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Manuale di Legislazione dei Beni Culturali di Alberto Roccella, Sintesi del corso di Legislazione Ambientale

Manuale di Legislazione dei Beni Culturali, Università di Parma

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

Caricato il 07/06/2019

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Scarica Manuale di Legislazione dei Beni Culturali di Alberto Roccella e più Sintesi del corso in PDF di Legislazione Ambientale solo su Docsity! Manuale di Legislazione dei Beni Culturali di Alberto Roccella Cap 1. Le origini della tutela 1.1 La Roma del Rinascimento La tutela del patrimonio artistico affonda le sue radici nel Rinascimento. Uno dei provvedimenti più antichi è la bolla Cum almam nostram urben, emanata il 28 Aprile 1462 da papa Pio II (Enea Silvio Piccolomini): la bolla imponeva il divieto di distruggere o danneggiare gli antichi edifici pubblici o i loro resti esistenti soprassuolo di Roma e nel suo territorio, anche se collocati in aree di proprietà privata, senza una licenza del romano pontefice. Nel 1474 la bolla Cum Provida di papa Sisto IV (Francesco della Rovere) vieta di spogliare le chiese dei marmi e degli antichi ornamenti. L’interesse dei pontefici per la conservazione del patrimonio monumentale si inquadrava nel disegno di conservazione delle tradizioni storiche della Roma imperiale diventata cristiana. Questo interesse si intensificava nella prima metà del XVII sec. con l’Editto sopra l’estrattioni e cave di Statue, Intagli, Medaglie, Iscrittioni di marmo, di mischio metallo, Oro, Argento, Gioie e cose simili antiche e moderne del 1646. Si introducevano così i primi fondamenti della legislazione di tutela: l’esportazione di beni, gli scavi archeologici erano assoggettati a licenza. I monumenti antichi e le opere d’arte del passato alimentavano un ricco mercato antiquario che spogliava la città di Roma. Essi erano protetti perché attiravano turismo, ma anche perché valevano a promuovere l’istruzione artistica. Lo Stato pontificio rinnovava quindi la protezione dei beni artistici con l’editto del cardinale Alessandro Albani (1733) e poi con l’editto del cardinale Silvio Valenti Gonzaga (1750). I pontefici, inoltre, erano grandi committenti per gli artisti del loro tempo e iniziavano la creazione delle collezioni poi ordinate nel museo pio-clementino realizzato dai papi Clemente XIV e Pio VI. Anche altri Stati italiani preunitari furono emanate disposizioni di tutela dei beni culturali, motivate dalle stesse esigenze e con le stesse finalità: 1. Proteggere il patrimonio 2. Assoggettare a controlli i nuovi scavi archeologici 3. Contrastare l’esportazione di opere d’arte Questi provvedimenti si collegano alle vicende culturali del tempo: - 1738  nel Regno di Napoli il re Carlo III di Borbone promosse a Ercolano gli scavi archeologici - 1748  iniziarono gli scavi archeologici anche a Pompei - 1757  l’Accademia Ercolanese, fondata sempre da Carlo III, pubblicò otto tomi con la documentazione degli scavi, contribuendo così alla consocenza del sito. - 1764  pubblicata a Dresda l’opera di Johann Joachim Winckelmann “Geschichte der Kunst des Altertums” ; l’opera, frutto del soggiorno a Roma, ebbe un ruolo fondamentale nel superamento degli studi di antiquaria di quell’epoca. 1.2 Napoleone e il saccheggio del patrimonio artistico italiano Fra il 1796 e il 1815 molte opere d’arte conservate a Roma furono oggetto di vicende che hanno costituito un tornante essenziale per il fondamento ideologico e culturale della legislazione di tutela dei beni culturali. Il 26 Ottobre 1795 si scioglieva in Francia la Convenzione e si insediava quindi il Direttorio che nel 1796 inviava in Italia Napoleone Bonaparte. Le campagne d’Italia di Napoleone investivano però anche l’Italia centrale e toccavano pesantemente il patrimonio artistico italiano. Inoltre già dal 1794 la Convenzione aveva espresso un orientamento politico volto ad assicurare alla Francia le opere d’arte di altri paesi. L’ideologia a questo comportamento emerge da un discorso politico dell’epoca: [ I frutti del genio rappresentano l’eredità della libertà, e questa eredità sarà sempre rispettata dall’esercito del popolo. [..] Per troppo tempo questi capolavori sono stati insudiciati dalla vista della schiavitù: nel cuore dei popoli liberi ora troveranno pace. Ma adesso queste opere immortali non sono più in terra straniera; oggi esse sono giunte nella patria delle arti e del genio, della libertà e dell’uguaglianza, nella Repubblica francese.] In occasione delle campagne d’Italia fu costituita una Commission pour la recherche des objets des Sciences et de l’Art. Questa Commissione organizzò la razzia di molte opere d’arte nei ducati di Modena e Para, nello Stato Pontificio e nella repubblica di Venezia. Il saccheggio bellico operato da Napoleone a Roma fu in seguito legittimato anche giuridicamente. Il trattato di Tolentino (17 febbraio 1797) sancì il diritto della Francia di trattenere cento opere a scelta. Le opere d’arte razziate furono trasportate a Parigi e per la loro entrata trionfale fu organizzata una cerimonia, sfilando davanti al popolo parigino e davanti al Direttorio e agli ambasciatori dei paesi esteri, dal campo di Marte all’Altare della Patria. Il patrimonio artistico si arricchì con le opere proveniente dall’Italia, le quali aumentarono le collezioni del museo del Louvre. 1.3 Le Lettres à Miranda di A.C. Quatremère de Quincy Il saccheggio di opere d’arte iniziato da Napoleone fin dal suo arrivo in Italia fu osteggiato nella stessa Francia. marmi antichi scolpiti, le iscrizioni, i mosaici, le urne e altri ornamenti. Il divieto di sottrarre gli ornamenti dalle chiese era corredato dalla precisazione che la facoltà di autorizzare la rimozione dalle chiede era sottratta ai rettori e amministratori delle chiese, compre i cardinali titolari; soltanto il cardinale camerlengo era investito di questa facoltà, in ogni caso previa esame e relazione dell’Ispettore e del Commissario. Lo stesso divieto era esteso ai quadri, per i quali era stabilito il divieto di rimozione, di alienazione, di restauro, di spostamento senza il permesso dell’Ispettore e del Commissario. Il chirografo Chiaramonti estese le limitazioni alle facoltà proprietarie anche alla decorazione architettonica antica e in genere a tutti i resti archeologici. La tecnica eseguita consisteva sempre in un divieto relativo, ossia nella sottoposizione degli interventi dei proprietari a un previo provvedimento. La competenza per questo permesso era rimessa a organi tecnici, l’Ispettore delle belle arti e il Commissario dell’antichità. Il chirografo prevedeva inoltre gli Assessori, posti sotto la totale dipendenza e subordinazione dell’Ispettore delle belle arti e del Commissario. Ad essi era concesso un onorario fisso di venti scudi al mese, col divieto però di ricevere qualunque cosa, anche a titolo di ricognizione e di gratificazione volontaria e con l’abolizione di qualunque esenzione a titolo di stima. Veniva dunque istituito un vero e proprio apparato amministrativo di tutela. Le violazioni delle prescrizioni contenute nel chirografo erano sanzionate gravemente: erano previste, a seconda dei casi, pene pecuniarie o corporali. Il chirografo di papa Pio VII fu redatto dall’abate Carlo Fea. Si ricorda, infine, che il 10 agosto 1802 papa Pio VII aveva conferito l’incarico di Ispettore generale delle belle arti e antichità ad Antonio Canova. Risultato dunque chiaramente l’ambiente culturale in cui nacque nello Stato pontificio la legislazione di tutela del patrimonio artistico: Winckelmann, Quatremère de Quincy, Canova, Fea furono le grandi personalità che posero le basi del sistema italiano di protezione dei beni culturali e ne tracciarono le linee essenziali, in seguito sviluppate e perfezionate ma non radicalmente mutate. Nello Stato pontificio la disciplina contenuta nel chirografo Chiaramonti del 1802 fu sviluppata dall’editto del cardinale Bartolomeo Pacca del 7 aprile 1820 il quale costituì il fondamento della legislazione italiana. 1.6. L’unità d’Italia e la collezione d’arte Nel 1871 fu disposto che continuassero ad avere vigore le leggi e i regolamenti speciali preunitari attinenti alla conservazione e agli oggetti d’arte ( l. 28 giugno 1871, n. 286 ). Nel territorio dello Stato pontificio continuarono dunque ad applicarsi il chirografo Chiaramonti del 1802 e l’editto del cardinale Pacca del 1820. La l. 286/1871 regolò anche le collezioni d’arte per le quali vale in special modo la tesi di Quatremère de Quincy che <<dividere è distruggere>>. Il problema della tutela delle collezioni d’arte si poneva in particolare per la città di Roma ove si erano storicamente formate molte altre importanti raccolte di antichità ed arte. L’integrità di alcune raccolte private di antichità e d’arte era stata protetta nel tempo dagli stessi proprietari mediante il fedecommesso. Il diritto dell’epoca consentiva infatti di istituire una pluralità di eredi in successione tra loro. L’autonomia di ciascun erede era limitata, giacché egli riceveva il bene fedecommissario con l’obbligo della sua trasmissione a successivi eredi già designati dal testamento. Erano vincolate da fedecommesso le raccolte: Albani, Barberini, Borghese, Corsini, Doria Pamphili, Ludovisi Boncompagni, Rospigliosi, Spada Veralli, Torlonia e Valentini. I fedecommessi costituivano una limitazione alla circolazione dei beni e furono quindi aboliti nel regno d’Italia dal codice civile del 1865. L’art. 24 stabilì inoltre lo scioglimento dei fedecommessi ordinati secondo le leggi anteriori, attribuendo la proprietà della metà dei beni al possessore a quella data e la proprietà dell’altra metà al primo o ai primi chiamati nati o concepiti alla stessa data, salvo l’usufrutto al possessore. Dopo la conquista di militare di Roma del 1870 il codice civile del 1865 fu esteso anche alla provincia di romana. Poco dopo la l. 28 giugno 1871, n. 286 stabilì che le gallerie, le biblioteche e le altre collezioni di arte o di antichità rimanessero indivise e inalienabili fra i chiamati alla risoluzione del fedecommesso, loro eredi o aventi causa. La speciale disciplina delle collezioni d’arte oggetto in precedenza di disposizioni testamentarie fedecommissarie fu corretta nel 1883, su iniziativa del Ministro della giustizia Giuseppe Zanardelli, al fine di rendere giuridicamente possibile la donazione allo Stato della galleria del principe Tommaso Corsini. La l. 8 luglio 1883, n. 1461 confermò l’indivisibilità delle raccolte già gravate da vincolo fedecommissario, ma consentì la loro alienazione in favore dello Stato, delle province, dei comuni, di istituti o altre enti morali laici nazionali. Le due leggi del 1871 e del 1883 sulla disciplina delle collezioni già oggetto di fedecommesso sono state fatte salve dalla legislazione successiva e sono quindi tuttora in vigore. 1.7. Tutela della proprietà e protezione del patrimonio artistico Dopo le leggi sulle collezioni già oggetto di fedecommesso furono emanate diverse leggi speciali per la tutela di singoli monumenti di proprietà pubblica, ma per lungo tempo mancò una legge generale di protezione del patrimonio artistico italiano di proprietà privata. Il lungo ritardo nell’emanazione può considerarsi legato proprio a una mediazione tra interessi pubblici e protezione della proprietà privata. Il codice civile del 1865 stabiliva nell’art. 436 che <<La proprietà è il diritto di godere e disporre delle cose nella maniera più assoluta, purché non se ne faccia un uso vietato dalle leggi e dai regolamenti>>. Il codice prevedeva dunque che le leggi potessero limitare le facoltà di uso delle cose; ma l’ideologia delle forze politiche allora dominanti propugnava la garanzia piena della proprietà e quindi ostacolava l’introduzione di leggi limitative delle facoltà proprietarie per la proprietà privata delle cose d’arte. In un dibattito parlamentare del 1877 su un progetto di legge dedicato alla Conservazione dei monumenti e degli oggetti d’arte e di antichità il senatore Gioacchino Pepoli rendeva esplicito questo scontro di interessi: io credo francamente che il miglioramento delle arti sia un efficace mezzo di civiltà, ma non mi perito di affermare in pari tempo che l’inalienabilità e sterilità di un cospicuo capitale paralizzano la vita economica di una nazione […] Se in nome dell’arte voi venite a domandarci di lasciar violare del fisco il domicilio; se in nome nell’arte voi volete spogliarci, punirci, perché i nostri antenati hanno amato, protetto, onorato l’arte, noi vi rispondiamo: pera la gloria artistica d’Italia, che non possano difenderla i vincoli che voi volete imporre. Per contro, trentadue anni più tardi il deputato Giovanni Rosadi, nella relazione al progetto di legge che divenne la l. 20 giugno 1909, n. 364, affermava: le tradizioni e tute le regole del nostro diritto ci consentono di ritenere che una cosa d’arte e di antichità, quanto abbia un singolare pregio, se può essere oggetto di proprietà privata, rappresenta un alto e generale interesse della nazione che si sovrappone all’esercizio del diritto privato; giacché l’opera d’arte, per quanto sia l’opera particolare di un uomo, il quale poté a sua volta cederla ad un altro, esprime un aspetto della vita intellettuale della società e riassume i più vari ed indefinibili elementi dell’ambiente sociale, non spuntando l’idea e la concezione dell’autore dal suo cervello soltanto, ma anche da quei vari e indefinibili elementi che non son suoi ma di tutti perché tutti, chi più e chi meno, hanno contribuito a formarli. Ond’è che non tanto il diritto di proprietà quanto l’esercizio di questo diritto, rispetto alle cose insigni d’arte, di storia, di letteratura, è di natura del tutto speciale, è un che sui generis, che d’incomincia a distinguere anche nel nome dalla proprietà comune. Queste parole del deputato Rosadi esprimono bene le ragioni di fondo di una parte importante della disciplina di tutela dei beni culturali. Solo all’inizio del XX sec. si affermò compiutamente un interesse pubblico alle cose di antichità e d’arte, come espressione della civiltà del paese. L’evoluzione della disciplina di tutela nel XVIII sec. e la sua affermazione nello Stato pontificio mostrano quanto risalgano nel tempo le radici culturali della posizione sostenuta da Rosadi. Si tratta di radici affermatesi nel Romanticismo, non solo in Italia, ma altresì nell’intera Europa. La speciale considerazione legislativa dei beni di interesse storico e artistico vale naturalmente anche per i beni di proprietà pubblica. Le ragioni ideali per la protezione di tutti i beni culturali rimangono quelle propugnate con passione da Quatremère de Quincy nel 1796, ma anche quelle sinteticamente e lucidamente enunciate nel 1802 nel chirografo di papa Pio VII: accrescere il decoro e la celebrità, favorire l’occupazione nel settore artistico, sostenere l’istruzione artistica e le nuove produzioni Ma la convenzione dell’Aja del 14 maggio 1954 rileva con chiarezza l’influsso delle posizioni sostenute da Quatremère de Quincy. L’ideale illuministico di una Repubblica delle arti e delle scienze è ripreso dal preambolo della convenzione, ove si afferma che i danni ai beni culturali costituiscono danni al patrimonio culturale dell’umanità intera, poiché ciascun popolo apporta il suo contributo alla cultura mondiale. Il preambolo prosegue affermando che la conservazione del patrimonio culturale ha grande importanza per tutti i popoli del mondo. L’ art. 1 della convenzione reca una definizione dei beni culturali ai fini della convenzione medesima. Sono considerati come beni culturali i beni inquadrabili in tre categorie: 1. I beni mobili o immobili  grande importanza per il patrimonio culturale dei popoli, come i monumenti di architettura, arte e storia, religiosi o laici, siti archeologici, opere d’arte, manoscritti, libri e altri oggetti di interesse artistico, storico o archeologico. 