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Manuale di diritto penale - parte generale (Grosso, Pellissero, Petrini, Pisa) 2020, Sintesi del corso di Diritto Penale

Diritto Costituzionalediritto amministrativoDiritto criminale

Riassunto dei capitoli 1-17 dell'edizione 2020 (cioè la terza) del "Manuale di diritto penale - parte generale" a cura di Grosso, Pelissero, Petrini, Pisa.

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

In vendita dal 11/10/2021

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Scarica Manuale di diritto penale - parte generale (Grosso, Pellissero, Petrini, Pisa) 2020 e più Sintesi del corso in PDF di Diritto Penale solo su Docsity! MANUALE DI DIRITTO PENALE (Grosso-Petrini-Pelissero 2020) Parte 1- Introduzione al diritto penale CAPITOLO | - Diritto penale, reato, pena Il diritto penale e gli altri settori dell’ordinamento giuridico Nonostante siano tutti posti a protezione di prescrizioni, a differenza del diritto civile ( = diritti dei cittadini e rapporti tra privati) e del diritto amministrativo ( = organizzazione e funzionamento delle amministrazioni pubbliche e rapporti con i cittadini), il diritto penale disciplina i fatti che costituiscono reato e le relative sanzioni, divise in pene e misure di sicurezza. L'accertamento della commissione di un reato e l’inflizione della relativa sanzione è affidato a un giudice penale che dev'essere imparziale e indipendente da ogni altro potere statale e deve giudicare secondo le regole processuali penali previste a tutela delle garanzie degli imputati. Il reato (= illecito penale) si differenzia dall’illecito: - civile -> il quale è sanzionato con il risarcimento del danno e dalla restituzione, affidata alla valutazione del giudice civile; - amministrativo -> il quale è punito con sanzioni amministrative (es. pecuniarie, interdizioni, prescrittive, obblighi di ripristino) eseguite dalla stessa P.A. Inoltre, il reato è caratterizzato dalla specifica tipizzazione di ciascun illecito ed è perciò considerato illecito da modalità di lesione, mentre l’illecito civile è caratterizzato dall’atipicità e dalla generalizzazione della sua formulazione (“ogni fatto doloso o colposo che cagiona danno ingiusto” ex art. 2043 c.c.) ed è perciò considerato mero illecito da lesione. Meno marcate, invece, sono Je differenze con l’illecito amministrativo: anche il diritto amministrativo presenta un numero elevato di illeciti, ciascuno dei quali dev'essere caratterizzato da particolari connotati, ed è punito con sanzioni simili nel loro contenuto a quelle previste in sede penale (es. multa e ammenda). Dato che talvolta hanno una rilevante incidenza sulla libertà (es. prescrizioni e divieti) o sul patrimonio, con la legge 689/1981 il legislatore ha assicurato alle sanzioni amministrative un bagaglio di garanzie ricavate dalle norme previste in ambito penale (es. tassatività, legalità, irretroattività) e ne ha giurisdizionalizzato l'applicazione. Questo fenomeno ha determinato una progressiva attenuazione delle differenze di trattamento applicativo e contenuto sostanziale tra illecito penale e illecito amministrativo, in conseguenza di una sempre più ampia utilizzazione, in campo penale, di pene principali diverse dal carcere (es. multa e ammenda), che finiscono per coincidere con le sanzioni amministrative di tipo pecuniario. Bisogna tuttavia ricordare che, benché le sanzioni pecuniarie possano essere sia amministrative sia penali restano distinte l’autorità competente a irrogarle e la procedura di applicazione in caso fi mancato pagamento per insolvibilità del destinatario (poichécla P.A. può solo procedere con l’esecuzione forzata mentre multe o ammende non pagate si convertono in una sanzione limitativa della libertà personale, consistente in tot giorni di libertà controllata, da quando la Corte costituzionale, con la sentenza 131/1979, sulla base dell'art. 3 Cost. ha dichiarato illegittimo l’art. 136 c.p., che prevedeva la reclusione o l'arresto, per contrasto alla parità di trattamento). In passato, diversi studiosi hanno cercato di distinguere i reati da altre categorie di illeciti sulla base di criteri di natura sostanziale (es. turbamento della pubblica tranquillità), ma nessuno dei criteri adottati fu considerato esaustivo, perché individuava profili che possono essere indifferentemente rinvenuti sia nei reati sia negli illeciti di altro tipo. La funzione del diritto penale: la tutela dei beni giuridici La funzione del diritto penale è la tutela degli interessi umani. Questa concezione, originariamente formulata tra il XVIII e il XIX secolo, ha dunque natura utilitaristica ed è stata arricchita dalla convinzione per cui si dovrebbe considerare il diritto penale come extrema ratio della protezione giuridica, utilizzabile, a garanzia degli interessi giuridici di maggior rilievo individuale e sociale, solo quando non fossero disponibili altri strumenti. La funzione del diritto penale ha subito una costante evoluzione, di cui noi ricorderemo tre momenti: - XIX secolo -> oltre alla concezione utilitaristica, si sono sviluppati anche orientamenti che hanno considerato il diritto penale in chiave etico-morale o retribuzionistica: la funzione primaria del diritto penale sarebbe la punizione del complevole, il ripristino del diritto violato, la retribuzione del male con il male, ecc.; la ragione dell’applicazione di una sanzione a un comportamento considerato penalmente illegittimo sarebbe dunque la semplice punizione del colpevole per la disobbedienza a un imperativo legislativo, indipendentemente dal fatto che l’autore del reato avesse o meno offeso il bene tutelato dalla norma; - XX secolo -> le teorie retribuzionistiche ispirarono le concezioni autoritarie del diritto penale: la commissione del reato era individuata come un attentato all'autorità dello Stato, il cui intervento penale era così automaticamente giustificato nei confronti del colpevole; - meta anni Sessanta del XX secolo circa -> nel secondo dopoguerra, la concezione del diritto penale inteso come protezione degli interessi generali tornò al centro del dibattito penalistico della teoria del reato, nel quadro del ripristino di un corretto rapporto tra i concetti di autorità e libertà che riaffermasse i valori liberal-democratici e questo ritorno alle origini illuministiche (es. diritto penale come extrema ratio, valori preesistenti alle scelte del legislatore) si sviluppò in un contesto giuridico nuovo, che ha consentito di impostare su basi più salde il dibattito ottocentesco sui beni giuridici e sul concetto di offesa dell'interesse che la norma penale mira a proteggere. nella Costituzione italiana, approvata nel 1948, sono stati enunciati i valori fondanti del nuovo Stato repubblicano, tra i quali quello per cui non poteva essere punita come reato alcuna In coerenza con la funzione del diritto penale, identificata nella protezione d'interessi meritevoli di una tutela particolarmente incisiva, la funzione della pena dev'essere individuata nella prevenzione generale ( = deterrenza), cioè con la minaccia di una sanzione giustamente proporzionata al reato commesso per disincentivare i consociati dal delinquere. Per essere efficace, la prevenzione generale presuppone che la pena sia applicata rapidamente e inflessibilmente: questi criteri però nel nostro ordinamento fanno difetto, dati i lunghi tempi di svolgimento di un processo. Inoltre, l’art. 27, comma 3 Cost. stabilisce che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato, introducendo in materia penale anche una funzione di prevenzione speciale ( = rieducativa) che, però, come sottilienato dal verbo tendere, non diventa la funzione principale delle pene, che possono non cercare di conseguire questo obiettivo. L’introduzione di tale principio ha determinato profondi mutamenti: - nell'approccio al tema della sanzione penale, poiché il legislatore deve considerare anche la prospettiva della prevenzione speciale, che dovrà essere tenuta presente pure dal giudice nella determinazione concreta della pena; - nella disciplina della pena detentiva, sia con riferimento alle modalità del trattamento carcerario, sia nella prospettiva della sostituzione del carcere con spazi più o meno ampi di esecuzione penali fuori dal carcere. L'esecuzione della pena deve comunque cessare quando la sanzione inflitta sia stata completamente scontata o quando il soggetto condannato risulti rieducato, anche prima della scadenza della sanzione. L’aver assegnato anche alle pene una funzione rieducativa, dovrebbe far superare la dicotomia tra pene e misure di sicurezza, con la totale abrogazione di queste ultime e l'utilizzazione di pene attrezzate per favorire, nei limiti del possibile, l'educazione del condannato. CAPITOLO 2 - Evoluzione storica del diritto penale Illuminismo e diritto penale Il diritto penale moderno nasce con l’Illuminismo nella seconda metà del XVIII secolo e, dopo aver connotato le codificazioni di fine secolo (es. “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino” del 1789, costituzione e codice penale francese del 1791), numerose regole enunciate in quell'epoca costituiscono tuttora principi cardine delle legislazioni penali europee e dell’insegnamento del diritto penale (es. stretta legalità, irretroattività della legge penale, certezza del diritto, proporzionalità tra reato e sanzione, divieto di analogia, divieto di pene disumane). In Italia, il significato originale del pensiero illuministico si riscontra soprattutto ne “Dei delitti e delle pene” di Cesare Beccaria, per il quale: - il diritto penale non deve realizzare un astratto modello di regole morali, ma fornire una protezione forte dei beni umani fondamentali; - il diritto penale, quindi, dev'essere usato solamente quando si riveli estremamente necessario a tale tutela; - delitti e pene devono essere individuati con chiarezza prima della commissione del fatto, in quanto il cittadino ha diritto di conoscere preventivamente ciò che è vietato e ciò che è consentito; - la pena dev'essere retributiva, cioè deve colpire l’autore del reato in misura proporzionale alla gravità del fatto commesso; - la pena non deve superare il limite necessario per impedire il reato ( = efficacia preventiva generale); - nel sistema delle pene si deve privilegiare la pena carceraria perché uguale per tutti e perché si presta a essere graduata; - le pene devono essere uguali per tutti, indipendentemente dalle condizioni personali e sociali del reo, e non devono necessariamente essere severe ma, piuttosto, inflitte con rapidità e ineluttabilità, poiché l'efficacia intimidatoria di una pena, certa anche se mite, è maggiore di quella di una pesante ma incerta; - la pena di morte e la tortura devono essere abolite. Su un piano culturale, all'impostazione rigorosamente utilitaristica del pensiero illuministico si erano affiancate, nello stesso pensiero liberale, impostazioni che si richiamavano a impostazioni autoritarie e ad astratti criteri di giustizia (es. pene esemplari) e, in ambito legislativo, un chiaro esempio di questa tendenza fu il Codice penale napoleonico del 1810, che caratterizzò le codificazioni europee e italiane del XIX secolo: In tale prospettiva, ad esempio, vennero talvolta introdotte fattispecie di reato prive di offesa, incriminazione mirate a colpire con rigore lesioni degli interessi delle classi sociali dominanti, pene che perseguitavano comportamenti o pensieri pericolosi per la sicurezza dello Stato, pene esemplari. La scuola classica Il passaggio dall’illuminismo alle legislazioni liberali dell'800 ha trovato il suo supporto teorico culturale nella Scuola classica, che si affermò in Italia a partire dai primi decenni del XIX secolo. Francesco Carrara fu l'esponente principale di tale scuola, che si caratterizza, da un lato, per la sua continuità rispetto ai canoni garantistici dell'illuminismo e, dall’altro, per il ribaltamento dell’impostazione utilitaristica e la sostituzione del concetto di utile sociale con una visione metafisica e astorica del diritto penale: caratteristica della Scuola classica è stato il tentativo di costruire un sistema “astratto” di diritto penale, indipendente dalle contingenze politiche e sociali (che possono influenzare la legislazione positiva), e ancorato ai voleri della ragione assoluta ( = logica). In questa prospettiva, il compito del giurista è la costruzione del sistema dei reati e delle pene secondo rigorosi criteri generali di razionalità scientifica (= metodo deduttivo), senza cioè tener conto delle spinte o degli stimoli che possono provenire dalla società, dalla vita delle persone, dalla politica. Nella costruzione del sistema penale, Carrara e gli altri classici ripropongono i capisaldi delle idee liberali: - le garanzie della legalità e dell’irretroattività della legge penale; - i principi di tassatività della fattispecie e di certezza del diritto; - nessuno dev'essere punito per i soli pensieri e le sole intenzioni; - il reato e la responsabilità penale presuppongono la realizzazione di un fatto (c.d. forza fisica del reato) e di un elemento psicologico doloso 0 colposo (c.d. forza morale del reato); - la responsabilità penale è subordinata alla presenza della capacità di intendere del soggetto agente e di volere e alla sua capacità di scegliere liberamente tra il bene e il male (c.d. libero arbitrio); - il reato è giustificato solo dalla violazione del diritto, del quale la reintegrazione avviene attraverso l'irrogazione di una pena proporzionata all'infrazione commessa secondo una prospettiva di retribuzione giuridico-morale (e non di prevenzione generale). Dunque, per la Scuola classica il reato è l’ente giuridico che trova la sua giustificazione esclusivamente nella violazione del diritto e che impone pertanto la reintegrazione del diritto violato attraverso l’irrogazione di una pena proporzionata all’infrazione commessa e la proporzione tra reato e pena dev'essere impostata solo dalla retribuzione giuridico-morale: ciò enfatizza il carattere astratto del diritto penale. Il modello del sistema dei reati di Carrara ebbe un cedimento solo con riferimento ai delitti di lesa maestà ( = delitti oggettivamente politici contro lo Stato) che, data la natura della materia, sono necessariamente dipendenti dalle contingenze della politica e del potere. Inoltre, la Scuola classica compì il perfezionamento degli strumenti di analisi tecnica, secondo un approccio metodologico importante, i cui risultati furono duraturi nel tempo, tanto da influenzare in parte ancora oggi la teoria generale del reato e l'approfondimento degli elementi costitutivi dell'illecito penale. Un esempio dell’applicazione della teoria classica fu il Codice Zanardelli del 1889, che costituì un'elevata espressione legislativa delle garanzie illuministico-liberali e rappresentò un passo avanti nella configurazione dei presupposti generali della responsabilità penale. Infatti, nella parte generale del Codice Zanardelli si trovavano: - laformulazione tecnicamente appropriata dei principi di legalità e di irretroattività della legge penale; - l’eliminazione della pena di morte; - il sistema sanzionatorio era articolato in un complesso di sanzioni diverse dal carcere; -_ il principio di colpevolezza era presupposto indispensabile per la responsabilità penale e posto a fondamento dell’imputabilità. Il contenuto della parte speciale del Codice Zanardelli, poi, era molto attento a punire solo i fatti lesivi di interessi, a rispettare il principio di tassatività delle fattispecie e a evitare livelli eccessivi di pena. Infatti, per quanto concerne i principi di parte generale, è innanzitutto significativa l'inversione di tendenza che si è manifestata nei confronti del principio di colpevolezza attraverso la previsione di numerose ipotesi di responsabilità oggettiva. Inoltre, in materia di forme di manifestazione del reato, le formule garantistiche del tentativo e del concorso di persone hanno ceduto il passo a norme che si prestavano ad applicazioni molto più discrezionali. Per giunta, l'elaborazione scientifica dominante svalutò il concetto di bene giuridico e, nella parte speciale del codice penale, furono previsti numerosi delitti contro lo Stato, reati di opinione, il delitti di sciopero e reati di pericolo presunto, con la chiara funzione di repressione del dissenso politico. Significativa è stata anche la nuova configurazione delle pene: venne ripristinata la pena di mote, ampliata l’utilizzazione dell’ergastolo e si assistette a un inasprimento di tutte le sanzioni. Affiancate alle pene (intese in senso retributivo), vennero introdotte le misure di sicurezza, indeterminate e applicate a chi, imputabile o non imputabile ma socialmente pericoloso, avesse commesso un reato con la funzione di difesa sociale e recupero sociale: in questo modo, una parte del bagaglio culturale giuridico della Scuola positiva entrò nel sistema penale italiano accanto all'impostazione classico-liberale dei meccanismi della responsabilità penale. Arturo Rocco spiegò la presenza di questo doppio binario come compromesso fra le scuole, realizzato nel quadro di un'impostazione che tentava di imporsi lungo una linea di politica criminale (sganciata dal rispetto dei principi di stretta legalità e di tassatività), sollecitata dai parziali fallimenti dei sistemi liberali, soprattutto nella lotta contro il recidivismo. Caduta del Fascismo e tentativi di riforma Caduto il Fascismo, nel 1945 il Guardasigilli Tupini insediò una commissione di riforma del Codice penale che, tuttavia, non raggiunse alcun risultato perché la riforma fu ostacolata da alcuni degli stessi componenti della commissione, i quali ritenevano la codificazione del 1930 un codice “tecnicamente impeccabile”, che necessitava di sole e circoscritte riforme di settore con le quali ripristinare le garanzie liberali ed eliminare i titoli della parte speciale più funzionali a un’ideologia autoritaria e illiberale. Eletta l'Assemblea costituente nel 1946, si pensò che sarebbe stato opportuno procrastinare le riforme dei codici per poterli adeguare ai nuovi principi dello Stato repubblicano ma, pure dopo l’entrata in vigore della Costituzione, il quadro politico nazionale e internazionale (es. tensioni politiche ed emarginazione delle forze politiche che maggiormente sostennero la Resistenza al Fascismo) bloccò per anni ogni processo di riforma del sistema penale e fu necessario attendere la metà degli anni Sessanta. L'impatto dei principi costituzionali sul sistema penale L'impatto della Costituzione sul sistema penale è individuabile sul piano: 1. delle norme che prevedono principi di garanzia ed enunciano regole in materia di responsabilità e di sanzioni penali (artt. 25 e 27 Cost.); 2. dell’enunciazione dei diritti di libertà (es. pensiero, associazione, riunione) e dei diritti sociali (es. sciopero, lavoro), alla luce dei quali numerose norme del codice sono risultate costituzionalmente illegittime e progressivamente annullate o modificate e, ad esempio: - il principio di colpevolezza ha riacquistato centralità nella teoria della responsabilità penale; - il bene giuridico costituiscw nuovamente una delle basi su cui si fonda la teoria del reato e della funzione del diritto penale; - la pena non ha più solo valenza retributiva o preventivo-sociale ma può acquistare anche valenza rieducativa; - il delitto di sciopero è stato sostituito dal diritto di sciopero. Dall'inizio degli anni Settanta cominciò a manifestarsi un nuovo modo di concepire il ruolo del giurista: al dominante tecnicismo si affiancò la convinzione di alcuni giuristi di doversi riappropriare del ruolo di politici del diritto. Sul piano della discussione teorica, quest’atteggiamento sfociò in un’analisi critica dei contenuti della legislazione vigente, mentre sul piano pratico una schiera di giovani magistrati iniziò un’opera di adeguamento interpretativo della legislazione penale ordinaria ai dettami costituzionali. Nella costruzione della teoria del reato invece si è sicuramente rivalutato il concetto di bene giuridico sia come criterio dogmatico di classificazione dei reati, sia come strumento di politica criminale e di limite garantistico dell'intervento penale. Inoltre, si sono assunti i valori costituzionali come punto di riferimento per la costruzione di un nuovo sistema dei reati, tentando una ricatalogazione dei beni meritevoli di tutela: i beni giuridici “classici” sono stati affiancati da nuovi beni giuridici che hanno ricevuto rilevanza costituzionale e la cui individuazione ha sollevato nuovi problemi di classificazione, definizione e tutela della protezione giuridica. Un cenno merita inoltre il tema fondamentale del sistema sanzionatorio, fortemente influenzato dall’introduzione, da parte della Costituzione, della funzione rieducativa delle pene, che ha determinato un'intensa elaborazione dottrinale, la quale, ad esempio, ha modificatp i contenuti esecutivi della pena carceraria, sostituito il carcere con sanzioni non detentive, superato il sistema del doppio binario. L'evoluzione del diritto penale in epoca repubblicana: l'efficacia del diritto vivente, riforme effettuate e riforme mancate Dal dopoguerra a oggi, i tentativi di predisporre un nuovo codice penale sono stati vari e, in merito, si possono ricordare: - Progetto Pagliaro -> tracciava per la prima volta una linea di riforma del codice penale coerente con i principi costituzionali di tassatività, colpevolezza, offensività, riduceva la discrezionalità del giudice e superava il doppio binario; 11 - Progetto Grosso -> curava nuovamente l'adeguamento del codice penale ai principi costituzionali e alle più moderne tendenze di politica criminale e, soprattutto, aveva elaborato un modello di sanzioni penali molto innovativo, abbandonando l’impronta carcero-centrica e prevedendo numerose pene principali di tipo diverse; introduceva inoltre il meccanismo dei tassi giornalieri; - Progetto Nordio e Progetto Pisapia -> si caratterizzavano per l'impronta limitatrice dell’area operativa del diritto penale e dell’uso del carcere tra le sanzioni penali. Tuttavia, benché sia comunque auspicabile per dare armonia al sistema, nel corso degli anni una riforma organica non è mai stata realizzata: il codice penale porta ancora la firma del guardasigilli del 1930, anche se ha subito abrogazioni e modificazioni tali da renderlo in larga misura irriconoscibile e, nel suo complesso, sufficientemente rispettoso dei principi costituzionali. Tra gli interventi successivi al 1948 si possono ricordare i seguenti. La |. 127/1958 modificò la disciplina della responsabilità penale per i reati commessi con il mezzo della stampa, eliminando nei confronti del diretto responsabile la responsabilità oggettiva originariamente prevista dal codice Rocco. La |. 191/1962 e la |. 1634/1962 modificarono gli istituti della sospensione condizionale della pena e della liberazione condizionale in una prospettiva di maggiore apertura nei confronti della funzione preventivo-speciale, assegnata dalla Costituzione alla pena. Con due leggi, approvate rispettivamente negli anni Sessanta (I. 317/1967) e Settanta (I. 706/1975), il legislatore avviò il processo della depenalizzazione dei reati bagatellari (= reati che hanno minore rilevanza sociale e possono quindi essere repressi con sanzioni più lievi), ma l’unanime valutazione della dottrina ritiene che, pur inserendosi in una linea politico-criminale corretta, a causa della timidezza dell'intervento previsto, tali leggi sono lontane dal raggiungere l'obiettivo di uno sfoltimento significativo dei reati che appesantiscono il nostro sistema penale. La |. 