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MANUALE DI FILOSOFIA ANTICA & MEDIEVALE ESPOSITO-PORRO, Dispense di Storia della filosofia antica

MANUALE DI FILOSOFIA ANTICA & MEDIEVALE ESPOSITO-PORRO

Tipologia: Dispense

2020/2021

Caricato il 14/11/2022

Giulia96w
Giulia96w 🇮🇹

4.3

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Scarica MANUALE DI FILOSOFIA ANTICA & MEDIEVALE ESPOSITO-PORRO e più Dispense in PDF di Storia della filosofia antica solo su Docsity! lOMoARcPSD|118 880 32 Scaricato da Arianna Di Salle (arydisalle@gmail.com) FILOSOFIA ANTICA E MEDIEVALE (Porro-Esposito) Capitolo 1 - I caratteri della vita filosofica Il termine “filosofia” indica una tensione (-filo: tendo verso qualcosa) verso la sapienza (sophia). Si tratta di un insieme di dottrine volte alla trasformazione del sé. Per raggiungere questo scopo i filosofi antichi hanno sperimentato una serie di tecniche, quali la ricerca di se stessi, l’esame di coscienza, il controllo delle passioni per raggiungere l’imperturbabilità (atarassia), l’indipendenza rispetto ai beni esteriori (autárkeia), la meditazione sulla morte, il sentirsi tutt’uno col cosmo. Per raggiungere la sapienza bisogna innanzitutto saper interrogare se stessi, gli altri e la natura che ci circonda. Coloro che per primi si dedicarono alla filosofia, i cosiddetti fisici ionici, si interrogarono sulla realtà nella sua totalità, ricercandone cause e principi. Sapiente è quindi colui che cerca di comprendere le cose e fonda/giustifica le sue opinioni. Cercare razionalità e coerenza nei principi equivale a distinguere la filosofia dal mito. Quindi la filosofia antica nasce principalmente per trasformare se stessi e dare ragione del mondo e delle proprie opinioni su di esso. Il termine filosofia fu forse per primo utilizzato da Eraclito (6° secolo a.C.). Altre fonti (Diogene Laerzio, 2° secolo d.C.) attestano che il primo ad utilizzare il termine fu Pitagora (6° secolo a.C.) all’interno di una discussione nella quale distingueva il filosofo dal sapiente affermando che il primo “aspirava” alla conoscenza, ma non la possedeva. Anche Erodoto e Tucidide utilizzarono nei propri scritti i termini “filosofo”, “filosofare”. E’ tra il quinto e il quarto secolo a.C., tuttavia, che il termine “filosofia” assume la sua finale connotazione, ovvero quella di condizione di vita tendente alla sapienza. Socrate e poi Platone anteporranno la ricerca della sapienza ad ogni altro interesse. La filosofia appare come un evento “regionale”, esclusivo della Grecia come può esserlo stato l’epigrafia greca o la tragedia. Diverse ragioni hanno fatto sì che la filosofia nascesse proprio in Grecia, in primis il congedo dall’ideologia legata al mito (con i fisici di Mileto). Inizialmente infatti nella cultura greca le parole mito e logos significano entrambe “discorso”. In seguito i fenomeni naturali non furono più ascritti alla manifestazione di una divinità sulla natura ma a leggi intrinseche alla natura stessa. Anche la lOMoARcPSD|118 880 32 Scaricato da Arianna Di Salle (arydisalle@gmail.com) forma della vita associata della poleis greche contribuì alla nascita della filosofia: la mentalità dei nuovi cittadini democratici, liberi di parlare nella pizza pubblica (agorà) favorì la nascita di discipline come la retorica e la dialettica. Capitolo 2 - La filosofia in Asia Minore e nella Magna Grecia Origini della filosofia. La filosofia nasce nel 6° secolo a.C. nelle colonie fondate dai Greci in Ionia (attuale Turchia), Magna Grecia e Sicilia. Queste colonie facevano da intermezzo tra il mondo conosciuto e quello ignoto; al loro interno si sviluppò quindi una maggiore curiosità intellettuale rispetto agli apporti esterni (alimentata anche dagli scambi commerciali). La democratizzazione, il benessere economico e il minor peso dato alle tradizioni mitiche fecero sì che l’approccio per indagare la natura fosse definito “razionale”. I primi pensatori greci di cui abbiamo frammenti sono detti “presocratici”, filosofi che tradizionalmente si occuparono della natura e non del mondo umano. Tuttavia questi filosofi sono a volte contemporanei di Socrate e a volte si sono occupati anche di ambiti umani. La denominazione appare quindi convenzionale. La questione delle fonti. Sui primi filosofi spinosa è la questione delle fonti; si tratta di una tradizione indiretta ricostruita a partire da altri filosofi che hanno parlato della loro vita e dottrine, conservandone quindi dei frammenti. A volte sono riportate le fonti dossografiche, ovvero raccolte di opinioni dei filosofi realizzate da altri filosofi. Tra queste famose quelle di Diogene Laerzio, Aristotele, Giamblico, Simplicio. I fisici ionici. Attivi nella Ionia, a Mileto. Talete. Non scrisse alcuna opera. Secondo Aristotele, Talete come i filosofi cosiddetti “naturali”, si dedicò alla ricerca delle cause e dei principi delle cose. Partendo dall’assunto che “nulla si produce o distrugge” essi cercarono di individuare un elemento materiale di fondo, che trasformandosi avrebbe dato origine a tutto. Secondo Talete questo elemento è l’acqua. Egli notò che il nutrimento di ogni cosa è umido, di fatto l’acqua avrebbe potuto essere il principio fondamentale dell’intera realtà. Simplicio aggiunse poi che il secco corrisponde alla morte (i cadaveri si disseccano). Di Talete è anche la massima “dio è in ogni cosa”: a partire dall’acqua. Anassimandro. Scrisse un’opera intitolata “Sulla Natura” (forse il primo testo filosofico ma messo per iscritto in Occidente). Sua anche lOMoARcPSD|118 880 32 Scaricato da Arianna Di Salle (arydisalle@gmail.com) tentativo di spiegazione delle apparenze. Nella prima parte vengono distinte due vie: quella del giorno e della notte, ulteriore distinzione poi tra ciò che “è” e di ciò che “non è”. Il soggetto non è espresso: potrebbe trattarsi del mondo, della natura, dell’essere stesso. “Essere” a sua volta potrebbe significare “esistere” (senso esistenziale) o connettere un soggetto ad un predicato (senso predicativo). In una ulteriore frase Parmenide enuncia che “pensare ed essere sono la stessa cosa”. Pensare significa quindi pensare l’essere, mentre il non essere non può essere pensato. In greco ogni verbo può essere espresso mediante il verbo essere (io parlo = io sono parlante). Ciò che non è quindi esprimibile con questo verbo non solo non è ma non è neppure pensabile. Da tutto ciò Parmenide fa derivare le caratteristiche fondamentali dell’essere: ingenerato e incorruttibile (altrimenti ci sarebbe stato un momento in cui l’essere non sarebbe stato); omogeneo (altrimenti l’essere si mischierebbe al non essere); immobile (muovendosi non sarebbe più in un luogo); eterno (altrimenti non sarebbe in un dato tempo); uno, indivisibile; finito (se fosse in-finito sarebbe manchevole di qualcosa). Parmenide offre poi una spiegazione per la commistione dei principi contrapposti operata dagli uomini (luce e notte ecc.): la mescolanza non corrisponde a verità ma giustifica le apparenze. Quindi si fa una distinzione tra il mondo dell’esperienza e la realtà vera. Tutti i filosofi successivi, a partire da Aristotele, proveranno ad aggirare il divieto parmenideo di operare commistioni tra essere e non-essere. Zenone. Elaborò tesi in favore di Parmenide. E’ da Aristotele considerato l’inventore della dialettica. Zenone punta a dimostrare la non molteplicità degli enti descrivendo la molteplicità invece come impossibile o contraddittoria. Questa è la dimostrazione per assurdo, basata sul regresso all’infinito (che rimanda sempre a qualcosa di ulteriore senza pervenire ad un termine primo). L’esempio è quello di Achille e la tartaruga: Zenone sostiene che chi è più lento non raggiungerà mai chi è più veloce, perché il più lento nel frattempo avrà percorso un ulteriore tratto fino all’infinito. L’argomentazione poggia sul postulato dell’infinita divisibilità del continuo: data una precisa linea, essa potrà essere sempre divisibile senza mai pervenire ad un elemento unico. Per quanto riguarda le realtà geometriche Zenone utilizza l’argomento della dicotomia, con il quale di fatto nega il movimento. Infatti se ogni grandezza fisica è divisibile all’infinito allora non è possibile percorrere l’infinito in un tempo finito; dunque il movimento è impossibile. Ancora, celebre argomento è quello della freccia: una cosa non può dirsi in lOMoARcPSD|118 880 32 Scaricato da Arianna Di Salle (arydisalle@gmail.com) movimento quando occupa uno spazio uguale a sé, dunque una freccia in volo è di fatto ferma. Per la prima volta viene supposto che il tempo sia composto di molti istanti (come il punto non è una realtà fisica ma solo il limite della linea). Zenone argomenta poi contro l’esistenza dello spazio: ciò che si muove non si muove né nel luogo in cui è e né nel luogo in cui non è. L’esperienza quotidiana appare quindi come contraddittoria ed impossibile. La realtà non può quindi che rimandare ad un livello unico, immobile ed eterno. Melisso. Di Samo, fu anch’egli difensore di Parmenide. Egli identificò l’essere parmenideo con la natura, alla quale Melisso fa corrispondere tutte le caratteristiche dell’essere, più l’essere infinito nel tempo e nello spazio. Ciò che è illimitato infatti non ammette nulla al di fuori di sé, altrimenti sarebbe limitato. I cosiddetti pluralisti (che ammettono una pluralità di principi primi) cercarono in qualche modo di non violare l’assunto parmenideo, ovvero il passaggio dal non-essere all’essere. Tuttavia intesero “salvare i fenomeni”, quindi giustificare le apparenze: la molteplicità e il divenire del reale attuale sono l’effetto degli elementi primi. Empedocle ed Anassagora utilizzarono elementi primi qualitativamente diversi, mentre gli atomisti scelsero elementi qualitativamente diversi solo dal punto di vista geometrico. Empedocle. Nato ad Agrigento. Egli ammetteva sia il movimento che la molteplicità. Secondo lui tutti i fenomeni dipendevano da quattro radici fondamentali: acqua, aria, terra e fuoco, ovvero gli elementi. Questo rappresenta una prima classificazione del reale; secondo Empedocle tutta la realtà è composta da un miscuglio dei 4 elementi in proporzioni diverse. Questo miscuglio dipende dall’azione di due principi: concordia o discordia. La contesa non è poi solo un principio di corruzione ma anche di generazione: senza d’essa si avrebbe qualcosa di simile all’essere parmenideo. Empedocle afferma poi che dalle cose emanino degli effluvi, che penetrano in noi attraverso i pori e danno così origine al processo conoscitivo. Come Pitagora, poi, Empedocle ammette la trasmigrazione delle anime, ovvero del daimon (carattere, personalità; a differenza dell’anima che è solo il soffio di vita). Con questo va la scelta di essere vegetariani. Anassagora. Fu accusato d’empietà perché sostenne che il Sole era una pietra incandescente e la Luna un corpo terroso, svilendo quindi le rispettive nature divine. Questo fu forse il primo conflitto tra filosofia e credenze mitico- religiose. A differenza di Empedocle, lOMoARcPSD|118 880 32 Scaricato da Arianna Di Salle (arydisalle@gmail.com) Anassagora ammette infiniti semi (omeomerie) e non solo 4. Tutte le qualità appaiono quindi come egualmente creatrici del reale. Per Anassagora vale in principio del tutto in tutto: scomponendo qualunque cosa (anche i 4 elementi di Empedocle) vi si ritroverebbero i semi di tutte le altre cose. Questo servì a non violare il precetto parmenideo dell’impossibilità di passare dall’essere al non essere: i processi di trasformazione dipendono dal passaggio da elementi prima minoritari a dominanti in un determinato oggetto. Quindi la condizione originaria del cosmo è il caos: tutti i semi si ritrovano mescolati. La cosiddetta differenziazione dipende dal nus, un intelletto che imprime un movimento. Questo dovrebbe essere separato dai semi, altrimenti subirebbe il processo di differenziazione. Il nus tuttavia non viene identificato col divino. Atomisti. Leucippo nacque a Mileto e fu maestro di Democrito. I suoi scritti si sovrappongono con quelli dell’allievo. Democrito nacque ad Abdera. Secondo lui le cose non sono divisibili all’infinito ma alla base della realtà vi sono elementi primi non ulteriormente scomponibili: gli atomi, ingenerati, indistruttibili e inframmezzati dal vuoto. Essi sono tutti uguali e differiscono solo per forma (come la A è distinta dalla N), ordine (come la N e la Z) e posizione (come AN è diverso da NA). Gli atomi non sono percepiti dai sensi; le sensazioni dipendono dagli effluvi. Dei precetti di Parmenide viene quindi sacrificata la molteplicità, e rispetto ad Anassagora la soluzione atomista permette perlomeno di ridurre le differenze qualitative (che ora appaiono come essenzialmente geometriche) tra i principi stessi. Per Democrito inoltre, non vi è bisogno di un nus perché il movimento è una caratteristica intrinseca agli atomi stessi, che si muovono in ogni direzione cercando i corrispettivi compatibili. Il vuoto è una caratteristica fondamentale della teoria atomista: in questo spazio gli atomi hanno la possibilità di muoversi. A Democrito vengono attribuiti anche frammenti di carattere etico: il concetto di eutimia o “tranquillità d’animo”, lo stato in cui l’animo non è turbato dalla superstizione divina o dalle passioni. Democrito ascrive i progressi dell’umanità al sapere tecnico dell’uomo, che si muove in un ambiente spesso ostile e non “predisposto” per lui come dono divino. La vera bontà non è data poi dal non commettere azioni ingiuste ma dalla volontà stessa di non commetterne. Capitolo 3 - I sofisti e Socrate lOMoARcPSD|118 880 32 Scaricato da Arianna Di Salle (arydisalle@gmail.com) regime dei forti. Trasimaco invece definì la legge come asservita agli interessi del più forte. Quindi ciò che è giusto secondo la legge non lo deve essere sempre anche in senso assoluto. Antifonte di Atene fu invece il primo a parlare di uguaglianza. Da queste diverse tesi traspare quanto il nomos non protegga dai conflitti sociali, perché in sostanza tutela i diritti collettivi a scapito di quelli individuali. La critica sofista ai valori tradizionali si estende anche al campo della religione, con Crizia (uno dei Trenta Tiranni in auge dopo il 404 a.C.) il quale affermò che “gli dei furono inventati dagli uomini come strumenti di potere”, per controllare le azioni umane (tramite la minaccia di un castigo) dove la legge non sarebbe potuta arrivare. Socrate. Visse quasi sempre ad Atene. Nel 399 a.C. alcuni democratici lo accusarono di non aver riconosciuto gli dei della città e di aver corrotto i giovani (accuse solitamente rivolte ai sofisti). Socrate rifiutò l’esilio, partecipò da solo al processo e fu condannato a morte tramite la somministrazione della cicuta. Fu il primo filosofo ad essere percepito come “fuori posto” e di fatto a morire per le sue idee. Socrate, di suo, non scrisse nulla. Tra le fonti che trattano del pensiero di Socrate vi sono le “Nuvole”, commedia di Aristofane (in cui Socrate appare come un sofista e un naturalista); i “Dialoghi” di Platone (in cui invece Socrate si contrappone ai sofisti). Gli scritti cosiddetti “socratici” servono a sottolineare l’infondatezza delle accuse rivolte a Socrate o presentandolo come difensore delle tradizioni (Senofonte, che lo presentò come conservatore il cui intento è l’autarchia o autosufficienza del saggio) o come pensatore originale (Platone, con l’Apologia e il Simposio). Nell’Apologia Socrate ricorda che l’oracolo di Delfi aveva affermato che non esistesse uomo più sapiente di Socrate stesso. Per verificare ciò, egli si recò dagli uomini che si autodefinivano “sapienti” (compresi coloro che ostentavano sapienza tecnica), ma constatò ch’essi non sapevano nulla, di