2. Gli edifici la cui destinazione principale ed effettiva è di conservare o di esporre i beni culturali mobili indicati alla lettera a) come i musei, grandi biblioteche, depositi di archivi ecc.. 3. I centri comprendenti un numero considerevole di beni culturali definiti alle lettere a) e b), detti “centri monumentali” L’ art. 2 chiarisce che la protezione dei beni culturali comporta la loro salvaguardia e il loro rispetto. Gli articoli successivi stabiliscono gli impegni delle parti contraenti. in base all’ art. 3 le parti contraenti si impegnano a predisporre la salvaguardia dei beni culturali situati sul loro territorio contro gli effetti prevedibili di un conflitto armato. Ma gli impegni centrali sono quelli fissati dall’art. 4 , dedicato al Rispetto dei beni culturali, secondo cui le parti si impegnano a rispettare i beni culturali situati sul proprio territorio, come su quello delle altre parti contraenti, astenendosi dall’utilizzazione di questi beni e astenendosi da ogni atto di ostilità nei loro confronti. La convenzione impone alle parti contraenti di limitare nei conflitti armati l’uso della violenza, salvo che ciò sia richiesto in modo imperativo da un’esigenza militare. La convenzione reca inoltre il superamento esplicito del principio di diritto internazionale bellico consuetudinario del jus predae. Il nuovo principio di diritto internazionale bellico convenzionale è stabilito dai paragrafi 3 e 4 dell’art.4 che vietano qualsiasi atto di vandalismo o di rappresaglia nei confronti dei beni culturali. La convenzione tende a proteggere i beni culturali in caso di conflitto armato mediante numerose altre disposizioni. Le forze di occupazione sono tenute a sostenere gli sforzi delle autorità nazionali competenti per assicurare la salvaguardia e la conservazione; esse sono tenute ad assicurare le misure di conservazione necessarie in stretta collaborazione con le medesime autorità (art.5). Le parti si impegnano a inculcare nel personale militare uno spirito di rispetto nei confronti delle culture e dei beni culturali di tutti i popoli (art. 7). Un numero limitato di rifugi può essere posto sotto protezione speciale, a condizione che questi rifugi si trovino a sufficiente distanza da obiettivi militari importanti e che non siano utilizzati a fini militari. La protezione speciale è accordata mediante l’iscrizione in uno speciale registro. In caso di conflitto i beni sotto speciale protezione devono essere muniti di un apposito segno distintivo e non possono costituire oggetto di atti ostili o di utilizzazione a fini militari. (art. 10). Anche i trasporti di beni culturali possono essere posti sotto speciale protezione la quale comporta l’esenzione da confisca o cattura. 2.3. I limiti della convenzione dell’Aja La convenzione dell’Aja presenta vari limiti. Innanzi tutto la convenzione nulla dispone circa distruzioni, furti e saccheggi di beni culturali in conflitti armati svoltisi prima della sua entrata in vigore. La convenzione dispone solo per il futuro e non ha alcuna disposizione che prenda in considerazione fatti precedenti alla sua stipula. La convenzione obbliga soltanto gli Stati che abbiano aderito ad essa (129 Stati). Per quanto concerne i soggetti obbligati, l’art. 19 della convenzione precisa che in caso di conflitto armato non di carattere internazionale ciascuna delle parti in conflitto è tenuta ad applicare almeno le disposizioni sul rispetto dei beni culturali. Nella storia recente però vi sono stati casi di ricorso alla violenza di tipo bellico, soprattutto vi sono stati casi di guerra civile interna a un paese originariamente unitario in cui si sono manifestate forze disgregatrici: le parti della guerra civile non si sono limitate nell’uso della violenza, anche nei confronti dei beni culturali. Infine occorre considerare che l’adesione alla convenzione non costituisce garanzia del suo rispetto. La convenzione costituisce veri e propri vincoli giuridici di diritto internazionale a carico degli Stati che l’abbiano sottoscritta e ratificata. Manca tuttavia un’istituzione o comunque un’autorità superiore ai singoli Stati che sia preposta a farla rispettare. Pertanto nel concreto svolgimento dei conflitti armati ogni parte decide se e in quale misura rispettare la convenzione. Però la parte che vi abbia interesse potrà lamentare la violazione della convenzione. La convenzione viene rispettata solo da chi possa tenere conseguenze politiche per la sua violazione al termine del conflitto bellico. Del resto le circostanze belliche non consentono sempre un’esatta valutazione della situazione. La distruzione di beni culturali può costituire strumento offensivo nel corso di conflitti distruttivi tra parti che non hanno la qualifica di Stati. In occasione dei conflitti bellici inoltre la vigilanza consueta si attenua e i beni culturali possono patire gravi danni anche per nazioni civili, come in effetti è avvenuto in Iraq, a seguito dell’invasione militare del 2003, allorché il museo archeologico di Baghdad è stato saccheggiato. Si può quindi concludere che la migliore difesa dei beni culturali dai rischi conseguenti ai conflitti armati è costituita proprio dalla prevenzione dei conflitti. Solo la prevenzione può difendere i beni culturali dal terrorismo. L’osservazione si lega alle azioni politico-mafiose che hanno colpito beni culturali insigni considerati obiettivi particolarmente significativi per indebolire lo Stato e il governo. 2.4. L’obelisco di Axum e la sua restituzione L’obelisco fu trafugato nel 1937, in occasione della guerra d’Africa, nella regione del Tigrai, e fu collocato a Roma, nella zona del Circo Massimo. Nel 1947 l’Italia si impegnò a restituire all’Etiopia l’obelisco di Axum mediante il trattato di pace. Il termine di diciotto mesi previsto da questo trattato non fu rispettato ma l’impegno alla restituzione fu confermato nel 1956. In questo accordo tra Italia e Etiopia, l’Italia riconosceva che l’obelisco era soggetto a restituzione e si impegnava a smontarlo e trasportarlo a Napoli entro il termine di sei mesi dall’entrata in vigore dell’accordo medesimo. Le spese dell’operazione erano poste a carico del Governo italiano, il quale avrebbe dovuto altresì prendere le misure necessarie per l’imbarco. Questo impegno è rimasto inadempiuto per vari decenni, mentre il sito di Axum, nel 1980 era iscritto nella lista dei beni culturali protetti dalla convenzione Unesco del 1972 come patrimonio dell’umanità. Le ragioni dell’inadempimento non erano solo di ordine finanziario, tecnico o amministrativo, ma anche di carattere politico: infatti vi era chi preferiva ispirarsi a Napoleone Bonaparte e chi a Quatremère de Quincy e Canova. L’impegno alla restituzione dell’obelisco è stato infine adempiuto nell’aprile 2005. 2.5. La convenzione sul patrimonio culturale mondiale I valori sostenuti da Quatremère de Quincy nel 1796, e i particolare il valore della solidarietà tra paesi diversi per la salvaguardia dei beni sono stati raccolti anche nella convenzione sulla protezione del patrimonio culturale e naturale mondiale, firmata a Parigi il 23 novembre 1972. Questa convenzione si ispira al principio che il patrimonio culturale appartiene a tutti i popoli del mondo. La convenzione è significativa perché essa costituisce un esempio delle recenti trasformazioni del diritto internazionale il quale, oltre a regolare i rapporti tra gli Stati, sempre più frequentemente regola interessi e valori non specifici di singoli paesi. Rientrano in questo quadro le convenzioni internazionali in tema di beni culturali, ma anche quelle sulla protezione dell’ambiente e quelle in tema di riconoscimento e protezione dei diritti fondamentali della persona umana. La convenzione ha avuto l’adesione di 193 Stati. e. concessione di prestiti a interessi ridotti o senza interessi, o che possano essere rimborsati a lungo termine f. concessione di sovvenzioni non rimborsabili, ma in casi eccezionali e appositamente motivati Il Comitato e lo Stato beneficiario definiscono inoltre nell’accordo che essi concludono le condizioni alle quali va eseguito il programma o progetto per il quale è fornita assistenza internazionale. La convenzione però stabilisce che il finanziamento dei lavori deve incombere solo parzialmente sulla comunità internazionale: la partecipazione finanziaria dello Stato che beneficia dell’assistenza internazionale deve costituire una parte sostanziale delle risorse. In relazione a questa convenzione si può osservare che il principio secondo cui ogni Stato ha l’obbligo di assicurare la conservazione del patrimonio culturale situato sul proprio territorio non è del tutto scontato, né di generale applicazione. Una clamorosa violazione di questo principio si è registrata in Afghanistan nel marzo 2001 allorché, per decisione del governo dei Taliban, furono distrutte con esplosivo e con l’artiglieria pesante nella valle di Bamyan due statue giganti di Buddha, distrutte soltanto per fanatismo integralista, in quanto espressione di una religione diversa da quella islamica. 2.6 La convenzione Unesco del 14 novembre 1970 L’Unesco aveva adottato a Parigi, il 14 novembre 1970, una convenzione concernente le misure da adottare per interdire e impedire l’illecita importazione, esportazione e trasferimento di proprietà dei beni culturali. Ai fini di questa convenzione sono considerati beni culturali i beni che sono designati da ciascuno Stato come importanti per l’archeologia, preistoria, storia, letteratura, arte e scienza e che appartengono a una delle categorie indicate nell’art. 1 della convenzione stessa. Le finalità della convenzione sono espresse nell’art. 2, secondo cui gli Stati riconoscono che l’importazione, l’esportazione e il trasferimento illeciti di proprietà di beni culturali costituiscono una delle cause principali di impoverimento del patrimonio culturale dei paesi d’origine di questi beni. La convenzione riguarda dunque i beni mobili. L’art. 3 precisa che sono considerati illeciti l’importazione, l’esportazione e il trasferimento di proprietà di beni culturali effettuati in contrasto con le disposizioni adottate dagli Stati partecipanti in virtù della convenzione medesima. Il valore che la convenzione intende proteggere è chiaramente quello della conservazione dei beni culturali. I beni culturali non sono merci qualsiasi, ma vi è un interesse comune a limitare e controllare il loro spostamento dal paese di origine. La convenzione non vieta in modo assoluto esportazione e importazione di beni culturali, ma prevede soltanto controlli pubblici. Secondo l’art. 5 al fine di assicurare la protezione dei propri beni culturali contro l’importazione, esportazione e la trasmissione di proprietà illecite, gli Stati parti della convenzione si impegnano a istituire sul proprio territorio uno o più servizi nazionali di tutela del patrimonio culturale, dotati di personale qualificato e in un numero sufficiente per assicurare in maniera efficace le funzioni indicate dalla stessa convenzione. Gli Stati si impegnano a costituire e tenere aggiornata la lista dei beni culturali importanti pubblici e privati, la cui esportazione costituirebbe un impoverimento sensibile del patrimonio culturale nazionale. Essi si impegnano inoltre a esercitare un’azione educativa al fine di risvegliare e sviluppare il rispetto verso il patrimonio culturale di tutti gli Stati. L’ art. 6 della convenzione prevede però anche impegni specifici per il controllo dell’esportazione. Infatti gli Stati si impegnano: a. Istituire un certificato appropriato mediante il quale lo Stato esportatore specifica che l’esportazione del bene o dei beni culturali in questione è autorizzata e tale certificato deve accompagnare i beni culturali regolarmente esportati b. Proibire l’esportazione dal proprio territorio dei beni culturali non accompagnati da questo certificato di esportazione c. Portare questa proibizione a conoscenza del pubblico L’art. 7 della convenzione prevede gli impegni per prevenire l’illecita importazione di beni culturali. In particolare gli Stati si impegnano: a. Adottare tutte le misure necessarie per impedire l’acquisizione, da parte di musei e altre istituzioni simili, di beni culturali provenienti da un altro Stato parte della convenzione, esportati illecitamente dopo l’entrata in vigore di quest’ultima b. Proibire l’importazione dei beni culturali rubati in un museo o un monumento pubblico civile o religioso, situati sul territorio di un altro Stato parte dopo l’entrata in vigore della convenzione c. Adottare misure appropriate per recuperare e restituire qualsiasi bene culturale rubato o importato illecitamente Secondo l’art. 10 della convenzione gli Stati si impegnano: a. Obbligare gli antiquari a tenere un registro che menzioni la provenienza di ciascun bene culturale, il nome e l’indirizzo del produttore, la descrizione e il prezzo di ciascun bene venduto, nonché a informare l’acquirente del bene culturale del divieto di esportazione di cui tale bene può essere oggetto b. Fare ogni sforzo per creare e sviluppare nel pubblico il sentimento del valore dei beni culturali Infine, in base all’art. 13 della convenzione gli Stati si impegnano: a. Impedire con tutti i mezzi adeguati i trasferimenti di proprietà di beni culturali diretti a favorire l’importazione o l’esportazione illecite di tali beni b. Fare in modo che i propri servizi competenti collaborino al fine di facilitare la restituzione c. Consentire un’azione di rivendicazione dei beni culturali perduti o rubati esercitata dal proprietario legittimo o in uso nome d. Riconoscere il diritto imprescindibile di ciascun Stato di classificare e dichiarare inalienabili alcuni beni culturali che per questo motivo non devono essere esportati Si rammenta da ultimo che in base all’art. 11 della convenzione vengono considerati come illeciti l’esportazione e il trasferimento di proprietà indebita di beni culturali risultanti direttamente o indirettamente dall’occupazione di un paese da parte di una potenza straniera. 2.7. La convenzione Unidroit Il valore del mantenimento dei beni culturali è affermato anche dalla convenzione sul ritorno internazionale dei beni culturali rubati o illecitamente esportati, adottata a Roma il 24 giugno 1995. Questa convenzione è stata promossa dall’Unidroit, l’Istituto internazionale per l’unificazione del diritto privato, e la sua finalità principale è la tutela degli acquirenti in buona fede di beni culturali rubati o illecitamente esportati. Il preambolo esprime chiaramente lo spirito e le finalità della convenzione adottata dagli Stati firmatari: Profondamente preoccupati per il traffico illecito dei beni culturali ed i danni irreparabili che spesso ne derivano per gli stessi beni, nonché per il patrimonio culturale delle comunità nazionali, tribali, autoctone o altre e per il patrimonio comune di tutti i popoli e deplorando in particolare il saccheggio dei siti archeologici e la conseguente perdita di insostituibili informazioni archeologiche, storiche e scientifiche [..] determinati a contribuire con efficacia alla lotta contro il traffico illecito dei beni culturali, stabilendo un corpus minimo di regole giuridiche comuni ai fini della restituzione e del ritorno dei beni culturali tra gli Stati contraenti, al fine di favorire la preservazione e la protezione del patrimonio culturale nell’interesse di tutti. La convenzione dell’Unidroit non è alternativa ad altre convenzioni internazionali. Essa non deroga agli strumenti internazionali da cui uno Stato contraente è giuridicamente vincolato a meno che una diversa dichiarazione sia resa dai singoli Stati vincolati da tali strumenti. La convenzione dell’Unidroit afferma all’art. 3 il principio che i beni culturali rubati devono sempre essere restituiti. La restituzione deve però essere richiesta entro un termine prefissato ( tre, cinquanta o sessantacinque anni, a seconda dei casi). Nel caso dei beni culturali illecitamente esportati, ne deve essere ordinato il ritorno quando lo Stato contraente dimostri che l’esportazione del bene comporta un significativo pregiudizio all’uno o all’altro dei seguenti interessi: L’azione dell’Unione è intesa a incoraggiare la cooperazione tra gli Stati membri e ad appoggiare e a integrare l’azione di questi ultimi anche nel settore della conservazione e salvaguardia del patrimonio culturale di importanza europea. 