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Manuale di Procedura Penale - Tonini con riforma cartabia, Dispense di Diritto Processuale Penale

Dispensa del manuale di procedura penale di Tonini aggiornato alla riforma cartabia. Riassunto fino al capitolo delle impugnazioni (compreso).

Tipologia: Dispense

2022/2023

In vendita dal 07/09/2023

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Scarica Manuale di Procedura Penale - Tonini con riforma cartabia e più Dispense in PDF di Diritto Processuale Penale solo su Docsity! MANUALE DI PROCEDURA PENALE – TONINI Parte seconda PROFILI GENERALI DEL PROCEDIMENTO PENALE Capitolo 1 I SOGGETTI DEL PROCEDIMENTO PENALE 1. PROCEDIMENTO E PROCESSO a) Il processo penale sul fatto, sull’autore e sulle conseguenze. Il processo penale ha lo scopo di accertare: - Se una determinata persona ha commesso un reato - Quale è la personalità dell’autore del reato - Quali sono le sanzioni che devono essergli applicate Il processo penale ha una funzione “strumentale” rispetto al diritto penale sostanziale, essendo veicolo necessario per applicare la legge penale. Il processo penale ha come fine quello di accertare i fatti storici che costituiscono reato, identificarne gli autori e conoscere la loro personalit .à̀ Il processo penale ha il fine di accertare se un fatto costituisce reato e in caso positivo, applicare la sanzione (in base al fatto e al suo autore) a chi lo ha commesso. L’accertamento della personalità dell’autore del reato è funzionale per il fatto che la sanzione deve essere “proporzionata” alla personalità dell’autore del fatto illecito, oltre alla gravità dell’offesa arrecata al bene tutelato dalla norma penale incriminatrice. Se la sanzione penale ha unicamente funzione “retributiva”, l’esecuzione della stessa può essere affidata alla pubblica amministrazione; il processo si disinteressa di questo momento. Se la pena ha funzione “rieducativa” (reinserimento sociale) è indispensabile che un giudice accerti l’evoluzione della personalità del reo in sede esecutiva con lo scopo di modificare il contenuto della pena in relazione al grado di risocializzazione manifestato dal condannato. b) L’azione Penale Procedimento e processo non sono sinonimi. Nel codice di procedura penale ciascuno dei due termini assume un preciso significato Procedimento Penale: Si indica una serie cronologicamente ordinata di atti diretti alla pronuncia di una decisione penale ciascuno dei quali, validamente compiuto, fa sorgere il dovere di porre in essere il successivo che adempie a sua volta il dovere posto dal suo antecedente. In tale concetto sono ricompresi almeno 3 elementi fondamentali: 1. Serie cronologicamente ordinata di atti: gli atti devono essere compiuti seguendo una determinata sequenza temporale. 2. Tutti gli atti del procedimento hanno la finalità di accertare l’esistenza di un fatto penalmente illecito e la sua attribuibilità ad una persona. 3. Il compimento di un atto del procedimento fa sorgere in un altro soggetto il “dovere” di compiere un atto successivo, fino alla decisione definitiva. Quest’ultima potrà essere una sentenza di condanna o di proscioglimento, se viene percorsa l’estensione massima del procedimento; oppure sarà un decreto o un’ordinanza di archiviazione, se il procedimento si arresta prima che venga formulata l’imputazione. Il procedimento penale è diviso in tre fasi: Indagini preliminari, udienza preliminare e giudizio. Processo Penale: Indica una “porzione” del procedimento penale. Fanno parte del “processo” le fasi dell’udienza preliminare e del giudizio. Il momento iniziale del processo corrisponde all’esercizio dell’azione penale, mentre il momento finale si ha quando la sentenza diventa irrevocabile. Con l’espressione “in ogni stato e grado del processo” si intende escludere la fase delle indagini preliminari. Con l’espressione “in ogni stato e grado del procedimento” si ricomprendono sia le indagini e sia il processo. Col termine “grado” si indica se il giudice prende cognizione dell’oggetto in primo esame o in appello o in sede di cassazione. Col termine di stato si intende, invece, indicare una fase del procedimento. 1 L’azione Penale: Essa è la richiesta, diretta al giudice, di decidere sull’imputazione. Il codice precisa con quali atti si esercita l’azione penale. Ai sensi dell’art. 405, comma 1, c.p.p., nel procedimento ordinario il PM esercita l’azione penale quando chiede il rinvio al giudizio dell’imputato. La richiesta è rivolta al giudice e contiene la formulazione dell’imputazione. Nei procedimenti speciali l’azione penale è esercitata quando il PM formula l’imputazione nell’atto che instaura il singolo procedimento. L’imputazione: Consiste nell’addebitare ad un determinato soggetto un fatto di reato. Elementi dell’imputazione sono (art.417 cpp) l’enunciazione del fatto storico di reato addebitato ad una persona Indicazione degli articoli di legge che si ritengono violati, le generalità della persona alla quale è addebitato il reato. L’esercizio dell’azione penale determina due effetti, in primo luogo, Il giudice ha l’obbligo di decidere su di un determinato fatto storico. In secondo luogo, fissa l’oggetto del processo penale e ciò impone al giudice il divieto di decidere su di un fatto storico differente da quello precisato nell’imputazione (salvo eccezioni art.516 - 521 cpp). c) I soggetti e le parti I soggetti: Sono coloro che hanno poteri di iniziativa nel procedimento. Nel primo libro del cpp è contenuto un elenco dei soggetti del procedimento penale (Giudice, PM, imputato ecc.) ma non sono considerati “soggetti”, ad esempio, i testimoni e i periti non avendo costoro poteri di iniziativa del procedimento ma sono “persone” che partecipano al procedimento. I “soggetti” vengono definiti in relazione alla nozione di “procedimento penale”, cioè anche alla fase delle indagini preliminari, quando ancora non è stata esercitata l’azione penale. Le parti: Parte è colui che ha chiesto al giudice una decisione in relazione all’imputazione unitamente alla richiesta di rinvio a giudizio (soggetto attivo) e colui contro il quale tale decisione è stata chiesta. Con riferimento all’azione penale sono parti “necessarie” il PM e l’imputato. L’esercizio dell’azione civile in sede penale (il danneggiato può ottenere la condanna dell’imputato al risarcimento del danno derivante da reato ex art.185 cpp) è eventuale, cioè dipende dalla scelta facoltativa del danneggiato. In tal senso la “parte civile” è parte “eventuale” del processo penale poiché chiede al giudice una decisione in relazione all’imputazione 2 salute pubblica. Ma vi sono altri delitti per i quali la pena irrogabile in concreto può essere molto elevata, come ad esempio le lesioni personali stradali. La particolarità della disciplina della ripartizione degli affari tra giudice singolo e giudice collegiale (all'interno del tribunale) sta nel fatto che tale materia non attiene alla "competenza" bensì alla "cognizione" o, come alcuni dicono, al "rito". Competenza funzionale Art. 328 “nei casi previsti dalla legge, sulle richieste del pubblico ministero, delle parti private e dalla persona offesa dal reato, provvede il giudice per le indagini preliminari” – art. 416 “la richiesta di rinvio a giudizio è depositata dal pubblico ministero presso la cancelleria del giudice” – art. 309 comma 4 “La richiesta di riesame è presentata nella cancelleria del tribunale indicato nel comma 7.” Il comma 7 afferma “sulla richiesta del riesame decide, in composizione collegiale, il tribunale del luogo nel quale ha sede la corte di appello o la sezione distaccata della corte di appello nella cui circoscrizione è compreso il giudice che emesso