fatto. Realizzò quindi di essere stato definito “il più sapiente” proprio perché egli sapeva di non sapere: da qui la definizione del filosofo, il quale nasce dall’ignoranza e tende alla sapienza. Compito del filosofo è quindi quello di rendere coscienti gli uomini della loro ignoranza. Per fare ciò Socrate utilizza una strategia dialettica particolare: interroga gli uomini sull’essenza, il “cos’è” (il giusto, il bello ecc.) ed infine smaschera la sapienza altrui. Questa è la cosiddetta ironia socratica: fingere di apprendere qualcosa dall’interlocutore per mostrargli che invece non sa nulla di ciò che professa. lOMoARcPSD|118 880 32 Scaricato da Arianna Di Salle (arydisalle@gmail.com) Secondo precetto fondamentale del pensiero socratico è l’arte maieutica, simile a quella della levatrice: il filosofo deve esortare ognuno a “partorire” da sé la verità, a partire dal riconoscimento della propria ignoranza. Gli interlocutori di Socrate devono “rendere conto” del proprio modo di vivere, ed aspettarsi che Socrate lo mette in discussione con fare “scomodo” e sconcertante. Terzo cardine socratico: la vera radice del male è l’ignoranza, poiché il male si compie solo se non si conosce il bene. Nel corso della ricerca del bene sta il concetto di intellettualismo: bisogna sottomettersi alle leggi della città e obbedire a chi è migliore di noi. Il bene possiede una dimensione collettiva; è anche per questo che Socrate scelse di morire, ovvero per sottostare alle leggi della sua città. Morendo, inoltre, Socrate si auspicò di contribuire al miglioramento di quest’ultima. Le scuole socratiche minori fiorirono dopo la morte di Socrate. Esse non si possono definire vere e proprie “scuole”, poiché non professavano un insegnamento definito. Furono solamente le più vicine al modo in cui Socrate aveva inteso la pratica filosofica. Euclide di Megara offrì rifugio ai discepoli di Socrate (tra i quali Paltone) dopo la morte di quest’ultimo. Euclide riprese da Socrate i temi come l’apatia (controllo delle passioni) e l’autosufficienza. Pose particolare attenzione alla dialettica e alle tecniche di argomentazione. Tra gli allievi della scuola megarica anche Diodoro Crono, che come Zenone negò il movimento e al quale viene attribuita l’argomentazione del dominatore: è possibile solo ciò che è o ciò che sarà. Antistene invece asserì che alle domande sul “che cosa” socratico fosse opportuno rispondere col solo nome, che esprime tutto di un determinato oggetto: non ha senso appellarsi a qualcosa fuori d’esso (come saranno poi le idee di Platone). Di Antistene è anche l’idea che solo la virtù corrisponda alla felicità: egli arrivò ad operare un rigorismo tale da condurlo a scegliere una povertà radicale e a disprezzare il vivere civile. Tra i cinici (termine forse derivante da “cane”, in quanto il modo di vita proposto è simile a quello del cane, che non ha vincoli sociali), oltre ad Antistene è da ricordare Diogene di Sinope, che arrivò a rifiutare alcune regole elementari della convivenza civile, vivendo in una botte, sostenendo il furto, l’abolizione del matrimonio e il consumo di carne cruda (anche umana). Aristippo di Cirene, iniziatore della scuola cirenaica, ruppe col rigorismo etico e attribuì grande importanza alla componente edonistica . Fece questo ragionamento: se il bene è ciò che attrae, tutto ciò che attrae (tra cui il piacere) è bene. I lOMoARcPSD|118 880 32 Scaricato da Arianna Di Salle (arydisalle@gmail.com) cirenaici inoltre sostennero una sorta di sensismo: non possiamo conoscere le cose per come sono ma per come si presentano ai nostri sensi. Capitolo 4 - Platone Platone Il cui vero nome fu Aristocle, (l’aggettivo platys/ampio derivò in seguito dallo stile prolisso o dalla larghezza della fronte) nacque ad Atene nel 428 a.C. Fu allievo di Socrate e parente di alcuni dei Trenta Tiranni. Dopo la morte di Crizia quest’ultimo regime crollò in favore della democrazia. In seguito alla condanna di Socrate Platone fuggì da Atene. Centrale divenne quindi nei suoi scritti il rapporto tra filosofia e politica: nella Repubblica Platone asserì che per un “buono stato” sarebbe stato necessario che i filosofi arrivassero in politica o che i politici si dedicassero alla filosofia. Cercando di perseguire questa seconda via, Platone si recò per tre volte a Siracusa, cercando di “convertire” alla filosofia i vari tiranni (Dionisio I/Dionisio II); infine Dione, discepolo di Platone, organizzò un colpo di stato per porre fine alla tirannia siracusana. L’Accademia fondata da Platone si presenta quindi come luogo di conoscenza anche politica. I suoi membri si occupavano anche di matematica e astronomia. Gli ultimi anni della sua vita Platone li trascorse ad Atene, lavorando ai suoi Dialoghi. Questi si dividono in tre periodi: giovanile (confutatorio di altre dottrine), maturo (teorie proprie di Platone) e tardo (Platone rivaluta le sue stesse teorie). Nei suoi scritti Platone appare spesso assente volontariamente, forse poiché non interessato alla fama d’autore (credeva infatti nell’atopia socratica, ovvero nella figura del filosofo come “personaggio scomodo”). La scrittura. Platone si trovò a vivere nell’epoca della transizione tra cultura orale a cultura scritta: manifestò quindi un’aperta sfiducia nella possibilità di mettere la filosofia per iscritto. Anche Socrate, a suo tempo, aveva deciso deliberatamente di non scrivere nulla, concependo la filosofia come una pratica di vita che va sperimentata piuttosto che tramandata. Non si tratta di “consegnare dottrine già confezionate” ma di spingere gli altri a fare un esame da sé, attraverso la forma viva del dialogo. Platone condivide questa interpretazione ma lo fa appunto scrivendo. Importante al riguardo è il dialogo del Fedro tra il dio-uccello Theut e il re Thamous, storia ambientata lOMoARcPSD|118 880 32 Scaricato da Arianna Di Salle (arydisalle@gmail.com) concupiscibile-vari desideri) e infine tirannide (principio concupiscibile- desiderio sessuale). Platone precisa che in presenza di reggi il modello più auspicabile è la tirannide, mentre il loro assenza è rappresentato dalla democrazia. Nelle Leggi Platone poi ricorda l’importanza di produrre una legislazione che limiti le passioni e gli egoismi dei cittadini. La teoria delle idee. Platone riflette sulla tesi di Protagora riguardante l’uomo come misura di tutte le cose e quella di Eraclito relativa all’incessante divenire di ogni cosa. Conclude Platone che le due posizioni creano un relativismo che rende impossibile ogni tipo di conoscenza stabile. Per Platone la conoscenza deve invece possedere delle entità di riferimento, così come le proprietà di un triangolo in matematica si possono applicare ad ogni triangolo esistente. Se per esempio diciamo “belle” delle cose molto diverse tra loro (una persona, un cane, un oggetto) dobbiamo per necessità riferirci alla forma/idea del bello in sé, poiché i soggetti citati nulla hanno in comune. Questa forma non può che appartenere ad un mondo precluso alla visione sensibile (se facesse parte del mondo sensibile sarebbe mutevole e molteplice), accessibile alla sola visione intellettuale. Il mondo ideale è collocato da Platone nel cosiddetto iperuranio. Un’idea secondo Platone è quindi il fondamento intelligibile e stabile di ciò che facciamo esperienza nel mondo sensibile. Nel Simposio vengono illustrate le caratteristiche delle forme ideali: un’idea è eterna, ingenerata, incorruttibile, omogenea, immutabile nel tempo, non relativa, indivisibile, autosufficiente ed impassibile. Le cose sensibili possiedono solo una parte dell’idea originale. Il rapporto tra le cose sensibili e le forme è espresso da Platone con una serie di connotati. Il primo è quello della partecipazione: le cose “prendono parte” all’idea senza che quest’ultima si “divida” in esse, come succede per la luce del giorno che si irradia sugli oggetti senza affievolirsi. Il secondo è quello dell’imitazione: le cose “imitano” le idee possedendone la forma imperfetta, come delle copie. Il terzo è la comunanza: le cose sensibili sono accomunate dal riferimento alla forma ideale (“il discorso è bello”, “il ragazzo è bello” fanno entrambe riferimento al bello in sé). Infine, vi è la causalità: le idee sono cause delle cose, ovvero le producono. Platone parla poi del rapporto delle idee fra loro: l’idea di uomo, per esempio, è valida per sé, ma per comprenderla bisogna aggiungervi una serie di predicati, ovvero di altre idee (animale, razionale, bipede). All’unità lOMoARcPSD|118 880 32 Scaricato da Arianna Di Salle (arydisalle@gmail.com) (limite) originaria dell’idea viene quindi aggiunta una molteplicità (illimite). E’ ovviamente necessario che le idee associate siano compatibili tra loro (l’idea di uomo è compatibile con quella di correre: di fatto la frase “Platone corre” è plausibile; “Platone vola” non lo è appunto perché uomo e volare non sono in realtà compatibili). Platone individua quindi dei generi sommi, ovvero idee massimamente generali di cui tutte le altre partecipano: essere (ogni idea è), identico (ogni idea è identica a sé), diverso (è diversa dalle altre; viene aggirata la contrapposizione essere-non essere di Parmenide semplicemente con l’idea del diverso: “Platone non è un musico” significa che è diverso da un musico, non che è il nulla), movimento e quiete. Sul come sia possibile conoscere le idee Platone opera una lunga digressione. Innanzitutto illustra le diverse tipologie di conoscenza a suo parere: rappresentazione sensibile di oggetti reali; conoscenza diretta di oggetti reali (credenza); pensiero discorsivo (relativo alla matematica) e intellezione relativa alle idee. La matematica per Platone è un intermedio tra le cose sensibili e le idee, ma va comunque collocata al di sotto dell’arte della dialettica, poiché quest’ultima è capace di risalire alle ipotesi sulle quali si fonda la matematica. La matematica inoltre si fonda comunque su riferimenti a cose sensibili (geometria). E’ quindi la figura del dialettico (non più inteso come colui che opera l’arte della discussione) quella dell’uomo capace di conoscere il vero essere. Il dialettico confuta le ipotesi rimandandole ad un principio superiore. Il dialettico deve infine rimettere le proprie conoscenze ad un pubblico politico. Le dottrine non scritte. Tra le teorie di Platone sembra ve ne siano alcune non rinvenute fisicamente, quindi si ipotizza che egli le abbia tenute come dottrine da tramandare oralmente o che non fossero terminate in quanto ancora oggetto di discussione all’interno dell’Accademia. Di queste fa parte l’idea che il bene in sé goda di uno statuto particolare e sia la causa che rende visibili tutte le altre idee. Esso, nonostante sia un’idea, è superiore a tutte le altre e in qualche modo non intelligibile. Il buono in sé è chiamato da Platone l’Uno ed è il principio primo di ogni cosa intelligibile. Ad esso Platone affianca il concetto di diade ovvero di dualità, probabilmente ipotizzando una doppia nascita, del male assieme all’Uno. Il mito della caverna. Per Platone i miti servono a rendere più facilmente comprensibili le sue teorie. Il mito della caverna illustra le differenza tra mondo sensibile ed intelligibile e allude al dovere dei filosofi di guidare la lOMoARcPSD|118 880 32 Scaricato da Arianna Di Salle (arydisalle@gmail.com) comunità. La condizione degli uomini è paragonata a quella di alcuni prigionieri incatenati nel fondo di una caverna, costretti ad osservare solo le ombre di alcune statue proiettate sul muro e convinti che queste rappresentino la realtà. Questi anche una volta liberati faticherebbero a comprendere che il mondo reale è altra cosa, e se qualcuno lo raccontasse loro, verrebbe preso per folle. Questo è per Platone il destino del filosofo, che appare come un reietto della società ma che comunque non rinuncia a cercare di “liberare” gli altri. La reminiscenza e il mito di Er. Secondo Platone le nozioni di cui ognuno di noi fa uso derivano dalla conoscenza pregressa di una ipotetica vita precedente. Perché l’anima possa ricordare qualcosa della vita precedente è necessario che essa sopravviva al corpo e sia quindi immortale e incorruttibile. L’immortalità dell’anima assume anche una valenza etica in quanto l’anima di chi patisce ingiustizia nella vita attuale dovrà essere ricompensata. Il ciclo di reincarnazioni, secondo Platone, dura 12000 anni ma appare più breve per le anime che scelgono una vita di tipo filosofico nella successiva reincarnazione. Il mito di Er racconta di un soldato caduto in battaglia il quale, tornato dall’oltretomba, spiegò come fosse possibile per ogni anima scegliere la vita successiva. Platone spiega la malvagità delle persone come una scelta operata dalle anime guidate da quel tipo di ignoranza (come contrapposta al bene) già condannata da Socrate. L’anima ha quindi una specie di accesso naturale al mondo delle idee. La cosmologia del Timeo. In questa opera Platone espone le sue teorie sull’origine del mondo, tramite un protagonista pitagorico. Il discorso è presentato come verosimile e non come esatto poiché verte sul mondo sensibile, che è mutevole. Il mondo appare come risultato di due cause: una intelligente (le idee) e l’altra necessaria. La generazione del mondo non è quindi una creazione del nulla ma un processo di ordinamento della materia da parte di un principio razionale. Platone inserisce poi il Demiurgo, una figura semi-mitica che fa da mediatore tra il modello ideale e la realtà. Secondo Platone, infine, tutta la realtà sensibile può essere tradotta in termini matematici e ridotta ad alcune forme geometriche di base. Capitolo 5 - Aristotele Aristotele lOMoARcPSD|118 880 32 Scaricato da Arianna Di Salle (arydisalle@gmail.com) del soggetto di cui va a trattare e dimostrare alcune proprietà che appartengono a questo. L’esistenza del soggetto va presupposta e dimostrata all’interno di un’altra scienza. Il sillogismo dialettico. Aristotele se ne occupa nei “Topici”. I sillogismi dialettici non sono universali ma solo plausibili, in quanto rappresentano opinioni condivise dai sapienti. La dialettica ha la funzione di esercizio per sostenere un discorso, quindi più un metodo che una scienza. Analizzando le opinioni condivise dai più si può giungere ai sillogismi scientifici. Tuttavia nelle sue opere Aristotele sembra preferire il sillogismo dialettico applicato alle opinioni dei suoi predecessori piuttosto che il sillogismo scientifico; questo perché egli lo considerava più un modo per esporre. Aristotele rimane un empirista: è l’esperienza a condurre ai principi universali. Il “nus”. Per pervenire alla conoscenza dei principi Aristotele ipotizza l’esistenza del “nus”, ovvero di un principio, un’intellezione, che osserva i casi particolari e progressivamente li “spoglia” di ciò che viene percepito dai sensi. Per Aristotele quindi la conoscenza si fonda sulla percezione dei sensi, che genera ricordo e poi esperienza: l’esperienza di oggetti della stessa specie “spogliata” dei tratti individuali e materiali genera gli universali. Non si può tuttavia fissare in astratto il numero di casi particolari da osservare per pervenire all’universale. La fisica. Nel 6° libro della Metafisica Aristotele suddivide le scienze tra: teoretiche/speculative (la conoscenza è perseguita per sé stessa – fisica, matematica, filosofia, teologia); pratiche (la scienza è finalizzata all’azione – etica, politica) e poietiche (finalizzata alla produzione di qualcosa – medicina, scultura). La logica invece ha un valore strumentale e serve a tutte le scienze. La fisica si occupa dell’ente in mutamento e movimento. I principi che spiegano questi ultimi sono il sostrato (materia iniziale), la privazione (acquisita durante