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manuale di diritto penale. parte generale. Grosso/Pelissero/Petrini/Pisa, Dispense di Diritto Penale

riassunto libro+ integrazione lezioni del professore ed esempi

Tipologia: Dispense

2020/2021

Caricato il 13/10/2022

chiara.dal
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Scarica manuale di diritto penale. parte generale. Grosso/Pelissero/Petrini/Pisa e più Dispense in PDF di Diritto Penale solo su Docsity! DIRITTO PENALE CAPITOLO I IL DIRITTO PENALE E GLI ALTRI SETTORI DELL’ORDINAMENTO GIURIDICO Il diritto penale disciplina i fatti che costituiscono reato e le relative sanzioni. Reato: è punito con sanzioni consistenti in pene e misure di sicurezza. L’accertamento della sua commissione e l’inflizione della relativa sanzione sono affidati a giudici penali imparziali ed indipendenti da ogni altro potere dello Stato. ≠ illecito civile, sanzionato con le sanzioni del risarcimento del danno e delle restituzioni, normalmente affidate alla valutazione del giudice civile. Il reato si distingue dall’illecito civile in quanto è caratterizzato dalla specifica tipizzazione di ciascun illecito; l’illecito civile si presenta invece come mero illecito di lesione, caratterizzato dall’atipicità e dalla generalizzazione della sua formulazione: ‘’ogni fatto doloso o colposo che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che lo ha commesso al risarcimento del danno’’ (ART. 2043). Meno marcate sono le differenze fra l’illecito penale e l’illecito amministrativo, che viene a sua volta punito con sanzioni amministrative consistenti in sanzioni pecuniarie, prescrizioni o obblighi di ripristino a seconda dei casi. Questi illeciti sono simili nel loro contenuto a quelli previsti in sede penale sotto il profilo di alcune pene principali o pene accessorie: dato che anche queste incidono sulla libertà e sul patrimonio, il legislatore con la l 689/1981 ha assicurato loro delle garanzie ricavate dalle norme previste in materia penale (infatti si estendono alle sanzioni amministrative il principio di legalità, irretroattività, determinatezza); e ciò ha attenuato le differenze di trattamento previste per i due tipi di illeciti. FUNZIONE DEL DIRITTO PENALE: LA TUTELA DEI BENI GIURIDICI La funzione del diritto penale è la tutela degli interessi umani: si tratta di una concezione utilitaristica che ha caratterizzato per anni lo scopo del diritto penale e che è stata elaborata tra ‘700 e ‘800 ed arricchita dalla convinzione secondo cui il diritto penale dovrebbe comunque essere interpretato come extrema ratio di protezione giuridica, utilizzabile a garanzia degli interessi giudicati di maggiore rilievo individuale e sociale, soltanto quando non fossero utilmente esperibili strumenti extrapenali di protezione giuridica. LA NOZIONE DI REATO Dal punto di vista formale, il reato è un fatto vietato dalla legge penale la cui commissione comporta l’applicazione di una sanzione penale. Tale definizione è di tipo formale in quanto non fa riferimento alla natura dei fatti assunti ad oggetto della disciplina penale, ma al modo con il quale l’ordinamento reagisce alla loro realizzazione. Dal punto di vista sostanziale, il reato è ciò che turba gravemente l’ordine etico, ciò che urta contro la moralità media di un popolo in un determinato momento storico, ciò che pone in grave pericolo la conservazione della società. Inoltre, secondo la dottrina di Antolisei, il reato può essere considerato come ‘’il comportamento umano che, a giudizio del legislatore, contrasta con i fini dello Stato ed esige come sanzione una pena criminale’’ o, avendo come parametro la Costituzione, ‘’l’illecito che offende beni che, alla luce dei valori costituzionali, devono essere considerati di maggiore importanza e pertanto meritevoli di essere protetti sul terreno del diritto penale’’. LA SANZIONE PENALE Il codice vigente prevede 2 specie di sanzioni penali (c.d. sistema del doppio binario): le pene e le misure di sicurezza. Le prime sono destinate ad assicurare la prevenzione generale, mentre le seconde sono destinate al recupero degli autori di reato socialmente pericolosi attraverso la rimozione delle cause della loro pericolosità. Entrambe le specie sono tassativamente elencate nella parte generale del codice penale, e vengono applicate dal giudice penale nel quadro di un processo che ha le caratteristiche garantiste del processo penale. Le pene sono individuate dal legislatore fra un minimo ed un massimo in base alla gravità del reato, e vengono determinate in concreto dal giudice in sede di giudizio. Le misure di sicurezza sono indeterminate nella durata in quanto destinate a protrarsi fino a quando perdura la pericolosità sociale del soggetto; sono inflitte dal giudice di cognizione ma la loro esecuzione è di competenza del giudice dell’esecuzione, cui competete ogni valutazione in ordine alla cessazione dei presupposti dell’applicazione. Funzione della pena: in dottrina si sono accavallate diverse interpretazioni ma, in coerenza con la funzione del diritto penale, si è affermato che la funzione essenziale della pena debba essere individuata nelle prevenzione generale (= la pena è usata come mezzo per orientare il comportamento della collettività, facendo leva sugli effetti dell’intimidazione in relazione al contenuto afflittivo della pena). Inoltre, la Costituzione ha stabilito che le pene “non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato” ART. 27.3, facendo così rientrare la funzione rieducativa anche in materia di pena. Tale principio ha determinato profondi mutamenti e portato alla modifica della disciplina della pena detentiva ma, nonostante ciò, nella prassi non viene comunque assegnata alla pena una funzione specificatamente rieducativa. CAPITOLO II – EVOLUZIONE STORICA DEL DIRITTO PENALE ILLUMINISMO E DIRITTO PENALE Il diritto penale moderno nasce con l’illuminismo, nella seconda del 700: in questo periodo vennero enunciate molte regole che sono diventate principi cardine nelle legislazioni penali europee di oggi. Per capire il pensiero illuministico bisogna analizzare quanto sostenuto da Cesare Beccaria nel libro “Dei delitti e delle pene”: il diritto penale deve fornire una forte protezione dei beni umani fondamentali e va utilizzato solo quando si riveli strumento strettamente necessario a tale tutela (extrema ratio di tutela). Vi sono diversi principi cardine del diritto penale dell’illuminismo, che hanno trovato attenzione nelle codificazioni del ‘700: a. Delitti e pene devono essere individuati con chiarezza prima della commissione del fatto, in quanto il cittadino ha diritto di conoscere preventivamente ciò che è vietato e ciò che è consentito. b. La pena deve essere retributiva, deve cioè colpire l’attore del reato in misura proporzionale alla gravità del fatto commesso. c. Le pene non devono essere necessariamente severe, ma inflitte in modo rapido ed ineluttabile. d. La pena deve essere uguale per tutti, indipendentemente dalle condizioni personali e sociali del colpevole- e. La pena di morte deve essere abolita. La dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1879 ha enunciato gran parte di questi principi e, a completare il quadro delle nuove regole sono intervenuti poi l’Assemblea Costituente nel 1790 (stabilì che i delitti della stessa specie devono essere puniti allo stesso modo qualunque sia la classe sociale del colpevole e che le condanne non hanno riflessi sui familiari del condannato) ed il codice penale del 1791 (sancì l’abbandono di ogni forma di pena crudele o infamante e prestò attenzione alla tipizzazione dei reati). LA SCUOLA CLASSICA Il passaggio dalla fase dell’elaborazione giuridico filosofica dell’illuminismo a quella espressa nelle legislazioni dell’800 ha trovato supporto nella scuola classica di diritto penale, affermatasi in Italia nei primi anni del’800. Tale scuola ha avuto in Francesco Carrara il suo esponente di maggior spicco e si caratterizza da un lato per la sua ritenevano che il codice potesse essere mantenuto, in quanto perfetto dal punto di vista tecnico. Entrata in vigore la Costituzione, il nuovo assetto politico del paese realizzatosi con le elezioni nel 1948 e le tensioni nazionali e internazionali, bloccarono per diversi anni ogni processo di riforma del sistema penale fino a che, negli anni ‘60, il mutamento della situazione politica interna favorì una faticosa opera di riforme settoriali. L’IMPATTO DEI PRINCIPI COSTITUZIONALI SUL SISTEMA PENALE L’influenza della Costituzione sul sistema penale è individuabile su due piani: da un lato su quello delle norme che prevedono principi di garanzia ed enunciano regole in materia di responsabilità e di sanzioni penali; dall’altro su quello dell’enunciazione dei diritti di libertà e dei diritti sociali, alla luce dei quali molte norme del codice Rocco sono risultate illegittime e progressivamente annullate o modificate dalla Corte Costituzionale. Alla luce dei principi costituzionali e all’incidenza che hanno nel sistema penale, a partire dagli anni ’70 sono venute ad affermarsi diverse tendenze: a. Al metodo tecnico-giuridico dominante si affiancò la concezione di alcuni giuristi di doversi riappropriare del ruolo di politici del diritto. Ciò sfociò in un’analisi critica dei contenuti della legislazione vigente e consentì di affiancare la prospettiva della politica criminale a quella della dogmatica giuridica e dell’esegesi. Sul piano pratico, una schiera di giovani magistrati ha iniziato un opera di adeguamento interpretativo della legge penale ordinaria ai dettami costituzionali. b. Nella costruzione della teoria del reato e nel dibattito di politica criminale si sono affermate nuove linee di tendenza: da un lato si è tornati a concepire la funzione di diritto penale sul terreno della tutela degli interessi ed a rivalutare il concetto di bene giuridico sia come criterio dogmatico di classificazione dei reati, sia come strumento di politica criminale; dall’altro si sono assunti i valori costituzionali come punto di riferimento per la costituzione di un nuovo sistema di reati, tentando una ricatalogazione dei beni meritevoli di tutela. Un cenno merita, inoltre, il tema del sistema sanzionatorio: la Costituzione, stabilendo che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato, ha posto le premesse per una trasformazione della disciplina della sanzione penale. Su questo terreno si è sviluppata un’intensa elaborazione dottrinale alla quale ha fatto riscontro un’attività di riforma legislativa che ha finito per rendere incerta la previsione della pena che sarebbe stata irrogata, con danni sul terreno della sanzione penale e sulla efficacia preventivo generale del sistema penale. L’EVOLUZIONE DEL DIRITTO PENALE IN EPOCA REPUBBLICANA Dal dopoguerra ad oggi la riforma del codice penale non è mai stata realizzata; il testo originario del 1930 ha subito tuttavia abrogazioni, modificazioni di norme ed istituti, e tali e tante innovazioni da renderlo quasi irriconoscibile e, nel complesso, rispettoso dei principi costituzionali. Si ricordi: a. Dopo il 1948, il primo intervento riformatore importante si ebbe con la l. 127/1958 che modificò la disciplina della responsabilità penale per i reati commessi col mezzo della stampa, eliminando la responsabilità oggettiva prevista nel codice Rocco. b. Con la l. 191/1962 e la l. 1634/1962 si modificarono gli istituti della sospensione condizionale della pena e della liberazione condizionale in una prospettiva di maggiore apertura verso la funzione preventivo-speciale assegnata dalla Costituzione alla pena. c. Con il d.l. 99/1974 convertito in l. 220/1974 fu estesa la possibilità del giudizio di comparazione a tutte le circostanze aggravanti e attenuanti, fu introdotto il cumulo giuridico delle pene nel concorso formale del reato, e furono ampliati i limiti della sospensione condizionale della pena. d. Sempre negli anni ’70, un intervento di grande impatto sul sistema penale si ebbe con la riforma dell’ordinamento penitenziario, che perseguì tre obiettivi: 1. Rendere l’esecuzione penitenziaria coerente con la funzione rieducativa della pena; 2. Assicurare i diritti dei condannati; 3. Prevedere sanzioni alternative in grado di assicurare la rieducazione anche attraverso forme di esecuzione penale non carceraria. e. Con la l. 689/1981 vennero previste sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi. f. Con il d.lgs. 231/2000 si introdusse la responsabilità amministrativa da reato delle persone giuridiche. Numerosi sono stati anche gli interventi di riforma della parte speciale, quali l’introduzione del reato di omicidio stradale, di nuove figure associative per meglio proteggere la collettività dal terrorismo e dalla criminalità organizzata, la nuova disciplina dei delitti contro la pubblica amministrazione, ecc.. Nonostante l’insieme di queste riforme ha mutato il volto complessivo della legislazione penale del 1930, è mancata una riforma organica del codice: ciò si può spiegare, a parere di una certa dottrina, in ragione del fatto che non vi erano le condizioni di stabilità politica o di omogeneità culturale in grado di sostenere un’opera così impegnativa. CAPITOLO III – PRINCIPI GENERALI DI POLITICA CRIMINALE DIRITTO PENALE E POLITICA CRIMINALE Per politica criminale si intende l’insieme degli strumenti che un sistema predispone per contrastare la criminalità e la ricerca di quelli che si presentano più efficaci (cd razionalità di scopo). Essa non coincide con la politica penale; la politica criminale include la politica penale, ma ha un ambito d’intervento più ampio che prende in considerazione anche strumenti non necessariamente di tipo penale come sanzioni amministrative, sanzioni disciplinari, interventi preventivi, ecc.. Ad esempio si considerino gli strumenti di contrasto ai reati di omicidio o lesione personale connessi con la violazione delle regole sulla circolazione stradale: accanto alla sanzione penale, il codice della strada prevede sanzioni amministrative come la confisca del veicolo, sospensione della patente di guida e la riduzione dei punti. Nell’ambito della politica criminale il diritto penale è costituito dall’insieme delle regole che disciplinano i presupposti della responsabilità penale e le conseguenze sanzionatorie che seguono alla commissione di un reato. La politica criminale costituisce un aspetto della politica sociale: se quest’ultima ha come oggetto qualunque fenomeno sociale, la politica criminale prende in considerazione quella particolare forma di devianza sociale che è il reato. La politica sociale deve intervenire in via preventiva per contrastare i fattori predisponenti la commissione del reato (c.d. fattori criminogeni). LA POLITICA CRIMINALE E LE GARANZIE SOSTANZIALI: LA SCELTA DI INCRIMINAZIONE NEL QUADRO DELLE NORME COSTITUZIONALI La politica criminale si occupa non solo di trovare gli strumenti più efficaci per contrastare un certo fenomeno, ma pure di definire che cosa può costituire reato: non interviene solo sulla predisposizione dei mezzi, ma anche sulla definizione dell’oggetto che fonda l’intervento penale. L’ordinamento italiano accoglie una definizione formale di reato, secondo cui costituisce reato solo quel fatto per il quale la legge prevede come conseguenza sanzionatorio una pena (vale il principio del nullum crimen sine lege, previsto anche all’art. 25 comma 2 Cost.). Tuttavia, il legislatore incontra dei limiti sul piano del contenuto delle leggi, non è libero di qualificare qualsiasi fatto come reato. I limiti di ordine costituzionale alle scelte di politica criminale possono essere distinti in: a. Divieti di incriminazione b. Limiti di incriminazione c. Obblighi di incriminazione DIVIETI DI INCRIMINAZIONE Al legislatore è fatto divieto di incriminare condotte che costituiscono esercizio di diritti e libertà costituzionali, il cui esercizio non può costituire reato in forza dei principi di non contraddizione e di gerarchia delle fonti. Questi divieti si rivolgono sia al legislatore sia all’interprete: il primo non può prevedere come reato fatti che integrano l’esercizio di diritti e libertà, al secondo spetta interpretare le norme penali in modo da salvaguardare l’esercizio degli stessi o sollevare la questione di legittimità costituzionale, qualora non sia possibile l’interpretazione costituzionalmente orientata. In particolare, il fatto che la Costituzione sia intervenuta su un tessuto normativo formato durante il fascismo che aveva soppresso le libertà che l’ordinamento repubblicano avrebbe poi riconosciuto, ha fatto sì che la giurisprudenza abbia sviluppato un ampio lavoro in favore del riconoscimento di queste libertà. Sulla Costituzione è possibile fondare anche diversi limiti che il legislatore incontra nell’esercizio della sua potestà di incriminazione. Costituiscono limiti il principio di determinatezza, di materialità, di offensività, di proporzionalità, di sussidiarietà, di efficacia della tutela penale e di colpevolezza. I principi costituzionali che limitano le scelte di politica criminale possono essere dimostrativi o argomentativi: i primi consentono alla Corte Costituzionale di dichiarare l’illegittimità della norma che sia in contrasto con gli stessi; i secondi hanno un contenuto più flessibile, perché sono indirizzi di politica criminale che si rivolgono al legislatore e non consentono di per sé, una declaratoria di illegittimità costituzionale delle norme che non li rispettino. IL PRINCIPIO DI DETERMINATEZZA La tecnica di redazione delle fattispecie incriminatrici deve individuare con precisione tutti gli elementi costitutivi del reato e, più in generale, delle norme penali. Inoltre, il giudice deve interpretare le norme nei limiti individuati dal legislatore e non può fare un’interpretazione estensiva. IL PRINCIPIO DI MATERIALITÀ Il principio di materialità impone al legislatore di incriminare solo comportamenti umani esteriori percepibili: tale principio trova fondamento nell’art. 25 comma 2 Cost., secondo il quale “nessuno può essere punito se non in forza di una legge entrata in vigore prima dl fatto commesso”. Il riferimento al ‘’fatto commesso’’ esprime la necessità di una condotta esteriormente percepibile. È incompatibile con il principio di materialità il c.d. diritto penale della volontà (proposto durante il periodo del nazionalsocialismo da una corrente tedesca, la Scuola di Kiel). Esso incentra il disvalore della fattispecie sull’elemento soggettivo dell’autore più che sulla condotta dello stesso tenuta: giustifica una forte anticipazione dell’inizio dell’attività punibile, sin dalla semplice ideazione di commettere un reato, indipendentemente dall’avvio di una condotta diretta a perseguire il programma criminoso; propone di equiparare la pena per il delitto tentato a quella del delitto consumato, in quanto in entrambi è identica la volontà di trasgredire la norma penale. Sono altresì incompatibili con il principio di materialità: a) Il diritto penale dell’atteggiamento interiore che pone al centro della relazione penale l’atteggiamento spirituale del soggetto rispetto ai beni giuridici, più che il comportamento diretto ad offenderli; b) Il diritto penale della pericolosità, nel quale si punisce non l’autore di un fatto ma l’autore pericoloso, il cui comportamento appare rischioso di commissione di reati. IL PRINCIPIO DI OFFENSIVITÀ Secondo tale principio il rispetto del principio di materialità non basta a giustificare l’intervento penale, perché è anche necessario che la pena sia rivolta nei confronti di fatti offensivi di beni giuridici. Il principio di offensività è ampliamente accolto dalla giurisprudenza e ha una duplice dimensione: a. offensività in astratto: si rivolge al legislatore, il quale deve prevedere fattispecie che in astratto esprimano un contenuto lesivo. Funzione di limite alle scelte di incriminazione del legislatore. b. offensività in concreto: si rivolge al giudice, il quale in concreto deve accertare che il reato abbia leso o messo in pericolo il bene o l’interesse tutelato. OBBLIGHI DI TUTELA PENALE Esistono obblighi costituzionali di tutela penale? È possibile una risposta positiva nei casi in cui sia la stessa norma costituzionale a prevedere espressamente tale obbligo, come l’ART.13 comma 4 Cost. che prevede che sia ‘’punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizione di libertà’’ = Obblighi costituzionali espressi di tutela penale. Non sono presenti, invece, obblighi costituzionali impliciti di tutela penale che impongono il ricorso alla sanzione penale in ragione dell’importanza di alcuni beni giuridici. La costituzione può porre sanzioni penali, ma non può giustificare la previsione di sanzioni penali né può obbligare alla tutela penale. Oggi, la questione più attuale riguarda gli obblighi di incriminazione che possono derivare da fonti sovranazionali: può trattarsi di fonti dell’ UE, di convenzioni, della CEDU. Gli obblighi di incriminazione derivanti da fonti sovranazionali si traducono in un vincolo di ordine costituzionale, perciò la mancata attuazione di una norma sovranazionale vincolante per l’Italia, si traduce nel mancato rispetto dell’art. 117 della Costituzione comma 1, secondo il quale ‘’la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dai vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali’’ L’obbligo di fonte sovrannazionale si traduce indirettamente in un obbligo costituzionale, a condizione che gli obblighi rispettino i principi generali dell’ordinamento costituzionale, che funzionano da limiti. IL PRINCIPIO DI COLPEVOLEZZA Il principio di colpevolezza esprime il rifiuto di fondare la responsabilità penale su basi esclusivamente oggettive e richiede un’imputazione soggettiva che la Corte costituzionale, nella sent. 364/1988 ha considerato imprescindibile per garantire il rispetto del principio di personalità della responsabilità penale (ART. 27.1 Cost.): il dolo o la colpa devono investire gli elementi più significativi della fattispecie incriminatrice, perché solo l’imputazione soggettiva evita che sia chiamato a rispondere penalmente di un fatto colui al quale non può essere mosso soggettivamente alcun rimprovero. Il principio di colpevolezza si traduce in un limite di politica criminale, poiché il legislatore non può prevedere forme di imputazione oggettiva del fatto. L’affermazione di questo principio si può tradurre anche in ulteriori limiti per il legislatore. Con la sent. 364/1988 la Corte ha dichiarato parzialmente illegittimo l’art. 5 c.p. (che prevede l’inescusabilità assoluta dell’ignoranza della legge penale) nella parte in cui non si escludeva i casi di ignoranza inevitabile: la legge penale deve, dunque, essere conoscibile da parte dei consociati e il legislatore deve attivarsi affinché tutti possano conoscerne il contenuto. Questa istanza di conoscibilità si traduce anche in un limite alle scelte di incriminazione, perché il legislatore deve astenersi dal prevedere reati non corrispondenti alla tutela di interessi riconoscibili. IPERTROFIA DEL DIRITTO PENALE, DIRITTO PENALE DELLA PREVENZIONE E POPULISMO PENALE 1. Ipertrofia del diritto penale = L’efficacia del controllo penale è condizionata dal rispetto dei limiti di intervento dello stesso diritto penale, perché una politica criminale che conducesse ad espandere eccessivamente il ricorso alla sanzione penale avrebbe solo l’effetto di abbassare l’efficacia deterrente della risposta punitiva. L’ipertrofia del sistema penale si traduce negativamente sul piano processuale in quanto va a compromettere la tutela del principio di obbligatorietà dell’azione penale: la garanzia sottesa al principio di legalità dell’azione penale è vanificata se il continuo ampliamento della sfera penale rende impossibile l’avvio dei procedimenti penali per tutte le notizie di reato pervenute all’autorità giudiziaria, con inevitabile prescrizione di alcuni reati. L’efficacia della repressione penale passa, in primo luogo, attraverso una rigorosa selezione dei fatti ritenuti meritevoli in astratto di pena; questa scelta va fatta attraverso il filtro della depenalizzazione dei reati bagatellari, ovvero quelle fattispecie che, già ad una valutazione astratta, costituiscono fatti del tutto marginali sia per la mancanza del requisito della offensività in astratto, sia per la scarsa rilevanza del bene giuridico offeso e sia per le modalità di aggressione al bene; rispetto a questi fatti può essere sufficiente l’intervento di sanzioni di natura diversa, sempre che non si ritenga di renderli del tutto leciti. Da tempo il legislatore è intervenuto a depenalizzare alcuni reati bagatellari: un primo intervento è stato fatto nel 1975, cui è seguita la l. 689/1981 che ha operato una depenalizzazione dei reati minori, trasformando i delitti e le contravvenzioni puniti con la sola pena della multa o dell’ammenda in illeciti amministrativi puniti con sanzione amministrativa pecuniaria (c.d. illecito depenalizzato-amministrativo). Il legislatore si rese conto che facendo questa operazione si creavano problemi di garanzia: da qui la scelta fatta dalla l. 689/1981 di corredare l’illecito depenalizzato-amministrativo di una serie di garanzie modellate sul sistema penale, tra cui rispetto del principio di legalità, requisiti di struttura dell’illecito amministrativo, regole di disciplina, regole procedurali e di accertamento. Recentemente poi, la l. 67/2014 ha avviato un’importante opera di depenalizzazione in 2 direzioni:  Depenalizzazione in astratto: i d.lgs. 7-8/2016 in attuazione della legge delega n. 67/2014 hanno depenalizzato alcuni reati puniti con pena pecuniaria, trasformandoli in illecito amministrativo, e hanno trasformato alcuni reati (ingiuria, delitti minori contro il patrimonio) in illeciti civili a cui consegue, oltre al risarcimento del danno, anche una sanzione pecuniaria civile.  Depenalizzazione in concreto: casi in cui, pur non venendo meno la qualificazione del fatto come reato, la legge esclude la punibilità in presenza di alcune condizioni che tengono conto della particolare tenuità del fatto. Il fatto continua a costituire reato, ma le cause di non punibilità riducono il numero dei processi penali finalizzati ad accertare il fatto, con il vantaggio di alleggerire il carico giudiziario e permettere così ai giudici di concentrare la loro attenzione sui fatti più significativi. 2. Il diritto penale della prevenzione = Allo stesso tempo, però, è in atto una tendenza opposta. A fronte dei nuovi rischi tecnologici che mettono a rischio settori più o meno ampi della collettività, il modello del reato di danno non assicura una tutela adeguata del bene, che può essere salvaguardato solo anticipando l’intervento penale. Si spiega così la proliferazione dei reati di pericolo (che intervengono in via preventiva a tutela dei beni giuridici), l’ingresso dei nuovi beni giuridici strumentali (che anticipano l’intervento penale), la riscoperta delle misure di sicurezza, la proliferazione delle misure di prevenzione (per controllare la pericolosità del soggetto attraverso misure limitative della libertà personale). Nel diritto penale della prevenzione, la protezione dei beni giuridici viene attuata rivolgendo l’attenzione all’autore del fatto più che al fatto commesso dall’autore. 