l’ordinanza.” Tutti questi articoli ci indicano il Giudice a cui ci dobbiamo rivolgere. Non esiste una norma sulla competenza funzionale e non potrebbe averla, perché la individuiamo ogni qual volta troviamo la competenza funzionale di quel giudice. Mentre quando si parla di competenza per materia, territorio e per connessione si fa riferimento al rapporto che esiste tra giudice e il fatto. Se invece si sposta il rapporto, e si guarda il rapporto tra il giudice e l’atto che deve compiere. Questa competenza ha un focus totalmente differente rispetto a quella precedentemente analizzata. Questa muta in relazione all’atto che il giudice deve compiere. In dottrina si usa distinguere l'ulteriore nozione di competenza funzionale, che è la competenza a svolgere determinati procedimenti o particolari fasi o gradi di un procedimento o a compiere determinati atti. Ad esempio, nei procedimenti per reati di competenza della corte d'assise o del tribunale, gli atti giurisdizionali, che devono essere compiuti nella fase delle indagini preliminari, sono attribuiti alla competenza funzionale del giudice per le indagini preliminari incardinato presso il tribunale. La competenza funzionale trova il suo fondamento costituzionale nell’art. 111 – il giudice funzionalmente competente deve essere imparziale. Cosa succede se il giudice si pronuncia, ma non era funzionalmente competente? Non vi è una sanzione processuale. La dottrina ritiene che l’invalidità di quell’atto sia l’abnormità (il giudice è andato oltre i suoi poteri). In questo caso si ritiene che in teoria il giudice non aveva il potere per disporre quel provvedimento, ma l’ha comunque pronunciato. In questo caso si ricorre per cassazione per violazione di legge. Es. il GIP emette il decreto di citazione al giudizio. Dopo averlo emesso la moglie dell’imputato porta il certificato di morte dell’imputato e il GIP emette una sentenza di non luogo a procedere per morte del reo. Lo poteva fare? No, perché si era già spogliato del suo potere con il decreto di citazione. In questo caso si è fatto finta di nulla. d. La competenza per territorio. La competenza per territorio è determinata dal luogo nel quale il reato è stato consumato. Si ha consumazione quando il reato è giunto al massimo grado di gravità, nel senso che in concreto sono presenti tutti gli elementi costitutivi della norma incriminatrice nella massima gravità. La celebrazione del processo nel cd. locus commissi delicti risponde a ragioni di indubbio rilievo, fra le quali l'esigenza di assicurare un effettivo controllo sociale; quella di rendere più agevole e rapida la raccolta delle prove; quella di ridurre i disagi per le parti e per i testi, vi è infine il tradizionale rilievo secondo cui il diritto e la giustizia devono riaffermarsi proprio nel luogo in cui sono stati violati. Vi sono poi una serie di eccezioni. Se si tratta di un fatto dal quale è derivata la morte di una o più persone, è competente il giudice del luogo in cui è avvenuta l'azione o l'omissione. Se si tratta di un reato permanente, è competente il giudice del luogo in cui ha avuto inizio la consumazione, anche se dal fatto è derivata la morte di una o più persone. Se si tratta di un delitto tentato, è competente il giudice del luogo in cui è stato compiuto l'ultimo atto "diretto" a commettere il delitto. L'art. 9 prevede alcune regole suppletive nei casi nei quali la competenza non può essere determinata in base alle regole generali menzionate. Inoltre, singole leggi speciali prevedono criteri di determinazione della competenza per territorio diversi dal luogo nel quale è consumato il reato. 5 Una importante deroga alle norme ordinarie sulla competenza territoriale è prevista nei procedimenti in cui un magistrato (giudice o pubblico ministero) assume la qualità di imputato, indagato, persona offesa o danneggiata dal reato, quando in base alle regole ordinarie tali procedimenti sarebbero attribuiti alla competenza di un ufficio giudiziario compreso nel distretto di corte d'appello nel quale il magistrato esercita le sue funzioni, o le esercitava al momento del fatto. Tale regola vale anche in caso di procedimenti connessi a quelli in cui un magistrato assume la qualità di imputato, indagato, persona offesa o danneggiata dal reato (art. 11, comma 3 c.p.p.). Nei casi menzionati lo spostamento di competenza per territorio ha lo scopo di assicurare l'imparzialità dell'organo giudicante. Ad esempio, il procedimento penale contro un magistrato che svolge le sue funzioni nel distretto di corte d'appello di Firenze non può essere di competenza di un giudice all'interno di questo distretto, bensì del giudice che ha sede in Genova. e) La competenza per connessione - Riunione e separazione dei procedimenti La connessione è un criterio attributivo della competenza del giudice nel senso che, quando tra i reati vi è un legame di tal genere, i relativi procedimenti sono tutti di competenza di un unico organo giurisdizionale. Vi è connessione in tre casi art. 12 cpp. a) In primo luogo, quando il reato per cui si procede è stato commesso da più persone in concorso o cooperazione tra loro, o se più persone con condotte indipendenti hanno determinato l'evento (connessione forte); b) In secondo luogo, quando una persona è imputata di più reati commessi con una sola azione d’omissione o con più azioni od omissioni esecutive del medesimo disegno criminoso (reato continuato) (connessione debole). c) In terzo luogo, quando si procede per più reati, se gli uni sono stati commessi per eseguire od occultare gli altri (connessione teleologica). Il giudice competente in caso di connessione viene individuato in base ai seguenti criteri. Fra i giudici competenti per materia, la corte d'assise prevale sul tribunale. Applicata questa regola, se più giudici sono egualmente competenti per materia (es. due corti d'assise) ed hanno una diversa competenza per territorio, prevale il giudice competente per il reato più grave, sulla base degli indici elencati nell'art. 16, comma 3; in caso di pari gravità, prevale il giudice competente per il reato commesso per primo (art. 16, comma 1). Una regola di attribuzione riguarda i casi in cui alcuni procedimenti connessi appartengono al tribunale collegiale ed altri al tribunale in composizione monocratica. Ove esista un legame di connessione, i procedimenti sono tutti attribuiti alla cognizione del tribunale collegiale (art. 33-quater). Esiste una importante deroga alla connessione in presenza di procedimenti contro imputati minorenni. Costoro devono essere sempre e comunque giudicati dal tribunale per i minorenni, e cioè da un giudice specializzato che deve tenere presente il fine primario della rieducazione: in base all'art. 14, la connessione non opera fra procedimenti relativi a imputati che al momento del fatto erano minorenni e procedimenti relativi a imputati maggiorenni. Quando i procedimenti sono connessi, di regola accade che essi siano anche riuniti, e cioè siano trattati congiuntamente in un unico procedimento ad opera di un unico organo giudicante. È evidente che la finalità naturale, alla quale è preordinata la connessione, è quella di permettere la riunione di più procedimenti in uno unico (c.d. simultaneus procersus); quando ciò avviene, si realizza un'economia di atti. Al tempo stesso, il processo riunito può permettere di ricostruire con maggiore chiarezza e completezza il quadro probatorio ed i rapporti tra i vari fatti di reato. Ma non è detto che in presenza di connessione i procedimenti debbano svolgersi necessariamente riuniti; quello che la legge impone è che vi sia un unico giudice competente per materia e territorio. Perché si possa disporre la riunione sono necessari i seguenti requisiti (art. 17): 1) che i procedimenti siano pendenti nella stessa fase e nello stesso grado, 2) che i procedimenti siano di competenza del medesimo giudice, 3) che i procedimenti siano connessi oppure vi sia comunque tra gli stessi una di quelle ipotesi di collegamento probatorio che sono previste dall'art. 371; 4) che la riunione non determini un ritardo nella definizione dei procedimenti. 