica di deterrenza rischia di produrre un aumento esasperato dei livelli sanzionatori. Alle obiezioni rivolte alla prevenzione generale negativa ha risposto più recentemente una rilettura dell’efficacia preventiva della pena, che svolgerebbe una funzione di orientamento sociale dei consociati (prevenzione generale positiva). Intesa in questa accezione, la prevenzione generale supera le obiezioni rivolte alla prevenzione generale negativa. Si ha però l timore che essa rischi di porre un diritto penale dirigista e promozionale nell’individuazione dei beni giuridici meritevoli di tutela. Rappresenta una variante della prevenzione generale positiva l’impostazione proposta da Gunther Jakobs, il quale attribuisce alla sanzione penale una funzione di stabilizzazione sociale. Prevenzione speciale Secondo la teoria della prevenzione speciale, scopo della pena è impedire che chi ha già commesso un reato torni a commetterne in futuro. Secondo un primo orientamento, essa si realizza mediante la neutralizzazione o incapacitazione del soggetto (prevenzione speciale negativa): può trattarsi di incapacitazione materiale o giuridica. La prevenzione speciale positiva pone l’accento sulla funzione rieducativa: la pena inflitta al soggetto non ne neutralizza la pericolosità, ma svolge una funzione positiva di recupero dell’autore del reato. Parte della dottrina la intende in termini di emenda, nel senso che la pena dovrebbe essere rivolta a far rielaborare internamente all’autore del reato il significato offensivo del fatto commesso (si obietta che uno Stato laico non può assumersi il compito di indagare il foro interno degli individui). Essa va quindi intesa come rieducazione del condannato al rispetto dei valori condivisi dalla convivenza associata. A questa teoria si ovietta l’incapacità di porre un limite alla potestà punitiva dello Stato. L’idea rieducativa si espone al rischio di supportare programmi di manipolazione della coscienza del condannato. e’ stato inoltre evidenziato il rischio di patologizzazione del delinquente, considerato come individuo anormale bisognoso sempre di un intervento pedagogico e curativo. Essa ha dei profili positivi: corrisponde al senso di civiltà giuridica offrire un supporto ai condannati ed è grazie a questa teoria che l’esecuzione della pena detentiva è stata improntata a principi di umanità del trattamento. Polifunzionalità della pena e principi costituzionali La dottrina maggioritaria oggi non riduce la pena ad un’unica funzione, ma riconosce la compresenza delle diverse funzioni. Il problema non sta nel riconoscere alla pena carattere polifunzionale, quanto piuttosto nel coordinare le diverse funzioni per evitare che il prevalere di uno scopo ne annulli un altro. Ne consegue la necessità di un sistema sanzionatorio flessibile. La pena non può che assolvere ad una funzione di prevenzione, in quanto è compito dello Stato salvaguardare la comunità dai fatti aggressivi di interessi ritenuti così fondamentali da giustificare la previsione delle sanzioni più severe di cui l’ordinamento disponga. Della funzione retributiva va salvaguardato unicamente il principio di proporzione che costituisce una garanzia inviolabile. La proporzionalità va valutata in relazione al disvalore del fatto ed alla colpevolezza del soggetto per quel fatto. Esso trova un sicuro fondamento costituzionale sia nel principio di uguaglianza (art. 3 Cost.) sia nell’art. 27, c. 1 Cost. Ha inoltre ricevuto espresso riconoscimento nell'ordinamento dell’UE all’art. 49 della Carta dei diritti fondamentali. Art. 27, c. 3, Cost. → le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Esso ha dato luogo a diverse letture. Una prima ha proposto di scindere tale comme nelle due proposizioni: la prima parte consentirebbe di giustificare la funzione retributiva ì, nella quale il principio di proporzione vieterebbe sanzioni connotate in termini di mancato rispetto della dignità umana; e alla funzione di prevenzione sociale dovrebbe essere riconosciuto un ruolo del tutto eventuale limitato alla fase esecutiva. La rieducazione non può mai essere imposta, piuttosto lo stato deve offrire possibilità di risocializzazione, senza ridurre la pena a pura neutralizzazione del condannato. Le funzioni della pena nella fasi di sviluppo del meccanismo sanzionatorio La comminatoria edittale della pena Quando il legislatore incrimina un certo fatto, la pena assume una preminente funzione di prevenzione generale, sia in termini di deterrenza che di orientamento culturale dei consociati, in