2.10. Comunità europea e circolazione dei beni culturali La Comunità economica europea ha influito anche sulla disciplina interna dei beni culturali. Il trattato di Roma intendeva realizzare un mercato comune, caratterizzato dalla libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali tra i paesi della Comunità. Il trattato quindi vietava i dazi doganali e le restrizioni quantitative all’entrata e all’uscita delle merci. Il trattato riconosceva la peculiarità dei beni culturali, lasciando impregiudicati i divieti o le restrizioni all’importazione, all’esportazione e al transito giustificati da motivi di protezione del patrimonio artistico, storico o archeologico nazionale, alla sola condizione che tali divieti o restrizioni non costituissero un mezzo di discriminazione arbitraria. Il trattato considerava il valore della salvaguardia del contesto per i beni culturali, anche se non si spingeva fino a farlo proprio. Esso non imponeva un divieto di circolazione dei beni culturali tra i singoli paesi della Comunità i quali però erano lasciati liberi di disporre in tal senso. Il trattato non poneva una definizione comunitaria dei beni culturali, cosicché ogni Stato poteva stabilire quali beni dovessero essere considerati beni culturali. La l. 1 giugno 1939, n. 1089, all’epoca in vigore, vietava l’esportazione delle cose di interesse artistico, storico, archeologico o etnografico. L’esportazione era gravata da una tassa progressiva sul valore delle cose nella misura dell’8% sulle prime ventimila lire. Questa tassa era stata introdotta dalle prime leggi di protezione del patrimonio culturale (l. 185/1902; l. 364/1909) e trovava la sua giustificazione razionale nel presupposto che i beni culturali normalmente vengono esportati in vista della loro alienazione. La tassa sull’esportazione colpiva tale presumibile aumento, assicurando all’erario risorse finanziarie utilizzabili per compensare il depauperamento del patrimonio culturale nazionale con l’acquisto di nuovi beni culturali da destinare alla fruizione pubblica. La Corte di giustizia delle Comunità europee, con sede in Lussemburgo, pronunciò nel 1968 un’importante sentenza circa la conformità al trattato della disciplina italiana della tassa di esportazione. La sentenza chiarì che, ai sensi dell’art. 9 del trattato di Roma, per merci si dovevano intendere i prodotti pecuniariamente valutabili e come tali atti a costituire oggetto di negozi commerciali. Secondo la sentenza, i beni culturali tutelati dalla legislazione italiana avevano in comune con questi ultimi la caratteristica di essere pecuniariamente valutabili e di poter quindi costituire oggetto di negozi commerciali. La sentenza riconobbe che l’art. 36 del trattato lasciava impregiudicati i divieti o restrizioni all’esportazione giustificati da motivi di protezione del patrimonio artistico. La Corte affermò tuttavia che tali divieti e restrizioni si distinguono nettamente dai dazi doganali e dalle tasse analoghe che si ripercuotono sulle condizioni economiche delle importazioni e delle esportazioni. Dazi doganali e tasse di effetto equivalente, secondo la sentenza, non avevano altro effetto che rendere più onerosa l’esportazione dei prodotti di cui trattasi, senza garantire il raggiungimento dello scopo cui mirava l’art. 36 del trattato. Gli Stati potevano dunque imporre divieti o restrizioni alle esportazioni di questi beni, individuati e qualificati secondo la legislazione nazionale, ma non potevano imporre dazi doganali o tasse di effetto equivalente. L’ordinamento italiano è stato adeguato alla sentenza della Corte di giustizia. Il d.l. 5 luglio 1972, n.288, convertirono in legge con la l. 8 agosto 1972, n.487, ha esentato dalla tassa le esportazioni di beni culturali verso altri paesi membri della Comunità. In seguito la l. 19 aprile 1990, n.84 ha stabilito che << I beni culturali, in quanto elementi costitutivi dell’identità culturale della nazione, per quanto riguarda il regime della circolazione, non sono assimilabili a merci>>. La disposizione è stata in seguito abrogata, ma ripresa dal codice dei beni culturali secondo cui <<Con riferimento al regime della circolazione internazionale, i beni costituenti il patrimonio culturale non sono assimilabili a marci>>. La portata di questa disposizione è tuttavia oscura tanto che per la loro uscita definitiva dal territorio nazionale è richiesta l’indicazione del loro valore venale. 2.11. Sviluppi recenti dell’ordinamento europeo Le disposizioni del trattato di Roma sulla circolazione dei beni culturali sono state confermate dall’Atto unico europeo, firmato a Lussemburgo il 17 febbraio 1986. Nelle disposizioni di quell’Atto nulla pregiudica il diritto degli Stati membri di adottare le misure che essi ritengano necessarie in materia di lotta contro il traffico delle opere d’arte e delle antichità. La realizzazione dell’Unione europea non ha dunque comportato il disconoscimento delle specificità dei patrimoni culturali nazionali e il tramonto dei principi e delle disposizioni più sopra esaminati. Dal 1° gennaio 1993 è stato però attuato in modo pieno il principio della libera circolazione delle merci all’interno della Comunità. Ormai è stato realizzato il mercato unico e quindi per la circolazione di merci all’interno della Comunità, ora dell’Unione, bisogna parlare di spedizione, mentre per esportazione si intende il trasferimento di merci fuori dall’Unione. Inoltre l’applicazione dell’accordo di Schengen del 14 giugno 1985 ha comportato la soppressione dei controlli alle frontiere interne tra i paesi aderenti all’accordo stesso. L’eliminazione dei controlli sistematici alle frontiere interne rende più difficile il controllo da parte dei singoli Stati sull’osservanza delle proprie disposizioni. La Comunità ha riconosciuto questo effetto pratico del mercato unico e ha adottato due misure di carattere compensativo, rispettivamente con un regolamento e con una direttiva. Si ricorda a questo proposito che i regolamenti comunitari (ora dell’Unione europea) sono obbligatori in tutti i loro elementi e direttamente applicabili in ciascuno degli Stati membri. Le direttive vincolano per quanto riguarda il risultato da raggiungere. Pertanto le direttive normalmente richiedono ai singoli Stati l’adozione di atti interni di esecuzione e attuazione che invece non sono necessari per i regolamenti. 2.12. L’esportazione di beni culturali fuori dall’Unione L’esportazione di beni culturali fuori dall’Unione europea è stata disciplinata dal regolamento n. 3911/92/Cee, modificato nel 1996, 2001 e 2003. A fini di razionalità e chiarezza, la disciplina è stata quindi codificata nel regolamento n. 116/2009/Ce, che definisce un regime di protezione dei beni culturali negli scambi tra i paesi dell’Unione europea e i paesi terzi. Questo regolamento ha oggetto o obiettivi diversi da quelli delle disposizioni del trattato CE che riguardano la libera circolazione delle merci tra i paesi aderenti all’Unione. Il regolamento riguarda i rapporti commerciali con i paesi terzi e ha soltanto la finalità di istituire un regime di controlli uniformi alle frontiere esterne dell’Unione. L’allegato definisce quindi le categorie di beni culturali che devono formare oggetto di particolare protezione negli scambi con i paesi terzi, ma senza pregiudicare la definizione dei beni da considerare come patrimonio nazionale. La particolare protezione prevista dal regolamento consente così di mantenere traccia delle esportazioni fuori dall’Unione dei beni culturali rientrati nelle categorie indicate dall’allegato, nell’interesse degli Stati in cui i beni si trovano. Il regime europeo consiste in una licenza di esportazione, rilasciata dal paese in cui il bene culturale da esportare si trovava lecitamente e definitivamente alla data del 1° gennaio 1993. Dopo questa data la licenza di esportazione può essere rilasciata da un’autorità competente dello Stato nel cui territorio il bene culturale si trova dopo essere stato lecitamente e definitivamente spedito da un alto Stato membro dell’Unione o dopo essere stato importato da un paese terzo o reimportato da un paese terzo in seguito a una spedizione lecita da uno Stato membro verso il suddetto paese terzo. Questa licenza di esportazione, chiamata anche autorizzazione, può essere rifiutata qualora i beni culturali in questione siano contemplati da una legislazione che tutela il patrimonio nazionale avente valore artistico, storico e archeologico nello Stato competente al suo rilascio. La licenza di esportazione è valida in tutta l’Unione. Ciascun Stato decide le sanzioni da applicare in caso di violazione. che rientrino nelle tipologie indicate all’articolo 822 del codice civile costituiscono il demanio culturale>> La categoria del demanio culturale rappresenta soltanto una sintesi verbale, felice ma non indicativa di un regime giuridico unitario. Per i beni culturali di proprietà pubblica rimane infatti sempre la distinzione del codice civile tra beni del demanio accidentale (immobili riconosciuti d’interesse storico, archeologico e artistico, raccolte di musei, pinacoteche degli archivi e delle biblioteche), ora denominati beni del demanio culturale, e ben del patrimonio indisponibile (cose d’interesse storico, archeologico, paletnologico e artistico, da chiunque e in qualunque modo ritrovate nel sottosuolo). Il codice dei beni culturali stabilisce inoltre che << I beni del demanio culturale non possono essere alienati, né formare oggetto di diritti a favore di terzi, se non nei modi previsti dal presente codice>>. Questa disposizione chiaramente riprendere l’art. 823, primo comma, c.c., secondo cui << I beni che fanno parte del demanio pubblico, sono inalienabili e non possono formare oggetto di diritti a favore di terzi, se non nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi che li riguardano>>. L’art. 823 c.c. stabilisce l’inalienabilità assoluta dei beni demaniali, mentre il codice dei beni culturali nelle disposizioni successive all’art. 53 regola in modo articolato i beni del demanio culturale e stabilisce i limiti e condizioni per la loro alienazione. Del resto anche i beni culturali del patrimonio indisponibile di proprietà pubblica sono alienabili, nei limiti per questi beni specificamente stabiliti dallo stesso codice. Beni di proprietà privata: il codice civile definisce all’art. 832 il contenuto del diritto di proprietà << Il proprietario ha diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo, entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico>>. Il codice civile prende poi in considerazione i beni d’interesse artistico, storico, archeologico o etnografico stabilendo che << Le cose di proprietà privata, immobili e mobili, che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnografico sono sottoposte alle disposizioni delle leggi speciali>>. In effetti le leggi speciali hanno configurato un regime speciale per la proprietà privata di beni culturali: il proprietario ha diritto di godere e di disporre di tali beni, ma entro i limiti e con l’osservanza di obblighi molto più penetranti di quelli stabiliti in linea generale dal codice civile. Il codice dei beni culturali peraltro distingue almeno parzialmente il regime dei beni culturali di proprietà privata da quello dei beni culturali di proprietà pubblica. Ulteriori distinzioni di regime sono poste a seconda che proprietari siano persone fisiche e persone giuridiche con private con scopo di lucro. L’espressione beni culturali costituisce dunque una sintesi verbale di uso corrente ma poco significativa, almeno giuridicamente. Non si può dire che vi siano regole giuridiche comuni pe tutti i beni culturali. In particolare, nonostante la riunificazione normativa operata già dal testo unico del 1999, gli archivi sono soggetti a regole particolari qui solo accennate dato che questa trattazione è destinata agli studenti dei corsi universitari in scienze dei beni culturali mentre la formazione degli archivisti è demandata a scuole apposite. 3.2. Beni culturali soggetti a tutela La parte prima del codice dei beni culturali (artt. 1-9) è dedicata a Disposizioni generali. La parte seconda è distinta in due titoli, di cui il titolo primo (artt. 9-100) dedicato alla Tutela, il titolo secondo (artt. 101-130) a Fruizione e valorizzazione. La parte terza (artt. 131-159), dedicata ai Beni paesaggistici. La parte quarta (artt. 160-181) è dedicata alle Sanzioni. la parte quinta (artt. 182-184) è dedicata a Disposizioni transitorie, abrogazioni ed entrate in vigore. Nell’ambito della parte prima l’art. 2, Patrimonio culturale, pone una nozione generale, stabilendo (co. 2) che << Sono beni culturali le cose immobili e mobili che, ai sensi degli articoli 10 e 11, presentano interesse artistico, storico, archeologico, etnografico, archivistico e bibliografico e le altre cose individuate dalla legge o in base alla legge quali testimonianze aventi valore di civiltà>> Questa nozione generale è ripresa poi dall’ art. 10, co. 1, secondo cui << Sono beni culturali le cose immobili e mobili appartenenti allo Stato, alle regioni, agli altri enti pubblici territoriali, nonché ad ogni altro ente ed istituto pubblico e a persone giuridiche private senza fine di lucro, ivi compresi gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti, che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico>>. Il successivo comma 2 stabilisce che << Sono inoltre beni culturali: a. Le raccolte di musei, pinacoteche, gallerie e altri luoghi espositivi dello Stato, delle regioni, degli altri enti pubblici territoriali, nonché di ogni altro ente ed istituto pubblico; b. Gli archivi e i singoli documenti dello Stato, delle regioni, degli altri enti pubblici territoriali, nonché di ogni altro ente ed istituto pubblico; c. Le raccolte librarie delle biblioteche dello Stato, delle regioni, degli altri enti pubblici territoriali, nonché di ogni altro ente e istituto pubblico, ad eccezione delle raccolte che assolvono alle funzioni delle biblioteche indicate all’articolo 47, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 24 luglio 1977, n. 616 La distinta menzione di queste tre categorie di beni è correlata al loro regime giuridico. Il comma 3 dell’art. 10 individua altre categorie di beni, considerati beni culturali soltanto a condizione che sia intervenuta la dichiarazione dell’interesse culturale prevista dall’art. 13. Ma la prima e fondamentale distinzione trova la sua origine storica nel chirografo Chiaramonti e nell’editto Pacca e riguarda la natura dei soggetti proprietari dei beni. Il comma 1 riguarda i beni appartenenti agli enti pubblici (Stato, regioni, altri enti pubblici territoriali, altri enti e istituti pubblici) e alle persone giuridiche private senza fine di lucro. Il comma 3 riguarda invece i beni appartenenti a soggetti diversi da quelli indicati al comma 1, quindi i beni appartenenti a persone fisiche o a persone giuridiche private con fine di lucro come le società commerciali. Il comma 4 dell’art. 10 specifica poi varie categorie di beni da considerarsi compresi tra le cose indicate al comma 1 e al comma 3, lett. A). Il codice protegge i beni culturali in modo molto ampio. Non è richiesto un collegamento con la storia del paese o con la sua cultura attuale: anche le opere eseguite all’estero da artisti non italiano sono protette se si trovano nel territorio dello Stato e presentano i caratteri indicati dal codice. Del pari sono tutelati gli oggetti dell’antichità ancorché non riferibili alla storia dell’attuale territorio italiano e delle popolazioni su di esso insediate. Non è richiesto dunque uno specifico collegamento con l’attuale cultura italiana. 