6 L'esigenza di riunire i procedimenti può scontrarsi con altre di segno opposto, che tendono a tenerli separati. La separazione deve essere disposta dal giudice nei seguenti casi (art. 18, comma 1): a) quando nel corso dell'udienza preliminare è possibile decidere subito la posizione di un imputato (ad esempio, in caso di giudizio abbreviato o patteggiamento); b) quando per un imputato si debba sospendere il procedimento; c) quando un imputato non è comparso in dibattimento ed occorra rinnovare la citazione nei suoi confronti; d) quando uno o più difensori di imputati non sono comparsi in dibattimento per motivi legittimi; e) quando per un imputato l'istruzione dibattimentale è già stata conclusa, mentre per altri deve continuare con tempi lunghi; e-bis) quando stiano per scadere i termini di custodia cautelare in relazione a taluno dei delitti elencati nell'art. 407, comma 2, lett. a (reati di criminalità organizzata e ipotesi assimilate) ed occorra definire con urgenza la fase o il grado per evitare la scarcerazione automatica. Fuori dai casi predetti, la separazione può essere disposta, sull'accordo delle parti, quando il giudice la ritenga utile ai fini della speditezza del processo (att. 18, comma 2). Nonostante la presenza di ipotesi di separazione obbligatoria il giudice può ritenere la riunione “assolutamente necessaria per l’accertamento dei fatti”. Ai sensi dell'art. 19, la riunione e la separazione dei processi sono disposte con ordinanza dal giudice anche d'ufficio, ma con il limite che devono essere "sentite le parti". f. Il principio del giudice naturale In base all'art. 25, comma 1 della Costituzione “nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge”. Precostituzione: la norma costituzionale garantisce l’individuazione di un organo giurisdizionale sulla base di criteri normativi predeterminati rispetto ad una fattispecie astratta da giudicare. Non si possono istituire giudici post fatto. La precostituzione è legala alla competenza. Naturalità: sottintende l’operatività e la certezza delle regole dell’individuazione del giudice in relazione ai fatti commessi. È un criterio sussidiario di ripartizione dei rapporti tra più giurisdizione. Dalla norma si ricava il principio del giudice naturale, che a sua volta si esprime in quattro sotto-principi. In primo luogo, il principio della riserva assoluta di legge in materia di competenza. Ciò significa che la competenza del giudice può essere determinata soltanto dalla legge, e non da fonti secondarie (regolamenti o atti amministrativi). In secondo luogo, si desume quale contenuto debbano avere le disposizioni di legge, che sono destinate a regolare la competenza. Le norme non devono conferire un potere di scelta discrezionale. In terzo luogo, dalla necessaria "precostituzione" del giudice si ricava il divieto di applicazione retroattiva delle norme concernenti la competenza; queste sono applicabili ai fatti di reato che siano stati commessi dopo la loro entrata in vigore. Il principio del giudice naturale, in definitiva, impedisce che un organo legislativo, amministrativo o giurisdizionale possa sottrarre discrezionalmente un procedimento ad un determinato giudice. Ne risulta ulteriormente tutelata la garanzia di indipendenza dell'organo giudicante. In quarto luogo, il principio della “naturalità” del giudice fa riferimento ad un concetto che preesiste rispetto alla legge e che quest'ultima è chiamata a tutelare. L'opinione prevalente è nel senso che "giudice naturale" è quello che l'ordinamento considera il più idoneo ad accertare il fatto di reato. Il principio della “naturalità” può cedere di fronte ad interessi superiori (secondo criteri legalmente prestabiliti); ad esempio di fronte al principio di imparzialità del giudice (art. 111, comma 2 Cost.). È il caso che si verifica quando nella sede "naturale" l'intero ufficio giudiziario appaia comunque parziale o sia esposto a pressioni ambientali. 7 L'incompetenza per connessione. Nel caso di procedimenti connessi la competenza è determinata secondo le regole stabilite dagli articoli 15 e 16. L'inosservanza di tali regole determina l'incompetenza per connessione: essa deve essere rilevata o eccepita, a pena di decadenza, entro gli stessi termini previsti per l'incompetenza per territorio (art. 21, comma 3: prima della conclusione dell'udienza preliminare o, se questa non abbia luogo, nel corso delle questioni preliminari al dibattimento). È importante sottolineare che questo regime trova applicazione anche quando la connessione incida sulla competenza per materia (art. 15). Ciò avviene, ad esempio, quando in pendenza di due procedimenti connessi, uno di competenza del tribunale e l'altro della corte di assise, la competenza per connessione sia erroneamente devoluta al tribunale, anziché alla corte di assise. Difetto assoluto di attribuzione. L’attribuzione è un criterio di ripartizione interna, non c’entra la competenza. Ma se si verifica un difetto di attribuzione che cosa accade? L’art. 33 quinques la disciplina è analoga a quella prevista per l’incompetenza per territorio e per connessione. La riforma Cartabia (d.lgs. 150/2022) ha previsto che il giudice, chiamato a decidere una questione concernente la competenza per territorio, possa, anche su istanza di parte, rimettere la decisione alla corte di cassazione, che provvede in camera di consiglio partecipata (art. 24 bis comma 2). Si tratta di una questione pregiudiziale che ha un effetto preclusivo perché la parte, che ha eccepito l’incompetenza per territorio senza chiedere contestualmente la rimessione della decisione alla cassazione, non può riproporre l’eccezione nel corso del procedimento. La questione concernente la competenza per territorio può essere rimessa, anche di ufficio, alla cassazione prima della conclusione dell’udienza preliminare o, se questa manchi, in dibattimento subito dopo aver compiuto per la prima volta l’accertamento della costituzione delle parti. In detti casi il giudice pronuncia un’ordinanza con la quale invia alla cassazione gli atti necessari alla risoluzione della questione. La cassazione decide in camera di consiglio partecipata e, se dichiara l’incompetenza del giudice che procede, ordina la trasmissione degli atti al PM presso il giudice competente. L’estratto della sentenza è immediatamente comunicato al giudice che ha rimesso la questione e, quando diverso, al giudice competente nonché al PM presso i medesimi giudici ed è notificato alle parti private. L’effetto preclusivo menzionato fa venir meno la possibilità di riproporre nelle fasi e gradi successivi del processo l’eccezione di incompetenza per territorio e, in tal modo, fissa una importante acquisizione per la certezza del diritto. In precedenza, la cassazione interveniva soltanto nel grado finale del processo e, se riconosceva l’incompetenza per territorio provocava la necessità di ripetere il giudizio con dispendio di tempo. O la si sfrutta come questione pregiudiziale rimettendo alla corte di cassazione, oppure resta assorbita (effetto preclusivo). La parte che ha eccepito l’incompetenza per territorio senza ricorrere alla cassazione non può più eccepirla. i. L'inosservanza delle disposizioni dalla composizione collegiale o monocratica del tribunale. A seguito della legge 