il processo) e la forma (non prima presente e che viene acquisita). Per esempio: un blocco di marmo (sostrato) diventa con la privazione una statua (forma). Si passa dalla potenza all’atto: aggirando Parmenide e la negazione del divenire, non dal nulla ad una determinata cosa (un pezzo di marmo è comunque qualcosa in sé, anche se non è quella determinata cosa – la statua) ma dal non-essere quella statua ad esserlo. Il divenire è quindi il passaggio tra stati diversi dell’essere. Tutto ciò che è in potenza ad essere altro è già qualcosa in atto sotto un’altra lOMoARcPSD|118 880 32 Scaricato da Arianna Di Salle (arydisalle@gmail.com) forma. Ogni potenza è poi potenza rispetto ad una determinata forma (un blocco di marmo può diventare una statua o delle piastrelle ma non un aquilone). Ovviamente il passaggio dalla potenza all’atto dipende da delle cause esterne: un agente (causa motrice) e un fine. La dottrina delle quattro cause (materia, forma, agente e fine) è composta quindi da due cause intrinseche (materia, forma) e due estrinseche (agente e fine). Spesso negli enti di natura in fine coincide con la forma. Aristotele distingue poi i diversi tipi di mutamento: secondo la sostanza (generazione/corruzione); la quantità (accrescimento/riduzione); qualità (alterazione – cambia la forma accidentale e non la sostanza); il luogo (in esso sono implicati tutti gli altri). Aristotele poi dà la sua nozione di luogo. Esso esiste (lo prova il movimento) e non è immateriale (ha un’altezza, un volume ecc.) ma non può essere neppure un corpo. Ad esso si connette l’antiperistasi (scambio di posto di due oggetti: versare l’acqua in un vaso significa che occuperà il posto che prima occupava l’aria). Il luogo è indipendente rispetto ai corpi che contiene e si comporta come un contenitore. Il luogo è quindi il primo limite immobile del contenente; “limite” inteso come qualcosa che non può sussistere indipendentemente (il punto senza la linea). Il vaso potrà poi essere spostato ma il luogo dell’acqua che può essere contenuta non si sposterà affatto. Tutto si trova in un luogo tranne l’Universo stesso, che non è contenuto in alcun recipiente. Per Aristotele il vuoto non esiste né nell’Universo né al suo esterno. Aristotele nega anche l’esistenza dell’infinito in atto, ovvero di un qualcosa che sia infinito. L’infinito infatti è per lui un processo, qualcosa in potenza, che può essere di accrescimento (come per i numeri) o di riduzione (come una linea divisa all’infinito, ma anche il movimento e il tempo). Quest’ultimo è qualcosa di più complesso poiché dipende dall’anima che lo misura. Se non ci fosse la nostra anima a misurarlo, il tempo esisterebbe solo in potenza e coinciderebbe col movimento stesso. E’ il movimento del cielo (ultima sfera del cosmo aristotelico, che si muove di moto circolare veloce, uniforme) a servire poi da misura per tutti gli altri movimenti. Il cosmo aristotelico. Aristotele separa il mondo sublunare (la Terra) dalla regione celeste. Le cose del mondo sublunare sono per Aristotele composte da quattro elementi (fuoco, aria, terra, fuoco), che non sono realmente lOMoARcPSD|118 880 32 Scaricato da Arianna Di Salle (arydisalle@gmail.com) “primi”, ma presuppongono un sostrato comune, la materia prima. Essa, unendosi a qualcosa o differenziandosi, dà origine ai 4 elementi. Questa funzione è per Aristotele svolta dalla qualità fondamentali: caldo, freddo, secco ed umido, che si combinano in coppie diverse. Ovvero: materia prima + caldo – secco = fuoco; materia + caldo – umido = aria; materia + freddo – umido = acqua; materia + freddo – secco = terra. Il sostrato primo non esiste se non in una di queste combinazioni. Secondo Aristotele, ogni elemento tende a muoversi di moto rettilineo, a causa del proprio peso, verso il proprio luogo naturale: acqua e terra verso il basso, aria e fuoco verso l’alto. A causa di questo gli elementi si dispongono in sfere concentriche (terra, acqua, aria, fuoco) non separate rigidamente tra loro. Nel mondo sublunare i corpi celesti sono composti da un ulteriore elemento, detto etere, che ammette solo il movimento come “divenire”. I corpi celesti sono quindi ingenerati, immutabili, incorruttibili. I corpi celesti poi non tendono verso un luogo naturale ma il loro movimento è di tipo circolare. Gli astri si muoveranno insieme alla sfera in cui sono infissi verso il proprio unico centro, ovvero la Terra. Per ovviare al fatto che i pianeti in realtà si muovono attorno al Sole e di moto non uniforme ed ellittico, Aristotele utilizzò il modello di Eudosso, che spiega come i movimenti a noi visibili siano in realtà quelli di più sfere sovrapposte. Esisteranno quindi tante sfere quanti sono i movimenti inspiegabili dei singoli corpi celesti. L’Universo di Aristotele è poi eterno, unico ed imprincipato. Aristotele nota che l’alternarsi delle stagioni e i cicli della vegetazione sono influenzati dai movimenti dei corpi celesti (in particolar modo, del Sole), quindi afferma come lo sia anche tutto il resto della nostra realtà. L’anima. Per Aristotele l’anima è l’ ”atto di un corpo naturale che ha la vita in potenza”, quindi si distacca dal platonismo asserendo che l’anima è inconcepibile come distinta dal corpo e non sopravvive alla sua morte. Per Aristotele l’anima possiede tre distinte facoltà: quella vegetativa (che presiede alle funzioni del nutrimento e della riproduzione), quella sensitiva (che genera le sensazioni tramite i 5 sensi + 1 senso che unifica tutti gli altri; essa possiede anche la funzione appetitiva, che collegandosi alla locomozione permette al vivente di muoversi verso ciò che brama e allontanarsi da ciò che teme, e la funzione immaginativa, ovvero la capacità di rappresentarsi in mente oggetti reali) e quella intellettiva. Vi è una scala lOMoARcPSD|118 880 32 Scaricato da Arianna Di Salle (arydisalle@gmail.com) l’opzione più in grado di procurare felicità: le nuove scuole filosofiche proponevano dei veri e propri nuovi modelli di vita finalizzati al controllo delle passioni e al raggiungimento della serenità. Epicuro. Nacque a Samo nel 341 a.C. Fondò nel suo giardino la scuola chiamata Giardino, dove si praticava la filosofia in comune. Morì nel 271 a.C. Delle opere di Epicuro sono rimaste tre lettere, una raccolta di massime e dei frammenti. Fonte importante è il De rerum natura di Lucrezio. Per Epicuro la filosofia si divide in: canonica, fisica ed etica. La canonica è un’introduzione alla fisica; una teoria della conoscenza. Quest’ultima si fonda sulla sensazione, ovvero la riproduzione di un simulacro degli oggetti esterni (che si imprimono negli organi di senso tramite degli effluvi). Nella fase di riproduzione mentale ovviamente possono essere commessi degli errori di giudizio. Bisogna quindi operare una analisi critica sugli oggetti visionati. Memorizzando sensazioni ed immagini si arriva alla creazione di anticipazioni, ovvero l’individuazione di oggetti già percepiti, senza che bisogni farne nuovamente esperienza. Per Epicuro vi sono poi componenti della realtà (come i fenomeni celesti) che ci sono inaccessibili ai sensi ma possono essere ricavate per induzione. Epicuro quindi postula: l’esistenza del vuoto a partire da quella del movimento (che non sarebbe possibile se “tutto fosse pieno”); l’esistenza degli atomi (che sono ancora scomponibili in minima) in cui tutto si forma e si risolve, dato che il nulla non esiste. L’unica direzione degli atomi è verso il basso, tuttavia nella caduta essi subiscono una deviazione che gli permette di incontrarsi fra loro e creare i corpi (Lucrezio chiamerà ciò klinamen). L’anima per Epicuro è propria solo dei corpi, che hanno la possibilità di agire e patire – quindi è mortale ed è un composto di atomi. Con questa tesi Epicuro libera l’uomo dalla paura della morte, poiché non ne potremmo avere esperienza, non avendo più nulla di sensibile a percepirla. Sugli dei Epicuro asserisce una loro completa incuranza nei confronti degli uomini; essi quindi non intervengono con premi o punizioni nelle vite umane. L’etica epicurea si basa sulla liberazione dalle false credenze e dalla paura della morte, nel conseguimento del piacere e nel dolore fisico come tollerabile, ed anche se intollerabile tale da scomparire con la morte. Importante è raggiungere lo stato di atarassia (imperturbabilità dell’anima) ed aponia (assenza del dolore). L’unico scopo è il raggiungimento del piacere, non fisico ma o cinetico (dinamico, soddisfazione di beni elementari) o catastematico (statico, atarassia). I lOMoARcPSD|118 880 32 Scaricato da Arianna Di Salle (arydisalle@gmail.com) desideri sono poi classificati in: necessari (mangiare, bere); naturali (soddisfatti occasionalmente: amore); vuoti (mai soddisfatti pienamente: ricchezza, fama). Tramite la saggezza, secondo Epicuro, bisognerebbe perseguire solo quelli necessari. Per Epicuro la giustizia non è infine altro che un accordo convenzionale atto a garantire la sicurezza dei contraenti; non condanna quindi l’impegno politico a patto che non sia alla vana ricerca del potere. Gli stoici. Lo stoicismo si sviluppò dal 3° secolo a.C. al 2° d.C. e si distingue in antico, di mezzo e romano. Il nome della scuola deriva dal portico dipinto nel quale Zenone di Cizio teneva le sue lezioni. Crisippo, secondo fondatore della scuola, teorizzò che la filosofia fosse composta da: logica (in un copro umano, i nervi), fisica (l’anima), ed etica (la carne). Poi vengono prese in analisi la retorica (scienza del ben parlare) e la dialettica (scienza del discutere correttamente). Nella dialettica centrale punto è il significato, che è incorporeo e sussiste assieme alle parole proferite (corpo dei significanti) e ai corpi esterni (gli oggetti ai quali si riferiscono significanti/significato). Un significato può essere incompleto o completo; è quest’ultimo che produce i vari tipi di proposizioni: esortazioni, preghiere, domande, asserzioni. Le asserzioni sono le uniche di cui si può dire se siano vere o false e possono essere semplici (un predicato: definite – il soggetto è espresso, indefinite – non lo è, medie – lo è attraverso un nome proprio) o composte (più proposizioni). Le asserzioni composte servono nella argomentazioni dimostrative. Gli stoici elaborano 5 tipi di sillogismi fondamentali (anapodittici/indimostrabili) che sono intrinsecamente evidenti e quindi non richiedono dimostrazioni. Per Zenone le fasi del processo conoscitivo sono: la rappresentazione si imprime nell’anima, è oggetto di assenso e di comprensione. La conoscenza non produce il “vero”, ma ha un carattere intermedio tra ignoranza e scienza. La fisica. Secondo gli stoici la totalità dell’essere si spiega tramite un principio attivo (dio, il logos, la ragione) ed uno passivo (la materia). I corpi esterni di cui si fa esperienza sono composti dai quattro elementi. Sulla creazione del cosmo gli stoici partono da un fuoco primordiale, il quale tramite condensazione e rarefazione diede origine agli altri elementi. L’equilibrio dell’Universo (circondato da un vuoto infinito) termina poi con un incendio cosmico finale che riporta il tutto allo stato di partenza. Secondo gli stoici è un’intelligenza divina a disporre in modo ordinato gli avvenimenti di ogni ciclo. La presenza del male nonostante il disegno divino si spiega invece con l’impossibilità che lOMoARcPSD|118 880 32 Scaricato da Arianna Di Salle (arydisalle@gmail.com) le cose esistano senza i propri contrari. La libertà dell’uomo invece è limitata: ognuno si muove a suo modo ma sempre verso una direzione prestabilita. L’anima è distinta in 8 parti: i 5 sensi, la facoltà della generazione, quella del linguaggio e la parte dirigente. Questa è a sua volta composta da rappresentazione, impulso, assenso e ragione. L’impulso spinge gli uomini/animali a prendersi cura di sé stessi; negli animali questo poi viene superato dalla razionalità degli uomini, che si realizza attraverso la virtù, fine ultimo dell’esistenza umana. La virtù poi coincide col bene, mentre il male è il vizio. Il vero virtuoso è sempre il saggio che conosce tutto ciò che serve ad agire rettamente. Panezio di Rodi ha poi attribuito gli sforzi verso la virtù anche agli uomini semplici. Gli scettici. “Scetticismo” significa “ricerca, indagine”. Esso si riferisce alla posizione dei filosofi che dubitano della possibilità di riuscire mai a trovare una verità. Una prima fase dello scetticismo fu inaugurata da Pirrone di Elide, che non scrisse nulla e non fondò una propria scuola. La sua idea era quella di non avere opinioni. Il mondo esterno è apparente, indeterminato, conduce all’afasia (incapacità di esprimersi) e all’imperturbabilità. Nel 3° secolo a.C. invece, furono Arcesilao di Pitane, Carneade di Cirene e Filone di Larissa a riprendere gli argomenti scettici, basandosi sulla sfiducia nei confronti dei dogmatismi stoici ed epicurei. Si ricorre quindi alla sospensione del giudizio (epoché). Questa non è basata sulla convinzione dell’indeterminatezza del mondo esterno quanto della constatazione che per ogni tesi avanzata è possibile trovarne una contraria ed egualmente valida. Tuttavia la necessità di sospendere il giudizio e di trovare una forma di verità hanno causato l’idea che la dottrina scettica paralizzi l’azione e quindi la vita. La soluzione sembrerebbe essere la ragionevolezza, che guida le azioni quotidiane senza alcuna pretesa di verità o dogmatismo. Neopirronismo. Nel 1° secolo a.C. Enesidemo di Cnosso e Sesto Empirico ripresero le posizioni di Pirrone, rimproverando gli scettici di essere caduti nel dogmatismo negativo negando quindi la possibilità di apprendere il vero. Un buon pirroniano quindi non afferma il vero ma neanche l’incomprensibilità. Sesto scrisse opere contro chiunque presumesse di possedere qualunque forma di sapere. La sua tecnica consistette nel bilanciamento: mostrare una serie di ragioni a favore di una tesi e del suo contrario. La rinuncia all’avere opinioni invece investe solo il campo dell’essere ma non quello dell’apparire (“il miele mi sembra dolce, ma non è dolce”). lOMoARcPSD|118 880 32 Scaricato da Arianna Di Salle (arydisalle@gmail.com) gli ideali di tranquillità della vita, dominio delle passioni, del suicidio come possibilità di sottrarsi al disordine (e quindi manifestazione suprema di libertà), dell’inversione del rapporto tra vita speculativa e impegno etico- pratico a vantaggio della prima. L’animo umano è visto come produttore di disordine nei confronti di quella natura prodotta da un dio trascendente. Epitteto, di origine servile, fu espulso da Roma dall’imperatore Domiziano. Egli professò l’autonomia morale, la capacità di sopportare le avversità, la distinzione fra ciò che è in nostro potere e ciò che non lo è: non bisogna quindi curarsi del mondo esterno, del corpo e delle proprie azioni, che sono espressione di una volontà divina. Anche l’imperatore Marco Aurelio aderì allo stoicismo; sua fu la riflessione sulla precarietà dell’esistenza e sulla difficoltà a stringere rapporti umani genuini. Tolomeo. Claudio Tolomeo fu astronomo, astrologo, geografo e cosmologo sotto Adriano. Scrisse l’Almagesto, trattato nel quale catalogava 1022 stelle in 48 costellazioni e spiegava il moto retrogrado dei pianeti rispetto al cielo delle stelle fisse. Spiegò questa “anomalia” (dovuta al fatto che in realtà i pianeti girano attorno al Sole e non attorno alla Terra) ipotizzando che il movimento sarebbe sembrato costante ed uniforme se osservato da qualcuno non situato sulla Terra. La sua opinione sussistette anche in ambito cristiano non solo per puro spirito teologico od oppositivo ma perché, al contrario delle teorie eliocentriche, forniva solide basi matematiche. Galeno. Nato a Pergamo nel 129 