3. Populismo penale = Il populismo penale indica la tendenza ad utilizzare lo strumento penale in chiave di comunicazione politica, suscitando e dirigendo paure collettive, con una chiara finalità di acquisire consenso elettorale. CAPITOLO IV – RISERVA DI LEGGE IL PRINCIPIO DI LEGALITA’ Il principio di legalità costituisce una conseguenza imprescindibile della divisione dei poteri. Durante l’Ancien règime, infatti, il sovrano esercitava sia la produzione normativa penale che il conseguente potere giurisdizionale. Successivamente, con il pensiero illuminista, ed in particolare con Montesquieu, le due funzioni, legislativa e giudiziaria, si imposero come distinte tra loro, e vennero sottratte al potere del Sovrano. Nel passaggio dall’ancien régime alle costituzioni ed altre codificazioni penali liberali, nasce e si consolida il principio di legalità, in virtù del quale i precetti penali devono provenire non più dall’arbitrio di un sovrano, ma solo da una legge emanata da un parlamento democraticamente eletto, e tale legge deve essere previa al fatto commesso, chiara e precisa Il principio acquistò poi una sua autonomia in campo penalistico, alla luce del suo profondo significato di garanzia: l’esigenza di limitare la potestà punitiva dello Stato. Sorto in ambito politico ed istituzionale, il principio di legalità acquista una sua autonomia in campo penalistico, alla luce del suo significato di garanzia, che si manifesta attraverso 4 corollari: 1. L’esigenza di limitare la potestà punitiva dello Stato sfocia nell’idea che i precetti penali siano frutto dell’attività normativa dell’organo elettivo = RISERVA DI LEGGE 2. La legge penale deve sempre essere previa ai fatti commessi perché ciò garantisce i cittadini dall’incriminazione a posteriori di condotte che erano lecite al momento del fatto = IRRETROATTIVITA’ DELLA LEGGE PENALE (illuminismo di Beccaria) 3. La certezza del diritto, come si evince dal pensiero di Beccaria, oltre ad imporre che la irretroattività delle norme penali, pretende che precetti penali siano chiari, tassativi, precisi e comprensibili da tutti i consociati = PRINCIPIO DI DETERMINATEZZA 4. Il giudice deve limitare l’ambito di operatività della norma penale ai soli fatti in essa tassativamente descritti, vietando qualsiasi forma di interpretazione analogica = PRINCIPIO DI TASSATIVITA’ Questa complessa ed articolata ratio del principio di legalità portò, sul finire dell’Ottocento, il penalista Franz von Liszt a definire il codice penale come la ‘Magna Charta’ del reo, intesa come insieme di regole che definiscono, con certezza, i limiti della potestà legislativa penale; e all’inizio del diciannovesimo secolo, un altro grande penalista, Anselm Feuerbach, a chiarire l’imprescindibile nesso tra finalità general preventiva della pena ed i sottoprincipi del principio di legalità. Solo un sistema nel quale i cittadini sono messi perfettamente in grado di conoscere i limiti della rilevanza penale dei loro comportamenti rende efficace la funzione di prevenzione generale. Già presente nella Petition of rights di Philadelphia del 1774, il principio di legalità venne enunciato anche nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789. Da quel momento in poi, grazie alla diffusione del Code Napoleon del 1810, il principio di legalità costituì un caposaldo della legislazione penale (venne previsto anche nell’ART. 26 dello Statuto Albertino del 1848, nella nostra Costituzione, nella Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ecc..) LA RISERVA DI LEGGE Il primo corollario del principio di legalità attiene alla riserva di legge: la materia penale è di esclusiva prerogativa legislativa, con la conseguenza che nessuna fonte subordinata può emanare leggi penali, né con riferimento al precetto che alla pena in quanto, solo la legge emanata da un parlamento democraticamente eletto, può tutelare i consociati da possibili arbitri del potere politico e offrire le indispensabili garanzie d’imparzialità e di legittimazione. In alcune esperienze di regimi autoritari del secolo scorso si è sviluppata una diversa idea di legalità, nota come legalità sostanziale, secondo la quale è reato non solo il fatto previsto come tale dalla legge ma anche ciò che contro il sano sentimento del popolo. Ovviamente questo tipo di legalità non garantisce i cittadini da abusi e arbitri del potere: gli artt. 25 commi 2 e 3 Cost. e 101 comma 2 Cost. escludono qualsiasi deriva in senso sostanzialistico, imponendo quale limite della potestà punitiva dello stato in materia penale, i limiti rigorosamente individuati dalla legge, sia sotto il profilo dei fatti vietati sia delle relative sanzioni. Nella nostra Costituzione, il principio di legalità è inteso in modo formale, e impone cioè al giudice di considerare reato solo ciò che è previsto come tale dalla legge. Il problema diviene, allora, quello di individuare il significato del termine legge. Possono essere fonti del diritto penale: - Le leggi costituzionali - Le leggi ordinarie - I decreti governativi in tempo di guerra Maggiori problemi riguardano i decreti legge ed i decreti legislativi: in entrambi i casi sarebbe garantito un adeguato controllo del Parlamento (per i decreti legge successivo, per i decreti legislativi precedente), ma tuttavia una parte della dottrina ritiene che essi non possano essere considerati fonti del diritto penale poiché, nel caso del decreto una successiva modifica del regolamento potrebbe incidere sugli elementi costitutivi del reato, sottraendo alla legge la scelta esclusiva dei fatti da vietare e dei loro elementi costitutivi. c.d. riserva tendenzialmente assoluta: Una diversa ipotesi attiene all’integrazione da parte della fonte subordinata, di elementi del fatto che non coinvolgono alcuna discrezionalità, perché relativi ad aspetti tecnici del reato: ad esempio, in materia di stupefacenti si rimanda, per l’individuazione delle sostanze oggetto delle condotte vietate, ad una tabella periodicamente aggiornata dal Ministro della Salute. In questo caso non si viola la riserva di legge. L’ultima questione riguarda le c.d. norme penali in bianco, ovvero quelle fattispecie incriminatrici che richiamano, tra gli elementi costitutivi, un provvedimento amministrativo (più precisamente sono norme penali il cui precetto è posto in tutto o in parte da una norma di fonte inferiore alla legge), come ad esempio la contravvenzione di inottemperanza dei provvedimenti dell’autorità (art.650 c.p.), che punisce chi “non osserva un provvedimento legalmente dato dall’autorità per ragione della giustizia o sicurezza pubblica, o d’ordine pubblico o d’igiene” . Come si legge, l’ordine dell’autorità costituisce un elemento fondamentale, nella struttura della fattispecie incriminatrice, suscitando fondate riserve sul reale rispetto del principio di riserva di legge: in altri termini, il rinvio alla fonte subordinata sarebbe legittimo, ogni qual volta vi sia una ‘’sufficiente specificazione’’ del precetto da parte della norma di legge. Tuttavia questo criterio, proprio per la sua evidente genericità, pare poco risolutivo. Attualmente si tende a distinguere a seconda che il provvedimento richiamato sia di ordine generale o particolare e specifico: se si tratta di provvedimento specifico, costituendo l’atto stesso un elemento estrinseco rispetto alla previsione penale, il principio di legalità sarebbe rispettato, sempre che la fattispecie incriminatrice individui con precisione l’ambito all’interno del quale l’atto stesso deve essere emanato. Si ritiene invece che sia costituzionalmente illegittima una norma il cui precetto, lasciato in bianco dalla legge, venga posto da un provvedimento generale e astratto del potere esecutivo. L’INTERAZIONE DELL’ORDINAMENTO PENALE NAZIONALE CON L’ORDINAMENTO COMUNITARIO I trattati istitutivi dell’Ue hanno posto con sempre maggior urgenza il problema dell’interazione tra disciplina sovranazionale e diritto penale interno degli Stati membri. In particolare, in un sistema impostato rigidamente sul principio di legalità, appare evidente che gli organi sovrannazionali non possano avere potestà normativa in materia penale, dal momento che solo il Parlamento (nazionale) può legittimamente individuare i fatti vietati e le relative pene. Questa assenza di potestà normativa penale c.d. diretta si fonda, oltre che sull’ART. 25 comma 2 Cost., anche sulla considerazione che i 3 trattati istitutivi dell’UE non prevedono una competenza penale diretta degli organi comunitari. LA TUTELA PENALE DEGLI INTERESSI DI RILEVANZA COMUNITARIA Peraltro, il problema della tutela degli interessi comunitari si è posto con grande rilevanza. Le fonti comunitarie (in specie le direttive) possono infatti imporre agli Stati membri l’introduzione di nuove fattispecie incriminatrici, a tutela d’interessi comunitari o di particolare rilievo, soprattutto sovranazionale. L’esercizio di tale potestà è divenuta, nel corso degli anni, sempre più pressante, ed ha trovato un momento di particolare sostegno con il trattato di Lisbona. Infatti, l’ART.83 del Trattato sul Funzionamento dell’UE (TFUE) prevede che il Parlamento ed il Consiglio, attraverso direttive, possano stabilire norme minime relative alla definizione dei reati e delle sanzioni in sfere di criminalità gravi, che presentano una dimensione transnazionale derivante dal carattere di tali reati o da una particolare necessità a combatterli su basi comuni. Vengono specificate 9 materie nell’ambito delle quali l’UE può stabilire regole minime: 1) Terrorismo 2) Tratta esseri umani e sfruttamento sessuale delle donne e minori 3) Traffico illecito stupefacenti 4) Traffico di armi 5) Riciclaggio di denaro 6) Corruzione 7) Contraffazione di mezzi di pagamento 8) Criminalità informatica 9) Criminalità organizzata. Anche prima delle modifiche apportate dal tratto di Lisbona, questa tutela mediata, indiretta, degli interessi comunitari era garantita nei precedenti trattati istitutivi: in un primo periodo l’UE si limitò a chiedere l’introduzione di sanzioni efficaci, proporzionate e dissuasive, senza imporre il ricorso allo strumento penale, lasciando alla scelta politico-criminale dei singoli Parlamenti dei Paesi membri se optare per misure sanzionatorie civili, penali o amministrative. Col passare degli anni poi, l’imposizione di nuovi strumenti di tutela da parte dell’Unione si è fatta sempre più pressante sino ad imporre il ricorso alla sanzione penale, indicando, talora, addirittura i limiti edittali minimi o massimi a cui ci si doveva attenere. Attualmente rimane vero che l’Unione non può introdurre nuove fattispecie incriminatrici, ed è sempre necessario che gli stati membri recepiscano le indicazioni contenute nelle direttive europee, ma la tutela mediata degli interessi comunitari e la lotta al crimine transnazionale, rendono più incisivo il ruolo dell’UE nell’individuazione dei fatti vietati e sanzionati penalmente. Inoltre, un ruolo fondamentale è svolto dalla Corte di giustizia che, attraverso la sua giurisprudenza, ha affermato e radicato il principio di preminenza del diritto comunitario, in virtù del quale, ogni qual volta vi sia contrasto tra norme interne ed europee, queste ultime devono prevalere. Per quanto riguarda gli strumenti con cui gli stati recepiscono le direttive vi sono 3 modelli:  L’unificazione, ovvero l’individuazione di un unico strumento penale vigente in tutti gli ordinamenti, strumento ancora ben difficile da attuare a causa di un’evidente ritrosia da parte dei Paesi europei a rinunciare alla propria tradizione giuridica penalistica.  L’assimilazione, ovvero l’invito dell’UE ai paesi membri di estendere la tutela penale già presente nei loro ordinamenti interni a specifici interessi dell’Unione stessa, secondo schemi e modelli penalistici tipici di ciascun sistema giuridico.  L’armonizzazione, ovvero il richiamo agli Stati ad introdurre nuove fattispecie incriminatrici, modellate sulla base delle indicazioni e previsioni contenute nelle direttive dell’Unione. Si tratta del modello cui si fa più spesso ricorso, ma che ha comunque un difetto: se un Paese membro non attua gli accordi, nel suo ordinamento si verifica una carenza di tutela degli interessi comunitari. Tuttavia, l’UE può esercitare nei confronti degli Stati membri che non hanno ottemperato alle previsioni di una direttiva un potere di infrazione, che può portare al pagamento di ingenti somme di denaro a titolo di sanzione. Resta però da chiarire quale sia l’incidenza del diritto comunitario sul piano penale, in specie nel caso in cui una norma interna contrasti con una norma comunitaria: in questa ipotesi il giudice italiano, ai sensi degli ARTT. 11 e 117 Cost., deve tener conto della disciplina europea, in virtù del principio di preminenza del diritto comunitario. Se invece si tratta di un contrasto dell’ordinamento interno con una norma di un Trattato, di un regolamento o di una direttiva specifica e dettagliata, il giudice penale è tenuto a disapplicare la normativa interna (ad esempio quando una fattispecie incriminatrice punisce un fatto considerato lecito da una norma europea). La disapplicazione della norma penale interna comporta che, se vi è stata sentenza, anche definitiva, di condanna, debbano cessare immediatamente l’esecuzione e gli effetti. Se il contrasto è solo parziale, allora il giudice dovrà disapplicare solo quella parte della norma interna in contrasto con la disciplina sovranazionale. CONVENZIONE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO (CEDU) Tra le norme di diritto pattizio di maggior importanza in ambito penale, la CEDU ha un ruolo centrale, anche se occorre preliminarmente dire che, anche rispetto a questa Convenzione, non vi possono essere fattispecie penali introdotte direttamente nel nostro ordinamento da atti sovrannazionali, posto che l’art. 25 Cost. prevede che solo una legge del Parlamento possa disporre in tal senso. Tuttavia, secondo quanto stabilito dall’ART.117 Cost., la potestà legislativa dello Stato è esercitata nel rispetto non solo della Costituzione, ma anche dai vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e da obblighi internazionali; perciò nell’esercizio del potere legislativo, il Parlamento non potrà emanare norme penali in contrasto con una previsione Cedu e, se ciò accadesse, la norma dovrebbe essere dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale. CAPITOLO V – SUCCESSIONI DI LEGGI PENALI NEL TEMPO IL PRINCIPIO DI IRRETROATTIVITA’ l secondo corollario del principio di legalità è il divieto di retroattività della legge penale, in virtù del quale nessuno può essere punito per un fatto che non fosse già previsto come reato al momento del compimento del fatto stesso. La ratio di garanzia del principio tende a tutelare il cittadino da qualsiasi abuso del potere legislativo. D’altro canto però, l’irretroattività della legge penale svolge anche una fondamentale funzione di certezza, dal momento che i cittadini devono essere messi in grado di sapere in anticipo quali sono le possibili conseguenze penali dei loro comportamenti. Nell’attuale ordinamento giuridico vi sono 4 norme da prendere in considerazione:  L’ART. 11 Preleggi che prevede “la legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo”.  L’ART. 2 comma 1 codice penale che afferma “nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato”.  L’ART. 25 comma 2 Cost., il quale impone che la legge alla stregua della quale si punisce un certo fatto di reato debba essere entrata in vigore prima del fatto commesso.  l’ART. 7 della CEDU, che prevede esplicitamente il principio di irretroattività. IL PRINCIPIO DI RETROATTIVITÀ DELLA LEGGE PENALE PIÙ FAVOREVOLE L’ART. 2 c.p. introduce una disciplina della successione delle leggi penali nel tempo improntata sul criterio della retroattività delle disposizioni penali più favorevoli al reo. «Mentre la irretroattività della norma sfavorevole trova diretto riconoscimento nell'art. 25 comma 2 cost., non altrettanto può dirsi per la retroattività della legge favorevole, il cui fondamento va, invece, individuato nel principio di eguaglianza, che impone, in linea di massima, di equiparare il trattamento sanzionatorio dei medesimi fatti, a prescindere dalla circostanza che essi siano stati commessi prima o dopo l'entrata in vigore della "lex mitior’’ (legge più favorevole al colpevole di reato). Peraltro, il collegamento al principio di eguaglianza segna anche il limite del principio stesso, che appare, perciò, a differenza della irretroattività della norma penale sfavorevole, suscettibile di deroghe, legittime sul piano costituzionale ove sorrette da giustificazioni oggettivamente ragionevoli» (Corte Cost., 23 novembre 2006, n.394) = il legislatore potrebbe introdurre una deroga al principio (prevedendo cioè che una legge più favorevole successiva non si applichi retroattivamente), ma solo se l’eccezione è giustificata da una qualche ragionevolezza, quale, per esempio, la necessità di bilanciare tra due interessi contrapposti, entrambi meritevoli di considerazione. Nel dettaglio, la disciplina in materia di successione di leggi penali nel tempo, di cui all’ art. 2 c.p., appare piuttosto complessa. Una prima ipotesi è quella dell’ Abolitio criminis, che si verifica quando una legge successiva abroga una precedente fattispecie incriminatrice. Al riguardo, l’ART. 2 comma 2 c.p. prevede che “non possono essere puniti coloro che hanno commesso il fatto sotto la vigenza della precedente legge incriminatrice, e nel caso in cui vi sia stata sentenza di condanna, anche definitiva, ne debbano cessare immediatamente l’esecuzione e gli effetti penali”. La ratio di questa previsione è evidente: non avrebbe senso continuare a far scontare una sanzione detentiva a colui che ha commesso un fatto che, in un momento successivo, non viene più considerato meritevole di pena. La norma che dispone l’abrogazione della fattispecie incriminatrice si applica retroattivamente, perciò se il soggetto non è ancora stato condannato verrà prosciolto perché il fatto non è previsto dalla legge come reato, mentre se invece è stato condannato definitivamente cessa l’esecuzione della pena. Pertanto, può parlarsi di abolitio criminis solo quando, il fatto incriminato dalla norma previgente, non rientri più, a nessun titolo, nella nuova fattispecie. Successione di leggi penali nel tempo: se invece, il fatto è previsto come reato sia nella vigenza della legge precedente che di quella successiva, ma la disciplina è diversa; il codice prevede che il giudice debba applicare le legge più favorevole al reo. poco applicabile: se la declaratoria di illegittimità costituzionale valesse ex nunc, gli effetti maturati sotto la vigenza della norma stessa non ne sarebbero stati toccati e dunque la questione di legittimità sarebbe irrilevante per il giudizio in corso. Per ovviare a questo problema la l. 87/1953 ha esplicitamente previsto che ‘’le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione. Quando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano l’esecuzione e tutti gli effetti penali’’. Pertanto, la declaratoria di illegittimità opera ex tunc ma, ai sensi dell’art. 25 comma 2 Cost., se la norma stessa era più favorevole al reo di una precedente e più grave incriminazione, si continuerà ad applicare il regime più favorevole. LA QUESTIONE DELLA AMMISSIBILITÀ DEL SINDACATO SULLE LEGGI PENALI DI FAVORE La Corte costituzionale, come detto, non può estendere l’ambito di operatività di una fattispecie incriminatrice: ma ciò non significa che sia sempre precluso il sindacato di legittimità sulle leggi penali di favore, in modo particolare quando esse creino delle zone franche. La Corte in un primo momento ha escluso che si potesse sindacare la legittimità di una norma penale di favore, per mancanza di rilevanza della questione: il nuovo e più severo regime derivante dalla declaratoria di illegittimità, infatti, non si sarebbe potuto applicare retroattivamente a chi avesse tenuto una condotta nel vigore della norma più favorevole. Peraltro, tale orientamento è stato superato, proprio in riferimento alle situazioni nelle quali la norma di favore non delimita l’ambito di operatività di una fattispecie incriminatrice, ma sottrae una certa categoria di soggetti o condotte dall’applicazione della norma stessa. Attualmente, il sindacato di costituzionalità sulle norme di favore è ammesso, ma solamente quando si tratti di riparare a quello che è stato definito come ‘’odioso privilegio’’; poiché un ulteriore allargamento del sindacato della Corte costituzionale sulle norme penali di favore, finirebbe per attribuire indebitamente, alla Corte stessa, l’individuazione dei fatti da punire. SUCCESSIONE DI LEGGI PENALI NEL TEMPO E CRIMINI INTERNAZIONALI Si definiscono come crimini internazionali:  i crimini di guerra  il genocidio  i crimini contro l’umanità e contro la pace. Essi sono stati oggetto di processi penali che hanno dato origine ad una sorta di diritto penale internazionale che, cioè prescinde dalla normativa vigente di ogni singolo Stato. CAPITOLO VI – PRINCIPIO DI DETERMINATEZZA Il principio di legalità impone che la tecnica di redazione delle fattispecie incriminatrici individui con precisione tutti gli elementi costitutivi delle fattispecie incriminatrici e delle norme penali: una legge penale costruita in termini generici o poco tassativi non consentirebbe di individuare con certezza i fatti vietati, e finirebbe col vanificare del tutto la garanzia sottesa al principio di legalità. Non basta, infatti, che le norme penali siano previste da una legge, ma occorre che sia possibile, per i cittadini, individuarne tutti gli elementi costitutivi: solo norme chiare e precise rendono efficace il sistema penale sotto il profilo della funzione general preventiva. Tale esigenza è manifestata dall’ART.1 c.p., il quale prevede che “nessuno può essere punito, se non per un fatto espressamente previsto dalla legge come reato”. Sempre con riferimento ai destinatari, l’individuazione certa dei limiti del penalmente rilevante costituisce un presupposto indefettibile del principio di colpevolezza, dal momento che solo in presenza di un precetto chiaro e privo di ambiguità nell’individuare i fatti vietati sarà possibile rimuovere un rimprovero a colui che l’abbia violato. Inoltre, il principio di determinatezza deve garantire i destinatari della legge penale da possibili abusi del potere giudiziario. I destinatari del principio di determinatezza sono:  il Parlamento, che deve costituire fattispecie incriminatrici chiare e precise;  il giudice, la cui interpretazione delle norme deve essere mantenuta in limiti rigorosi;  i cittadini, che devono essere messi in grado di conoscere i limiti dei fatti penalmente sanzionabili. CRITERI DI TECNICA LEGISLATIVA Criteri di tecnica legislativa: normazione casistica/descrittiva, si elencano tutti i possibili aspetti della realtà empirica che rientrano nella fattispecie incriminatrice. Limiti: appesantisce esageratamente la norma penale e lascia impunite le condotte non descritte. ≠ normazione sintetica: normazione che menziona senza specificare; es. ‘’atti sessuali’’ (ART. 690 bis c.p.), è il giudice che deve dare la sua interpretazione di atto sessuale, anche se così c’è il rischio che alcuni aspetti della sua persona (es. religione) possano influenzarlo. Esistono quindi delle condizioni: • oggetto giuridico ben definito, cioè il bene tutelato dalla fattispecie incriminatrice deve poter essere “afferrato” con chiarezza; • i termini che il legislatore utilizza devono poter essere oggetto di una verificabilità empirica, che consenta di individuarne il contenuto in termini concreti e reali. Elementi descrittivi (normazione sintetica): • Concetti numerici (es. 30 giorni entro i quali il pubblico ufficiale deve compiere l’atto del suo ufficio per non incorrere nel delitto di omissione in atti d’ufficio, art. 318, comma 2, c.p.); • quantitativi (i limiti di interesse stabiliti dalla legge, oltre ai quali si ritiene integrato il delitto di usura, ai sensi dell’art. 644, comma 3, c.p.); • concetti descrittivi tratti dall’esperienza: termini come uomo, acqua, sostanza alimentare, aeromobile (rispettivamente, nei delitti di omicidio, 575 c.p.; avvelenamento, art. 439 c.p.; adulterazione, art. 440 c.p.; disastro aviatorio. Art. 428 c.p.). Elementi normativi di carattere giuridico: elementi la cui definizione si ricava da altre norme giuridiche. Elementi normativi extragiuridici: termini come osceno, pudore, atti sessuali, ecc.. Attraverso gli elementi normativi extragiuridici, è possibile adeguare l’interpretazione delle norme penali ai mutamenti del comune sentire: ciò che offendeva il pudore (art. 529 c.p.) nel passato può apparire, oggi, del tutto irrilevante. GLI ORIENTAMENTI DELLA CORTE COSTITUZIONALE Il principio di determinatezza svolge un ruolo fondamentale nel garantire il rispetto del principio di legalità. Peraltro, la Corte costituzionale è sempre stata restia a declaratorie di illegittimità, basate sulla scarsa precisione del disposto normativo; in particolare, essa ha ritenuto sufficientemente determinati i termini rispetto ai quali sia possibile un rinvio al normale significato linguistico, soprattutto se valutati non in sé, ma nel contesto testuale della fattispecie incriminatrice, intesa nel suo complesso. Alcune volte il riferimento al significato linguistico del termine viene arricchito dalla lettura che il giudice ne deve dare, alla luce dei principi generali di carattere costituzionale. In questo senso la corte ha respinto una questione di illegittimità dell’ART. 15 l.47/1948 (c.d. legge sulla stampa) nella parte in cui estende la norma incriminatrice dell’art. 528 c.p. (pubblicazioni e spettacoli osceni) agli stampati che illustrano avvenimenti realmente accaduti, con particolari forti, in modo da perturbare il comune senso della morale. In altre occasioni, si è ritenuto rispettato il parametro della determinatezza, facendo riferimento al c.d. diritto vivente, cioè all’interpretazione di un certo termine, consolidatasi nella giurisprudenza di legittimità; ad es. la vicenda del delitto di disastro innominato ex art. 434 c.p., che punisce chiunque cagioni ‘’un altro disastro’’, cioè un disastro diverso da quelli previsti nel titolo del codice penale dedicato ai delitti contro l’incolumità pubblica. CAPITOLO VII – INTERPRETAZIONE DEL DIRITTO PENALE E DIVIETO DI ANALOGIA L’INTERPRETAZIONE DEL DIRITTO PENALE Per quanto il legislatore si sforzi di scrivere norme penali precise, chiare e rispettose del principio di determinatezza, sarà sempre necessario interpretare il testo normativo, al fine di rendere possibile quel raffronto tra fattispecie astratta e fatto storico, che costituisce il paradigma dell’attività giudiziaria. Si tratta della c.d. attività di interpretazione autentica, se arriva dal legislatore, o ufficiale, se è fatta dall’autorità amministrativa, e chiarisce il senso di una norma di legge. Sempre dal punto di vista del soggetto da cui proviene, si distingue un’interpretazione giudiziale, ovvero operata dalla magistratura, e una dottrinale, cioè frutto della riflessione e del confronto tra giuristi che studiano le norme vigenti. Nel nostro ordinamento il precedente giudiziario non vincola l’interprete, il c.d. diritto vivente si evolve continuamente, proprio grazie ai mutamenti interpretativi. Regole dell’interpretazione e diritto positivo: ART. 1 delle Disposizioni sulle leggi in generale: «Nell'applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore». I due criteri fondamentali, pertanto, sono il significato letterale delle parole e l’intenzione del legislatore, intesa come volontà di tutela. Tuttavia, il linguaggio umano è ambiguo e non vi è un’interpretazione delle parole imprescindibile, esse infatti possono avere più di un significato a seconda del contesto in cui sono inserite. Ad esempio, si pensi all’utilizzo di una carta di credito falsa per pagare il pedaggio autostrada: il dato letterale esclude che si possa ritenere integrato il delitto di truffa, ai sensi dell’art. 640 c.p., perché manca un soggetto fisico da indurre in errore, che a seguito dell’errore stesso si determini ad un atto di disposizione patrimoniale pregiudizievole; ma, dal punto di vista dell’esigenza di tutela è indubbio che il patrimonio dell’ente autostradale viene significativamente danneggiato da questa condotta truffaldina. Ebbene, in questi casi, risulta difficile risolvere il dilemma interpretativo e diviene indispensabile una riflessione più ampia sui diversi canoni interpretativi proposti dalla scienza penalistica, che non possono essere ritenuti esclusivi, ma vanno armonizzati fra loro. 1. Criterio semantico: il primo sforzo dell’interprete deve essere quello di chiarire il senso lessicale dei termini utilizzati del legislatore. Es. concetto di «prostituzione», rilevante ai sensi delle norme della l. 20 febbraio 1958, n. 55, c.d. Legge Merlin, che punisce le condotte di sfruttamento, induzione e favoreggiamento della prostituzione: dal punto di vista lessicale, è impossibile dire se nel concetto di prostituzione rientri solo la consumazione di un rapporto sessuale in cambio di danaro (o altra utilità), o anche la prestazione a distanza, ripresa da una video camera, che ritrae una ragazza che interloquisce con il “cliente”, e che compie, in video, le prestazioni sessuali che lui richiede, o addirittura, anche la chat line, ove vi è “mercimonio” della sola voce, a fini sessuali. 