220/1974 fu il primo intervento consistente di modifica della parte generale del codice penale: - estese la possibilità del giudizio di comparazione a tutte le circostanze aggravanti e attenuanti; - introdusse il cumulo giuridico delle pene nel concorso formale del reato; - estese il reato continuato alle violazioni di diverse disposizioni di legge; - rese facoltativa la recidiva; - ampliò i limiti della sospensione condizionale della pena. Destinata a mitigare tratti di perdurante durezza del codice penale, questa legge ha però spesso assegnato al giudice uno smisurato potere discrezionale, incompatibile con la funzione giudiziaria; La |. 354/1975 realizzò la riforma dell'ordinamento penitenziario in vista di tre obbiettivi fondamentali: 1. rendere l'esecuzione penitenziaria coerente con la funzione rieducativa della pena; L'ordinamento italiano accoglie una nozione formale di reato (= è reato solo quel fatto per il quale la legge prevede come conseguenza sanzionatoria una pena). Una volta garantito il rispetto della riserva di legge, il legislatore non è però comunque libero di qualificare qualsiasi fatto come reato: già gli illuministi sostenevano che, per tutelare da arbitri del potere punitivo dello Stato, alla garanzia formale della legalità occorre affiancare garanzie sostanziali che arginino il potere di criminalizzazione del legislatore e, oggi, la riflessione si arricchisce della prospettiva costituzionale. Il quadro dei principi costituzionali espressamente dedicati alla materia penale sostanziale non è ampio: - art. 25 Cost. -> enuncia il principio di legalità, riferito anche alle misure di sicurezza; - art. 13 Cost. -> stabilisce l’inviolabilità della libertà personale, prescrivendo le condizioni per la sua limitazione; - artt. 10 e 26 Cost. -> prevede limiti all’estradizione; - art. 27 Cost. -> enuncia il principio della responsabilità penale personale, indica limiti al contenuto delle pene e ne fissa il finalismo; - art. 90 Cost. prevede l'immunità del Presidente della Repubblica; - art. 117 Cost. indica gli effetti dei vincoli sovranazionali e l'esclusione della potestà legislativa regionale in materia penale. In ogni caso, incide sulla materia penale il complesso delle norme costituzionali e l'impronta personalistica della Costituzione condiziona interpretazioni delle fattispecie presenti orientate a ciò (es. già prima del 1978 la Corte costituzionale aveva dichiarato legittimo l’aborto terapeutico, interpretando estensivamente lo stato di necessità, ex art. 54 c.p., a favore della persona della madre invece che dell'embrione, che persona doveva ancora diventare). I limiti di ordine costituzionale alle scelte di politica criminale possono essere distinti in divieti, limiti o obblighi di incriminazione. Divieti di incriminazione Per il legislatore vietato incriminare condotte che costituiscono esercizio di diritti e libertà costituzionali, il cui esercizio non può costituire reato in forza dei principi di non contraddizione e di gerarchia delle fonti. Questi divieti si estendono anche all’interprete, al quale spetta. - effettuare un’interpretazione costituzionalmente orientata delle norme penali ( = adeguatrice delle norme penali alla Costituzione) in modo da salvaguardare l’esercizio di diritti e libertà individuali (es. per assicurare il rispetto dell’art. 21 Cost., la Corte costituzionale ha interpretato in senso restrittivo il delitto di apologia di delitto, ex art. 414 c.p., affermando che l’apologia punibile non è la manifestazione di pensiero pura e semplice, ma quella che, per le sue modalità, integri un comportamento concretamente idoneo a provocare la commissione di delitti); - sollevare la questione di legittimità costituzionale qualora non sia possibile un’interpretazione costituzionalmente orientata (es. il riconoscimento dei diritti di libertà sindacale e di sciopero dichiarazione di illegittimità costituzionale del delitto di 15 serrata e sciopero per fini contrattuali, ex art. 502 c.p., per contrasto con gli art. 39 e 40 Cost.). Un ulteriore divieto di incriminazione di carattere generale deriva dalla necessità di rispettare il principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost., come ad esempio nel caso: - dell’art. 559 c.p., che venne dichiarato incostituzionale perché prevedeva il reato di adulterio solo se commesso dalla moglie; - dell’aggravante della clandestinità per qualsiasi reato commesso da una persona illegalmente presente sul territorio italiano, poiché il disvalore del reato non cambia in ragione dello status civitatis del soggetto che lo ha commesso. Limiti di incriminazione Essi limitano il legislatore nell'esercizio della sua potestà di incriminazione e sono costituiti da principi costituzionali, che limitano le scelte di politica criminale e che possono essere dimostrativi, se consentono di dichiarare l’illegittimità della norma in contrasto (es. principio di determinatezza) o argomentativi, i quali sono soltanto indirizzi di politica criminale rivolti al legislatore e che non consentono una dichiarazione di illegittimità costituzionale (es. principio di sussidiarietà): - principio di determinatezza; - principio di materialità; - principio di offensività; - principi di proporzionalità, sussidiarietà, frammentarietà ed efficacia della tutela penale; - principio di colpevolezza. Prin jpio di determinatezza Il principio di determinatezza trova riconoscimento implicito nell'art. 25, comma 2 Cost. (principio di legalità): la riserva di legge costituisce una garanzia solo formale del principio di legalità in quanto il legislatore, nel rispetto della fonte, potrebbe attribuire rilevanza penale a qualsiasi fatto mentre, nella misura in cui si valorizza la ratio di garanzia sottostante al principio di legalità, quale strumento finalizzato ad assicurare ai consociati la garanzia di libere sfere d’azione dal potere punitivo statale, è necessario che la legge descriva in modo sufficientemente preciso le norme penali (principio di determinatezza o precisione), poiché i consociati devono poter prevedere in anticipo quali sono i comportamenti vietati, non solo a garanzia della libertà individuale ma anche in funzione dell’efficacia deterrente della norma penale (dal momento che il rispetto della norma penale può essere solo preteso da chi è stato messo nella condizione di conoscere il contenuto della norma stessa). La stessa Corte europea dei diritti dell’uomo fonda tale garanzia sull’art. 7 CEDU in qualità di diritto fondamentale dei consociati: le norme devono essere accessibili e prevedibili, sia nel loro contenuto sia nelle loro conseguenze sanzionatorie. Esso costituisce un limite generale alla politica criminale, in quanto, tra i sotto-principi del principio di legalità, è quello che si rivolge al legislatore, imponendogli limiti (pur deboli perché solo strutturali) nella formulazione di norme penali. Ulteriore profilo della determinatezza sancito dalla Corte costituzionale è il fatto che si impone al legislatore non solo di descrivere fatti chiari e precisi, ma anche di prevedere reati che corrispondano a situazioni riscontrabili nella realtà. Il principio di materialità, che impone al legislatore di incriminare solo comportamenti umani esteriormente percepibili in quanto il diritto penale non può accedere al foro interno del soggetto, risale all’Illuminismo e al pensiero giusnaturalista, che ritenevano importante scindere il concetto di reato dal concetto di peccato, e trova fondamento nell’art. 25, comma 2 Cost., con riferimento al fatto commesso (“nessuno può essere punito se non in forza di una legge entrata in vigore prima del fatto commesso”). Ovviamente, non contrastano con tale principio i reati omissivi perché la condotta omissiva, che assume carattere normativo (poiché è una mancata realizzazione della condotta che costituisce l'errore), è rilevante solo nella misura in cui sussiste un obbligo di attivarsi o di impedire l'evento. È invece incompatibile con il principio di materialità il c.d. diritto penale: - della volontà, proposto dalla Scuola di Kiel durante il nazionalsocialismo, per cui la sanzione penale interviene non per reprimere fatti dannosi ma la volontà cattiva, equiparando delitto tentato e commesso (poiché è identica la volontà di trasgredire), giustificando una forte anticipazione dell'inizio dell'attività punibile; - dell’atteggiamento interiore, che pone al centro della relazione penale l'atteggiamento spirituale del soggetto rispetto ai beni giuridici più che il comportamento diretto a offenderli; - della pericolosità, nel quale si punisce non l’autore di un fatto ma l’autore pericoloso, la cui condotta di vita appare sintomatico di rischio di commissione di reati, attribuendo rilevanza penale a stati di marginalità sociale. io di offensività il rispetto del principio di materialità non basta a giustificare l'intervento penale perché è anche necessario che la pena sia rivolta nei confronti di fatti offensivi di beni giuridici. Tale principio è ampiamente accolto dalla Corte costituzionale, che ne ha evidenziato la duplice dimensione, sia sulterreno della previsione normativa, sia su quello dell’applicazione giudiziale. Per evidenziare questi due profili possiamo distinguere tra: 17 Peraltro, solo in una sentenza della Corte costituzionale, il principio di offensività in astratto è stato direttamente chiamato in causa per dichiarare l'illegittimità di una norma penale (es. dichiarazione dell’illegittimità di una legge che puniva come contravvenzione l'esposizione non autorizzata di una bandiera straniera, in quanto la criminalizzazione di tale fatto non comporterebbe tutela ad alcun bene giuridico). In altri casi, invece, il principio di offensività si è espresso attraverso il principio di ragionevolezza, secondo il quale una fattispecie non offensiva di alcun bene giuridico è irragionevole perché viola l’art. 3 Cost. (es. dichiarazione dell’illegittimità costituzionale della contravvenzione di mendicità non invasiva): la preferenza accordata il principio di ragionevolezza, come vettore dell’offensività in astratto, risiede nella consolidata ricezione di questo principio nella giurisprudenza costituzionale e nella flessibilità del suo contenuto. Il riconoscimento del principio dell’offensività in astratto produce effetti positivi in termini di limitazioni della tutela penale: - esclude la legittimità del diritto penale d'autore, nel quale rilevano non i fatti offensivi, ma la qualità personale dell'autore del fatto e, in merito, è stata ad esempio dichiarata l’illegittimità costituzionale: ® dell’art. 688, comma2 c.p., che puniva il fatto di essere colti in stato di ubriachezza in luoghi pubblici solo se il fatto era commesso da chi fosse già stato condannato per delitto colposo contro la vita o l'incolumità delle persone; e della circostanza aggravante della clandestinità, che prevedeva una pena più elevata per qualsiasi reato se il fatto fosse stato commesso dallo straniero extracomunitario che si trovasse illegalmente sul territorio statale; - esclude la rilevanza di condotte che possono essere oggetto di disapprovazione morale, ma che non offendono interessi di terzi o della collettività, in quanto si risolvono in fatti che appartengono a scelte individuali. Il principio di offensività fonda, quindi, la distinzione tra diritto penale e morale, in quanto i precetti dell'uno non possono essere fondati sui precetti dell'altra, anche in ragione del pluralismo della società contemporanea e del principio di laicità dello Stato, benché ciò non sempre avvenga (es. la recente introduzione del delitto di pornografia virtuale ex art. 600quater c.p. punisce la detenzione di materiale pornografico rappresentante immagini virtuali di minori ma la sanzione sembra più diretta a colpire condotte immorali che a tutelare lo sviluppo psico- fisico della sessualità del minore, che non appare compromessa poiché le immagini non sono reali). ! 1 Tale ultima questione ha assunto rilevanza nel dibattito internazionale tra i sostenitori di due visioni opposte del diritto penale: =. liberale, secondo la quale l'ordinamento deve garantire sfere di libertà individuale in relazione alle condotte che non producono danno a terzi; =. paternalistica, il cui presupposto è la tutela penale dei beni giuridici anche rispetto a condotte autolesive che i loro titolari liberamente decidessero di tenere, con la conseguenza che il diritto penale diventa uno strumento coercitivo di limitazione delle scelte individuali (es. la prostituzione volontaria può sempre essere facilmente condizionata dal rendiconto economico e, di conseguenza, svilire il rispetto della dignità umana e della sessualità come espressione della propria personalità). Dunque, il richiamo al bene giuridico come oggetto della tutela penale ha consentito una interpretazione evolutiva degli stessi interessi tutelati dai principi costituzionali e dell'evoluzione del contesto culturale: infatti, i beni giuridici non sono entità statiche ma rappresentano una categoria giuridica condizionata dall'evoluzione del contesto socio-culturale in cui i singoli beni sono calati es. la tutela della religione attraverso l’art. 402 ss. c.p. ha progressivamente perso il significato di tutela istituzionale della religione cattolica a fronte delle previsioni dell’art. 19 Cost.). La necessità di inquadrare beni giuridici nell'ambito dei principi costituzionali impone anche una revisione dei limiti di tutela penale per la presenza di contro-interessi costituzionalmente rilevanti, in particolare quando questi sono costituiti da diritti e libertà riconosciuti dalla Costruzione. Per quanto riguarda invece il principio di offensività in concreto, in relazione al quale spetta al giudice applicare la norma penale solo in relazione a fatti concretamente offensivi del bene giuridico tutelato, a volte la Corte costituzionale salva una norma, indiziata di non rispettare tale principio, sostenendo che sussiste il bene giuridico tutelato, ma che spetta al giudice accertare in concreto se ci sia stata lesione o meno e, in questo modo, tale principio serve alla Corte come via di fuga per evitare una declaratoria di illegittimità (es. non è fondata la questione di legittimità costituzionale sulla contravvenzione di possesso ingiustificato di chiavi alterate o grimaldelli per coloro che sono stati già condannati per delitti determinati da motivi di lucro, perché la fattispecie non delinea un diritto penale d'autore ma mira a salvaguardare il patrimonio rispetto a situazioni di pericolo normativamente tipizzate e spetterà solo al giudice poi la successiva valutazione in concreto se applicare o meno la norma). Infine, esistono anche beni strumentali, la cui tutela è finalizzata a garantire beni finali ulteriori che rimangono sullo sfondo della tutela (es. nella fattispecie di false comunicazioni sociali ex art. 2621 c.c. l'interesse della veridicità dell’informazione societaria è strumentale agli interessi di soci, creditori, ecc.): l'emersione dei beni strutturali comporta l'allontanamento dei beni finali dall’orizzonte definitorio dell'oggetto della protezione, giustificando il ricorso a tecniche di tutela anticipata. Parte della dottrina ha poi evidenziato che, in presenza di attività sottoposte a controllo, accanto a fattispecie tradizionali poste a protezione di beni giuridici, esistono fattispecie poste a tutela di funzioni qualora la fattispecie di reato sia strutturata intermini di attività svolta senza il titolo autorizzativo richiesto oppure violando gli obblighi di comunicazione richiesti dalla normativa di settore: la norma penale si limita a tutelare le funzioni di controllo dell'organo a cui spetta la vigilanza dello specifico settore di attività, mentre la tutela del bene finale è affidata alla stessa autorità di controllo (es. svolgimento dell’attività bancaria senza autorizzazione della Banca d’Italia). La dottrina vede infatti con favore la distinzione tra le due tutele per limitare il ricorso alle sanzioni penali: anche se il diritto penale non può essere invocato a tutela di mere funzioni, le funzioni tutelate costituiscono esse stesse importanti beni giuridici che possono giustificare l'intervento penale e, pertanto, le funzioni sono beni strumentali la cui tutela è inscindibilmente connessa a quella dei beni finali. 21 Principio di proporzionalità La tutela del bene deve apparire proporzionata al ricorso alla sanzione penale che incide direttamente o indirettamente sulla libertà personale: nel c.d. giudizio di meritevolezza della reazione penale dev'essere quindi considerata la proporzionalità rispetto al tipo di bene offeso e alle modalità di aggressione (prevedendo sanzioni più elevate per beni più importanti e modalità particolarmente aggressive). Tuttavia, oltre all'esigenza dell'adeguatezza della pena rispetto alla gravità del fatto, il principio di proporzionalità rappresenta soprattutto un criterio generale di congruenza degli strumenti normativi rispetto alle finalità da perseguire. Il principio di proporzione trova fondamento nell’interpretazione sistematica di alcune norme della Costituzione: - l’art. 13 Cost., proclamando l’inviolabilità della libertà personale, giustifica il ricorso alla sanzione penale solo a tutela di beni di un certo rilievo e che appaiono meritevoli di più intensa protezione; - l’art. 27, comma 3 Cost., che individua la funzione rieducativa della pena, presuppone il rispetto del principio di proporzionalità poiché, se il ricorso alla sanzione penale fosse previsto in relazione a beni o a modalità di offesa non meritevoli di giustificare il sacrificio della libertà personale, la sanzione penale si presenterebbe come un intervento arbitrario e sarebbe sin dall'inizio pregiudicata la funzione rieducativa della pena; - l’art. 3 Cost. garantisce il più generale principio di uguaglianza-ragionevolezza, di cui è espressione il principio di proporzionalità. Oltre ai beni che rientrano nelle indicazioni fornite al legislatore dalle norme costituzionali, sono considerati meritevoli di tutela penale anche gli interessi che godono di un riconoscimento pre- normativo all’interno dei rapporti sociali in cui si inseriscono e dai quali sono influenzati, benché rimanga al legislatore il compito di razionalizzare le istanze di criminalizzazione delle condotte provenienti dalla collettività, circoscrivendole nell’ambito dei principi costituzionali e non giustificando il diritto penale promzionale, attraverso il quale si inculcano nella collettività valori in cui essa non crede. Principio di sussidiarietà Il sacrificio imposto alla libertà personale dalla sanzione penale richiede che sussista anche un effettivo bisogno di pena: devono risultare inefficaci altri strumenti di tutela meno affflittivi. L’esigenza di extrema ratio del diritto penale (incardinata nel principio di sussidiarietà) stabilisce infatti che solo nell'impossibilità o nell'insufficienza dei rimedi previsti dagli altri rami dell'ordinamento giuridico al legislatore ordinario è concesso incidere negativamente (ai fini sanzionatori) sui più importanti beni del privato: il principio di sussidiarietà si basa sugli artt. 3, 13 e 27, comma 3 Cost. per ragioni analoghe a quelle che supportano la rilevanza costituzionale A contenere l’ipertrofia del sistema penale hanno contribuito anche gli istituti di depenalizzazione in concreto, con riferimento ai quali, pur non venendo meno la qualificazione del fatto come reato, la legge esclude la punibilità in presenza di alcune condizioni che tengono contro della particolare tenuità del fatto o del buon esito della messa alla prova del soggetto o dell'intervento di condotte riparatorie. Tuttavia, allo stesso tempo è in atto l’opposta tendenza del potenziamento dello strumento penale attraverso la progressiva anticipazione della soglia di punibilità: a fronte dei nuovi rischi tecnologici, che mettono in pericolo settori più o meno ampi della collettività, sono proliferati i reati di pericolo, che intervengono in via preventiva a tutela dei beni giuridici, e sono stati previsti nuovi beni giuridici strumentali, che anticipano l'intervento penale, nonché la riscoperta delle misure di sicurezza e la proliferazione delle misure di prevenzione come strumento per controllare in via preventiva, in assenza di una sentenza di condanna, la pericolosità del soggetto attraverso misure limitative della libertà personale. Ci troviamo di fronte ad un diritto penale della prevenzione, che amplia la sfera di controllo penale attraverso l'estensione dell'area di rilevanza penale o attraverso l'introduzione di nuovi strumenti di controllo preventivo ante delictum, che sollevano delicati problemi di rispetto delle garanzie individuali. L'elemento più preoccupante di sviluppo attuale del diritto penale è però il populismo penale, che indica la tendenza a utilizzare lo strumento penale in chiave di comunicazione politica, suscitando e dirigendo paure collettive con la finalità di ottenere consensi elettorali: tutto ciò è connotato dall’inefficienza dell'intervento penale, che diventa puramente simbolico (es. reato di clandestinità, riforma sulla legittima difesa del 2019). Seconda parte — Legge penale CAPITOLO 4 - Riserva di legge Principio di legalità e suoi sotto-principi Nel passaggio dall’Ancien régime alle costituzioni e alle codificazioni penali liberali, frutto della Rivoluzione francese, nasce e si consolida il principio di legalità (enunciato la prima volta nell'art. 8 della “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino” del 1789), in virtù del quale i precetti penali, gli unici dai quali può derivare una limitazione della libertà personale dei consociati, devono provenire non più dall'arbitrio di un sovrano assoluto ma da una legge emanata da un Parlamento democraticamente eletto e che dev'essere previa al fatto commesso, chiara e precisa, in modo tale che tutti i cittadini possano cogliere senza incertezze i contorni e i limiti dei fatti penalmente vietati. L’esigenza di sottrarre all’arbitrio del potere assoluto la produzione normativa penale trova origine nel contratto sociale: i cittadini (non più sudditi) mettono a disposizione dello Stato (attraverso un organo elettivo che rappresenti pure le minoranze) anche la loro libertà 25 personale al fine di garantire la pace sociale, fondata sul rispetto dei beni e degli interessi fondamentali di tutti i consociati; pertanto, solo una norma che sia frutto dell’organo elettivo e rappresentativo rende legittima la scelta dei fatti da vietare e delle relative sanzioni. Il principio di legalità prevede quattro corollari: 1. la riserva di legge in materia penale, sorta in ambito politico, ha successivamente acquistato una propria autonomia in campo strettamente penalistico e costituisce una conseguenza imprescindibile della divisione dei poteri, prevedendo che i precetti penali siano frutto dell'attività normativa dell'organo elettivo; 2. l’irretroattività della legge penale, in base al quale la legge penale dev'essere sempre emanata precedentemente ai fatti