a.C., frequentò tutte e 4 le scuole filosofiche. Sull’origine del mondo egli teorizzò che si dovesse intendere in senso temporale, e che quindi l’Universo non fosse eterno. Egli fu medico, ma si ritenne filosofo ed anzi più filosofo dei filosofi stessi. Ideò la figura dello scienziato-filosofo, che si trae fuori dall’ambito del probabile. Coniugò le dottrine dei quattro elementi a quella delle quattro qualità (caldo ecc.) ed infine agli umori (sangue, flegma, bile gialla e bile nera) asserendo che uno stato di malattia del corpo dipendesse esclusivamente dallo squilibrio di questi. Secondo Galeno è il medico che deve fare da guida della società. Ebbe una concezione dell’anima tutta sua: la sua buona salute deriva dall’equilibrio tra gli organi, ognuno dei quali è sede di una porzione di anima: anima razionale – cervello, anima passionale – fegato, anima irascibile – cuore. lOMoARcPSD|118 880 32 Scaricato da Arianna Di Salle (arydisalle@gmail.com) Capitolo 8 - Plotino Plotino. Nacque nel 204 d.C. in Egitto. Iniziò a coltivare l’interesse per la filosofia tardi, recandosi ad Alessandria. Seguì l’imperatore Gordiano III nella sua campagna militare infruttuosa; quindi si rifugiò ad Antiochia e poi a Roma, dove alloggiò presso una ricca matrona e dove tenne le sue lezioni. Dai rapporti personali con l’imperatore Gallieno nacque l’idea della creazione di una città (in Campania) simile a quella descritta nella Repubblica di Platone. Morì nel 270 d.C. Plotino è considerato l’iniziatore del neoplatonismo, ovvero delle rielaborazioni in chiave originale delle teorie di Platone. Questa rielaborazione avvenne con l’introduzione anche di dottrine appartenenti allo stoicismo e all’aristotelismo. Cardine del suo pensiero è quindi il confronto con la tradizione. Le lezioni di Plotino erano interattive e fondate sulla discussione; è per questo che appare difficile trovare una versione organica dei suoi scritti, a parte quella organizzata da Porfirio. Rapporto tra mondo intelligibile e sensibile. Plotino rielaborò la teoria delle idee platoniane tenendo conto delle critiche mossegli da Aristotele, che, come gli stoici, aveva abolito l’esistenza di un mondo trascendente fatto di idee. Plotino decise di partire dall’idea della bellezza: come Platone, asserì che i corpi sono belli perché rimandano alla forma originale del “bello in sé”. Per Plotino non è tanto importante distinguere il mondo sensibile- intelligibile su piano oggettivo, quanto mostrare il modo in cui l’anima si rapporta al mondo intelligibile. Nel caso della bellezza, l’anima la riconosce perché ricorda qualcosa di affine a sé. Si attua quindi una differenza rispetto a Platone: Plotino non intende rimandare alla dottrina della reminiscenza, ma intende dire che l’anima appartiene sempre al mondo intelligibile (anche se presente in un corpo) e non deve pertanto “ricordare” la forma del bello contemplata in una vita precedente, ma ricordare il proprio mondo attuale. L’anima non è quindi spettatrice ma si identifica nell’intelletto, nel nùs. Una seconda differenza rispetto a Platone si trova nella concezione che Plotino ha dell’arte: per Platone essa era un’imitazione di secondo grado, in quanto copia di cose sensibili che sono a loro volta copie di idee. Plotino rovescia lo schema: proprio perché l’arte è copia di copia, rimanda comunque alla forma del bello, quindi è anch’essa bella. Rapporto anima-corpo. L’anima quindi deve ricordarsi di appartenere al lOMoARcPSD|118 880 32 Scaricato da Arianna Di Salle (arydisalle@gmail.com) mondo intelligibile; è in stretto rapporto con esso ma non coincide con esso. Plotino continua ad usare l’argomento della partecipazione, concetto che Platone aveva avuto difficoltà a portare avanti, poiché una stessa forma partecipando in corpi diversi avrebbe dovuto moltiplicarsi o dividersi. Plotino cerca di aggirare l’ostacolo a partire dalla sua concezione di anima. Per lui essa è immortale ed è l’esempio più concreto della comunione tra elemento intelligibile ed elemento sensibile. Difatti se essa è principio di vita nei corpi, allora non potrà essere a sua volta un corpo. L’anima ha in ogni caso anche una funzione cosmica (anima del mondo). Sulla presenza dell’anima nei corpi Plotino asserisce che l’intelligibile non è mai presenza in altro ma presenza a sé, non soggetto quindi a limitazioni di ordine spaziale-temporale. Così quindi egli risolve la dottrina della partecipazione platonica. Se l’intelligibile è “a sé” e i copri sono “in altro” allora ha senso rovesciare la prospettiva e dire che sono proprio i corpi a trovarsi nell’intelligibile, non nel senso di presenza fisica ma di dipendenza. Questo rovescia la prospettiva delle forme che “discendono” sulle cose, ma che piuttosto agiscono su esse. Per affermare questo, Plotino utilizza anche un espediente aristotelico: se l’atto precede sempre la potenza, allora l’intera realtà potrebbe essere dipendere dall’attività anteriore del mondo intelligibile. L’anima quindi realizza nel mondo sensibile le forme che appartengono al nùs. Il nùs. Plotino, d’accordo con gli aristotelici, ammette la presenza di un intelletto trascendente separato dal mondo. Al loro contrario ritiene però che esso coincida con le forme stesse. Questa concezione si distacca anche da quella dei medioplatonici, che ritenevano che le forme fossero i pensieri dell’intelletto, senza presupporre che pensieri e nùs coincidessero. Secondo Plotino il nùs è quindi l’insieme delle forme e dell’intelletto che le pensa. L’anima ha il compito di ordinare il mondo con sapienza dote che acquisisce dal nùs, che per definizione è la sapienza in atto. La coincidenza va comunque intesa in senso dinamico. Tuttavia ammettere questa coincidenza significa anche rendere l’intelletto molteplice (le idee sono tante). Plotino risolve anche questo punto affermando di dividere l’intelletto non in senso spaziale ma in quanto le idee sono aspetti diversi di una totalità. L’Uno. L’intelletto è quasi una uni-totalità, né uno, né molti ma una molteplicità unitaria. Se l’intelletto fosse una unica totalità probabilmente lOMoARcPSD|118 880 32 Scaricato da Arianna Di Salle (arydisalle@gmail.com) e redenzione. Per i cristiani, infine, i filosofi pagani che hanno condotto una vita pura e giusta sono considerati filosofi ante litteram. Stoicismo. I cristiani considerarono lo studio della filosofia pagana come l’unico modo per poter controbattere proprio ai filosofi pagani. Giustino espose due motivi per studiare la filosofia: il sapere filosofico è in realtà derivato da Mosè e dalle Scritture; il logos universale non è che il Verbo e quindi la filosofia conduce alla rivelazione. Anche Clemente Alessandrino giustificò lo studio della filosofia, adducendo le ragioni del disegno provvidenziale; della filosofia come dono degli angeli. Lo stoicismo fu una delle scuole più considerate per via dei suoi insegnamenti etico-pratici: l’autosufficienza della virtù per la felicità, il rigore morale, il senso di appartenenza cosmica e di fratellanza universale. Oltre agli insegnamenti morali, anche la distinzione tra discorso interiore e discorso pronunciato fu presa in considerazione, perché utile ad esprimere la relazione tra Padre e Figlio all’interno della trinità. Medioplatonismo - neoplatonismo. Per una delle prime caratterizzazioni di Dio fu utilizzato l’Uno medioplatonico: Dio è inconoscibile, ineffabile, se ne può parlare solamente attraverso la negazione. Inoltre la Trinità viene interpretata a partire dalla distinzione tra primo e secondo intelletto, ovvero Uno e nùs. Clemente Alessandrino distinse tre diversi tipi di logos: la mente di dio che comprende in sé le idee; il logos che produce il mondo, e l’anima del mondo. Origene. Nacque ad Alessandria nel 185 d.C. Fu un neoplatonico cristiano di lingua greca. Egli sostenne l’anteriorità della creazione intelligibile rispetto a quella sensibile. Le prime sostanze intelligenti erano dotate di libertà; fu proprio a causa di questa che alcune di esse decaddero dal loro stato puramente intelligibile e scelsero di farsi corpo, dando origine al mondo sensibile. Anche il male proviene quindi da questo libero arbitrio delle creature razionali. Di Origene è anche la dottrina dell’apocatastasi, ovvero l’idea che la resurrezione non riguardi il corpo ma la forma che ne è il principio. Tutte le creature vengono quindi riassorbite nel mondo intelligibile. Origene fu condannato dalle autorità cristiane. Egli fu tuttavia un esempio per una tradizione successiva, quella dei padri cappadoci, che furono i protagonisti della teologia orientale nel 4° secolo. Gregorio di Nazanzio nei suoi Discorsi rivolti contro l’ariano Eunomio (l’arianesimo era lOMoARcPSD|118 880 32 Scaricato da Arianna Di Salle (arydisalle@gmail.com) una dottrina considerata eretica dai cristiani, poiché riteneva, nella Trinità, la figura del Figlio come inferiore al Padre) difese la semplicità della fede contro la pretesa della filosofia di poter spiegare ogni cosa. Dall’ordinamento razionale del mondo infatti si può dedurre che Dio esiste, ma non possiamo sapere cosa egli sia. A Basilio il Grande si deve la concezione della Trinità come unica essenza distinta in tre persone differenti. Egli trattò anche di cosmologia cristiana: questa si basava sulla dottrina della creazione dal nulla, poiché Dio non è come l’uomo e quindi non ha bisogno di una materia iniziale per modellare qualcosa. Gregorio di Nissa, fratello di Basilio, riprese il tema della doppia creazione (sensibile ed intelligibile) asserendo che nella prima creazione non erano distinti neanche i due sessi. L’uomo deve poi risalire verso Dio tramite la purificazione, l’annullamento delle passioni e la tensione verso Dio. Calcidio. Di Calcidio non si possiedono molte notizie. Egli fu un neoplatonico cristiano latino che operò nel 4° secolo. Tradusse in latino il Timeo di Platone. Una sua tripartizione fu tra dio (supremo, trascendente, oggetto d’amore), idee (prodotti di Dio; tutte insieme sono intelletto e da esse dipende il Fato, che regge il mondo) e materia (ovvero l’anima del mondo, che organizza il corpo dell’Universo). Vi sono poi entità intermedie come la natura, la fortuna, il caso e i demoni. Mario Vittorino. Nacque attorno al 300 e si convertì al cristianesimo dopo essere stato impegnato nella polemica anticristiana. Anch’egli si confrontò con un ariano, Candido, il cui argomento fu: se Dio è un essere pieno allora è immutabile, quindi non può generare. Vittorino, per controbattere, fece appello a Plotino: Dio non è propriamente essere, poiché l’Uno è aldilà dell’essere intelligibile, quindi al di sopra del pensiero. Il nùs (essere intelligibile) di Plotino nel caso di Vittorino è rappresentato dal Verbo. Dio appare quindi sia come essere che come non-essere: questo paradosso nasce dalla necessità di dover tenere assieme l’esigenza della trascendenza (non-essere) e della causalità (bisogna pur dirne qualcosa, di Dio: se egli è causa allora rientra nell’ambito dell’essere). Reazioni anticristiane. Celso, medioplatonico, denunciò le contraddizioni tra Antico e Nuovo testamento, asserendo che il Dio dell’Antico testamento appariva corrotto tanto quanto corrotti erano, secondo i cristiani, gli dei pagani. Sottolineò poi gli elementi irrazionali del cristianesimo: la creazione lOMoARcPSD|118 880 32 Scaricato da Arianna Di Salle (arydisalle@gmail.com) dal nulla, la redenzione attraverso l’incarnazione, la resurrezione dei corpi, il giudizio finale. Celso sembrò anche preoccupato per le conseguenze sociali dell’avanzata del cristianesimo. Galeno si scagliò invece contro l’idea di un dio che viola le leggi del mondo fisico, mentre apprezzò la morale cristiana. Porfirio scrisse un trattato Contro i cristiani e riconobbe Cristo come uno degli eroi della tradizione pagana, ma senza alcuna natura divina. Giuliano l’Apostata, imperatore dell’Impero Romano, emanò nel 363 un decreto che vietava l’insegnamento ai cristiani. Alla sua morte il suo successore Gioviano abrogò tutti i suoi decreti. Capitolo 10 - Agostino d'Ippona Agostino d’Ippona. Nei primi secoli d.C. le province africane/mediorientali conobbero un grande sviluppo economico e culturale, superiore anche a quello del continente. Fu proprio l’abolizione di questi confini a permettere ad Agostino di diffondere le proprie innovative dottrine. Egli nacque a Tagaste, in Numidia, nel 354, da una madre cristiana. A Cartagine aderì al manicheismo, da Mani di Babilonia (dottrina che postulava la realtà come principiata sia dalla luce/bene che dal buio/male – quest’ultimo identificato col Dio dell’Antico Testamento). Agostino si trasferì poi a Roma, dove insegnò grammatica, e poi a Milano, dove insegnò retorica. Si avvicinò alla fede cristiana sperimentando una lettura non letterale della Bibbia e si convertì completamente nel 387, ricevendo il battesimo. Nel 391 divenne sacerdote e poi vescovo ad Ippona. Fu artefice di tre attacchi dottrinali: contro i manichei (che credevano il mondo fosse un “carcere materiale” dal quale dover fuggire), contro i donatisti (cristiani che per sfuggire alle persecuzioni avevano rinnegato la fede per poi pentirsi – Agostino pensava fosse solo compito di Dio riconoscere una vera conversione); contro i pelagiani e i semi-pelagiani (i primi negavano il peccato originale e la predestinazione, asserendo che gli uomini potessero evitare il peccato con le proprie opere; i secondi pensavano che Dio concedesse la grazia agli uomini virtuosi). Agostino morì nel 430. A partire dal 386 Agostino manifesta una grande fiducia nella filosofia e ritiene che essa possa coincidere con la religione. Questa fase del suo pensiero è di solito ritenuta immatura. Nella seconda fase (397 – morte) si lOMoARcPSD|118 880 32 Scaricato da Arianna Di Salle (arydisalle@gmail.com) a significare una cosa; quest’ultima è non rimanda ad altro. Le cose si apprendono attraverso i segni ma i segni sono a loro volta cose, che fanno venire in mente altro a partire da sé. C’è poi una distinzione tra segni naturali (rimandano a qualcosa inconsapevolmente) ed intenzionali, come gli scambi di gesti tra umani per comunicare emozioni. Le cose, invece, si dividono tra quelle di cui godere e quelle di cui servirsi per raggiungere le prime. Il tutto, assieme a discipline come grammatica, filosofia, lingue serve a leggere ed interpretare le Sacre Scritture. Dio ed anima. L’anima è la via d’accesso al divino. Agostino mutua questa concezione da Plotino, asserendo anche che il mondo sensibile non è in grado di condurre alla piena verità. Per A. la sensazione non deriva dall’azione di corpi esterni sull’anima, ma è quest’ultima ad essere sempre attiva ed attenta ad elaborare in sé le immagini delle cose sensibili. Esistono tuttavia anche delle verità intelligibili (come quelle matematiche) stabili ed eterne, che provengono da qualcosa al di sopra della ragione. Agostino ipotizza un doppio movimento: dalle cose sensibili all’anima e dall’anima a ciò che la illumina. Agostino poi propone una prova dell’esistenza di Dio: i contenuti intelligibili sono per noi parte di una verità ideale che deve necessariamente essere superiore alla mente stessa, ovvero Dio. In secondo luogo, se la nostra mente crea solo verità mutabili ed esistono invece altre verità immutabili, non resta che concludere che queste ultime siano frutto di Dio. Agostino poi paragona la Trinità ad alcune tripartizioni dell’anima. Il tempo. Nel libro 11 delle Confessioni Agostino cerca di difendere la dottrina della creazione dal nulla asserendo comunque l’immutabilità divina e la temporalità del creato. Alla domanda “cosa faceva Dio prima di creare il mondo?” Agostino risponde che Egli non è pensabile al di fuori