quanto la sua previsione si giustifica per tutelare i beni giuridici e per prevenire punizioni arbitrarie dell’autore del reato. L’efficacia della risposta sanzionatoria non dipende necessariamente dall’aumento dei livelli edittali di pena, perché la progressiva rincorsa all'incremento dei livelli sanzionatori si rivelerebbe controproducente proprio sul piano della prevenzione generale. Ne consegue che l’efficacia preventiva generale e speciale della pena è condizionata dalla proporzione della sanzione. E’ difficile definire quale pena e quali limiti edittali siano in astratto proporzionati al precetto, in quanto il disvalore complessivo del fatto è la pena sono entità tra loro incommensurabili. Attraverso il principio di proporzione qualità e quantità della pena comminata in astratto diventano specchio del differente valore attribuito dall’ordinamento ai beni giuridici offesi. La funzione di prevenzione generale consente anche di delegittimare pene del tutto inefficaci o perché sproporzionate per difetto o perché ineffettive. L'efficacia di prevenzione generale può variare in relazione ai soggetti destinatari: può essere fortemente ridotta rispetto ai delinquenti intenzionali; quanto poi alle persone generalmente rispettose della legge, rileva soprattutto la prevenzione generale positiva. Secondo la dottrina più tradizionale, nel momento della previsione legale della pena la funzione rieducativa non opererebbe, ma dovrebbe essere considerata nella sola fase esecutiva. Tale lettura è stata superata dalla giurisprudenza della Corte costituzionale che ha chiaramente riconosciuto alla prevenzione speciale un ruolo essenziale già in fase di comminatoria in astratto delle pene. Commisurazione e applicazione giudiziale In sede di commisurazione giudiziale della pena al caso concreto non può rilevare la funzione di prevenzione generale. Essa rileva invece per il fatto che il giudice applica la pena: sarebbe frustrata la funzione di prevenzione generale se la pena, minacciata in astratto dal legislatore, non fosse poi applicata dal giudice (funzione di asseverazione della sanzione minacciata in astratto), In sede di commisurazione della pena svolge un ruolo centrale il principio di proporzione rispetto alla gravità del fatto concreto ed alla colpevolezza del soggetto per quel fatto. Quanto alla funzione di prevenzione speciale, la Corte costituzionale, nella sentenza n. 313/1990, le ha riconosciuto un ruolo trasversale nelle diverse fasi di vita della pena, da quando nasce, nell’astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue. L’orientamento prevalente in dottrina le riconosce capacità di giustificare una pena inferiore a quella che appare proporzionata rispetto al fatto commesso, ma mai superiore. La pena proporzionata al reato in concreto commesso costituisce, come ha chiarito la Corte costituzionale nella sent. n. 364/1988, un limite invalicabile alle esigenze preventive della politica criminale. In fase di commisurazione applicazione della pena il carattere sproporzionato della stessa riafferma un basilare principio di libertà. Fase esecutiva In fase esecutiva svolge un ruolo preminente la funzione rieducativa della pena. La Corte costituzionale ha riconosciuto la rieducazione come diritto per il condannato a che il protrarsi della realizzazione della pretesa punitiva venga esaminato al fine di accertare se in effetti la quantità di pena espiata abbia o meno assolto positivamente al suo fine educativo. E’ dovere dello Stato conformare l’esecuzione delle pene (specie di quella detentiva) al rispetto del dettato costituzionale. Al contempo la finalità specialpreventiva esclude rigidi automatismi nell’applicazione della pena, perché in fase esecutiva deve essere necessariamente flessibile. Corte costituzionale, sent. n. 149/2018 principio del contemperamento tra le diverse funzioni impone in fase esecutiva la preminenza della prevenzione speciale positiva e la necessità di un percorso trattamentale flessibile e progressivo che tenga conto delle specificità del singolo detenuto e dello sviluppo nel tempo della sua personalità. Anche alla luce di questa importante pronuncia, la funzione di prevenzione generale si riserva una posizione marginale in chiave di asseverazione della sanzione minacciata ab origine dalla legge. Centralità e crisi dell’idea rieducativa: i rischi del retribuzionismo, del neopositivismo e dell’abolizionismo Sebbene sia indubbio che il fondamento del sistema penale sia costituito dalla prevenzione generale, spetta