commessi, in modo tale da garantire i cittadini dall’incriminazione ex post di condotte che erano lecite al momento della commissione del fatto stesso, dando certezza alla liceità dei loro comportamenti e impedendo che l'applicazione retroattiva di una fattispecie penale costituisca un indebito strumento per l'eliminazione di tutti coloro che possono apparire anche solo scomodi per il potere costituito; 3. il principio di determinatezza: la certezza del diritto pretende che i precetti penali siano chiari, tassativi e precisi, cioè comprensibili da tutti i consociati, rendendo efficace la funzione di prevenzione generale delle sanzioni criminali; 4. il quarto corollario è il c,d, principio di tassatività, che vieta qualsiasi forma di interpretazione analogica in malam partem. Ratio di garanzia ( = contro gli abusi del potere) e ratio di certezza ( = conoscibilità dei confini dei comportamenti leciti attraverso forme ufficiali di pubblicazione della legislazione in materia penale) si intrecciano così nell’attribuire un ruolo centrale al principio di legalità e ai suoi sottoprincipi. Infine, oltre che nell’art. 7 CEDU è previsto nell’art. 25, commi 2 e 3 Cost., che prevede il principio di riserva di legge (anche per le misure di sicurezza) e di irretroattività. Riserva di legge: il problema delle fonti del diritto penale In alcuni regimi autoritari del secolo scorso (es. Nazismo, Unione sovietica) si era sviluppata l’idea della c.d. legalità sostanziale, secondo la quale è reato sia il fatto previsto come tale dalla legge sia ciò che contrasta con il sano sentimento del popolo o ciò che offende gli interessi della società, non garantendo però i cittadini da abusi e arbitri del potere. Oltre all'art. 25 Cost., l'art 101, comma 2 Cost. (“i giudici sono soggetti soltanto alla legge”) esclude qualsiasi deriva in senso sostanzialistico e, al fine di tutelare i cittadini da abusi di potere, impone come limiti alla potestà normativa dello Stato in materia penale quelli rigorosamente individuati dalla legge, sotto il profilo sia dei fatti vietati sia delle relative sanzioni. La riserva di legge è imposta inoltre dagli artt. 1 e 119 c.p., nonché dall'art. 14 Preleggi. Questo modello di legalità c.d. formale, tipica degli ordinamenti liberali e democratici, impone pertanto al giudice di considerare reato solo quanto previsto come tale dalla legge. Il problema diviene invece quello di individuare il significato del termine “legge” ai sensi delle citate disposizioni costituzionali e ordinarie. Pacificamente, possono essere considerate fonti del diritto penale le leggi costituzionali, le leggi ordinarie e i decreti governativi in tempo di guerra (art. 78 Cost.). Maggiori problemi pongono i decreti-legge e i decreti legislativi. Secondo l'opinione dominante, entrambi questi atti del governo possano essere fonte del diritto penale senza che la ratio di garanzia della riserva di legge venga menomata, in quanto sarebbe garantito un adeguato controllo del Parlamento sul potere normativo del governo, ex post con la conversione del decreto-legge in legge da parte del Parlamento entro 60 gg. dalla sua emanazione ed ex ante con il rispetto dei criteri e principi direttivi della legge-delega nel caso dei decreti legislativi. La stessa Corte costituzionale ha ritenuto illegittima la prassi di reiterare un decreto-legge non convertito senza ulteriori ragioni di necessità e urgenza. Per altri autori, invece, il Governo potrebbe abrogare per mezzo di un decreto-legge un'ipotesi di reato, impedendo la punizione dei fatti commessi durante la sua vigenza anche qualora decadesse per mancata conversione in legge da parte del Parlamento e un decreto legislativo potrebbe concede un'eccessiva discrezionalità al legislatore delegato qualora i criteri e principi direttivi della legge delega fossero troppo generici e poco tassativi. Diritto penale e leggi regionali Sulla base di diversi principi costituzionali (es. artt. 3 e 120 Cost.), la dottrina ha sempre reputato irragionevole che i consigli regionali possano introdurre nuove fattispecie incriminatrici perché non dispongono di una visione generale dei bisogni dell'intera società. Anche la Corte costituzionale (sentenza 487/1989) ha dichiarato l'illegittimità costituzionale di una legge della Sicilia che dettava un più favorevole regime in materia di estinzione del reato per alcune contravvenzioni urbanistiche, violando l’art. 25, comma 2 Cost. Oggi la tesi negativa pare confermata dal nuovo testo dell'art. 117 Cost., il quale prevede che l'ordinamento penale sia materia di esclusiva competenza statale. Un limitatissimo e indiretto ambito in materia penale riservato alle competenze regionali è quello di intervenire sugli elementi normativi della fattispecie penale e di incidere sull’ambito delle cause di giustificazione, che non sono norme penali in senso stretto ma di rilevanza intra- ordinamentale. Inoltre, lo statuto del Trentino-Alto Adige dispone che la regione e le provincie autonome di Trento e Bolzano utilizzano le sanzioni penali che le leggi dello Stato stabiliscono per le stesse fattispecie, intendendo per “stesse fattispecie” non l'assoluta identità di elementi costitutivi ma fattispecie simili, con la conseguenza che al Trentino-Alto Adige sarebbe possibile, quando uno stesso fatto sia previsto da una legge statale, introdurre nell'ordinamento regionale e provinciale delle modifiche anche in materia penale alla legislazione ordinaria. 27 che gli organi sovranazionali non possano avere potestà normativa in materia penale, che spetta solo al parlamento nazionale. Infatti, oltre che sull’art. 25, comma 2 Cost., quest'assenza di potestà normativa penale diretta si fonda anche sul fatto che gli stessi Trattati istitutivi non prevedono una competenza penale diretta degli organi comunitari: la tutela diretta di interessi comunitari può avvenire solamente attraverso sanzioni amministrative che non sono riservata dalla Costituzione alla legge parlamentare. Così, per la tutela anche a livello penale degli interessi comunitari, l'ordinamento comunitario dispone di una potestà normativa Indiretta, in modo particolare attraverso le direttive, che possono imporre agli Stati membri l'introduzione di nuove fattispecie incriminatrici a tutela di interessi, soprattutto, sovranazionali. L’esercizio di questa potestà è divenuto nel tempo sempre più pressante e ha trovato particolare sostegno con il Trattato di Lisbona (2009), che ha modificato l’art. 83 TFUE e previsto in termini tassativi (ma ampliabile dal Consiglio in base all’evoluzione della criminalità) le nove materie nell’ambito delle quali VUE può stabilire tali regole minime (es. terrorismo, tratta di umani e sfruttamento sessuale di donne e minori, traffico di stupefacenti, traffico di armi, riciclaggio denaro). In ogni caso, già prima del Trattato di Lisbona la tutela indiretta (c.d. mediata) degli interessi comunitari era garantita da alcune previsioni in riferimento sia agli ambiti oggetto di interesse dell'UE sia all'opera di coordinamento delle attività di polizia e giudiziaria tra i vari Paesi membri, per i quali erano previsti specifici obblighi di incriminazione: in un primo periodo le direttive dell’U£ si limitavano a chiedere l'introduzione di sanzioni efficaci senza imporre il ricorso allo strumento penale (es. in Italia, in merito ai provider, erano state introdotte sanzioni amministrative in riferimento agli obblighi di informazione e all'uso delle comunicazioni commerciali), poi, anche grazie al ruolo della Corte di giustizia (che contribuisce a radicare il principio della preminenza del diritto comunitario, in caso di contrasto tra norme interne ed europee), l'imposizione di nuovi strumenti di tutela da parte dell'UE è diventata sempre più pressante fino a imporre nelle attività di polizia e giudiziaria il ricorso alla sanzione penale, a volte indicando pure i limiti edittali (es. in una decisione quadro in tema di integrità sessuale dei minori, in relazione ad alcuni reati gli Stati membri avrebbero dovuto adottare sanzioni penali privative della libertà di durata massima compresa tra uno e tre anni). I possibili strumenti per recepire il contenuto delle direttive europee sono: - unificazione -> l'individuazione di un unico strumento penale vigente in tutti gli Stati membri appare tuttavia ancora difficile da attuare a causa della ritrosia dei Paesi europei a rinunciare alla propria tradizione penalistica, almeno finché l'UE non si doterà di una costituzione che stabilisca i principi fondamentali di garanzia in materia penale e finché gli organi deliberativi dell'UE non acquisiranno base elettiva, rappresentativa e democratica; - assimilazione -> l'UE invita i Paesi membri a estendere la tutela penale già presente nei rispettivi ordinamenti interni a specifici interessi dell’Unione stessa, secondo gli schemi e i modelli penalistici tipici di ciascun sistema giuridici (es. in Italia la disciplina penale in materia di truffa è stata estesa anche alle frodi agli interessi comunitari ma con pene più elevate), però questo modello rischia di produrre rilevanti disparità di trattamento tra i diversi Paesi membri perché le fattispecie penali a tutela degli interessi comunitari sono ricalcate su ipotesi delittuose già presenti e diverse tra loro; - armonizzazione -> gli Stati membri sono chiamati a introdurre nuove fattispecie incriminatrici, modellate sulla base delle direttive UE e il ricorso a questa tecnica è sempre più frequente benché, se un Paese non attua gli accordi, nel suo ordinamento si verifica una carenza di tutela degli interessi comunitari; in ogni caso, gli Stati membri tendono ad attuare le direttive rinunciando a parte della loro sovranità perché. tutelando gli interessi comunitari, si tutelano indirettamente anche gli interessi propri e, soprattutto, perché l’UE può esercitare nei confronti degli Stati membri un potere di infrazione (che può portare al pagamento di somme di denaro ingenti), così che, in molte materie (di interesse comunitario o anche solo potenzialmente di dimensione sovranazionale) il fulcro delle scelte politico-criminali è diventato appannaggio quasi esclusivo dell'UE. Ai sensi degli artt. 11 e 117 Cost. e in virtù del recepimento del principio di preminenza del diritto comunitario nell'ordinamento italiano da parte della Corte costituzionale nel 2010, quando una norma penale interna contrasta con una norma comunitaria (trattato, regolamento, direttiva specifica e dettagliata), il giudice italiano deve disapplicare la prima del tutto (es. in Italia, la fattispecie del T.U. immigrazione che prevedeva una pena detentiva per lo straniero espulso che non ottemperasse all'ordine del questore di allontanarsi dal territorio statale è stata ritenuta in contrasto con i principi comunitari in materia di libertà personale) 0, se il contrasto è solo parziale, in parte (es. vicenda Taricco). Inoltre, se in contrasto con le norme comunitarie devono essere disapplicate pure le norme di favore (= norme penali con disciplina più favorevole al reo): ad esempio, il T.U. ambiente, nella parte in cui escludeva le ceneri di pirite dal novero dei prodotti il cui non corretto trattamento integra un reato e, quindi, è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo perché ritenuto in contrasto con una direttiva europea. Infine, cessano immediatamente l'esecuzione e gli effetti penali della sentenza di condanna, anche definitiva, fondata su una norma interna disapplicata e, tra le diverse interpretazioni (lessicalmente praticabili), la prevalenza del diritto comunitario impone al giudice di scegliere quella più conforme ai principi del diritto comunitario (a cui si aggiungono il necessario rispetto del divieto di analogia in malam partem e del principio di legalità). Vicenda Taricco Nel 2015 con una prima decisione sul caso Taricco, la Corte di giustizia europea aveva affermato che, qualora la prescrizione sia maturata (nel caso in oggetto, perché gli artt. 160 e 161 c.p. prevedono che, in presenza di atti interruttivi, il termine di prescrizione di reati per gravi frodi fiscali in materia di IVA sia prolungato solo di un quarto, con la conseguenza che, la maggior parte delle volte, spira prima della sentenza definitiva), il giudice italiano avesse il dovere di disapplicare la norma in vigore perché impediva l’effettiva tutela degli interessi economici dell'UE. 31 Tuttavia, poiché in tal modo il giudice avrebbe violato il principio di legalità sotto il profilo dell’applicazione retroattiva di una disciplina penale sfavorevole al reo e di creazione giurisprudenziale, nel 2017 la Corte d'appello di Milano e la Terza sezione della Corte di cassazione penale sollevarono la questione di legittimità di fronte alla Corte costituzionale, chiedendo di azionare i controlimiti ( = principi fondamentali, tra i quali rientra anche l'art. 25 Cost.) contro gli obblighi imposti dalla Corte di giustizia europea. Dopodiché, nel 2018, coinvolta nuocamente dalla Corte costituzionale italiana sul caso Taricco, la Corte di giustizia europea ha affermato che, nei procedimenti pendenti, quando devono decidere di disapplicare le disposizioni del codice penale (e, quindi, condannare l’autore del reato sulla base di violazioni prescritte), i giudici nazionali devono assicurarsi che i diritti fondamentali delle persone accusate siano rispettati, chiarendo pure che, ad esempio, anche nel diritto europeo esistono il divieto di retroattività in malam partem e il principio di determinatezza. La CEDU Tra le norme di diritto pattizio di maggior rilievo in ambito penale, la “Convenzione europea per la protezione dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali” (CEDU - Roma, 4 novembre 1950) riveste un ruolo assolutamente centrale. Benché atti sovranazionali non possano introdurre direttamente nel nostro ordinamento fattispecie penali poiché, ex art. 25 Cost., solo una legge del Parlamento può disporre in tal senso, ai sensi dell'art. 117 Cost. la potestà legislativa, anche penale, di uno Stato è esercitata nel rispetto sia della Costituzione sia dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali: nell'esercizio del potere legislativo, il Parlamento non potrà emanare norme penali che si pongano in contrasto con una previsione della CEDU e, se ciò avvenisse, la Corte costituzionale dovrebbe dichiararla illegittima per violazione dell'art. 117 Cost.; l’unico limite alla declaratoria di illegittimità costituzionale è dato dall'eventuale contrasto tra la norma pattizia e una norma costituzionale interna. Comunque, prima di sollevare la questione davanti alla Corte costituzionale, il giudice deve tentare di dare alla norma nazionale un significato compatibile con le previsioni della CEDU, dal momento che i principi pattizi svolgono anche un fondamentale ruolo nell’interpretazione delle norme interne. Inoltre, il vincolo sovranazionale è reso particolarmente forte dalla necessità di subordinare l’interpretazione delle norme interne, anche penali, alla luce sia delle previsioni della CEDU sia della giurisprudenza della Corte di giustizia europea. Ad esempio, la Corte di giustizia europea sta incidendo molto sulla struttura del c.d. ergastolo ostativo, che impedisce l’accesso ai benefici penitenziari ai condannati per reati di criminalità organizzata che non abbiano prestato collaborazione con la giustizia, in quanto ritiene che, in questo modo, siano troppo limitate la prospettiva di liberazione dell'interessato e la possibilità di riesame della sua pena, in contrasto quindi con l’art. 3 CEDU ( = nessuno può essere non potrà beneficiarne, dal momento che non avrebbe senso riaprire innumerevoli procedimenti penali già definitivamente "esauriti") ma, ai sensi dell'art. 2, comma 3 c.p., quando la modifica legislativa prevede la sostituzione di una pena detentiva con una pecuniaria, la prima deve immediatamente cessare ed essere convertita nella corrispondente pena pecuniaria (anche per chi sia già stato giudicato con sentenza definitiva). Può pure accadere che solo alcune delle condotte precedentemente incriminate mantengano rilevanza penale: si verifica abolitio criminis parziale per i fatti non più penalmente rilevanti e successione delle norme penali per i fatti ancora penalmente rilevanti. Ad esempio, era punito per violenza carnale chi si congiungeva carnalmente con una persona che, al momento del fatto, era malata di mente al fine di tutelare al meglio l'integrità sessuale di soggetti in situazione di particolare debolezza, ma si negava qualsiasi diritto a una libera vita sessuale al malato di mente, anche quando la malattia non avesse influito sul consenso al rapporto sessuale; perciò, la legge di riforma aveva previsto che risponda del delitto di violenza sessuale solo chi induce un soggetto in situazione di inferiorità fisica o psichica ad avere un rapporto sessuale abusando delle condizioni di inferiorità della vittima. Così, chi abbia un rapporto sessuale con il partner schizofrenico tiene una condotta penalmente irrilevante perché non abusa sessualmente della condizione di inferiorità psichica dell’amato/a (abolitio criminis parziale), mentre chi, nel vigore della vecchia norma, convincesse una donna, sconosciuta e in preda a un grave delirio psicotico. di esse una sorta di esorcista in grado di liberarla da una presunta possessione diabolica in cambio di un rapporto sessuale, sarebbe punibile anche alla stregua della disciplina attuale (successione di leggi penali nel tempo). Inoltre, quando sono diverse la legge del commesso reato e quelle successive, la norma più favorevole al reo che il giudice deve scegliere può essere una legge intermedia, in vigore al momento né del fatto né del giudizio, perché a sua volta nel frattempo sostituita (successione della legge penale in vigore medio tempore): infatti, il ritardo nella definizione del processo non può risolversi in un danno per l'imputato. Se la legge successiva è più favorevole per certi aspetti ma sfavorevole per altri, il giudice non può prendere parte di una norma e parte di un'altra, ma deve valutare il favor rei in concreto (es. si introduce una nuova causa di giustificazione, ma allo stesso tempo si sostituisce la procedibilità a querela con quella d'ufficio). Leggi eccezionali e temporanee Ai sensi dell'art. 2, comma 5 c.p., la disciplina dell'abolitio criminis e della successione delle leggi penali neltempo non si applica a: leggi eccezionali, dettate dalla necessità di affrontare un evento straordinario e grave e destinate a mantenere la loro vigenza finché dura la situazione eccezionale che le ha giustificate e imposte; leggi temporanee, che prevedono un termine di durata oltre il quale cesseranno di avere effetto. 35 È necessario che le eventuali previsioni penali contenute in una legge già destinata ab origine ad avere efficacia limitata nel tempo (la cui durata è indicata in maniera implicita o esplicita), si applichino ultrattivamente, cioè anche quando sarà venuta meno la situazione di eccezionalità o scaduto il termine di vigenza previsto, altrimenti la certezza di vedersi applicare, retroattivamente, il successivo più favorevole regime penale renderebbe priva di qualsiasi efficacia general-preventiva la fattispecie incriminatrice eccezionale o temporanea (es. sciacallaggio in occasione di un terremoto). Successione di leggi penali nel tempo e decreti-legge Ai sensi dell'art. 77 Cost, il decreto-legge non convertito entro 60 gg. dal Parlamento perde efficacia ex tunc ( = retroattivamente) e non spiega alcun effetto nell'ordinamento giuridico, neppure per il periodo della sua provvisoria vigenza. Si prospettano tre diversi casi: 1. fatto commesso antecedentemente all'entrata in vigore del decreto-legge poi non convertito -> non pone problemi con il nuovo regime: il decreto-legge si considera mai entrato in vigore e, dunque, anche se prevedesse una disciplina di favore, non verrebbe applicato (es- Tizio, se commette un fatto previsto da una fattispecie incriminatrice che, in seguito, viene abrogata da un decreto-legge che, però, non viene convertito, sarà punito perché si applicherà una fattispecie incriminatrice vigente sia al momento del fatto che in quello del giudizio, che solo momentaneamente era stato reso lecito dal decreto-legge poi non convertito).fatto concomitante alla vigenza del decreto-legge, poi non convertito, favorevole al reo -> anche se il decreto-legge non viene convertito, sulla base di un’interpretazione sistematica, per la dottrina l’art. 25 Cost. (con il principio a tutela della libertà personale dei cittadini) prevale sull’art. 77 Cost.: il soggetto non potrà essere punito grazie al principio di certezza del diritto e della legittima aspettativa di tenere un comportamento lecito; 2. fatto concomitante alla vigenza del decreto-legge, poi non convertito, sfavorevole al reo -> anche se l'agente ha dimostrato una certa capacità criminale violando la norma incriminatrice contenuta nel decreto-legge poi non convertito, non sarà punito perché la mancata conversione esclude qualsiasi effetto penale sfavorevole nella sfera di libertà dei cittadini: con la mancata conversione torna a espandersi la precedente liceità penale di quel fatto. Successione di leggi penali e norme integrative extra-penali Nel caso di una modifica normativa favorevole al reo che non riguarda direttamente la fattispecie incriminatrice, ma un elemento normativo della fattispecie legale, la giurisprudenza di leg ittimità, muovendo dall’idea che il disvalore del fatto permane anche a seguito dell'avvenuto mutato quadro normativo, ritiene che la retroattività della lex mitior valga con esclusivo riferimento agli elementi costitutivi della fattispecie incriminatrice e non anche per eventuali modifiche della situazione di fatto che, pur facendo da presupposto alla norma penale, non la integrano (es. la Corte costituzionale ha ritenuto che l'adesione della Romania all'UE, con il conseguente acquisto da parte dei rumeni della condizione di cittadini europei, non ha determinato la non punibilità del reato di ingiustificata inosservanza dell'ordine del questore di allontanamento dal territorio dello Stato commesso dagli stessi prima dell'adesione, in quanto quest'ultima si è limitata a modificare la situazione di fatto, facendo solo perdere ai rumeni della condizione di stranieri, senza che tuttavia tale circostanza sia stata in grado di operare retroattivamente sul reato già commesso). Effetti delle sentenze di illegittimità costituzionale Sulla base del principio della riserva di legge, la Corte costituzionale non può mai estendere l’incriminazione oltre i limiti previsti dalla fattispecie né inasprire il regime sanzionatorio, perché la scelta dei fatti da incriminare e delle relative sanzioni è rimessa al solo legislatore: quando l’incriminazione di un certo fatto risulta irragionevole a causa dell’irrilevanza penale di condotte simili, la Corte costituzionale non può estendere la punibilità ai fatti non previsti, ma deve dichiarare l'illegittimità della norma che irragionevolmente limita la punibilità (es. la Corte costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 724 c.p. nella parte in cui puniva con una contravvenzione la sola bestemmia riguardante la religione di Stato, poiché si differenziava la tutela dei vari credp religiosi e disattendeva il principio di eguaglianza). Nei primi anni dopo l’entrata in vigore della Costituzione, poiché quando la Corte costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale di una norma di legge o di un atto avente forza di legge, la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione (art. 136 Cost.), si riteneva che la declaratoria di illegittimità di una fattispecie incriminatrice avesse efficacia ex nunc, con la conseguenza che, per i fatti commessi durante la vigenza della fattispecie dichiarata illegittima, si sarebbe dovuto applicare il regime di cui all'art. 2 c.p. Tale soluzione però era poco praticabile perché nel nostro ordinamento si può sollevare una questione di legittimità davanti al giudice solo qualora la questione stessa sia rilevante per la risoluzione della controversia oggetto del procedimento all’interno del quale la questione viene sollevata: se la declaratoria di illegittimità costituzionale valesse ex nunc, gli effetti maturati sotto la vigenza della norma stessa non ne sarebbero toccati e, pertanto, la questione di legittimità sarebbe irrilevante per il giudizio in corso. Proprio per questo, successivamente, la |. 