2. Criterio storico: prevede un’oggettivazione, nel testo di legge, di una volontà storica, espressa dal Parlamento attraverso l’esercizio del proprio potere legislativo. Es. Le norme penali della legge Merlin erano finalizzate a tutelare le donne, soggetti deboli nel rapporto di prostituzione, dal momento che, disposta la chiusura delle case di prostituzione, esse sarebbero state costrette a esercitare la loro attività per strada, esposte a molti pericoli, e quindi più facilmente vittime di sfruttatori senza scrupoli: il caso dell’esibizione sessuale a pagamento, attraverso webcam, anche qualora vi sia interlocuzione tra i due soggetti, non è pertinente all’ambito della tutela normativa, con la conseguente irrilevanza penale delle condotte del gestore del sito web. Altra categoria di delitti che sono puniti ai sensi dalla legge italiana, anche se interamente commessi all'estero, è quella dei delitti politici. L'ART. 8 comma 1 c.p. prevede infatti che “il cittadino o straniero che commetta in territorio estero un delitto politico non compreso tra quelli dell'ART. 7 comma 1, è punito secondo la legge italiana”. In questo caso la punibilità è subordinata ad una condizione di procedibilità: la richiesta del Ministro della giustizia. Se, poi, il delitto è perseguibile di querela, oltre alla richiesta del Ministro sarà necessaria la querela del soggetto passivo del delitto. Alla stregua di questa norma si considera ‘’politico’’ qualsiasi fatto di reato che sia oggettivamente tale, che cioè offenda un interesse dello Stato alla propria indipendenza, integrità territoriale, nonché il diritto dei cittadini a partecipare alla vita politica dello Stato = c.d. delitto oggettivamente politico. Ma l’ART.8 comma 3 c.p., ricomprende nella nozione anche il delitto soggettivamente politico, cioè il delitto comune determinato, in tutto o in parte, da motivi politici. L'estrema estensione, così operata, del concetto di delitto politico si spiega, nella prospettiva del codice del 1930, con la precisa volontà di eliminare gli oppositori del regime, compresi coloro che erano riparati all’estero. Il quadro mutò profondamente con l'entrata in vigore della Costituzione che prevede 2 disposizioni in materia di delitto politico: gli artt. 10 comma 4 e 26 comma 2, che impediscono l'estradizione per reati politici, rispettivamente dello straniero e del cittadino. DELITTI COMUNI COMMESSI ALL’ESTERO Gli artt. 9 e 10 c.p. completano il quadro dei casi nei quali un delitto comune, cioè non politico, anche se commesso interamente all'estero può essere sottoposto alla legge italiana. Questi fatti non sono puniti incondizionatamente, ma la legge prevede alcune condizioni di procedibilità. In particolare l'ART. 9 c.p. disciplina i delitti commessi dal cittadino italiano all'estero, prevedendo l'applicabilità della legge penale italiana, per i delitti puniti con l'ergastolo o la reclusione per un minimo di 3 anni. La punibilità, ai sensi dell’ordinamento italiano è subordinata alla condizione di procedibilità che il reo si trovi nel territorio dello stato. Ai sensi dell’ART. 9 comma 2 “se si tratta di delitto per il quale è stabilita una pena restrittiva della libertà personale di minore durata, il colpevole è punito a richiesta del Ministro di grazia e giustizia ovvero a istanza o querela della persona offesa”. Anche in tal caso è necessaria la presenza del reo nel territorio dello stato. Infine, sempre ai sensi dell'ART. 9 ultimo comma “qualora si tratti di delitto commesso a danno delle comunità europee, di uno Stato estero o di uno straniero, il colpevole è punito a richiesta del Ministro di grazia e giustizia”, ma la punibilità è subordinata ad un'ulteriore condizione: che l'estradizione del reo, cittadino italiano, non sia stata concessa o accettata dal Governo dello Stato in cui il delitto è stato commesso. L’art. 10 c.p. disciplina l'applicabilità della legge penale italiana ai delitti commessi interamente all'estero da uno straniero. In questo caso, trattandosi di fatti che esulano dalla soggettività attiva (il reo non è un cittadino italiano) le condizioni di procedibilità sono ancora più rigorose. In particolare, se il fatto è commesso contro un cittadino italiano o ai danni del nostro Stato, in virtù del principio della soggettività passiva, si applica la legge penale per i delitti puniti con l'ergastolo o con la reclusione non inferiore nel minimo a un anno, ma sono previste le condizioni di procedibilità sia della richiesta del Ministro della giustizia, nonché della presenza del colpevole nel territorio dello Stato. Se il soggetto passivo è la Comunità europea, uno Stato estero o straniero, il colpevole è punito secondo la legge italiana, a richiesta del ministro di grazia e giustizia, sempre che si trovi nel territorio dello Stato, si tratti di delitto per il quale è stabilita la pena dell'ergastolo, o la reclusione non inferiore a minimo tre anni, l’estradizione di lui non sia stata conceduta, ovvero non sia stata accettata dal Governo dello Stato in cui egli ha commesso il delitto, o da quello dello Stato a cui egli appartiene. Una particolare disciplina è dettata dall'ART. 604 c.p. per i delitti contro la personalità individuale (riduzione in schiavitù, tratta di persone, prostituzione, pornografia minorile..), nonché per i delitti contro la libertà sessuale, incondizionatamente puniti, anche se commessi all'estero, da cittadino italiano, o in danno di cittadino italiano. Se commessi da uno straniero in concorso con cittadino italiano, la punibilità dello straniero è subordinata alle condizioni che si tratti di delitto per il quale è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni, e che vi sia richiesta dal Ministro della giustizia. Se, invece, commessi da uno straniero, a danni di uno straniero, si applica la generale disciplina di cui all’ART. 10 comma 2 c.p. STRUMENTI DI COLLABORAZIONE INTERNAZIONALE Rinnovamento del giudizio: la prospettiva ‘’autarchica’’ del codice del 1930 viene confermata dalle previsioni in materia di rinnovamento del giudizio. L’art. 11 comma 1 c.p. prevede infatti che il cittadino e lo straniero, che abbiano commesso un reato nel territorio dello Stato, vengano sempre giudicati in Italia, anche se vi è già stato un giudizio penale all’estero: così facendo però si deroga al principio del ne bis in idem, introdotto dall’ART. 54 della Convenzione di applicazione dell’accordo Schengen del 1985, che prevede il divieto di procedere una seconda volta, quando vi sia già stato un giudizio di condanna per il medesimo fatto, e la relativa pena sia stata scontata o sia in corso di esecuzione. Riconoscimento di sentenze penali straniere: corollario del rinnovamento del giudizio penale emesso all’estero è, nel codice del 1930, il limitato riconoscimento delle sentenze penali straniere. Ai sensi dell’art. 12 c.p. infatti, queste pronunce, se emesse per un delitto, possono spiegare effetti nel nostro ordinamento per quanto attiene alla dichiarazione della recidiva, abitualità, professionalità o tendenza a delinquere; oppure per l’applicazione di una pena accessoria o di una misura di sicurezza personale. Peraltro il riconoscimento è subordinato, ai sensi dell’ART. 12 c.p. ultimo comma, all’esistenza di un trattato di estradizione con il Paese straniero che l’ha ammessa o, se tale trattato non esiste, alla richiesta del Ministro della giustizia. Con riferimento al riconoscimento delle sentenze penali, la disciplina sovranazionale ha profondamente inciso sul disposto del codice: l’UE ha infatti emanato alcune Decisioni Quadro, finalizzate al reciproco riconoscimento, tra i Paesi membri, delle sentenze penali in materia di pene detentive e misure limitative della libertà personale, pene pecuniarie, confisca, misure sospensive o sostitutive. Le previsioni della Decisione Quadro sono recepite ‘’nei limiti in cui (…) non sono incompatibili con i principi supremi dell’ordinamento costituzionale in tema di diritti fondamentali, nonché in tema di diritti di libertà e di giusto processo’’ In particolare, ai sensi dell’art. 10 d.lgs.161/2010 una sentenza penale di condanna emessa da un Paese membro dell’UE viene eseguita in Italia alle seguenti condizioni: che la persona condannata abbia la cittadinanza italiana; la residenza, la dimora o il domicilio nel territorio dello Stato; che debba essere espulsa verso l’Italia a motivo di un ordine di espulsione o di allontanamento inserito nella sentenza di condanna o di una decisione giudiziaria o amministrativa; si trovi nel territorio dello Stato o in quello dello Stato di emissione. Inoltre, il fatto per il quale vi è stata condanna deve essere previsto come reato anche della legge italiana, indipendentemente dalla sua denominazione; e la durata e la natura della pena o della misura di sicurezza applicate nello Stato di emissione devono essere compatibili con la legislazione italiana. Estradizione: L’esigenza della collaborazione tra stati nella lotta alla criminalità ha trovato realizzazione attraverso l’istituto dell’estradizione, cioè la consegna, da uno Stato ad un altro che ne fa richiesta, di un soggetto che deve essere giudicato o punito per i suoi crimini. L’estradizione è un istituto del diritto internazionale e viene regolato sia dal codice di procedura penale sia dal codice penale, che all’ ART. 13 c.p. ne disciplina alcuni aspetti. Al riguardo, un ruolo importante è stato quello svolto dalla Corte costituzionale nell’individuare i limiti dell’estradizione, muovendo dal divieto di estradare sia il cittadino che lo straniero per reati politici. L’estradizione sia attiva che passiva, sia del cittadino che dello straniero, è sottoposta ad una serie di principi e vincoli:  Requisito della doppia incriminazione (ART. 13 comma 2): il fatto per il quale viene chiesta o concessa l’estradizione deve essere previsto come reato sia dalla legge italiana che da quella straniera  Principio di specialità: la concessione dell’estradizione è subordinata alla condizione che, per un fatto anteriore alla consegna diverso da quello per il quale l’estradizione è stata concessa, “l’estradato non venga sottoposto a restrizione della libertà personale in esecuzione di una pena o misura di sicurezza né assoggettato ad altra misura restrittiva della libertà personale né consegnato ad un altro Stato” (art. 699 comma 1 c.p.p.) tranne che “avendone avuta la possibilità, non abbia lasciato il territorio dello Stato al quale è stato consegnato trascorsi 45 gg. dalla sua definitiva liberazione o, avendolo lasciato, vi abbia fatto volontariamente ritorno” (art. 609 c.p.p.). La medesima garanzia vale anche per chi venga estradato in Italia da un paese straniero.  Principio di sussidiarietà: l’estradizione non può essere concessa se, per lo stesso fatto, nei confronti del soggetto è in corso un procedimento penale, mentre il divieto di bis in idem impedisce l’estradizione se è stata pronunciata sentenza irrevocabile dello Stato.  Gli art. 10 e 26 Cost. impediscono l’estradizione per reati politici sia dello straniero che del cittadino. La qualificazione come ‘’politico’’ del fatto criminoso diviene un elemento di garanzia che, impedendo l’estradizione in un Paese straniero di chi è accusato di un reato di natura politica, lo preserva da possibili persecuzioni da parte del potere costituito di quegli stessi Stati contro i loro oppositori. La nostra dottrina tende a dare, del delitto politico, una definizione solo oggettiva in virtù della quale impediscono l’estradizione solo i fatti di reato commessi per opporsi a regimi che impediscono l’esercizio dei diritti politici dei cittadini. Al contrario, chi abbia commesso un crimine mosso da motivazione politica, se agisce contro tali diritti e libertà, non beneficerà del divieto di estradizione. In primo luogo si è consentita l’estradizione per i colpevoli del delitto di genocidio; e inoltre si sono esclusi dal novero dei delitti politici i reati in materia di illecita cattura di aeromobili; gli atti illegali compiuti contro la sicurezza dell’aviazione civile; i reati gravi che comportano un attentato alla vita, all’integrità fisica o alla libertà delle persone che godono di protezione internazionale; i reati che comportano il ricorso a bombe, granate, razzi, plichi o pacchi esplosivi.  ART. 698 c.p.p. dopo aver affermato che non può essere estradato chi abbia commesso reati politici, vieta altresì la concessione dell’estradizione quando l’imputato o il condannato corre il rischio, nel Paese richiedente, di essere sottoposto ad atti persecutori o discriminatori per motivi di razza religione, sesso, nazionalità, lingua, opinioni politiche o di condizioni personali o sociali; a pene o trattamenti crudeli, disumani e degradanti; e ad atti che configurano violazione di uno dei diritti fondamentali della persona. Infine, è ancora rilevante il divieto di concedere l’estradizione per un reato che, nel Paese richiedente, è punito con la pena di morte. Mandato di arresto europeo: attualmente, tra gli Stati membri dell’Unione europea, l’estradizione è stata sostituita dal mandato di arresto europeo, un provvedimento emesso dall’autorità giudiziaria di un Paese membro, che impegna tutti gli altri Stati a darvi esecuzione, per l’arresto di un ricercato o per l’esecuzione di una pena. L’emissione e l’esecuzione di tale mandato sono di esclusiva competenza giurisdizionale e prescindono da qualsiasi intervento dell’autorità governativa. Inoltre, il mandato d’arresto non può essere emesso per reati politici, tranne che per i fatti di genocidio e terrorismo. Ai sensi dell’art. 2 l. 69/2005 l’esecuzione del mandato di arresto europeo è subordinato al rispetto dei diritti fondamentali garantiti dalla CEDU e dei principi e delle regole contenute nella Costituzione, attinenti al giusto processo, alla tutela della libertà personale, al diritto di difesa, al principio di eguaglianza e al principio della responsabilità penale personale. Vi sono poi delle ipotesi di esclusioni soggettive che impediscono l’esecuzione del mandato o comunque lo sottopongono a rigide condizioni: quando il soggetto ricercato sia un minore, una donna incinta, o quando sia madre di prole di età < 3 anni con lei convivente. CAPITOLO IX - STRUTTURA GENERALE DEL REATO LE TEORIE SULLA STRUTTURA DEL REATO IMMUNITÀ DI DIRITTO PUBBLICO INTERNO Tra le immunità di diritto pubblico interno si segnalano quelle previste dalla costituzione o da leggi costituzionali:  Presidente della Repubblica: ai sensi dell’ART. 90 Cost., il Presidente della repubblica non risponde per gli atti commessi nell’esercizio delle sue funzioni tranne che per alto tradimento e attentato alla Costituzione; in tal caso è messo in stato d’accusa dal Parlamento in seduta comune a maggioranza assoluta dei suoi membri ed è giudicato dalla Corte costituzionale a composizione integrata. Tale immunità spetta anche al Presidente del Senato quando esercita la funzione di supplenza per le funzioni del PDR. Si tratta di una immunità solo funzionale che non copre gli atti commessi al di fuori dell’esercizio delle funzioni presidenziali, commessi prima o durante dell’assunzione della carica.  Parlamentari: i parlamentari godono di una immunità sostanziale e una processuale finalizzate a consentire loro l’esercizio di funzioni parlamentari al di fuori di condizionamenti esterni. L’immunità sostanziale interessa le opinioni espresse e i voti dati nell’esercizio delle funzioni parlamentari: si tratta dunque di una immunità funzionale che non copre però tutti gli atti commessi nell’esercizio delle funzioni, ma solo le opinioni espresse ed i voti dati. Riguarda, principalmente, i reati di diffamazione e di vilipendio delle istituzioni. L’art. 68 Cost. richiede però un nesso di funzionale delle opinioni espresse con l’esercizio delle funzioni parlamentari e pertanto, l’immunità copre anche le opinioni espresse al di fuori del Parlamento, purché permanga questo nesso funzionale. L’immunità processuale invece non impedisce né le indagini né il processo verso i parlamentari, ma non consente, senza l’autorizzazione della Camera a cui il parlamentare appartiene, l’adozione di specifici atti procedurali, quali la perquisizione personale e domiciliare, l’arresto, la detenzione e le intercettazioni di qualsiasi tipo. Queste limitazioni sul piano processuale interessano anche gli atti commessi al di fuori dell’esercizio delle funzioni, durante e prima l’assunzione della carica.  Consiglieri regionali: i consiglieri regionali godono di immunità sostanziale analoga a quella dei parlamentari, per cui non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni.  Giudici della Corte costituzionale: i giudici della Corte costituzionale godono di una immunità sostanziale e si vedono estesa anche l’immunità processuale che spetta ai parlamentari, con l’unica differenza che l’autorizzazione ivi prevista deve essere concessa dalla Corte.  Membri del Consiglio superiore della magistratura: i membri del Consiglio superiore della magistratura non rispondono per le opinioni date e i voti espressi nell’esercizio delle loro funzioni. A differenza delle altre immunità, questa è prevista da una legge ordinaria, ma la Corte costituzionale ha comunque riconosciuto la copertura costituzionale, in quanto l’immunità è rigorosamente circoscritta alle sole manifestazioni di pensiero funzionali all’esercizio dei poteri-doveri spettanti ai componenti del CSM.  La l. 124/2008 (c.d. lodo Alfano) aveva previsto la sospensione del processo penale nei confronti delle alte cariche dello Stato (Presidente della Repubblica, del Senato, della Camera, del Consiglio) dalla data di assunzione e fino alla cessazione della carica o della funzione. La sospensione si applicava anche ai processi penali per fatti antecedenti l’assunzione della carica o della funzione: la Corte costituzionale ha dichiarato incostituzionale questa disciplina per violazione degli artt. 3 e 138 Cost., in quanto, essendo stata introdotta con una legge ordinaria, mancava di copertura costituzionale idonea a giustificare la disparità di trattamento. IMMUNITÀ DI DIRITTO INTERNAZIONALE Le immunità di diritto internazionale si fondano su convenzioni internazionali, alle quali è stata data attuazione con legge ordinaria. Godono di immunità assoluta, sostanziale e processuale, funzionale ed extrafunzionale, i capi di Stato estero, quando si trovano in tempo di pace nel territorio dello Stato italiano; e il Pontefice. Godono invece di immunità, anche per gli atti commessi al di fuori dell’esercizio delle funzioni, gli appartenenti al corpo diplomatico; mentre i consoli e gli impiegati consolari hanno un immunità funzionale e per gli atti commessi al di fuori dell’esercizio delle loro funzioni non possono essere assoggettati a custodia cautelare in carcere, a meno che non si tratti di delitto punito con la reclusione non inferiore nel massimo a 5 anni. Anche i parlamentari europei godono di immunità funzionale sostanziale: non sono punibili per le opinioni espresse e i voti nell’esercizio delle loro funzioni. Per quanto riguarda invece i militari, quelli di uno Stato estero presenti sul territorio italiano sono assoggettati alla legge dello Stato di appartenenza per i reati commessi in servizio. IL SOGGETTO PASSIVO DEL REATO Soggetto passivo del reato è il titolare del bene giuridico tutelato dalla fattispecie (si parla anche di persona offesa). Soggetto passivo può essere sia una persona fisica che una persona giuridica o ente collettivo, ma può anche essere lo Stato (es. delitti contro la pubblica amministrazione). Inoltre, nei reati plurioffensivi, ossia che offendono più beni giuridici, vi sono più soggetti passivi. Il soggetto passivo va distinto dall’oggetto materiale del reato, costituito dalla persona o dalla cosa su cui cade la condotta del reato: oggetto materiale nel delitto di furto è la cosa mobile altrui, nel sequestro di persona il sequestrato (uno dei pochi casi in cui vi è coincidenza tra oggetto materiale e soggetto passivo). Il soggetto passivo non va neanche confuso con il danneggiato, ossia con chi ha subito dal reato un danno risarcibile, considerato che l’ART. 185 c.p. prevede che ogni reato obbliga al risarcimento del danno: il soggetto passivo è normalmente anche il danneggiato del reato, ma ci possono essere casi in cui i soggetti danneggiati non sono i soggetti passivi (nel delitto di omicidio soggetto passivo è la persona uccisa, mentre i familiari della vittima sono i danneggiati). Il sistema penale conferisce rilevanza politica alla persona offesa a diversi fini: a) in alcuni casi è richiesta come elemento costitutivo di fattispecie, una specifica qualifica in capo al soggetto passivo (es. nel delitto di oltraggio, soggetto passivo deve essere un pubblico ufficiale); b) altre volte le qualifiche del soggetto passivo rilevano come elemento circostanziale (ad es. l’attentato terroristico è aggravato se il fatto è commesso contro persone che esercitano funzioni giudiziarie o penitenziarie); c) il soggetto passivo può fondare una causa di non punibilità; d) il consenso del soggetto passivo alla lesione di diritti disponibili costituisce causa di giustificazione; e) nei delitti perseguibili a querela, il soggetto passivo è titolare del diritto di presentare querela; f) la persona offesa rileva anche sul piano della disciplina processuale, quindi per ciò che riguarda la perseguibilità. Vittimologia: branca della criminologia che ha mostrato come i rapporti tra autore e la vittima non sempre presentano una separazione netta tra i ruoli: le complesse interazioni psicologiche tra questi soggetti evidenziano come la vittima non si ponga sempre in una posizione passiva di sottomissione, ma talvolta tenga un comportamento cooperante, se non addirittura istigante. La valorizzazione dell’importanza della vittima ha interagito anche su 3 versanti del sistema sanzionatorio: in primo luogo i più recenti orientamenti del neoretribuzionismo sollecitano a tenere conto delle esigenze di punizione dell’autore del reato che emergono dalla collettività, che ha la tendenza ad identificarsi con la vittima del reato; in secondo luogo, nasce dall’importanza riconosciuta alla soddisfazione delle esigenze della vittima la valorizzazione del risarcimento del danno in funzione sostitutiva della tradizionale risposta sanzionatoria; in terzo luogo, la valorizzazione dell’importanza del ruolo della vittima è presente nella c.d. giustizia riparativa che privilegia la conciliazione tra autore e vittima del reato in luogo della repressione attraverso la sanzione penale (ciò ad esempio accade nella giustizia minorile, ove il riavvicinamento del minore autore del reato e la vittima costituisce un elemento fondamentale nella sospensione del processo con messa alla prova). CAPITOLO XI – CONDOTTA ED EVENTO CONDOTTA La condotta umana può essere attiva, ovvero estrinseca in un movimento muscolare; oppure omissiva, quando consiste in un non facere. Nel primo caso il precetto è costituito da una norma di divieto (che vieta di tenere la condotta attiva), nel secondo caso da una norma di comando (che impone al soggetto di tenere una condotta attiva). La condotta costituisce requisito indefettibile del reato: non esistono reati senza azione, perché altrimenti sarebbe violato il principio di materialità del reato. Inoltre, l’ART. 42 comma 1 c.p. prevede che “nessuno può essere punito per una azione od omissione prevista dalla legge come reato, se non l’ha commesso con coscienza e volontà’’ (=Suitas, l’elemento di coscienza e volontà). La presenza di coscienza e volontà sono quindi elemento imprescindibile per fondare la responsabilità per qualsiasi reato, e vanno riferite esclusivamente all’azione od ammissione e non all’intero fatto di reato. In alcuni casi coscienza e volontà dell’azione o omissione corrispondono ad un dato psicologico effettivo (coscienza e volontà reali), ma vi sono anche condotte che si collocano al di sotto della zona lucida della coscienza: non sono sorrette da coscienza e volontà effettive, ma sarebbe irragionevole considerarle sempre penalmente irrilevanti (es. Caio in una giornata torrida estiva lascia il figlio in macchina e il bambino muore nel sonno: una maggior attenzione avrebbe potuto evitare tale condotta e si è in presenza di coscienza e volontà potenziali). Se sussiste coscienza e volontà nell’azione o nella commissione si può dire che la condotta è propria del soggetto, gli appartiene, è opera sua (questo spiega perché questo requisito soggettivo sia anche chiamato suitas). L’elemento della coscienza e volontà non sussiste in 3 casi: a) In presenza di una forza maggiore, ovvero una forza di natura improvvisa alla quale il soggetto non può resistere né sottrarsi; b) In caso di costringimento fisico, ovvero di una violenza fisica completamente ablatoria della volontà; c) Nel caso in cui vi sia uno stato di incoscienza indipendente dalla volontà, come ad esempio il movimento inconsulto ed improvviso di chi è in preda ad uno stato febbrile. Questi 3 casi evidenziano come in assenza di coscienza e volontà la condotta non possa essere considerata propria del soggetto. Questo elemento soggettivo è così connesso all’azione o all’omissione che, mancando coscienza e volontà, viene meno la stessa condotta penalmente rilevante: viene a mancare un elemento oggettivo del reato (la condotta). Ne consegue che il soggetto va assolto con la più ampia formula “perché il fatto non sussiste”. I PRESUPPOSTI DELLA CONDOTTA I presupposti della condotta sono elementi che devono preesistere nella condotta affinché si realizzi un determinato reato. I presupposti possono essere naturalistici, come nei delitti di aborto presupposto è la gravidanza della donna; e giuridici, ovvero definiti attraverso il richiamo ad elementi normativi: nel delitto di bigamia è necessario che il soggetto che contrae il matrimonio sia già legato da un altro vincolo matrimoniale avente effetti civili (art. 556 c.p.); nel delitto di peculato è necessario che il pubblico ufficiale che si appropria del denaro o della cosa mobile altrui, abbia già il possesso o la disponibilità degli stessi per ragioni di ufficio o servizio (art. 314 c.p.). LA NOZIONE DI EVENTO l codice penale utilizza il termine evento, senza darne una definizione. L’evento può essere naturalistico o giuridico: a) La nozione di evento naturalistico si identifica con le modificazioni del mondo esterno cagionate dalla condotta e considerate dalla legge come elemento costitutivo di fattispecie. b) La nozione di evento giuridico consiste invece nell’offesa dell’interesse tutelato dalla norma incriminatrice. A differenza dell’accezione naturalistica, l’evento giuridico non è separabile dalla condotta, perché è lo stesso fatto di reato visto sotto il profilo dell’offesa al bene giuridico; ne consegue che tale evento è presente in tutti i reati. DISTINZIONE DEI REATI IN RELAZIONE ALLA CONDOTTA Possono essere distinte diverse tipologie di reato in relazione alle loro particolari modalità di condotta: 1. Reati di azione e di omissione:  Nei reati di azione è presente una condotta attiva che si estrinseca in un movimento muscolare realizzato attraverso uno o più atti; mentre nei reati di omissione il legislatore incrimina il ‘’non agire’’ del soggetto quando una norma glielo impone Questa impostazione ha incontrato dei rilievi critici: se l’individuazione dell’obbligo giuridico di impedire l’evento deve essere fondata su fonti formali, allora questa manca nell’ipotesi della precedente attività pericolosa. Il richiamo poi a qualunque fonte legale rischia un’eccessiva dilatazione della responsabilità penale, perché con l’art. 40 c.p. qualsiasi obbligo di natura extrapenale si traduce in un obbligo penale. Ma anche la fonte del contratto conduce a soluzioni inappaganti, perché basterebbe l’invalidità dello stesso ad escludere l’obbligo giuridico di impedire l’evento. La teoria formale si presenta quindi per certi versi troppo ampia, e per altri troppo rigida. LA TEORIA FUNZIONALE: La teoria funzionale individua i soggetti obbligati ad impedire l’evento attraverso le c.d. posizioni di garanzia. Non importa quindi che ci sia una fonte formale, ciò che conta è la situazione di fatto, ovvero che qualcuno abbia assunto una posizione di garanzia nei confronti di un bene. Considerato che vi sono casi nei quali il titolare di un bene non è in grado di tutelarlo adeguatamente, l’ordinamento individua la figura di un garante per farlo. La posizione di garanzia è connotata da 3 requisiti: 1. È necessario che il garante sia titolare di obblighi impeditivi in quanto risponde del mancato impedimento dell’evento che aveva l’obbligo giuridico di impedire. Non è quindi sufficiente a fondare la responsabilità ex art. 40, la presenza di meri obblighi di sorveglianza non accompagnati da poteri impeditivi di natura tale da consentire al garante di evitare il verificarsi dell’evento. Non si richiede però che il soggetto disponga dei poteri per impedire direttamente l’evento, è sufficiente che abbia anche solo poteri sollecitatori, volti a far intervenire chi dispone del potere di evitare l’evento. 2. È necessario che la titolarità di tali poteri sia accompagnata dalla capacità di esercitarli, perciò non risponde di omesso impedimento dell’evento morte il genitore, incapace di nuotare, che non soccorra il figlio minore in mare: ciò tuttavia non lo esime dal chiamare i soccorsi qualora disponga degli strumenti per farlo. La titolarità dei poteri impeditivi deve essere sempre precostituita rispetto alla situazione di pericolo in cui il bene viene a trovarsi: la posizione di garanzia non si costituisce con la situazione di pericolo, ma deve precederla. 3. È necessario che la posizione di garanzia abbia carattere specifico, ovvero che il garante sia tale in relazione a specifici beni di specifici soggetti; non sono ammissibili posizioni di garanzia generale, in quanto ciò sarebbe contrario al principio di determinatezza e inoltre il garante sarebbe gravato da un obbligo così ampio di impedire il verificarsi dell’evento lesivo da essere di fatto inesigibile. LA TEORIA MISTA: Entrambe le teorie esaminate colgono elementi importanti della struttura del reato omissivo improprio: la teoria formale evidenza la necessità di una base normativa dell’obbligo giuridico di impedire l’evento; mentre la teoria funzionale coglie l’aspetto essenziale della precostituzione del garante per salvaguardare beni non adeguatamente tutelati dal loro titolare. La teoria mista accoglie i principi elaborati dalla teoria funzionale, ma richiede, al contempo, una base legale delle posizioni di garanzia (ci deve essere la posizione di garanzia, ma deve avere un aggancio formale al diritto). Secondo questa teoria spetta alla legge individuare le posizioni di garanzia ma, in conformità alla teoria funzionale, è necessario che queste ultime presentino i caratteri della precostituzione e della specificità, e diano al garante i necessari poteri impeditivi o sollecitativi. È compito dell’interprete differenziare gli obblighi di impedimento, che fondano le posizioni di garanzia, dai meri obblighi di sorveglianza che non attribuiscono al loro titolare poteri impeditivi, e quindi non consentono alla clausola di equivalenza dell’art. 40 c.p. di operare. Le Sezioni unite (S.U. 24 aprile 2014, ThyssenKrupp, RV 261107), hanno recentemente chiarito che la posizione di garanzia può essere generata non solo da investitura formale, ma anche dall'esercizio di fatto delle funzioni tipiche delle diverse figure di garante. Si è affermata in giurisprudenza una visione eclettica della fondazione del ruolo di garanzia che ha in parte superato la storica concezione formale. Si è sviluppata una elaborazione sostanzialistico-funzionale che non fa più leva tanto su profili formali quanto piuttosto sulla funzione dell'imputazione per omissione, connessa all'esigenza di natura solidaristica di tutela di beni giuridici attraverso l'individuazione di un soggetto gravato del ruolo di garante della loro protezione. Tale individuazione del garante avviene, più che sulla base di criteri formali, alla stregua della posizione di fatto assunta, del ruolo svolto. Cassazione penale, sez. IV, 31/01/2018, n.9160 L'arbitro di una partita di calcio non è titolare di una posizione di garanzia in ordine all'incolumità fisica dei calciatori e dei guardalinee per le lesioni derivanti dalle condizioni del terreno di gioco in quanto gli artt. 60 e 64 delle Norme organizzative interne della Federazione Italiana Giuoco Calcio, che attribuiscono all'arbitro la facoltà di disporre la sospensione o il rinvio della partita, si riferiscono soltanto alla valutazione circa la possibilità di disputare la partita a causa degli eventi atmosferici o di ragioni di ordine pubblico che possano ostacolare o impedire il regolare svolgimento del gioco. (Fattispecie nella quale la S.C. ha escluso la responsabilità dell'arbitro per le lesioni patite da un calciatore a causa di un avvallamento del terreno di gioco nascosto da una pozzanghera di acqua piovana). Bensì.. Il responsabile di una società sportiva, che ha la disponibilità di impianti ed attrezzature per l'esercizio delle attività e discipline sportive, è titolare di una posizione di garanzia, ai sensi dell'art. 40 comma 2 c.p., ed è tenuto, anche per il disposto di cui all'art. 2051 c.c., a garantire l'incolumità fisica degli utenti e ad adottare quelle cautele idonee ad impedire il superamento dei limiti di rischio connaturati alla normale pratica sportiva, con la conseguente affermazione del nesso di causalità tra l'omessa adozione di dette cautele e l'evento lesivo occorso ad un utente dell'impianto sportivo (riconosciuta la responsabilità del presidente di una società sportiva per lesioni riportate da una calciatore caduto a terra a causa di un avvallamento presente sul campo di gioco e coperto dall'acqua). Cassazione penale sez. IV, 01/12/2016, n.19029 In tema di reati omissivi colposi, la posizione di garanzia – che può essere generata da investitura formale o dall'esercizio di fatto delle funzioni tipiche delle diverse figure di garante – deve essere individuata accertando in concreto la effettiva titolarità del potere dovere di gestione della fonte di pericolo, alla luce delle specifiche circostanze in cui si è verificato il sinistro. (Fattispecie in cui la S.C. ha annullato con rinvio la decisione che aveva ritenuto la responsabilità di un parroco per il reato di omicidio colposo ai danni di un minore rimasto schiacciato, durante una festa, sotto la porta del campo di calcetto ubicato all'interno della parrocchia, omettendo di valutare e chiarire la posizione di altri soggetti titolari, al momento del fatto, di poteri di disposizione e gestione dell'area ricreativa). Cassazione penale sez. IV, 05/06/2019, n.37224 L'obbligo giuridico connesso all'esercizio di una funzione richiede un quadro fattuale-normativo che consenta al funzionario pubblico di essere consapevole di prendere in carico la situazione di rischio in veste di garante, sulla base di un'investitura derivante da una chiara situazione di fatto, avente rilevanza giuridica, e che investa lo stesso dell'obbligo di garanzia, con tutto ciò che ne consegue in termini di consapevolezza di dover seguire certe regole, che si connettono all'obbligo di diligenza richiesto al pubblico dipendente nell'esercizio della specifica funzione di controllo al medesimo demandata. Per l'effetto, deve essere annullata la pronuncia di merito che si limita a far discendere l'obbligo giuridico di garanzia dalla generica qualità di funzionario del Comune (annullata senza rinvio la pronuncia che aveva addebitato, ad una funzionaria comunale, per pretesa posizione di garanzia, la responsabilità per la caduta di un albero che aveva cagionato la morte di una donna che circolava, con la propria autovettura, nella strada sottostante la pianta). TIPOLOGIA DELLE POSIZIONI DI GARANZIA Le posizioni di garanzia vengono tradizionalmente distinte in posizioni di protezione e posizioni di controllo. a) Posizione di protezione: impone di preservare il bene protetto dai rischi che possono ledere l’integrità; il garante ha cioè sotto la sua sfera di protezione un bene che deve salvaguardare da possibili offese (es. genitori nei confronti dei figli minori, medico con il paziente che ha in cura, insegnante con alunni). Si ritiene che anche tra i coniugi sussista una reciproca posizione di garanzia, a condizione che i soggetti siano legati da vincolo matrimoniale avente effetti civili. Più discussa è invece la sussistenza di una posizione di protezione in relazione alle coppie di fatto: l’assenza di una norma che riconosce tale unione non consente di fondare una responsabilità omissiva, salvo che tale responsabilità non nasca da situazioni di affidamenti di fatto. Di recente la l. 76/2016 che disciplina le unioni civili tra persone dello stesso sesso ha stabilito all’art. 1 comma 11 che dall’unione deriva l’obbligo reciproco all’assistenza morale e materiale e alla coabitazione. Questa disposizione è quindi idonea a fondare una posizione di garanzia in capo ai soggetti civilmente uniti. b) Posizioni di controllo: impongono a chi ha sotto la sua sfera di controllo una fonte di pericolo, di neutralizzare i rischi che da tale fonte possono derivare ai terzi (es. il proprietario di un animale o di un edificio che minaccia rovina). c) A queste due categorie di posizioni di garanzia, parte della dottrina ne aggiunge un’altra che ha ad oggetto il mancato impedimento di reati commessi da terzi. Nello specifico, tali posizioni di garanzia possono essere ricondotte a due categorie tradizionali:  Alcune sono assimilabili a posizioni di protezione, perché il soggetto ha sotto la sua sfera di vigilanza un bene di cui deve assicurare la salvaguardia (es. guardia del corpo, la posizione dei genitori per i reati commessi a danno dei figli minori o incapaci).  