3.3. Le opere d’arte contemporanea L’art. 10, co. 5, nel suo testo originario aveva stabilito che non fossero soggette alla disciplina di tutela posta dal titolo primo della parte seconda del codice le opere di autore vivente o la cui esecuzione non risalisse a oltre cinquant’anni. Veniva così confermato un principio introdotto già dall’art.1 della l.185/1902 e confermato anche dalla l. 364/1909, dalla l.1089/1939 e dal d.legs. 490/1999, ma che trova le sue radici nel chirografo Chiaramonti del 1° ottobre 1802. Come si è visto, dopo il saccheggio di Napoleone, papa Pio VII volle proteggere con limiti all’esportazione il patrimonio artistico di Roma. Allo stesso tempo, egli volle incoraggiare le nuove produzioni artistiche e il flusso dei giovani artisti che si recavano a Roma per trarre modello e ispirazione: a tal fine egli lasciò piena libertà di vendere ed esportare tutte le produzioni di autori viventi e anche di autori morti, purché non fossero di pregio. Il comma 5 dell’art. 10 è stato sostituito due volte, nel 2011 e nel 2017. Secondo il testo ora vigente << Salvo quanto disposto dagli articoli 64 e 178, non sono soggette alla disciplina del presente titolo le cose indicate al comma 1 e comma 3, lettere a) ed e), che siano opere di autore vivente o la cui esecuzione non risalga ad oltre settanta anni, nonché le cose indicate al comma 3, lettera d-bis, che siano opere di autore vivente o la cui esecuzione non risalga ad oltre cinquanta anni>>. Le opere di autori viventi sono dunque disciplina di tutela tenendo conto del tempo trascorso dalla loro esecuzione. I beni culturali di autori viventi o la cui esecuzione non risalga a oltre settanta anni sono dunque oggetti, al regime generale e comune della proprietà. Si deve considerare però la disciplina posta dalla l. 22 aprile 1941, n. 633, Protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio, la quale riguarda le opere dell’ingegno di carattere creativo che appartengono alla letteratura, alla musica, ma anche alle arti figurative, artistica e archeologica, appartenenti a fabbricerie, confraternite, a enti ecclesiastici fossero inalienabili. La l. 364/1909 stabilì poi che i fabbricieri, i parroci, i rettori di chiese presentassero all’amministrazione l’elenco descrittivo delle cose soggette alla legge di spettanza dell’ente da loro amministrato. Anche il successivo regolamento stabilì che le cose di cui l’art.1 della l.364/1909 fossero soggette, ai fini della legge medesima, alla tutela e alla vigilanza dell’amministrazione statale. L’art. 28 del regolamento stabilì inoltre che << nelle chiese, loro dipendenze ed altri edifici sacri, le cose d’arte e d’antichità dovranno essere liberamente visibili a tutti in ore a ciò determinate>>. Il Concordato dell’11 febbraio 1929 escluse ogni intervento dello Stato nella gestione dei beni appartenenti a istituti ecclesiastici o associazioni religiose, ma non innovò le norme in tema di patrimonio storico e artistico: la l.364/1909 rimase quindi applicabile agli enti ecclesiastici. Il trattato del Laterano riconobbe tuttavia alla Santa Sede la piena proprietà delle basiliche patriarcali di San Giovanni in Laterano, di Santa Maria Maggiore e di San Paolo. Queste basiliche e gli altri immobili indicati negli artt. 13,14,15 e 16 del trattato, tutti siti nel territorio dello Stato italiano, vennero esclusi da ogni ingerenza statale attribuendo alla Santa Sede la facoltà di dare loro << l’assetto che creda, senza bisogno di autorizzazioni o consensi da parte di autorità governativa, provinciali o comunali italiane, le quali possono all’uopo fare sicuro assegnamento sulle nobili tradizioni artistiche che vanta la Chiesa Cattolica>>. Rientrano fra questi immobili: il palazzo pontificio e la villa Barberini in Castel Gandolfo; gli edifici ex-conventuali in Roma annessi alla basilica dei Santi XII apostoli e alle chiesi di Sant’Andrea della Valle e di San Carlo ai Catinari; i palazzi della Dataria, della Cancelleria, di Propaganda Fide in piazza di Spagna, il palazzo del Sant’Offizio e quello del Vicariato; le sedi di alcuni istituti pontifici, come l’Università gregoriana, l’Istituto biblico, il Collegio lombardo. Salvo queste eccezioni, il patrimonio culturale di interesse religioso è pienamente soggetto alla legislazione italiana di protezione. Già l’art. 8 della l. 1089/1939 di modificazione del Concordato lateranense del 1929 ha ora stabilito che << La Santa Sede e la Repubblica italiana, nel rispettivo ordine, collaborano per la tutela del patrimonio storico ed artistico. Al fine di armonizzare l’applicazione della legge italiana con le esigenze di carattere religioso, gli organi competenti delle due Parti concorderanno opportune disposizioni per la salvaguardia, la valorizzazione e il godimento dei beni culturali d’interesse religioso appartenenti ad enti e istituzioni ecclesiastiche>>. Disposizioni analoghe si trovano anche nelle leggi che hanno fatto seguito alle intese intercorse con altre confessioni religiose diverse dalla Chiesa cattolica. La materia dei beni culturali non è però diventata una res mixta poiché permane integra la sovranità dello Stato e le opportune disposizioni da concordare tra le parti interessate sono soltanto attuative della legislazione statale e quindi subordinate alla stessa. Il codice dei beni culturali considera in più punti i beni degli enti ecclesiastici, pienamente soggetti alla disciplina di tutela: l’art. 1, co. 5, stabilisce che << I privati proprietari, possessori o detentori di beni appartenenti al patrimonio culturale, ivi compresi gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti, sono tenuti a garantirne la conservazione>>; si vedano poi gli artt. 10, co.1; 30, co.2; 56, co. 2, lett. B). L’art. 9, Beni culturali di interesse religioso, del codice ha però ripreso e sviluppato quanto già disposto dall’art. 8 della l.1089/1939 stabilendo (co.1) che << Per i beni culturali di interesse religioso appartenenti ad enti ed istituzioni della Chiesa cattolica o di altre confessioni religiose, il Ministero e, per quanto di competenza, le regioni provvedono, relativamente alle esigenze di culto, d’accordo con le rispettive autorità>>. Il comma 2 dello stesso articolo richiama inoltre l’osservanza dell’art. 12 dell’accordo di modificazione del Concordato lateranense e delle leggi emanate a seguito delle intese con le altre confessioni religiose. Emerge così la categoria dei beni culturali di interesse religioso come beni degli enti ecclesiastici che rientrano nel patrimonio storico e artistico nazionale e sono pienamente soggetti alla disciplina statale di tutela. Si precisa da ultimo che gli enti ecclesiastici della Chiesa cattolica sono una particolare categoria di persone giuridiche private: essi nascono nell’ordinamento giuridico della Chiesa cattolica. La l.222/1985 considera attività di religione o di culto quelle dirette all’esercizio del culto e alla cura delle anime, alla formazione del clero e dei religiosi, a scopi missionari, alla catechesi e all’educazione cristiana, mentre invece non attività di religione o di culto quelle di assistenza a beneficienza, istruzione, educazione e cultura e le attività commerciali o a scopo di lucro. Rientrano fra gli enti ecclesiastici la Conferenza episcopale italiana, le Regioni ecclesiastiche, le diocesi, le prelature territoriali, le abbazie territoriali, le parrocchie, ecc.. Gli enti ecclesiastici delle altre confessioni religiose, diverse dalla Chiesa cattolica, sono regolati dalle leggi che hanno fatto seguito alle relative intese con lo Stato. Ai fini della soggezione alla disciplina di tutela, il codice accomuna i beni culturali degli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti a quelli degli enti pubblici e delle persone giuridiche private senza fine di lucro (art. 10, co.1): si rinvia al par. 3.5. 3.5. La dichiarazione dell’interesse culturale I beni di proprietà di persone fisiche o di persone giuridiche private con scopo di lucro sono soggetti alla tutela soltanto se l’amministrazione abbia emanato e notificato al proprietario un provvedimento di dichiarazione dell’interesse culturale (artt. 10, co. 3, e 13). Per antica abitudine questo provvedimento viene chiamato comunemente notifica o vincolo. Il termine notifica non è esatto perché confonde due atti diversi: la dichiarazione dell’interesse è distinta dalla sua notificazione, che è compiuta tramite il servizio postale o mediante il messo comunale. Questa distinzione risulta invece ora molto netta nel codice (artt. 13 e 15), che pure nella rubrica dell’art. 128 adopera l’espressione, Notifiche effettuate a norma della legislazione precedete per riferirsi ai provvedimenti di dichiarazione dell’interesse artistico, storico o archeologico. Il termine vincolo potrebbe far pensare che il provvedimento contenga prescrizioni, limiti, obblighi e divieti. Esso, invece, non contiene nulla del genere giacché obblighi, limiti e divieti derivano direttamente dal codice. Il provvedimento reca soltanto la dichiarazione che il bene presenta interesse artistico (o storico, o archeologico o etnoantropologico) particolarmente importante e pertanto viene sottoposto alle disposizioni di tutela di legge. La l. 364/1909 richiese che le cose avessero importante interesse storico, archeologico, paletnologico o artistico. La l. 1089/1939 richiese che l’interesse artistico, storico, archeologico o etnografico fosse particolarmente importante. Questa maggiore intensità dell’interesse è stata confermata dal testo unico del 1999 e dal codice il quale all’art. 13, Dichiarazione dell’interesse culturale, ha stabilito che << La dichiarazione accerta la sussistenza, nella cosa che ne forma oggetto, dell’interesse richiesto dall’articolo 10, comma 3>>. A sua volta l’art.10, co. 3., stabilisce che sono beni culturali, quando sia intervenuta la dichiarazione prevista dall’art.13,: - le cose immobili e mobili che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico particolarmente importante, appartenenti a soggetti diversi da quelli indicati al comma 1 (Stato, regioni, altri enti pubblici territoriali, altri enti pubblici, persone giuridiche private senza fine di lucro, enti ecclesiastici civilmente riconosciuti); (lett. A) - gli archivi e i singoli documenti, appartenenti a privati, che rivestono interesse storico particolarmente importante; (lett. B) - le cose immobili e mobili a chiunque appartenenti, che rivestono un interesse particolarmente importante a causa del loro riferimento con la storia politica, militare, della letteratura, dell’arte, della scienza, della tecnica, dell’industria e della cultura in genere, ovvero quali testimonianze dell’identità e della storia delle istruzioni pubbliche, collettive o religiose (lett. D) l’interesse è diversamente graduato, e di intensità ancora maggiore, per la dichiarazione dell’interesse culturale relativa a tre categorie di beni: - le raccolte librarie, appartenenti a privati, di eccezionale interesse culturale; (lett. C) - le cose, a chiunque appartenenti, che presentano un interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico eccezionale per l’integrità e la completezza del patrimonio culturale della nazione ;(lett. D-BIS) - le collezioni o serie di oggetti, a chiunque appartenenti, che non siano ricomprese fra quelle indicate al comma 2 e che per rilevanza artistica, storica, La dichiarazione è notificata al proprietario, possessore o detentore tramite il messo comunale o a mezzo della posta, mediante raccomandata con avviso di ricevimento. Se si tratta di beni immobili la dichiarazione è trascritta nel pubblico registro immobiliare e ha efficacia nei confronti di ogni successivo proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo. Contro la dichiarazione dell’interesse culturale adottata dalla Commissione regionale per il patrimonio culturale è ammesso ricorso in via amministrativa per motivi di legittimità e di merito. Il ricorso è deciso, entro novanta giorni dalla sua presentazione, al direttore generale Archeologia, belle arti e paesaggio, sentito il parere di un organo consultivo, il Comitato tecnico-scientifico per l’Archeologia o quella per le belle arti (v. par. 4.7). Rimane poi sempre la possibilità del ricorso agli organi di giustizia amministrativa, solo per motivi di legittimità. 3.7. La verifica dell’interesse culturale I beni di proprietà dello Stato, delle Province, dei Comuni, degli altri enti pubblici e delle persone giuridiche private senza fine di lucro, compresi gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti, sono stati assoggettati alla tutela propria dei beni culturali secondo una disciplina diversa da quella concernente i beni di proprietà delle persone fisiche e delle persone giuridiche private con fine di lucro. Tutti gli enti pubblici e le persone giuridiche private senza fine di lucro erano tenuti a presentare all’amministrazione l’elenco descrittivo delle cose di loro spettanza di interesse artistico: l’obbligo trovava il suo antecedente nell’ art.11 del chirografo Chiaramonti del 1802, nell’ art.7 del cardinal Pacca e poi nell’ art.23 della l. 185/1902, art. 3 della l.364/1909, nell’art.4 della l.1089/1939. Quest’ultima legge aveva previsto inoltre una sanzione per l’omissione e la possibilità per l’amministrazione di disporre la compilazione dell’elenco e spese degli enti inadempienti. Tuttavia la presentazione dell’elenco non aveva carattere costitutivo: i beni culturali appartenenti a soggetti di questo tipo erano comunque sottoposti a tutela, anche se non compresi negli elenchi. Dunque i beni culturali degli enti pubblici e delle persone giuridiche private senza fine di lucro erano soggetti a tutela ope legis, senza bisogno di alcun provvedimento amministrativo, e anzi gli enti proprietari erano tenuti a denunciare al Ministero la loro proprietà. L’obbligo degli enti di presentare l’elenco è però rimasto assai largamente inevaso. D’altra parte era pacifico che i beni degli enti fossero soggetti a tutela non semplicemente perché risalenti a oltre cinquanta anni, ma perché di interesse storico o artistico. Secondo il regolamento di esecuzione della l. 364/1909 nei casi dubbi gli enti dovevano chiedere al Soprintendete di accertare se il bene raggiungesse l’interesse previsto dalla legge (r.d. 364/1913, art. 26). Ma già nel vigore della l. 364/1909 si cominciò a dichiarare l’importante interesse anche di beni appartenenti a enti pubblici ed enti morali. Il codice dei beni culturali ha ora modificato anche formalmente il sistema originario, senza sovvertirlo ma con una significativa novità. I beni dello Stato, delle Regioni, degli altri enti pubblici territoriali sono soggetti a tutela direttamente, sempre che siano opere di autore non più vivente e la loro esecuzione risalga a oltre settanta anni. (v. par. 3.2.). Questi beni però sono soggetti a verifica dell’interesse culturale, al fine di accertare la sussistenza del singolo bene dell’interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico. Gli enti proprietari hanno interesse a promuovere il procedimento di verifica al fine di sottrarre i beni alla protezione del codice e di poterne quindi disporre liberamente. Infatti, in caso di verifica con esito negativo, le cose sono escluse dall’applicazione delle disposizioni di tutela contenute nel titolo primo della parte seconda del codice (artt. 10-100). Se l’esito negativo della verifica riguarda cose appartenenti al demanio dello Stato, delle Regioni e degli altri enti pubblici territoriali, le cose stesse vengono anche sdemanializzate. Il codice precisa che: << la sdemanializzazione è disposta qualora non vi ostino altre regioni di pubblico interesse>>: questa precisazione non è superflua perché il bene potrebbe tuttavia ricadere nel demanio marittimo o nel demanio idrico o in altre categorie di beni del demanio accidentale. La verifica positiva dell’interesse culturale costituisce invece dichiarazione dell’interesse culturale (art. 12). In definitiva il codice prevede una tutela in via provvisoria, fino allo svolgimento della verifica. Per i beni degli enti pubblici e delle persone giuridiche private senza fine di lucro il sistema di tutela è quindi rovesciato rispetto a quello dei beni di proprietà delle persone fisiche e delle persone giuridiche con fine di lucro: i beni sono soggetti ope legis a tutela, ma gli enti proprietari possono promuovere il procedimento di verifica al fine di far accertare che in realtà il bene non presenta interesse culturale e quindi al fine di far fuoriuscire il bene dal regime di protezione del patrimonio culturale. Al Ministero spetta di stabilire indirizzi di carattere generale al fine di assicurare uniformità di valutazione. La verifica dell’interesse culturale è attribuita alla competenza della Commissione regionale per il patrimonio culturale. Il procedimento di verifica si conclude entro centoventi giorni dal ricevimento della richiesta. Al pari della dichiarazione dell’interesse culturale, la verifica con esito positivo è soggetta a pubblicità, mediante trascrizione nel pubblico mobili. Contro la verifica è ammesso ricorso amministrativo al direttore generale Archeologico, belle arti e paesaggio. Il ricorso potrà essere presentato nel caso di verifica positiva, mentre nel caso di verifica negativa il proprietario in linea di principio non dovrebbe avere interesse al ricorso. D’altra parte contro l’esito negativo della verifica non è previsto un ricorso nella forma dell’azione popolare. Oltre al ricorso amministrativo è possibili anche il ricorso agli organi di giustizia amministrativa, solo per motivi di legittimità. 