87/1953 previde che, quando, in applicazione della norma dichiarata incostituzionale, è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condotta, ne cessano l'esecuzione e tutti gli effetti penali: come nel caso di un decreto-legge non convertito, la declaratoria di illegittimità costituzionale opera ex tunc ma, ai sensi dell'art. 25, comma 2 Cost., se la norma stessa era più favorevole al reo di una precedente, più grave incriminazione, si continuerà ad applicare il regime più favorevole. Ammis à del sindacato sulle leggi penali di favore La Corte costituzionale non può estendere l'operatività di una fattispecie incriminatrice, attribuendosi indebitamente l'individuazione dei fatti da punire, ma non le è precluso, per mancanza di rilevanza della questione (poiché il nuovo regime non si potrebbe applicare retroattivamente a chi avesse tenuto la condotta nel vigore della norma più favorevole), il 37 il ricorso alla tecnica legislativa della normazione sintetica è imprescindibile non solo per evitare una sorta di elefantiasi della descrizione delle fattispecie incriminatrici, ma anche perché attraverso la verificabilità empirica degli elementi normativi extra-giuridici è possibile adeguare l’interpretazione delle norme penali ai mutamenti del comune sentire. Orientamenti della Corte costituzionale La Corte costituzionale è sempre stata restia a declaratorie di illegittimità basate sulla scarsa precisione del disposto normativo e ha ritenuto sufficientemente determinati itermini rispetto ai quali sia possibile un rinvio al normale significato linguistico, soprattutto se valutati nel contesto testuale della fattispecie complessiva (es. recentemente, in merito a obblighi connessi alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, la Corte costituzionale ha ritenuto sufficientemente espressioni come “vivere onestamente” e “non dare adito a sospetti”, precisando di dover collegare tali espressioni con gli altri elementi costitutivi della fattispecie e con la disciplina in cui questa s'inserisce). Talora il riferimento al significato linguistico del termine viene arricchito dalla lettura che il giudice ne deve dare, non tanto alla luce degli altri elementi di fattispecie, quanto di principi generali di carattere costituzionale (es. in tema di pubblicazioni e spettacoli osceni, la Corte costituzionale ha agganciato la generica espressione “comune sentimento della morale” al valore della dignità umana, ex art. 2 Cost., con conseguente insussistenza del pericolo di arbitrarie dilatazioni). In altre occasioni, invece, si è ritenuto rispettato il parametro della determinatezza facendo riferimento al c.d. diritto vivente, cioè all’interpretazione costante e condivisa di un certo termine consolidatasi nella giurisprudenza di legittimità (es. in tema di disastro innominato, ex art. 434 c.p., la Corte costituzionale ha adoperato il significato derivante dalla giurisprudenza della Corte di cassazione, cioè quello di “evento distruttivo di proporzioni straordinarie, atto a produrre effetti dannosi,gravi, complessi ed estesi, e idoneo a determinare pericolo per un numero indeterminato di persone”). Altre volte ancora la Cortecostituzionale ha fatto riferimento alla già citata verificabilità empirica (es. in merito alle misure necessarie per ridurre al minimo i rischi derivanti dall’esposizione del lavoratore al rumore, a carico del datore di lavoro, la Corte costituzionale ha sancito che l'individuazione di tali misure dev'essere operata alla stregua delle applicazioni tecnologiche e degli accorgimenti generalmente praticati nei vari settori lavorativi). Tuttavia, non sono mancate pronunce ove la corte ha dichiarato l'illegittimità costituzionale di fattispecie caratterizzate dalla scarsa determinatezza dei loro elementi costitutivi (es. in materia di plagio, la cui fattispecie incriminatrice puniva “chiunque sottopone una persona al proprio potere, in modo da ridurla in totale stato di soggezione”, per la Corte costituzionale mancherebbe qualsiasi riferibilità empirica al concetto di “soggezione totale”; oppure, la Corte costituzionale ha dichiarato illegittima la disposizione che prevedeva la reclusione da sei mesi a tre anni per lo straniero destinatario di un provvedimento di espulsione che non si adopera per ottenere dalla competente autorità diplomatico o consolare il rilascio del documento di viaggio occorrente, perché l’espressione “non si adopera” è completamente carente di parametri oggettivi di riferimento). CAPITOLO 7 - Interpretazione del diritto penale e divieto di analogia L’interpretazione del diritto penale Per quanto il legislatore si sforzi di scrivere norme penali precise, chiare, rispettose del principio di determinatezza, sarà sempre necessario interpretare il testo normativo, al fine di rendere possibile quel raffronto tra fattispecie astratta e fatto storico, che costituisce il paradigma dell'attività giudiziaria. Questa attività di interpretazione è detta autentica quando promana dallo stesso legislatore che interviene per chiarire il senso della norma di legge, o ufficiale se proviene dall’autorità amministrativa o dagli organi dello Stato interessati (es. circolare ministeriale). Sempre dal punto di vista del soggetto da cui promana, si distingue un’interpretazione giudiziale (operata dalla magistratura, di merito e di legittimità, nel concreto svolgersi del processo penale) o dottrinale (frutto della riflessione e del confronto scientifico tra i giuristi che studiano le norme vigenti). Nel nostro ordinamento, a differenza di quanto avviene nei Paesi di common law, il precedente giudiziario non vincola l’interprete: il c.d. diritto vivente, cioè il diritto che vive nelle decisioni dei giudici, si evolve continuamente proprio grazie ai mutamenti interpretativi, frutto di un diverso sentire, diffuso nella società, così come di nuove esigenze di tutela. Oggi, inoltre, l’idea del giudice come mera bocca della legge; derivante dall’illuminismo, è del tutto abbandonata riconoscendo l’imprescindibile attività di interpretare infatti l’infinita varietà, complessità delle situazioni e dei fatti che il giudice si trova davanti non è quasi mai agevolmente riconducibile alla fattispecie astratta tramite una mera attività di sovrapposizione. Il sistema penale deve tendere a un potenziale punto di equilibrio tra rispetto della legalità, cioè della tassatività di fattispecie incriminatrici, per evitare pericolose supplenze della magistratura nei confronti del potere legislativo, e attività interpretativa del giudice, che deve dare credibilmente conto della corrispondenza tra fatto tipico e fattispecie astratta, nella pratica di ciò che costituisce il cuore dell'attività giudiziaria. A livello di diritto positivo, l'art 1 delle Disposizioni sulle leggi in generale stabilisce che nell’applicare la legge non si può a essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dall’intenzione del legislatore: i due criteri interpretativi fondamentali, pertanto, paiono essere il significato letterale delle parole (secondo la loro connessione sintattica) e l'intenzione del legislatore, intesa come finalità di tutela. La problematica della rilevanza dei canoni interpretativi viene però rinviato, dato che la norma in oggetto non dice nulla riguardo alle soluzioni dei casi nei quali i due citati canoni risultino essere in contrasto tra loro. 41 In questi casi risulta difficile risolvere il dilemma interpretativo alla sola luce del disposto delle Preleggi, e diviene indispensabile una riflessione più ampia sui diversi canoni interpretativi proposti dalla scienza penalistica e recepiti dalla giurisprudenza, che non possono essere ritenuti esclusivi, ma vanno armonizzati tra di loro. Il primo ovvio criterio interpretativo è quello semantico: si deve chiarire il senso lessicale dei termini utilizzati dal legislatore. Si tratta però di un passaggio tanto necessario quanto insufficiente, dal momento che alcuni aspetti della fattispecie incriminatrice sono inesorabilmente caratterizzati da un’ambiguità tale che richiede ulteriori approfondimenti interpretativi (es. se una prestazione sessuale a distanza rientra nella prostituzione). Viene pertanto in aiuto un secondo canone interpretativo, che attiene al cosiddetto criterio storico, cioè alla necessità di rifarsi alla volontà del legislatore, intesa come oggettivizzazione nel testo di legge di una volontà storica, espressa dal Parlamento attraverso l'esercizio del proprio potere legislativo. Anche questo criterio si presta ad alcune critiche, soprattutto perché: - in molticasi, il testo normativo definitivamente licenziato dal Parlamento è il frutto di una serie di mediazioni tra istanze diverse, talora contrapposte, che con difficoltà possono essere ricondotte a una reale razionalità e unità di intenti; - con il tempo, possono cambiare le esigenze di tutela che hanno favorito l'emanazione di un provvedimento legislativo (es. la legge Merlin cercò tutelare le donne che, stando per strada dopo la chiusura delle case chiuse, sarebbero state più facilmente vittime di sfruttatori ma, con le nuove tecnologie, la c.d. prostituzione virtuale esulava dall'ambito della tutela normativa di questa legge del 1958, con la conseguente irrilevanza penale della responsabilità per il gestore del sito web). Un terzo criterio è quello logico-sistematico, che consiste nel cercare, tra tutti i possibili significati della norma penale, quello più coerente con l'ordinamento nel suo insieme, cioè quello che non crea disomogeneità o contraddizioni evidenti nel sistema complessivamente considerato: il metodo sistematico è di particolare utilità quando si tratti di interpretare norme penali che richiamano concetti normativi giuridici extra-penali, nonché nella materia delle cause di giustificazione. Infine, l’ultimo criterio interpretativo da prendere in considerazione è quello teleologico, in virtù del quale occorre individuare lo scopo della fattispecie incriminatrice, per interpretarla alla luce dei mutamenti che le esigenze di tutela impongono nei diversi momenti storici. Permette di avere una visione dinamica del bene da proteggere (es. la prostituzione virtuale potrebbe rientrare nel concetto di prostituzione, considerato il fine di offrire adeguata tutela alla dignità umana) ma, in realtà, tra tutti i canoni interpretativi, quest’ultimo pare quello maggiormente foriero di rischi di manipolazione. Divieto di analogia La nozione di territorio dello Stato Il territorio non è inteso solo come il suolo entro i confini d’Italia (comprensivo del sottosuolo, delle acque interne e delle coste) ma, ai sensi dell'art. 4, coma 2 c.p., identifica ogni altro luogo soggetto alla sovranità dello Stato, come il mare costiero fino a 12 miglia dalle coste e lo spazio aereo nazionale. Ai sensi dello stesso articolo, le navi e gli aeromobili italiani sono considerati come territorio dello Stato ovunque si trovino, salvo che siano soggetti, secondo il diritto internazionale, a una legge territoriale straniera. Invece, in merito ai reati commessi a bordo di una nave straniera che si trovi nelle acque territoriali italiane, il codice penale non riserva alcuna disciplina della giurisdizione penale dello Stato costiero, prevista però dalla Convenzione di Ginevra del 1958 nelle seguenti condizioni: - le conseguenze dell'infrazione toccano lo Stato costiero; - l’infrazione compromette la pace pubblica del Paese o l'ordine sul mare territoriale; - il capitano della nave o il console dello Stato per cui la nave batte bandiera chiedono l'intervento delle autorità locali; - è necessario adottare dei provvedimenti intesi a reprimere il traffico di stupefacenti. Efficacia della legge penale rispetto ai fatti commessi all’estero Il principio di territorialità dev'essere integrato con altre disposizioni del codice che evidenziano la tendenziale universalità della legge penale italiana, la quale punisce incondizionatamente (cioè indipendentemente da qualsiasi condizione di procedibilità) una cospicua serie di delitti, anche se commessi interamente all’estero, sia dal cittadino italiano sia dallo straniero (art. 7 c.p.). Per alcuni di questi fatti, la ratio che giustifica l'applicazione della legge penale italiana, indipendentemente da qualsiasi riferimento territoriale, è data dal principio di personalità passiva perché sono delitti che offendono direttamente un interesse dello Stato italiano così che, ai sensi dell'art. 7 c.p., vengono in rilievo le seguenti fattispecie criminose: - delitti contro la personalità dello Stato italiano; - delitti di contraffazione del sigillo dello Stato e suo uso; - delitti di falsità in monete aventi corso legale nel territorio dello Stato o in valori di bollo o in carte di pubblico credito italiano; - delitti commessi da pubblici ufficiali a servizio dello Stato, abusando dei poteri o violando i doveri inerenti alle loro funzioni. Inoltre, l’art. 7 u.c. c.p. contiene una sorta di norma di chiusura, in virtù della quale la punibilità del cittadino o dello straniero è estesa a tutti i reati per i quali l'applicabilità della legge penale italiana sia prevista da speciali disposizioni di legge (es. fattispecie dei codici penali militari, abbandono all’estero di un italiano minore di 18 anni) o da convenzioni internazionali (es. la |. 810/1929 prevede che, su richiesta della Santa Sede e per delegazione della medesima, nei singoli casi o in modo permanente, l’Italia provveda nel terriorio della Santa Sede alla punizione 45 dei delitti commessi nella Città del Vaticano, mentre si procederà senz'altro contro l’autore a norma di leggi italiane quando egli si sia rifugiato nel territorio italiano). Infine, il d.igs. 231/2001, in materia di responsabilità penale-amministrativa degli enti, dispone che, secondo quanto previsto dagli artt. 7-10 c.p., gli enti che hanno la loro sede principale in Italia, rispondono anche per i reati connessi all’estero, salvo che nei loro confronti proceda lo Stato in cui è stato commesso il reato. Un'altra categoria di delitti che sono puniti ai sensi della legge italiana anche se commessi interamente all’estero è quella dei delitti politici previsti dall’art. 8, comma 1 c.p., il cui primo comma prevede che “il cittadino o lo straniero che commette in territorio estero un delitto politico non compreso in quelli indicati nel numero 1 dell’articolo precedente, è punito secondo la legge italiana”: in questo caso, però, la punibilità alla stregua dell'ordinamento italiano non è incondizionata, ma subordinata a una condizione di procedibilità, consistente nella richiesta del Ministro della Giustizia a cui si aggiunge, se il delitto è perseguibile a querela, anche la querela del soggetto passivo. L’art. 8 c.p., poi, definisce come “politico”: - non solo qualsiasi fatto di reato che sia oggettivamente tale, cioè che offenda un interesse politico dello Stato (es. indipendenza e integrità territoriale) o un diritto politico del cittadino (art. 8, comma 1c.p.); - maanche il delitto soggettivamente politico, cioè il delitto comune determinato, del tutto o in parte, da motivi politici (art. 8, comma 3 c.p.). Tale estensione era funzionale al Fascismo per eliminare gli oppositori, anche sfuggiti all’estero, mentre oggi gli artt. 10, comma 4 e 26, comma 2 Cost. impediscono l'estradizione per i reati politici rispettivamente dello straniero o del cittadino. Inoltre, di recente può integrare un'ipotesi di delitto politico il crimine di guerra che, pur non possedendo connotati di estensione e sistematicità tali da farlo assurgere a crimine contro l'umanità, si caratterizza per una così spiccata gravità della condotta da determinare una lesione dei diritti fondamentali della persona e, pertanto, anche del cittadino, la cui tutela è sancita da norme inderogabili dell'ordinamento sia internazionale sia interno (es. la Corte di cassazione ha stabilito la giurisdizione italiana per i casi dei desaparecidos italiani oppositori del regime argentino sulla base del combinato disposto dell’art. 8 c.p. e dell’art. 10, comma 4 Cost.). Infine, gli artt. 9 e 10 c.p. completano il quadro dei casi nei quali un delitto comune (cioè non politico), anche se commesso interamente all’estero, può essere sottoposto alla legge italiana: a differenza di quanto disposto dall'art. 7 c.p., questi fatti non sono puniti incondizionatamente, ma la legge prevede alcune condizioni di procedibilità. In particolare, l’art. 9, comma 12 c.p. prende in esame i delitti commessi dal cittadino italiano all’estero, prevedendo l'applicabilità della legge penale italiana, in virtù del principio di soggettività attiva, per i delitti puniti con l'ergastolo o con la reclusione superiore a 3 anni, sotto condizione di procedibilità che il cittadino si trovi nello Stato italiano, mentre se è prevista una pena restrittiva della libertà personale di minore durata, sarà necessaria la richiesta del Ministro della Giustizia o l'istanza o la querela della persona offesa. L’art. 9, comma 3 c.p. prevede poi che, qualora si tratti di delitto commesso a danno delle Comunità europee, di uno Stato estero o di uno straniero, il colpevole è punito a richiesta del Ministro della Giustizia, ma la punibilità ai sensi della legge penale italiana è ulteriormente subordinata al fatto che l'estradizione del reo, cittadino italiano, non sia stata accettata o concessa dal Governo dello Stato in cui il delitto è stato commesso. Invece, l’art. 10 c.p. disciplina l'applicabilità della legge penale italiana ai delitti commessi interamente all’estero da uno straniero e, trattandosi di fatti che esulano dalla soggettività attiva (perché il reo non è un cittadino italiano), le condizioni di procedibilità sono ancora più rigorose. In particolare, se il fatto è commesso contro un cittadino italiano o ai danni del nostro Stato, in virtù del principio della soggettività passiva, si applica la legge penale italiana per i delitti puniti con l'ergastolo o con la reclusione di durata superiore a 1 anno, ma sono previste le condizioni di procedibilità sia della richiesta del Ministro della Giustizia (e dell'eventuale querela della parte offesa) sia della presenza del colpevole nel territorio dello Stato Italiano; mentre se il soggetto passivo è la Comunità europea, uno Stato estero o uno straniero, il colpevole è punito secondo la legge italiana, a richiesta del Ministro della Giustizia, sempre che: si trovi nel territorio dello Stato, si tratti di delitto per il quale è stabilita la pena dell’ergastolo o della reclusione non inferiore nel minimo a 3 anni, l'estradizione di lui non sia stata concessa o accettata dal Governo dello Stato in cui egli ha commesso il delitto o da quello dello Stato a cui egli appartiene. Una particolare disciplina, poi, è dettata dall’art. 604 c.p. per i delitti contro la personalità individuale (es. riduzione in schiavitù) e per il delitto contro la libertà sessuale, incondizionatamente puniti anche se commessi all’estero da un cittadino italiano oppure in danno di un cittadino italiano (soggettività attiva e passiva); se commessi da uno straniero in concorso con un cittadino italiano, la punibilità dello straniero è subordinata alle condizioni che si tratti di delitto per il quale è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a 5 anni e che ci sia la richiesta del Ministro della Giustizia. Strumenti di collaborazione internazionale La prospettiva autarchica del codice Rocco viene confermata dalle previsioni in materia di rinnovamento del giudizio quando l’art. 11, comma 1 c.p., prevede che il cittadino e lo straniero che abbiano commesso un reato nel territorio dello Stato vengano sempre giudicati in Italia anche se c’è già stato giudizio penale all’estero; mentre nel caso di delitto commesso all’estero, ma punibile in Italia ai sensi degli artt. 7-10 c.p., si procede alla rinnovazione del giudizio solo se lo richiede il Ministro della Giustizia e l’art. 138 c.p. dispone che, quando il giudizio seguito all’estero è rinnovato nello Stato, la pena scontata all’estero è sempre computata, tenendo conto della specie di essa. Questo atteggiamento di sfiducia viene superato dal processo di integrazione europeo e, in particolare, dalla Convenzione di applicazione dell'Accordo di Schengen (1985), che nei Paesi contraenti ha introdotto il principio del ne bis in idem, in base al quale è vietato procedere una 47 compiuti con l'aviazione civile, reati gravi che attentano alla vita, integrità fisica, cattura di un ostaggio, ecc.; - vincoli imposti dalla legislazione ordinaria -> l’art. 698 c.p.p. impedisce l’estradizione quando l'imputato o il condannato corre il rischio, nel Paese richiedente, di essere sottoposto ad atti persecutori, a discriminazioni per motivi di razza, religione, sesso, nazionalità, lingua, opinioni politiche o condizioni personali o sociali, a pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti (es. lavori forzati), ad atti che configurano la violazione di uno o più diritti fondamentali della persona (e a base della decisione giudiziaria di tale violazione possono esserci anche documenti elaborati da organizzazioni non governative riconosciute a livello internazionali quali, ad esempio, Amnesty international); infine, particolarmente rilevante è il divieto di concedere l’estradizione per un reato che, nel Paese richiedente, è punito con la pena di morte. Mandato di arresto europeo: Attualmente, tra gli Stati membri dell’UE, l'estradizione è stata sostituita dal mandato di arresto europeo, un provvedimento emesso dall'autorità giudiziaria di un Paese membro che impegna tutti gli altri a darne esecuzione, al fine di arrestare un ricercato per l'esercizio dell’azione penale o per l'esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza restrittiva della libertà personale. L'emissione e l'esecuzione del mandato d'arresto europeo sono di esclusiva competenza giurisdizionale e, pertanto, prescindono da qualsiasi intervento dell’autorità governativa. Inoltre, con riferimento ad alcune decisioni quadro, non è previsto il requisito della doppia incriminazione. Il mandato d'arresto europeo non può essere emesso per reati politici, tranne che per i fatti di genocidio e per i