Altre sono assimilabili a posizione di controllo, in quanto l’autore del reato è la fonte di pericolo (es. persona a cui è affidato un minore che non impedisca un reato commesso da quest’ultimo o genitore che non abbia impedito che il figlio minore commettesse violenze sessuali a danno di altri minori o di terzi  La cassazione ha infatti riconosciuto in capo al genitore esercente la potestà sui figli minori una posizione di garanzia in ordine al corretto comportamento sessuale di questi ultimi, fondando su questa l’obbligo di impedire che costoro compiano atti di violenza sessuale, dei quali il genitore risponde, qualora sia a conoscenza del fatto ed abbia la possibilità di impedirlo. Inoltre, le posizioni di garanzia possono essere originarie o derivate: a) Posizioni di garanzia originarie: il garante è individuato da una norma di legge (es. posizione di garanzia dei genitori è fondata sull’ART. 147 c.c.; quella dei coniugi sull’ART. 143 c.c.). b) Posizioni di garanzia derivate: le posizioni di garanzia possono essere trasferite e dare origine a posizioni di garanzia derivate. La fonte del trasferimento può essere la legge o il contratto, ma deve comunque avvenire a determinate condizioni. È infatti necessario che oltre a trasferire la posizione di garanzia, vi sia la concreta presa in carico del bene da parte del garante derivato (es. baby sitter: non basta la conclusione del contratto se a questo non segue il passaggio effettivo del bene tutelato dai genitori alla baby sitter). Particolarmente complessa può risultare l’individuazione dei limiti della responsabilità penale nel caso di successione nella posizione di garanzia (es. più datori di lavoro che si succedono nell’arco temporale di vita di un’impresa): la giurisprudenza esclude che il primo garante si liberi dell’eventuale responsabilità derivante dalla condotto da lui posta in essere per il solo per il fatto che, prima del verificarsi dell’evento, gli sia subentrato un successore: in questo caso se il primo garante omette di segnalare al soggetto subentrante la situazione di rischio a lui nota, e se la successiva condotta negligente del garante subentrato trovi causa proprio nella mancata segnalazione, la responsabilità del cedente permarrà. Se il primo garante ha innescato una situazione di rischio con una condotta esigenze da soddisfare in questo settore, quale per esempio il problema delle imputazioni di un evento ad un autore ai fini dell’accertamento della responsabilità penale: sebbene un evento non sia mai la risultante di un solo fattore, ma di una pluralità di fattori interagenti, non va persa di vista la prospettiva del diritto penale al quale interessa accertare il ruolo svolto dalla condotta umana nella produzione dell’evento. Il nesso di causalità in ambito penale si traduce quindi in un problema di imputazione di un evento ad una condotta umana. Nei reati ad evento, la presenza del nesso di causalità costituisce presupposto indefettibile per garantire il rispetto dell’art. 27 comma 1 Cost.: la responsabilità personale penale presuppone una responsabilità per fatto proprio, non può essere considerato proprio del soggetto un reato nel quale l’evento non è stato cagionato dalla condotta dello stesso. L’ART. 40 comma 1 c.p. prevede che “nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l’evento dannoso non è conseguenza della sua azione o omissione”, richiedendo così il nesso di causalità nei reati ad evento. Più articolata si presenta invece la disciplina dell’ ART. 41, il cui comma 1 stabilisce che “ il concorso di cause preesistenti o simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall’azione od omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità fra l’azione e l’evento”. Il vero punto critico dell’ART. 41 risiede nel comma 2, che dispone che “le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità quando sono state da sole sufficienti a determinare l’evento. In tal caso, se l’azione od omissione precedentemente commessa costituisce per sé un reato, si applica la pena per questo stabilita”. Parte della dottrina ha sottolineato la contraddittorietà della norma che, pur disciplinando concorso di cause, finisce in questo caso per escluderlo, in quanto il solo fattore determinante è costituito dalle cause sopravvenute: se queste sono state da sole sufficienti a determinare l’evento, significa che sono state l’unica causa determinante. Le cause sopravvenute sono state da alcuni identificate nelle serie causali del tutto autonome rispetto alla condotta (es. Tizio propina a Caio una dose di veleno mortale, ma egli muore per il colpo di fucile sparato da Sempronio): in tal caso, ad escludere il nesso di causalità con la condotta basta la norma generale che prescrive il nesso di causalità, senza necessità di una specifica disposizione sull’interruzione del nesso causale. La dottrina ha indagato sul problema della causalità, elaborando impostazioni teoriche a prescindere dal codice: LA TEORIA CONDIZIONALISTICA (O DELLA CONDICIO SINE QUA NON) Secondo la teoria condizionalistica, la causa è l’insieme delle condizioni necessarie per la produzione dell’evento. La causa dell’evento è quindi ogni azione che non può essere eliminata mentalmente senza che l’evento concreto venga meno. Il carattere causale di una condizione viene per l’appunto accertato attraverso il procedimento di eliminazione mentale: a) la condotta umana è condizione necessaria se, eliminata mentalmente dal novero dei fatti accaduti, l’evento non si sarebbe verificato; b) la condotta non è condizione necessaria dell’evento se, eliminata mentalmente con lo stesso procedimento, l’evento si sarebbe egualmente verificato. Si parla anche di giudizio contro-fattuale, per intendere che si tratta di un ragionamento ipotetico che si sviluppa “contro i fatti”, ossia chiedendosi come si sarebbero sviluppati gli accadimenti in assenza di un determinato fattore che è invece intervenuto. Questo metodo di accertamento evidenzia il carattere logico della causalità condizionalistica. Questa teoria ha incontrato però delle critiche da parte della dottrina: una prima critica attiene al rischio di estensione eccessiva della responsabilità penale attraverso il c.d. regresso all’infinito: se causali sono tutte le condizioni dell’evento, saranno a loro volta causali anche le condizioni delle condizioni. Più consistente è invece l’obiezione che alla teoria condizionalistica muove la c.d. causalità alternativa ipotetica (se si eliminasse la condotta di Tizio, Caio sarebbe morto comunque nello stesso modo?) . Es. caso dell’incendio di una casa: Tizio incendia la casa per incassare il premio dell’assicurazione; si accerta però che la casa sarebbe andata ugualmente distrutta, da un incendio sviluppatosi nel bosco adiacente, nel medesimo tempo. In questo caso, il processo di eliminazione mentale sembra non funzionare, perché pur escludendo mentalmente la condotta di Tizio, la casa sarebbe andata ugualmente distrutta per effetto dell’incendio nel bosco. O ancora, il caso di un medico che pratica al paziente una iniezione letale che procura il suo decesso, anche se quest’ultimo sarebbe comunque morto di lì a poco a causa delle sue gravi condizioni di salute: anche in questo caso, l’applicazione del procedimento di eliminazione mentale condurrebbe ad escludere il nesso di causalità, in quanto eliminando la condotta del medico non viene meno l’evento morte. Le obiezioni della causalità alternativa, tuttavia, non colgono nel segno in quanto impostano l’accertamento del nesso di causalità partendo da una nozione di evento in astratto: negli esempi si considerano gli accadimenti prescindendo dalle caratteristiche e specificità del caso concreto. Un punto fondamentale nell’accertamento del nesso casuale invece sta proprio nel prendere, come secondo termine del rapporto, l’evento in concreto, considerando cioè tutte le specificità che caratterizzano la concreta situazione di vita. Se si parte da tale presupposto, la teoria in oggetto supera le obiezioni della causalità alternativa ipotetica: la casa è andata distrutta per effetto della condotta di Tizio e poco importa se l’incendio del bosco l’avrebbe comunque distrutta. Un’ulteriore critica è derivata dalla c.d. causalità addizionale: quando l’evento deriva da azioni congiunte, tali che, se anche una venisse meno, non verrebbe meno l’evento, il procedimento di eliminazione mentale dovrebbe condurre ad escludere il nesso di causalità. Alla causalità addizionale si è obiettato che il procedimento di eliminazione mentale va verificato rispetto al complesso dei fattori casuali e non alle singole condotte: se tre medici forniscono tutti, colposamente, la stessa diagnosi errata che provoca la morte di un paziente, per escludere il rapporto di causalità non basta affermare che, eliminando mentalmente uno dei tre pareri, la terapia non sarebbe mutata e il paziente sarebbe deceduto ugualmente perché le norme sul concorso impongono di considerare unitariamente i tre pareri e di compiere il giudizio di eliminazione mentale considerandoli complessivamente. La teoria condizionalistica è parsa, a buona parte della dottrina, incapace di esprimere la specificità che il nesso casuale pone in ambito penale: poiché in questo settore si pone un problema di accertamento della responsabilità penale, la causalità non potrebbe essere risolta in termini naturalistici, come propone la teoria condizionalistica, ma dovrebbe essere affrontata come problema di imputazione di un evento ai fini della responsabilità penale: ossia l’evento che, dal punto di vista naturalistico, è riconducibile ad una condotta umana, non necessariamente deve essere imputato all’autore della condotta ai fini della responsabilità penale. Questa scissione tra causalità naturalistica ed imputazione giuridica sta alla base di alcune teorie che non costituiscono modelli alternativi della causalità condizionalistica, ma si propongono piuttosto come correttivi della stessa, in quanto restringono l’imputazione di un evento ad una condotta di cui va comunque accertato il carattere di condicio sine qua non dell’evento. TEORIA DELLA CAUSALITÀ ADEGUATA La teoria della causalità adeguata accoglie i principi della teoria condizionalistica, secondo i quali la condotta umana deve costituire condizione dell’evento, ma limita la responsabilità penale esclusivamente alle condotte idonee a produrlo: la valutazione di idoneità va effettuata secondo un giudizio ex ante, ossia accertando se, al momento della condotta, questa costituiva un fattore probabile di causazione dell’evento. (Es. Tizio va in ospedale perché Caio gli ha sparato, e quando esce dall’ospedale viene investito: Caio non è colpevole). Questa teoria ha come obiettivo quello di limitare la responsabilità penale, ma finisce però per restringerla eccessivamente. Essa dovrebbe infatti essere esclusa quando una condotta, che appariva ex ante come non idonea a produrre l’evento, lo abbia poi di fatto prodotto, escludendo in tal modo il nesso causale tra la condotta e gli effetti atipici che la stessa ha comunque prodotto. La critica che si muove a questa teoria è che manca di un qualsiasi appiglio normativo a suo fondamento. Piuttosto, l’esigenza di limitare la responsabilità penale può essere meglio soddisfatta sul terreno dell’elemento soggettivo, che deve essere sempre accertato, con giudizio ex ante, al momento della condotta. TEORIA DELLA CAUSALITÀ UMANA L’altra teoria che si propone come correttivo della causalità condizionalistica è stata elaborata da Antolisei ed è la teoria della causalità umana. Secondo Antolisei, la causalità delle condotte dell’uomo presenta proprie specificità, in quanto l’uomo, in forza dei poteri conoscitivi e volitivi, ha una sfera di signoria che gli consente di dominare una serie di circostanze nelle quali si inserisce le sue condotte: i fattori che rientrano in questa sfera di signoria possono essere considerati causati dall’uomo, perché dominabili dallo stesso; i fattori che invece fuoriescono da questa sfera non possono essere imputati al soggetto, perché si tratta di fattori eccezionali, del tutto imprevedibili. Secondo la ricostruzione dell’autore, la sussistenza del rapporto di causalità richiede due elementi, uno positivo ed uno negativo: è necessario che la condotta costituisca condicio sine qua non dell’evento mediante giudizio controfattuale, ma è anche necessario che non sia intervenuto un fatto eccezionale che interrompe il nesso; la giurisprudenza esclude infatti il nesso causale tra condotta ed evento quando interviene un fattore eccezionale. Possono considerarsi opera dell’uomo solo gli sviluppi causali che l’uomo può dominare con i suoi poteri conoscitivi e volitivi (ad es. Caio, ferito da Tizio con intenzione omicida, viene portato in ospedale per essere curato e lì muore a seguito di incendio sviluppatosi in ospedale: qui la condotta di Tizio, che è condizione dell’evento morte, non è legata da un rapporto di causalità giuridica perché è intervenuto un fattore eccezionale che ha interrotto il nesso casuale). TEORIA DELL’IMPUTAZIONE OGGETTIVA DELL’EVENTO Un altro orientamento dottrinale è quello che introduce il criterio dell’aumento del rischio in funzione di restrizione dell’imputazione penale dell’evento. Anche questa teoria, al pari delle altre due, si configura come correttivo della teoria condizionalistica, in quanto presuppone comunque una condotta che sia condicio sine qua non dell’evento. Affinché un evento possa essere imputato ad una condotta sono necessari 3 requisiti: 1) La condotta deve essere condizione dell’evento; 2) La condotta deve aver creato un pericolo riprovato dall’ordinamento (es. nipote che induce lo zio a viaggiare in aereo, sperando che nel viaggio muoia e ciò avviene: non vi è responsabilità del nipote in quanto tale evento rientra nei normali rischi, diversamente sarebbe stato se il nipote fosse stato a conoscenza di una avaria dell’aereo o della preparazione di un attentato); 3) L’evento deve essere la realizzazione del rischio non consentito dalla legge (nell’es. del soggetto ferito portato in ospedale e poi morto lì a causa di un incendio, il decesso non costituisce la concretizzazione del rischio prodotto dal ferimento). In altri termini, non è tanto l’eccezionalità della concausa ad interrompere il rapporto causale, ma l’appartenere o meno dell’evento a quelli che la norma penale mirava a prevenire. L’evento che si verifica deve essere concretizzazione del rischio che la norma voleva prevenire. Interrompe il rapporto causale quella concausa che inserisce un nuovo fattore di rischio rispetto a quello attivato dall’autore del fatto (es. Tizio spara a Caio, che va in ospedale, lì saturano la ferita e Caio non è più in pericolo di morte. Successivamente però, un’infermiera sbaglia la terapia e Caio muore: qui il fattore di rischio intervenuto era nuovo e non legato al colpo di pistola). LA SUSSUNZIONE SOTTO LEGGI SCIENTIFICHE Torniamo alla teoria condizionalistica: il procedimento di eliminazione mentale, di cui la teoria si avvale, funziona nella misura in cui si conosca la legge di copertura che spiega che ad un certo fattore ne segue un altro: se Tizio spara al cuore a Caio, la causalità della condotta di Tizio rispetto all’evento morte non può essere spiegata in termini di mera successione temporale tra eventi, la causalità della condotta di Tizio viene accertata attraverso il procedimento di eliminazione mentale, e questo funziona solo perché si conoscono gli effetti letali che provoca un proiettile che colpisce il cuore. L’accertamento diventa più difficile in presenza di eventi di natura multifattoriale, come ad es. lo sviluppo di tumori che possono essere causati da diversi fattori. È quindi necessario che il rapporto di causalità sia spiegato facendo riferimento alle leggi scientifiche che giustificano la causalità di un certo fattore rispetto all’evento (c.d. sussunzione sotto le leggi scientifiche di copertura). Nella spiegazione del nesso causale, il giudice deve passare da un metodo individualizzante ad un metodo generalizzante: deve partire dal caso concreto, ma questo deve essere ridescritto (c.d. descrizione dell’evento), estraendo alcune connotazioni della vicenda concreta e considerandole ai sensi della legge scientifica. Il giudice usa le leggi scientifiche, in modo da garantire il massimo di certezza nell’accertamento del statistiche con frequenze medio- basse, si possa arrivare ad un giudizio di probabilità logica, escludendo l’intervento di altri fattori causali alternativi. Questo profilo è stato chiarito con l’intervento delle S.U., che nel 2014 (Thyssen - Cassazione penale, sez. un., 24 aprile 2014, n. 38343.) hanno affermato che ‘’nel reato colposo omissivo improprio, il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, che a sua volta deve essere fondato, oltre che su un ragionamento di deduzione logica basato sulle generalizzazioni scientifiche, anche su un giudizio di tipo induttivo elaborato sull'analisi della caratterizzazione del fatto storico e sulle particolarità del caso concreto’’ (…) ‘’Ad esempio, sappiamo che una determinata percentuale di persone sopravvive dopo essere stata curata a seguito di infarto del miocardio, ma non sappiamo quale esatto peso vi abbiano i diversi fattori di rischio quali l'età, il sesso, le condizioni generali e numerose altre variabili individuali. La conclusione è che noi non disponiamo quasi mai di uno strumento deduttivo sufficientemente affidabile. Tale situazione, che rischia di frustrare in radice le inferenze della causalità omissiva, apre la strada all'introduzione di un aggiuntivo momento di tipo induttivo nella complessiva argomentazione probatoria. In breve, le eventuali generalizzazioni disponibili, di cui è già stata mostrata la vocazione, nel contesto in esame, all'utilizzazione in chiave deduttiva, vengono integrate da un passaggio di tipo induttivo elaborato dal giudice sulla base delle particolarità del caso concreto. Perciò, nell'esempio dell'infarto, se il paziente era giovane, l'infarto non devastante, le condizioni generali buone, si può giungere a ritenere che diagnosi e trattamento tempestivi avrebbero evitato l'evento’’ 2) Un secondo profilo lasciato aperto dalla sentenza Franzese riguarda l’attendibilità delle scientifiche di copertura, qualora vi siano orientamenti divergenti nella spiegazione del decorso causale. A fronte dell’incertezza della scienza la Cassazione, con la c.d. sentenza Cozzini, ha affermato che “il sapere scientifico costituisce un indispensabile strumento al servizio del giudice di merito” e “la Corte di legittimità non è per nulla detentrice di proprie certezze in ordine all’affidabilità della scienza, sicché non può essere chiamata a decidere, neppure a Sezioni Unite, se una legge scientifica di cui si postula l’utilizzabilità nell’inferenza probatoria sia o meno fondata”. 3) Un terzo profilo lasciato aperto dopo questa sentenza attiene alla possibilità di fondare il rapporto di causalità anche su generalizzazioni del senso comune ossia su massime di esperienza: è inevitabile ricorrervi in quanto il diritto penale, avendo a che fare con condotte umane, in molti casi entra nel territorio delle scienze sociali; il rischio però è quello di ampliare il potere discrezionale del giudice, con l’effetto di abbandonare il metodo generalizzante ed adottarne uno che sia di fatto condizionato da criteri puramente intuitivi, è necessario quindi che queste generalizzazioni siano fondate su “un solido fondamento scientifico che confermi la valutazione che ricollega la condotta all’evento”. Quanto più il diritto si misura con contesti connotati da incertezza scientifica, ci si deve interrogare sui limiti del ricorso al diritto penale. A fronte dell’incertezza scientifica, infatti, la giurisprudenza, pur di assicurare la tutela penale attraverso fattispecie di evento, potrebbe essere indotta ad un minor rigore nell’accertamento del nesso di causalità. Da questo punto di vista, la sentenza Franzese costituisce un importante anticorpo contro la flessibilizzazione del nesso di causalità, anche se lascia aperti molti interrogativi. CAPITOLO XIV – FATTO TIPICO E OFFENSIVITA’ IL PRINCIPIO DI OFFENSIVITÀ Costituiscono reato i fatti offensivi di beni giuridici, in quanto solo l’offesa ad interessi che i consociati ritengono meritevoli di tutela penale giustifica l’intervento della sanzione più pesante di cui l’ordinamento disponga: si tratta del c.d. principio di offensività in astratto, che si rivolge sia al legislatore, al quale spetta descrivere le fattispecie incriminatrici a tutela dei beni giuridici; che all’interprete, ed in particolare al giudice, che deve interpretare le norme penali in modo da garantire il rispetto del principio di offensività in astratto, adeguando il bene tutelato ai principi costituzionali o, qualora ciò sia impossibile, sollevando questione di legittimità costituzionale. Il principio di offensività presenta però un altro profilo ben più significativo sul piano della prassi applicativa. Es. Sempronio durante una passeggiata in collina si avvicina ad un filare di viti e stacca un acino da un grappolo d’uva per assaggiarla. Il fatto riproduce gli elementi costitutivi del delitto di furto ex art. 624 c.p., ma in concreto non arreca offesa agli interessi patrimoniali del proprietario della vigna, perché il bene sottratto ha un valore insignificante. Tale esempio mostra che non sempre un fatto concreto, che formalmente riproduce gli elementi costitutivi di una fattispecie, è anche offensivo del bene giuridico. rea La dottrina si è chiesta se sia ragionevole che il diritto penale intervenga per reprimere un fatto tipico, ma in concreto non offensivo dell’interesse tutelato: una parte ne ha escluso la rilevanza penale in applicazione dell’art. 49 comma 2 c.p. che prevede la non punibilità del reato impossibile per inidoneità dell’azione. Marcello Gallo ha proposto una diversa lettura dell’art. 49 che esclude la punibilità ‘’quando, per la inidoneità dell’azione è impossibile l’evento dannoso o pericoloso’’: il termine azione indica non gli atti diretti alla consumazione del reato, ma l’intero fatto tipico, l’evento dannoso o pericoloso invece va inteso come evento giuridico, ossia come offesa all’interesse tutelato dalla norma incriminatrice. In questa diversa prospettiva la norma prevede la non punibilità del fatto tipico, ma in concreto non offensivo del bene giuridico (c.d. concezione realistica del reato). In tal modo l’art. 49 diventa la base normativa del principio di necessaria offensività del reato (offensività in concreto). Il merito della concezione realistica del reato sta nell’aver garantito una base normativa al principio di necessaria offensività e nell’aver valorizzato il ruolo del bene giuridico nella dinamica punitiva. IL PRINCIPIO DI OFFENSIVITÀ IN GIURISPRUDENZA La Corte costituzionale fa operare l’offensività sia sul terreno della previsione normativa, sia su quello dell’applicazione giudiziale: alle lesione in astratto, intesa quale limite alla discrezionalità del legislatore nell’individuazione di interessi meritevoli di essere tutelati mediante lo strumento penale, fa riscontro il compito del giudice di accertare in concreto, se il comportamento posto in essere lede effettivamente l’interesse tutelato dalla norma. Alla Corte importa mantenere fermo il compito del giudice di assicurare che la norma penale sia applicata solo laddove il fatto concreto sia offensivo del bene giuridico tutelato; la carenza di offensività in concreto, per quanto costituisca un principio di rilevanza costituzionale, non è in grado di radicare una questione di legittimità, essendo un giudizio di merito devoluto al giudice. La questione può invece essere sollevata in relazione al diverso profilo dell’offensività in astratto, ossia quando norme incriminatrici che non tutelano beni giuridici meritevoli di protezione penale, presentano il vizio della manifestata irragionevolezza. Tuttavia, è importante sottolineare l’importanza che la Corte costituzionale riconosce alla stretta connessione tra offensività in astratto ed offensività in concreto, quale strumento di controllo penale. Così il principio di offensività opera su due piani, quello della previsione normativa (sotto forma di precetto rivolto al legislatore di prevedere fattispecie che esprimano in astratto un contenuto lesivo di un bene o interesse oggetto di tutela penale = offensività in astratto) e quello dell’applicazione giurisprudenziale (quale criterio interpretativo applicativo affidato al giudice, tenuto ad accertare che il fatto di reato abbia effettivamente leso o messo in pericolo il bene o l’interesse tutelato. LE IPOTESI DI ESIGUITÀ DEL FATTO Il principio di offensività in concreto consente di escludere la rilevanza penale del fatto nei casi in cui sia del tutto assente l’offesa all’interesse protetto. Può accadere che in concreto il fatto sia offensivo del bene giuridico tutelato, sebbene l’offesa arrecata non sia così grave: si tratta dei c.d. reati bagatellari in concreto (o bagatellari impropri); qui la scarsa significatività non sta nel tipo di bene offeso (come nei reati bagatellari in astratto), ma nell’esiguità dell’offesa in concreto arrecata all’interesse tutelato. Si può allora affermare che l’offesa al bene giuridico non costituisce un elemento rigido che c’è o non c’è, ma è piuttosto un’entità graduale, tanto che si parla di gradualità del reato. Ci si chiede se l’offesa all’interesse tutelato, anche se poco significativa, giustifichi comunque l’intervento penale; a riguardo la giurisprudenza ha cercato di forzare il dettato dell’art. 49 c.p. al fine di farvi rientrare anche i fatti dotati di esiguità offensiva. Il legislatore è intervenuto cercando di limitare l’intervento penale a fronte di fatti scarsamente significativi in ragione dell’irrilevanza dell’offesa arrecata in due settori specifici: reati commessi da minori e reati attribuiti alla competenza del giudice di pace.  L’art. 27 d.p.r. n. 448/1988, che disciplina il processo penale minorile, prevede che il giudice pronunci sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto, ‘’se risulta la tenuità del fatto e l’occasionalità del comportamento (..) quando l’ulteriore corso del procedimento pregiudica le esigenze educative del minorenne’’.  