3.8. Le collezioni Come si è ricordato al par. 1.6., è tuttora in vigore (art. 129 del codice) la speciale disciplina stabilita nel 1871 e modificata nel 1883 per le collezioni d’arte oggetto di disposizioni testamentarie fedecommissarie. Per le altre collezioni d’arte il codice civile vigente offre una tenue tutela all’art. 727, secondo cui ai fini della divisione ereditaria << si deve tuttavia evitare, per quanto è possibile, il frazionamento delle biblioteche, gallerie e collezioni che hanno importanza storica, scientifica o artistica>>. Questa disposizione offre soltanto un criterio direttivo e soltanto ai fini della divisione ereditaria, on per gli altri smembramenti che possono derivare dall’esercizio delle normali facoltà proprietarie. Il codice dei beni culturali contiene però una disciplina di protezione ben più intensa di quella del codice civile. Innanzi tutto le raccolte di musei, pinacoteche, gallerie e altri luoghi espositivi dello Stato, delle Regioni, degli altri enti pubblici territoriali sono beni culturali protetti direttamente per legge, senza bisogno di alcun atto amministrativo (art. 10, co. 2, lett. a): questi beni dunque non sono soggetti al procedimento di verifica dell’interesse culturale. Le altre collezioni o serie di oggetti, a chiunque appartenenti che rivestono come complesso un eccezionale interesse artistico o storico possono costituire oggetto di dichiarazione di interesse culturale (art. 10, co. 3, lett. e). Il provvedimento è sempre di competenza della Commissione regionale per il patrimonio culturale. La conseguenza legale della protezione diretta per legge o della dichiarazione dell’interesse culturale è che le collezioni, serie o raccolte non possono essere smembrate senza l’autorizzazione del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo. L’integrità delle collezioni d’arte è dunque protetta con un divieto relativo: il divieto di smembramento non è assoluto, ma è superabile se l’amministrazione di tutela rilascia il suo consenso. La competenza al rilascio dell’autorizzazione è attualmente attribuita alla Commissione regionale per il patrimonio culturale. L’interesse al godimento pubblico o alla fruizione dei beni culturali è ora protetto ancora più ampiamente dal codice. Infatti le collezioni vincolate possono essere assoggettate a visita da parte del pubblico per scopi culturali. Le modalità di visita sono concordate tra il proprietario e il Soprintendete che ne dà comunicazione al Comune e alla Città metropolitana nel cui territorio si trovano i beni (art. 104, co. 1, lett. b) e co.3) La possibilità di imporre questo obbligo è prevista anche per i beni immobili che rivestono un interesse eccezionale o quando i beni siano stati restaurati a carico totale o parziale dello Stato ovvero lo Stato abbia concesso contributi per il loro restauro. (art. 38; v. par. 3.21). I due principi della proprietà statale dei nuovi rinvenimenti archeologici e della corresponsione ai privati di un premio di rinvenimento sono stati confermati e sviluppati dalla legislazione successiva. Il vigente codice civile, del 1942, ha stabilito che << Tesoro è qualunque cosa mobile di pregio, nascosta o sotterrata, di cui nessuno può provare d’essere proprietario>> (art. 932, primo co.). il codice ha regolato i diritti del proprietario del fondo in cui il tesoro si trova e dello scopritore del tesoro (secondo co.), ma ha anche stabilito che << Per il ritrovamento degli oggetti d’interesse storico, archeologico, paletnologico, paleontologico e artistico, si osservano le disposizioni delle leggi speciali>> (terzo co.). Il rinvio era, all’epoca dell’emanazione del codice civile, alla l. 1089/1939, oggi è al codice dei beni culturali, il quale stabilisce che << Le cose indicate nell’articolo 10, da chiunque e in qualunque modo ritrovate nel sottosuolo o sui fondali marini, appartengono allo Stato e, a seconda che siano immobili o mobili, fanno parte del demanio o del patrimonio indisponibile, ai sensi degli articoli 822 e 826 del codice civile>> (art. 91, co. 1) La disciplina del tesoro posta dall’art. 932 del codice civile rimane applicabile ai beni culturali nel solo caso in cui essi siano ritrovati in luoghi diversi dal sottosuolo o da fondali marini. Si noti infine che il codice dei beni culturali prevede l’acquisto a titolo originario da parte dello Stato di tutti i beni culturali rinvenuti nel sottosuolo o nei fondali marini, non dei soli beni di interesse archeologico. Il codice stabilisce però che il Ministero corrisponda un premio, non superiore a un quarto del valore delle cose ritrovate, al proprietario dell’immobile dove è avvenuto il ritrovamento. Il proprietario dell’immobile che abbia anche ottenuto la concessione di ricerca o sia stato scopritore fortuito ha diritto a un premio non superiore alla metà del valore delle cose ritrovate. Il premio può essere corrisposto in denaro o mediante rilascio di parte delle cose ritrovate. Le disposizioni del codice sul diritto al premio di rinvenimento sono state tuttavia parzialmente sterilizzate in via amministrativa dal Ministero il quale subordina il rilascio delle concessioni di scavo alla rinuncia al premio di rinvenimento da parte del richiedente e di tutti gli operatori per i quali è richiesto il permesso di partecipazione allo scavo. Il Ministero richiede una esplicita dichiarazione di rinuncia al premio di rinvenimento da parte del proprietario ovvero una dichiarazione del concessionario di disponibilità a farsene carico pagando il premio direttamente all’avente diritto e obbligandosi a tenere indenne l’amministrazione da ogni conseguenza patrimoniale. Il principio dell’appartenenza allo Stato delle cose di interesse culturale rinvenute negli scavi comporta che la proprietà privata di beni archeologici sia oggi ristretta a un numero limitato di casi. Possono essere di proprietà privata: a. I beni ritrovati prima dell’entrata in vigore della l. 364/1909, che per prima dispose la proprietà statale dei nuovi rinvenimenti; b. I beni rilasciati dallo Stato come premio di rinvenimento in natura; c. I beni rinvenuti in scavi in aree di proprietà privata e rilasciati dall’amministrazione al proprietario dell’area in sostituzione dell’indennità di occupazione in denaro (v. par. 3.19); d. I beni acquisiti a seguito di alienazione da parte di amministrazioni pubbliche; e. I beni acquistati all’estero e importati in Italia. Il codice dei beni culturali prevede il delitto di impossessamento illecito di beni culturali appartenenti allo Stato ai sensi dell’art. 91. Però se il fatto è commesso da chi abbia ottenuto la concessione di ricerca archeologica prevista dall’ art. 89 dello stesso codice le pene sono la reclusione e la multa. La pena applicabile è ridotta da uno a due terzi qualora il colpevole fornisca una collaborazione incisiva o comunque di notevole rilevanza per il recupero dei beni illecitamente sottratti. Non è necessario che i beni siano stati qualificati come culturali da un provvedimento amministrativo, ma è sufficiente che il carattere culturale dei beni sia desumibile dalle loro caratteristiche, da accertare nel giudizio penale. Nel processo di questo reato l’onere della prova grava sull’accusa; non è possibile una sentenza di condanna fondata soltanto sull’assenza di prova della legittima provenienza dei beni. la giurisprudenza peraltro ha precisato che la regola è la proprietà dello Stato e quindi per la soluzione delle atre controversie l’onere della prova di un acquisto legittimo spetta all’interessato. Il problema si pone innanzi tutto per decidere la sorte dei materiali sequestrati ove il processo penale non si concluda con una sentenza di condanna. In tal caso occorre innanzi tutto esperire il procedimento di verifica dell’interesse culturale il cui eventuale esito negativo comporta la restituzione dei beni al privato; in caso di verifica positiva, il privato dovrà dimostrare di avere un titolo legittimo di proprietà dei beni. Secondo la giurisprudenza del complesso delle disposizioni contenute nel codice civile e nella legislazione speciale si ricava il principio generale della proprietà statale delle cose di interesse archeologico e delle eccezionalità delle ipotesi di dominio privato sugli stessi oggetti. Pertanto qualora l’amministrazione intenda rientrare in possesso di beni detenuti da soggetti privati, incombe al possessore l’onere della prova che i beni sono stati oggetto di scoperta e appropriazione anteriormente all’entrata in vigore della l. 364/1909, a partire dalla quale le cose ritrovate nel sottosuolo appartengono allo Stato; in alternativa il privato dovrà provare che sussiste un altor legittimo titolo di proprietà. 3.10 La protezione dei beni culturali. L’autorizzazione I beni culturali non possono essere distrutti, danneggiati o adibiti a usi non compatibili con il loro carattere storico o artistico. (art. 20) Essi inoltre non possono essere rimossi o demoliti, anche con successiva ricostruzione, senza un’autorizzazione (art. 21, co. 1, lett. a), attualmente di competenza della Commissione regionale. È ugualmente soggetto ad autorizzazione, di competenza sempre della Commissione regionale per il patrimonio culturale, lo spostamento, anche temporaneo, di beni culturali mobili (art. 21, co. 1, lett. b). Una disciplina più lieve è stabilita per il caso di spostamento di beni culturali dipendente dal mutamento di dimora (persone fisiche) e di sede (persone giuridiche) del detentore. Lo spostamento di questo tipo non è soggetto ad autorizzazione ma deve essere previamente denunciato al Soprintendente competente; occorre poi attendere trenta giorni dal ricevimento della denuncia, termine entro il quale il Soprintendente può prescrivere le misure che ritenga necessarie perché i beni non subiscano danno dal trasporto (art. 21, co. 2). Fuori da questi casi, le opere e i lavori di qualunque genere da eseguirsi sui beni culturali sono soggetti a preventiva autorizzazione del Soprintendente (Art. 21, co. 4). L’autorizzazione è resa su progetto o su descrizione tecnica dell’intervento. Se i lavori non iniziano entro cinque anni dal rilascio dell’autorizzazione, il Soprintendente può dettare prescrizioni ovvero integrare o variare quelle già date in relazione al mutare delle tecniche di conservazione (art. 21, co. 5). Nei casi in cui l’autorizzazione si riferisca a interventi in materia di edilizia pubblica e privata e non si debba ricorrere a una conferenza di servizi con altri amministrazioni né sia necessaria la valutazione di impatto ambientale, il codice fissa il termine per provvedere in centoventi giorni dalla ricezione della richiesta da parte della Soprintendenza (art. 22, co. 1). Qualora la Soprintendenza chieda chiarimenti o elementi integrativi di giudizio, il termine è sospeso fino al ricevimento della documentazione richiesta. Il termine è inoltre sospeso ove sorga l’esigenza di procedere ad accertamenti di natura tecnica, fino all’acquisizione delle risultanze degli accertamenti stessi e comunque per non più di trenta giorni. Solo nel caso di assoluta urgenza possono essere eseguiti i lavori provvisori indispensabili per evitare danni al bene tutelato; occorre tuttavia informare immediatamente la Soprintendenza e inviarle i progetti degli interventi definitivi per la necessaria autorizzazione (art. 27) Il Soprintendente può ordinare la sospensione dei lavori iniziati contro legge ovvero condotti in difformità dall’approvazione (art. 28, co. 1). L’ordine di sospensione dei lavori può essere emanato anche per beni di proprietà privata che non siano stati ancora dichiarati di interesse particolarmente importante. I Soprintendenti possono in ogni tempo procedere a ispezioni per accertare l’esistenza e lo stato di conservazione e custodia dei beni culturali (art. 19). La sanzioni penali previste per chi, senza autorizzazione, demolisce, rimuove, modifica, restaura ovvero esegue opere di qualunque genere su beni protetti sono l’arresto e l’ammenda. Le stesse pene si applicano a chi esegua lavori provvisori indispensabili per evitare danni notevoli ai beni tutelati senza darne immediata comunicazione alla Soprintendenza ovvero senza inviare i progetti dei lavori definitivi per l’autorizzazione (art. 169, co. 1, lett. c) provvedimenti amministrativi: si tratta di leggi-provvedimento sindacabili, soltanto dalla Corte costituzionale, non dal giudice amministrativo. L’art. 129 del codice, Provvedimenti legislativi particolari, stabilisce che <<Sono fatte salve le leggi aventi ad oggetto singole città o parti di esse, complessi architettonici, monumenti nazionali, siti od aree di interesse storico, artistico od archeologico>> (comma 1). Le leggi relative a Paestum e Pomposa sono pertanto ancora in vigore. 3.12 La circolazione dei beni culturali La circolazione dei beni culturali è disciplinata in modo differenziato a seconda della natura dei beni e del soggetto proprietario. Ne sono quindi esclusi i beni appartenenti allo Stato, enti pubblici territoriali, ad altri enti pubblici e a persone giuridiche private senza fine di lucro che abbiano costituito oggetto della procedura di verifica dell’interesse culturale conclusa con esito negativo: queste cose sono liberamente alienabili, ai fini del codice (art. 12, co.6.). Sono altresì esclusi dalla disciplina del codice sulle alienazioni i beni di proprietà di persone fisiche e di persone giuridiche private con fine di lucro che non abbiano ancora forato oggetto di dichiarazione dell’interesse culturale ai sensi dell’art. 13 del codice o dei corrispondenti provvedimenti previsti dalla legislazione antecedente. BENI DI ENTI PUBBLICI E DI PERSONE GIURIDCHE PRIVATE SENZA FINE DI LUCRO L’alienazione di beni culturali, in particolare immobili, di proprietà dello Stato e di altre amministrazioni pubbliche costituisce un problema politico molto dibattuto. Il testo unico del 1999 è stato parzialmente superato da un regolamento del 2000. Sono state poi approvate anche nuove norme di legge per la valorizzazione, gestione e alienazione dei beni immobili statali mediante il loro trasferimento, compresi quelli di particolare valore interesse artistico e storico, a una società, denominata <<Patrimonio dello Stato S.p.A.>>, le cui azioni sono state attribuite al Ministero dell’economia e commercio. In seguito questa società è stata sciolta e posta in liquidazione. L’alienazione dei beni culturali di proprietà dello Stato e degli enti pubblici territoriali è stata nuovamente e completamente disciplinata dal codice che ha distinto fra i beni inalienabili e beni alienabili previa autorizzazione. L’art. 54 ha stabilito 1. le categorie di beni inalienabili, comprendenti i beni rientranti nel demanio culturale e dunque appartenenti allo Stato, Regioni e agli altri enti pubblici territoriali (co. 1): - Immobili e aree di interesse archeologico; - Immobili dichiarati monumenti nazionali a termini della normativa all’epoca vigente; - Raccolte di musei, pinacoteche, gallerie e biblioteche; - Archivi; - Immobili dichiarati di interesse particolarmente importante a causa del loro riferimento con la storia politica, militare, letteratura, arte, scienza, tecnica, industria e della cultura in genere: - Le cose mobili opera di autore vivente o la cui esecuzione non risalga ad oltre settanta anni, se incluse in raccolte dello Stato e degli enti pubblici territoriali. 