479/1999, il regime delle inosservanze risulta assai complesso. Il termine, entro il quale si può eccepire o rilevare anche d'ufficio l'inosservanza delle disposizioni sulla composizione collegiale o monocratica del tribunale e delle disposizioni processuali collegate, è simile a quello che vale per l'incompetenza per territorio, e cioè prima della conclusione dell'udienza preliminare o, se questa manca, subito dopo compiuto per la prima volta l'accertamento della costituzione delle parti (art. 33- quinquies). Cercheremo di esporre il complesso sistema mediante una summa divisio tra inosservanze "per eccesso" (che hanno comportato garanzie maggiori di quelle richieste dalla legge in relazione al reato) e inosservanze "per difetto" (che, viceversa, hanno comportato una diminuzione di garanzie). Le inosservanze per eccesso. Nell'ambito delle inosservanze per eccesso possono verificarsi due ipotesi. In base ad una prima ipotesi, prevista dall'art. 33-sexies, può accadere che il pubblico ministero, sulla scorta dell'imputazione da lui formulata, abbia chiesto il rinvio a giudizio mediante udienza preliminare erroneamente, perché il fatto contestato avrebbe comportato la citazione diretta a giudizio. In tal caso, il giudice deve trasmettere gli atti al pubblico ministero perché questi emetta il decreto di citazione diretta a giudizio. La seconda ipotesi è quella in cui il giudice collegiale nel corso del dibattimento rilevi che il procedimento spetta al tribunale monocratico. In tal caso non si ha regressione del procedimento: il collegio deve 10 trasmettere gli atti al giudice competente per il dibattimento (art. 33-septies, comma 1). Le inosservanze per difetto. In primo luogo, può verificarsi la situazione, inversa a quella che abbiamo appena descritto, e regolamentata in maniera identica. Se il giudice monocratico in dibattimento ritiene che il procedimento spetti al tribunale collegiale deve trasmettere gli atti al giudice competente per il dibattimento (art. 33-septies, comma 1). L'altra ipotesi, che si può verificare, è che il giudice monocratico, nel dibattimento instaurato a seguito di citazione diretta, rilevi che si tratti di un reato per il quale è prevista l'udienza preliminare. In tal caso, vi è una regressione del procedimento: il giudice trasmette gli atti al pubblico ministero sia ove ritenga che il reato spetti al tribunale collegiale (art. 33-septies, comma 2), sia ove ritenga che il reato sia attribuito al tribunale monocratico (art. 550, comma 3), Il pubblico ministero eserciterà nuovamente l'azione penale. Una norma di chiusura stabilisce che l'inosservanza delle disposizioni sulla composizione collegiale o monocratica del tribunale non determina l'invalidità degli atti del procedimento né l'inutilizzabilità delle prove già acquisite (art. 33-nonies). 1. Le sezioni distaccate del tribunale, La revisione della "geografia giudiziaria”. Le sezioni distaccate di tribunale sono uffici collocati all'interno del circondario del tribunale per rendere più agevole ai cittadini l'accesso agli organi che amministrano la Giustizia. La soppressione di alcuni uffici giudiziari. In adempimento a quanto previsto nella legge 148/2011 il Governo ha provveduto a definire il contenuto di un complesso intervento normativo volto a rivedere l'intera geografia giudiziaria. In sintesi, tale articolata riforma ha previsto la soppressione di 667 uffici del giudice di pace, di 220 sezioni distaccate di tribunale e di 31 tribunali, la creazione del nuovo tribunale di Napoli nord, la modifica territoriale dei circondari di alcuni tribunali e delle corrispondenti procure della repubblica e, conseguentemente, un'analoga modifica per gli uffici di sorveglianza, per i distretti di corte di appello, per le corti di assise di primo e secondo grado interessate dalla riforma. Ciascun tribunale soppresso è stato interamente accorpato ad altro analogo ufficio giudiziario; la stessa cosa è avvenuta per le corrispondenti procure della repubblica. Quanto alle sezioni distaccate di tribunale, sono previste situazioni diverse. Nella gran parte dei casi la sezione distaccata deve essere accorpata alla sede centrale, in altri Casi è prevista una ridefinizione del territorio dei singoli circondari, secondo una duplice modalità: a) mediante scorporo di una intera sezione distaccata dal tribunale originario pet essere accorpata, nella sua globalità, ad un diverso ufficio; b) mediante ridefinizione, comune per comune, del territorio dei due tribunali. m. La capacità del giudice. L'espressione "capacità del giudice" indica il complesso dei requisiti indispensabili per un legittimo esercizio della funzione giudicante. Tuttavia, nel codice di procedura penale non troviamo una vera e propria definizione di questa nozione. In base al primo comma dell'art. 33, sono “condizioni di capacità del giudice quelle che appaiono stabilite dalle leggi di ordinamento giudiziario”. Capacità generica e specifica. Occorre precisare che non tutte le disposizioni finalizzate a regolare l'attribuzione e lo svolgimento della funzione giurisdizionale sono previste a pena di nullità. Si ritiene infatti che la sanzione della nullità assoluta sia messa a presidio della sola capacità generica (che si ottiene con la nomina e l'ammissione nel ruolo) e non anche dell'idoneità specifica, che presuppone la regolare costituzione del giudice nell'ambito di un determinato processo. Infatti, l'art. 33, comma 2 stabilisce che non si considerano attinenti alla capacità del giudice le disposizioni riguardanti la destinazione del magistrato giudicante agli uffici giudiziari ed alle sezioni. Evidentemente il legislatore ha voluto evitare che la violazione delle regole concernenti il funzionamento interno degli uffici giudiziari potesse dare luogo a nullità processuali. Ripartizione tra tribunale collegiale e monocratico. Inoltre, il terzo comma dell'art. 33 esclude che l'attribuzione degli affari penali al tribunale collegiale o monocratico attenga alla capacità del giudice o al numero dei giudici necessario per costituire l'organo giudicante. La violazione delle norme sul riparto della 11 cognizione tra le due articolazioni del tribunale e l’inosservanza delle disposizioni ordinamentali concernenti l'assegnazione dei magistrati a sezioni o collegi non danno luogo a nullità processuali. n. L'imparzialità del giudice. Giurisdizione > dal punto di vista della funzione è uno dei poteri dello stato contrapposto a quello legislativo ed esecutivo > l’esercizio della funzione giurisdizionale spetta agli organi giurisdizionali che sono i giudici, che secondo l’art. 101,2 Cost. sono soggetti soltanto alla legge > la previsione del secondo comma del 101 vuole garantire l’indipendenza del giudice da ogni altro potere dello stato. Art. 104, 1: Autonomia e indipendenza della magistratura: “La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere > compaiono l’indipendenza e l’autonomia” > che differenza c’è? Autonomia: si riferisce in via esclusiva alla magistratura (profilo organizzatorio: distribuzione dei giudici secondo le norme dell’ordinamento giudiziario) > guardiamo all’organo, all’aspetto organizzatorio; Indipendenza: non ci riferiamo più all’aspetto organizzativo, al complesso, ma ci si riferisce al singolo giudice nell’esercizio della giurisdizione. >> L’autonomia del giudice è strumentale all’indipendenza del giudice. Quando il cittadino è davvero tutelato nei confronti del potere giurisdizionale?  Quando il giudice, in quanto autonomo e indipendente, è in posizione di terzietà, che gli consente di mediare tra l’atto legislativo e il conflitto di interessi che si dibatte nel giudizio, operando in modo imparziale nell’applicazione della norma > non bastano autonomia e indipendenza > serve terzietà e imparzialità.  