delitti di terrorismo. L'esecuzione del mandato d'arresto europeo è subordinata al rispetto dei diritti fondamentali garantiti dalla CEDU e dei principi e delle regole contenuti nella Costituzione repubblicana, attinenti al giusto processo, alla tutela della libertà personale, al diritto di difesa, al principio di uguaglianza, alla personalità della responsabilità penale e alla qualità delle sanzioni penali Infine, la Corte d’appello competente al riguardo deve rifiutare la consegna del soggetto sottoposto a mandato d'arresto europeo quando: - c'è pericolo che il soggetto da estradare sia perseguito a causa del suo sesso, razza, religione, origine etnica, nazionalità, lingua, opinioni politiche o tendenze sessuali; - sussiste un serio pericolo che la persona ricercata venga sottoposta alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti; - il fatto di reato sia manifestazione della libertà di associazione, di stampa o di altri mezzi di comunicazione. Sono previste poi alcune esclusioni soggettive, che impediscono l’esecuzione del mandato, o lo sottopongono a rigide condizioni, quando il soggetto ricercato sia un minore, una donna incinta o madre di prole di età inferiore a tre anni con lei convivente (I. 69/2005). TERZA PARTE — Il reato CAPITOLO 9 — Struttura generale del reato Le teorie sulla struttura del reato Fu merito della Scuola classica avere avviato in modo scientifico lo studio del diritto penale attraverso l’analisi del reato quale ente giuridico astratto composto da due elementi: una forza fisica, corrispondente all'elemento oggettivo, e una forza psichica, corrispondente all'elemento soggettivo. Da allora, il reato fu studiato distinguendo gli elementi che lo compongono per comprendere i loro reciproci rapporti ma, nello studio del reato, benché tale approccio fosse certamente portatore di esigenze di certezza e di garanzia, il modello analitico aveva portato a un eccessivo concettualismo dogmatico che faceva perdere di vista il significato unitario che la pluralità degli elementi del reato deve mantenere per la dichiarazione della responsabilità penale. Così, negli anni Trenta del XX secolo, alcuni autori tedeschi proposero di affrontare l’analisi del reato secondo un modello sintetico, basato sull’intuizione, con cui non si parcellizzava il reato in una serie di elementi ma che non ebbe fortuna perché, come metodo di analisi del reato, lasciava spazio a una discrezionalità giudiziale tanto ampia da tracimare in arbitrio: inoltre, conferma l’arbitrarietà del metodo sintetico il fatto che esso si fosse affiancato a due momenti di crisi del diritto penale durante il nazionalsocialismo, cioè con l'ingresso dell’analogia in materia penale e del diritto penale d'autore. Dunque, l’unico approccio possibile allo studio del reato pare essere quello di tipo analitico, sulla base del quale la dottrina ha elaborato diversi modelli di teoria generale: le due principali correnti dottrinali optano per la bipartizione o la tripartizione del reato. Secondo la concezione bipartita, il reato si compone di due elementi: - il fatto oggettivo -> in cui sono compresi tutti gli elementi oggettivi richiesti dalla singola fattispecie incriminatrice: e elementipositivi del fatto (es. causazione della morte di un uomo nell’omicidio); e elementinegativi del fatto (c.d. cause di giustificazione o scriminanti o esimenti)-> possono comunque sussistere particolari situazioni scriminanti in presenza delle quali il fatto, che in loro assenza costituirebbe reato, è autorizzato o imposto dall'ordinamento giuridico: gli elementi oggettivi negativi del fatto devono mancare affinché il reato sussista; - l'elemento soggettivo -> al fatto oggettivo (= elementi positivi del fatto + assenza di cause di giustificazione) si affiancano coscienza e volontà dell’azione o omissione, dolo o colpa, in quanto la responsabilità penale non può essere fondata solo sulla base di elementi di natura oggettiva. Secondo i suoi sostenitori, la teoria bipartita corrisponde alla disciplina del codice penale, come emergerebbe dal raffronto tra gli artt. 47 e 59 u.c. c.p.: 51 - il primo articolo prevede che l'errore sul fatto esclude la punibilità per assenza di dolo ma, se si tratta di errore determinato da colpa, residua una responsabilità colposa se il fatto è previsto dalla legge come reato colposo; - il secondo articolo disciplina l’errore sull'esistenza di una causa di giustificazione perché il soggetto si rappresenta erroneamente una situazione che, se fosse effettivamente presente, darebbe luogo all'applicazione di una causa di giustificazione (es, crede erroneamente di essere aggredito): come nell’art. 47 c.p., questo errore esclude la responsabilità del soggetto per assenza di dolo ma residua una responsabilità colposa in caso di errore colposo, sempre che il fatto sia previsto dalla legge come delitto colposo; I due tipi di errore sono speculari: nel primo il soggetto si rappresenta erroneamente un elemento positivo del fatto, nel secondo il soggetto si rappresenta erroneamente l’esistenza di un elemento negativo che deve mancare affinchè il fatto costituisca reato. Secondo la teoria tripartita, gli elementi costitutivi del reato devono essere ricondotti alle tre categorie del fatto tipico (che include gli elementi oggettivi del reato), dell’antigiuridicità (nella quale si collocano le cause di giustificazione) e della colpevolezza (che identifica gli elementi soggettivi che consentono di rimproverare il soggetto per il fatto commesso) e, secondo i suoi sostenitori, questa ricostruzione del reato offre due vantaggi: -. in primo luogo, sembra adeguarsi meglio al procedimento di accertamento giudiziale del reato, in quanto il giudice accerta in primo luogo l'elemento oggettivo (es. Caio ha ucciso Tizio), poi l'assenza di cause di giustificazione e, infine, l'elemento soggettivo (es. Caio ha agito con dolo o colpa); - in secondo luogo, la tripartizione consente di far emergere le specifiche funzioni a cui rispondono le tre categorie dogmatiche in quanto, per questa impostazione: - il fatto tipico permetterebbe di individuare le modalità di offesa del bene giuridico; - le scriminanti non avrebbero natura strettamente penale, ma sarebbero norme generali dell'ordinamento giuridico nella sua interezza e, quindi, renderebbero legittimo il fatto in qualsiasi settore dell'ordinamento; - la colpevolezza esprimerebbe l'esigenza di rimproverabilità soggettiva per il fatto commesso. La distinzione tra i due modelli teorici, a ben vedere, si riduce alla differente collocazione delle scriminanti che, per la concezione bipartita, costituiscono elementi negativi del fatto (in modo che la contrarietà all'ordinamento integri l'essenza stessa del reato) e, per la teoria tripartita, fondano la categoria autonoma dell’antigiuridicità. A questi due principali modelli strutturali del reato, si affianca la concezione quadripartita che, come la teoria tripartita, utilizza le categorie del fatto tipico, dell’antigiuridicità e della colpevolezza, alla quale si affianca anche la punibilità, a cui vanno ricondotte alcune particolari situazioni che, per esigenze di politica criminale, escludono l’applicazione della pena, pur in presenza degli altri elementi costitutivi del reato: si tratta delle cause personali di non punibilità (es. immunità) che, per ragioni di politica criminale, escludono la punibilità dell'autore per alcuni reati, non ritenendo opportuno far seguire la pena alla loro commissione; vi rientrano anche le cause sopravvenute di non punibilità, nelle quali la ragione del “non punire” risiede nell’incentivare la condotta antitetica a quella diretta a produrre l'offesa (es. la desistenza volontaria nella disciplina del tentativo). Immunità Ai sensi dell'art. 3 c.p. “la legge penale italiana obbliga tutti coloro che, cittadini o stranieri, si trovano sul territorio dello Stato, salve le eccezioni stabilite dal diritto interno o dal diritto internazionale” e queste c.d. immunità ( = eccezioni) non sono limiti all’obbligatorietà della legge penale, in quanto anche i soggetti che godono di immunità sono obbligati a rispettare la legge penale, ma alla commissione del reato non segue l'applicazione della pena, in quanto prevalgono ragioni di politica criminale che ne giustificano la rinuncia. Le immunità, dunque, hanno natura giuridica di cause personali di non punibilità, derogando al regime giurisdizionale comune: escludono la punibilità del soggetto e, in quanto tali, sono estranee alla struttura del reato. Trattandosi di cause di non punibilità di natura personale, la loro applicazione è limitata al solo soggetto a cui si riferiscono e non si estendono ai concorrenti. Dall’art. 3 c.p. si ricava che le immunità si distinguono, in base alla fonte che le prevede, in immunità di diritto pubblico interno e immunità di diritto internazionale; si distinguono poi in immunità funzionali e immunità extrafunzionali, a seconda che la non punibilità sia limitata ai reati commessi nell'esercizio delle funzioni o investa anche gli atti realizzati al di fuori delle funzioni. Un'altra importante distinzione è tra immunità sostanziali e immunità processuali: le prime sono cause personali di non punibilità, le seconde interessano il processo e consistono in ostacoli al promovimento dell’azione penale o al compimento di specifici atti processuali ( = cause di improcedibilità). Le immunità, poiché spezzano il legame tra reato e conseguenza sanzionatoria, richiedono una copertura costituzionale che consenta di giustificare l'esenzione della pena o gli ostacoli processuali, così da renderle compatibili con il principio di uguaglianza. Infatti, le immunità si inquadrano nel genus degli istituti diretti a tutelare lo svolgimento di determinate funzioni attraverso la protezione dei loro titolari di determinati organi e ciò implica che il legislatore ordinario non può introdurre immunità che non rispondano a esigenze di tutela ricavabili dal dettato costituzionale. Tra le immunità di diritto pubblico interno si segnalano quelle espressamente previste dalla Costituzione o da leggi costituzionali. 1. Ai sensi dell'art. 90 Cost., il Presidente della Repubblica non risponde per gli atti commessi nell'esercizio delle sue funzioni tranne che per alto tradimento (art. 77 c.p.m.p.) e attentato alla Costituzione (art. 283 c.p.): in questi casi è messo in stato d’accusa dal Parlamento in seduta comune a maggioranza assoluta dei suoi membri ed è giudicato dalla Corte costituzionale a composizione integrata. Tale immunità è strumentale all'espletamento degli altissimi compiti che la Costituzione demanda al Presidente, intesi ad assicurare in modo imparziale il corretto funzionamento del sistema istituzionale: si tratta di un’immunità sostanziale solo funzionale, che non copre gli atti commessi al di fuori dell'esercizio delle funzioni 55 presidenziali, durante o prima rispetto all'assunzione della carica e la stessa immunità spetta anche al Presidente del Senato quando esercita in supplenza le funzioni di Presidente della Repubblica. Per quanto riguarda l'immunità processuale, vige un divieto assoluto di intercettazioni e di altre limitazioni della libertà e, secondo la tesi prevalente, è possibile sottoporre a procedimento penale il Presidente solo alla scadenza del suo mandato (= immunità extrafunzionale). I parlamentari godono di un’immunità sostanziale e di una processuale (art. 68 Cost.) finalizzate a consentire loro l'esercizio delle funzioni parlamentari al di fuori di condizionamenti esterni. L’immunità sostanziale interessa le opinioni espresse e i voti dati nell'esercizio delle funzioni parlamentari e riguarda principalmente i reati di diffamazione e di vilipendio delle istituzioni; ci dev'essere un nesso funzionale (art. 68, comma 1 Cost.) tra le opinioni espresse e l'esercizio delle funzioni parlamentari e, pertanto, copre anche le opinioni espresse al di fuori del parlamento purché permanga il nesso funzionale. L’immunità di tipo processuale (art. 68, commi 2 e 3 Cost.), invece, non impedisce né le indagini del pubblico ministero né il processo penale nei confronti dei parlamentari, ma non consente l'adozione di specifici atti processuali senza autorizzazione della Camera di appartenenza: perquisizione personale o domiciliare, arresto o altra privazione di libertà personale, detenzione (salvo che in esecuzione di sentenza irrevocabile di condanna ovvero qualora il parlamentare sia colto nell’atto di commettere un delitto per il quale è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza), intercettazioni in qualsiasi forma di conversazioni o comunicazioni, sequestro di corrispondenza. Queste limitazioni sul piano processuale interessano anche gli atti commessi al di fuori dell'esercizio delle funzioni, durante e prima l'assunzione della carica. I consiglieri regionali godono di un’immunità sostanziale analoga a quella dei parlamentari: non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell'esercizio delle loro funzioni; la Corte Costituzionale ha precisato che non rientrano nella garanzia di insindacabilità le affermazioni offensive che non hanno un contenuto analogo ad atti tipici del mandato consiliare o se gli atti sono stati compiuti in un tempo tanto anteriore alle dichiarazioni contestate da interrompere la contestualità sostanziale tra i due comportamenti. Ai giudici della Corte costituzionale è estesa l'immunità processuale prevista dall'art. 68, comma 2 Cost. (art. 3 |. cost. 1/1948) e l'autorizzazione necessaria all'intervento giudiziale è concessa dalla stessa Corte e spetta anche un’immunità sostanziale per le opinioni espresse e i voti dati nell'esercizio delle loro funzioni. I membri del CSM non rispondono per le opinioni espresse e i voti dati nell'esercizio delle loro funzioni; a differenza delle altre immunità di diritto pubblico interno, questa è prevista da una legge ordinaria (I. 1/1981), ma la Corte costituzionale le ha comunque riconosciuto copertura costituzionale perché rigorosamente circoscritta alle sole manifestazioni del pensiero funzionali all'esercizio dei poteri-doveri costituzionalmente spettanti ai componenti del CSM. Salvo che nelle eccezioni previste, il c,d. lodo Alfano (I. 124/2008) aveva previsto la sospensione (e la possibilità di rinunciarvi) del processo penale nei confronti delle alte cariche o funzioni dello Stato fino alla loro cessazione, anche per fatti antecedenti l'assunzione delle stesse, coprendo quindi anche i reati non connessi all’esercizio delle cariche e funzioni. Tuttavia, la Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale di questa disciplina per violazione degli artt. 3 e 138 Cost. in quanto, essendo stata introdotta con legge ordinaria, mancava una copertura costituzionale idonea a giustificare la disparità di trattamento. Le immunità di diritto internazionale si fondano su convenzioni internazionali alle quali è stata data attuazione con leggi ordinarie e la Corte costituzionale ha ravvisato la copertura costituzionale di queste immunità nell’art. 10 Cost., poiché le leggi ordinarie attuano norme internazionali generalmente riconosciute: - godono di un’immunità assoluta, sostanziale e processuale, funzionale ed extrafunzionale, i Capi di Stato estero quando si trovano in tempo di pace nel territorio dello Stato italiano, incluso il Pontefice, che è a capo della Città del Vaticano; - godono invece di immunità anche per gli atti commessi al di fuori dell’esercizio delle funzioni gli appartenenti al corpo diplomatico, mentre i consoli e gli impiegati consolari hanno un’immunità funzionale e per gli atti commessi al di fuori dell’esercizio delle loro funzioni non possono essere assoggettati a custodia cautelare in carcere a meno che non si tratti di delitto punito con la reclusione non inferiore nel massimo a 5 anni (= immunità processuale parziale); - iparlamentari europei non sono punibili per le opinioni espresse e i voti dati nell'esercizio delle loro funzioni; anche a loro la giurisprudenza riconosce l'immunità per le dichiarazioni rese fuori dall'esercizio delle funzioni svolte nel Parlamento europeo, ma solo a condizione che sussista un chiaro nesso tra le dichiarazioni e il ruolo rivestito all’interno del Parlamento europeo. - i militari di uno Stato estero presenti sul territorio italiano sono assoggettati alla legge dello Stato di appartenenza per i reati commessi in servizio. Soggetto passivo del reatoi Soggetto passivo del reato (c.d. persona offesa) è il titolare del bene giuridico tutelato dalla fattispecie e può essere una persona o giuridica, oppure un ente collettivo, anche privo di personalità giuridica (es. una s.p.a.), o lo Stato (nei delitti contro la P.A.). Inoltre, i soggetti passivi possono essere più di uno: i reati plurioffensivi offendono più beni giuridici e, quindi, più titolari di quei beni giuridici (es. calunnia, che ha come soggetti passivi la persona calunniata e lo Stato). Il soggetto passivo dev'essere distinto dall'oggetto materiale del reato, costituito dalla persona o dalla cosa su cui cade la condotta del reato (es. oggetto materiale nel delitto di furto è la cosa mobile altrui; nella sottrazione consensuale di minorenne è il minorenne, mentre soggetto passivo è il genitore) ma può comunque esserci coincidenza tra soggetto passivo e oggetto materiale (es: reato di sequestro). 57 La condotta costituisce requisito indefettibile del reato: non esistono reati senza azione, perché altrimenti sarebbe violato il principio di materialità del reato (art. 25, comma 2 Cost.). La presenza di una condotta come requisito necessario di fattispecie è contestata da chi ritiene che possano esserci reati di sospetto o di semplice posizione: sarebbe il caso dei reati che incriminano il possesso di un bene, come la contravvenzione di possesso ingiustificato di grimaldelli o il delitto di detenzione di armi da guerra ma, anche in essi è incriminata una condotta (attiva di esercizio di un potere di disposizione sul bene) e non lo status del soggetto. Ad esempio, manca invece una condotta penalmente rilevante se Tizio, fermato in auto dalla polizia, viene trovato in possesso di un grimaldello che, a sua insaputa, Caio ha collocato nel bagagliaio della sua auto. L’art. 42, comma 1 c.p. prevede che “nessuno può essere punito per un’azione o un’omissione preveduta dalla legge come reato, se non l’ha commesso con coscienza e volontà”: la presenza (dell'elemento soggettivo) della coscienza e della volontà svolge, dunque, una funzione selettiva delle condotte penalmente rilevanti ed è elemento imprescindibile per fondare la responsabilità per qualsiasi reato. Coscienza e volontà vanno riferite esclusivamente all’azione od omissione, e non all'intero fatto di reato, e non devono essere confuse con il dolo. In alcuni casi, coscienza e volontà dell’azione od omissione corrispondono a un dato psicologico effettivo e si parla di coscienza e volontà reali (es. cosciente e volontario movimento muscolare che aziona il grilletto per sparare). Ci sono però pure condotte che si collocano al di sotto della zona lucida della coscienza, cioè non sorrette da coscienza e volontà effettive, ma che sarebbe irragionevole considerare sempre irrilevanti: infatti, al di sotto della zona lucida della coscienza, alcune condotte (attive od omissive) possono essere controllate o evitate con un maggiore sforzo del volere e, in questi casi, si parla di coscienza e volontà potenziali, che rilevano nei reati di natura colposa e, soprattutto, con riguardo agli atti abituali o automatici (es. se Tizio, abituato in città a gettare a terra il mozzicone di sigaretta acceso, tiene la stessa condotta in un bosco, provocando un incendio, è chiaro che l’atto di provocare l'incendio non è frutto di coscienza e volontà). Invece, ci possono essere atti, ad esempio, istintivi (es. porgere le mani in avanti cadendo) o riflessi (es. vomito per ingestione di sostanza emetica), per i quali non è possibile ravvisare alcuna coscienza e volontà perché, anche mediante uno sforzo del volere, il soggetto non avrebbe potuto impedire l’azione o l’omissione. Se sussistono coscienza e volontà dell’azione od omissione (reali o potenziali), si può dire che la condotta è propria del soggetto e si parla di suitas (dal latino suus). L'elemento della coscienza e volontà dell’azione od omissione non sussiste e, quindi, manca la suitas, in tre casi: 1. forza maggiore -> l’art. 45 c.p. prevede che “non è punibile chi ha commesso il fatto per forza maggiore”., cioè a causa di una forza della natura improvvisa, a cui il soggetto non può resistere ( = vis maior cui resisti non potest) né comunque sottrarsi (es. una persona viene spostata da un'improvvisa raffica di vento e cagiona una lesione della persona contro la quale si scontra); 2. costringimentofisico -> ex art. 46 c.p. “non è punibile chiha commesso il fatto per esservi stato da altri costretto, mediante violenza fisica, alla quale non poteva resistere o comunque sottrarsi”: si tratta di una violenza assoluta, cioè di un costringimento fisico radicalmente ablatorio della volontà, tale da non consentire al soggetto alcuna possibilità di scelta; in tal caso, del fatto commesso risponde l’autore della violenza, perché la condotta non può essere considerata propria di chi l’ha materialmente realizzata; 3. stato di incoscienza indipendente dalla volontà (es. movimento improvviso di chi è in stato febbrile; malore improvviso durante la guida che, tuttavia, non deve dipendere da uno stato di ebrezza, stanchezza o indigestione causate dal soggetto stesso prima di mettersi al volante). Poiché la condotta non può essere considerata propria del soggetto, viene meno la stessa condotta penalmente rilevante e, dunque, un elemento oggettivo del reato consistente nella condotta: ne consegue che il soggetto va assolto con la più ampia formula “perché il fatto non sussiste”. Presupposti della condotta Talvolta la fattispecie richiede che, al momento della condotta, sussistano determinati presupposti, naturalistici (es. i delitti di aborto presuppongono che sussista una gravidanza) o giuridici, definiti attraverso il richiamo a elementi normativi (es. nel delitto di bigamia si presuppone che il soggetto che contrae matrimonio sia già legato da un altro vincolo di matrimonio avente effetti civili). Anche i presupposti costituiscono elementi costitutivi del fatto di reato, e rientrano nell'oggetto del dolo. Nozione di evento Il codice penale utilizza in diversi articoli il termine evento, ma non lo definisce mai perché all’epoca della redazione del codice Rocco, la dottrina era divisa sulla nozione di evento. La nozione di evento naturalistico (es. art. 40 c.p.) si identifica con le modificazioni del mondo esterno cagionate dalla condotta e considerate dalla legge come elemento costitutivo di fattispecie: l'evento è temporalmente e logicamente staccato dalla condotta ed è assente nei reati di pura condotta, cioè quei reati in cui la legge si limita a incriminare una condotta attiva od omissiva. A questa nozione si contrappone quella di evento giuridico (es. art. 43 c.p.), consistente nell’offesa (= lesione o messa in pericolo) dell'interesse tutelato dalla norma incriminatrice. 