2. l’inalienabilità delle cose di interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico appartenenti a enti pubblici e a persone giuridiche private senza fine di lucro, compresi gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti. Sono inalienabili i singoli documenti appartenenti allo Stato e agli enti pubblici territoriali nonché gli archivi e i singoli documenti degli altri enti pubblici. I beni inalienabili possono comunque essere oggetto di trasferimento tra lo Stato e gli enti pubblici territoriali (art. 54, co. 3). Gli altri beni culturali immobili dello Stato e degli enti territoriali, quindi del demanio culturale, sono alienabili previa autorizzazione del Ministero (art. 55), la quale non può essere rilasciata se la destinazione d’uso proposta sia suscettibile di arrecare pregiudizio alla conservazione e fruizione pubblica. A tal fine la richiesta di autorizzazione ad alienare è corredata: a. dalla indicazione della destinazione d’uso in atto; b. dal programma delle misure necessarie ad assicurare la conservazione del bene; c. dall’indicazione degli obiettivi di valorizzazione che si intendono perseguire con l’alienazione del bene e delle modalità e dei tempi previsti per il loro conseguimento; d. dall’indicazione della destinazione d’uso prevista, anche in funzione degli obiettivi di valorizzazione da conseguire; e. dalle modalità di fruizione pubblica del bene, anche in rapporto con la situazione conseguente alle precedenti destinazioni d’uso. L’autorizzazione è rilasciata su parere del Soprintendente, sentita la Regioni e gli altri enti pubblici territoriali interessati. Il provvedimento detta: - prescrizioni e condizioni in ordine alle misure di conservazione programmate; - stabilisce le condizioni di fruizione pubblica del bene; - congruità delle modalità e dei tempi previsti per il conseguimento degli obiettivi di valorizzazione indicati nella richiesta. L’autorizzazione non può essere rilasciata qualora la destinazione d’uso proposta sia suscettibile di arrecare pregiudizio alla conservazione e fruizione pubblica del bene. Il Ministero ha facoltà di indicare destinazioni d’uso ritenute compatibili con il carattere del bene e con le esigenze della sua conservazione (co. 3-bis e 3-ter). Le prescrizioni e condizioni contenute nell’autorizzazione sono riportate nell’atto di alienazione e costituiscono oggetto di apposita clausola risolutiva espressa. Il soprintendente comunica la inadempienza accertate alle amministrazioni alienati ai fini della risoluzione di diritto all’alienazione (art. 55-bis). L’art. 56 del codice disciplina l’alienazione degli altri beni culturali diversi da quelli considerati agli artt. 54 e 55, dello Stato, degli enti pubblici territoriali, delle persone giuridiche private senza fine di lucro, compresi gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti. Si è già visto che questi beni sono inalienabili fino alla conclusione del procedimento di verifica dell’interesse culturale (art. 54, co. 2); se il procedimento si conclude con esito positivo i beni sono alienabili previa autorizzazione del Ministero (art. 56, co. 1). L’autorizzazione è richiesta altresì: - nel caso di vendita di collezioni o serie di oggetti e di raccolte librarie da parte di enti pubblici diversi da quelli territoriali o di persone giuridiche private senza fine di lucro; - nel caso di vendita, da parte di persone giuridiche private senza fine di lucro, ivi compresi gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti, di archivi o di singoli documenti (art. 56, co. 2). L’autorizzazione può essere rilasciata a condizione che dall’alienazione non derivi danno alla conservazione e alla pubblica fruizione dei beni; per le alienazioni dello Stato e degli enti pubblici territoriali è richiesto che i beni non abbiano interesse per le raccolte pubbliche (art. 56, co. 4 e 4-bis). Le alienazioni in favore dello Stato non sono soggette ad autorizzazione (art. 57). Infine il Ministero può autorizzare la permuta dei beni la cui alienazione è soggetta ad autorizzazione qualora dalla permuta derivi un incremento del patrimonio culturale ovvero l’arricchimento delle pubbliche raccolte (art. 58). Le autorizzazioni all’alienazione e alla permuta sono attribuite alla competenza della Commissione regionale per il patrimonio culturale. La sanzione per le alienazioni, le convenzioni e gli atti giuridici in genere compiuti contro i divieti illustrati è costituita dalla nullità degli atti stessi, i quali pertanto non producono alcun effetto (art. 164). BENI DI PERSONE FISICHE E DI PERSONE GIURIDICHE PRIVATE CON FINE DI LUCRO L’alienazione dei beni culturali di persone fisiche e di persone giuridiche private con fine di lucro non è soggetta ad autorizzazione. L’art. 59 stabilisce che però che devono essere denunciati al Ministero tutti gli atti che trasferiscono, in tutto o in parte, a qualsiasi titolo, la proprietà di beni culturali. Devono essere denunciati al Ministero gli atti che trasferiscono la detenzione di beni culturali mobili; questo secondo obbligo di denuncia è volto a facilitare l’esercizio della vigilanza (art. 18) e le ispezioni del Soprintendente (art. 19). Il primo obbligo di denuncia riguarda tutti i trasferimenti di proprietà, quindi non solo le alienazioni, ma anche i trasferimenti in caso di successione per causa di morte. La denuncia è effettuata entro trenta giorni al Soprintendente e deve contenere i dati identificativi delle parti e dei beni, nonché l’indicazione del luogo, della natura e delle condizioni dell’atto del trasferimento, del domicilio in Italia delle parti. culturale, perché tali ultimi beni, sono gravati da un divieto assoluto di uscita definitiva dal territorio nazionale; b. Gli archivi e i singoli documenti, appartenenti a privati, che presentino interesse culturale. Anche per questi beni è opportuno precisare che non si deve trattare di archivi e documenti i quali siano dichiarati di interesse storico particolarmente importante, poiché tali beni sono gravati da un divieto assoluto di uscita definitiva dal territorio nazionale; c. I beni, a chiunque appartenenti, i quali rientrino nelle categorie indicate dall’art. 11, co. 1, lettere f, g e h, e dunque: c1) -> fotografie con relativi negativi e matrici, esemplari di opere cinematografiche, audiovisive, documentazioni di manifestazioni, sonore o verbali, la cui produzione risalga a oltre venticinque anni; c2) –> i messi di trasporto aventi più di settantacinque anni; c3) -> i beni e gli strumenti di interesse per la storia della scienza e della tecnica, aventi più di cinquanta anni. L’art. 65 si conclude coerentemente (co. 4) con l’indicazione dei beni la cui uscita definitiva non è soggetta ad autorizzazione, distinti in due categorie: 1. Le opere di pittura, scultura, grafica e qualsiasi oggetto d’arte di autore vivente o la cui esecuzione non risalga ad oltre settanta anni (art. 10, co. 5); 2. Le cose che presentino interesse culturale, siano opera di autore vivente e la cui esecuzione risalga a oltre settanta anni, con valore inferiore a 13.500 euro. Per questi beni l’interessato ha l’onere di comprovare al competente ufficio di esportazione, mediante dichiarazione resa ai sensi della disciplina sulla documentazione amministrativa. L’ufficio di esportazione qualora reputi che le cose possano rientrare tra quelle che presentano un interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico eccezionale per l’integrità e la completezza del patrimonio culturale della nazione, avvia il procedimento di dichiarazione di interesse culturale, che si conclude entro sessanta giorni dalla data di presentazione della dichiarazione (co. 4-bis). Secondo l’art. 68 chi intenda far uscire in via definitiva dal territorio della Repubblica beni culturali soggetti a divieto relativo deve farne denuncia e presentarli agli uffici di esportazione del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, indicando contestualmente e per ciascuno di essi il valore venale, al fine di ottenere l’attestato di libera circolazione. La denominazione di attestato non deve trarre in inganno: l’attestato di libera circolazione non è un semplice certificato, ma una vera autorizzazione amministrativa all’uscita definitiva del bene dal territorio nazionale. L’attestato di libera circolazione corrisponde dunque a un certificato previsto dall’art. 6 della convenzione Unesco del 14 novembre 1970 (v. par. 2.6.) L’ufficio di esportazione del Ministero acquisisce dagli altri uffici dello stesso Ministero ogni elemento conoscitivo utile in ordine agli oggetti presentati per l’uscita definitiva. Lo stesso ufficio, accertata la congruità del valore indicato, entro quaranta giorni rilascia o nega l’attestato di libera circolazione attenendosi a indirizzi di carattere generale stabiliti con decreto del Ministero sentito il competente organo consultivo. Contro il diniego di rilascio dell’attestato è ammesso ricorso amministrativo, per motivi di legittimità e di merito al direttore generale Archeologia, belle arti e paesaggio il quale decide entro novanta giorni sentito il competente organo consultivo (art. 69). L’attestato di libera circolazione ha validità quinquennale. Il diniego di rilascio dell’attestato comporta l’avvio del procedimento di dichiarazione dell’interesse culturale; a questo fine sono comunicati all’interessato i contenuti propri della comunicazione di avvio del procedimento di dichiarazione dell’interesse culturale (art. 68, co. 6). Questa previsione è coerente dal punto di vista sistematico: i beni dichiarati di interesse culturale non posso uscire definitivamente dal territorio nazionale; se i beni che non siano stati dichiarati di interesse culturale non possono uscire, a giudizio dell’ufficio di esportazione (ora la Soprintendenza), dal territorio nazionale, vuol dire che essi meritano di essere dichiarati di interesse culturale. In definitiva, la presentazione dei beni all’ufficio di esportazione per ottenere l’attestato di libera circolazione costituisce l’occasione perché i beni stessi siano dichiarati di interesse culturale: in questo caso il divieto di uscita definitiva dal territorio nazionale conseguente al diniego dell’attestato precede la dichiarazione dell’interesse culturale, la quale per contro, ove già intervenuta, comporta sempre automaticamente il divieto predetto. Per i soli beni indicati nell’allegato al regolamento comunitario n. 116/2009/Ce, e ora anche nell’allegato A al codice, sempre che si tratti di esportazione fuori dal territorio dell’Unione europea, occorre anche la licenza di esportazione comunitaria, rilasciata, in conformità al regolamento comunitario, contestualmente all’attestato di libera circolazione ovvero non oltre quarantotto mesi dal rilascio di quest’ultimo da parte del medesimo ufficio; la licenza è valida un anno (art. 74). La violazione delle disposizioni del codice sui divieti assoluti di uscita definitiva dei beni culturali dal territorio nazionale e di quelle sull’attestato di libera circolazione e sulla licenza di esportazione costituisce reato. 3.15. L’acquisto coattivo L’ufficio di esortazione (ora la Soprintendenza) può proporre al Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo l’acquisto coattivo del bene entro quaranta giorni dalla presentazione della denuncia per l’attestato di libera circolazione. In questo caso il bene resta in custodia presso l’ufficio di esportazione fino alla conclusione del procedimento e il termine per il rilascio dell’attestato è prorogato di sessanta giorni (art. 70) che si aggiungono al termine ordinario di quaranta giorni. Il termine diventa pertanto di cento giorni dalla presentazione della denuncia. Correttamente in questo caso si parla di acquisto coattivo, poiché la possibilità di acquisto del bene da parte del Ministero prescinde da un trasferimento di proprietà: chi ha richiesto l’attestato di libera circolazione intende soltanto trasferire all’estero il bene di cui però rimane proprietario. La facoltà di acquisto coattivo può essere esercitata dal direttore generale Archeologia, belle arti e paesaggio entro novanta giorni dalla data della denuncia e presentazione del bene. La facoltà di acquisto coattivo è riconosciuta anche alla Regione nel cui territorio si trova l’ufficio di esportazione proponente. Qualora il Ministero non intenda esercitare la sua facoltà di acquisto ne informa la Regione entro sessanta giorni dalla denuncia. Il termine massimo di novanta giorni dalla denuncia per l’acquisto coattivo del bene rimane dunque fermo anche nel caso in cui il Ministero rinunci all’esercizio della sua facoltà e questa passi alla Regione. Ove invece la facoltà di acquisto coattivo non venga esercitata, il Ministero ha ancora dieci giorni per decidere sul rilascio o sul diniego dell’attestato. Il mancato acquisto coattivo non implica necessariamente un giudizio di scarsa rilevanza del bene per le pubbliche raccolte; esso può dipendere soltanto dalla indisponibilità delle risorse finanziarie occorrenti. La facoltà di acquisto coattivo all’esportazione è stata prevista fin dalla l. 185/1902 (art. 8) ed è stata conservata dalle leggi successive. In quel sistema la dichiarazione di valore dell’interessato, soggetta a riscontro con la stima dell’ufficio, costituiva la base di determinazione della tassa di esportazione, applicabile con aliquote progressive per scaglioni di valore. Il privato il quale avesse tentato di diminuire l’importo della tassa di esportazione dovuta con una dichiarazione di valore bassa avrebbe spinto fortemente l’amministrazione a esercitare la facoltà d’acquisto coattivo. Come si è visto, la tassa di esportazione è venuta meno nella circolazione infracomunitaria dei beni culturali già dal 1972 e dal 1988 anche per l’esportazione fuori dall’Unione europea: ciò nonostante il sistema non ha perso del tutto coerenza. Innanzi tutto l’ufficio di esportazione deve accertare la congruità del valore indicato nella denuncia (art. 68, co. 3) e quindi si intende che possa correggerlo. Inoltre una dichiarazione di valore bassa continua a costituire un incentivo a esercitare la facoltà di acquisto coattivo; una dichiarazione di valore elevata può invece spingere l’amministrazione a negare l’attestato di libera circolazione e a promuovere il procedimento di dichiarazione dell’interesse culturale del bene. 3.16. L’uscita temporanea dal territorio nazionale È soggetta a una disciplina speciale (artt. 66, 67 e 71). Il Ministero può autorizzare l’uscita temporanea dal territorio nazionale dei beni culturali per manifestazioni, mostre o esposizioni d’arte di alto interesse culturale, sempre che siano garantite l’integrità e la sicurezza dei beni. L’autorizzazione all’uscita patrimonio, all’attuazione e al rispetto della direttiva da parte degli altri Stati membri dell’Unione europea. La disciplina interna di attuazione della direttiva è contenuta nel codice al capo V, Circolazione in ambito internazionale. Sezione III, Disciplina in materia di restituzione, nell’ambito dell’Unione europea, di beni culturali illecitamente usciti dal territorio di uno Stato membro. In particolare gli artt. 75-81 disciplinano la restituzione da parte dell’Italia di beni culturali usciti illecitamente dal territorio di altro Stato membro dell’Unione europea. Gli artt. 82-83 riguardano invece la richiesta italiana ad altri Stati di restituzione di beni illecitamente usciti dal proprio territorio. L’azione giudiziaria di restituzione dei beni culturali usciti illecitamente dal territorio italiano è esercitata dal Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, d’intesa col Ministero degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale, davanti al giudice dello Stato membro dell’Unione europea in cui si trova il bene culturale (art. 82). L’intesa col Ministero degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale è giustificata. Con l’azione di restituzione lo Stato si presenta non già alla veste di proprietario del bene, bensì in quella di titolare di poteri pubblici di tutela dei beni culturali. Il Ministero degli Affari e della Cooperazioni internazionale potrà dunque valutare gli aspetti politici della questione e anche intraprendere le iniziative opportune per una sua soluzione in via diplomatica prima che lo Stato italiano si rivolga al giudice del paese in cui il bene si trova. Qualora l’azione di restituzione si concluda con successo ma il bene culturale restituito non appartenga allo Stato, il Ministero provvede alla sua custodia fino alla consegna all’avente diritto; la consegna però è subordinata al rimborso allo Stato delle spese sostenute per il procedimento di restituzione e per la custodia del bene. Qualora non sia conosciuto chi abbia diritto alla consegna del bene, il Ministero ne dà notizia con avviso pubblico nella Gazzetta ufficiale; se entro cinque anni l’avente diritto non richiede la consegna, il bene è acquisito al demanio dello Stato e può essere assegnato a un museo, biblioteca o archivio dello Stato al fine di assicurarne la migliore tutela e la pubblica fruizione nel contesto culturale più opportuno (art. 83). 