Autonomia e indipendenza sono in rapporto di strumentalità necessaria con le esigenze di imparzialità del giudice che intanto adempie alla funzione di mediare tra fatto e legge in quanto terzo rispetto alle parti processuali e fornito di indipendenza organica e funzionale. Mentre il 104, 1 nasce così (autonomia e indipendenza), nel 111 il riferimento all’imparzialità viene inserito solo nel 1998 >> questo perché il 104 nasce dopo il periodo fascista > il legislatore sentiva la necessità di introdurre l’indipendenza del singolo giudice rispetto agli altri poteri che non era scontata ma non introduce l’imparzialità perché si sofferma sulla sua indipendenza > il costituente va a monte: se il giudice è indipendente sarà anche imparziale >> per imparzialità si intende l’estraneità del giudice rispetto alle ragioni di cui sono portatrici le singole parti. La Corte EDU interviene sul concetto di imparzialità distinguendo profilo soggettivo e oggettivo e affermando che il giudice è imparziale fino a prova contraria. >> Art. 111 Cost : siamo di fronte al problema del significato dei termini > terzietà e imparzialità sono la stessa cosa?  Tesi dell’endiadi: imparzialità = terzietà e terzietà = imparzialità  Tesi dell’autonomia: - Terzietà = equidistanza del giudice dalle parti processuali, che sono invece in rapporto di parità > ma terzietà non vuol dire passività > il giudice non è un soggetto passivo (es. può esercitare potere istruttorio). Quando il giudice interviene, per esempio esercitando potere istruttorio, se ne mette in discussione la terzietà? Art. 507: terminata l’acquisizione delle prove il giudice, se risulta assolutamente necessario, può disporre anche d’ufficio l’assunzione di nuovi messi di prova > premesso che il giudice non ha potere istruttorio che è affidato alle parti, leggendo questa norma rinveniamo un potere del giudice ad intervenire e non viene meno la terzietà > perché? Perché terzietà non è passività > in una situazione in cui, terminata l’acquisizione delle prove, sia necessaria l’assunzione di nuovi mezzi di prova, il giudice interviene perché altrimenti non avrebbe materiale sufficiente per poter decidere > la sua funzione giurisdizionale deve mirare alla decisione finale. Nel 507 però non c’è il limite di questo potere istruttorio >> il limite entro il quale può intervenire è dato dall’ipotesi accusatoria del PM. - Imparzialità: condizione mentale del giudice nel momento di applicazione della norma. È possibile che intervengano cause esterne o interne che minano la terzietà e l’imparzialità del giudice:  Se sono cause interne mineranno la terzietà e il rimedio sarà l’astensione- ricusazione del giudice;  Se sono cause esterne mineranno la sua imparzialità e il rimedio sarà la rimessione. Cosa accade se il giudice non è terzo o imparziale? Il codice disciplina le situazioni patologiche che si possono verificar e individua il rimedio per rimuovere la causa di compromissione della terzietà/imparzialità. 12 La ricusazione. Le parti possono ricusare il giudice in base ai medesimi motivi previsti per l'astensione, con due differenze. In primo luogo, non è possibile ricusare il giudice per "gravi ragioni di convenienza": evidentemente si è ritenuto che una clausola così aperta in favore delle parti potesse rappresentare una lesione eccessiva al prestigio della magistratura. In secondo luogo, il codice aggiunge un ulteriore motivo: le parti possono ricusare il giudice che, nell'esercizio delle sue funzioni, abbia “manifestato indebitamente il proprio convincimento sui fatti oggetto dell'imputazione”. Quanto agli aspetti procedurali, occorre ricordare che sulla ricusazione di un giudice del tribunale, della corte di assise o della corte di assise di appello decide la corte di appello; su quella di un giudice della corte di appello decide una sezione della corte stessa, diversa da quella a cui appartiene il giudice ricusato. Sulla ricusazione di un giudice della corte di cassazione decide una sezione della corte, diversa da quella a cui appartiene il giudice ricusato (art. 40, commi 1 e 2). Una volta accertata la situazione pregiudizievole, viene designato un altro magistrato in base alle norme sull'ordinamento giudiziario. Il procedimento con cui si decide sulla dichiarazione di ricusazione è un procedimento incidentale di carattere giurisdizionale. La dichiarazione di ricusazione può essere proposta in udienza subito dopo compiuto l'accertamento della costituzione delle parti; in ogni altro caso, prima del compimento dell'atto da parte del giudice (art. 38, comma 1). La dichiarazione contenente l'indicazione dei motivi e delle prove è proposta con atto scritto ed è presentata, assiste ai documenti, nella cancelleria del giudice competente a decidere. Copia della dichiarazione è depositata nella cancelleria dell'ufficio cui è addetto il giudice ricusato. La dichiarazione, quando non è fatta personalmente dall'interessato, può essere proposta a mezzo del difensore o di un procuratore speciale (art. 38, commi 3 e 4). Nel frattempo, il giudice ricusato non deve sospendere la sua attività, ma non può pronunciare una sentenza (art. 37, comma 2). Se la dichiarazione è valutata come inammissibile (art. 41, comma 1), gli atti compiuti restano efficaci. Ma se è accolta la dichiarazione di ricusazione, la corte chiamata a decidere deve valutare il grado di compromissione del giudice sospetto. Occorre tracciare una distinzione fondamentale. Atti compiuti dal giudice sospetto prima della decisione che accoglie la ricusazione. La corte può disporre che il giudice sospenda temporaneamente ogni attività o si limiti al compimento di atti urgenti (art. 41, co 2). Atti compiuti dal giudice sospetto dopo la decisione che accoglie la ricusazione. Una volta che è stata pronunciata la decisione che accoglie la ricusazione, il giudice non può compiere alcun atto del procedimento (art. 42, comma 1). Le Sezioni unite della cassazione hanno statuito che l'ordinanza, con cui viene ricusato il giudice, deve dichiarare se, e in quale parte, gli atti compiuti conservino efficacia (art. 42, comma 2). Se l'ordinanza omette di provvedere, la parte interessata può proporre ricorso per cassazione. Ove don lo faccia, gli atti compiuti conservano la loro efficacia. Quando la ricusazione è stata accolta, dopo che la dichiarazione di inammissibilità o di rigetto è stata annullata dalla cassazione con rinvio, la sentenza pronunciata dal giudice sospetto è affetta da nullità assoluta dichiarabile d'ufficio. Accoglimento della ricusazione nei confronti del giudice che ha pronunciato il decreto che dispone il giudizio. Le Sezioni unite Gerbino banno dato un'interpretazione estensiva al termine "sentenza", di cui all'art 37, comma 2, poiché hanno affermato che in essa è ricompreso il decreto del giudice dell'udienza preliminare che dispone il giudizio. In primo luogo, la giurisprudenza costituzionale ha chiarito che l'attività, compiuta dal giudice ai sensi dell'art. 429, non è una mera valutazione sull'azione penale ai fini della procedibilità, bensì è una decisione sulla sostenibilità dell'ipotesi accusatoria in base a prove. In secondo luogo, si tratta di un atto non interlocutorio, bensì definitivo: è una prognosi sulla possibilità di successo nella fase dibattimentale e non può essere compiuto da un giudice sospetto. Infine, il decreto che dispone il giudizio è un atto definitivo perché “definisce la regiudicanda in modo non ritrattabile”. In conclusione, si può affermare il principio secondo cui “il divieto per il giudice ricusato di pronunciare sentenza ai sensi dell'art. 37, comma 2, c.p.p. è riferibile anche al decreto che dispone il giudizio ed opera sino alla pronuncia di inammissibilità o di rigetto, anche non definitiva, dell'organo competente a decidere sulla ricusazione”. 