della sua eternità. Prima della creazione non vi era infatti tempo, poiché esso stesso è una creatura di Dio. Il tempo, per A, sembra introvabile, inesistente: il passato non è più, il futuro non è ancora, il presente si traduce subito in passato e se così non fosse si tratterebbe di eternità. Di cosa si compone, quindi, il tempo? Si autoannienta? Eppure l’anima lo misura e lo percepisce, e non potrebbe farlo se esso non esistesse. Per A. il tempo possiede effettivamente una sua estensione, ed è quella interiore: passato, presente e futuro non esistono se non nell’anima, rispettivamente nella memoria, nella visione e nell’attesa. Agostino non asserisce però che il tempo sia puramente lOMoARcPSD|118 880 32 Scaricato da Arianna Di Salle (arydisalle@gmail.com) soggettivo e che le cose esterne non siano mutabili: il compito dell’anima è solo quello di misurare ciò che nella realtà apparirebbe come incessante. Le ragioni seminali e il male. Secondo Agostino la creazione è avvenuta fuori dal tempo ed in un unico momento simultaneo. Per spiegare l’antitetico sviluppo progressivo del creato Agostino utilizza il tema delle ragioni seminali: Dio inserì sin dall’inizio delle trame di successione ordinata, assicurando lo sviluppo graduale di tutti gli enti. Non tutte le ragioni furono però inserite da Dio al momento della creazione; ve ne sono alcune secondarie che servono a spiegare gli eventi che sembrano interrompere il corso della natura, come i miracoli. Dio non agisce quindi mai contra naturam, ovvero contro l’ordine che ha prestabilito. Sul male Agostino afferma che non ha consistenza ontologica: è solo la privazione del bene, una imperfezione. Ciò che appare un male può poi invece contribuire alla bontà dell’Universo; l’unico vero male è quello morale degli uomini, che non peccano per ignoranza (intellettualismo etico di Socrate) ma in modo volontario. La città di Dio e la città terrena. Nel 426 Agostino cerca di spiegare la presenza del male nella storia traendo ispirazione dalla situazione dell’Impero Romano in procinto di crollare. Quando Roma fu saccheggiata da Alarico i pagani accusarono i cristiani di aver indebolito l’Impero tramite l’ ”indebolimento dei costumi”. A questa accusa cerca di rispondere La città di Dio, in cui Agostino tenta di elaborare una storia teologica scandita dai momenti della fede: creazione, peccato originale, incarnazione, passione, resurrezione, giudizio finale. Agostino è poi convinto che l’umanità si stia avviando alla sua fine. Evidenzia poi il perenne conflitto tra le due città: quella di Dio, composta da giusti ed eletti e fondata sull’amore per Dio e quella terrena, composta dai dannati amatori di sé. Il possedimento della grazia determina l’appartenenza all’una o all’altra città. Capitolo 11 - Il tardo neoplatonismo e la fine della filosofia antica Il cristianesimo inglobò alcuni tratti della filosofia greca in quanto a stile di vita, di fatto sostituendosi ad essa come mezzo per conseguire la felicità e la salvezza. La filosofia pagana in risposta a questo cercò di concentrarsi sul suo aspetto dottrinale o di competere col cristianesimo sul piano della salvezza ultraterrena. Si assiste quindi ad una rinnovata importanza di culti, riti, lOMoARcPSD|118 880 32 Scaricato da Arianna Di Salle (arydisalle@gmail.com) pratiche liturgiche (teurgia), cercando di stabilire un contatto col divino. Questa non è da intendere, tuttavia, come una deriva meramente irrazionalista. Tra le altre tendenze dell’ultima filosofia pagana vi sono anche quella di moltiplicare le entità delle strutture metafisiche e la questione di conciliare trascendenza e causalità del divino. Vengono inseriti più livelli di intermediari tra le entità proprio per evitare il brusco passaggio dall’Uno al molteplice. Infine, tendenza generale è quella della rivalutazione della filosofia precedente tramite numerosi commenti, effettuati anche perché la filosofia pagana “perdeva punti” rispetto al cristianesimo. Porfirio. Nacque a Tiro (Fenicia) nel 230. Ebbe una formazione medioplatonica e frequentò la scuola di Plotino. E’ considerabile come filosofo pagano (nonostante non fosse incline alla teurgia) e frequentò anche le campagne anticristiane. Scrisse un commento al Parmenide in cui si pose la questione di definire cosa fosse l’essere/Uno: se i cristiani ipotizzano la creazione da nulla, ciò vuol dire che il primo principio che “dona l’essere” possiede in sé l’essere, o è l’essere stesso? Porfirio propone poi una concordanza tra le dottrine aristoteliche e quelle platoniche. In quanto ad etica egli sostiene la vita vegetariana, finalizzata al raggiungimento del divino tramite il controllo delle passioni. Nell’Isagoge Porfirio propone una prefazione al problema degli universali ipotizzati da Aristotele (senza, tuttavia, risolvere il problema). Per Porfirio infatti prima di parlare di categorie è necessario chiarire il modo in cui esse possono essere predicabili (descrivibili), ovvero tramite genere e specie. Porfirio stila un elenco dei 5 predicabili: accidente (ciò che può esserci e non senza distruggere il soggetto); proprio (ciò che appartiene a tutti gli individui di una specie ma che non la definisce); differenza (ciò che divide le realtà di uno stesso genere, creando specie diverse); specie (ciò che è subordinato al genere); genere (il predicato che riguarda l’essenza). Procedendo verso “l’alto” si perviene ad un genere sommo (che non ammette nessun termine superiore ad esso) e verso il “basso” agli individui singoli. Giamblico. Dopo Plotino, Porfirio ed Agostino l’attività filosofica si concentrò nell’Impero Romano d’Oriente, essendo in crisi quello Occidentale. Le nuove scuole neoplatoniche si trovavano in Siria, ad Alessandria d’Egitto e ad Atene. Giamblico nacque a Calcide (Siria) e fu allievo di Porfirio, prima di aprire una scuola filosofica in Siria. Egli diede molta importanza ai riti e alle pratiche teurgiche. Fu autore di una Summa Pitagorica e di vari commenti a Platone ed Aristotele. Da Plotino prende le lOMoARcPSD|118 880 32 Scaricato da Arianna Di Salle (arydisalle@gmail.com) Capitolo 12 - Alcuni tratti peculiari del pensiero medievale Nella storia della filosofia non è possibile stabilire con esattezza la linea di confine tra le varie epoche, come tra Antichità e Medioevo. Non esistono tratti caratteristici specifici ad una sola epoca. La suddivisione in epoche è quindi una convenzione inserita dagli storici. Il Medioevo va quindi dal 6° al 15° secolo. E’ un errore far coincidere solo le opere latine e cristiane all’interno del Medioevo: esistono infatti autori latini/cristiani il cui operato si colloca al di fuori dei limiti cronologici del Medioevo (Agostino) ed autori medievali che sono arabi, musulmani o ebrei e che di conseguenza utilizzano altre lingue. I pensatori medievali non sono quindi solo i monaci dei monasteri e delle abbazie occidentali. In quanto ad ambiti geografici ne vanno distinti quattro: 1. Quello greco-bizantino, 2. Quello arabo-islamico (il più prolifico); 3. Quello ebraico; 4. Quello latino-cristiano (che fu marginale fino al 12° secolo e si rivitalizzò solo dopo l’incontro con la cultura araba. Il mondo latino rimase per lungo tempo privo delle maggiori opere filosofiche a causa della minore diffusione della lingua greca e quindi delle traduzioni. Nel mondo latino vanno distinti dei periodi: il primo dal 6° al 12° secolo, caratterizzato da una scarsa diffusione dei testi antichi e in cui la filosofia venne usata come logica-dialettica; il secondo come periodo della Scolastica, in cui lo studio della filosofia acquistò popolarità nelle Università. Dal 9° secolo gli arabi iniziarono a tradurre opere scientifico- filosofiche greche e le loro stesse opere pervennero agli Occidentali prima ancora di quelle greche. Aristotele, per esempio, pervenne all’Ovest tramite una traduzione latina effettuata non dal greco ma dall’arabo. Un generale sentimento nei confronti del Medioevo è quello di avere a che fare con “secoli bui”, in cui per la filosofia non ci fu spazio a causa di superstizione ed intolleranza, ricondotte al peso della teologia cristiana e al controllo dottrinale da parte della Chiesa. “Medievale” ancora oggi riconduce a concetti di arretrato, barbarico, oscurantista. Tuttavia il Medioevo vide invece una vasta produzione filosofica, a partire dal consolidamento della filosofia come oggetto di insegnamento pubblico e non più come scelta di vita individuale. Anche il lessico della filosofia medievale è quello tutt’ora utilizzato. Il sapere medievale fu poi un sapere critico, non fondato sulla passiva accettazione ma sulla quaestio e sulla disputatio. Sulla “censura” c’è da ridire che in questi anni invece si formò il primo ufficiale principio della libertà d’insegnamento e che la censura era effettuata anche lOMoARcPSD|118 880 32 Scaricato da Arianna Di Salle (arydisalle@gmail.com) nell’Atene del 4° secolo. La cosiddetta “caccia alle streghe” si consolidò dopo una bolla papale del 1484; l’uso pervasivo del tribunale dell’Inquisizione avvenne invece dal 16° secolo. I roghi colpirono poche volte filosofi e teologi: Giordano Bruno non fu bruciato nel Medioevo, ma nell’Età Moderna (16° secolo). Capitolo 13 - Severino Boezio Severino Boezio. Nacque nel 476 a Roma. Rappresentò un’eccezione alla scarsa diffusione della filosofia dopo la caduta dell’Impero romano d’Occidente. Studiò il greco e la filosofia e si propose l’ambizioso progetto di recuperare e rendere accessibili in latino i principali testi filosofici/scientifici greci e di conciliare il loro pensiero con la fede cristiana. Sua fu la suddivisione delle arti liberali in trivio (arti relative al linguaggio: grammatica-retorica-dialettica) e quadrivio (discipline matematiche: aritmetica-geometria-astronomia- musica). Le sue traduzioni delle opere filosofiche contribuirono poi a costituire la “biblioteca filosofica” latina per molti secoli. Il problema degli universali. Boezio si occupò di quei termini universali che indicano una pluralità d’individui in una specie o di specie in un genere. Per fare ciò commentò Porfirio, il quale si era posto interessanti domande senza trovarvi risposta. Egli si chiese se generi/specie fossero realtà sussistenti ontologiche o concezioni della mente (quindi se fossero corporei/incorporei). La soluzione realista dei neoplatonici poneva gli universali come realtà sussistenti: i singoli individui partecipano in essi, cha sono quindi simili alle forme e non “semplici” concetti. Questa soluzione presenta degli svantaggi: innanzitutto il presupposto che esista una dottrina delle forme (contestata da Aristotele) e che bisogna spiegare come un elemento possa essere presente in più individui (che hanno qualificazioni accidentali diverse) pur rimanendo unico. Boezio afferma: 1. Gli universali non sono sostanze dotate di unità numerica; 2. Non possono essere solo “concetti dell’intelletto”, altrimenti risulterebbero arbitrari e privi di fondamenti oggettivi. Quindi devono essere qualcosa sia nella realtà che nell’intelletto senza tuttavia essere né sostanze né concetti vuoti. Boezio conclude asserendo che la mente umana ha la capacità di associare ciò che è separato e che generi e specie esistono, ma negli individui, e non a sé come le forme platoniche. Ciò che esiste è lOMoARcPSD|118 880 32 Scaricato da Arianna Di Salle (arydisalle@gmail.com) individuale ma gli individui possono raggruppare in un solo concetto ciò che ritengono simile. Boezio scrisse il Sulla Trinità, che affronta il problema dell’applicabilità delle categorie aristoteliche a Dio. Secondo lui le categorie sostanziali (quantità, qualità, sostanza) si predicano di Dio, ricevendo un significato incrementato. Boezio scrisse anche il Sulle ebdomadi, ovvero “assiomi”, nel quale cerca di chiarire il concetto di partecipazione: si può dire, ad esempio, che le cose sono buone anche se non partecipano alla bontà stessa? Per Boezio le cose sono buone ma non sostanzialmente, quindi non su tutti gli aspetti. Ne La consolazione della filosofia Boezio, appena condannato a morte perché sospettato di tradimento a favore dell’Impero romano d’Oriente, si rifugia nella filosofia come stile di vita in grado di assicurare la felicità. La sapienza, la conoscenza sono tutto ciò che non può essere sottratto all’uomo. Il male, per Boezio, non ha una consistenza ontologica ma è solo privazione del bene e deriva dall’ignoranza, dal non riconoscere l’armonia del cosmo. L’eternità di dio è per Boezio atemporalità e non onnitemporalità. Infine propone una soluzione a come la prescienza divina si potesse conciliare col libero arbitrio umano: Dio ha una conoscenza totale di ogni evento che accadrà ma non è questo a far sì che questi accadano, così come un uomo che osserva dalla finestra un altro uomo che cammina non ne influenza l’andamento. Si tratta di necessità non assoluta (se Dio conosce una cosa, essa accade) ma ipotetica (se una cosa accade, Dio la conosce). Boezio rappresentò un primo esempio di utilizzazione di procedimenti logico-razionali all’interno di questioni strettamente teologiche. Capitolo 14 - L'eredità neoplatonica a Bisanzio e nell'Alto Medioevo latino Con la morte di Boezio (525) e con la chiusura delle scuole filosofiche di Atene da parte dell’imperatore Giustiniano la filosofia entra in un periodo di stallo. Nell’Impero romano d’Oriente essa venne sostituita dalla teologia cristiana. Nel mondo latino (suddiviso in regni romano-barbarici) la filosofia scomparve dalle scuole fino al periodo carolingio (8° secolo). Nell’Alto Medioevo (6° - 11° secolo) fu preminente una cultura teologica: la filosofia fu usata come dialettica, utile a fornire argomentazioni nelle dispute teologiche. Sia ad Oriente che ad Occidente, poi, l’unica tradizione filosofica antica che sopravvisse fu il neoplatonismo. lOMoARcPSD|118 880 32 Scaricato da Arianna Di Salle (arydisalle@gmail.com) partire dalle definizioni aristoteliche (scienza delle cause in quanto tali; della sostanza – ente in quanto ente; delle sostanze separate – del divino). Avicenna riprende l’assunto secondo il quale ogni scienza non può dimostrare l’esistenza del suo soggetto ma lasciarlo fare ad un’altra scienza. Ne deriva che l’oggetto della metafisica non è dio, in quanto non è dimostrabile la sua esistenza in altre scienze che non siano la metafisica stessa, ma l’ente in quanto ente: la metafisica diventa ontologia generale. Si pone poi il problema dell’immaterialità: se la metafisica è scienza dell’ente, come può esso risultare separato dalla materia? La soluzione di Avicenna è questa: il soggetto della metafisica non è immateriale in sé ma precede tutte le distinzioni tra materiale e immateriale, in quanto contiene ogni possibile declinazione della materia. Avicenna scrisse anche un trattato sugli universali nel quale cercò di definire la differenza tra essenza ed esistenza, che parte dalle domande “esiste?” e “cos’è?”