L’art. 34 d.lgs. 274/2000 prevede, in relazione ai reati attribuiti alla competenza penale del giudice di pace, l’esclusione della procedibilità nei casi di particolare tenuità del fatto. Le due norme assicurano il principio di proporzione della sanzione e al contempo assolvono anche una importante funzione deflattiva dei processi penali in un contesto normativo retto dal principio di obbligatorietà dell’azione penale. Il limite di queste due norme sta nella loro settorialità, in quanto la capacità di contribuire a contrarre il ricorso allo strumento penale rispetto a fatti scarsamente significativi è condizionata dalla limitazione ai due ambiti specifici di applicazione, tanto che alcuni progetti di riforma del codice avevano proposto di prevedere una clausola di più ampia portata. Tali sollecitazioni sono state colte dal legislatore con l'introduzione dell'art. 131 bis c.p. introdotto con il d.lgs. 28/2015 che disciplina l’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto: si tratta di una causa di non punibilità che presuppone un fatto tipico e, pertanto, costitutivo di reato, ma da considerare non punibile in ragione del suo tenue disvalore, in linea con i principi di proporzione ed a fini di economia processuale. Il comma 1 dell’art. 131-bis stabilisce che ‘’nei reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel massimo a 5 anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena, la punibilità è esclusa quando, per le modalità della condotta e per l'esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell'art. 133 comma 1 c.p., l'offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale’’. Ciononostante, questa clausola non si applica a tutti i reati, ma solo a quelli per i quali la legge prevede la pena detentiva non superiore nel massimo a 5 anni o la pena pecuniaria: si tratta di una scelta di politica criminale finalizzata a soddisfare esigenze di prevenzione generale. Il giudizio di particolare tenuità del fatto si fonda su due indici costituiti dalla particolare tenuità dell’offesa e dalla non abitualità del comportamento: a) La particolare tenuità dell'offesa va valutata in relazione alle modalità della condotta e all'esiguità del danno o del pericolo e ‘’va presa in considerazione la caratterizzazione del fatto storico nella sua interezza’’. Secondo quanto affermato nel 2016 dalle S.U. è stata esclusa la punibilità per il reato di cui all’art. 639 c.p. in un caso di imbrattamento di un muro posto sulla pubblica via con diverse bombolette spray, in quanto il fatto, anche se astrattamente configurabile come reato, non era punibile in ragione della sua particolare tenuità derivante dalla circostanza che il muro in questione fosse già stato deturpato da altri soggetti ignoti e quindi l'intervento dell'imputato non determinava alcun danno. L’ ART. 131- bis sembra considerare esclusivamente il profilo oggettivo del fatto; in realtà, dato che richiede di valutare gli elementi della particolare tenuità ai sensi dell'art. 133 comma 1 c.p., è possibile desumere da questo rinvio l'importanza anche dell'elemento soggettivo, considerato che tra i criteri indicati dall'art. 133 c.p. vi sono anche l'intensità del dolo ed il grado della colpa. Peraltro, la rilevanza della componente soggettiva del reato si desume anche dall'art. 131 bis comma 2 c.p., che esclude la particolare tenuità dell'offesa ‘’quando l’autore ha agito per motivi abietti o futili, o con crudeltà, anche in danno di animali, oppure ha adoperato sevizie o, ancora, ha approfittato delle condizioni di minorata difesa della vittima, anche in riferimento all'età della stessa ovvero quando la condotta ha cagionato o da essa sono derivate, quali conseguenze non volute, la morte o le lesioni gravissime di una persona’’ b) Per quanto riguarda invece la non abitualità del comportamento, il comma 3 art. 131-bis c.p., stabilisce che il ‘’comportamento è abituale nel caso in cui l'autore sia stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza ovvero abbia commesso più reati della stessa indole, anche se ciascun fatto, isolatamente pensiero pura e semplice, ma quella che per le sue modalità integri un comportamento idoneo a provocare la commissione di delitti”. Il reato di pericolo astratto è stato, così, convertito in via interpretativa in reato di pericolo concreto. CAPITOLO XV- CAUSE DI GIUSTIFICAZIONE Non sempre la realizzazione di un fatto corrispondente alla fattispecie di un reato comporta responsabilità penale per il comportamento posto in essere. In alcune situazioni un fatto, che normalmente costituirebbe un illecito penale, non è considerato tale in quanto ‘’giustificato’’ dall’ordinamento. Le cause di giustificazione (o scriminanti) sono considerate cause di esclusione dell’antigiuridicità, e si fondano su criteri imperniati sul bilanciamento degli interessi contrapposti. È importante distinguere le cause di giustificazione sia dalle scusanti, ovvero le cause di esclusione della colpevolezza per motivi quali il perturbamento psicologico e l’inesigibilità; sia dalle mere cause di non punibilità, ovvero le situazioni nelle quali il legislatore stabilisce la non punibilità di un soggetto per semplici ragioni di opportunità, quali per esempio l’immunità del parlamentare. IL FONDAMENTO DELLE CAUSE DI GIUSTIFICAZIONE Le singole scriminanti individuano situazioni particolari di non punibilità che limitano l’applicazione di norme incriminatrici di portata generale: l’art. 575 c.p. incrimina chi cagiona la morte di un essere umano, ma l’art. 52 c.p. stabilisce la non punibilità degli omicidi realizzati in presenza dei requisiti di legittima difesa. Sul piano formale si può fondare larga parte delle cause di giustificazione sul principio di non contraddizione; come emerge dall’art. 51 c.p., se una norma autorizza o impone una certa condotta, non è possibile ammettere che essa possa dar luogo contraddittoriamente ad una responsabilità penale. Sul piano sostanziale invece, alla base delle principali cause di giustificazione è presente una valutazione dell’ordinamento che risolve ipotesi di conflitto tra interessi contrapposti (es. nella legittima difesa si privilegia l’interesse di chi si difende da un’ingiusta aggressione con relativo sacrificio del bene dell’aggressore colpito dalla reazione). LA DISCIPLINA GENERALE DELLE CAUSE DI GIUSTIFICAZIONE La disciplina delle cause di giustificazione non è delineata in maniera organica dal codice penale, ma è desumibile in parte da principi generali, in parte da disposizioni collocate in settori diversi dal codice. In relazione ai principi generali va sottolineato che le cause di giustificazione devono rispettare il principio di riserva di legge: né la legge regionale né gl’atti dell’esecutivo possono costituire ex novo una causa di giustificazione o modificare l’assetto delle scriminanti. Sempre in conformità ai principi generali va risolto il problema dell’estensione analogica delle cause di giustificazione: in linea teorica è ammissibile un’estensione in via analogica di una causa di giustificazione; il problema, tuttavia, è ridimensionato dalla difficoltà di riscontrare i presupposti dell’analogia. È assai raro individuare uno spazio che consenta un allargamento dell’applicazione delle scriminanti in quanto l’individuazione di una serie di requisiti da parte del legislatore preclude la possibilità di cogliere una ‘’lacuna’’. Un profilo importante di disciplina è costituito dalle disposizioni in tema di errore. L’art. 59 comma 4 c.p. afferma che “se l’agente ritiene per errore che esistano circostanze di esclusione della pena, queste sono sempre valutate a favore di lui. Tuttavia, se si tratta di errore determinato da colpa, la punibilità non è esclusa, quando il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo”. L’errore a cui si riferisce la norma è il c.d. errore di fatto, una non corretta percezione della realtà esterna che genera la convinzione in chi agisce di trovarsi in una situazione che consentirebbe di giustificare il comportamento (es. un soggetto ritiene di essere aggredito e reagisce nei confronti del presunto aggressore credendo di trovarsi in una situazione di legittima difesa). L’art. 59 comma 4 c.p. non riguarda invece l’errore di diritto, che può consistere nell’erronea credenza sull’esistenza di una causa di giustificazione (es. un soggetto è convinto che esista un norma che giustifichi l’eutanasia) o in un errore sui limiti normativi di una causa di giustificazione prevista dall’ordinamento. La supposizione erronea di una causa di una scriminante, disciplinata dall’art.59 c.p., deve essere tenuta distinta dall’eccesso nelle cause di giustificazione. Mentre nel primo caso la scriminante non esiste, in caso di eccesso la causa di giustificazione è ravvisabile ma ne vengono travalicati i limiti. Si distinguono tre forme di eccesso: a. Eccesso doloso: Quando, nel commettere alcuno dei fatti preveduti dagli articoli 51, 52, 53 e 54, si eccedono colposamente i limiti stabiliti dalla legge o dall'ordine dell'Autorità, si applicano le disposizioni concernenti i delitti colposi, se il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo. Per esempio, Tizio viene aggredito con spintoni da Caio (disarmato) durante una discussione al bar e reagisce estraendo una pistola e sparandogli. Tizio ha superato i limiti stabiliti dalla legge e risponderà di omicidio doloso. b. Eccesso colposo: Sempronio è aggredito a mani nude da Caio, e per difendersi lo minaccia con un’arma dalla quale lascia partire inavvertitamente un colpo che causa la morte di Caio. Sempronio sarà imputato per omicidio colposo. c. Eccesso incolpevole: un gioielliere è aggredito da un rapinatore che impugna un’arma giocattolo, ma che nell’ombra sembra un’arma vera; l’aggredito, titolare di porto d’armi, credendo di essere in pericolo di vita, spara ed uccide il rapinatore. Ha ecceduto dai limiti della legittima difesa, ma l’eccesso è dovuto ad un’erronea percezione della realtà a lui non rimproverabile. In questo caso mancano sia il dolo che la colpa, e colui che si è difeso non è punibile. CONSENSO DELL’AVENTE DIRITTO L’art. 50 c.p. dispone che “non è punibile chi lede o pone in pericolo un diritto con il consenso di chi può validamente disporne”. La dottrina si è soffermata a lungo sulla natura giuridica del consenso, chiedendosi se fosse inquadrabile nella categoria del negozio giuridico: in ambito penale il consenso dell’avente diritto costituisce una manifestazione di volontà con la quale il titolare del diritto rinuncia alla tutela dello stesso. Si è soliti individuare la ratio alla base di questa causa di giustificazione nell’interesse mancante, in quanto il consenso alla lesione o alla messa in pericolo del bene farebbe venir meno l’interesse pubblico alla punizione del fatto di reato. In realtà anche questa causa di giustificazione può essere spiegata con il principio del bilanciamento degli interessi in conflitto: la tutela penale del bene e la libertà di autodeterminazione del suo titolare. In alcuni casi il consenso interviene come elemento del fatto tipico, nel senso che la sua presenza esclude in radice l’offesa all’interesse protetto; esso ha invece natura giuridica di causa di giustificazione quando interviene in relazione ad un fatto tipico offensivo del bene giuridico, giustificandone la lesione. La natura giuridica del consenso come causa di esclusione del fatto tipico o come causa di giustificazione dipende dal significato che assume la libertà di autodeterminazione del titolare del bene: se questa è coessenziale allo stesso bene giuridico tutelato, allora, la presenza del consenso esclude fin da subito l’offesa al bene e l’integrazione del fatto tipico; si tratterà, invece, di causa di giustificazione laddove la tutela del bene assuma un significato autonomo rispetto alla libertà di disporne del suo titolare. L’art. 50 c.p. indica in modo sintetico i requisiti della scriminante, limitandosi a richiedere che il soggetto possa disporre validamente del diritto. Sono quindi necessari due elementi: a) deve trattarsi di diritti disponibili; b) devono sussistere le condizioni per la valida rinuncia alla tutela del diritto. Il legislatore non indica quali siano i beni disponibili, pertanto la dottrina indica un criterio generale secondo cui sono disponibili quei beni rimessi all’esclusivo interesse del singolo, che di essi può disporre; sono invece indisponibili quei beni rispetto ai quali prevale l’interesse pubblico alla loro tutela. Sono considerati beni indisponibili l’ordine pubblico; la pubblica amministrazione; l’amministrazione della giustizia; la fede pubblica e la famiglia. Sono invece beni disponibili gli interessi patrimoniali, salvo che la volontà di disporne entri in conflitto con un prevalente interesse pubblico. Sono beni disponibili, ma di cui è discusso il limite della loro disponibilità, i c.d. beni parzialmente disponibili. Cosi, ad esempio, l’integrità fisica, disponibile nei limiti fissati dall’art. 5 c.c., che vieta gli atti di disposizione del proprio corpo quando cagionano una diminuzione permanente dell’integrità fisica o sono altrimenti contrari all’ordine pubblico o al buon costume (eccezioni: donazione di rene l. 458/1967; donazione parziale di fegato l. 483/1999; donazione parziale di polmone e pancreas e intestino l. 167/2012) Quanto al bene vita tradizionalmente se ne desume l’indisponibilità dagli art. 579 (omicidio del consenziente, pena dai 6 ai 15 anni) e 580 (istigazione o aiuto al suicidio, reclusione da 5 a 12 anni) c.p. CONDIZIONI DI VALIDITA’ DEL CONSENSO: • Non deve essere viziato da violenza o da errore; • In presenza di una lesione protratta nel tempo, il consenso dell’avente diritto espresso nel momento iniziale della condotta, deve essere presente per l’intero sviluppo della stessa; • Il soggetto deve avere la capacità di consentire alla lesione del bene: in alcuni casi tale capacità è definita da limiti di età fissati dal legislatore (es. 14 anni in relazione alla libertà sessuale). • In caso di soggetti incapaci di intendere e volere, il consenso può essere prestato dal legale rappresentante (genitori o tutore), salvo che si tratti di beni personalissimi. Il consenso può essere espresso; tacito, quando sia manifestato attraverso atti concludenti; putativo, quando il consenso non è stato dato, ma chi lede il bene ritiene che lo stesso sia stato prestato (in tal caso trova applicazione la disciplina dell’art. 59 ultimo comma c.p. relativa all’erronea supposizione dell’esistenza di una scriminante, che esclude la responsabilità del soggetto per assenza di dolo); o presunto, quando chi lede il bene sa che il consenso non è stato dato, ma presume che lo avrebbe ottenuto, qualora lo avesse richiesto al titolare del bene. CONSENSO INFORMATO E INTERVENTO DEL MEDICO: Un ruolo importante nel sistema penale è costituito dal consenso del paziente agli interventi medici; in tal caso il consenso non opera come scriminante, ma piuttosto costituisce condizione di liceità dell’intervento medico: senza il consenso del paziente il medico non è legittimato ad intervenire. Per operare come condizione di liceità del trattamento medico, il consenso deve essere informato, ossia al paziente devono essere date tutte le informazioni sul tipo di trattamento e sugli effetti dello stesso, affinché possa essere pienamente esercitata la libertà di autodeterminazione in ordine alle proprie cure. La necessità di tale consenso è espressamente prevista dalla Convenzione di Oviedo sui diritti dell’uomo e della biomedicina del 1997, il cui art. 5 prevede che ‘’un trattamento sanitario può essere praticato solo se la persona interessata abbia prestato il proprio consenso libero e informato’’ (ratificata dall’Italia con l. 28 marzo 2001, n. 145). A prescindere dalla Convenzione, la giurisprudenza ha da tempo valorizzato il fondamento costituzionale della libertà di autodeterminazione del paziente in ordine alle cure ed agli interventi medici: tale libertà gode di copertura costituzionale agli artt. 13 e 32 Cost., che sanciscono rispettivamente l’inviolabilità della libertà personale ed il divieto di trattamenti sanitari obbligatori, se non per disposizione di legge e in ogni caso con i limiti imposti dal rispetto della persona umana. Inoltre, la l. 22 dicembre 2017 n. 219 ha previsto che nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge. Il diritto a rifiutare le cure Cass. pen. sez. IV, 27/11/2013, n.2347. La libertà di autodeterminarsi consente «anche di eventualmente rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche quella terminale. Tale conclusione, fondata sul rispetto del diritto del a) «nella parte in cui incrimina le condotte di aiuto al suicidio in alternativa alle condotte di istigazione e, quindi, a prescindere dal loro contributo alla determinazione o al rafforzamento del proposito di suicidio», per ritenuto contrasto con gli artt. 2, 13, primo comma, e 117 della Costituzione, in relazione agli artt. 2 e 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848; b) «nella parte in cui prevede che le condotte di agevolazione dell’esecuzione del suicidio, che non incidano sul percorso deliberativo dell’aspirante suicida, siano sanzionabili con la pena della reclusione da 5 a 10 [recte: 12] anni, senza distinzione rispetto alle condotte di istigazione» per ritenuto contrasto con gli artt. 3, 13, 25, secondo comma, e 27, terzo comma, Cost. Diversamente dal caso Welby, se avessero staccato il respiratore DJ Fabo non sarebbe morto subito, ma a distanza di giorni o settimane, così viene accompagnato in Svizzera con l’aiuto di Cappato. Perché non dichiarare (parzialmente) illegittimo l’art. 580 c.p.? Una simile soluzione lascerebbe del tutto priva di disciplina legale la prestazione di aiuto materiale ai pazienti in tali condizioni, in un ambito ad altissima sensibilità etico-sociale e rispetto al quale vanno con fermezza preclusi tutti i possibili abusi. In assenza di una specifica disciplina della materia, più in particolare, qualsiasi soggetto – anche non esercente una professione sanitaria – potrebbe lecitamente offrire, a casa propria o a domicilio, per spirito filantropico o a pagamento, assistenza al suicidio a pazienti che lo desiderino, senza alcun controllo ex ante sull’effettiva sussistenza, ad esempio, della loro capacità di autodeterminarsi, del carattere libero e informato della scelta da essi espressa e dell’irreversibilità della patologia da cui sono affetti. CORTE COST. 242/2019 Va dichiarata l'illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p., nella parte in cui non esclude la punibilità di chi agevola il proposito di suicidio autonomamente e liberamente formatosi a) Di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale; b) Affetta da una patologia irreversibile fonte di intollerabili sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili; c) Ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli. Le condizioni.. A condizione che l'aiuto sia prestato con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 l. n. 219 del 2017 (consenso in formato e terapia del dolore, anche con sedazione profonda); sempre che le suddette condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, e previo parere del comitato etico territorialmente competente. Queste condizioni procedurali, introdotte con la presente sentenza, valgono esclusivamente per i fatti ad essa successivi e quindi non possono essere richieste per i fatti anteriori. Per questi, occorrerà che l'aiuto al suicidio sia stato prestato con modalità anche diverse da quelle indicate, ma che diano garanzie sostanzialmente ad esse equivalenti; in particolare quanto a verifica medica delle condizioni del paziente richiedente l'aiuto, modi di manifestazione della sua volontà e adeguata informazione sulle possibili alternative. Corte Assise Milano, 30 gennaio 2020, n. 8 Marco Cappato viene assolto perché il fatto non sussiste. Non si tratta di una causa di giustificazione, ma di una riduzione dell’ambito oggettivo della fattispecie. IL CASO DAVIDE TRENTINI Marco Cappato e Mina Welby vengono giudicati dalla Corte d’Assise di Massa, per l’aiuto offerto a Davide Trentini, affetto da una sclerosi multipla che trasformava progressivamente la sua vita in un calvario. MA: non sussisteva in quel caso la dipendenza dai trattamenti di sostegno vitale. Corte Assise Massa 27/07/2020, n. 1 Tanto premesso in fatto, il Collegio ritiene che gli imputati debbano essere assolti dal reato loro ascritto perché il fatto non sussiste quanto alla condotta di rafforzamento del proposito suicidiario di Trentini Davide e perché il fatto non costituisce reato quanto alla condotta di agevolazione dell'esecuzione del suicidio del Trentini. Quindi, con la predetta sentenza, la Corte Costituzionale ha creato una nuova causa di giustificazione in presenza della quale 'agevolazione all'esecuzione del suicidio non è punibile. Da queste motivazioni appare evidente che il requisito in esame (quello della dipendenza del malato da trattamenti di sostegno vitale) è stato enucleato dalla Corte Costituzionale prendendo, come punto di riferimento, la legge 217/19 ed, in particolare, i trattamenti sanitari che detta legge consente al malato di rifiutare. Il riferimento, quindi, è da intendersi fatto a qualsiasi tipo di trattamento sanitario, sia esso realizzato con terapie farmaceutiche o con l'assistenza di personale medico o paramedico o con l'ausilio di macchinari medici. = La dipendenza da “trattamenti di sostegno vitale” non significa necessariamente ed esclusivamente “dipendenza da una macchina”. Ciò che ha rilevanza sono tutti quei trattamenti sanitari – sia di tipo farmaceutico, sia di tipo assistenziale medico o paramedico, sia infine con l'utilizzo di macchinari, compresi la nutrizione e l'idratazione artificiale – senza i quali si viene ad innescare nel malato “un processo di indebolimento delle funzioni organiche il cui esito – non necessariamente rapido – è la morte”. Trentini assumeva dei farmaci che, se sospesi, avrebbero portato alla morte. Ma, in ogni caso, non era in grado di svolgere alcuna funzione da solo, doveva essere aiutato ad evacuare, e quindi si può applicare analogicamente in bonam partem la «scriminante» di cui alla citata sentenza della Corte costituzionale. ‘’Allo stesso modo, la situazione del Trentini era quella di una persona che, per continuare a vivere, dipendeva da un'altra persona che provvedeva ad aiutarlo nel mangiare e nel muoversi anche per andare al bagno o comunque per l'evacuazione delle feci e la minzione (posto che l'evacuazione e la minzione richiedono un anche minimo movimento). Ed il mangiare ed il muoversi anche per l'evacuazione delle feci e la minzione sono evidentemente attività senza le quali non è possibile la vita’’. QUESITO REFERENDARIO: Volete voi che sia abrogato l’art. 579 del codice penale (omicidio del consenziente) approvato con regio decreto 19 ottobre 1930, n. 1398, comma 1 limitatamente alle seguenti parole «la reclusione da sei a quindici anni.»; comma 2 integralmente; comma 3 limitatamente alle seguenti parole «Si applicano»? Chiunque cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui, è punito con la reclusione da sei a quindici anni. Non si applicano le aggravanti indicate nell’articolo 61. Si applicano le disposizioni relative all’omicidio [575-577] se il fatto è commesso: a) contro una persona minore degli anni diciotto; b) contro una persona inferma di mente, o che si trova in condizioni di deficienza psichica, per un’altra infermità o per l’abuso di sostanze alcooliche o stupefacenti; c) contro una persona il cui consenso sia stato dal colpevole estorto con violenza, minaccia o suggestione, ovvero carpito con inganno. Questo quesito è tuttavia anticostituzionale poiché, se venisse approvato, nell’omicidio del consenziente non vi sarebbe nessun criterio. L’ADEMPIMENTO DI UN DOVERE La scriminante dell’adempimento del dovere è classica espressione del principio di non contraddizione. L’ordinamento non può imporre, da un lato, di tenere un certo comportamento e, dall’altro, incriminare tale condotta. L’adempimento di un dovere può derivare: a) da una norma giuridica; b) da un ordine dell’Autorità. L’adempimento del dovere individuato da una norma giuridica non appare problematico, tanto che numerosi ordinamenti non avvertono l’esigenza di evocarlo nel quadro delle cause di giustificazione. Si tratta di interpretare attentamente la norma che impone il dovere di agire: se l’attività è espressamente imposta, la norma che delinea il reato soccombe di fronte alla disposizione che stabilisce l’attività doverosa in quanto norma generale che è derogata dalla norma speciale. Più complessa è la disciplina dell’adempimento del dovere derivante da un ordine dell’autorità. In primo luogo occorre sottolineare che il codice penale limita la causa di giustificazione agli ordini emanati da pubblica autorità; restano pertanto privi di efficacia scriminante gli ordini impartiti da un’autorità privata (per es. il padre che ordina al figlio di commettere un reato). Quando l’ordine proviene dalla pubblica autorità è necessario distinguere a seconda che l’ordine sia legittimo o illegittimo. L’art.51 c.p. riconosce in via generale efficacia scriminante solo agli ordini legittimi. Attengono alla legittimità sia profili formali sia profili sostanziali: l’ordine è legittimo se l’ordinamento consente al soggetto di imporre a soggetti gerarchicamente sottordinati determinati comportamenti astrattamente configurabili come reato. Se l’ordine è legittimo, chi lo esegue, ovviamente, non risponde del fatto commesso e altrettanto non risponde il soggetto che ha impartito l’ordine. In caso di ordine illegittimo, invece, risponde del reato sia il superiore gerarchico che con l’ordine ha istigato alla commissione di un reato, ma anche l’esecutore; l’unica possibilità per l’esecutore di sottrarsi alla responsabilità è quella ex art. 51 comma 3 c.p. con riferimento alla disciplina dell’errore: se il subordinato ritiene di eseguire un ordine legittimo incorre in un errore sull’esistenza delle cause di giustificazione che esclude il dolo (deve trattarsi di errore di fatto che faccia ritenere all’esecutore di adempiere ad un ordine che sarebbe legittimo se il contesto fattuale corrispondesse a quanto il soggetto si è rappresentato). Al principio dell’inefficacia scriminante dell’ordine illegittimo, l’ultimo comma dell’art. 51 c.p. prevede una deroga: “non è punibile chi esegue l’ordine illegittimo, quando la legge non gli consente alcun sindacato sulla legittimità dell’ordine”. Si tratta dei c.d. ordini illegittimi vincolanti: esistono settori della Pubblica Amministrazione in cui l’ordinamento impone al subordinato di eseguire comunque l’ordine impartito dal superiore: del reato scaturente dall’ordine illegittimo vincolante risponde esclusivamente il soggetto gerarchicamente sovraordinato. L’ESERCIZIO DI UN DIRITTO Anche il riconoscimento esplicito dell’efficacia scriminante dell’esercizio di un diritto trova giustificazione alla luce del principio di non contraddizione: l’ordinamento giuridico non può, dopo aver riconosciuto ad un soggetto il diritto di tenere una determinata condotta, minacciare con la sanzione penale chi realizza tale condotta. Si ritiene che l’art. 51 c.p. faccia riferimento non solo ai diritti soggettivi in senso stretto, ma a qualsiasi situazione giuridica soggettiva che consenta ad una persona di realizzare un comportamento che astrattamente corrisponde ad una fattispecie incriminatrice: ad es. l’art. 383 c.p.p. consente a qualsiasi soggetto di arrestare in flagranza l’autore di delitti perseguibili d’ufficio. In molti casi però occorre identificare i limiti entro cui un diritto deve essere esercitato, e ciò comporta la ricerca di un punto di equilibrio tra diritti in conflitto. praticabili condotte alternative lecite o meno lesive e che, con riferimento, in particolare, alle aggressioni a beni, ricorra altresì un pericolo di aggressione personale. = L’uso di un’arma può dirsi reazione sempre proporzionata nei confronti di chi si sia illecitamente introdotto, o illecitamente si trattenga, all'interno del domicilio o dei luoghi a questo equiparati, nei quali il legislatore ha ritenuto maggiormente avvertita l'esigenza dell'autodifesa, a condizione che: a. il pericolo di offesa sia attuale; b. l'impiego dell'arma, quale in concreto avvenuto, sia necessario a difendere l'incolumità propria o altrui, ovvero i beni; c. non siano praticabili altre condotte alternative lecite o meno lesive; d. con specifico riferimento alle aggressioni a beni patrimoniali, ricorra un pericolo di aggressione personale. LO STATO DI NECESSITÀ Secondo l’ART. 54 c.p. ‘’non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo”. Lo stato di necessità non può essere invocato da chi ha un particolare dovere giuridico di esporsi al pericolo: alcune categorie di soggetti, che professionalmente sono chiamate a fronteggiare determinati pericoli, non possono farsi scudo dell’art. 54 c.p. Il limite vale in relazione ai pericoli che specificamente devono essere affrontati, ad es. un vigile del fuoco non può sottrarsi a spese di terzi dal pericolo derivante da un incendio, ma in caso di naufragio di crociera è da considerarsi un normale passeggiero. Il pericolo può derivare da fattori naturali o da comportamenti umani, ma deve essere attuale (=difesa legittima); non volontariamente causato (≠ legittima difesa); non altrimenti evitabile (≠ legittima difesa, mentre nella legittima difesa il requisito nell’inevitabilità non compare, nell’art. 54 c.p. il riferimento è chiaro: se vi sono più alternative per sfuggire al pericolo, non si deve coinvolgere il terzo estraneo); e deve comportare il rischio di un danno grave alla persona. Infatti, mentre la legittima difesa può essere invocata per proteggere qualsiasi diritto (quindi anche beni patrimoniali), nello stato di necessità il pericolo deve investire beni inerenti la persona. Il requisito della proporzione coincide con quanto previsto per la legittima difesa, ma nello stato di necessità viene accertato con maggior rigore in quanto la reazione avviene nei confronti di un terzo innocente. Inoltre, mentre un fatto commesso per legittima difesa non solo non è punibile, ma neppure dà luogo ad alcuna conseguenza sul piano civilistico, un comportamento scriminato dello stato di necessità obbliga a corrispondere un equo indennizzo secondo quanto stabilito ex art. 2045 c.c. Cassazione penale, sez. V, 23/03/2005, n. 16012 Ai fini della configurabilità dell'esimente dello stato di necessità (art. 54 c.p.), il pericolo che ne costituisce il presupposto non deve essere cagionato dal soggetto che compie l'intervento necessitato e, quindi, deve essere indipendente dalla volontà dell'agente, con la conseguenza che questi non deve avere volontariamente o colposamente determinato la situazione pericolosa. Non sussistono, pertanto, gli estremi della causa di giustificazione di cui all'art. 54 c.p., allorché la situazione di pericolo per l'integrità fisica dell'imputato sia derivata dalla scelta di compiere un furto e sia, pertanto, riconducibile alla stessa condotta illecita dell'agente che abbia provocato la reazione (nella specie, del proprietario del veicolo di cui era stata tentata la sottrazione). Cassazione penale, sez. IV, 05/03/2009, n. 23603 Il conducente di un veicolo che si venga a trovare senza sua colpa in una situazione di pericolo per un fatto improvviso altrui, non risponde a titolo di colpa per non avere saputo scegliere la manovra di emergenza più appropriata al fine di evitare l'incidente, potendosi in tal caso invocare la scriminante dello stato di necessità. LA CRISI ECONOMICA.. Trova applicazione la causa di giustificazione dello stato di necessità, di cui all'art. 54 c.p., nel caso in cui l'agente abbia rubato dei beni alimentari di modico valore, atteso che la necessità