15 q. La rimessione del processo. Vi possono essere casi nei quali è pregiudicata l'imparzialità dell'intero ufficio giudicante territorialmente competente a prescindere da situazioni che riguardino il singolo magistrato che lo compone. In questi casi il codice prevede lo spostamento della competenza per territorio ad un altro organo giurisdizionale (con la medesima competenza per materia) situato presso quel capoluogo del distretto di corte d'appello che è individuato in base all'art. 11 (e cioè, nell'ipotesi di un reato commesso da un magistrato). Lo spostamento è deciso dalla corte di cassazione se ed in quanto tale organo accerti l'esistenza di almeno uno dei requisiti della rimessione (art. 45). La richiesta motivata di rimessione può essere presentata soltanto dall'imputato, dal pubblico ministero presso il giudice che procede e dal procuratore generale presso la corte d'appello. In tutti i casi nei quali è prevista la rimessione devono essere presenti (c.d. motivi di legittimo sospetto – reintrodotto dalla l. 248/2002) “gravi situazioni locali, tali da turbare lo svolgimento del processo e non altrimenti eliminabili”. La situazione deve essere "grave", e cioè occorre che sia presente una obiettiva situazione di fatto che lasci fondatamente presagire uno svolgimento non sereno del giudizio. Deve essere "locale", e cioè non diffusa sull'intero territorio nazionale. Deve essere "esterna" rispetto al processo, e cioè non deve consistere in un fenomeno connesso alla dialettica processuale. Infine, deve essere "non eliminabile" con gli strumenti a disposizione del potere esecutivo. Legittimo sospetto - vera e propria situazione di pericolo che può comportare una situazione di pericolo non solo per il giudice ma per tutto l’ufficio giudicante. Per qualcuno la rimessione si riferiva alla competenza non all’imparzialità. Dato che si fa riferimento a cause esterne, quindi, bisogna interessarsi non del giudice competente ma dell’imparzialità dello stesso. 1) Il primo caso di rimessione si ha quando sono pregiudicate la sicurezza e l'incolumità pubblica. 2) Il secondo caso di rimessione sussiste quando è pregiudicata la libera determinazione delle persone che partecipano al processo. Può essere la situazione in cui i giudici popolari o i testimoni sono intimiditi da associazioni mafiose. 3) Il terzo caso di rimessione consiste in gravi situazioni locali che “determinano motivi di legittimo sospetto”. Questa fa riferimento ad una “grave e oggettiva situazione locale, idonea a giustificare la rappresentazione di un concreto pericolo di non imparzialità del giudice”, inteso questo come l'intero ufficio giudicante della sede in cui si svolge il processo. La richiesta deve essere depositata nella cancelleria del giudice che procede e deve essere notificata altre parti a pena di inammissibilità (art. 46). Il giudice trasmette l'istanza alla corte di cassazione e può sospendere il procedimento in attesa della decisione della suprema corte (art. 47, comma 1); deve, tuttavia, sospendere il processo prima dello svolgimento delle conclusioni e non può pronunciare sentenza (né emettere il decreto che dispone il giudizio). Il provvedimento, che ordina la sospensione, non impedisce il compimento di atti urgenti, ha effetto fino a che la cassazione non si sia pronunciata sulla richiesta di rimessione (att. 47, comma 3) e composta la sospensione della prescrizione del reato e dei termini di custodia cautelare (art. 47, comma 2). La sospensione del processo non è disposta quando la richiesta sia fondata su elementi identici rispetto a quelli di altra istanza già rigettata o dichiarata inammissibile (art. 47, comma 2). La corte di cassazione verifica l'esistenza delle situazioni che impongono la rimessione e dopo aver assunto, se necessario, le opportune informazioni decide in camera di consiglio. Ove accolga la richiesta, trasferisce il processo ad un altro giudice che abbia la medesima competenza per materia e che abbia sede nel capoluogo del distretto di corte d'appello individuato in base all'art. 11 c.p.p. La rimessione determina, pertanto, uno spostamento della (sola) competenza per territorio. Il giudice designato provvede alla rinnovazione degli atti compiuti anteriormente alla rimessione quando ne è richiesto da una delle parti e non si tratta di atti di cui è diventata impossibile la ripetizione (art. 48, comma 3). Ove la cassazione rigetti o dichiari inammissibile la richiesta delle parti private, queste con la stessa ordinanza possono essere condannate al pagamento a favore della cassa delle ammende di una somma da 1.0 euro a 5.000 euro. 16 1. Le questioni pregiudiziali alla decisione penale. Il principio di autosufficienza della giurisdizione penale. Nel momento in cui si deve accertare la responsabilità dell'imputato, il giudice penale può avere la necessità di risolvere una questione pregiudiziale; in senso lato è pregiudiziale una questione che si pone come antecedente logico-giuridico per pervenire alla decisione. Esemplificando: per decidere sull'imputazione di furto occorre accertare la altruità della cosa (art. 624 c.p.). Ad esempio, per dichiarare la responsabilità dell'imputato per il delitto di ricettazione occorre accertare che la cosa acquistata è stata oggetto di un furto; ma la cognizione di tale reato potrebbe essere in concreto di competenza di un giudice diverso da colui che procede. Il codice accoglie la regola secondo la quale il giudice penale ha il potere di risolvere ogni questione da cui dipenda la sua decisione, salvo che una norma di legge disponga diversamente. Ciò costituisce espressione del principio di autosufficienza della giurisdizione penale e, al tempo stesso, attua la massima semplificazione delle forme e la ragionevole durata del processo. La risoluzione della questione in via incidentale. Il giudice conosce della questione soltanto in quanto presupposto dell'accertamento della responsabilità dell'imputato. Ed infatti, l'art. 2 comma 2 c.p.p. precisa che la pronuncia del giudice penale, che risolve incidentalmente una questione civile, amministrativa o penale, non ha efficacia vincolante in nessun altro processo. Es. per dichiarare la responsabilità dell'imputato per il delitto di ricettazione occorre accertare che la cosa acquistata è stata oggetto di un furto; detta questione è risolta ai soli fini dell'esistenza della ricettazione e non vincola il giudice competente a decidere sull'imputazione di furto. Nel risolvere la questione pregiudiziale, il giudice penale di regola non è vincolato ai limiti di prova stabiliti dalle leggi civili (es. il limite alla prova testimoniale per determinati contratti: artt. 2721 e 2722 c.c.). Ciò significa che le esigenze di speditezza del processo penale possono portare ad un eventuale contrasto con le decisioni di altri giudici penali, civili o amministrativi. Soltanto in due casi il giudice penale deve seguire le regole probatorie speciali vigenti per la specifica materia. Si tratta delle questioni pregiudiziali sullo stato di famiglia e di cittadinanza, in presenza delle quali il giudice penale deve osservare i limiti di prova stabiliti dalle leggi civili (art. 193 c.p.p.). In questo caso prevale il principio della certezza dei rapporti giuridici, che sono regolati in modo esclusivo dalle leggi civili e vincolano il giudice penale. L'autosufficienza totale: le questioni pregiudiziali "penali". Il giudice penale gode di una totale autosufficienza nell'accertare le questioni pregiudiziali penali. Quale