3.18. L’ingresso nel territorio nazionale Gli uffici di esportazione del Ministero certificano l’ingresso nel territorio nazionale di beni culturali proveniente da uno Stato membro dell’Unione europea o da uno Stato terzo e rientranti nelle categorie di beni la cui uscita è soggetta ad autorizzazione (art.72). I certificati di avvenuta spedizione (da un paese dell’Unione europea) e di avvenuta importazione (da un paese non appartenente all’Unione europea) sono rilasciati sulla base di documentazione idonea e a identificare la cosa o il bene e a comprovarne la provenienza dal territorio dello Stato da cui sono stati spediti o importati. Non è ammessa la presentazione, da parte degli interessati, di semplici dichiarazioni, sia pure rese a un notaio o a un funzionario della pubblica amministrazione, come le dichiarazioni sostitutive degli atti di notorietà: a garanzia della correttezza dell’operazione il codice pretende documentazioni della provenienza. I certificati di avvenuta spedizione e di avvenuta importazione hanno validità quinquennale e possono essere prorogati. La validità quinquennale si riferisce all’ingresso nel territorio nazionale a titolo temporaneo. L’art. 172 del r.d. 363/1913 aveva stabilito che l’importatore si intende decaduto da ogni diritto se il certificato di importazione non è rinnovato entro il termine di cinque anni; secondo l’art. 173 chi voglia riesportare le cose importate temporaneamente deve presentarle al medesimo ufficio di esportazione a cui erano state presentate all’atto dell’importazione. Chi abbia fatto entrare nel territorio nazionale beni culturali provenienti dall’estero può avere un forte interesse al rilascio del certificato di avvenuta spedizione o di avvenuta importazione. Infatti questi beni potranno uscire dal territorio nazionale mediante un attestato di libera circolazione che costituisce atto dovuto e che pertanto l’ufficio di esportazione è tenuto a rilasciare senza alcuna discrezionalità. Invece i beni culturali provenienti dall’estero ma senza certificato di avvenuta spedizione o di avvenuta importazione, o con certificato scaduto di validità per decorso del termine senza rinnova, sono soggetti integralmente alla disciplina dell’uscita dei beni dal territorio nazionale illustrata nei precedenti paragrafi. 3.19. Occupazione temporanea ed espropriazione La disciplina di tutela dei beni culturali prevede anche altre forme di limitazione della proprietà privata, oltre a quelle derivanti dal vincolo indiretto. In particolare l’art. 88 del codice stabilisce che il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo può ordinare l’occupazione temporanea degli immobili ove devono eseguirsi le ricerche o le opere. Il codice non richiede la previa dichiarazione (o verifica) dell’interesse culturale degli immobili come presupposto dall’occupazione temporanea, di competenza delle Soprintendenze Archeologia, belle arti e paesaggio. Il proprietario ha diritto a un’indennità di occupazione determinata secondo le disposizioni generali in materia di espropriazione. Il codice stabilisce altresì che il Ministero può rilasciare al proprietario che ne faccia richiesta le cose ritrovate o parte di esse, quando non interessino le raccolte dello Stato (art. 88, co. 3). Il provvedimento di occupazione consente al Ministero di acquisire la disponibilità degli immobili per il limitato periodo di tempo occorrente all’esecuzione dei lavori di scavo. Alla scadenza del termine stabilito col decreto di occupazione gli immobili ritornano nella disponibilità dei proprietari. Il codice prevede però anche tre casi in cui può essere disposta l’espropriazione la quale incide in modo definitivo sulla proprietà del bene. L’espropriazione comporta un’indennità che è corrisposta sempre in denaro, senza l’alternativa del rilascio delle cose ritrovate. 1. L’art. 95 stabilisce che i beni culturali mobili e immobili possono essere espropriati dal Ministero per causa di pubblica utilità. Questo tipo di espropriazione costituisce uno sviluppo della disciplina posta dalla legge generale sulle espropriazioni per causa di utilità pubblica del 1865 la quale consentiva allo Stato, alle Provincie e ai Comuni l’acquisto mediante espropriazione di <<ogni monumento storico o di antichità che abbia la natura d’immobile, e la cui conservazione pericolasse continuando ad essere posseduto da qualche corpo morale o da un privato cittadino>>. Il presupposto dell’espropriazione era quindi più rigoroso, mentre per il codice è sufficiente l’interesse a migliorare le condizioni di tutela. Il codice consente inoltre l’espropriazione anche di beni culturali mobili e ciò costituisce una particolarità rispetto sia alla disciplina del 1865 sia alla disciplina generale dell’espropriazione, ammessa solo per i beni immobili o diritti relativi a beni immobili. Il Ministero può anche autorizzare, a richiesta, le Regioni, gli altri enti pubblici territoriali a effettuare l’espropriazione di questo tipo; in tal caso il Ministero dichiara la pubblica utilità ai fini dell’espropriazione e rimette gli atti all’ente interessato per la prosecuzione del procedimento. Il Ministero può anche disporre l’espropriazione a favore di persone giuridiche private senza fine di lucro, curando direttamente il relativo procedimento. 2. L’art. 96 prevede l’espropriazione per fini strumentali. Possono essere espropriati per causa di pubblica utilità aree e edifici, quando ciò sia necessario per isolare o restaurare monumenti, assicurarne la luce o la prospettiva, garantirne o accrescerne il decoro o il godimento da pare del pubblico, facilitarne l’accesso. Questo secondo tipo di espropriazione si differenzia dal precedente poiché può avere per oggetto soltanto i beni immobili. Inoltre l’espropriazione di questo tipo ha una funzione diversa: essa ha per oggetto non beni culturali, bensì gli immobili circostanti e quindi vale non a incrementare la proprietà pubblica di beni culturali ma piuttosto a preservare le condizioni di ambiente e di decorso Gli immobili di proprietà privata restaurati o sottoposti ad altri interventi conservativi con il concorso totale o parziale dello Stato nella spesa sono resi accessibili al pubblico secondo modalità fissate, caso per caso, da accordi o convenzioni da stipularsi fra il Ministero, a cura del Segretario regionale, e i proprietari. Tali accordi o convenzioni stabiliscono i limiti temporali dell’obbligo di apertura del pubblico, tenendo conto della tipologia degli interventi, del valore artistico e storico degli immobili e dei beni essi esistenti (art. 38). La possibilità di interventi finanziari pubblici per i beni culturali di proprietà privata ha giustificato sistematica. La Repubblica tutela il patrimonio storico e artistico della nazione (art. 9, secondo co., Cost.) non soltanto con l’imposizione di limiti alle facoltà proprietarie ma anche con interventi finanziari i quali recano un beneficio al privato ma contemporaneamente favoriscono la conservazione di un patrimonio che trascende l’interesse del proprietario. L’obbligo di apertura al pubblico degli immobili di proprietà privata restaurati con l’intervento finanziario statale costituisce un ragionevole sacrificio, giustificato dal vantaggio ottenuto con l’erogazione finanziaria statale. 3.22. Il regime fiscale Il regime fiscale dei beni di rilevante interesse culturale è stato disciplinato inizialmente della l. 2 agosto 1982, n. 512, in seguito modificata, integrata e parzialmente confluita nel testo unico delle imposte sui redditi (t.u.i.r.), approvato col d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 e s.m.i. La l. 512/1982 ha istituito per i beni culturali agevolazioni tributarie di diversi tipi. L’agevolazione più importante riguarda l’imposta sul reddito delle persone fisiche (Irpef) e consiste in una detrazione d’imposta per le spese sostenute dai soggetti obbligati alla manutenzione, protezione o restauro dei beni culturali gravati da vincolo diretto. La necessità delle spese deve risultare da una certificazione della Soprintendenza competente per materia e territorio (v. par. 4.5), previo accertamento della loro congruità effettuato d’intesa con il competente ufficio del territorio del Ministero dell’economia e delle finanze. L’agevolazione consiste in una detrazione dall’imposta lorda e non nella deducibilità delle spese sostenute dal reddito imponibile che rimane invariato. Si continua dunque a pagare l’imposta sull’intero reddito imponibile, ma dal punto di vista economico la detrazione d’imposta equivale a uno sconto, a carico dello Stato, sulle spese sostenute nella misura del 19%. Danno diritto a una detrazione d’imposta anche le erogazioni liberali in denaro a favore dello Stato, delle Regioni, degli enti locali territoriali, di enti o istituzioni pubbliche, per l’acquisto, la manutenzione, la protezione o il restauro dei beni culturali. La l. 512/1982 ha anche escluso dall’attivo ereditario i beni culturali vincolati prima dell’apertura della successione e ha disposto la riduzione alla metà dell’imposta di successione relativa agli immobili di interesse storico, artistico, militare, architettonico e monumentale caduti in successione. L’imposta sulle successioni è stata ripristinata dal 2006 secondo il regime in vigore alla data della sua soppressione. Un regime fiscale di favore è stato previsto anche per un importante tributo locale, l’imposta comuna sugli immobili (Ici), e poi per l’imposta municipale propria (Imu) nonché per il tributo comunale per i servizi indivisibili (Tasi): per gli immobili di interesse storico o artistico la base imponibile è ridotta alla metà. Da ultimo è stato istituito un credito di imposta per favorire le erogazioni liberali a sostegno della cultura, compresi gli interventi di manutenzione, protezione e restauro di beni culturali pubblici. Il principio costituzionale secondo cui la Repubblica tutela il patrimonio storico e artistico della nazione (art. 9, secondo co., Cost.) si può realizzare anche riducendo l’impostazione tributaria che grava sui beni culturali di proprietà privata, giacché favorisce così la loro conservazione da parte dei privati proprietari. La riduzione dell’imposizione tributaria è del resto giustificata delle limitazioni alle facoltà di godimento dei beni immobili derivanti dal vincolo. In particolare per l’agevolazione relativa all’Ici (poi soppressa) la Corte costituzionale ha affermato che << la ratio dell’agevolazione va individuata in una esigenza di equità fiscale, derivante dalla considerazione della minore utilità economica che presentano i beni immobili di interesse storico o artistico in conseguenza del complesso di vincoli e limiti cui la loro proprietà è sottoposta>>. Il nesso tra limitazioni proprietarie conseguenti al vincolo e regime fiscale di favore emerge direttamente dalla disciplina delle agevolazioni per l’Irpef le quali decadono in caso di mutamento dell’amministrazione ovvero in caso di mancato assolvimento degli obblighi di legge per consentire l’esercizio del diritto di prelazione dello Stato. La stessa logica del nesso tra beneficio fiscale e limitazioni delle facoltà proprietarie anima un aspetto specifico della disciplina relativa alla detrazione dall’Irpef delle spese di manutenzione e restauro dei beni mobili, detrazione che può riguardare anche beni mobili oltre che immobili: la detrazione non spetta nel caso di tentata esportazione illegale del bene. Rimane infine da considerare la facoltà di pagamento delle imposte dirette mediante cessione di beni culturali vincolati, o anche di opere di autori viventi o la cui esecuzione risalga a meno di cinquanta anni. Questa facoltà certamente si contrappone all’interesse erariale a disporre di denaro contante con cui provvedere alle spese pubbliche. Essa corrisponde però all’interesse all’incremento del patrimonio pubblico, normalmente destinato anche alla fruizione da parte dei cittadini: si tratta quindi dello stesso interesse che sta a base del diritto di prelazione all’acquisto dei beni e anche del primo tipo di esportazione (art. 95). Si noti infine che la legislazione vigente non prevede alcuna agevolazione tributaria per i beni immobili gravati da vincolo indiretto. Per contro i proprietari di beni immobili dichiarati di interesse culturale sono favoriti anche su un piano diverso da quello tributario: le locazioni di questi immobili non sono soggette alla speciale disciplina delle locazioni a uso abitativo posta, a tutela del conduttore, della l. 9 dicembre 1998, n.431, ma rientrano nella disciplina generale delle locazioni posta dagli artt. 1571 e seguenti del codice civile. 3.23. Lavori privati e rinvenimenti archeologici Per la tutela dei beni di interesse archeologico non ancora rinvenuti il primo e fondamentale problema è quello della loro individuazione. Come si è visto al par. 3.5, un’area può essere dichiarata di interesse culturale per motivi archeologici anche solo sulla base di una ragionevole e motivata probabilità di rinvenimento di reperti di significativo valore. La dichiarazione comporta che tutti gli interventi sul bene sono soggetti ad autorizzazione e l’amministrazione di norma non autorizzerà lavori nel sottosuolo fino a quando non sia effettuato lo scavo archeologico. Ma è normale che resti archeologici emergano fortuitamente in aree di proprietà privata, non previamente dichiarate di interesse culturale, nel corso di lavori di carattere privato intrapresi per la realizzazione di opere edilizie o anche nel corso di normali lavorazioni agricole. In tal caso (v. par. 3.5) lo scopritore deve fare denuncia entro 24h al Soprintendente o al sindacato o all’autorità di pubblica sicurezza e deve provvedere alla conservazione temporanea delle cose rinvenute, lasciandole nelle condizioni e nel luogo del rinvenimento (art. 90). La Soprintendenza interverrà per accertare la situazione (Art. 19) e potrà adottare la misura cautelare dell’ordine di sospensione dei lavori. La Soprintendenza dovrebbe altresì eseguire lo scavo archeologico, entro il limite delle risorse finanziare disponibili, disponendo l’occupazione temporanea dell’area, sempre che il proprietario non la metta spontaneamente e gratuitamente a disposizione. Nulla vieta che il privato proprietario, interessato a superare la sorpresa archeologica nel più breve tempo possibile per portare a termine l’opera intrapresa, assuma volontariamente a proprio carico la spesa necessaria per lo scavo archeologico. Una volta completato e documentato lo scavo e sempre che sull’area non residuino beni d’interesse archeologico non asportabili, l’area sarà restituita al proprietario il quale né potrà disporre liberamente, salva la revoca della dichiarazione dell’interesse culturale nel frattempo eventualmente intervenuta. Ove invece residuino resti di interesse archeologico non rimovibili, essi entreranno a far parte del demanio dello Stato; il vincolo non potrà essere rimosso e la realizzazione del progetto edilizio in occasione del quale il rinvenimento è avvenuto sarà subordinata all’autorizzazione di competenza della Commissione regionale per il patrimonio culturale. Nel caso di lavori di carattere privato non vi sono altri poteri di carattere preventivo a disposizione dell’amministrazioni. Si presenta quindi il rischio che il privato proprietario occulti il rinvenimento, si impossessi dei beni ritrovati di suo interesse e distrugga i resti che potrebbero ostacolare la realizzazione dei lavori intrapresi, nella fiducia che l’amministrazione non venga a conoscenza della distruzione e dunque non nuovi elementi archeologicamente rilevanti che inducano a ritenere probabile la sussistenza in sito di reperti archeologici. In tal caso contestualmente alla richiesta di saggi preventivi viene avviato il procedimento di verifica o di dichiarazione dell’interesse culturale. La procedura di verifica preventiva dell’interesse archeologico differenzia nettamente le possibilità di intervento dell’amministrazione, per far fronte al rischio archeologico, nei casi di lavori soggetti al codice dei contratti pubblici rispetto ai casi di lavori privati. Già sulla base del progetto di fattibilità è possibile per il Soprintendente, sulla base della documentazione bibliografica e d’archivio chiedere motivatamente carotaggi, prospezioni e saggi archeologici a campione. Il rischio archeologico è stato incorporato nel costo di realizzazione delle opere pubbliche e anche il tempo occorrente per la valutazione del rischio è stato addossato alle amministrazioni competenti. Per i lavori privati soltanto se l’area è stata già dichiarata di interesse culturale archeologici il progetto dei lavori è soggetto ad autorizzazione. Diversamente l’amministrazione potrà utilizzare i suoi poteri solo dopo l’apertura del cantiere e i primi rinvenimenti. Cap 4. Il ruolo delle Regioni e l’amministrazione 4.1. Stato e Regioni nella tutela dei beni culturali Nell’esposizione della disciplina di tutela dei beni culturali si è sempre fatto riferimento soltanto alla legislazione statale anche se, con la Costituzione repubblicana del 27 dicembre 1947, lo Stato italiano è diventato uno Stato regionale. Il titolo quinto della parte seconda della Costituzione ha istituito quindici Regioni ordinarie e cinque Regioni a statuto speciale: Sardegna, Sicilia, Valle d’Aosta, Friuli Venezia-Giulia e Trentino Alto Adige/Sudtirol, articolato nelle due province autonome di Trento e Bolzano. L’attuazione dell’ordinamento regionale ha però inciso solo in misura marginale sulla materia dei beni culturali. 