di salvare sé da un pericolo attuale di un danno grave può essere identificata nella realizzazione del bisogno primario, costituzionalmente garantito, di nutrirsi (nella specie, il tribunale ha osservato come la natura sia dei beni oggetto di regolare acquisto banane - che di quelli oggetto di occultamento - due pezzi di formaggio parmigiano consentano di ritenere che si trattasse di beni destinati al soddisfacimento della primaria esigenza di nutrirsi, e ancorché tale comportamento possa integrare un illecito penalmente rilevante, nondimeno trova applicazione il disposto di cui all'art. 54 c.p.). Tribunale Monza, 02/07/2013 Cassazione penale, sez. V, 07/01/2016, n. 18248 Non è punibile per il reato di furto chi per l'imprescindibile esigenza di alimentarsi, senza fissa dimora e senza occupazione, tenti di occultare e sottrarre da un supermercato piccole quantità di generi alimentari di esiguo valore, essendo ravvisabile la scriminante dello stato di necessità di cui all'art. 54 c.p. (nel caso di specie: due porzioni di formaggio ed una confezione di wurstel). Cassazione penale, sez. IV, 19/01/2017, n. 6635 In tema di furto, la situazione di indigenza non è di per sé idonea ad integrare la scriminante dello stato di necessità per difetto degli elementi dell'attualità e dell'inevitabilità del pericolo, atteso che alle esigenze delle persone che versano in tale stato è possibile provvedere per mezzo degli istituti di assistenza sociale (fattispecie relativa al furto di sei pezzi di parmigiano). Cassazione penale sez. V, 23/09/2019, n. 11289 La causa di giustificazione dello stato di necessità deve essere ricollegabile ad un bisogno impellente, e dunque a una sottrazione minimale, esigua, destinata ad una immediata soddisfazione dell'esigenza alimentare (ipotesi relativa al furto di generi alimentari per un valore di trenta euro). Il caso Mastrogiovanni Cass. penale sez. V, 20/06/2018, n. 50497 Ai fini della sussistenza dello stato di necessità, idoneo a escludere la responsabilità per il delitto di sequestro di persona in capo ai medici e agli infermieri che abbiano posto o mantenuto un paziente psichiatrico in regime di contenzione, occorre accertare in modo rigoroso che: 1) la contenzione non sia stata applicata in via precauzionale; 2) gli imputati abbiano monitorato costantemente il paziente, dando conto in modo fedele delle sue condizioni nella cartella clinica; 3) non fosse possibile salvaguardare la salute del paziente con metodi alternativi; 4) detto presidio sia stato applicato nei limiti dello stretto necessario, verificando se fosse sufficiente il blocco di alcuni arti. DIRITTO ALL’ABITAZIONE ‘’L'illecita occupazione di un bene immobile è scriminata dallo stato di necessità conseguente al danno grave alla persona, che ben può consistere anche nella compromissione del diritto di abitazione ovvero di altri diritti fondamentali della persona riconosciuti e garantiti dall'art. 2 cost., sempre che ricorrano, per tutto il tempo dell'illecita occupazione, gli altri elementi costitutivi della scriminante, quali l'assoluta necessità della condotta e l'inevitabilità del pericolo’’. ‘’L'occupazione arbitraria di un immobile rientra nella previsione dell'art. 54 c.p. solo se ricorra il pericolo attuale di un danno grave alla persona, non coincidendo la scriminante dello stato di necessità con l'esigenza dell'agente di reperire un alloggio e risolvere i propri problemi abitativi. L'attualità del pericolo esclude, in linea di massima, tutte quelle situazioni di pericolo non contingenti caratterizzate da una sorta di cronicità essendo datate e destinate a protrarsi nel tempo’’ DIRITTO AL LAVORO In tema di favoreggiamento personale, la causa di esclusione della punibilità prevista per chi ha commesso il fatto per essere stato costretto dalla necessità di salvare se stesso o un prossimo congiunto da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell'onore opera anche nelle ipotesi in cui il soggetto agente abbia reso mendaci dichiarazioni per evitare un'accusa penale nei suoi confronti, ovvero per il timore di essere licenziato e perdere il proprio posto di lavoro, tutelando in tal modo l'esercizio sia del diritto di difesa che del diritto al lavoro, quali manifestazioni della libertà personale di ciascun individuo. (Fattispecie relativa a mendaci informazioni rese dai lavoratori di un'impresa edile nell'ambito di un procedimento penale per violazione di norme antinfortunistiche a seguito di un incidente sul lavoro patito da un operaio straniero). L’USO LEGITTIMO DELLE ARMI L’art. 53 c.p. delinea una scriminante propria che si riferisce in generale ai pubblici ufficiali; i soggetti non qualificati possono fruirne solo alle condizioni previste dal comma 2 (‘’persona che, legalmente richiesta dal pubblico ufficiale, gli presti assistenza’’). L’utilizzo di armi e altri mezzi di coazione fisica è legittimo in presenza di alcuni requisiti: a) al fine di adempiere ad un dovere del proprio ufficio (non per finalità private quindi); b) per respingere una violenza o vincere una resistenza all’Autorità per adempiere alla funzione o, in alternativa, per impedire la consumazione di alcuni reati elencati dal comma 1 dell’art. 53. LE SCRIMINANTI NON CODIFICATE L’esistenza di cause di giustificazione ulteriori rispetto a quelle previste dal legislatore viene oggi negata dalla dottrina prevalente. È inoltre opinione comune che la teorizzazione di scriminanti non codificate sia spesso un’operazione inutile: le situazioni più significative e dotate di fondamento giustificativo ragionevole sono comunque riconducibili alle cause di giustificazione codificate. CAPITOLO XVI- IL PRINCIPIO DI COLPEVOLEZZA IL CONSOLIDAMENTO DEL PRINCIPIO DI COLPEVOLEZZA PER IL FATTO Accertato che un fatto storico corrisponde ad una fattispecie incriminatrice in tutti i suoi elementi costitutivi, occorre compiere un terzo passaggio, consistente nel verificare se quel fatto è soggettivamente riconducibile e rimproverabile all’agente. La riconducibilità soggettiva e la rimproverabilità (ovvero la commissione con dolo o colpa) del fatto al suo autore sono imposti, nel nostro sistema penale, dal principio di colpevolezza. Affermatosi a partire dall’illuminismo, questo principio impedisce, in primo luogo, di punire un soggetto per fatto altrui, come era invece possibile nell’Ancien régime, ove alcune sanzioni coinvolgevano tutti i membri famigliari del condannato (e, pertanto, anche soggetti del tutto incolpevoli). Attualmente, il principio di colpevolezza non solo impedisce la responsabilità penale per fatto altrui, ma impone di punire solo quando il soggetto abbia agito con dolo o colpa, cioè quando il fatto sia concretamente rimproverabile. Colpevolezza per il fatto VS colpa d’autore: devono essere respinte tutte quelle tendenze a declinare il giudizio di colpevolezza non sul fatto storico, ma sulla personalità dell’autore, intesa sia come colpa per il carattere (incapacità di controllare le pulsioni aggressive, che rendono ‘’malvagio’’ l’uomo, che per la condotta di vita. In epoca meno recente era diffusa una concezione c.d. ‘’psicologica’’ della colpevolezza, intesa quale relazione (di tipo psicologico) tra fatto e autore: il rapporto tra fatto autore poteva manifestarsi nella forma del dolo o della colpa. Tale teoria tuttavia è stata oggetto di critiche, innanzitutto per la difficoltà di ricondurre la c.d. colpa incosciente (negligenza) ad un paradigma psicologico comune con il dolo e con la colpa con previsione. Inoltre, con il passaggio ai sistemi penali contemporanei, fondati sul rispetto dei principi di legalità e materialità, si è progressivamente imposta una diversa idea di colpevolezza, nota come colpevolezza normativa, quale mero giudizio di rimproverabilità  Scusanti: situazioni che l’ordinamento decide di non punire perché il soggetto si trova in uno stato di perturbamento psicologico tale da rendere assolutamente inesigibile il rispetto della norma che prevede e punisce la falsa testimonianza. CAPITOLO XVII – IL DOLO L’ELEMENTO SOGGETTIVO NEI DELITTI E NELLE CONTRAVVENZIONI Il dolo costituisce la più grave forma di imputazione soggettiva: compiere un fatto volontariamente rende più pesante la responsabilità rispetto a chi abbia agito per negligenza o scarsa attenzione ad una regola cautelare. Nel sistema penale, il dolo costituisce la forma ordinaria di responsabilità colpevole per i delitti. Solo eccezionalmente, e a seguito di esplicita previsione normativa, questa categoria di reati è punita a titolo di colpa o di preterintenzione. In particolare, delitti colposi sono previsti in materia di tutela dell’integrità fisica e della vita e nel titolo dei delitti contro l’incolumità pubblica (es. delitti di incendio, disastro) che costituiscono un’anticipazione della tutela all’incolumità individuale. Per quanto riguarda le contravvenzioni, ciascuno risponde della propria condotta cosciente e volontaria, sia essa dolosa che colposa. Ciò significa che è indifferente che il fatto sia stato commesso con dolo o colpa. ART. 43 C.P. «Il delitto: E’ doloso, o secondo l'intenzione, quando l'evento dannoso o pericoloso, che è il risultato dell'azione od omissione e da cui la legge fa dipendere l'esistenza del delitto, è dall'agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione; E' preterintenzionale, o oltre l'intenzione, quando dall'azione od omissione deriva un evento dannoso o pericoloso più grave di quello voluto dall'agente; E’ colposo, o contro l'intenzione, quando l'evento, anche se preveduto, non è voluto dall'agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline. La distinzione tra reato doloso e reato colposo, stabilita da questo articolo per i delitti, si applica altresì alle contravvenzioni, ogni qualvolta per queste la legge penale faccia dipendere da tale distinzione un qualsiasi effetto giuridico. ». STRUTTURA ED OGGETTO DEL DOLO L’art. 43 comma 1 c.p. contiene una riferimento unicamente all’evento, conseguenza della condotta dell’agente, dal quale la legge fa discendere l’esistenza del reato, cioè il c.d. evento naturalistico. Tuttavia, vi sono delitti di mera condotta che prescindono dalla realizzazione di un evento naturalistico. Se si dovesse prendere alla lettera la definizione dell’art. 43 comma 1 c.p., si dovrebbe ritenere incompatibile l’imputazione dolosa con i delitti senza evento. Per uscire da questa apparente incertezza, si ritiene che l’oggetto del dolo non vada ricercato unicamente nella norma in questione; l’art. 43 infatti ci dice che l’evento deve essere dall’agente rappresentato e voluto, ma non esaurisce l’oggetto del dolo, che si ricava da altre due norme del codice: ART. 47 e ART.59 c.p.. Queste norme sono dettate in materia di errore, e prevedono che l’erronea rappresentazione di uno degli elementi della fattispecie incriminatrice (art. 47) o di una causa di giustificazione (art. 59) escludano la punibilità dell’agente, proprio per mancanza di dolo. Pertanto gli artt. 43, 47 e 59 c.p., consentono di ricomprendere nell’oggetto del dolo di un determinato delitto tutti gli elementi che, in positivo o in negativo, ne definiscono la fattispecie (equivale a dire che l’oggetto del dolo è costituito dal fatto tipico, conforme ad una fattispecie astratta di delitto). Vi è una ipotesi di errore che non esclude il dolo: si tratta dell’errore sull’identità della persona offesa ex art. 60 c.p.: se Tizio crede di sparare a Caio, amante della moglie ma, scambia un passante per la vittima designata e lo uccide, Tizio risponde di delitto doloso. ELEMENTO RAPPRESENTATIVO DEL DOLO Tutti gli elementi, sia descrittivi che normativi, del fatto, devono essere oggetto di rappresentazione (presupposti condotta, condotta, evento naturalistico, qualifiche soggettive del reo). Inoltre, va chiarito che la rappresentazione della derivazione causale dell’evento stesso della propria condotta non viene meno, per un qualche decorso causale anomalo. Se, pertanto, Tizio istiga Caio perché uccida sua moglie dietro compenso in denaro, e gli fornisce una pistola, l’elemento del dolo non verrà meno se la donna verrà uccisa con un coltello. Ciò che conta è che il soggetto potesse rappresentarsi il decorso causale nei suoi tratti essenziali, e non anche nei concreti dettagli del caso. Nelle condotte omissive proprie l’agente deve rappresentarsi la situazione tipica descritta dalla norma; il termine per adempiere; e la possibilità di agire. Nei reati omissivi impropri invece, sono oggetto di rappresentazione la possibilità di agire; la posizione di garanzia rivestita rispetto al bene tutelato; e l’azione impeditiva dell’evento. ELEMENTO VOLITIVO DEL DOLO Due diverse opinioni 1. Teoria della rappresentazione (teoria più datata): l’oggetto di volizione può essere solo la condotta. Ciascuno di noi, infatti, può letteralmente volere solo i propri movimenti corporei, mentre le conseguenze dei nostri atti possono essere, al più rappresentate e auspicate, ma non volute. 2. Teoria della volontà: le conseguenze dei comportamenti umani, sia quando intenzionalmente prodotte, che quando rappresentate come certe, o anche solo possibili, ma delle quali si accetta il rischio della verificazione, sono accettate dalla volontà umana, e pertanto, volute. Questa seconda impostazione fa rientrare nell’oggetto della volizione tutti gli elementi del fatto tipico, con esclusione dei presupposti della condotta e delle qualifiche personali che, essendo per definizione previe all’agire umano, non possono mai essere oggetto di volizione, ma solo di conoscenza, cioè di rappresentazione. Se è vero che tutti gli elementi del fatto devono essere oggetto di volizione, non si può dimenticare che il momento nel quale valutare la presenza del dolo è proprio la condotta. Si dice che il dolo deve essere concomitante alla condotta. Non rileva pertanto, il dolo antecedente: ad es. Tizio vuole uccidere la fidanzata e la sta conducendo, in auto, sul luogo del delitto ma durante il percorso, a causa della velocità, si verifica un incidente e la ragazza perde la vita per le ferite riportate: omicidio colposo e non doloso. Non rileva il dolo susseguente: ad es. se Caio porta a casa un ombrello simile al suo, prelevato dal portaombrelli del ristorante nel quale ha cenato, e giunto a casa, accortosi dell’errore, si tiene l’oggetto altrui: non vi è alcun reato perché manca il dolo al momento dell’impossessamento. Non rileva il c.d. dolus generalis, cioè quella situazione in cui l’agente si rappresenta e vuole l’evento naturalistico, ma in termini astratti e generici, senza che l’atteggiamento psicologico sia rivolto a tutti gli elementi concreti del fatto storico. Ad es. se Sempronio ferisce a bastonate la vittima e poi, credendola morta, le dà fuoco, ma la perizia accerta che essa è morta per soffocamento da fumo e fiamme, Sempronio non risponderà per omicidio doloso, perché manca il dolo al momento nel quale si cagiona la morte, ma risponde per tentato omicidio e omicidio colposo. LA COSCIENZA DELL’OFFESA COME ELEMENTO DEL DOLO L’oggetto del dolo si esaurisce nella rappresentazione e nella volizione di tutti gli elementi del fatto tipico o deve essere arricchito anche dalla c.d. coscienza dell’offesa all’interesse tutelato? Anzitutto occorre precisare che il disposto dell’art. 5 c.p., in materia di irrilevanza dell’ignoranza della legge penale, impediva di attribuire qualsiasi peso alla coscienza dell’illiceità penale quale elemento costitutivo del dolo. In tal senso, negli anni precedenti la sentenza della Corte cost. 364/1988 sull’art. 5 c.p. la cassazione aveva più volte ribadito che la coscienza dell’offesa non poteva in alcun modo rientrare nell’oggetto del dolo, auspicando una modifica del principio di irrilevanza dell’ignoranza della legge penale, proprio per conferire dignità alla consapevolezza dell’offesa. Attualmente, in virtù della sentenza, l’ignoranza inevitabile della legge penale esclude la colpevolezza dell’agente, la consapevolezza della illiceità penale continua ad essere esclusa dall’oggetto del dolo, ma non dovrà essere punito chi tale consapevolezza non potesse assolutamente avere. Dolo e consapevolezza del carattere antisociale del fatto: diversa è invece la questione per quanto attiene alla consapevolezza del carattere antisociale del fatto, cioè alla coscienza che il proprio comportamento si pone in contrasto con i valori fondamentali della società civile, in un determinato momento storico, in quanto offende un bene o un interesse rilevante e meritevole di protezione. Il tentativo di arricchire l’oggetto del dolo con la consapevolezza dell’offesa si presta ad un’obiezione fondamentale: non sempre, infatti, all’illeceità penale è presupposta una violazione dei valori fondamentali, ed anzi ciò, che può valere per i c.d. delitti naturali (omicidio, furto, corruzione, ecc..) è escluso con riferimento ai c.d. reati di pura creazione legislativa (alcune ipotesi in materia societaria, fiscale e molte contravvenzioni), ove è spesso molto difficile cogliere il carattere antisociale del fatto. Dolo e coscienza dell’offesa: escluso che illeceità penale o carattere antisociale del fatto possano arricchire l’oggetto del dolo, si dovrebbe comunque ammettere che la coscienza dell’offesa all’interesse tutelato vada adeguatamente valorizzata. Le poche affermazioni in tal senso da parte della giurisprudenza di legittimità, appaiono prive di reale rilevanza, esse, cioè, non attengono a situazioni ove, accertata la mancanza della consapevolezza dell’offesa, si è pervenuti ad una sentenza assolutoria per mancanza di dolo. È il caso della rilevanza penale dell’esposizione del seno nudo femminile nelle zone balneari. A partire dagli anni ‘80 la giurisprudenza ha ritenuto penalmente irrilevante questo comportamento, che sino ad allora integrava la contravvenzione di atti contrari alla pubblica decenza. È vero che l’irrilevanza penale del comportamento descritto viene motivato sulla base del mutamento del concetto di decenza, ma è anche vero che, soggettivamente, le centinaia di donne che mostrano il seno sono convinte di non offendere alcun interesse meritevole di tutela, e pertanto un’eventuale esposizione del corpo nudo su una spiaggia potrebbe essere ritenuto non punibile, per mancanza di dolo, se compiuto da un bagnante che proviene da una cultura nella quale il nudismo non è offensivo di alcun bene o interesse. LE FORME DEL DOLO  Dolo generico: la rappresentazione e volontà di commettere un fatto che coincide in tutti i suoi elementi con una fattispecie incriminatrice.  Dolo specifico: tra gli elementi di fattispecie compare una particolare finalità che deve muovere l’agente (al fine di, con il solo scopo di), anche se questo non è realizzato. In questi casi, perché sia integrato l’elemento soggettivo La seconda forma di responsabilità colpevole è costituita dalla colpa, cioè dalla causazione di un fatto vietato dalla legge penale per violazione di regole cautelari, codificate o meno. Proprio per questa sua natura, l’illecito colposo assume gravità decisamente minore, rispetto a quello doloso. La regola generale dettata per i delitti dall’art.42 c.p. prevede che la punibilità a titolo di colpa necessiti di un’esplicita previsione normativa, in assenza della quale il fatto potrà essere sanzionato solo se commesso con dolo. In tal senso, le fattispecie delittuose colpose sono infinitamente meno numerose rispetto alle ipotesi dolose, ma rivestono grande importanza dal punto di vista pratico, cioè la maggior parte dei processi con riferimento alla tutela della vita, della salute o dell’integrità fisica, giudica di fatti colposi. L’art. 43 c.p. definisce come colposo “il delitto quando l’evento, anche se preveduto, non è voluto dall’agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia o per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline”. Questa definizione è insufficiente a descrivere il contenuto reale dell’imputazione colposa e, così come per il dolo, dev’essere integrata dagli art. 55 e 59, che consentono di affermare che la definizione di colpa deve abbracciare tutti gli elementi costitutivi del fatto tipico. GLI ELEMENTI DELLA COLPA Dalla definizione dell’art.43 è possibile individuare 3 elementi costitutivi della colpa: 1. L’elemento negativo della mancanza di volontà del fatto (l’evento non è voluto dall’agente) 2. L’elemento oggettivo positivo dell’inosservanza di regole cautelari (negligenza o imprudenza o imperizia o per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline) 3. L’evitabilità dell’evento, cioè il nesso di derivazione tra colpa ed evento, dal momento che quest’ultimo si deve verificare ‘’a causa di’’ una violazione di una regola cautelare. Infine, un quarto elemento ricavato in via interpretativa da parte della dottrina è dato dalla c.d. doppia misura della colpa, della sua misura soggettiva, cioè dall’elemento della esigibilità del rispetto delle regole cautelari nel caso concreto. MANCANZA DI VOLONTÀ DEL FATTO (1) Questo primo elemento richiesto ex art. 43 c.p. consente di distinguere il dolo dalla colpa. La mancanza di volontà non va limitata all’evento del delitto, ma può concernere qualsiasi altro elemento del fatto tipico, dal momento che, ai sensi dell’art. 59 c.p., il soggetto che crede per errore (dovuto a colpa) di essere aggredito, risponderà delle lesioni provocate al presunto aggressore a titolo di colpa, anche se egli vuole l’evento, ma non si rappresenta l’antigiuridicità del suo agire. La mancanza di volontà del fatto non esclude, però, che l’agente, nel delitto colposo, possa prevedere l’evento. In tal senso milita la previsione di cui all’art. 43 c.p., secondo la quale il delitto è colposo quando l’evento “anche se preveduto”, non è voluto. Vi possono, pertanto, essere ipotesi di colpa cosciente, nelle quali il soggetto si rappresenta come possibile la verificazione del fatto tipico, ma si deve trattare di una rappresentazione a contenuto negativo. Egli, cioè, deve escludere che il fatto si verificherà (es. risponde a titolo di colpa cosciente l’esperto autista che viola i limiti di velocità per portare in tempo un cliente all’aeroporto, ma investe un pedone e lo uccide). VIOLAZIONE DI REGOLE CAUTELARI: COLPA GENERICA E COLPA SPECIFICA (2) L’essenza della colpa penale è costituita dalla violazione di una o più regole cautelari. A riguardo, l’art. 43 distingue due diverse ipotesi, a seconda che si tratti di imprudenza, imperizia, negligenza o di violazione di leggi, ordini, regolamenti e discipline: a) Colpa generica: vi è una violazione di norme di prudenza, perizia ed attenzione non scritte, ma derivanti da fonti sociali delle quali l’ordinamento pretende il rispetto da parte di tutti i cittadini, es. il genitore non deve lasciare solo nella vasca il bambino di tenera età, perché questi potrebbe affogare. La colpa generica consiste in un atteggiamento negligente, imprudente o imperito (chi agisce senza preparazione adeguata). La regola cautelare violata, non scritta, deve essere individuata in concreto dal giudice sulla base di fonti sociali che hanno cristallizzato dei verosimili e condivisibili giudizi di prevedibilità ed evitabilità dell’evento che, ripetuti nel tempo, consolidano la fonte stessa. I due parametri alla stregua dei quali valutare se l’evento è stato causato da negligenza, imprudenza o imperizia sono, infatti, la prevedibilità e l’evitabilità dell’evento. Per ancorare il giudizio di prevedibilità ed evitabilità dell’evento a parametri solidi e certi, si sono proposti alcuni criteri. Innanzitutto, è da escludere come assolutamente insufficiente ed inadeguato il richiamo alla prassi, secondo il quale non sarebbe prevedibile ed evitabile tutto ciò che è causato da condotte (pur negligenti) diffuse nella prassi. Es. probabilmente la maggior parte degli italiani non controlla ogni mese, come indicano le case costruttrici, se il c.d. salva vita del proprio impianto elettrico funziona correttamente, ma questa diffusa e negligente prassi non rende imprevedibile la morte di un familiare che utilizzi un elettrodomestico e muoia a causa del malfunzionamento dell’interruttore di sicurezza, non correttamente mantenuto. Neppure può apparire appagante la scelta di rifarsi al c.d. uomo medio: sarebbe prevedibile ciò che un soggetto medio, né troppo accorto né troppo corrivo, sarebbe in grado di rappresentarsi come possibile. Una scelta in tal senso infatti, finirebbe per abbassare indebitamente lo standard di rispetto delle regole cautelari. Pertanto, si ritiene che la prevedibilità ed evitabilità dell’evento vadano parametrate sul c.d. agente modello, cioè il soggetti che, svolgendo quel tipo di attività, utilizza tutte le cautele possibili, ovvero tutte le cautele che l’ordinamento giuridico può legittimamente aspettarsi e pretendere dai cittadini, in quelle medesime circostanze. Cass., sez. IV, 28 aprile 2016, n. 39028. «In tema di reati colposi, per configurare l'elemento soggettivo della colpa per violazione di una regola precauzionale è necessario sussista la prevedibilità ed evitabilità dell'evento, da valutarsi alla stregua dell'agente modello razionale, tenuto conto delle circostanze del caso concreto conosciute o conoscibili dall'agente reale. In particolare, con specifico riferimento alla verifica della prevedibilità dell'evento, si impone il vaglio delle possibili conseguenze di una determinata condotta commissiva od omissiva avendo presente il cosiddetto "modello d'agente" ossia il modello dell'uomo che svolge paradigmaticamente una determinata attività, che importa l'assunzione di certe responsabilità, nella comunità, la quale esige che l'operatore concreto si ispiri a quel modello e faccia tutto ciò che da questo ci si aspetta». Cassazione penale sez. IV, 06/03/2019, n.20270 In tema di colpa, la valutazione in ordine alla prevedibilità dell'evento va compiuta avendo riguardo anche alla concreta capacità dell'agente di uniformarsi alla regola cautelare in ragione delle sue specifiche qualità personali, in relazione alle quali va individuata la specifica classe di agente modello di riferimento. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto esente da censure la sentenza di condanna del medico specializzando in fase avanzata che, per imperizia grave nella gestione della terapia di una paziente oncologica, aveva trascritto nel foglio di prescrizione interna un medicinale in quantità errata cagionandone il decesso) b) Colpa specifica: attiene a regole cautelari, individuate e scritte, ad es. quelle in materia di circolazione stradale non consentono al singolo automobilista di decidere a suo piacimento a quale andatura andare ma stabiliscono i limiti di velocità consentiti. Il rispetto della regola scritta deve esaurire la misura della diligenza nel caso concreto. Nella colpa specifica, il giudizio sulla prevedibilità dell’evento viene compiuta dalla fonte che pone la regola cautelare. Le regole cautelari possono avere un contenuto molto dettagliato e specifico, oppure possono imporre comportamenti descritti in termini generici: nel primo caso le norme cautelari si definiscono rigide, nel secondo, elastiche. Nel nostro ordinamento si registra un forte incremento delle ipotesi di colpa specifica, dal momento che il progresso tecnologico, e la conseguente proliferazione di attività pericolose, induce sempre più di frequente il legislatore a positivizzare le regole cautelari. Questo meccanismo, se da un lato offre significativi vantaggi sotto il profilo del rispetto del principio di legalità, d’altro canto può portare ad indebite ipotesi di responsabilità oggettiva occulte, tutte le volte in cui il fatto si verifichi per caso fortuito. Per scongiurare tale esito occorre sempre dare rilievo centrale alla evitabilità dell’evento, cioè domandarsi se il rispetto della regola cautelare avrebbe evitato il verificarsi dell’evento (c.d. causalità della colpa); e tenere presente che il rapporto tra accertamento della violazione della regola cautelare scritta e responsabilità a titolo di colpa specifica non è privo di eccezioni, sotto due profili: da un lato il giudice dovrà accertare se il rispetto della regola scritta ha esaurito la misura della diligenza nel caso concreto; dall’altro lato occorre verificare se il rispetto della regola cautelare non avrebbe aumentato il rischio di realizzazione del fatto. Thyssen – Cass. pen., sez. un., 24 aprile 2014, n. 38343. ‘’Nell'ambito del profilo subiettivo della colpa di cui si parla l'esigenza della prevedibilità ed evitabilità in concreto dell'evento si pone in primo luogo e senza incertezze nella colpa generica, poiché in tale ambito la prevedibilità dell'evento ha un rilievo decisivo nella stessa individuazione della norma cautelare violata; ma anche nell'ambito della colpa specifica la prevedibilità vale non solo a definire in astratto la conformazione del rischio cautelato dalla norma, ma anche va ragguagliata alle diverse classi di agenti modello ed a tutte le specifiche contingenze del caso concreto. Certamente tale spazio valutativo è pressoché nullo nell'ambito delle norme rigide la cui inosservanza dà luogo quasi automaticamente alla colpa; ma nell'ambito di norme elastiche che indicano un comportamento determinabile in base a circostanze contingenti, vi è spazio per il cauto apprezzamento in ordine alla concreta prevedibilità ed evitabilità dell'esito antigiuridico da parte dell'agente modello.’’ Non sempre, però, è possibile ricondurre la responsabilità colposa al mero dovere di rispettare una o più misure cautelari. c) Colpa per assunzione: talora ciò che si imputa al soggetto è di essersi assunto un compito che non era in grado di portare a termine senza esporre a rischio l’incolumità altrui. Es. l’operaio in pensione che accetta di rifare l’impianto elettrico dell’appartamento di un conoscente senza esserne capace, l’eventuale morte di uno degli occupanti dell’appartamento, dovuta ad una scarica prodotta dall’inadeguatezza dell’impianto di messa a terra, potrebbe essergli imputata a titolo di colpa per l’assunzione di un’attività per la quale non aveva le conoscenze necessarie. d) Mancato dovere di informazione: il soggetto si assume un compito senza conoscere le informazioni necessarie a svolgerlo. Es. avvocato che non si accerti di quali obblighi fiscali l’ordinamento pone a carico di chi svolge attività libero professionali. e) Culpa in eligendo o in vigilando: con riferimento alle attività caratterizzate da rapporti gerarchici, può imputarsi al soggetto apicale di aver non debitamente individuato coloro cui affidare un certo compito (culpa in eligendo) o di non aver controllato l’operato di coloro che sono sottoposti alla sua vigilanza (culpa in vigilando). La prevedibilità del fatto può avere ad oggetto anche il comportamento di un altro soggetto, ma con quali limiti si può fare un rimprovero di questo tipo, relativo alla mancata previsione di un comportamento colposo altrui? Nelle ipotesi di colpa specifica, la risposta sarà positiva tutte le volte che la regola scritta abbia di mira anche l’impedimento di un fatto delittuoso da parte di terze persone. La questione è più difficile con riguardo alla colpa generica; infatti, l’astratta previsione che un altro soggetto possa tenere un comportamento non conforme al dovere di diligenza non è sufficiente per imporre a ciascun consociato di prevenire i fatti colposi altrui, in virtù di una ovvia aspettativa che le regole cautelari siano rispettate (c.d. principio di affidamento: ciascuno degli agenti può confidare Rilevanza oggettiva o soggettiva? Cass., sez. IV, 17 settembre 2009, n. 44548 «Il caso fortuito presuppone l’integrità del rapporto di causalità materiale tra la condotta e l’evento, collocandosi come causa (soggettiva) di esclusione della punibilità. Questa concezione è contrastata da quella, oggettiva, secondo la quale il fortuito escluderebbe il rapporto materiale. In linea di principio, questa Corte ritiene che la concezione soggettiva risponda compiutamente alla logica del sistema normativo». Cassazione penale, sez. IV, 21/02/2018, n. 17390 In tema di circolazione stradale, l'abbagliamento da raggi solari del conducente di un automezzo non integra un caso fortuito e, pertanto, non esclude la penale responsabilità per i danni che ne siano derivati alle persone. In una tale situazione (di abbagliamento) il conducente è tenuto a ridurre la velocità e anche ad interrompere la marcia, adottando opportune cautele onde non creare intralcio alla circolazione ovvero l'insorgere di altri pericoli, ed attendere di superare gli effetti del fenomeno impeditivo della visibilità. Cassazione penale, sez. I, 12/09/2017, n. 5306 In tema di sussistenza del nesso di causalità tra condotta lesiva ed evento, la valutazione delle cause preesistenti non è equiparata a quella delle cause sopravvenute, ostandovi l'inequivoca formulazione testuale del comma 2 dell'art. 41 c.p. che limita alla cause sopravvenute, ove da sole sufficienti a determinare l'evento, l'effetto di esclusione del nesso causale. Da ciò la necessità di inquadrare il tema delle cause preesistenti nella diversa disciplina dell'art. 45 c.p. (relativa al caso fortuito, con esclusione della punibilità) lì dove la causa preesistente assuma in concreto il carattere della assoluta eccezionalità e imprevedibilità, tale da rendere del tutto irrilevante la condotta tenuta dall'imputato nella serie produttiva dell'evento, trattandosi di un fattore di produzione del tutto imprevisto ed imprevedibile. CAPITOLO XIX – DISCIPLINA DELL’ERRORE LE DIVERSE TIPOLOGIE DI ERRORE PENALMENTE RILEVANTE La tematica dell’errore e dell’ignoranza consiste in una falsata percezione della realtà o della normativa vigente. In primo luogo viene in rilievo l’errore sul fatto, cioè l’errore su uno degli elementi costitutivi della fattispecie delittuosa. L’errore sul fatto può essere di fatto o di diritto. Si pensi al delitto di furto, che punisce chi si appropria di una cosa mobile altrui: l’agente può credere per errore che la cosa sia di sua proprietà, perché porta via dal guardaroba di un ristorante un cappotto identico al suo che appartiene ad un altro commensale (errore di fatto, ossia erronea percezione della realtà); oppure perché interpreta in modo non corretto la disciplina giuridica dettata dal codice civile in materia di diritto di proprietà (crede che sia ancora sua un’autovettura che ha già venduto con atto notarile, ma della quale non è ancora stato pagato tutto il prezzo: errore di diritto). In entrambi i casi l’errore verte su uno dei requisiti della fattispecie incriminatrice (l’altruità della cosa). L’errore sul diritto verte sulla fattispecie penale: uno straniero di cultura islamica crede che sia doveroso e legittimo, percuotere e chiudere in casa la figlia maggiorenne, perché si rifiuta di indossare il burka, mentre nel nostro ordinamento tali fatti sono puniti a titolo di lesioni dolose e sequestro di persona; oppure su una norma extra penale (es. dell’autovettura). ERRORE DI FATTO SUL FATTO Il caso di colui che si appropri di una cosa altrui molto simile alla sua, credendola erroneamente propria è disciplinato dall’art. 47 comma 1 c.p., in virtù del quale “l’errore sul fatto che costituisce reato esclude la punibilità dell’agente”. La ragione di tale esclusione è evidente: l’errore consiste in una falsa rappresentazione della realtà, che incide sul processo di formazione della volontà, e pertanto esclude il dolo. La regola dettata dall’art. 47 c.p., quindi, deve essere intesa nel senso che l’errore sul fatto esclude la punibilità a titolo di dolo. La norma in questione prosegue infatti disponendo che ‘’se si tratta di errore determinato da colpa, la punibilità non è esclusa se il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo’’. Ne deriva che, in presenza di un errore sul fatto, dopo aver escluso la punibilità a titolo di dolo, il giudice dovrà compiere una duplice valutazione: in primo luogo dovrà domandarsi se l’errore è dovuto a colpa, se, cioè, utilizzando la diligenza che l’ordinamento penale pretende da coloro che svolgono quel tipo di attività l’agente avrebbe potuto e dovuto prevedere il fatto. Qualora la risposta sia positiva si dovrà verificare se il delitto è punito anche a titolo di colpa. ERRORE SUL FATTO DOVUTO AD ERRORE SU LEGGE EXTRA PENALE L’errore sul fatto, oltre che da una falsata percezione della realtà, può essere frutto di una non corretta interpretazione di una norma di legge extra penale. Ai sensi dell’art. 47 comma 3 c.p. questo tipo di errore esclude la punibilità. Legge diversa da quella penale non è solo quella civile o amministrativa, ma la legge diversa dalla fattispecie incriminatrice. L’errore sulla legge extra penale può riguardare tanto gli elementi normativi della fattispecie incriminatrice, quanto quelli di natura normativa etico-sociale, ad es. una madre di origine Nord europea abituata a lasciare spesso la figlia adolescente da sola contando sull’aiuto del vicino in caso di necessità, non dovrà rispondere, per errore su un elemento etico-sociale, del delitto di abbandono di minore, dal momento che per lei tale delitto avrà una minore estensione di quella che appare agli occhi del genitore medio italiano. L’aspetto di maggior criticità dell’errore sul fatto dovuto ad errore su legge diversa da quella penale consiste proprio nel distinguere l’ipotesi in questione dall’ignoranza della legge penale che, ai sensi dell’art. 5 c.p., non scusa, se non quando rivesta l’eccezionale carattere dell’inevitabilità. Tale questione viene risolta dalla giurisprudenza di legittimità in termini molto severi: qualsiasi norma giuridica non penale, che sia richiamata dalla fattispecie incriminatrice, viene da questa incorporata, e pertanto l’eventuale errore su di essa non scusa mai, risolvendosi in un errore sulla legge penale. Recentemente la Cassazione nel 2016 affermato che ‘’in tema di peculato, l'errore del pubblico ufficiale circa la propria facoltà di disposizione di un bene pubblico per fini diversi da quelli istituzionali non configura un errore di fatto su legge diversa da quella penale, atto ad escludere il dolo, ma costituisce errore o ignoranza della legge penale il cui contenuto è integrato dalla norma amministrativa che disciplina la destinazione del bene pubblico.’’ Tuttavia, tale interpretazione dell’art. 47 comma 3 c.p. finisce per abrogare la norma in questione in quanto qualunque errore sulla legge extra penale diviene irrilevante, ai fini della non punibilità, perché letto sempre come errore sulla legge penale, proprio in virtù dell’incorporazione. L’unico margine di rilevanza dell’errore sulla legge (anche extra penale) finisce per essere legato all’inevitabilità dell’interpretazione normativa non corretta. Se l’errore inevitabile sulla legge penale scusa, allora non può essere punito chi compie un errore inevitabile sulla legge extra penale richiamata nel precetto. Tale principio opera anche con riferimento alla norma extrapenale che va ad incorporarsi nella fattispecie penale, in quanto la prima diventa anch’essa penale ai fini della disciplina dell’ignorantia legis, con l’effetto che l’errore deve essere apprezzato come fattore di esclusione della colpevolezza. A fronte di un simile interpretatio abrogans, la dottrina ha cercato di percorrere varie strade, al fine di ridare senso ed effettività all’art. 47 comma 3 c.p.. Da un lato si sostiene che la norma in oggetto, nel prevedere che l’errore su legge extra penale renda non punibile l’agente, costituirebbe una sorta di deroga al principio dell’art. 5 c.p. Pertanto, anche se incorporata dalla fattispecie incriminatrice, la norma extra penale sarebbe soggetta ad una diversa disciplina, proprio con riferimento alla rilevanza dell’errore. Altri preferiscono, invece, ricondurre la regola in virtù della quale l’errore su legge diversa da quella penale rileva ai fini della non punibilità, ai principi generali in materia di dolo: qualsiasi errore sul fatto, sia esso di fatto che di diritto, incide negativamente sulla formazione della volontà, e può che escludere il dolo. Il comma 3 dell’art. 47 c.p. non fa salva la responsabilità per colpa, quando l’errore sia dovuto a colpa. Una parte della dottrina ritiene applicabile, anche nel caso di errore su legge extrapenale, la medesima disciplina prevista per il comma 1 dell’art. 47. Secondo altri, invece, pare preferibile la tesi che, rifiutando un’indebita estensione analogica in malam partem, esclude qualsiasi responsabilità colposa. Delicata è la situazione sulla distinzione tra errore sulla legge extra penale ed errore sul precetto, nelle ipotesi di norme penali in bianco: una parte della dottrina reputa che la falsa rappresentazione dell’elemento esterno al precetto penale costituisca errore su legge diversa da quella penale, e debba portare alla non punibilità dell’agente. Altri limitano questo effetto ai soli casi in cui il precetto penale sia già sufficientemente individuato dalla fattispecie incriminatrice. Quando, invece, il comando o il divieto penale siano descritti dalla norma extra penale richiamata dalla fattispecie penale in bianco, allora vi sarebbe un errore sul precetto. ERRORE SUGLI ELEMENTI DIFFERENZIALI TRA FATTISPECIE La disciplina dell’art. 47 c.p. prevede anche un’ipotesi relativa al c.d. errore sugli elementi specializzanti o differenziali tra fattispecie incriminatrici. Il comma 2 dispone che l’errore sul fatto che, ai sensi del comma 1 esclude la punibilità dell’agente, non esclude la punibilità per un reato diverso. In concreto, si possono prospettare tre situazioni diverse: 1. Errore su un elemento aggravante: se l’agente ignora, per errore, l’esistenza di un elemento della fattispecie concreta che rende diversa e più grave l’ipotesi delittuosa, dovrà applicarsi l’ipotesi meno grave. Es. Tizio, dopo aver commesso un furto, viene fermato da un poliziotto in borghese che non si qualifica come tale, e lo colpisce per fuggire. In questo caso il reato è quello di lesioni e percosse, e non resistenza a pubblico ufficiale, fattispecie più grave, ma rispetto alla quale l’agente ignora uno degli elementi costitutivi della fattispecie. 2. Ignoranza di un elemento che rende meno grave la fattispecie: es. Tizio, dopo aver commesso un furto, viene fermato da un privato che lui crede essere un poliziotto in borghese, nell’esercizio delle sue funzioni; se lo aggredisce risponde per lesioni e percosse e non per resistenza a pubblico ufficiale, in virtù della disciplina del c.d. reato putativo. 3. L’agente crede, per errore, che nella situazione concreta sia integrato un elemento che degrada la punibilità. Es. Tizio crede per errore che vi sia il consenso della vittima alla propria uccisione: omicidio comune o omicidio del consenziente? Secondo un primo orientamento, l’errore sull’elemento differenziale si risolverebbe sempre in un errore sulla legge penale, e pertanto si dovrebbe applicare l’art. 5 c.p., escludendo rilevanza all’errore stesso: in tale esempio si tratterebbe di omicidio comune. Pare però preferibile la tesi opposta, secondo la quale, pur in assenza di una specifica previsione al riguardo, dovrebbe valere la regola dettata dall’art. 59 comma 4 c.p., in materia di erronea supposizione di una causa di esclusione della pena. Solo tale soluzione, infatti, consente di rispettare appieno il principio di colpevolezza, dal momento che tiene conto dell’esigenza di punire in base ad un rimprovero del disvalore del fatto che sia proporzionato al concreto atteggiamento doloso dell’agente. ERRORE DETERMINATO DALL’ALTRUI INGANNO Può accadere che l’errore sul fatto sia frutto dell’inganno altrui, di una terza persona. In questo caso, all’autore materiale del falso si applica l’art. 47 c.p.: egli non potrà essere punito ma, ai sensi dell’art. 48 c.p. ‘’del fatto commesso dalla persona ingannata risponderà chi l’ha indotta a commetterlo’’. Per inganno si intende qualsiasi condotta che abbia concretamente tratto in errore l’autore materiale del reato come per es. una menzogna, la produzione di un documento falso, o qualsiasi altro artificio. L’art. 48 c.p. rinvia alla disciplina di cui all’art. 47 c.p. nel suo insieme; quindi, qualora il soggetto ingannato abbia tenuto la condotta criminosa per essere stato tratto in inganno, ma gli si possa rimproverare di non aver usato tutta la diligenza necessaria che l’ordinamento impone, egli risponderà del fatto a titolo di colpa. Se Tizio, con volontà omicida, trae in inganno il cacciatore facendogli credere che dietro il cespuglio ci sia una prede venatoria, e non un uomo, e Caio È opinione comune che tale disposizione facesse riferimento ai casi di responsabilità oggettiva: una responsabilità in assenza di dolo o colpa, fondata sul semplice nesso causale tra condotta ed evento. Nell’ottica del legislatore del 1930, i casi di responsabilità oggettiva erano numerosi: la responsabilità del direttore nell’ambito della stampa periodica, l’aberratio, l’evento preterintenzionale, i delitti aggravati dall’evento e la responsabilità del concorrente per evento diverso da quello voluto. Il punto in comune di queste forme di responsabilità oggettiva è costituito dalla presenza di una volontà criminosa di partenza con uno sviluppo successivo casualmente collegato al reato voluto. Ragioni a favore della responsabilità oggettiva: a. Rafforzare la prevenzione generale per disincentivare la commissione dei reati b. Facilitazione della prova dell’elemento soggettivo (che non è richiesto) Con l’avvento della Costituzione si afferma con sempre maggior convinzione l’idea che in campo penale la responsabilità oggettiva crei problemi di legittimità costituzionale. La norma da cui muove tale corrente è l’art. 27 comma 1 Cost., in cui si afferma che la “la responsabilità penale è personale”. Questa norma ha due significati: 1. Non è ammessa nessuna forma di responsabilità per fatto altrui. 2. Responsabilità personale non vuol dire solo rispondere del fatto proprio, ma implica che l’intervento della sanzione penale è giustificato solo se nei confronti del fatto vi è “colpevolezza” (rimproverabilità sulla base di un coefficiente psicologico). Mentre la dottrina accoglie questo ampio significato del principio di personalità della responsabilità penale, la Corte costituzionale per alcuni decenni si è attestata sull’interpretazione più limitata del principio: essa vieta forme di responsabilità per fatto altrui, ma non esclude la responsabilità oggettiva. La vera svolta nella giurisprudenza della Corte costituzionale si ebbe con la sentenza 364/1988. Il problema sollevato concerneva l’art. 5 c.p. sull’inescusabilità assoluta dell’ignoranza della legge penale: la Corte pervenne ad una declaratoria di parziale illegittimità della norma, ma soprattutto riconobbe che la responsabilità oggettiva è incostituzionale allorquando investe elementi più significativi della fattispecie. SENTENZE DEL 1988 ED I LORO EFFETTI SUL SISTEMA: Corte Cost. n. 364/1988: necessaria almeno la colpa rispetto agli elementi più significativi della fattispecie. Corte Cost. n. 1085/1988: necessaria almeno la colpa rispetto a tutti gli elementi che contrassegnano il disvalore o il maggior disvalore della fattispecie. a. Non tutte le forme di responsabilità oggettiva sono incostituzionali b. Occorre dichiarare l’illegittimità costituzionale delle ipotesi di responsabilità oggettiva c. Interpretazione adeguatrice all’ART 27, comma 1 Cost. LA PRETERINTENZIONE Il legislatore conferisce una specifica autonomia, negli artt. 42 e 43 c.p., al delitto preterintenzionale, che si verifica quando dall’azione od omissione deriva un evento dannoso o pericoloso più grave di quello voluto dall’agente. ART. 42 comma 2 “Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come delitto, se non l'ha commesso con dolo, salvi i casi di delitto preterintenzionale o colposo espressamente preveduti dalla legge”. ART. 43 “Il delitto: (…) è preterintenzionale, o oltre l'intenzione, quando dall'azione od omissione deriva un evento dannoso o pericoloso più grave di quello voluto dall'agente”. I delitti espressamente qualificati come preterintenzionali sono un numero ristrettissimo: nel codice compare solo l’omicidio preterintenzionale all’art. 584 c.p. e nella legislazione complementare l’aborto preterintenzionale. Secondo un orientamento dottrinale la categoria in esame avrebbe, tuttavia, una portata più ampia, coinvolgendo quelle figure criminose in cui da un reato base può conseguire un evento più grave (che deve essere) non voluto. Omicidio preterintenzionale punto di vista oggettivo: evento meno grave voluto: lesioni o percosse; evento più grave non voluto: morte Il nodo interpretativo centrale che pone il delitto preterintenzionale è costituito dal titolo effettivo di imputazione dell’evento ‘’più grave di quello voluto’’: occorre precisare che l’evento non solo non deve essere voluto, ma nemmeno previsto e accettato come probabile e possibile conseguenza del fatto dannoso. = Struttura oggettiva: evento meno grave voluto; evento più grave non voluto. Struttura soggettiva: evento meno grave voluto= dolo; evento più grave non voluto= ci vuole accertamento positivo della non volizione (non deve esserci prevedibilità). I codificatori del 1930 inquadravano la preterintenzione nell’ambito delle ipotesi di responsabilità oggettiva: il soggetto agente risponde dell’evento morte per il fatto di aver cagionato la morte della persona aggredita. È sufficiente riscontrare, quindi, un rapporto di causalità materiale tra il segmento doloso e l’evento più grave. L’unico limite alla responsabilità è la mancata individuazione del nesso eziologico, qualora l’evento non voluto sia derivato da fattori del tutto eccezionali, anomali, del tutto imprevedibili, quei fattori interruttivi del rapporto di causalità. Lo schema di imputazione oggettiva dell’evento più grave nel delitto preterintenzionale viene recepito dalla giurisprudenza prevalente, nonostante gli sforzi della dottrina ad adottare una chiave di lettura orientata all’imputazione soggettiva dell’evento “oltre l’intenzione”. Cassazione penale, sez. V, 08/01/2016, n. 6918 Ai fini dell'integrazione dell'omicidio preterintenzionale è necessario che l'autore dell'aggressione abbia commesso atti diretti a percuotere o ledere la vittima, che esista un rapporto di causa ed effetto tra gli atti predetti e l'evento letale e che eventuali cause sopravvenute non siano da sole sufficienti a determinare l'evento, ma lo abbiano causato in sinergia con la condotta dell'imputato, per cui, venendo a mancare una delle due, l'evento non si sarebbe verificato. Cassazione penale, sez. V, 21/09/2016, n. 44986 L'esercizio di pratiche sessuali estreme, come il "bondage" o il "breath playing", al quale consegua la morte di uno dei partner, è ascrivibile alla fattispecie di omicidio colposo e non di omicidio preterintenzionale, atteso che quest'ultimo sottende la coscienza e volontà di cagionare alla vittima una sensazione di dolore o una malattia, mentre l'attività sessuale, ancorché pericolosa, è comunque preordinata a provocare piacere. Ma… In definitiva deve ritenersi configurabile il reato di omicidio preterintenzionale nella condotta di chi, attraverso un gioco erotico di sodomizzazione, non già diretto a provocare piacere sessuale, bensì posto in essere per infliggere un dolore o una punizione, al di fuori di un rapporto consensuale, provoca la morte della vittima come conseguenza della volontà di manomettere l'altrui persona in modo violento. Cassazione penale, sez. V, 01/02/2018, n. 18048 Cassazione penale, sez. I, 20/11/2013, n. 4696 «Il criterio distintivo tra l'omicidio volontario e l'omicidio preterintenzionale risiede nel fatto che nel secondo caso la volontà dell'agente esclude ogni previsione dell'evento morte, che si determina per fattori esterni e il cui accertamento deve fondarsi su elementi oggettivi desunti dalle concrete modalità della condotta». Cassazione penale, sez. I, 22/12/2017, n. 3619 Si configura il delitto di omicidio volontario - e non quello di omicidio preterintenzionale, caratterizzato dalla totale assenza di volontà omicida - qualora la condotta dell'agente, alla stregua delle regole di comune esperienza, dimostri la consapevole accettazione da parte del medesimo anche solo dell'eventualità che dal suo comportamento potesse derivare la morte del soggetto passivo. (Fattispecie in cui i colpevoli, nel corso di una rapina commessa nell'abitazione di una persona anziana, le avevano oppresso ed occluso il naso e la bocca con un cuscino ed un canovaccio, impedendole di respirare e cagionandone la morte, intervenuta per soffocamento). REATO ABERRANTE 1. ABERRATIO DELICTI Il codice dedica una specifica disciplina ad un'altra forma di errore che si verifica durante l’esecuzione del reato, denominata errore inabilità. Una prima ipotesi consiste nell’errore che comporta la realizzazione di un evento diverso da quello voluto, la c.d. aberratio delicti, disciplinata dall’ART. 83 c.p.. Es. Tizio vuole colpire con un corpo contundente una vetrina, ma cagiona, per un errore di mira, una lesione personale (evento diverso da quello voluto). Dovendo trattarsi di reato ‘’non voluto’’ per poter individuare un’aberratio delicti occorre preliminarmente escludere la ravvisabilità del dolo eventuale nei confronti dell’evento diverso. Se davvero l’evento diverso non è investito dal dolo, l’ART.83 stabilisce che di esso il soggetto agente risponde ‘’a titolo di colpa’’, sempre che il fatto sia previsto dalla legge come fatto colposo. Nell’ottica del legislatore del 1930 l’aberratio delicti rappresentava un classico esempio di responsabilità oggettiva: si attribuisce automaticamente una responsabilità per un fatto non voluto in quanto chi agisce era comunque animato da una volontà criminosa. L’inquadramento dell’aberratio delicti nell’ambito delle ipotesi di responsabilità oggettiva, fondata sul mero nesso di causalità, suscitò le consuete obiezioni, in particolare per contrasto con il principio di personalità della responsabilità penale sancito dall’ART.27 comma 1 Cost. (come interpretato dalla Corte dal 1988). Per questa ragione l’art. 83 è stato reinterpretato in modo da renderlo compatibile con la nuova cornice costituzionale: la formula ‘’a titolo di colpa’’, quindi, viene intesa come indicativa di un effettivo titolo di responsabilità. Non si tratta, pertanto, di una forma di responsabilità oggettiva disciplinata con le pene dei reati colposi; il fatto è punibile solo se in concreto sussiste la colpa. Nell’esempio prima descritto, solo se il lancio dell’oggetto contundente che ha cagionato la lesione è frutto di una condotta imprudente o negligente per la percepibile presenza di persone nei pressi. Questa interpretazione finisce per neutralizzare la portata concreta dell’art. 83 c.p.: se c’è colpa ed il fatto è previsto come reato colposo la responsabilità discende dall’applicazione dei principi generali. Questa sorta di interpretazione abrogatrice dell’art. 83 c.p. è un percorso obbligato se si vuole evitare una declaratoria di illegittimità da parte della Corte per contrasto con l’art. 27 Cost. La corte di Cassazione a Sezioni Unite ha convalidato questa interpretazione nell’affrontare il problema posto dall’ART. 586 c.p. (morte o lesione come conseguenza di altro delitto) che contiene al suo interno un richiamo esplicito alla disciplina dell’art. 83 c.p. ART. 586 C.P. ‘’Quando da un fatto preveduto come delitto doloso deriva, quale conseguenza non voluta dal colpevole, la morte o la lesione di una persona, si applicano le disposizioni dell'articolo 83, ma le pene stabilite negli articoli 589 e 590 sono aumentate’’. = nel caso di omicidio preterintenzionale il delitto base voluto riguarda le percosse o lesioni; l’art. 586 invece si riferisce a qualsiasi delitto tranne percosse o lesioni. 2. ABERRATIO ICTUS La seconda forma di reato aberrante è individuata dall’ART. 82 c.p., e definita aberratio ictus. Si descrive in tal modo la situazione in cui l’autore di un reato realizza il fatto che realmente intendeva compiere ma, per errore nell’uso dei Cass., sez. un., 25 gennaio 2005, n. 9163 «L'art. 85.2 c.p. definisce (secondo una proposizione generale, priva di ulteriori specifici contenuti) la imputabilità come la condizione di chi "ha la capacità di intendere e di volere" e, come appare anche dalla sua collocazione sistematica, all'inizio del titolo IV, dedicato al reo, determina una qualifica, o stato, dell'autore del reato, che lo rende assoggettabile a pena (art. 85.1 c.p.). Tuttavia - sostanzialmente concorde la dottrina -, nonostante tale collocazione sistematica, la imputabilità non si limita ad essere una "mera capacità di pena" o un "semplice presupposto o aspetto della capacità giuridica penale", ma il suo "ruolo autentico" deve cogliersi partendo, appunto, dalla teoria generale del reato; ed icasticamente si chiarisce al riguardo che, "se il reato è un fatto tipico, antigiuridico e colpevole e la colpevolezza non è soltanto dolo o colpa ma anche, valutativamente, riprovevolezza, rimproverabilità, l'imputabilità è ben di più che non una semplice condizione soggettiva di riferibilità della conseguenza del reato data dalla pena, divenendo piuttosto la condizione dell'autore che rende possibile la rimproverabilità del fatto" essa, dunque, non è "mera capacità di pena", ma "capacità di reato o meglio capacità di colpevolezza", quindi, nella sua "propedeuticità soggettiva rispetto al reato, presupposto della colpevolezza" non essendovi colpevolezza senza imputabilità». NOZIONE DI IMPUTABILITÀ. CARATTERE ESEMPLIFICATIVO O TASSATIVO DELLA CAUSE DI ESCLUSIONE DELL’IMPUTABILITÀ L’imputabilità, come detto, viene definita dal nostro codice penale, all’ART. 85 comma 2, come capacità di intendere e di volere. Intendere e volere: • La capacità di intendere coincide con una corretta rappresentazione della realtà esterna, accompagnata dalla consapevolezza delle conseguenze dei propri atti. • La capacità di volere è l’attitudine ad autodeterminarsi, indirizzando i propri comportamenti verso fini e obiettivi scelti consapevolmente. L’art. 85 chiarisce esplicitamente che la capacità di intendere e di volere deve essere presente al momento del compimento del fatto, perché questo costituisce il riferimento temporale rispetto al quale domandarsi se il soggetto fosse in grado di comprendere e volere i propri comportamenti (criminosi). Esistono alcune rilevanti eccezioni al principio, in virtù delle quali il rimprovero viene fatto retroagire al momento nel quale il soggetto si è (consapevolmente) posto in una situazione di incapacità, all’esito della quale compie un reato (es. stato preordinato di incapacità, al fine di commettere un reato o di precostituirsi una scusa (art. 87 c. p.), ubriachezza volontaria, colposa o preordinata (artt. 92-94 c.p.)) Inoltre, l’imputabilità deve essere accertata con riferimento al reato commesso. Può, infatti, accadere che, nel medesimo istante, un soggetto sia in grado di percepire il disvalore del proprio comportamento rispetto ad un fatto e non ad un altro. Es. cleptomane che tuba un bene al supermercato perché spinto da un incontenibile (e pertanto non punibile) impulso a rubare, ma contestualmente ferisce una cassiera. Emblematica una nota sentenza del Trib. Minorenni Milano, 12 gennaio 1999, in Foro ambrosiano, 1999, 210. «Deve ritenersi l'incapacità di intendere e di volere per immaturità qualora il reato commesso, seppure grave e determinato da futili motivi e pur se commesso da ragazzi tutti provenienti da famiglie dotate di buone risorse culturali ed economiche, appaia espressione di scarsissima capacità critica e di una pressoché totale mancanza di consapevolezza da parte di tutti i soggetti all'epoca del fatto in ordine alla gravità e al profondo disvalore del reato che stavano commettendo (fattispecie relativa ad una serie di fatti, furti e danneggiamenti, commessi da un gruppo di adolescenti nell'abitazione di una coetanea)» . Il codice prevede, oltre alla regola generale dell’ART.85, alcune cause che escludono la capacità di intendere e di volere: • Tre situazioni patologiche o di disabilità sensoriale: – vizio di mente, artt. 88 e 89 c.p.; – intossicazione cronica da sostanze alcooliche o stupefacenti, art. 95 c.p.; – sordomutismo, art. 96 c.p.; • Minore età. Una complessa questione attiene alla tassatività o meno di queste quattro situazioni. In altre parole, il giudice, quando si trovi in presenza di un soggetto che, pur non rientrando in alcuna delle situazioni appena descritte, non fosse capace di intendere o di volere per altra causa, deve comunque dichiararlo non imputabile? La nostra manualistica tende a rispondere in termini positivi, sia per garantire al massimo grado possibile le rispetto del principio di colpevolezza, consentendo sempre al giudice di non punire quando non può essere mosso al soggetto alcun rimprovero, sia perché la regola secondo la quale non è imputabile chi al momento del fatto difettava della capacità di intendere di volere, pare avere valore generale, e se si ritenesse che solo i quattro casi descritti dal codice portano ad una declaratoria di non imputabilità, la regola stessa finirebbe per divenire inutile e perdere di significato autonomo. Pertanto, si tende a concludere che la mancanza della capacità di intendere e di volere, anche fuori dai casi previsti dalla legge, possa portare ad una declaratoria di non imputabilità, a meno che non si rientri in una delle ipotesi che il codice esplicitamente esclude. Cass. pen., sez. V, 9 febbraio 2006, n. 8282. «Il codice prevede talune situazioni tipiche di difetto della capacità di intendere e di volere idonee a escludere l'imputabilità. Ma questa elencazione non può essere considerata tassativa, perchè, ad esempio, il difetto di imputabilità può derivare anche dall'assunzione di un farmaco non stupefacente, posto che rileva un'incapacità anche del tutto temporanea, purché esistente al momento del fatto. La contraria interpretazione di chi ritiene che l'imputabilità possa essere esclusa solo nelle ipotesi di incapacità tipicamente previste nel codice, finisce per ridurre a "un enunciato retorico" la disposizione normativa dell'art. 85 c.p.». MINORE ETÀ I bambini non hanno né la capacità di intendere, né di volere; ma quando acquistano piena consapevolezza di ciò che stanno facendo? La risposta psicologica tiene conto della diversa declinazione dei processi di maturazione di ciascuno; il diritto penale, invece, necessita di indicazioni e di termini tassativi. Per dar conto di questa esigenza il codice individua tre diverse fasce di età, e per ciascuna di esse definisce regole diverse:  Al di sotto dei 14 anni vige, ai sensi dell’ art. 97 c.p., una presunzione assoluta di non imputabilità.  