alla funzione specialpreventiva aver assunto un significato centrale all'ammodernamento del sistema sanzionatorio. Mentre da un lato si assiste alla valorizzazione dell’idea rieducativa come strumento sia di personalizzazione della responsabilità penale di ammodernamento del sistema sanzionatorio nella prospettiva della valorizzazione della dignità del condannato, dall’altro lato la stessa idea rieducativa ha manifestato segni di crisi: si sostiene che il carcere non rieduca, si critica l'eccessiva flessibilità assunta dal sistema sanzionatorio per potenziare i programmi di prevenzione speciale a tutto scapito delle esigenze generalpreventive. Le posizioni retributive sostengono che l’inflizione della pena nei confronti del reo serve a canalizzare l’aggressività dei consociati e ristabilizzare la loro fiducia nella salvaguardia dei valori tutelati dalle norme penali. La pena da applicare è la pena giusta, secondo ciò che i consociati ritengono essere giusta reazione dell’ordinamento al fatto commesso. Critica: un sistema sanzionatorio razionale non può agganciare la pena all’allarme sociale, ma deve operare come filtro critico alle istanze sociali di punizione. In una direzione ideologicamente contrapposta si pongono gli orientamenti del neopositivismo che valorizzano l’autore del reato come soggetto pericoloso. La crisi attuale del sistema sanzionatorio non deve delegittimare la funzione di prevenzione speciale positiva, perché il suo abbandono aprirebbe il varco a derive terroristiche di prevenzione generale o di neoretribuzionismo. L’abolizione della pena non si accompagnerebbe a maggiori garanzie per i consociati, ma sarebbe sostituita da sistemi di controllo della devianza ben più rischiosi sul piano della tenute dalla garanzie. Il diritto penale implica anche un sistema di garanzie che qualunque altro sistema di controllo sociale non è in grado di assicurare. Quale futuro per il sistema sanzionatorio? L’Italia è stata condannata nel 2013 dalla CEDU (sentenza Torreggiani) per trattamenti inumani e degradanti su ricorso di alcuni detenuti che avevano a disposizione meno di tre metri quadrati di superficie. Le misure extracarcerarie sono costituite dalla misure alternative alla detenzione, dalle sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi e dalle sanzioni non detentive applicate al giudice di pace. Sebbene siano state progressivamente ampliate tipologia e presupposti di applicazione di queste misure, il sistema sanzionatorio continua a rimanere essenzialmente carecerocentrico. Nelle attuali condizioni dei penitenziari italiano non sussistono le condizioni per attuare al loro interno programmi di rieducazione ed il carcere si rivela uno strumento criminogeno. Se sul piano del rispetto dei diritti umani amnistia e indulto costituiscono uno strumento in grado di riportare condizioni minime di vivibilità all’interno delle carceri, sul piano della tenuta complessiva del sistema sanzionatorio il ricorso a questi strumenti per affrontare il sovrafollamento carcrario conferma l'effettività e l'efficacia del sistema sanzionatorio ad operare a regime ordinario. Lo sviluppo del sistema sanzionatorio italiano è andato in due direzioni: da un lato si è assistito al progressivo ampliamento del potere discrezionale del giudice in sede di commisurazione della pena in senso ampio; dall’altro lato l'introduzione e l’ampliamento delle misure alternative alla detenzione ha ulteriormente flessibilizzato il sistema sanzionatorio in fase esecutiva. La combinazione di questi due fattori ha accresciuto l’incertezza della pena: la sanzione in astratto minacciata dalla legge non è la pena in concreto eseguita. Un sistema sanzionatorio sempre più flessibile solo apparentemente si conforma alla funzione rieducativa della pena, ma presenta diversi profili critici: 1. la non prevedibilità della pena in concreto applicata ed eseguita compromette l’efficacia general preventiva della previsione legislativa astratta; 2. l’eccessiva flessibilità può indurre a pensare che solo una maggiore rigidità del sistema sanzionatorio possa costituire lo strumento per garantire efficacia al controllo penale. La dottrina ha evidenziato la necessità di recuperare l’efficacia del sistema sanzionatorio, bilanciandola con il rispetto della funzione rieducativa della pena, Sono state segnalate delle prospettive di intervento. La prima prevede di introdurre come sanzioni principali pene che oggi costituiscono solo pene accessorie.
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