61 A differenza dell’accezione naturalistica, l'evento giuridico non è separabile dalla condotta, perché è lo stesso fatto di reato visto sotto il profilo dell’offesa al bene giuridico: accogliendo il principio di offensività in astratto ( = reato posto a tutela del bene giuridico), ne consegue che tale evento è presente in tutti i reati, anche nei reati di pura condotta, sprovvisti di evento naturalistico. Spetta all’interprete, valutando caso per caso, nel contesto della disciplina e alla luce dello scopo della singola norma, capire se sia da privilegiare l’accezione naturalistica o quella giuridica. Distinzione dei reati in relazione alla condotta Possono essere distinte diverse tipologie di reato in relazione alle particolari modalità della condotta. a. Reatidi azione e reati di omissione -> nei reati di azione è presente una condotta attiva che si estrinseca in un movimento muscolare realizzato attraverso uno o più atti (es. art. 575 c.p.); nei reati di omissione il legislatore incrimina il non agire del soggetto quando una norma impone al soggetto di agire (art. 593 c.p.). b. Reati di pura condotta e reati di evento -> sono reati di pura condotta quelli nei quali la fattispecie si esaurisce in una condotta attiva o omissiva (es. impossessamento e sottrazione nel delitto di furto); sono invece reati di evento le fattispecie nelle quali è presente come elemento costitutivo un elemento naturalistico (ma non rilevano eventuali eventi derivanti dal reato che non siano considerati dalla legge tra i requisiti di fattispecie). c. Reati a condotta vincolata e reati a forma libera -> sono a condotta vincolata quelle fattispecie nelle quali la legge richiede specifiche modalità della condotta (es. nel delitto di estorsione è necessaria la violenza o la minaccia): la tipicità della condotta è delimitata dalla scelta fatta dal legislatore in sede di descrizione della fattispecie (es. nella truffa rileva solo la condotta che integri gli estremi del raggiro o dell’artifizio); sono invece a forma libera i reati nei quali la legge attribuisce rilevanza a qualsiasi condotta che cagiona l'evento (es. omicidio o lesioni personali): il criterio di tipizzazione della condotta è costituito dal nesso di causalità e, poiché è tipica qualsiasi condotta che sia condizione dell'evento, questi reati sono anche definiti reati causali puri (o causalmente orientati); la scelta del legislatore nel prevedere l’una o l’altra specie di reati riflette un'opzione di politica criminale a favore di una più ristretta o ampia tutela del bene giuridico, condizionata dall’importanza del bene giuridico tutelato (es. la tutela della vita e dell’incolumità fisica è affidata a reati a forma libera, mentre quella del patrimonio a reati a forma vincolata. d. Reati istantanei, reati permanenti e reati abituali -> la distinzione tra reati istantanei e reati permanenti prende in considerazione le modalità della condotta tipizzate dalla fattispecie incriminatrice: - nei primi la condotta si realizza in un solo istante e il reato si consuma in uno specifico momento (es. furto, diffamazione); richiede ai consociati di agire per la salvaguardia di interessi meritevoli di tutela), sui cui valori si fonda l’art. 40, comma 2 c.p. Così, diventa necessario che, attraverso queste norme di comando, non si impongano ai consociati doveri di azione in vista del perseguimento di obiettivi di tutela di interessi non condivisi nel contesto sociale di riferimento. In un sistema penale fondato sul principio di legalità, al diritto penale non dev'essere attribuita un’impropria funzione promozionale che lo trasformi in un mero strumento dirigista e l’omissione è rilevante solo in due ipotesi: - qualora sia espressamente prevista come modalità della condotta in specifiche fattispecie incriminatrici (es. reati omissivi propri o che incriminano il mancato impedimento dell’evento); - attraverso l'applicazione dell’art. 40 cpv. c.p. che consente di considerare equivalente la condotta omissiva a quella attiva (c.d. clausola di equivalenza). Reato omissivo proprio Il reato omissivo proprio è un reato di pura condotta nel quale il fatto consiste, e si esaurisce, nell’omettere la condotta imposta dal precetto (es. art. 593 c.p.). Nel reato omissivo, tra i requisiti del fatto, va considerata la c.d. situazione tipica, cioè la situazione di fatto, descritta dalla norma incriminatrice, in presenza della quale sorge l'obbligo giuridico di attivarsi: tale elemento deve preesistere alla condotta omissiva e, dunque, costituisce un presupposto della condotta. A volte la situazione tipica è descritta attraverso elementi descrittivi (es. nell'art. 593 c.p., che richiede di trovare un corpo che sia o sembri inanimato o in pericolo), mentre altre è arricchita da elementi normativi (es. nell’omissione di denuncia art. 361 c.p., che presuppone che il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio nell'esercizio delle funzioni venga a conoscenza di un reato procedibile d'ufficio). Ulteriore elemento del fatto tipico è costituito dalla condotta omissiva: nella descrizione del fatto, il legislatore indica in quale direzione il soggetto deve agire per evitare di trasgredire il precetto (es. è necessario prestare aiuto o avvisare l'autorità per non incedere in omissione di soccorso). Per essere rilevante, l’omissione richiede pure un termine di adempimento entro il quale dev'essere tenuta la condotta doverosa. Il termine può essere espresso dalla stessa norma incriminatrice o da altra norma, oppure dev'essere desunto dal giudice attraverso l’interpretazione della norma (es. nell'omissione di soccorso, il termine dev'essere ricostruito tenendo conto del rischio per l'incolumità fisica derivante dal ritardo nel soccorso). Infine, è necessario che il soggetto abbia la possibilità di agire, ossia non sia impossibilitato per ragioni oggettive a tenere la condotta doverosa. 65 Reato omissivo proprio Il reato omissivo improprio consiste nel mancano impedimento dell'evento che si aveva l'obbligo giuridico di impedire. La norma di riferimento è l’art. 40 cpv. c.p., in base al quale “non impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”: la norma opera come clausola di equivalenza, in quanto consente, a determinate condizioni, di equiparare la condotta omissiva a quella attiva. Il reato omissivo improprio nasce quindi dal combinato disposto di questa norma con le singole fattispecie di parte speciale (es. cagionare la morte di un uomi, ex art. 575 c.p., è equivalente a non impedire la morte di colui del quale si aveva l'obbligo giuridico di impedire la morte). Poiché il soggetto risponde di aver omesso l’impedimento di un evento, il precetto del reato omissivo improprio è costituito da una norma comando: a differenza del reato omissivo proprio, il reato omissivo improprio è un reato di evento e presenta problemi di struttura perché sono indeterminati gli elementi che lo compongono, sollevando fondate perplessità in ordine al rispetto dei principi di riserva di legge e determinatezza, tra le quali le più controverse riguardano tre profili: - l’ambito di applicazione della clausola di equivalenza; - l’individuazione dell'obbligo giuridico di impedire l'evento; - l’accertamento del nesso causale tra condotta emissiva ed evento non impedito. L'AMBITO DI APPLICAZIONE DELLA CLAUSOLA DI EQUIVALENZA L’art. 40 cpv. c.p. non chiarisce se la clausola di equivalenza possa operare in relazione a tutte le fattispecie di reato oppure solo in relazione ad alcune. Innanzitutto, l’art. 40 cpv. c.p. è applicabile solo ai reati con evento naturalistico, perché si tratta di norma inserita all’interno della disciplina del rapporto di causalità; di conseguenza, è inapplicabile a: - reati di pura condotta; - reati nei quali la condotta omissiva è già prevista dal legislatore in sede di tipizzazione della condotta (es. l’art. 659 c.p. punisce "chiunque non impedendo strepiti di animali, disturba le occupazioni o il riposo delle persone”); - reati con condotta a tipizzazione necessariamente attiva (es: truffa): se la legge incrimina la sola condotta attiva, l'applicazione dell'art. 40 cpv. c.p. rappresenterebbe un'estensione indebita della condotta, in violazione della scelta del legislatore e, perciò, in contrasto con il principio di riserva di legge. L'ambito di applicazione della clausola di equivalenza è allora limitato ai reati causali puri, nei quali il legislatore considera rilevante qualsiasi condotta che sia causale rispetto alla realizzazione dell'evento (es. delitti di omicidio e di lesioni personali): trattandosi di fattispecie che assicurano una tutela ampia del bene giuridico, le stesse sono compatibili anche con la realizzazione a mezzo di una condotta omissiva. L’obbligo giuridico di impedire l'evento Nella struttura del reato omissivo improprio svolge una funzione essenziale l'obbligo giuridico di impedire l'evento, perché solo per i titolari di tale dovere l’omissione è equiparata alla condotta attiva: i reati omissivi impropri sono quindi reati propri, perché presuppongono una particolare qualifica personale definita dalla titolarità dell'obbligo giuridico di impedire l'evento. L’obbligo giuridico di impedire l'evento deve preesistere alla situazione di pericolo per il bene e la sua individuazione non è risolta dall'art. 40 cpv. c.p., che si limita a richiedere un obbligo giuridico, escludendo la rilevanza di obblighi di natura meramente morale o di solidarietà sociale (in ossequio al principio di laicità dell'ordinamento). Per individuare l'obbligo giuridico di impedire l'evento sono state dunque proposte diverse teorie. a. Teoria formale Individua l'obbligo giuridico in fonti formali: - legge (es. nel rapporto tra genitori e figli minori); - contratto, cheha forza di legge tra le parti (art. 1372 c.c.) e che può essere tipico (es. contratto di prestazione d'opera della bambinaia) o atipico (es. i vicini di casa si offrono di custodire il bambino in assenza dei genitori); - precedente attività pericolosa (es. dopo aver scavato una buca in strada per effettuare dei lavori, Tizio omette di predisporre le necessarie cautele ed avvertenze, cagionando così una lesione personale al passante caduto nella buca). A causa del richiamo a queste tre fonti, si è parlato anche di teoria del trifoglio. Parte della dottrina ha aggiunto a queste fonti anche la consuetudine e la negotiorum gestio. Questa impostazione è stata criticata per una serie di motivi: - se l'obbligo giuridico di impedire l'evento si fonda su una fonte formale, questa manca nell’ipotesi della precedente attività pericolosa; - poiché la responsabilità penale di chi ha posto in essere una precedente attività pericolosa si fonda già sulla condotta attiva che ha posto le condizioni della situazione di rischio, non è necessario ricorrere al reato omissivo improprio; - il richiamo a qualunque fonte legale rischia di produrre un'eccessiva dilatazione della responsabilità penale perché, attraverso l’art. 40 cpv. c.p., qualsiasi obbligo di natura extra-penale si traduce in un obbligo penale; anche la fonte del contratto, interpretata alla luce della rigorosa lettura della teoria formale, conduce a soluzioni inappaganti, perché basterebbe l’invalidità formale della fonte a escludere l'obbligo giuridico di impedire l'evento: la teoria formale si presenta perciò per certi versi troppo ampia e per altri troppo rigida. b. Teoria funzionale (o sostanziale) 67 Il tradizionale ricorso alle posizioni di garanzia per spiegare l'art. 40 cpv. c.p. è stato rivisitato dalle Sezioni unite della Corte di cassazione che, per spiegare la posizione del garante, hanno fatto riferimento all’area di rischio che il soggetto è chiamato a governare. Trasferimento e successione delle posizioni di garanzia. Assunzione volontaria e posizioni di fatto Le posizioni di garanzia possono essere: - originarie -> il garante è individuato da una norma di legge (es. la posizione di garanzia dei genitori rispetto ai figli ex art. 147 c.c.); - derivate -> piuttosto che di trasferimento delle posizioni di garanzia è più corretto parlare di trasferimento degli obblighi inerenti alla posizione di garanzia, in quanto la posizione non si trasferisce in toto, ma il garante originario cede a quello derivato parte degli obblighi a essa inerenti, potendo quindi residuare in capo al primo una responsabilità per omesso impedimento dell'evento; la fonte del trasferimento degli obblighi inerenti alla posizione di garanzia può essere la legge (es. delega di funzioni nell’ambito della prevenzione degli infortuni sul lavoro) o il contratto (es. tra i genitori e la baby-sitter). Per quanto riguarda le posizioni di garanzia derivate, il trasferimento deve avvenire a determinate condizioni: non basta che una fonte lo attui, ma è necessario che il garante prenda concretamente in carico il bene (es. baby-sitter); in presenza di un concreto affidamento del bene, diventano irrilevanti eventuali invalidità del contratto di trasferimento e, sul nuovo garante, l'obbligo di garanzia si estende finché la persona beneficiaria della tutela venga a trovarsi diversamente protetta (es. la babysitter non potrà lasciare incustodito il bambino affidatole solo perché i genitori tardano rispetto agli impegni contrattualmente assunti: la posizione di garanzia si trasferirà nuovamente a carico dei genitori quando il bambino sarà concretamente sotto la loro vigilanza). Particolarmente complessa, soprattutto per l'individuazione delle aree di responsabilità, può risultare l'individuazione dei limiti della responsabilità penale nel caso di successione nella posizione di garanzia (es. medici al cambio turno, cessione di un'azienda): non si tratta di trasferimento degli obblighi inerenti alla posizione di garanzia da un garante originario a uno derivato, ma della sostituzione di un garante con uno nuovo. Al riguardo, correttamente, la giurisprudenza esclude che il primo garante si liberi dall'eventuale responsabilità derivante dalla condotta da lui posta in essere per il solo fatto che, prima del verificarsi dell'evento, gli sia subentrato un successore: la successione dei garanti è facilmente riconduvibile a un fenomeno di concorso di cause ex art. 41 c.p. con la responsabilità di entrambi i soggetti, mentre la responsabilità del primo garante è esclusa (venendo liberato dalla posizione di garanzia) solo rispetto all'apertura di nuove aree di rischio rispetto a quelle in cui egli operava e quando queste ultime sono eliminate. Un secondo requisito per il trasferimento delle posizioni di garanzia è costituito dalla volontà del titolare del bene o del garante originario al suo trasferimento. Particolarmente controversa è la possibilità di fondare le posizioni di garanzia su situazioni di mero fatto (es. le convivenze di fatto sono state regolamentate dalla |. 76/2016 diversamente dalle unioni civili, perché solo per queste ultime sono stati riprodotti i doveri di solidarietà che valgono per i coniugi e che fondano reciproci obblighi di impedimento dell’evento). Ammettere la rilevanza generalizzata alle situazioni di mero fatto, al fine di dare massima rilevanza ai doveri di solidarietà sociale, entra in collisione con i principi di riserva di legge e di determinatezza (es. poiché la rilevanza penale è stata fondata sul dovere nascente dal costume sociale, a prescindere dall’individuazione di una specifica posizione di garanzia, è stata ritenuta discutibile la decisione della Corte di cassazione di riconoscere la responsabilità del figlio che non aveva impedito la morte dell’anziano padre, temporaneamente convivente, per mancata e adeguata assistenza medica). Peraltro, la giurisprudenza ritiene che la posizione di garanzia sia generata non soltanto dalla investitura formale del garante ma anche dall'esercizio di fatto delle funzioni tipiche delle diverse figure di garante mediante un comportamento concludente dell'agente, consistente nella presa in carico del bene protetto sulla base di un accordo che si consolida al momento e che può essere ricondotto a un contratto atipico (es. è stata ritenuta responsabile la guida, a cui il gestore di un rifugio aveva affidato il compito di seguire con un faro i clienti lungo una discesa dove alcuni persero la vita perché si staccarono), spesso usato dalla giurisprudenza per ampliare la responsabilità penale per omesso impedimento dell'evento. È possibile, invece, riconoscere la sussistenza di una posizione di garanzia fondata su situazioni di fatto nei casi in cui la stessa legge riconosca rilevanza all'assunzione di fatto di poteri inerenti agli obblighi di tutela (es. in tema di sicurezza sul lavoro, ai soggetti di diritto del datore di lavoro, del dirigente e del preposto sono equiparati colore che, pur sprovvisti di formale investitura, esercitano in concreto i poteri giuridici corrispondenti a tali qualifiche): queste norme, che espressamente equiparano ai soggetti muniti di formale investitura coloro che di fatto esercitano gli stessi poteri, consentono non solo di applicare i reati propri dei soggetti di diritto ai soggetti che di fatto esercitano le stesse funzioni, ma pure di estendere a questi ultimi le posizioni di garanzia di cui i primi sono investiti. Bisogna comunque ricordare che la titolarità di una posizione di garanzia ancor nulla dice sulla responsabilità del garante per l'evento verificatosi, perché è ancora necessario accertare la sussistenza del nesso di causalità tra condotta emissiva ed evento, e dell'elemento soggettivo richiesto dalla fattispecie incriminatrice. Problemi aperti nell’individuazione delle posizioni di garanzia I problemi che solleva l'individuazione della responsabilità penale per reato omissivo improprio consistono nell’inadeguatezza della disciplina prevista dall'art. 40 cpv. c.p., non colmata dal diritto giurisprudenziale vivente, che registra soluzioni non sempre univoche in relazione all’individuazione dei garanti (es. in ambito societario), dei beni oggetto ditutela (es. nell’ambito del diritto di famiglia) e delle fonti della posizione di garanzia (es. che la giurisprudenza tende a espandere a rapporti di mero fatto, quindi a prese in carico oggettive, o all’assunzione volontaria unilaterale, mentre la dottrina, al riguardo, è molto più scettica). In merito, il progetto della commissione Grosso di riforma della parte generale del codice penale aveva proposto di tipizzare con previsione espressa di legge le diverse posizioni di garanzia, 71 individuando le posizioni, i soggetti responsabili e l'ambito della responsabilità (es. il genitore è garante rispetto ai beni del figlio minore limitatamente alle offese alla vita, all’integrità fisica, alla libertà individuale e all’integrità sessuale). CAPITOLO 13 - Il rapporto di causalità Rapporto di causalità in ambito giuridico e limiti della disciplina codicistica Nei reati con evento naturalistico costituisce elemento essenziale di fattispecie il nesso di causalità tra la condotta e l'evento. Il problema della causalità non è tipicamente penalistico, perché anche altre branche del sapere se ne occupano ma, ai fini dell’accertamento della responsabilità in ambito penalistico, si pone in particolare il problema dell’imputazione di un evento alla condotta umana, cioè se la condotta dell'autore costituisca uno dei fattori causali che provocano l'evento del reato. Nei reati a evento, infatti, la presenza del nesso causale è elemento essenziale di fattispecie e costituisce presupposto indefettibile per garantire il rispetto dell'art. 27, comma 1 Cost: la responsabilità penale personale, che richiede un coefficiente soggettivo minimo di imputazione, presuppone anzitutto una responsabilità per fatto proprio, cioè per un fatto che sia oggettivamente imputabile al suo autore, mentre non può essere considerato proprio del soggetto un reato nel quale l'evento non è stato cagionato della condotta dello stesso, perché, altrimenti, si tratterebbe di responsabilità per fatto altrui. Il codice penale detta una disciplina particolarmente articolata in tema di causalità. L’art. 40, comma 1 c.p. si limita a richiedere il nesso di causalità nei reati ad evento e prevede che “nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l'evento dannoso o pericoloso, da cui dipende l’esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione o omissione”. L’art. 40, comma 2 c.p. prevede che “non impedire un evento, che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”. Più articolata si presenta la disciplina delle concause: l’art 41 c.p. stabilisce che “il concorso di cause preesistenti, simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall’azione od omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità fra l’azione od omissione e l'evento”: il legislatore parte dal presupposto che l'evento non è mai la risultante di un solo fattore e ciò che rileva è l'efficacia causale della condotta umana, il cui significato causale non viene meno anche quando la causa preesistente, simultanea o sopravvenuta consiste nel fatto illecito altrui. Il vero punto critico della disciplina dell’art. 41 c.p. risiede nel comma 2, a tenore del quale “le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità quando sono state da sole sufficienti a dovrebbe essere esclusa quando una condotta, che appariva ex ante inidonea a produrre un certo evento, lo abbia poi di fatto prodotto. In tal modo viene escluso il nesso causalità tra la condotta e gli effetti atipici che essa abbia prodotto. A fondamento di questa teoria manca una qualunque base normativa ma, anche a prescindere dai dati normativi, esiste comunque una più solida obiezione: la valutazione ex ante si giustifica in un contesto come quello del delitto tentato, dove l’evento non si è verificato e dove il giudizio non può che essere svolto in termini di prognosi postuma al momento della condotta ma tale giudizio non si concilia con l'accertamento del nesso causale quando l'evento si è in concreto verificato e si impone una verifica ex post dell'efficacia causale della condotta. Piuttosto, l'esigenza di limitare la responsabilità penale può essere meglio soddisfatta sul terreno dell'elemento soggettivo, che dev'essere sempre accertato, con giudizio ex ante, al momento della condotta: potrebbe essere escluso il dolo, salvo che il soggetto si fosse rappresentato l'evento come effetto della propria condotta mentre, per l'accertamento della colpa, bisogna considerare la prevedibilità dell'evento alla luce delle leggi scientifiche e delle massime di esperienza. Teoria della causalità umana L’altra teoria (c.d. della causalità umana) che si propone come correttivo della causalità condizionalistica è stata elaborata da Antolisei, secondo il quale la causalità delle condotte dell’uomo presenta proprie specificità perché l’uomo, in forza dei propri poteri conoscitivi e volitivi, ha una sfera di signoria che gli consente di dominare una serie di circostanze nelle quali si inserisce la sua condotta: i fattori che rientrano in questa sfera di signoria possono essere considerati causati dall'uomo perché dominabili dallo stesso, mentre tutti gli altri fattori non possono essere imputati al soggetto perché eccezionali e imprevedibili. Secondo la ricostruzione di Antolisei, pertanto, la sussistenza del rapporto di causalità richiede due elementi: - elemento positivo -> in base al quale è necessario che la condotta costituisca condicio sine qua non dell'evento mediante giudizio contro-fattuale, secondo l'impostazione della