esempio si può citare nuovamente il caso in cui nel decidere sull'esistenza della ricettazione si debba risolvere il problema se la cosa "proviene" da un qualsiasi delitto (att. 648 c.p.). La eventuale sentenza irrevocabile sulla esistenza del furto non ha efficacia di giudicato nel processo per ricettazione; se mai può essere utilizzata come prova documentale in presenza di riscontri e salvo prova contraria (art. 238-bis c.p.p.). A sua volta, la risoluzione della questione pregiudiziale sulla qualità di "cosa rubata", quale antecedente logico della esistenza della ricettazione, non vincola altro giudice penale che debba accettare l'esistenza del furto. Nel codice di procedura penale sono contemplate una serie di eccezioni, più o meno marcate, alla giurisdizione del giudice penale su controversie non direttamente attribuite alla propria cognizione. In particolare: 1) Le controversie attinenti alle restituzioni delle cose sequestrate o confiscate non sono risolte dal giudice penale, ma sono attribuite al giudice civile territorialmente competente (art. 263, comma 3). In presenza di controversie sullo stato di famiglia o sulla cittadinanza, il giudice penale può sospendere il processo se concorrono i requisiti di cui all'art. 3 c.p.p. Facciamo l'esempio che il giudice sia chiamato ad accertare se un cittadino abbia portato armi contro lo Stato italiano (art. 242 c.p.); nel merito può essere controverso se l'imputato abbia effettivamente la qualifica di "cittadino". Il giudice penale, in base all'art. 3, comma 1, c.p.p., può sospendere il processo soltanto quando la questione abbia due requisiti concorrenti, e cioè: a) la questione deve essere "seria"; b) l'azione a norma delle leggi civili deve essere già in corso. Si tratta, quindi, di un'autosufficienza parziale. 2) Le questioni pregiudiziali relative a una controversia civile (ma diverse da quelle sullo stato di famiglia o sulla cittadinanza) o amministrativa possono comunque determinare la sospensione del processo penale laddove siano di particolare complessità e laddove il procedimento extrapenale sia già in corso. Se tuttavia entro un anno quest'ultimo non è concluso, il giudice può revocare l'ordinanza di sospensione Occorre accennare ad altre questioni pregiudiziali che possono sorgere nel corso del processo penale. 3) Le questioni relative alla compatibilità con la Costituzione di leggi o atti aventi forza di legge rilevanti per il giudizio penale devono essere sollevate, dal giudice procedente, innanzi alla Corte costituzionale (c.d. pregiudiziale di costituzionalità). 4) Le questioni interpretative del diritto comunitario devono essere deferite alla Corte di Giustizia in base al disposto dell'art. 234, comma 2 del Trattato istitutivo dell'Unione europea (c.d. pregiudiziale comunitaria). 17 Per i delitti commessi dal presidente della repubblica (art. 90 Cost.) le funzioni di pubblico ministero sono svolte da uno o più "commissari" eletti dal parlamento in seduta comune dopo che quest'ultimo ha deliberato l'atto d'accusa. Le funzioni svolte dal pubblico ministero sono indicate nell'ordinamento giudiziario. In particolare, il pubblico ministero: 1) “veglia alla osservanza delle leggi, alla pronta e regolare amministrazione della giustizia, alla tutela dei diritti dello Stato, delle persone giuridiche e degli incapaci” (art. 73 ord. giud.). 2) “promuove la repressione dei reati” (art. 73 ord. giud.) e cioè svolge le indagini necessarie per valutare se deve chiedere il rinvio a giudizio o l'archiviazione. 3) “esercita l'azione penale” in ogni caso in cui non debba richiedere l'archiviazione, e cioè quando dalle indagini sono emersi clementi idonei a sostenere l'accusa in giudizio (art. 50, comma 1 c.p.p.). 4) “fa eseguire i giudicati ed ogni altro provvedimento del giudice, nei casi stabiliti dalla legge” (art. 73 ord. giud.). Il pubblico ministero svolge nel procedimento penale la funzione di parte pubblica. Egli rappresenta l'interesse generale dello Stato-comunità, e cioè l'interesse della collettività che è stata lesa dal reato. Ben distinta è la situazione soggettiva dello Stato-persona, che è rappresentato dall'avvocatura dello Stato. Infatti, qualora il reato abbia cagionato un danno ad un bene dello Stato, il ministro competente può decidere di chiedere il risarcimento nel processo penale. In tal caso il ministro, che si costituisce parte civile, è rappresentato dall'avvocatura dello Stato. Il magistrato che fa patte dell'ufficio del pubblico ministero ha una piena indipendenza di status (art. 104 Cost.); in quanto “magistrato”, egli è inamovibile nel grado e nella sede (art. 107 Cost.); è nominato a seguito di pubblico concorso (art. 106, comma 1 Cost.); i provvedimenti disciplinati e le promozioni che lo riguardano sono deliberati dal consiglio superiore della magistratura (art. 105 Cost.). Per quanto attiene alle funzioni, la Costituzione impone al pubblico ministero l'obbligo di esercitare l'azione penale (art. 112); da ciò si fa comunemente derivare la soggezione del pubblico ministero alla legge. La principale differenza rispetto al giudice sta nel fatto che, ai sensi dell'art. 107, comma 4 Cost., “il pubblico ministero gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull'ordinamento giudiziario”. b. I rapporti all'interno dell'ufficio. I rapporti di dipendenza gerarchica, che esistono all'interno dell'ufficio del pubblico ministero, assumono una configurazione tutta particolare perché devono contemperare due esigenze contrapposte: da un lato garantire l'indipendenza del singolo magistrato, da un altro lato assicurare la buona organizzazione dell'ufficio della pubblica accusa. La materia ha cambiato la configurazione che aveva nel 1988; il cambiamento è dovuto alla legge-delega n. 150 del 2005 sulla riforma dell'ordinamento giudiziario, alla quale è seguito il d.lgs. n. 106 del 2006 e la legge 24 ottobre 2006 m. 269 che hanno introdotto ulteriori modifiche. La normativa vigente risulta configurata nel modo che veniamo ad esporre. In estrema sintesi, si è passati da un sistema classificabile come "personalizzazione delle funzioni'" ad un altro che possiamo definire "gerarchia attenuata". In base al vecchio principio di "personalizzazione delle funzioni" il titolare dell'ufficio designava il magistrato che doveva svolgere le indagini nel singolo procedimento in modo automatico in base ad un sistema tabellare che era fondato su criteri predeterminati. Detto sistema era previsto dalla legge per il giudice, ma il CSM con varie circolari lo aveva esteso agli uffici della pubblica accusa. Il magistrato designato conservava una vera e propria autonomia operativa, poiché il capo dell'ufficio del pubblico ministero poteva dare soltanto direttive di carattere generale, per l'organizzazione dell'ufficio, e non di carattere particolare, relative allo svolgimento del singolo procedimento. La revoca della designazione era consentita soltanto in casi tassativi: e cioè quando il magistrato intendeva formulare richieste in contrasto con le direttive di carattere generale, o quando le richieste del magistrato erano insostenibili sul piano tecnico. La gerarchia attenuata. In base alle norme oggi vigenti, i criteri automatici non costituiscono più l'unica modalità di attribuzione di un caso; il procuratore della repubblica può assegnare un procedimento ad un determinato sostituto in deroga al criterio di automaticità previsto dal "progetto organizzativo". Il principio generale sta nella titolarità esclusiva delle funzioni spettante al procuratore della repubblica, che esercita l'azione penale “personalmente o mediante assegnazione ad uno o più magistrati addetti all'ufficio”. 