Al di sopra dei 18 anni, quindi una volta maggiorenni, si è sempre imputabili e la capacità di intendere e di volere potrà essere esclusa solo con dalla presenza di un’altra e diversa tra le cause previste nell’ordinamento penale.  Fascia di età compresa tra i 14 e i 18 anni: l’art. 98 c.p. prevede che il giudice debba valutare caso per caso, al di fuori da qualsiasi presunzione, la capacità di intendere e di volere dei soggetti che commettono reato rientranti in questa fascia di età. Il giudice dovrà interrogarsi sul conseguimento di quel grado di maturità sufficiente per comprendere le conseguenze dei propri comportamenti e per riuscire a superare i condizionamenti ad agire. Cass., sez. I, 5 maggio 2011, n. 33750. «L'esame volto ad accertare la capacità d'intendere e di volere del minore che abbia compiuto i quattordici anni e non ancora i diciotto va compiuto, da un lato, con stretto riferimento al reato commesso e, dall'altro, con immediatezza rispetto a quest'ultimo, incidendo inevitabilmente il decorso del tempo sul processo di maturazione della persona». Inoltre, per i minori, il giudizio sull’imputabilità deve essere svolto con “stretto riferimento” al reato commesso, dal momento che fatti che offendono la vita, l’integrità fisica, la libertà sessuale della vittima con maggiore difficoltà potranno essere oggetto di un giudizio di non imputabilità, rispetto a reati che hanno oggettività giuridica meno afferrabile, anche con riferimento a soggetti molto giovani. Quanto più ci si avvicina all’età dei 18 anni, tanto più il giudizio di non imputabilità diventa eccezionale. Quanto agli esiti del giudizio, il codice prevede che se il minore non è imputabile egli non è punibile, ma, se socialmente pericoloso, potrà essere sottoposto alla misura di sicurezza della libertà vigilata o del riformatorio giudiziario. Se, invece, il minore di età compresa tra i 14 e i 18 anni viene ritenuto imputabile, potrà essere sottoposto a pena, diminuita, però, fino ad un terzo. La minore età costituisce, infatti, una sorta di circostanza attenuante. VIZIO DI MENTE • Art. 88 c.p.: chi si trovi, per infermità, in uno stato di mente tale da escludere la sua capacità di intendere o di volere, non è imputabile. • Art.89 c.p.: se l’infermità produce uno stato mentale che non esclude del tutto, ma scema grandemente la capacità di intendere o di volere, il reo risponda del reato commesso, ma la pena sia diminuita (c.d. semiinfermità) Anche l’infermità di mente deve essere presente al momento del fatto, per esplicita previsione normativa. Inoltre, essa deve aver causalmente influito sulla commissione del reato, alla quale il reo deve essere stato determinato proprio a causa del vizio di mente. A tal proposito Cass., sez. I, 15 maggio 2012, n. 31460. «Per riscontrare l'incapacità d'intendere e volere totale o parziale, non basta affermare che un soggetto sia affetto da un disturbo della personalità di matrice psicotica, essendo necessario dimostrare che questo disturbo abbia un nesso eziologico con lo specifico fatto di reato commesso, si da poter qualificare tale disturbo come la causa della condotta criminosa». = Non potrà, pertanto, invocare un difetto di imputabilità il soggetto che, pur affetto da una patologia psichiatrica con conseguente delirio persecutorio, commetta, per puro interesse economico, una grave frode fiscale. L’infermità di mente, rilevante ai sensi degli artt. 88 e 89 c.p., può consistere anche in un stato patologico di tipo fisico (per esempio, il deliro febbrile). Ciò distingue il concetto di «infermità» rilevante sullo stato mentale da quello di «infermità psichica», di cui all’art. 222 c.p., che disciplina le modalità del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario. In passato, nel concetto di vizio di mente potevano rientrare solamente le malattie mentali a base organica, riconosciute dalla nosografia psichiatrica ufficiale (schizofrenia e delirio paranoide), con esclusione di qualsiasi altro disturbo mentale che, pertanto, non avrebbe mai consentito una declaratoria di mancanza o riduzione di imputabilità. Successivamente si è affermato un orientamento opposto, alla luce del quale anche situazioni diverse dalle tradizionali malattie riconosciute dalla nosografia psichiatrica possono avere effetto sull’imputabilità, quando abbiano escluso o diminuito la capacità di intendere e di volere. A soluzione del conflitto giurisprudenziale sono intervenute le Sezioni Unite della Cassazione che hanno affermato che anche i disturbi della personalità, che abbiano realmente inciso sulla capacità di intendere o di volere dell’agente, possono escludere o diminuire l’imputabilità. Cass., sez. un., 25 gennaio 2005, n. 9163. «In tema di imputabilità, ai fini del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente, anche i "disturbi della personalità", che non sempre sono inquadrabili nel ristretto novero delle malattie mentali, possono rientrare nel concetto di "infermità", purché siano di consistenza, intensità e gravità tali da incidere concretamente sulla capacità  Ubriachezza preordinata, cioè finalizzata al compimento di un reato o a precostituirsi una scusa. In tal caso, non si pongono problemi di colpevolezza, dal momento che il reato commesso dal soggetto ubriaco era già stato previsto e voluto al momento dell’assunzione della sostanza alcolica (o stupefacente).  Ubriachezza abituale, cioè la situazione di colui che, oltre ad essere dedito all’uso di bevande alcoliche, è in stato di frequente ubriachezza. SORDOMUTISMO L’art. 96 c.p. introduce, tra le cause di esclusione dell’imputabilità, il sordomutismo che abbia escluso la capacità di intendere e di volere del soggetto, al momento del compimento del fatto. Il comma 2 art. 96 c.p. prevede che, se la capacità di intendere e di volere è grandemente scemata, la pena sia diminuita. Il codice non distingue tra sordomutismo congenito ed acquisito e, pertanto, entrambi potranno portare ad una declaratoria rilevante in tema di imputabilità. Al contrario, colui che sia solo muto o solo sordo, non potrà appellarsi a tale norma, bensì alla disciplina degli artt. 88 e 89 c.p., in materia di vizio di mente. L’art. 96 c.p. detta, per il sordomutismo, una disciplina simile a quella prevista per il vizio di mente, sia con riferimento alla pena che alle misure di sicurezza. Cass., sez. VI, 3 luglio 1996, n. 8817. «L'art. 96 c.p. non ravvisa nel sordomutismo uno stato necessariamente psicopatologico, ma richiede soltanto che nel sordomuto tanto la capacità quanto l'incapacità formi oggetto di specifico accertamento, da compiersi, cioè, caso per caso. Il che sta a significare che il sordomutismo non costituisce una vera e propria malattia della mente, valendo soltanto eventualmente ad impedire o ad ostacolare lo stato di sviluppo della psiche e, dunque, la maturità psichica. È sufficiente, pertanto che dalla decisione risulti che il detto accertamento sia stato compiuto e che il giudice abbia congruamente motivato sul punto» ACTIO LIBERA IN CAUSA = incapacità di intendere e di volere che è però frutto di una scelta libera, volontaria e preordinata. • Art. 86 c.p.: se un soggetto si mette in stato di incapacità di intendere e di volere al fine di commettere un reato o di prepararsi un scusa, non si applica l’art. 85 c.p.; egli, cioè, viene ritenuto pienamente imputabile. • Art. 92, comma 2, c.p. disciplina la particolare ipotesi nella quale lo stato di incapacità preordinata sia dovuto all’assunzione di alcool o sostanze stupefacenti. CAPITOLO XXII – REATO CIRCOSTANZIATO FUNZIONE DELLE CIRCOSTANZE Le circostanze sono elementi accidentali, pertanto, la loro presenza non è necessaria al fine dell’esistenza del reato: si aggiungono ad una fattispecie criminosa già costituita e incidono sulla sua gravità, comportando una variazione della pena o una modifica della procedibilità del reato. La variazione può essere quantitativa, cioè quando alla pena applicabile al reato base deve aggiungersi un quantum di pena della stessa specie; o qualitativa, cioè quando la circostanza modifica la specie della pena. Le circostanze hanno efficacia extra edittale: possono comportare una variazione del trattamento sanzionatorio con superamento dei limiti edittali indicati dalle singole fattispecie incriminatrici. Sono riconosciute due funzioni agli elementi circostanziali: 1. Consentono di adeguare il trattamento sanzionatorio al reale disvalore del fatto attraverso la previsione normativa di elementi capaci di incidere sulla gravità del reato o sulla capacità a delinquere del soggetto. 2. Hanno funzione di garanzia del principio di legalità: in quanto descritte dalla legge consentono di realizzare l’adeguamento del trattamento sanzionatorio alla gravità del reato, senza lasciare tale compito alla discrezionalità del giudice CLASSIFICAZIONE Le circostanze possono essere classificate in relazione agli effetti applicativi, al loro contenuto e alle tecniche di previsione (redazione) legislativa. Esistono le circostanze aggravanti, che comportano un aumento del trattamento sanzionatorio; e le circostanze attenuanti, che, invece, prevedono una diminuzione della sanzione applicabile. Le circostanze comuni, previste agli artt. 61 (aggravanti), 62 (attenuanti), e 62- bis (attenuanti generiche), sono quelle potenzialmente applicabili a tutte le ipotesi di reato o ai reati con i quali presentano una compatibilità strutturale. ART. 61 – CIRCOSTANZE AGGRAVANTI COMUNI ‘’Aggravano il reato quando non ne sono elementi costitutivi o circostanze aggravanti speciali, le circostanze seguenti: 1) l’avere agito per motivi abietti o futili; = per motivo futile si intende un motivo del tutto sproporzionato rispetto al reato cui ha dato origine 2) l’aver commesso il reato per eseguirne od occultarne un altro, ovvero per conseguire o assicurare a sé o ad altri il prodotto o il profitto o il prezzo ovvero la impunità di un altro reato; 3) l’avere, nei delitti colposi, agito nonostante la previsione dell’evento; = colpa cosciente 4) l’avere adoperato sevizie, o l’aver agito con crudeltà verso le persone; = per sevizie si intende ogni sofferenza inferta alla vittima che non è necessaria per la commissione del reato. Per crudeltà verso le persone si intende chi infligge alla vittima/terzo una sofferenza morale che rivela mancanza di umanità 5) l’avere profittato di circostanze di tempo, di luogo o di persona, anche in riferimento all’età, tali da ostacolare la pubblica o privata difesa; 6) l’avere il colpevole commesso il reato durante il tempo, in cui si è sottratto volontariamente alla esecuzione di un mandato o di un ordine di arresto o di cattura o di carcerazione, spedito per un precedente reato; 7) l’avere, nei delitti contro il patrimonio o che comunque offendono il patrimonio, ovvero nei delitti determinati da motivi di lucro, cagionato alla persona offesa dal reato un danno patrimoniale di rilevante gravità; 8) l’avere aggravato o tentato di aggravare le conseguenze del delitto commesso; = consiste in una condotta successiva 9) l’avere commesso il fatto con abuso dei poteri, o con violazione dei doveri inerenti a una pubblica funzione o a un pubblico servizio, ovvero alla qualità di ministro di un culto; 10) l’avere commesso il fatto contro un pubblico ufficiale o una persona incaricata di un pubblico servizio, o rivestita della qualità di ministro del culto cattolico o di un culto ammesso nello Stato, ovvero contro un agente diplomatico o consolare di uno Stato estero, nell’atto o a causa dell’adempimento delle funzioni o del servizio; 11) l’avere commesso il fatto con abuso di autorità o di relazioni domestiche, ovvero con abuso di relazioni di ufficio, di prestazione d’opera, di coabitazione, o di ospitalità; = per abuso di autorità si intende lo sfruttamento della posizione di preminenza; per relazioni di prestazione d’opera si intende tutti quei rapporti giuridici che comportano l’obbligo di un facere; per coabitazione si intende qualsiasi forma di permanenza non momentanea di più persone nello stesso luogo; per ospitalità si intendono tutte le ipotesi di permanenza occasionale di breve durata in un determinato luogo con il consenso del proprietario. 11-bis) l’avere il colpevole commesso il fatto mentre si trova illegalmente sul territorio nazionale; 11-ter) l’aver commesso un delitto contro la persona ai danni di un soggetto minore all’interno o nelle adiacenze di istituti di istruzione o di formazione; 11-quater) l’avere il colpevole commesso un delitto non colposo durante il periodo in cui era ammesso ad una misura alternativa alla detenzione in carcere; 11-quinquies) l’avere, nei delitti non colposi contro la vita e l’incolumità individuale e contro la libertà personale, commesso il fatto in presenza o in danno di un minore di anni diciotto ovvero in danno di persona in stato di gravidanza. 11-sexies) l’avere, nei delitti non colposi, commesso il fatto in danno di persone ricoverate presso strutture sanitarie o presso strutture sociosanitarie residenziali o semiresidenziali, pubbliche o private, ovvero presso strutture socio- educative. 11-septies) l’avere commesso il fatto in occasione o a causa di manifestazioni sportive o durante i trasferimenti da o verso i luoghi in cui si svolgono dette manifestazioni.’’ ART. 62- CIRCOSTANZE ATTENUANTI COMUNI ‘’Attenuano il reato, quando non ne sono elementi costitutivi o circostanze attenuanti speciali, le circostanze seguenti: 1. l'avere agito per motivi di particolare valore morale o sociale; = per motivi di valore morale si intendono motivi che ricevono un apprezzamento pienamente positivo nell’intero gruppo sociale o in una parte di esso, come ad es. l’omicidio del consenziente derivante da sentimento di pietà. Per motivi di valore sociale si intendono motivi che, in un certo momento storico, rispondono ad obiettivi propri della società nel suo insieme, come ad es. un violento sciopero degli operai che chiedono il rispetto della legislazione antinfortunistica 2. l'aver reagito in stato di ira, determinato da un fatto ingiusto altrui; = per fatto ingiusto altrui si intende un comportamento in contrasto con norme giuridiche o con regole elementari della convivenza civile. Per stato d’ira si intende un’emozione che genera impulsi aggressivi non contenibili con normali freni inibitori. Tra lo stato d’ira e la commissione del reato deve esservi un rapporto di causalità: non vi è rapporto di causalità quando il fatto altrui ingiusto è mero pretesto di cui l’agente approfitta per dare sfogo alla sua aggressività. La Cassazione ritiene che il fatto di reato debba essere in rapporto di proporzione con ilo fatto ingiusto altrui che ha provocato lo stato d’ira 3. l'avere agito per suggestione di una folla in tumulto, quando non si tratta di riunioni o assembramenti vietati dalla legge o dall'autorità, e il colpevole non è delinquente o contravventore abituale o professionale, o delinquente per tendenza; 4. l'avere, nei delitti contro il patrimonio, o che comunque offendono il patrimonio, cagionato alla persona offesa dal reato un danno patrimoniale di speciale tenuità ovvero, nei delitti determinati da motivi di lucro, l'avere agito per conseguire o l'avere comunque conseguito un lucro di speciale tenuità, quando anche l'evento dannoso e pericoloso sia di speciale tenuità; 5. l'essere concorso a determinare l'evento, insieme con l'azione o l'omissione del colpevole, il fatto doloso della persona offesa; 6. l'avere, prima del giudizio, riparato interamente il danno, mediante il risarcimento di esso, e, quando sia possibile, mediante le restituzioni; o l'essersi, prima del giudizio e fuori del caso preveduto nell'ultimo capoverso dell'articolo 56, adoperato spontaneamente ed efficacemente per elidere o attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato.’’ ART. 62 BIS – CIRCOSTANZE ATTENUANTI GENERICHE ‘’Il giudice, indipendentemente dalle circostanze previste nell'articolo 62, può prendere in considerazione altre circostanze diverse, qualora le ritenga tali da giustificare una diminuzione della pena. Esse sono considerate in ogni caso, ai fini dell'applicazione di questo capo, come una sola circostanza, la quale può anche concorrere con una o più delle circostanze indicate nel predetto articolo 62. Ai fini dell'applicazione del primo comma non si tiene conto dei criteri di cui all'articolo 133, primo comma, numero Per il concorso eterogeneo di circostanze nel codice Rocco veniva previsto che il giudice procedesse discrezionalmente al giudizio di bilanciamento attraverso una valutazione qualitativa del peso delle diverse circostanze. Restavano escluse dal giudizio di bilanciamento le circostanze ad efficacia speciale e quelle inerenti la persona del colpevole. Il giudizio di bilanciamento, così strutturato, assolve in pieno alla funzione di individualizzazione della pena al caso concreto ed è “un giudizio complessivo e sintetico sulla personalità del reo e sulla gravità del reato”: il giudice dovrà, infatti, procedere ad una valutazione unitaria ed integrale dell’episodio criminoso. L’obbligatorietà della valutazione comparativa delle circostanze eterogenee garantisce la funzione di adeguamento della pena al caso concreto. Nell’impianto del codice rimanevano escluse dal giudizio di bilanciamento sia le circostanze ad effetto speciale sia quelle inerenti la persona del colpevole. Tali deroghe alla disciplina dell’art. 69 c.p. si giustificavano evidenziando l’eterogeneità delle ipotesi rispetto alle altre circostanze comuni e speciali: tale motivazione sembrava contraddire la funzione del giudizio di bilanciamento. Veniva, infatti, evidenziato, come l’esclusione da esso trovava giustificazione nel fatto che in alcune ipotesi di reato circostanziato corrispondeva una valutazione della rilevanza del fatto del tutto analoga a quella degli elementi costitutivi di un’autonoma fattispecie penale. Il legislatore ha optato per la creazione di circostanze ad effetto speciale per far fronte a pressanti esigenze di incriminazione attraverso la previsione di pene del tutto autonome. Con l’estensione del giudizio di bilanciamento si sarebbe potuto correre il rischio di vedere vanificare la valutazione legislativa a cui si sarebbe sostituita una valutazione discrezionale del giudice. Con la l. 220/1974 venne attuata una riforma che ha rappresentato un’innovazione radicale della funzione del giudizio di prevalenza o di equivalenza, attraverso l’estensione della disciplina del giudizio di bilanciamento anche alle circostanze inerenti alla persona del colpevole e alle circostanze ad effetto speciale. Tale intervento aveva come fine quello di porre rimedio ai frequenti episodi in cui la pena risultava sproporzionata rispetto ai fatti. LE CIRCOSTANZE BLINDATE Art. 602 ter c. p. (aggravanti dei delitti di riduzione in schiavitù, prostituzione minorile, pedopornografia). «Le circostanze attenuanti, diverse da quelle previste dagli articoli 98 e 114, concorrenti con le circostanze aggravanti di cui alla presente sezione, non possono essere ritenute equivalenti o prevalenti rispetto a queste e le diminuzioni di pena si operano sulla quantità della stessa risultante dall'aumento conseguente alle predette aggravanti» (Comma aggiunto dall’art. 1, d. lgs. 4 marzo 2014, n. 39). A partire dalla legislazione di emergenza degli anni ‘80 il legislatore ha introdotto delle circostanze blindate a cui ha riconosciuto un particolare privilegio nel giudizio di bilanciamento. La blindatura può avere due contenuti alternativi:  a base totale: si verifica l’esclusione della dichiarazione di prevalenza o equivalenza delle circostanze attenuanti.  a base parziale: viene preclusa al giudice la sola dichiarazione di prevalenza delle circostanze attenuanti LA CIRCOSTANZA BLINDATA DELLA MINORE ETÀ ART. 98 c.p. ‘’È imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, aveva compiuto i quattordici anni, ma non ancora i diciotto, se aveva capacità d’intendere e di volere; ma la pena è diminuita. Quando la pena detentiva inflitta è inferiore a cinque anni, o si tratta di pena pecuniaria, alla condanna non conseguono pene accessorie. Se si tratta di pena più grave, la condanna importa soltanto l’interdizione dai pubblici uffici per una durata non superiore a cinque anni, e, nei casi stabiliti dalla legge, la sospensione dall’esercizio della responsabilità genitoriale’’ «È costituzionalmente illegittimo, in applicazione dell'art. 27 della l. 11 marzo 1953 n. 87, l'art. 69 comma 4 c.p., nella parte in cui prevede che nei confronti del minore imputabile sia applicabile la disposizione del comma 1 dello stesso art. 69 in caso di concorso tra le circostanze attenuanti di cui all'art. 98 c.p. e una o più circostanze aggravanti comportanti la pena dell'ergastolo. L'art. 69 è costituzionalmente illegittimo anche nella parte in cui prevede che nei confronti del minore siano applicabili le disposizioni dei comma 1 e 3 dello stesso art. 69, in caso di concorso tra la circostanza attenuante di cui all'art. 98 c.p. e una o più circostanze aggravanti che accedono ad un reato per il quale è prevista la pena base dell'ergastolo» (Corte cost., 168/1994). LE CIRCOSTANZE ATTENUANTI GENERICHE L’art. 62 bis c.p. contempla una particolare categoria di circostanze attenuanti indefinite, le c.d. attenuanti generiche: il giudice, indipendentemente dalle circostanze previste nell’art. 62, può prendere in considerazione altre circostanze diverse, qualora le ritenga tali da giustificare una diminuzione della pena. Si tratta di elementi diversi da quelli che fondano le circostanze previste dal legislatore; esse sono considerate come una sola circostanza, la quale può anche concorrere con una o più circostanze contenute nell’art. 62 c.p. Nel riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche riveste un ruolo determinante la discrezionalità del giudice finalizzata ad un miglior adeguamento della pena alla limitata gravità del reati in modo da mitigare il trattamento sanzionatorio. Il legislatore è intervenuto a limitare la discrezionalità del giudice con due interventi di riforma. Con la legge Cirielli vengono introdotte limitazioni al riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche per alcune ipotesi di recidiva reiterata; e con il decreto legge n. 92/2008 viene introdotto un ultimo comma all’art. 62 bis c.p. in cui si afferma che “in ogni caso, l’assenza di precedenti condanne per altri reati a carico del condannato non può essere, per ciò solo, posta a fondamento della concessione delle circostanze di cui al primo comma”. LA RECIDIVA Tra le circostanze inerenti la persona del colpevole l’art. 70 c.p. ricomprende anche la recidiva, disciplinata in concreto dall’art.99 c.p. L’istituto della recidiva si caratterizza per la previsione di un aumento di pena nel caso in cui un soggetto dopo essere stato condannato per un reato ne commetta un altro. Esistono diverse forme di recidiva: recidiva semplice, recidiva aggravata (specifica, infraquinquennale, esecutiva e del latitante), recidiva reiterata. 1. Recidiva semplice: chi, dopo essere stato condannato per un delitto non colposo, ne commette un altro (senza previsione di limiti temporali tra un reato e l’altro), può essere sottoposto ad un aumento di un terzo della pena da infliggere per il nuovo delitto non colposo. 2. Recidiva aggravata: la pena può essere aumentata fino alla metà. a. Recidiva specifica: se il nuovo delitto non colposo è della stessa indole. Per reati della stessa indole si intendono non soltanto quelli che violano una stessa disposizione di legge, ma anche quelli che presentano, nei casi concreti, caratteri fondamentali comuni. b. Recidiva infraquinquennale: quando il nuovo delitto non colposo è stato commesso nei cinque anni dalla condanna precedente. c. Recidiva esecutiva e del latitante: prevede l’aumento della pena fino alla metà se il nuovo delitto non colposo è stato commesso durante o dopo l’esecuzione della pena 3. Recidiva reiterata: se il recidivo commette un altro delitto non colposo, l’aumento della pena, nel caso di recidiva semplice, è della metà e, nei casi di recidiva aggravata, di due terzi. L’art. 70 c.p. qualifica la recidiva quale circostanza aggravante inerente la persona colpevole. Secondo la giurisprudenza prevalente, invece, la recidiva è una circostanza aggravante da contestare obbligatoriamente dal momento che facoltativo è il solo aumento di pena: viene pertanto ammesso il giudizio di bilanciamento e gli altri effetti giuridici si producono anche a prescindere dall’aggravamento sanzionatorio. La recidiva comporta diversi effetti di indubbia rilevanza pratica: a. un aumento quantitativo della pena; b. limitazioni al giudizio di bilanciamento; c. limitazioni al riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, d. effetti in ordine all’applicazione di determinate cause di estinzione. CRITERI PER DISTINGUERE GLI ELEMENTI COSTITUTIVI DAGLI ELEMENTI CIRCOSTANZIALI È importante comprendere quando ci si trovi di fronte ad una fattispecie circostanziata e quando a reati autonomi. 1. Anzitutto, mentre gli elementi costitutivi della fattispecie sono imputati di regola a titolo di dolo, gli elementi circostanziali sono imputati indifferentemente a titolo di dolo o colpa. 2. Le circostanze, a differenza degli elementi costitutivi, non incidono sul tempus e sul locus commissi delicti. Con il primo si individua il momento in cui può dirsi consumato il reato, con il secondo il luogo in cui quest’ultimo viene commesso. 3. In tema di prescrizione, la qualificazione di un elemento costitutivo o circostanziale incide sul computo del tempo necessario alla prescrizione del reato. Non esiste però un criterio normativo in base al quale possa essere stabilito con certezza quando ci si trovi in presenza di una circostanza o quando ad un vero e proprio elemento costitutivo. L’unico criterio che a volte può essere decisivo è quello riguardante il rapporto di specialità: se tra le 2 fattispecie non vi è rapporto di genere a specie, ma di incompatibilità-alternatività o di sostituzione di un elemento con un altro, allora si è di fronte ad un reato autonomo e non ad una circostanza. Tale criterio opera come criterio decisivo ai fini della distinzione solo in negativo, dal momento che in sua presenza rimangono valide entrambe le soluzioni. In altri termini, il rapporto di specialità è necessario, ma non sufficiente ad individuare un’ipotesi circostanziale, in quanto è necessario, allora, ricorrere a criteri suppletivi il cui valore è meramente indiziario. Per individuare la natura circostanziale o un elemento costitutivo di una fattispecie bisognerà dedurre dall’applicazione di questi criteri a quale disciplina il legislatore abbia voluto sottoporre una figura penalmente rilevante. Un primo indice che può essere utilizzato è costituito dalle indicazioni ricavabili dal testo di legge; indicativa dell’intentio legis potrebbe sembrare anche la rubrica, ove la fattispecie è espressamente qualificata come circostanza: il richiamo alla rubrica della norma non ha valore vincolante in quanto solo dall’analisi del tipo di struttura della norma o della disciplina applicabile si possono dedurre indicazioni sulla natura circostanziale della fattispecie. Poco probante è anche il criterio topografico, secondo il quale si è di fronte ad una circostanza nel caso in cui l’ipotesi sia collocata nella medesima norma ed un reato autonomo nel caso opposto: criterio poco indicativo, dal momento che vi possono essere sia circostanze collocate in norme autonome rispetto alla figura di cui sono elemento accessorio, sia norme al cui interno sono previste diverse fattispecie autonome di reato. Altri criteri strutturali sono quelli inerenti alla tecnica di formulazione e di indicazione della sanzione e del precetto. Nel caso della tecnica di formulazione si afferma che quando la fattispecie è descritta attraverso un mero rinvio al fatto-reato tipizzato in altra disposizione di legge, ci si trovi in presenza di una circostanza. Si replica in contrario che vi sono casi in cui un reato autonomo è descritto solo per relationem, si pensi nei delitti colposi contro la salute pubblica di cui all’art. 452 c.p., individuati richiamando i fatti previsti dagli artt. 438 e 439 c.p. Nel secondo caso il criterio strutturale è rappresentato dalla modalità di determinazione della pena: in alcuni casi il legislatore individua la cornice sanzionatoria, richiamando quella prevista in un’altra norma e applicando sulla stessa una variazione frazionaria in aumento o diminuzione. In altri casi, invece, il legislatore determina la pena modificandone la specie o mutando la cornice edittale rispetto alla pena di riferimento. Anche in questi casi l’indicazione non è univoca, perché a volte il legislatore ha inteso configurare una figura autonoma di reato e, in altri casi, ha previsto una circostanza indipendente. I REATI AGGRAVATI DALL’EVENTO
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