teoria condizionalistica; - elemento negativo -> in base al quale è necessario che non sia intervenuto un fattore eccezionale che interrompa il nesso di causalità; ad esempio, se Caio, ferito da Tizio con intenzione omicida, viene portato all'ospedale per essere curato e li muore a causa di un incendio, la condotta di Tizio, che è condizione dell'evento morte (perché se Caio non fosse stato ferito da Tizio non sarebbe stato ricoverato all'ospedale e non sarebbe morto nell'incendio) non è legata da un rapporto di causalità giuridica poiché è intervenuto il fattore eccezionale rappresentato dall’incendio; al contrario, non ci sarebbe interruzione del nesso causale se la morte di Caio fosse provocata dall’imperizia del medico curante perché tale errore non si considera eccezionale. Questa teoria può essere agganciata al dettato dell'art. 41 c.p.: 75 il primo comma, nell’affermare l’irrilevanza del concorso di cause sul rapporto di causalità tra azione od omissione ed evento, esprime la teoria condizionalistica, che attribuisce rilevanza a tutte le condizioni dell'evento; questo principio è ribadito dal terzo comma, che estende la disciplina dei primi due commi anche alle cause preesistenti, simultanee o sopravvenute che consistono nel fatto illecito altrui; le cause sopravvenute da sole sufficienti a determinare l’evento, di cui al comma secondo, consistono proprio in quei fattori eccezionali che interrompono il nesso causale; li eventuali fattori eccezionali preesistenti o concomitanti alla condotta, non richiamati dal comma secondo, possono rilevare attraverso l’estensione analogica di tale comma, in quanto si tratta di analogia in bonam partem: questa soluzione è stata accolta dalla giurisprudenza, che esclude il nesso causale tra condotta ed evento quando, pur trattandosi di una condotta condizionale, interviene un fattore eccezionale, riconosciuto come tale dalla Corte di cassazione riconosce solo in pochi casi (es. solitamente l'errore del medico non è considerato fattore eccezionale, mentre, per esempio, lo è stato la condotta della vittima che abbia attraversato improvvisamente la strada con il semaforo rosso). Teoria dell’imputazione oggettiva dell’evento Un altro orientamento dottrinale introduce il criterio dell'aumento del rischio in funzione di restrizione dell'imputazione penale dell'evento. Affinché un evento possa essere imputato a una condotta sono necessari tre requisiti: 1. la condotta dev'essere condizione dell'evento; 2. la condotta deve aver creato un pericolo riprovato dall'ordinamento (es. se un nipote induce lo zio ricco a fare un viaggio in aereo sperando che lo stesso perisca durante un disastro aereo, poi avvenuto, secondo la teoria dell'imputazione oggettiva l'evento morte non può essere imputato al nipote perché la condotta di induzione al viaggio rientra nell'ambito del rischio consentito e non ha aumentato il rischio di verificazione dell'evento, mentre si dovrebbe giungere a una diversa conclusione qualora il nipote fosse a conoscenza di un'avaria dell'aereo o della preparazione di un attentato); 3. l'evento dev'essere la realizzazione del rischio non consentito (es. la morte di Caio, ferito, portato in ospedale e lì perito a causa di un incendio, non costituisce la concretizzazione del rischio prodotto dal ferimento). Le critiche mosse a questa teoria sono principalmente due: si obietta di spostare sul piano oggettivo del nesso di casualità un problema di imputazione che la maggior parte della dottrina risolve sul piano dell'elemento soggettivo del dolo o della colpa: ai fini dell'affermazione della responsabilità penale non basta accertare un nesso di causalità, ma è necessaria anche la presenza di una componente psichica, in termini di dolo o di colpa; l'aumento del rischio, come criterio di delimitazione della condotta penalmente rilevante, potrebbe condurre ad allentare l'accertamento del nesso di causalità, ampliando la responsabilità penale e non sostituendo la teoria condizionalistica. Riguardo a questa tendenza la Corte di cassazione ha dato una diversa lettura della causa sopravvenuta da sola ritenuta sufficiente a determinare l'evento, preferendo parlare di evento non riconducibile all'area di rischio anziché di fattore eccezionale e ciò potrebbe essere utilizzato per attualizzare la nozione di fattore eccezionale interruttivo del nesso di causalità. Sussunzione sotto leggi scientifiche. I principi della teoria condizionalistica costituiscono la base del rapporto di causalità giuridica: anche le teorie che si sono a questa affiancate l’hanno comunque accolta, apportando limiti all’imputazione penale. Il procedimento di eliminazione mentale di cui si avvale la teoria condizionalistica funziona nella misura in cui si conosce la legge di copertura secondo la quale a un certo fattore ne segue un altro: ad esempio, se Tizio spara a Caio al cuore, la causalità della condotta di Tizio rispetto all'evento morte non può essere spiegata in termini di mera successione temporale fra eventi ( = se a un evento succede temporalmente un altro evento, allora c'è nesso di causalità tra il primo e il secondo) ma solo perché si conoscono gli effetti letali di un proiettile diretto al cuore, altrimenti, ad esempio, se una persona in preda a un crisi isterica si calma quando un sedicente guaritore impone le mani sul suo capo, si dovrebbe riconoscere effetto curativo all’imposizione delle mani. L'accertamento del nesso di causalità si complica poi in presenza di eventi di natura multifattoriale (es. sviluppo di tumori che possono essere causati da fattori professionali dipendenti dalle condizioni di lavoro o in altri fattori cancerogeni, come ad esempio il fumo): è necessario che il rapporto di causalità sia spiegato facendo riferimento alle leggi scientifiche che giustificano la causalità di un certo fattore rispetto a un altro, cioè alla c.d. sussunzione sotto leggi scientifiche di copertura. Nella spiegazione del nesso causale, il giudice deve passare da un metodo individualizzate a un metodo generalizzante: deve necessariamente partire dall'evento del caso concreto che, però, dev'essere ridescritto, astraendo da alcune connotazioni della vicenda concreta e dando rilevanza alle sue modalità tipiche e ripetibili rilevanti ai sensi della legge scientifica che spiega che, a fattori generali del tipo (A), analogo al fattore che in concreto si è verificato (a), segue un evento generale del tipo (B), analogo a quello che in concreto si è verificato (b). Infatti, il giudice non crea leggi scientifiche per spiegare il rapporto fra eventi, ma ne è fruitore, in modo da garantire il massimo di certezza nell'accertamento del nesso di causalità e assicurarne la controllabilità. Talvolta le leggi sono universali, le quali affermano che, nel 100% dei casi, a un fattore segue un certo evento (es. gravità), mentre, nella maggior parte dei casi, le leggi scientifiche sono statistiche, che solo in una certa percentuale di casi consentono di affermare che ad A segue B ma che sono tanto più attendibili quanto più trovano applicazione in un numero sufficientemente elevato di casi e ricevono conferma empirica attraverso metodi controllabili. 77 causalità tra una condotta e un evento in concreto può basarsi anche su leggi statistiche che esprimono frequenze medio-bassem purché si possa affermare al di là di ogni ragionevole dubbio che l'evento è stato causato dalla condotta, nel senso che, con un rigore tanto maggiore quanto minore è la frequenza della legge di copertura scientifica, dev'essere ragionevolmente escluso l'intervento di fattori causali alternativi dotati di efficacia esplicativa (es. se Tizio, malato di AIDS, ha avuto un rapporto sessuale non protetto con Caia che, in epoca successiva, risulta siero positiva, benché la legge scientifica di copertura prevede una percentuale statistica molto bassa di contagio per via sessuale dovuto a rapporti non protetti, il nesso causale non dev'essere escluso qualora, nel frattempo, Caia non abbia avuto altri rapporti sessuali non protetti, subito trasfusioni, usato aghi infetti, ecc.). Questioni aperte dopo la sentenza Franzese La giurisprudenza successiva si è uniformata ai principi di diritto fissati nella sentenza delle Sezioni unite, benché il recepimento (che parifica definitivamente condotta attiva e condotta passiva) sia spesso apparso alla dottrina più formale che sostanziale, con il pericolo di una degenerazione di tipo retorico. Ad esempio, nel caso delle c.d. patologie multifattoriali, l'accertamento del nesso causale diventa più problematico (es. lo sviluppo di un tumore in un operaio può derivare dall’inalazione di una sostanza cancerogena utilizzata dall’azienda o dal fatto che sia un tabagista): in questi casi la giurisprudenza ricorre alla disciplina delle concause ex art. 41 c.p. per affermare la sussistenza del rapporto di causalità, ma, in concreto, dev'essere verificata la congiunta operatività dei diversi fattori causali, escludendo che l'intervento di uno di essi sia tale da escludere l'efficacia di un altro. In una sentenza del 2014 la Corte di cassazione ha poi affermato che, spesso, un evento può trovare la sua causa, alternativamente, in diversi fattori e che ciascuna ipotesi causale viene messa a confronto in chiave critica con le particolarità del caso concreto che potranno corroborarla o falsificarla: si tratta delle contingenze concrete del fatto storico che, in alcuni casi, possono consentire di risolvere il dubbio e di selezionare un’accreditata ipotesi eziologica. A riguardo, tuttavia, rimangono aperti molti interrogativi che la prassi applicativa e la dottrina hanno evidenziato. Anzitutto, in caso di causalità omissiva si dubita che il passaggio dalla probabilità statistica a quella logica, possibile nella causalità attiva (es. contagio da HIV), sia applicabile alla causalità omissiva perché la condotta omissiva si inserisce in un decorso causale di tipo naturalistico e si afferma che il giudice deve prima accertare i fatti causali che hanno prodotto l'evento e dopo chiedersi se la condotta doverosa omessa avrebbe impedito l'evento. In questo contesto, si dubita che, in presenza di leggi statistiche con frequenze medio-basse, si possa giungere a un giudizio di probabilità logica, escludendo l'intervento di altri fattori causali alternativi: così, ci sono state pronunce che, sul filone delle sentenze Battisti, considerano possibile accertare il nesso di causalità solo con leggi scientifiche statistiche che coprono quasi il 100% dei casi ma, in questo modo, si limita drasticamente l'accertamento del rapporto causale perché la condotta omessa potrebbe comunque rientrare nella percentuale residua in cui la legge statisctica non opera. La dottrina ritiene che, per quanto si cerchi di equiparare la causalità omissiva a quella attiva, l’omissione presenta profili di maggiore incertezza che rendono l'accertamento del nesso connotato di minor rigore, ma il rischio di ingannevoli distorsioni può essere evitato con una serrata ricerca e analisi delle contingenze del caso concreto. Un secondo profilo lasciato aperto dalla sentenza Franzese riguarda l'attendibilità delle leggi scientifiche di copertura qualora esistano orientamenti divergenti nella spiegazione del decorso causale: a fronte delle incertezze della scienza, la Corte di cassazione ha affermato che il sapere scientifico costituisce un indispensabile strumento al servizio del giudice di merito e, dunque, l'affidabilità della legge scientifica non impone che la stessa goda di riconoscimento unanime, ma è necessario che il giudice tenga conto solo della teoria sulla quale si registra un preponderante condiviso consenso (es. sentenza Cozzini in merito alla responsabilità del datore di lavoro per la morte di operai, dovuta a mesotelioma pleurico causato dall'esposizione all'amianto, sostanza rispetto alla quale c'era incertezza scientifica sull'effetto acceleratore della sostanza). Dal momento che il diritto penale ha a che fare con condotte umane, e in certi casi rientra nel territorio delle scienze sociali, un terzo profilo lasciato aperto attiene alla possibilità (negata da parte della giurisprudenza) di fondare il rapporto di causalità anche su generalizzazione del senso comune, cioè su massime di esperienza: In questi casi il giudice dispone di un più ampio potere discrezionale con il rischio che il metodo di accertamento sia solo apparentemente generalizzante ma, di fatto, sia caratterizzato da criteri puramente intuitivi e, perciò, sarebbe necessario che queste generalizzazioni siano fondate su un solido fondamento scientifico che confermi la valutazione che ricollega la condotta all'evento. Inoltre, più il diritto si misura con contesti connotati da incertezza scientifica, più ci si deve interrogare sui limiti del ricorso al diritto penale: infatti, il particolare rigore nella verifica del nesso causale in materia penale (al di la di ogni ragionevole dubbio, giustificata dall’accertamento della responsabilità penale con conseguente applicazione di sanzioni che incidono sulla libertà personale) si raffronta nel campo della responsabilità civile con una giurisprudenza che si accontenta di un grado inferiore di certezza (fondata su “più probabile” che non “preponderanza di evidenza”) e da questo punto di vista, la sentenza Franzese, con tutti i suoi interrogativi, costituisce un importante anticorpo contro la flessibilizzazione del nesso di causalità. AI fine di mantenere fermo il rigore nell’accertamento del nesso di causalità secondo la soluzione della Corte di cassazione ed evitare che l'incertezza scientifica imponga di escludere la responsabilità penale per insufficienza o contraddittorietà di prove, dovrebbero essere tentate vie alternative al diritto penale dei reati di evento: - con i reati di pericolo presunto di pura condotta (es. che vieterebbero o condizionerebbero a determinate cautele l’uso delle sostanze di cui c'è incertezza scientifica sulla loro nocività) il diritto penale si muoverebbe nell’ottica della precauzione edeviterebbe le difficoltà probatorie che si accompagnano all'accertamento dei reati di evento); 81 - potenziamento degli strumenti di tutela nell’ambito della responsabilità civile, che richiedono un minor rigore nell’accertamento causale e permetterebbero un'efficace tutela della vittima. CAPITOLO 14 - Fatto tipico e offensi Il principio di offensività IL È necessario che costituiscano reato fatti offensivi di beni giuridici, in quanto solo l'offesa a interessi che i consociati ritengono meritevoli di tutela penale giustifica l'intervento della sanzione più pesante di cui l'ordinamento disponga: è ciò che la Corte di cassazione definisce principio di offensività in astratto, che si rivolge, in primo luogo, al legislatore (al quale spetta descrivere fattispecie incriminatrici a tutela di beni giuridici) e, in secondo luogo, all’interprete, soprattutto al giudice (che deve interpretare le norme penali in modo da garantire il rispetto del principio di offensività in astratto, adeguando il bene tutelato ai principi costituzionali o, qualora ciò sia impossibile, sollevando questione di legittimità costituzionale). Tuttavia, il principio di offensività presenta pure un altro profilo, più significativo sul piano della prassi applicativa: non sempre un fatto concreto, che formalmente riproduce gli elementi costitutivi di una fattispecie incriminatrice, è anche offensivo dell'interesse giuridico tutelato (es. il furto di un acino d’uva integra gli elementi costitutivi dell’art. 624 c.p. ma, in concreto, il fatto tipico non offende gli interessi patrimoniali del proprietario della vigna perché il bene sottratto ha un valore insignificante) e, con riferimento al rispetto dei principi di proporzionalità ed economia processuale, la dottrina si è chiesta se sia ragionevole che in questi casi intervenga il diritto penale, che dispone delle sanzioni più afflittive. Una parte della dottrina italiana ne ha escluso la rilevanza penale in applicazione dell’art. 49, comma 2 c.p. (“la punibilità è altresì esclusa quando, per l’inidoneità dell’azione o per l'inesistenza dell'oggetto di essa, è impossibile l'evento dannoso o pericoloso”), che prevede la non punibilità del reato impossibile (e, quindi, deltentativo inidoneo) per inidoneità dell’azione. Invece, ad esempio criticando la distanza sistematica tra gli artt. 49 e 56 c.p., Marcello Gallo ha proposto una diversa lettura dell'art. 49, comma 2 c.p., secondo cui il termine azione indica l’intero fatto tipico (e non gli atti diretti alla consumazione del reato) e l'evento dannoso o pericoloso un evento giuridico, cioè un'offesa all'interesse tutelato dalla norma incriminatrice: sulla base di questa concezione realistica del reato, la norma prevede la non punibilità del fatto tipico, ma in concreto non offensivo del bene giuridico, e diventa la base normativa del principio di necessaria offensività del reato (= fatto concretamente offensivo del bene giuridico tutelato in astratto dalla fattispecie), cioè del principio di offensività in concreto. | sostenitori della concezione realistica del reato riconoscono al principio di offensività in concreto rilievo costituzionale: se l'art. 49, comma 2 c.p. dovesse essere applicata anche a fatti che in concreto non offendono l’interesse a tutela del quale la norma penale è posta, la pena si ridurrebbe a punizione della mera disobbedienza o colpirebbe un fatto meramente sintomatico - reati commessi da minori -> intendendo puntare più sulla rieducazione del minore che sull’applicazione della sanzione penale e, dunque, sulla punizione del fatto, il giudice emette sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto se risulta la tenuità del fatto e l’occasionalità del comportamento; - reati di competenza del giudice di pace -> è esclusa la procedibilità nei casi di particolare tenuità del fatto, cioè quando, rispetto all'interesse tutelato, l’azione penale non è giustificata dall’esiguità del danno o del pericolo che ne è derivato, dall’occasionalità della condotta e dal grado della colpevolezza, tenuto conto anche del pregiudizio che l'ulteriore corso del procedimento può recare alle esigenze di lavoro, di studio, di famiglia o di salute della persona sottoposta a indagini o dell'imputato. Tuttavia, queste norme hanno un'applicazione soltanto settoriali così, dopo alcune proposte di ampliamento di tale clausola dell’irrilevanza del fatto per particolare tenuità (che ha funzione deflattiva del carico penale in un contesto normativo retto dal principio di obbligatorietà dell’azione penale ex art. 112 Cost.) nell’ambito della codificazione del principio di necessaria offensività (es. progetti di riforma del codice penale Grosso, Nordio e Pisapia), il legislatore ha introdotto l'art. 131bis c.p., che disciplina l'esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto: si tratta di una causa di non punibilità che presuppone un fatto tipico, pertanto costitutivo di reato, ma non meritevole di punizione per il suo tenue disvalore, in linea con il principio di proporzione e ai fini di economia processuale. I requisiti che definiscono l'ambito di applicazione di questo nuovo istituto delimitano il potere discrezionale del giudice nella decisione di non punire un fatto che integra gli elementi costitutivi, oggettivi e soggettivi, di una fattispecie di reato: la clausola di non punibilità si applica solo ai reati per i quali la legge prevede la pena detentiva non superiore nel massimo a 5 anni o la pena pecuniaria, sole o congiunte (art. 131, comma 1 c.p.), in tal modo precludendo l'applicazione della clausola di non punibilità ad alcuni reati che, invece, l'avrebbero meritata, come nel caso del peculato, punito con la pena massima di dieci anni e sei mesi, compiuto dal pubblico ufficiale che si appropri occasionalmente di scarso materiale di cancelleria in dotazione all’ufficio. Inoltre, l’art. 131, comma 4 c.p. dispone che per la determinazione della pena non si tiene conto delle circostanze, a eccezione di quelle per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato e di quelle a effetto speciale. Si tratta di una scelta di politica criminale finalizzata a soddisfare esigenze di prevenzione generale: la particolare tenuità del fatto dev'essere esclusa in relazione a reati che, già a un’astratta valutazione, evidenziano una maggiore gravità. Il giudizio di particolare tenuità del fatto si fonda su due indici costituiti dalla particolare tenuità dell’offesa e dalla non abitualità del comportamento (art. 131, comma 1 c.p.). La particolare tenuità dell’offesa dev'essere valutata in relazione alle modalità della condotta e all’esiguità del danno o del pericolo (art. 131, comma 1 c.p.) e dev'essere presa in considerazione la caratterizzazione del fatto storico nella sua interezza. Ad esempio, si può escludere la punibilità ai sensi dell’art. 639 c.p. (deturpazione e imbrattamento di cose altrui) dell’imbrattamento di un muro posto sulla pubblica via con 85 bombolette spray di colore diverso perché il muro era già stato rovinato da ignoti e, quindi, l'intervento dell'imputato non determinava alcun danno. Invece, in relazione ai reati urbanistici e paesaggistici, oltre alla consistenza dell'intervento abusivo, ai fini della non punibilità si considerano, ad esempio, anche la destinazione dell'immobile, l'incidenza sul carico urbanistico, il mancato rispetto di vincoli e la conseguente violazione di più disposizioni, la totale assenza di titolo abitativo o il grado di difformità dallo stesso.. L’art. 131bis c.p. sembra considerare esclusivamente il profilo oggettivo del fatto (condotta, danno o pericolo) ma, richiedendo che gli elementi della particolare tenuità siano valutati ai sensi dell'art. 133, comma 1 c.p., si può desumere l’importanza anche dell'elemento soggettivo in quanto, tra i criteri indicati da questo rinvio, compaiono anche l'intensità del dolo e della colpa. Inoltre, sempre considerando profili della colpevolezza accanto a specifici profilli oggettivi del fatto concreto, la rilevanza della componente soggettiva del reato si desume dall’art 131bis, comma 2 c.p., che esclude la particolare tenuità dell’offesa “quando l’autore ha agito per motivi abietti o futili, o con crudeltà, anche a danno di animali, o ha adoperato sevizie 0, ancora, ha profittato delle condizioni di minorata difesa della vittima, anche in riferimento dell’attività della stessa ovvero quando la condotta ha cagionato o da essa sono derivate, quali conseguenze non volute, la morte o le lesioni gravissime di una persona”. Infine, l'art. 131bis, comma 3 c.p. stabilisce che “il comportamento è abituale nel caso in cui l’autore sia stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza ovvero abbia commesso più reati della stessa indole, anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità, nonché nel caso in cui si tratti di reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate. L’art. 131bis c.p. viene applicato pure quando la legge prevede la particolare tenuità del danno o del pericolo come circostanza attenuante, mentre non si applica ai reati commessi dai minorenni e ai reati attribuiti alla competenza del giudice di pace perché queste fattispecie sono oggetto della disciplina speciale prima richiamata. Sul piano della successione di leggi penali neltempo, l'art. 