. Esse non coincidono: si può sapere cosa sia qualcosa senza che questo esista necessariamente sul momento. Per Avicenna l’essenza è soltanto sé stessa, e può esistere sia in forma di concetti universali che sussistono nella mente sia come individui che sussistono nella realtà fisica. Essenza (cosa) ed esistenza (ente) sono diversi aspetti di una realtà che non può essere separata ma solo considerata separatamente. Agli individui di una stessa specie può dunque non esserci nulla di ontologicamente comune, ma è comune solo il fatto che ciascuno d’essi risponda alla medesima definizione. Avicenna si occupa poi della teoria delle emanazioni, ovvero di come Dio ha prodotto le cose. Egli non lo fa né inconsapevolmente (per necessità) né intenzionalmente (con un fine), ma semplicemente conosce in generale ciò che fluirà da sé. Essendo poi unico, anche il suo primo effetto - la prima intelligenza – sarà unico. Tutto il resto della creazione avviene quindi a partire da quest’ultima e non dalla causa prima: prima sfera celeste, anima di tale sfera (queste due accezioni vengono riprodotte sino alla decima intelligenza). La decima intelligenza è poi di fatto il “datore delle forme”, ovvero da essa dipendono le anime umane e le forme degli enti. Essa coincide poi con l’intelletto agente/produttivo. Avicenna descrive quello che secondo lui è il processo conoscitivo umano: l’uomo, con i cinque sensi esterni, osserva la realtà, che è poi organizzata intellettualmente tramite i sensi interni. Questi sono: fantasia/senso comune (che “salda” tra loro le informazioni dei 5 sensi esterni in un continuo percettivo); immaginazione (immagazzina, cioè permette di recuperare le sensazioni anche in assenza delle immagini sensibili); potenza cogitativa (modifica delle immagini conservate in modo da lOMoARcPSD|118 880 32 Scaricato da Arianna Di Salle (arydisalle@gmail.com) ricavarne una immagine semplice – anello tra mondo sensibile e mondo intelligibile); potenza estimativa (dare una valutazione istintiva agli oggetti dal punto di vista delle intenzioni connesse al nostro vantaggio/ svantaggio); potenza rammemorativa (permette di immagazzinare le intenzioni spiacevoli o piacevoli di una sensazione). Per superare poi il livello delle immagini sensibili fino a giungere al pensiero vero e proprio (conoscenza intelligibile) è necessaria proprio la decima intelligenza, che spoglia le immagini sensibili rielaborate dai sensi interni dai residui individuali e materiali. I sensi interni infatti producono immagini, ma i concetti non necessitano d’essere immagini, icone. Questi contenuti diventano poi disponibili per l’intelletto potenziale (che ha cioè la potenza di pensare in atto i contenuti intelligibili), che è individuale e proprio di ogni uomo. Al contrario, l’intelletto agente è quello che “illumina” e rende disponibili le immagini sensibili, permettendo la loro impressione nell’intelletto potenziale. Questo intelletto coincide con la decima intelligenza ed è unico e separato per tutta l’umanità. Per Avicenna, poi, “apprendere” significa ripristinare velocemente la connessione con l’intelletto agente, in modo da ricordare le determinate forme. A questo livello si colloca una fondamentale distinzione tra gli uomini gli “individui eccezionali” (santi, profeti) sono coloro che connettono velocemente il sensibile all’intelligibile. Da questo deriva anche la concezione avicenniana dell’escatologia (destino dell’uomo e della vita futura): ognuno è artefice di sé stesso e in base a quanto saprà andare più in là del sensibile gli sarà riservato paradiso o inferno. Al-Ghazali. Fu un teologo. Scrisse Le intenzioni dei filosofi, nel quale sintetizzò le dottrine dei filosofi arabi (nel mondo latino fu inizialmente tradotta solo questa opera: è a causa di questo che sembrò un discepolo di Avicenna). Scrisse poi L’incoerenza dei filosofi, nel quale criticò tre punti fondamentali della dottrina di Avicenna: l’idea della creazione come limitata ad un solo effetto; la tesi secondo cui Dio conosce il mondo solo in generale; l’eliminazione di premi e castighi e della resurrezione. Il Dio di Al-Ghazali innanzitutto crea tutto il mondo in una volta e lo fa intenzionalmente; non ha bisogno di intermediari (come le intelligenze); conosce le sue creature nei loro minimi dettagli ed è provvidente e dispensatore di castighi. Al-Ghazali reinterpretò poi la causalità (ovvero il rapporto causa-effetto): negò l’esistenza di nessi causali tra le creature, affermando che tutto ciò che accade successivamente non è in base ad un rapporto fisico, ma lOMoARcPSD|118 880 32 Scaricato da Arianna Di Salle (arydisalle@gmail.com) all’intervento immediato divino. Trasformò quindi il cosmo in un miracolo perenne. Averroè (Ibn Rushd). Nacque nel 1126. Appartenne al contesto Occidentale della filosofia araba: operò infatti a Cordova, in Spagna. Fu giudice presso una moschea e non insegnò mai filosofia. Fu un grande commentatore di Aristotele, che considerava un dono di Dio ed inarrivabile da tutti gli autori successivi. Criticò molto sia Avicenna (per Averroè il soggetto della metafisica non fu l’ente in quanto ente ma la teologia filosofica) che al-Ghazali. Di quest’ultimo criticò la distruzione della fiducia nelle possibilità cognitive umane, che al-Ghazali aveva effettuato negando i nessi di causa ed effetto, rendendo di fatto il mondo una realtà incomprensibile. Per Averroè, inoltre, la filosofia e la religione sono accordabili, anche se non perfettamente compatibili. Averroè risponde al quesito in qualità di giudice, in quanto l’Islam è innanzitutto una sharia, ovvero un insieme di norme da seguire finalizzato all’acquisizione della salvezza. Secondo il diritto islamico, poi, tutte le azioni umane si dividono in: atti leciti, atti prescritti (obbligatori o raccomandati); atti vietati. La filosofia, in quanto considerazione di tutto ciò che esiste in quanto realtà prodotta da dio, diventa prescritta come meritoria. Anche lo studio dei filosofi del passato – anche se non musulmani – è per Averroè fondamentale. Religione e filosofia conducono poi ad una stessa verità, quella rivelata da Dio con le Scritture (non esiste la doppia verità secondo cui alcune cose sono vere per la fede ed altre per la filosofia). In caso di contrasto ciò che va fatto è una reinterpretazione del testo coranico in modo che la verità combaci con quella della filosofia. Sono, per Averroè, solo i filosofi le persone in grado di leggere il significato profondo delle Scritture: né i semplici credenti, che si fermano ad una interpretazione letterale, né i teologi, che si oppongono alla filosofia dando origine ad allegorismi incontrollati (interpretazione delle Scritture a piacimento). Per Averroè quest’ultima classe non deve esistere mentre i credenti semplici vanno allontanati dall’interpretare le Scritture a livello profondo, dato che non possiedono gli strumenti intellettuali dei filosofi. Teoria dell’intelletto. Averroè rifletté sulla questione degli intelletti aristotelici: quello agente, che creava gli intelligibili, e quello potenziale, che era in grado di riceverli. Su quest’ultimo Aristotele non fece ben comprendere se si trattasse di un intelletto separato dal corpo o al suo interno senza subire modifiche. Alessandro di Afrodisia affermò che l’intelletto potenziale non possedeva una sua forma ontologica ma che lOMoARcPSD|118 880 32 Scaricato da Arianna Di Salle (arydisalle@gmail.com) stare attenti alle citazioni, comprendere che un autore può scegliere di semplificare il proprio discorso per renderlo fruibile. Inoltre Mosè propose una prova dell’esistenza di Dio attraverso i concetti di logica modale di contingenza e necessità. Il mondo è infatti contingente, ovvero dipende da altro; ciò da cui esso dipende, tuttavia, non potrà essere contingente a sua volta. Il mondo esige quindi una causa che sia necessaria ed unica, che non può che coincidere con Dio. Sull’eternità del mondo Mosè afferma che sia la tesi della temporalità sia quella dell’eternità della creazione sono indimostrabili (anche dopo aver interpretato opportunamente la Bibbia); la prima semmai è solo preferibile. Capitolo 17 - Il pensiero latino tra 11° e 12° secolo Nonostante la ripresa culturale durante l’epoca carolingia, lo studio della filosofia si ridusse alla dialettica, anche a causa della limitata circolazione dei testi. Nacquero diverse scuole nella cattedrali legate all’insegnamento della dialettica, come quelle a Parma, Ravenna, Reims, Chartres, Tours (Francia) Treviri, Colonia, Magonza (Germania), a York e nei Paesi Bassi. Tuttavia l’uso della dialettica nelle questioni teologiche continuò ad essere visto con sospetto, per esempio dal monaco benedettino Pier Damiani, che affermò che Dio è in grado di modificare il passato (altrimenti non sarebbe onnipotente) e che le astuzie della logica e della retorica non andrebbero neanche prese in considerazione in un dibattitto teologico. Vi furono dibattitti sulla controversia eucaristica (che riguarda la transustanziazione). Berengario di Tours sostenne che non comportava alcuna trasformazione reale: il pane e il vino possono essere solo intesi come simboli di Dio, filosoficamente; non possono cioè scomparire come sostanze al momento della consacrazione, lasciandone permanere i propri accidenti (colore, sapore, odore). Lanfranco di Pavia, invece, pur possedendo una preparazione dialettica, affermò che si trattava di un mistero della fede e in quanto tale che andasse indagato dal punto di vista sacro e non dialettico. Berengario fu condannato e costretto a gettare i propri libri sul rogo. Anselmo d’Aosta. Nacque ad Aosta nel 1033. Divenne arcivescovo a Canterbury e tentò di trovare un argomento che dimostrasse l’esistenza di Dio. Nel suo Monologion (soliloquio) tentò un primo argomento, che non lo soddisfece: esistendo diversi gradi ontologici delle creature (che sono più lOMoARcPSD|118 880 32 Scaricato da Arianna Di Salle (arydisalle@gmail.com) o meno buone ecc.) allora deve esserci anche un termine sommo che permetta di cogliere queste differenze. Il secondo e definitivo argomento invece verte sulla pensabilità di Dio: si pone una conversazione, tra Anselmo ed un interlocutore che non crede nell’esistenza di Dio. Anselmo afferma che “Dio è ciò di cui non si può pensare nulla di più grande”; convenendo in questo con l’interlocutore, quest’ultimo per pensare ciò deve avere il concetto di Dio nella mente. Dato questo e non riuscendo a trovare qualcosa di più grande di Dio stesso, l’interlocutore comprende che Dio non può esistere solo nella mente, giacché se così fosse allora vi sarebbe, nella realtà, qualcosa di più grande d’Egli. Per non cadere nella contraddizione, infine bisogna ammettere che ciò che di più grande esiste nella mente deve esistere allo stesso modo nella realtà. Questo fu l’esempio di una applicazione di argomenti razionali (in questo caso delle regole dialettiche) in materia di fede. Anselmo si spinse anche ad affermare che l’esistenza di Dio può forse rimanere in dubbio dal punto di vista della fede, ma di certo non per l’intelletto. Gaunilone di Marmoutier, un monaco benedettino contemporaneo di Anselmo, difese contro quest’ultimo l’autonomia della fede: l’esistenza di Dio è qualcosa in cui si deve credere e prescinde dalle dimostrazioni dell’intelletto. Mostrò anche altre obiezioni alla dimostrazione di Anselmo: 1. Il passaggio da pensiero a realtà non sussiste, dato che si può immaginare qualsiasi cosa ma questa non diviene reale (Anselmo rispose che l’argomento non si applica a qualsiasi cosa ma solo ai limiti estremi della pensabilità); 2. Il punto di partenza dell’argomento, ovvero la definizione di Dio come “ciò di cui non si può pensare nulla di più grande”; difatti nessuno dice che questa sia la definizione più adatta a Dio. Di solito infatti la conoscenza si basa o sul farne esperienza o sul darne una definizione quanto a genere e specie, vie che con Dio sono precluse. Nel 12° secolo furono effettuate, in Sicilia, traduzioni di testi filosofici arabi e greci. Furono create scuole presso le cattedrali di Chartres (cui si legano le figure di Bernardo, Guglielmo, Teodorico di Chartres) e di San Vittore. A Chartres fu in particolare studiata la cosmologia (su basi di tesi di Platone e di Seneca) come ricerca di cause nei processi naturali (cosa che rientrava comunque nell’ottica teologica in quanto era una dimostrazione della sapienza di Dio nella creazione del mondo). Nella scuola di San Vittore a lOMoARcPSD|118 880 32 Scaricato da Arianna Di Salle (arydisalle@gmail.com) Parigi (fondata da Guglielmo di Champeaux) furono coniugate le arti liberali/profane agli insegnamenti teologici. Ugo di San Vittore scrisse un manuale sull’arte di interpretare i testi sacri. Riccardo di San Vittore scrisse opere orientate in senso ascetico sulla contemplazione e su esercizi necessari a raggiungere la felicità. Furono ripresi alcuni temi di Boezio da alcuni commentatori: Gilberto di Poitiers riprese la distinzione tra “ciò che è” ed “essere”, affermando che il primo è la singola sostanza di un ente (un uomo) e il secondo la forma che fa sussistere (sussistenza = l’umanità). Ci furono anche prese di distanza dal rinnovato interesse nella filosofia: una fu quella di Bernardo di Chiaravalle, protagonista della riforma dei cistercensi, che cercò di far condannare Gilberto e poi Pietro Abelardo. Infine, notevole fu il movimento di coloro che applicarono alla scienza teologica i procedimenti della geometria (i cui primi teoremi sono appunto indimostrabili): questi furono Nicola di Amiens e Alano di Lilla. Pietro Abelardo. Nacque nel 1079 e fu precettore di una giovane donna di nome Eloisa, il quale amore proibito lo portò all’evirazione da parte dello zio di lei. Fu condannato un paio di volte per l’uso dei procedimenti logici nelle discussioni teologiche, si difese denunciando nei suoi interlocutori l’accusa di non comprendere i suoi discorsi. Egli introdusse una nuova soluzione relativa alla disputa sugli universali. Precedentemente se ne occuparono i vocalisti di Roscellino di Compiegne, i quali affermarono che gli universali non fossero che emissioni sonore, termini corrispondenti a cose, ovvero nulla di reale. Si pose anche il problema di spiegare come un’unica essenza potesse essere comune a più individui. Abelardo negò sia l’esistenza comune di una sola essenza, sia la dottrina delle emissioni sonore, in quanto deve necessariamente esistere invece una medesima definizione che riconosce qualcosa come facente parte di uno stesso status. LE forme comuni non sono quindi ontologiche, ma sono designate con un nome comune. Abelardo si occupò anche di reinterpretare la qualità morale di un’azione : ovvero, cosa costituisce la peccaminosità di un atto? Secondo lui non l’inclinazione nel compierlo, né le sue conseguenze, ma solamente l’intenzione con cui viene compiuto. Il vero peccato quindi nasce con l’etica dell’intenzione e non deriva dall’ignoranza o dall’inconsapevolezza. Innovativa, da questo punto di vista, fu anche la reinterpretazione della colpa di coloro che misero a morte Cristo: non commisero peccato proprio lOMoARcPSD|118 880 32 Scaricato da Arianna Di Salle (arydisalle@gmail.com) francescana; questo lo rese oggetto di culto dopo la morte, creando dei moti che le autorità repressero bruciando le sue opere e distruggendo la sua tomba. Nella seconda metà del 13° secolo molti francescani furono coinvolti in una polemica contro i domenicani, in particolare Guglielmo de la Mare compose un “Correttorio” in cui contestava 123 tesi di Tommaso. I domenicani, di tutta risposta, composero un “Correttorio del Correttorio”. Giovanni Peckam fu invece autor di trattati scientifici - di cui uno sull’ottica – e promulgò, una volta divenuto arcivescovo di Canterbury, due condanne contro le dottrine di Tommaso. Sul rapporto tra teologia e filosofia i francescani parigini ebbero un atteggiamento di critica e diffidenza, soprattutto nei confronti del rinnovato interesse per l’aristotelismo. Secondo Bonaventura un grande errore di Aristotele fu negare l’esistenza delle idee, negazione dalla quale sarebbero scaturite conseguenze anticristiane: 1. La negazione che esistano modelli esemplari contenuti in Dio, quindi Dio conosce solo sé stesso (come appunto il Dio “motore immobile” di Aristotele) e quindi non è né provvidente né presciente; 2. Tutto accade quindi per necessità, senza la consapevolezza di Dio; 3. L’eternità del mondo; 4. L’assenza di un primo uomo, quindi la