4.2. Le Regioni ordinarie Secondo la Costituzione del 1947 le Regioni ordinarie avevano potestà legislativa solo per le materie comprese nell’elenco dell’art. 117 e questo elenco non menzionava la materia dei beni culturali, ma solo la materia <<musei e biblioteche di enti locali>>. L’attuazione delle Regioni ordinarie, avviata nel 1970 con la prima elezione dei consigli regionali, ha comportato soltanto limitate novità per la materia dei beni culturali. Nel 1972 è stato delegato alle Regioni l’esercizio delle funzioni amministrative di tutela del patrimonio librario non statale protetto dall’art. 1, primo co., lett. c), della l. 1089/1939 In connessione con questa delega, le strutture amministrative periferiche che curavano le funzioni delegate, le Soprintendenze ai beni librari, sono state trasferite alle Regioni. Le altre funzioni amministrative in materia di beni culturali sono rimaste allo Stato che però nel 2015 ha assunto nuovamente le funzioni amministrative relative al patrimonio librario non statale già delegate alle Regioni, fatta salva la facoltà per le Regioni di esercitare le funzioni medesime sulla base di specifici accordi o intese e previo parere della Conferenza Stato-Regioni. 4.3. Le Regioni speciali L’art. 116 della Costituzione assicura forme e condizioni particolari di autonomia alle cinque Regioni speciali, secondo statuti approvati con legge costituzionale. Lo statuto della Sicilia attribuisce alla Regione potestà legislativa in materia di <<conservazione delle antichità e delle opere artistiche>>. Lo statuto del Trentino-Alto Adige/Sudtirol attribuisce alle due Province autonome potestà legislativa in materia di <<tutela e conservazione del patrimonio storico, artistico e popolare>>. In Sicilia e in Trentino-Alto Adige/Sudtirol la materia dei beni culturali è oggi rimessa a leggi regionali e provinciali. In queste due Regioni le leggi statali continuano ad applicarsi soltanto per le parti in cui non siano state sostituite da leggi regionali e provinciali. Le Regioni speciali e le Provincie di Trento e Bolzano sono dotate di autonomia amministrativa nelle stesse materie sulle quali si esercita la loro potestà legislativa. Pertanto le funzioni amministrative in materia di beni culturali sono state trasferite alla Regione Sicilia e alle Province di Trento e Bolzano, le quali sono subentrate integralmente all’amministrazione statale nell’esercizio dei compiti di tutela dei beni culturali. In Trentino-Alto Adige/Sudtirol, sulla base dello statuto regionale sono stati considerati beni di interesse nazionale, sottratti alla competenza provinciale, il monumento alla vittoria di Bolzano e il monumento all’alpino di Brunico. Le Regioni Valle d’Aosta, Sardegna e Friuli Venezia-Giulia sono titolari soltanto di potestà legislativa di integrazione e di attuazione delle leggi dello Stato in materia di antichità e belle arti. Esse dunque non sono abilitate a sostituire la propria legislazione a quella statale ma possono soltanto integrare e attuare la legislazione statale con proprie norme. Queste tre Regioni si trovano in una condizione almeno parzialmente simile tra loro nonché rispetto a quella delle Regioni ordinarie in forza dei trasferimenti disposti dalle norme di attuazione dei rispettivi statuti. Alla Regione Sardegna è stata infatti trasferita la Soprintendenza ai beni librari. Alla Regione Friuli Venezia-Giulia sono state trasferite le competenze della Soprintendenza ai beni librari di Verona per il territorio del Friuli Venezia-Giulia. La Regione Valle d’Aosta è subentrata nelle competenze della Soprintendenza ai beni librari di Torino inerenti il territorio della Valle. Per altri aspetti la condizione della Valle d’Aosta è diversa. Infatti nel 1946 un decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato aveva stabilito che le attribuzioni spettanti alle Soprintendenze alle antichità e belle arti fossero esercitate, per il proprio territorio, dalla Valle d’Aosta, la quale vi avrebbe provveduto con uffici e personale propri. L’art. 38 della l. 16 maggio 1978, n. 196 ha inoltre trasferito alla Regione Valle d’Aosta le funzioni amministrative degli organi centrali dello Stato in materia di antichità e belle arti, con riserva al Ministero solo di un nulla osta per le licenze di esportazione; il Ministero può inoltre sostituirsi alla Regione nell’esercizio del diritto di prelazione o della facoltà di acquisto, qualora la Regione vi rinunzi. La Regione Valle d’Aosta è quindi subentrata integralmente all’amministrazione statale periferica dei beni culturali, che invece continua a operare in Sardegna e in Friuli Venezia-Giulia. 4.4. La riforma costituzionale del 2001 La l.c. 18 ottobre 2001, n.3 ha profondamente rinnovato il titolo quinto della parte seconda della Costituzione e in particolare ha modificato la potestà legislativa dello Stato e delle Regioni. Lo Stato ha ora potestà legislativa esclusiva nelle materie comprese in un elenco tassativo che comprende la <<tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali>>. La tutela dei beni culturali continua a essere disciplinata da leggi statali, mentre l’autonomia legislativa della Regione Sicilia e delle Provincie di Trento e Bolzano rimane un’eccezione. La stessa l.c. 3/2001 ha attribuito alle Regioni potestà legislativa concorrente in materia di <<valorizzazione dei beni culturali e ambientali>> (art. 117, terzo co., Cost.). Per questa materia la determinazione dei principi fondamentali rimane riservata alla legislazione dello Stato, mentre la disciplina di dettaglio spetta alle Regioni. La distinzione tra tutela e valorizzazione dei beni culturali, già anticipata nella legislazione ordinaria dall’art. 148 del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112, oggi abrogato, è stata sviluppata dal codice agli artt. 3 e 6. Tutela  consiste nell’esercizio delle funzioni e nella disciplina delle attività dirette, sulla base di un’adeguata attività conoscitiva, a individuare i beni costituenti il patrimonio culturale e a garantirne la protezione e la conservazione per fini di pubblica fruizione. L’esercizio delle funzioni di tutela si esplica anche attraverso provvedimenti volti a conformare e regolare diritti e comportamenti inerenti al patrimonio culturale (art. 3). Valorizzazione  consiste nell’esercizio delle funzioni e nella disciplina delle attività dirette a promuovere la conoscenza del patrimonio culturale e ad assicurare le migliori condizioni di utilizzazione e fruizione pubblica del patrimonio stesso. Essa comprende anche la promozione e il sostegno degli interventi di conservazione del patrimonio culturale ed è attuata in forme compatibili con la tutela e tali da non pregiudicarne le esigenze (art. 6) Il codice reca una disciplina completa della tutela dei beni culturali, riservata alla potestà legislativa esclusiva dello Stato. Poiché invece la valorizzazione è materia di potestà legislativa concorrente, il codice fissa i principi fondamnetali della - l’espressione della volontà del Ministero nell’ambito delle determinazioni interministeriali concernenti il pagamento delle imposte mediante la cessione di beni culturali; - l’irrogazione delle sanzioni ripristinatorie e pecuniarie; - l’adozione dei provvedimenti di acquisizione di beni culturali a titolo di prelazione, acquisto all’esportazione e di espropriazione; - l’adozione dei provvedimenti sulla circolazione dei beni culturali in ambito internazionale; - la decisione dei ricorsi amministrativi avverso i provvedimenti di verifica e di dichiarazione dell’interesse culturale il direttore generale rilascia la concessione per l’esecuzione di ricerche archeologiche o di opere dirette al ritrovamento di beni culturali e paga il premio di rinvenimento. Le direzioni generali centrali sono coordinate dal Segretario generale del Ministero al quale è preposto un dirigente generale che opera alle dirette dipendenze del Ministero. Le funzioni più importanti del Segretario generale sono: - coordinamento delle iniziative in materia di sicurezza del patrimonio culturale; - coordinamento dell’attività di tutela in base a criteri uniformi e omogenei sull’intero territorio nazionale; - coordinamento delle iniziative atte ad assicurare la catalogazione del patrimonio culturale; - coordinamento delle attività internazionali, delle attività di studio e ricerca, del servizio ispettivo; - coordinamento dei programmi annuali e pluriennali di competenza delle direzioni generali e dei relativi piani di spesa, da sottoporre all’approvazione del Ministero. Nell’ambito del Ministero sono inoltre costituiti, come unità organizzativa distinte, ma senza rilievo di uffici dirigenziali generali, otto Istituti centrali: 1. Istituto centrale per il catalogo e la documentazione; 2. Istituto centrale per il catalogo unico delle biblioteche italiane; 3. L’Opificio delle pietre dure; 4. Istituto centrale per la demoetnoantropologia; 5. Istituto centrale per il restauro e la conservazione del patrimonio archivistico e librario; 6. Istituto centrale per gli archivi; 7. Istituto centrale per i bei sonori e audiovisivi, subentrato alla Discoteca di Stato; 8. Istituto centrale per la grafica, che subentra all’Istituto nazionale per la grafica. Hanno inoltre autonomia speciale cinque unità organizzative costituite come uffici di livello dirigenziale non generale: 1. Istituto superiore per la conservazione e il restauro; 2. la Biblioteca Nazionale Centrale di Roma; 3. la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze; 4. l’Archivio centrale dello Stato; 5. il Centro per il libro e la lettura. L’Opificio delle pietre dure, fondato nel 1588 da Ferdinando I de’ Medici, ha sede a Firenze ma opera sull’intero territorio nazionale quale istituto specializzato per il restauro di opere d’arte. Presso l’Opificio è istituita anche una scuola per l’insegnamento del restauro, in particolare di quello relativo ad antiche opere di commesso e di arte minore. Risponde funzionalmente al Ministero di Comando carabinieri per la tutela del patrimonio culturale, il quale cura la sicurezza del patrimonio culturale, la prevenzione e la repressione dei reati attinenti la sua tutela e salvaguardia nonché il loro recupero. 4.7. Gli organi consultivi centrali Gli organi consultivi centrali del Ministero sono il Consiglio superiore Beni culturali e paesaggistici e i Comitati tecnico-scientifici. Il Consiglio superiore Beni culturali e paesaggistici è composto dai presidenti dei Comitati tecnico-scientifici e da otto eminenti personalità della cultura nominate dal Ministero. Il Presidente del Consiglio superiore è nominato dal Ministero tra le personalità da lui nominate. Il Consiglio superiore è organo consultivo a carattere tecnico-scientifico in materia di beni culturali e paesaggistici. Esso dura in carica tre anni ed esprime pareri obbligatori sui programmi nazionali per i beni culturali paesaggistici. Il Consiglio superiore esprime inoltre pareri: - sugli schemi di accordi internazionali in materia di beni culturali; - sui piani strategici di sviluppo culturale e sui programmi di valorizzazione dei beni culturali; - su questioni di carattere generale di particolare rilievo concernenti la materia dei beni culturali; - su questioni in materia di beni culturali e paesaggistici formulate da altre amministrazioni statali, regionali, locali, nonché da Stati esteri. I Comitati tecnico-scientifici sono sette: 1. archeologia 2. belle arti 3. paesaggio 4. arte e architettura contemporanea 5. musei e l’economia della cultura 6. archivi 7. biblioteche e istituti culturali Ciascun Comitato tecnico-scientifico è composto: da un rappresentante eletto, al proprio interno, dal personale tecnico-scientifico dell’amministrazione tra le professionalità attinenti alla sfera di competenza del singolo Comitato; da due esperti di chiara fama in materie attinenti alla sfera di competenza del Comitato designati dal Ministero; da un professore universitario di ruolo nei settori disciplinari direttamente attinenti alla sfera di competenza del Comitato. Ciascun Comitato elegge a maggioranza il presidente e il vice presidente, che devono essere espressione di categorie diverse di componenti. I Comitati avanzano proposte, per la materia di propria competenza, per la definizione dei programmi nazionali per i beni culturali e paesaggistici e dei relativi piani di spesa; esprimono pareri e avanzano proposte in ordine a metodologie e criteri di intervento in materi di conservazione di beni culturali e paesaggistici; esprimono pareri sull’adozione di provvedimenti di tutela di particolare rilievo; esprimono pareri in ordine ai ricorsi amministrativi previsti dagli artt. 16, 47, 69 e 128 del codice. 4.8. L’organizzazione periferica. Le Soprintendenze L’organizzazione periferica dell’amministrazione dei beni culturali si basa sulle Soprintendenze, uffici di livello dirigenziale non generale. Storicamente le Soprintendenze sono state distinte per materia in tre tipi: antichità, beni mobili e le gallerie, monumenti e il paesaggio. Inoltre sono stati istituiti due uffici di livello dirigenziale generale periferici, il Parco archeologico del Colosseo e il Parco archeologico di Pompei. Le Soprintendenze hanno competenza per il territorio molto varia: in alcuni casi essa è estesa al territorio di un’intera Regione (Friuli, Liguria, Umbria, Marche, Molise e Basilicata), in altri casi è limitata ad alcune Province; ma vi sono anche due Soprintendenza con competenza limitata a una sola Città metropolitana (Torino, Milano e Napoli) e altre due con competenza infraprovinciale (per Venezia e Laguna, per il Comune di Roma). I Soprintendenti curano l’istruttoria dei provvedimenti di competenza della Commissione regionale per il patrimonio culturale e dei direttori generali centrali del Ministero. Spetta inoltre ai Soprintendenti: - prescrivere le misure necessarie perché, in caso di spostamento di bei culturali dipendente dal mutamento di dimora o sede del detentore, i beni non subiscano danni dal trasporto (art. 21, co. 2); - autorizzare l’esecuzione di opere e lavori di qualunque genere sui beni culturali (art. 21, co. 4 e 5); - autorizzare gli interventi di demolizione e rimozione definitiva dei beni culturali, con contestuale informazione al Segretario regionale; - imporre ai proprietari gli interventi conservativi o disporre gli interventi diretti (art. 32) I Soprintendenti dispongono l’occupazione temporanea per l’esecuzione di ricerche archeologiche e curano la procedura di verifica preventiva dell’interesse archeologico (v. par. 3.24). Per il patrimonio archivistico l’organizzazione periferica è del tutto distinta: sono istituite le Soprintendenze archivistiche. L’amministrazione periferica dei beni culturali
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