131bis c.p. costituisce una norma di diritto penale sostanziale e, trattandosi di norma più favorevole, si applica retroattivamente con il limite del giudicato. Reati di pericolo L’offesa al bene giuridico è assicurata sia dalla lesione sia dalla messa in pericolo del bene giuridico tutelato e, perciò, è possibile distinguere tra: - reati di danno, nei quali il bene giuridico è, in tutto o in parte, pregiudicato nella sua consistenza (es. nell'omicidio si ha la lesione del bene vita); - reati di pericolo, nei quali è presente solo una probabilità di lesione del bene giuridico tutelato (es. nel delitto di incendio, ex art. 423 c.p., non si richiede che lo sviluppo di un fuoco di vaste proporzioni e di difficile spegnimento abbia arrecato una lesione all'incolumità fisica di qualcuno) e alla cui categoria, tradizionalmente divisa in reati di pericolo concreto o astratto in base alla tecnica di tipizzazione del fatto, appartiene anche il delitto tentato, che costituisce fattispecie autonoma rispetto al delitto consumato e mette in pericolo il bene giuridico tutelato da quest'ultimo (es. il bene vita, leso nell'omicidio consumato, viene messo in pericolo nell'omicidio tentato). La distinzione tra reati di danno e reati di pericolo è agevole in presenza di beni tangibili (es. integrità fisica), mentre è meno netta in presenza di fattispecie poste a tutela di beni giuridici dotati di un maggior grado di astrazione (es. è dubbio se, rispetto al bene dell'ordine pubblico, il diritto di associazione a delinquere costituisca reato di danno o di pericolo), benché la qualificazione come reato di pericolo diventi prevalente con l'aumentare dell’astrattezza. La dottrina ha poi evidenziato la presenza di beni giuridici strumentali o intermedi rispetto ai beni giuridici finali: ad esempio, la sicurezza sui luoghi di lavoro costituisce un bene strumentale rispetto al bene finale dell'incolumità fisica e della salute dei lavoratori e, dunque, una fattispecie può essere considerata di danno rispetto al bene giuridico strumentale e di pericolo rispetto al bene giuridico finale. Lo sviluppo dei reati di pericolo è l’effetto diretto delle scelte di politica criminale indotte dalla proliferazione, nella c.d. società del rischio, delle fonti di pericolo per i beni giuridici (es. circolazione stradale), a fronte delle quali, al fine di prevenirne la lesione, il legislatore anticipa la soglia di punibilità (e, quindi, la tutela penale) alla sola messa in pericolo del bene, perché i reati di evento risultano inadeguati. Reati di pericolo concreto Nei reati di pericolo concreto il pericolo è l'elemento costitutivo espresso di fattispecie (es. nella strage, ex art. 422 c.p., sono necessari atti diretti a porre in pericolo l'incolumità pubblica) e spetta al giudice accertarne in concreto la presenza. Queste fattispecie sollevano problemi di conformità al principio di determinatezza perché la nozione di pericolo è di per sé vaga e il suo accertamento non è agevole: sebbene la dottrina abbia a lungo discusso sulla nozione di pericolo, prevale l'orientamento che lo identifica con un giudizio di relazione tra una certa situazione e un evento futuro dannoso da prevenire e che richiede una consistente probabilità o (rilevante possibilità) che tale evento si realizzi. Nell’accertamento del pericolo concreto è fondamentale distinguere tre elementi: - il momento del giudizio -> indica il tempo nel quale dev'essere compiuta la valutazione di probabilità dell'evento pregiudizievole: la valutazione deve sempre essere collocata ex ante, secondo il cosiddetto giudizio di prognosi postuma, per mezzo del quale il giudice deve mentalmente porsi al momento della situazione da qualificare in termini di pericolo e chiedersi se, allora, apparisse probabile la verificazione dell'evento; inoltre, l'individuazione del momento del giudizio è condizionato anche dalla collocazione del pericolo all'interno della fattispecie: in alcuni casi il pericolo qualifica la condotta, e in tal caso il momento del giudizio si identifica con quello della condotta (es. 422 c.p.), mentre 87 da parte della Corte costituzionale, secondo cui l'apologia punibile non è una mera manifestazione di pensiero, ma quella che, per le sue modalità, integri un comportamento concretamente idoneo a provocare la commissione di delitti, in questa maniera convertendo in via interpretativa il reato di pericolo astratto in reato di pericolo concreto. CAPITOLO 15 - Le cause di giusti Cause di giustificazione e cause di non punibilità In alcune situazioni, un fatto che normalmente costituirebbe illecito penale non è considerato tale in quanto giustificato dall'ordinamento grazie alle cause di giustificazione (o scriminanti), norme che autorizzano o, addirittura, impongono la realizzazione del fatto che normalmente costituirebbe reato. Le cause di giustificazione sono considerate, secondo un'impostazione minoritaria, elementi negativi del fatto, perché la loro presenza fa in modo che il fatto non possa essere considerato reato, mentre, secondo l’opinione prevalente, cause di esclusione dell’antigiuridicità, nel quadro della concezione tripartita del reato. Benché non sia sempre agevole, poiché il legislatore usi la stessa formula “non è punibile”), bisogna tenere distinte cause di giustificazione e cause di non punibilità, che hanno una diversa disciplina e un diverso fondamento: - scriminanti -> il loro fondamento risponde a criteri di natura sostanziale imperniati sul bilanciamento degli interessi contrapposti (es. la non punibilità per lesioni del soggetto che si difende in modo proporzionato da un’ingiusta aggressione si fonda sulla prevalenza, che fa perdere alla reazione il suo disvalore, accordata dall'ordinamento al bene della vittima messo in pericolo dall’aggressore); - mere cause di non punibilità -> sono situazioni nelle quali il legislatore stabilisce la non punibilità di un soggetto per semplici ragioni di opportunità (es. l’art. 649 c.p. dichiara non punibile il figlio che sottrae denaro ai genitori non perché il fatto è penalmente indifferente, ma perché non è opportuno il ricorso alla sanzione penale per una vicenda dai risvolti meramente patrimoniali che coinvolge soggetti legati da un forte vincolo familiare: il permanere dell’illiceità penale del fatto in sé è dimostrata dalla punibilità dell'eventuale complice del figlio nel furto). Fondamento delle cause di giustificazione Le singole scriminanti individuano situazioni particolari di non punibilità che limitano l’applicazione di norme incriminatrici di portata generale (es. l'art. 575 c.p. incrimina chi cagiona la morte di un essere umano ma l’art. 52 c.p. stabilisce la non punibilità degli omicidi realizzati in presenza dei requisiti di legittima difesa).. Sul piano formale, si può fondare larga parte delle cause di giustificazione sul principio di non contraddizione: se una norma autorizza o addirittura impone una certa condotta, non è possibile ammettere che possa contraddittoriamente comportaare responsabilità penale. Sul piano sostanziale, alla base delle principali cause di giustificazione è presente una valutazione dell'ordinamento che risolve ipotesi di conflitto tra interessi contrapposti e, ad esempio: - nella legittima difesa si privilegia l'interesse di chi si difende da un'ingiusta aggressione, con correlativo sacrificio del bene dell'aggressore colpito dalla reazione; - nello stato di necessitò, dovendo comunque verificarsi un danno, si ritiene accettabile il sacrificio del bene di un soggetto, pur incolpevole, di fronte a una condotta realizzata in situazione di grave pericolo: l'ordinamento assume una posizione di neutralità, non punendo chi ha cagionato un'offesa per salvare un bene di pari, o anche maggiore, importanza; - nel consenso dell'avente diritto si dà prevalenza alla preventiva rinuncia alla tutela di un bene disponibile da parte del suo titolare. Le scelte sottese alla previsione delle singole cause di giustificazione e alla modulazione dei requisiti che consentono di invocarne l'applicazione rappresentano la concretizzazione di delicate opzioni di politica criminale, suscettibili di variare nel tempo. Disciplina generale delle cause di giustificazione La disciplina delle cause di giustificazione non è delineata in maniera organica dal codice penale ma è desumibile in parte da principi generali, in parte da disposizioni collocate in settori diversi dal codice. In relazione ai principi generali, le cause di giustificazione devono rispettare il principio di riserva di legge: né la legge regionale né atti dell'Esecutivo possono istituire ex novo una causa di giustificazione o modificare l'assetto delle scriminanti disegnato dal legislatore statale, benché fonti non statali o infralegislative potrebbero influenzare l'ambito di applicazione delle cause di giustificazione a struttura aperta (es. art. 51 c.p.). in linea teorica è ammissibile l'estensione in via analogica dell’applicazione di una causa di giustificazione, tuttavia, in conformità ai principi generali, è assai raro riscontrarne i presupposti perché l'individuazione di una serie di requisiti da parte del legislatore preclude la possibilità di cogliere una lacuna (es. la possibilità di ammettere la c.d. legittima difesa anticipata è impedita dal requisito dell'attualità del pericolo e l'applicazione dello stato di necessità a tutela di beni patrimoniali è preclusa dalla scelta del legislatore che, nell’art. 54 c.p., fa riferimento solo al danno grave alla persona). Un profilo importante in tema di disciplina è costituito dalle disposizioni in tema di errore e, in merito, l'art. 59, comma 4 c.p. stabilisce che, “se l'agente ritiene per errore che esistano circostanze di esclusione della pena, queste sono sempre valutate a favore di lui, tuttavia, se si tratta di errore determinato da colpa, la punibilità non è esclusa quando il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo”: l'errore a cui la norma si riferisce è il c.d. errore di fatto, una 91 non corretta percezione della realtà esterna che genera la convinzione in chi agisce di trovarsi in una situazione che consentirebbe, se corrispondesse alla realtà, di fruire di una causa di giustificazione (es. Tizio ritiene di essere aggredito e reagisce nei confronti del presunto aggressore credendo di trovarsi in una situazione che legittimerebbe la legittima difesa). L’art. 59, comma 4 c.p. non riguarda invece il c.d. errore di to, che può consistere nell’erronea credenza sull'esistenza di una causa di giustificazione (es. Tizio è convinto che esista una norma che legittimi l’eutanasia) o un errore sui limiti normativi di una causa di giustificazione prevista dall'ordinamento (es. stato di necessità rispetto a un bene patrimoniale) e che è invece disciplinato dall'art. 5 c.p. (“nessuno può invocare a propria scusa l'ignoranza della legge penale”): in presenza di scriminanti in bianco (es. art. 51 c.p. sia sotto il profilo sia dell'esercizio di un diritto sia dell'adempimento del dovere derivante da una norma giuridica) l’errore sulla norma che delinea il diritto o il dovere non è errore sulla legge extra-penale, in quanto essa costituisce il nucleo essenziale della causa di giustificazione, ma l’errore si rivela un errore di diritto sui requisiti della scriminante. Quando la supposizione erronea della causa di giustificazione rientra realmente nel quadro dell'art. 59, comma4 c.p., occorre valutare se l'errore è incolpevole o determinato da colpa: nel primo caso il soggetto non è penalmente responsabile (es. soggetto che ferisce inconsapevolmente un altro che ha simulato a tarda notte un'aggressione), mentre nel secondo residua una responsabilità per reato colposo se esso è previsto dall'ordinamento nella forma colposa. La supposizione erronea di una causa di giustificazione, disciplinata dall’art. 59 c.p., dev'essere distinta dall’eccesso nelle cause di giustificazione perché nel primo caso la scriminante non esiste, mentre nel secondo la causa di giustificazione è ravvisabile ma ne vengono travalicati i limiti. Occorre poi distinguere tre forme di eccesso: 1. eccesso doloso -> eccede i limiti della proporzione; ad esempio, durante una discussione al bar, Tizio, disarmato, aggredisce con spintoni Caio, che reagisce estraendo una pistola con la quale spara più colpi in direzione dell’aggressore uccidendolo: in tal modo Caio supera il limite della proporzione e risponde di omicidio doloso; 2. eccesso colposo (art. 55 c.p.) -> ad esempio, Sempronio aggredisce a mani nude Mevio che, per difendersi, minaccia l'aggressore con un’arma dalla quale, però, parte inavvertitamente un colpo che uccide Sempronio: Mevio risponde per omicidio colposo; 3. eccesso incolpevole -> ad esempio, un rappresentante di gioielli è aggredito per strada da un rapinatore che impugna un'arma giocattolo che, nell'oscurità, sembra vera; l’aggredito, titolare del porto d'armi, credendo ragionevolmente di essere in pericolo di vita, reagisce uccidendo il rapinatore: il rappresentante di gioielli ha ecceduto dai limiti della legittima difesa perché la sua reazione è obiettivamente sproporzionata, ma l'eccesso è dovuto a una percezione erronea della realtà che non gli è rimproveratile e, perciò, mancando sia il dolo sia la colpa, non è punibile. caso di soggetti incapaci di intendere e di volere, il consenso può essere prestato dai legali rappresentanti, salvo che si tratti di beni personalissimi, rispetto ai quali l'interesse rimane nella disponibilità esclusiva del titolare (es. in tema di rifiuto delle cure, il genitore o tutore non può prestare il consenso per il soggetto incapace); e secisono piùtitolari del bene, l’art. 50 c.p. opera a condizione che ci sia il consenso di tutti; e non sono richieste particolari formalità per la prestazione del consenso, che può essere espresso o tacito e quest’ultimo, che si manifesta attraverso comportamenti conclidenti, non dev'essere confuso con: v consenso putativo -> si ha quando il consenso non è stato dato ma chi lede il bene ritiene che sia stato prestato e si applica l’art. 59, comma 4 c.p., relativo all’erronea supposizione dell’esistenza di una scriminante; la giurisprudenza richiede l’esistenza di un’obiettiva situazione che possa ragionevolmente indurre in errore il soggetto sull’esistenza della scriminante; v consenso presunto -> si ha quando chi lede il bene sa che il consenso non è stato dato ma presume che lo avrebbe ottenuto qualora lo avesse richiesto al titolare del bene e, poichP la situzione non è regolata dal codice penale, per tutelare gli interesse del titolare del bene offeso, si può ricorrere alla disciplina civilistica della negotiorum gestio, che consente di scriminare le condotte d chi si attiva per salvaguardare l’interesse di un terzo (es. chi forza la serratura del vicino per spegnere un incendio), mentre dev'essere esclusa la rilevanza del consenso presunto in relazione a condotte lesive a vantaggio dello stesso autore del fatto o di terzi. La posizione della giurisprudenza contraria a riconoscere efficacia scriminante al consenso nei reati colposi è falsata dal presupposto di ritenere necessario che al consenso del titolare del bene corrisponda la volontà dell'autore del fatto di lederlo: l'argomento della necessità dell'incontro delle volontà non è corretta, perché il consenso opera per il solo fatto che il titolare lo abbia espresso. Generalmente, quindi, non ci sono preclusioni a estendere l’art. 50 c.p. anche ai reati colposi, a condizione che sussistano tutti i requisiti sopra indicati per l'applicazione di questa scriminante (soprattutto la disponibilità del bene). Un ruolo importante nel sistema penale è costituito dal consenso del paziente agli interventi medici, che costituisce la condizione di liceità dell'intervento medico e non una scriminante, poiché l’attività medico-chirurgica si giustifica per l'importante ruolo sociale rivestito come scriminante tacita o come esercizio di una facoltà legittima: senza il consenso del paziente, il medico non è legittimato a intervenire e, per operare come condizione di liceità deltrattamento medico, il consenso dev'essere informato, cioè al paziente devono essere date tutte le informazioni sul tipo di trattamento e sugli effetti dello stesso, affinché possa essere pienamente esercitata la libertà di autodeterminazione in ordine alle proprie cure. Tale libertà (valorizzata recentemente dalla giurisprudenza e ribadita dalla Convenzione di Oviedo) gode di copertura costituzionale agli artt. 13 e 32 Cost., che sanciscono rispettivamente l’inviolabilità della libertà personale e il divieto di trattamenti sanitari obbligatori se non per disposizione di legge e, in ogni caso, con i limiti imposti dal rispetto della persona umana (e, di conseguenza, dell’autodeterminazione). 95 Inoltre, ai sensi della 1.219/2017, nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata, tranne nei casi espressamente previsti dalla legge, poiché è considerata fondamentale la promozione e la valorizzazione del consenso. Il consenso informato dev'essere acquisito nei modi e con gli strumenti più consoni alle condizioni del paziente, è documentato in forma scritta o videoregistrata o tramite strumenti utilizzabili dalle persone con disabilità e viene poi inserito nella cartella medica del paziente e nel fascicolo sanitario elettronico. La |. 219/2017 prevede anche che la funzione imprescindibile del consenso informato che ha come risvolto il riconoscimento del diritto di rifiutare le cure (precedentemente già affermato dalla Corte di cassazione), anche quando il trattamento salverebbe la vita del paziente: la disciplina della relazione medico-malato è basata Ila libera disponibilità del bene salute da parte del paziente in possesso delle capacità intellettive e volitive, secondo una totale autonomia di scelte che può comportare il sacrificio del bene stesso della vita e che dev'essere sempre rispettato dal sanitario. Permane tuttavia il dovere del medico di alleviare le sofferenze del paziente, anche in caso di rifiuto delle cure o di revoca del consenso al trattamento sanitario. Gli effetti del riconoscimento della libertà di autodeterminazione del paziente hanno due importanti effetti: - il bene vita è diventato parzialmente disponibile, ma esclusivamente nei limiti del legittimo esercizio della libertà di rifiutare le cure e, quindi, non si tratta di legittimare l'eutanasia, ma di trovare un bilanciamento con la libertà individuale di autodeterminazione (che si esplica pure nel diritto di rifiutare le cure); - nei limiti in cui il paziente rifiuta le cure, cessa la posizione di garanzia del medico, la cui condotta omissiva non rileverà più penalmente ai sensi dell'art. 40 cpv. c.p. In ogni caso, è escluso che il paziente possa esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali: a fronte di tali richieste, il medico non ha obblighi professionali. Più complesso è l'inquadramento giuridico della condotta del medico che, per rispettare la volontà del malato di rifiutare le cure, intervenga con una condotta attiva. Ad esempio, nel caso Welby, il paziente, affetto da sclerosi laterale amiotrofica, chiese che fosse distaccato il respiratore che lo teneva in vita, essendo impossibilitato a farlo da sé a causa della malattia che gli aveva paralizzato gli arti, e il medico, anestetizzando il malato, diede attuazione alla sua volontà, staccando poi il respiratore, con il conseguente decesso del paziente; l'avvio del procedimento penale a carico del medico per omicidio del consenziente si è concluso con un decreto di archiviazione: il giudice delle indagini preliminari, riconosciuta la presenza di una condotta attiva riconducibile all’art. 579 c.p., ha applicato la scriminante dell'adempimento del dovere, essendo dovere del medico dare attuazione alla volontà del malato. Il diritto di rifiutare le cure è stato riconosciuto per via giurisprudenziale anche ai soggetti che si trovano nell’impossibilità di esprimere una volontà attuale Ad esempio, nella vicenda giudiziaria di Eluana Englaro, da 17 anni in stato vegetativo permanente: il tribunale di Milano e la Corte di cassazione hanno riconosciuto il dovere dei medici di interrompere l'alimentazione artificiale per dare attuazione alla volontà che la ragazza aveva espresso quando si trovava ancora in stato di capacità di intendere e di volere. A differenza del caso Welby, nel quale il malato era in grado di esprimere una volontà attuale di rifiuto del supporto vitale, la maggiore problematicità della vicenda Englaro consisteva nella: - assenza di una dichiarazione scritta sulla volontà della ragazza di non sottoporsi all’alimentazione artificiale, volontà che i giudici ricostruiscono attraverso prove testimoniale; - questione se l’alimentazione artificiale costituisca un trattamento medico (quindi legittimamente rifiutabile) o un semplice atto di sostegno vitale. In merito, la complessità dei profili giuridici e le contrapposte opzioni etiche hanno trovato un ragionevole punto di equilibrio nella |. 219/2017 che, nel riconoscere il diritto a rifiutare le cure, ha anche espressamente disciplinato le direttive anticipate, cioè la possibilità di esprimere, per iltempo in cui il soggetto diventi incapace di intendere e volere, le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari, nonché il consenso o il rifiuto rispetto ad accertamenti diagnostici, scelte terapeutiche, singoli trattamenti sanitari e le indicazioni su idratazione e alimentazione artificiale. Infine, nel caso Cappato il problema dell’autodeterminazione si riferisce alla decisione di accedere al suicidio assistito e, in particolare: - alla questione della rilevanza penale della condotta di chi aveva accompagnato un malato, affetto da una malattia incurabile, in una clinica in Svizzera dove era stato praticato il suicidio assistito (punibile in Italia ai sensi dell'art. 580 c.p.); - alfatto che il malato era pienamente in grado di intendere e di volere e che la sua volontà non era in alcun modo stata condizionata da chi si era limitato solo ad accompagnarlo; - alla contrapposizione di due interessi, la vita, di cui l’art. 580 cp è espressione, e la libertà di autodeterminazione del singolo in ordine alle scelte di fine vita. in relazione a queste questioni era stata sollevata la questione di legittimità costituzionale per violazione del principio di libertà di autodeterminazione e la Corte costituzionale ha rimesso la questione al Parlamento: - dando un anno di tempo per elaborare una disciplina che consentisse di equiparare la situazione di chi è in grado di rifiutare le cure a quella di chi, pur trovandosi in un quadro clinico analogo, non può accedere a forme di suicidio assistito; - indicando lo spazio di non punibilità dell'aiuto al suicidio, nel caso in cui l’aiuto sia dato a una persona che si trovi in questa situazione: ® presenza di una patologia irreversibile e fonte di sofferenze fisiche e psicologiche intollerabili; e mantenimento in vita per mezzo di trattamenti di sostegno vitale; ® capace di prendere decisioni libere e consapevoli. A fronte dell’inerzia del legislatore, nel settembre del 2019 la Corte costituzionale ha dichiarato non punibile Marco Cappato ai sensi dell'art. 580 c.p. Adempimento di un dovere ed esercizio di un diritto 97
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