presenza di un numero finito di anime, le quali pensando tutte con lo stesso intelletto (come affermato anche da Averroè) – 5. – non esiste l’immortalità personale né alcuna forma di ricompensa o punizione, che di conseguenza 6. rende la vita umana vana e abbandonata al disordine. Altra teoria aristotelica contestata fu l’idea che la conoscenza deriva dai sensi tramite l’astrazione; i francescani piuttosto sostennero la tesi dell’illuminazione interiore, mutuata da Agostino. I francescani sostennero anche la pluralità delle forme sostanziali dell’uomo, ritenendo appunto che in ogni uomo la corporeità sia indipendente dall’anima razionale (Aristotele sosteneva il contrario). Se avessero asserito che l’anima fosse l’unico modo in cui un copro si manifesta infatti avrebbero negato che essa può esistere indipendentemente da esso (come nel dopo- morte). Sostennero anche l’ilemorfismo universale: al di fuori di Dio tutto è composto da materia e forma; gli angeli sono composti da materia spirituale. Il mondo, poi, non è eterno: la creazione dal nulla è stata effettuata nel tempo. Sulle ragioni seminali (già postulate da Agostino) i francescani sono d’accordo: Dio ha prestabilito nella creazione un corso ordinato che si sarebbe dispiegato da sé. I parigini sostennero poi il primato della volontà sull’intelletto: se per Aristotele l’errore della volontà dipende da quello lOMoARcPSD|118 880 32 Scaricato da Arianna Di Salle (arydisalle@gmail.com) dell’intelletto, che non è stato in grado di proporre il bene da perseguire, per i francescani l’errore è sempre della volontà stessa, che è in grado di autodeterminarsi. La teologia, poi, diventa scienza pratica: ha la salvezza come finalità. Dio è, per i francescani, il primo oggetto conosciuto dall’intelletto; secondo Bonaventura egli si può contemplare: fuori di sé (nel creato, come insieme di segni); in sé (poiché ogni uomo è a sua immagine); sopra di sé (nel lume della verità – quest’ultimo si divide in contemplazione del puro essere e contemplazione del puro bene). Fissando lo sguardo sul “puro essere” si nota che è una prova dell’esistenza di Dio (il quale non è altro che il puro essere), ma che anche Dio è il primo oggetto che conosciamo: il nostro primo concetto appreso è infatti proprio quello di essere, quindi di Dio. In conclusione, i francescani non furono antiaristotelici, poiché si servirono delle dottrine di quest’ultimo, ma lo fecero utilizzando un atteggiamento agostiniano: il sapere profano non è che vana curiosità: acquista valore solo se posto al servizio della teologia. Francescani di Oxford. Nel 13° secolo le vicende dottrinali ad Oxford si legarono alla figura di Roberto Grossatesta, vescovo di Lincoln nel 1235. La direzione che impresse ai francescani fu diversa da quella di Parigi: egli si interessò di matematica, geometria, ottica, fisica e fu più aperto nei confronti del sapere aristotelico. Attorno a sé raggruppò molti traduttori per tradurre opere greche in latino. Sua fu la dottrina della luce: individuò infatti in quest’ultima la prima di tutte le cose create, capace di fissare i confini del mondo e di dare origine ai mondi celesti e a quello sublunare. Si trattò quindi di un tentativo di spiegare la creazione attraverso nozioni tratte dall’ottica, con una continuità tra mondo spirituale e mondo naturale. A Oxford fu attivo anche Ruggero Bacone, maestro alla facoltà di Arti di Parigi. Come Grossatesta, egli ritenne che un sapere che prescindeva dalla matematica, dall’ottica e da altre scienze naturali fosse destinato a rimanere vano. Si sforzò di elaborare (senza riuscirvi) un progetto di riforma del sapere, che prevede sette tappe: 1. L’eliminazione degli errori che fino a quel momento hanno impedito un corretto sviluppo del sapere (fare affidamento su autorità fragili e rimanere nella consuetudine), 2. La determinazione di un fine ultimo del sapere, ovvero Dio; 3. Lo studio delle lingue (ebraico, arabo, greco); 4. Lo studio delle discipline naturali e della matematica; 5. Lo studio dell’ottica; 6. Lo sviluppo di un nuovo metodo chiamato “scienza sperimentale”; 7. La filosofia morale come anch’essa fine ultimo del sapere. lOMoARcPSD|118 880 32 Scaricato da Arianna Di Salle (arydisalle@gmail.com) Questi scopi del sapere hanno una portata escatologica, riguardano cioè il destino dell’uomo. Questa riforma, secondo Bacone, sarebbe dovuta servire a difendersi dai nemici storici della cristianità - come i Saraceni – e dall’Anticristo, che si sarebbe presentato sottoforma di “falso sapere”. Questa deriva nelle “arti occulte” portò l’ordine francescano ad imporre delle restrizioni al pensiero di Bacone. Domenicani di Parigi. Una delle prima cattedre domenicane di teologia a Parigi fu assegnata nel 1228 a Giovanni di Saint-Gilles. Inizialmente l’ordine domenicano sembrò propenso a seguire la stessa strada di quello francescano, con restrizioni allo studio dei libri pagani e metodi di studio di matrice agostiniana. Le figure-chiave che permisero una svolta a questa deriva furono Alberto Magno e Tommaso d’Aquino, che durante il capitolo di Valenciennes del 1259 fecero approvare una serie di proposte per la riorganizzazione degli studi all’interno dell’ordine. Innanzitutto veniva stabilita l’assoluta centralità dello studio (in particolare della filosofia) nella vita dei frati. Anche gli orari delle funzioni religiose e le assegnazioni di altri incarichi erano subordinati allo studio. Si proposero poi delle lezioni all’aperto anche per chi non faceva parte dell’ordine. Alberto aveva già precedentemente ribadito la necessità degli studi filosofici: aveva infatti dato un corpus di commenti e digressioni a tutti gli scritti aristotelici, in modo che risultassero chiare le sue teorie ai latini. Scrisse testi sulle proprietà degli elementi, sulla natura dell’anima, sull’intelletto, sui minerali, sulla medicina, sull’alchimia; riuscì in gran parte ad onorare questo programma e per questo può essere considerato l’iniziatore dell’aristotelismo latino. Un altro dei concetti fondamentali di Alberto è la rivendicazione di un’autonomia e distinzione tra teologia e filosofia, in quanto una si fonda sulla rivelazione e l’altra sulla ragione. La filosofia infatti procede per dimostrazione, tentando di spiegare la natura tramite le sue cause intrinseche e di arrivare a Dio in questa vita. Viene affermata una impossibilità dell’intervento divino: il Dio filosofico agisce solo in modo immutabile e necessario. Sull’Universo Alberto fonde elementi aristotelici e neoplatonici: le intelligenze aristoteliche motrici sono ricolme delle forme intelligibili, dalle quali dipendono le cose sensibili. Tuttavia, le intelligenze non irradiano la forma nella materia, ma questa forma proviene dal movimento dei corpi celesti, che fa emergere nella materia quella forma intelligibile che già preconteneva in modo confuso ed indeterminato. Le intelligenze (che derivano dalla Causa Prima, lOMoARcPSD|118 880 32 Scaricato da Arianna Di Salle (arydisalle@gmail.com) cui si propose si sovvertire “i pericoli della filosofia moderna” tornando all’equilibrio tra fede e ragione proposto dalla Scolastica, quindi alle teorie di Tommaso. L’ente e l’essenza. Fu anche il titolo dell’introduzione al pensiero di Tommaso. Questa introduzione fu composta nel 1255 per soddisfare una richiesta dei confratelli. Tommaso enunciò gli scopi dello scritto: definire i termini di ente ed essenza; delineare l’essenza negli ambiti del reale (sostanze composte, sostanze semplici ed accidenti); esaminare l’essenza in rapporto agli universali (genere, specie, differenza). Tutto questo si può definire un lavoro attorno al lessico metafisico. Ente ed essenza sono considerati da Tommaso i concetti primi dell’intelletto: L’ente può essere inteso in due modi: ciò che indica la verità di una proposizione (accezione logica: è ente ciò che può essere l’oggetto di una proposizione affermativa, sia negazioni che privazioni) e ciò che si divide nei dieci predicamenti (ente reale = ciò che possiede un’essenza). L’ente possiede quindi un’estensione maggiore dell’essenza, e i due termini stanno in rapporto come il concreto all’astratto. L’essenza è il contenuto oggettivo dell’ente, ciò che gli dà una definizione: e per questo è stata anche definita come quiddità (da quid est? Ovvero “cos’è?”). Un ente che possiede l’essenza è divisibile nei 10 predicamenti. Le sostanze si dividono poi in semplici (prive di materia) e composte (con materia e forma, la cui essenza coincide con entrambe). Tommaso prende le distanze dall’ilemorfismo universale, secondo il quale le intelligenze (angeli) e le anime umane anche se separate dal corpo possiedono una corporeità. Per Tommaso esistono invece degli enti privi di materia, che sono le sostanze semplici: la loro essenza non è la materia ma la forma. Se per le sostanze composte l’individuazione dipende dalla materia, e le sostanze semplici ne sono prive, ne conseguirà che in queste ultime non esisterà una pluralità d’individui ma solo i specie. L’unità numerica di ogni angelo costituisce quindi una specie a sé, essendo indistinguibile dagli altri. Tommaso si pone poi il problema di rendere distinguibili le sostanze semplici come gli angeli dall’essenza divina. Per Tommaso prima ancora di materia e forma nelle creature è presente una commistione tra essere ed essenza. L’essere non è un predicato dell’essenza ma è qualcosa di diverso e che si aggiunge ad essa. Potrebbe esistere poi un ente la cui essenza è inconcepibile senza l’essere, poiché formata da esso stesso: e questo è l’ente puro e divino. Tutto ciò che è composto poi da essenza ed essere riceve il suo essere da lOMoARcPSD|118 880 32 Scaricato da Arianna Di Salle (arydisalle@gmail.com) altro, e dato che nulla è causa di se stesso, né si può procedere all’infinito nella serie delle cause, bisogna appunto arrestarsi alla Causa Prima (ovvero Dio). Tommaso definisce poi il rapporto tra essenza ed essere nelle creature: se l’essere è ricevuto da Dio allora ciò che riceve l’essere si trova in potenza rispetto ad Egli; quest’ultimo quindi fungerà da atto. Ai tre diversi livelli del reale corrispondono poi tre diversi modi di possedere un’essenza. In Dio essa coincide con l’essere. Dio possiede i suoi attributi e perfezioni ma non è collocabile in un genere; non per questo egli è indifferenziato (altrimenti si cadrebbe nel panteismo). Nelle sostanze incorporee l’essere non corrisponde all’essenza e per questo non è puro, ma partecipato. Ad essere assoluta è invece la loro essenza, poiché non coincide con la materia; non esistono quindi più individui all’interno della stessa specie (l’anima umana è un’eccezione poiché congiunta al corpo). Nelle sostanze composte, infine, sia essere che essenza sono limitate e finite: la forma esaurisce l’essenza. Il commento al “De trinitate” di Boezio. Scritto nel 1257; qui Tommaso si propone di impostare la scientificità della teologia affrontando problemi come: la conoscibilità di Dio, le modalità espositive del discorso teologico, rapporto tra filosofia e rivelazione, la distinzione tra teologia e scienze speculative. La conoscibilità di Dio. Tommaso prende innanzitutto le distanze dai sostenitori dell’illuminazione divina (secondo la quale la mente umana non può acquisire verità se non con l’intervento della luce divina) affermando che questa luce – l’intelletto agente – è stata posta in noi sin dal principio. La sua efficacia è tuttavia limitata e va potenziata con la fede. Il passo successivo è quello di verificare se l’intelletto possiede l’effettiva capacità di arrivare a conoscere Dio: la conoscenza infatti ha luogo tramite la forma stessa o tramite un suo simile, attuando poi un processo di astrazione a partire dai sensi. Dato che non è possibile fare esperienza di Dio non rimane quindi che conoscerlo (la sua esistenza e non la sua essenza) attraverso le forme dei suoi effetti. Nell’ultima parte del commento Tommaso si occupa della divisione delle filosofie/ scienze speculative. Per Tommaso i requisiti fondamentali perché qualcosa possa essere oggetto di speculazione sono l’immaterialità, la necessità e l’immobilità. La divisione di queste scienze va poi effettuata a partire dagli oggetti di cui si occupano: ciò che dipende dalla materia e dal movimento costituisce la fisica; gli oggetti che dipendono dalla materia secondo l’essere costituiscono la matematica lOMoARcPSD|118 880 32 Scaricato da Arianna Di Salle (arydisalle@gmail.com) e gli oggetti che non dipendono né dal movimento e né dalla materia costituiscono la scienza divina. Seguendo Aristotele, Tommaso deve poi convenire che la scienza divina o filosofia prima ha anche una dimensione ontologica. Per fare quadrare le due diverse distinzioni (teologia e ontologia/metafisica) egli distingue due diversi tipi di immaterialità: 1. Tale di non poter essere mai nella materia/movimento (teologia delle Scritture) e 2. Tale da poter essere considerata senza materia o movimento (l’ente in quanto ente – ontologia). La Somma contro i Gentili. Fu composta nel 1259. E’ un’opera dedicata alla confutazione degli errori dei pagani (tra cui i musulmani); tuttavia non appare come un’opera contro una specifica religione ma piuttosto come un modo per dimostrare come la verità cristiana coincida con le verità raggiunte tramite dimostrazione. Innanzitutto Tommaso stabilisce il nesso tra sapienza e verità: un sapiente è colui che rivolge la sua attenzione al fine ultimo dell’Universo, che è quello perseguito dalla Causa Prima (Dio), ovvero la considerazione della verità. In rapporto a Dio si possono poi desumere due diverse tipologie di verità: alcune, come l’esistenza di Dio, possono essere raggiunte dalla ragione naturale; altre – come la Trinità – la eccedono. La conoscenza infatti proviene dai sensi, che osservano gli effetti sensibili: questi possono mostrare l’esistenza di una causa ma non la natura intrinseca di questa. Tommaso non considera la reale esistenza di due verità (una per la fede, una per la ragione): esse sono comunque derivate da Dio; la differenza sta invece nell’accessibilità di una data verità. Il fatto che la fede si estenda anche dove dovrebbe prevalere l’analisi della ragione è un dono, che permette di ridurre il margine di dubbio e di non cadere nell’elitarismo filosofico. Al contrario di Averroè, per il quale la verità scientifica eccede quella teologica e la piega ad una diversa interpretazione dei testi sacri, per Tommaso accade il contrario, e la verità razionale risulta sempre un artificio dialettico o sofistico. La ragione può solo dimostrare argomenti probabili. Tommaso non disdegna però l’uso della filosofia nella teologia per alcuni scopi: dimostrarne alcuni presupposti (esistenza di Dio); ben esprimere alcune verità di fede e denunciare falsità/irrilevanza di ciò che si oppone alla fede. Sulla dottrina della felicità ultima dell’uomo Tommaso non ha dubbi: è Dio il fine ultimo di ogni creatura dotata di intelletto; allo stesso modo egli sarà motivo di felicità/beatitudine e il desiderio di conoscerlo sarà naturale. Sulla gerarchia delle facoltà umane Tommaso afferma il lOMoARcPSD|118 880 32 Scaricato da Arianna Di Salle (arydisalle@gmail.com) che Dio non può essere ridotto a sola causa del mondo (altrimenti sarebbe vincolato ad esso). Nella Somma, Tommaso procede poi nell’enucleare questioni quali la creazione, la distinzione tra le creature (angeli, uomini) e alcune linee antropologiche e la questione sulla conoscenza umana. Per Tommaso la conoscenza parte dai sensi; il materiale che viene fornito a questi viene elaborato dai sensi interni fino ad ottenere un’immagine corrispondente alla cosa esterna. Questa immagine è sì priva di alcune caratteristiche accidentali ed individuali, ma non costituisce comunque un concetto, che è invece privo di ogni caratteristica materiale. L’astrazione rappresenta la vera e propria “opera di privazione” delle qualità materiali, ed è effettuabile solo tramite l’intelletto agente, che illumina rendendo intelligibili le specie sensibili (che sono intelligibili solo in potenza). Per Tommaso l’intelletto agente non è separato ma appartiene all’anima umana naturalmente, come dono di Dio. E’ l’intelletto potenziale quello con cui pensiamo; esso conosce l’universale e non il singolare. Questo assunto sembrerebbe un controsenso, ma conferma che sono i sensi a conoscere il singolare, mentre l’intelletto può conoscere solo in modo astratto e universale. Si parla di realismo tomista, ovvero l’intelletto conosce il suo oggetto non direttamente ma attraverso delle mediazioni indispensabili. Nella Somma Tommaso parla poi del fine delle creature razionali, ovvero la beatitudine, e dei mezzi per raggiungerla. Per Tommaso la qualità morale dell’agire umano dipende dal modo in cui l’uomo si dispone in vista del suo fine. Dato che l’uomo agisce in modo volontario e consapevole, allora bisogna sempre guardare all’intenzione di un uomo prima di dare ai suoi atti valore morale. Inoltre, è sempre l’intelletto a presentare alla volontà il bene; a questo proposito egli distingue tra: sinderesi, ovvero conoscenza dei principi morali universali, e coscienza, ovvero applicazione di tali principi nella pratica. La prudenza è poi il mezzo che permette di formulare retti giudizi di coscienza. La legge è invece per Tommaso ciò che guida e sostiene l’agire umano nel dirigersi verso il suo fine; rappresenta un ordinamento razionale promulgato da chi ha cura della comunità. La legge è sempre donata da chi dirige il fine, e se questi è Dio allora è da Egli che la creatura razionale la riceverà. Ci sono poi diversi tipi di leggi: legge eterna (l’ordinamento dell’Universo come stabilito nella mente divina); legge naturale (identica alla legge eterna, ma vi rientra la creatura razionale in modo consapevole) e legge umana (si fonda in generale su quella naturale ma regola la vita civile in modo specifico). La legge umana stabilisce poi delle lOMoARcPSD|118 880 32 Scaricato da Arianna Di Salle (arydisalle@gmail.com) pene per chi si allontana da essa e vieta i vizi e crimini più pericolosi. Tommaso riflette poi sulle forme di governo, affermando che un regime risulta positivo se antepone il bene e gli interessi comuni a quelli particolari. Tommaso auspica alla monarchia e depreca la tirannia. L’unicità dell’intelletto, l’eternità del mondo, l’anima come composto. Nel 1268 Tommaso si trovava a Parigi; qui fiorivano i dibattiti tra Facoltà delle Arti (ormai di Filosofia) e di Teologia, a causa soprattutto della diffusione dell’aristotelismo radicale, ovvero scollegato dalle esigenze della fede cristiana. Contro i filosofi Tommaso negò la dottrina dell’unicità – per tutta l’umanità – dell’intelletto potenziale, sostenuta da Averroè. Quest’ultimo si era posto la questione di spiegarsi come fosse possibile che due uomini pensassero un medesimo concetto senza individualizzarlo: la sua soluzione fu rendere le conoscenza universali come collocate in un solo intelletto. Gli uomini partecipano al pensiero solo attraverso i fantasmi, ovvero immagini sensibili ricavate dalle sensazioni. Sui fantasmi agisce l’intelletto agente (separato) che permette l’astrazione dell’intelligibile, imprimendola nell’intelletto possibile. Tommaso si oppone del tutto ad Averroè, affermando che siamo noi a pensare, e non qualcosa che pensa “attraverso di noi”. Per Tommaso, poi, l’universalità dei contenuti non richiede l’unicità del soggetto pensante, in quanto oggetto dell’intelletto è l’essenza delle cose materiali, che rimane uguale a sé prescindendo da chi la pensa. Sull’eternità del mondo Tommaso asserisce che il mondo è stato creato nel tempo, tuttavia si domanda la legittimità della creazione eterna affermata dai filosofi. Se le cose sono state create dal nulla, infatti, non vuol dire necessariamente che siano state create dopo il nulla ma potrebbe voler dire che sono state tratte in modo eterno dal nulla. Per Tommaso poi, l’anima razionale è l’unica forma del composto umano: il corpo non ha una propria forma cui si aggiunge l’anima, ma è anche la stessa anima che si fa responsabile di ciò che riguarda il corpo. Anche quando l’anima si trova da Dio, infatti, se è scollegata dal corpo ne sente la mancanza e non raggiunge la piena felicità. Questa tesi fu condannata dai francescani, a Parigi e ad Oxford; alla morte di Tommaso furono scritti numerosi Correttori per le sue opere ritenute erronee. I maestri delle Facoltà di Filosofia invece lo ricordarono come uno di loro, poiché Tommaso difese sempre lo statuto della filosofia ed utilizzò teorie di Aristotele, Avicenna e dei neoplatonici. lOMoARcPSD|118 880 32 Scaricato da Arianna Di Salle (arydisalle@gmail.com) Capitolo 21 - La crisi del 1277 e il ripensamento della tradizione greco-araba Il 7 marzo 1277 il vescovo Tempier di Parigi condannò 219 proposizioni insegnate alla Facoltà delle Arti (di Filosofia), intervento originato da una lettera di papa Giovanni 21° in cui si sollecitava un’indagine presso Parigi. Tempier nominò una commissione di 16 maestri di Teologia e questi produssero un decreto dove, sotto minaccia di scomunica, si proibì di insegnare tutte le proposizioni del documento, poiché ritenute pericolose per la fede. Questa proibizione andò a privilegiare nella Facoltà di Filosofia una linea d’insegnamento di matrice agostiniana piuttosto che greco-araba o aristotelica. Anche le tesi di Tommaso d’Aquino furono affettate in qualche modo: per esempio veniva condannata la tesi che dichiarava l’impossibilità che esistano più individui all’interno di una stessa specie angelica. Tempier, difatti, aveva avviato anche un processo postumo contro Tommaso stesso – ritenuto troppo vicino ai maestri della Facoltà delle Arti -, poi boicottato dall’ordine domenicano. Anche Sigieri di Brabante e Boezio di Dacia furono toccati dalla condanna, ed anche se non condannati in prima persona lasciarono l’insegnamento a Parigi. Tempier condannò anche alcune tesi che con la filosofia poco avevano a che fare, come dei manuali di geomanzia e negromanzia, oltre che un trattato sull’amor cortese (extraconiugale). L’intervento di Tempier può quindi essere sembrato disorganico e semplicemente censorio: di fatti non scrisse trattati per confutare le tesi che condannava. Nonostante il disordine cui queste “censure” sono state promulgate, esistono delle motivazioni di fondo all’operato di Tempier. Innanzitutto egli intendeva condannare alcuni specifici pilastri della filosofia: l’idea che esiste una doppia verità, la possibile autonomia della filosofia (che non può, per Tempier, giungere a proprie conclusioni a partire dai propri principi – i maestri cristiani hanno quindi il dovere di mostrare la falsità delle tesi filosofiche, prima ancora che queste si pieghino alla maggiore autorevolezza della fede); la convinzione che la filosofia sia lo stile di vita più eccellente, tale da assicurare a chi lo pratica la felicità terrena. Tempier colpisce in particolare delle tesi filosofiche proprie della tradizione greco-araba aristotelica: che sia possibile conoscere Dio attraverso le sostanze separate già in questa vita; che Dio conosca solo se stesso; che da Dio dipenda solo un effetto – la prima intelligenza – e che quindi il resto sia prodotto tramite intermediari; che Dio non possa fare ciò che è impossibile secondo natura; che il mondo sia eterno; che la volontà sia lOMoARcPSD|118 880 32 Scaricato da Arianna Di Salle (arydisalle@gmail.com) Capitolo 22 - Filosofia e teologia nel 14° secolo Il 14° secolo è stato a lungo rappresentato come il periodo di crisi della Scolastica, in cui si consumò il crollo dell’equilibrio tra fede e ragione raggiunto nel secolo precedente. Tuttavia nel 13° secolo questo equilibrio non è mai stato raggiunto, come desunto anche dalle proibizioni dei testi aristotelici, dalle continue dispute tra maestri di teologia e di filosofia (oltre che tra francescani e domenicani), dalle condanne del 1277 e delle tesi di Tommaso d’Aquino. Durante il Trecento furono avanzate tesi innovative da grandi figure, ognuna con orientamenti dottrinali diversi: Giovanni Duns Scoto, Guglielmo di Ockham, Meister Eckhart, Dante Alighieri. Questo secolo non vede il tramonto dell’aristotelismo ma piuttosto della sua affermazione nelle Università. Dalla condanna del 1277 derivano poi diversi temi ricorrenti: l’importanza della contingenza, lo sviluppo di diversi approcci all’aristotelismo, la convinzione che il nostro mondo possegga una sfera più grande di possibilità rispetto a quelle realizzate. Da quest’ultima deriva la distinzione tra potenza ordinata di Dio (il modo in cui egli amministra il mondo che ha istituito al momento della creazione) e potenza assoluta (non dispiegata, che egli avrebbe potuto mettere in pratica). Si afferma quindi un carattere relativo nei confronti delle leggi naturali: la scienza non tratta solo la realtà così com’è ma immagina modelli esplicativi che spieghino ciò che è possibile oltre ciò che è osservabile. Muta quindi il concetto di verità, che non coincide con lo specchio della realtà ma con la coerenza logica. Grande importanza fu attribuita quindi anche alla dimensione linguistica. Un altro tema relativo a questo secolo è la riflessione sulla politica, dettata dalle circostanze di radicalizzazione delle tesi teocratiche (il potere deriva da Dio e quindi appartiene alla Chiesa) portata avanti da Bonifacio 8°. Durante il Trecento si diffusero in modo ancora più capillare le Università: furono fondate ad Avignone, Roma, Perugia, Pisa, Praga, Arezzo, Siena, Pavia, Cracovia, Vienna. Nel 1348 ci fu poi la piaga del secolo: la grande peste. Giovanni Duns Scoto. Nacque a Duns nel 1265. Fu francescano ad Oxford. Fu sospeso dall’attività didattica quando si rifiutò di sottoscrivere una petizione contro Bonifacio 8°. Morì nel 1308; la sua carriera di teologo è lOMoARcPSD|118 880 32 Scaricato da Arianna Di Salle (arydisalle@gmail.com) concentrata in circa 3 anni. Nella sua opera Ordinatio egli immaginò una controversia tra filosofi e teologi: i primi sostenevano la perfezione ed autosufficienza della natura, le cui leggi sono accessibili all’intelletto umano – è poi questa conoscenza che porta alla felicità; i secondi ponevano l’accento sulle imperfezioni della natura, rivendicando la necessità della grazia nel processo conoscitivo e di beatitudine. Scoto riconosce tuttavia che non si può imporre ai filosofi di far propria un tipo di analisi soprannaturale. Egli tenta quindi di stabilire una relazione tra le due discipline. Per i teologi vi è il bisogno di una beatitudine soprannaturale cui i filosofi non hanno accesso; tuttavia gli stessi teologi sono manchevoli di qualcosa, in quanto necessitano di definizioni e termini umani per dare una valenza scientifica alla materia. Sulla base di questo, Scoto distingue due tipi di teologia: la nostra, limitata ed imperfetta, e quella in senso assoluto, ovvero la scienza che Dio ha di sé. Allo stesso modo egli ipotizza la distinzione tra metafisica praticata dagli uomini, la quale necessita dell’esperienza dei sensi e si occupa dell’essenza dell’ente materiale, e metafisica in senso assoluto, che non è sottoposta ai limiti della conoscenza umana e in quanto tale non dovrebbe neanche distinguere tra enti materiali ed immateriali. La teologia potrebbe guadagnare dalla metafisica assoluta quel concetto di ente vasto che le manca, dando valenza scientifica ad ogni discorso su Dio. Scoto poi si scaglia contro la teoria dell’analogia dell’essere (di Enrico di Gand): se l’ente fosse un concetto derivato dalla confusione umana tra essere divino ed essere creaturale, la possibilità di un sapere teologico verrebbe meno. Bisogna quindi asserire una univocità del concetto di ente; è proprio questa che porterà a considerarlo da finito ad infinito. Scoto propone, a partire da questo, una prova dell’esistenza di Dio: l’ente può essere causato, esistono quindi delle serie essenzialmente ordinate di cause (ovvero che hanno bisogno di termini intermedi necessari per dispiegarsi). Prendendo in considerazione tre serie di cause, ovvero efficiente, finale ed eminente, si potrà asserire che ognuna di esse possiede un termine primo incausato ed incausabile, che esiste necessariamente già in atto poiché nulla si può portare da sé dal nulla all’essere. Poiché non può che esistere un solo ente necessario, per tutte e tre le serie di cause si potrà dire che questo è Dio. Dio quindi, per Scoto, esiste necessariamente ma non agisce necessariamente. La necessità sarebbe infatti per Dio una limitazione, poiché rappresenterebbe la mancanza di compiere scelte libere e volontarie. Tra le tesi aristoteliche che Scoto ribalta ve ne sono lOMoARcPSD|118 880 32 Scaricato da Arianna Di Salle (arydisalle@gmail.com) tre da citare: la volontà è scollegata dall’intelletto; l’individuazione non parte dalla materia ma dall’ecceità, una determinazione di natura formale che distingue due individui della stessa specie in quanto “questi” o “quelli” (il passaggio da specie ad individuo non indica quindi un depotenziamento ma un’aggiunta); la distinzione tra conoscenza intuitiva (si conoscono le cose in quanto presenti) ed astrattiva (prescinde dall’esistenza attuale per conoscere le cose). Scoto non intende l’astrazione in maniera aristotelica, ovvero come processo che spoglia i fantasmi delle componenti materiali, ma come la possibilità di conoscere le cose anche in loro assenza. Meister Eckhart. Nacque nel 1260. Ottenne la cattedra di teologia domenicana in Germania. Fu avviato un processo nei suoi confronti, che lo vide condannato in maniera postuma nel 1329 da papa Giovanni 22°. Eckhart fu sempre una figura difficilmente classificabile, a volte visto come un “mistico”. La sua opera più ambiziosa fu l’Opus tripartitum, in cui affiancò un testo di teologia assiomatica, una raccolta di questioni disputate ed una di sermoni. Una novità introdotta fu l’uso del volgare tedesco e l’esposizione di temi di spessore filosofico anche nei testi non dedicati agli specialisti, cosa che lo fece accusare di “turbare le menti semplici” con un linguaggio fuorviante. Uno dei suoi temi principali è quello dell’unione con Dio: non si tratta di un’estasi mistica, ma di un’unità che ha dei fondamenti ontologici nell’anima dell’uomo; in questa infatti si trova una parte increata che è l’immagine divina in noi. Il compito cui è chiamato l’uomo è quindi quello di trovare in sé la coincidenza tra il “proprio fondo” e Dio. Bisognerà attuare una doppia spoliazione: spogliare Dio di ciò che deriva dal suo rapporto con le creature, per giungere esclusivamente alla sua deità; spogliare se stessi della volontà e dei possessi sia materiali che intellettuali. Per Eckhart l’uomo davvero “povero” è colui che nulla sa e nulla vuole (neanche Dio). Dio è per Eckhart non un essere, ma puro pensiero, intelletto; difende quindi lo stato “predivino” di Dio. Guglielmo di Ockham. Nacque ad Ockham nel 1280. Insegnò teologia a Londra con i francescani. Fu convocato ad Avignone poiché alcune sue tesi furono accusate di eresia. Qui conobbe due alti funzionari francescani impegnati in una causa contro Giovanni 22° a proposito dell’interpretazione del precetto evangelico di povertà. Per il papa questo precetto non escludeva il possesso di beni materiali, mentre per i francescani i beni andavano solo usati e non posseduti. Ockham morì nel
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