20 La novità sta nel fatto che non si tratta più di quella " designazione", che era prevista nel testo del 1988 e che lasciava piena autonomia operativa al singolo sostituto. La legge 269/2006 ha introdotto un nuovo istituto: la "assegnazione", la cui natura giuridica consiste nel conferire poteri con limitata autonomia funzionale. In base alla nuova disposizione “il procuratore della repubblica, quale titolare esclusivo dell'azione penale, la esercita personalmente o mediante assegnazione ad uno o più magistrati dell'ufficio”. Con l'atto di assegnazione il procuratore può stabilire i criteri (generali, ma anche particolari per il singolo procedimento) ai quali il magistrato deve attenersi nell'esercizio della relativa attività. Dal 2006 in poi il Consiglio superiore della magistratura ha adottato numerose delibere al fine di garantire la trasparenza nell'esercizio dei poteri del capo dell'ufficio onde tutelare l'indipendenza e l'autonomia di ogni singolo magistrato dell'ufficio. L'ultima delibera è del 16 novembre 2017 con le modifiche apportate dalla Nuova Circolare sull'Organizzazione degli Uffici di Procura del 16 dicembre 2020 in merito al progetto organizzativo nel quale il procuratore capo deve dar conto nel dettaglio delle modalità con le quali eserciterà i propri poteri nell'ufficio. Tale impostazione è stata codificata dalla legge n. 71 del 2022 che, oltre a prevedere una delega al Governo per la riforma dell'ordinamento giudiziario volta a garantire i principi di trasparenza e indipendenza della magistratura, ha tracciato nuove regole in punto di elezione e funzionamento del Consiglio superiore della magistratura, in tema di procedimento disciplinare e, appunto, in tema di organizzazione della procura. La riforma del 2022 ha modificato i commi 6 e 7 dell'art. 1 d.lgs. n. 106 del 2006 recependo il principio della tendenziale e generale predeterminazione dei criteri: tutti i poteri riconosciuti al Capo vengono procedimentalizzati. In particolare, il nuovo comma 6 stabilisce che il procuratore della Repubblica predispone, in conformità ai principi generali definiti dal Consiglio superiore della magistratura, il progetto organizzativo dell'ufficio, con il quale determina tutti gli aspetti più rilevanti nella gestione dei sostituti procuratori. Ai sensi del comma 7, il progetto organizzativo dell'ufficio è adottato ogni quattro anni (con le stesse cadenze con le quali vengono predisposte le tabelle degli uffici giudicanti) ed è approvato dal Consiglio superiore della magistratura. La revoca dell'assegnazione al di fuori dell'udienza. Quando le direttive generali o particolari sono violate, o comunque quando si verifica un contrasto con il titolare dell'ufficio, questi può revocare l'assegnazione con provvedimento motivato. Entro dieci giorni dalla comunicazione della revoca, il magistrato al quale era stato originariamente assegnato il procedimento può presentare osservazioni scritte al procuratore della repubblica. Ove non intervenga un chiarimento delle rispettive posizioni, sia il titolare dell'ufficio, sia il magistrato interessato possono segnalare l'avvenuta revoca al CSM per i provvedimenti di competenza di quest'ultimo. Il potere direttivo del titolare si attenua quando il magistrato si trova in udienza. In tal caso, il magistrato del pubblico ministero esercita le sue funzioni con "piena" autonomia (art. 53, comma 1). Il capo dell'ufficio provvede alla sostituzione soltanto su consenso dell'interessato ovvero, se il consenso manca, nel caso di grave impedimento o di rilevanti esigenze di servizio. Inoltre, il capo ha l'obbligo di provvedere alla sostituzione se il magistrato ha un interesse "privato" nel procedimento (art. 53, comma 2). Quando ciò avviene, il titolare dell'ufficio deve trasmettere al consiglio superiore della magistratura copia del provvedimento motivato con cui ha disposto la sostituzione del magistrato. Se il capo dell'ufficio non provvede alla sostituzione, il procuratore generale presso la corte di appello deve disporre l'avocazione ai sensi dell'art. 53, comma 3. Nelle medesime ipotesi il procuratore generale deve disporre l'avocazione al di fuori dell'udienza o anche quando, in conseguenza dell'astensione o dell'incompatibilità del magistrato designato, non è possibile provvedere alla sua tempestiva sostituzione. Un ulteriore aspetto di gerarchia ha per oggetto le misure cautelari. Il singolo magistrato del pubblico ministero, quando sta per presentare al giudice la richiesta di una misura cautelare personale (es, custodia in carcere) o reale (es. sequestro preventivo), deve ottenere l'assenso scritto dal procuratore della repubblica. Analogo assenso è necessario per disporre il fermo di persona indiziata di un delitto. L'assenso non è necessario quando la richiesta di una misura cautelare è formulata in occasione della convalida dell'arresto o del fermo o in occasione della convalida del sequestro preventivo operato d'urgenza. 21 c. I rapporti tra gli uffici. Ogni ufficio del pubblico ministero è competente a svolgere le sue funzioni esclusivamente presso l'organo giudiziario davanti al quale è costituito. Occorre premettere che il rapporto gerarchico esiste quando l'organo superiore ha un potere conformativo diretto che è realizzabile con gli strumenti dell'ordine e della direttiva in relazione al singolo affare trattato dall'organo inferiore, il quale pertanto è giuridicamente obbligato ad adempiere a quanto richiesto. Ciò detto, nei rapporti tra gli uffici del pubblico ministero non vi è un potere gerarchico tra quello superiore e quello inferiore; l'ufficio superiore ha singoli poteri di sorveglianza riguardanti la disciplina e l'organizzazione. Il procuratore generale presso la corte di cassazione svolge una funzione di sorveglianza, nel senso che ha il potere di iniziare l'azione disciplinare contro un qualsiasi magistrato requirente o giudicante; la decisione spetterà poi al consiglio superiore della magistratura. Si ha contrasto negativo tra pubblici ministeri quando due uffici, durante le indagini preliminari in relazione ad un determinato reato, negano la competenza per materia o per territorio del giudice presso il quale ciascuno di essi esercita le funzioni, ritenendo esistente la competenza di un altro giudice. Si ha contrasto positivo tra uffici del pubblico ministero, quando due uffici stanno svolgendo indagini a carico della stessa persona ed in relazione al medesimo fatto e ciascuno di essi ritenga la propria competenza esclusiva. Il procuratore generale presso la corte d'appello svolge, in relazione agli uffici sottordinati, una funzione di sorveglianza che si manifesta nei seguenti aspetti: a) nel potere di dirimere i contrasti tra due uffici del pubblico ministero del medesimo distretto di corte d'appello, i quali ritengano contemporaneamente di affermare (o, viceversa, negare) la propria competenza in un singolo caso; b) nel potere di avocare un singolo affare in casi tassativamente previsti dalla legge. Nelle due ipotesi menzionate non viene attivato alcun potere gerarchico sull'ufficio inferiore, poiché l'ufficio superiore non può dare direttive vincolanti in relazione alla trattazione di un singolo caso. Il procuratore generale presso la corte d'appello ha il potere di acquisire dati e notizie dalle procure della repubblica del distretto ed il potere di inviare al procuratore generale presso la corte di cassazione una relazione almeno annuale. Il potere di avocazione. In base al diritto amministrativo, l'avocazione è il potere dell'organo superiore di sostituirsi all'organo inferiore nello svolgimento di una determinata attività. Il codice attribuisce il potere di avocazione al procuratore generale presso la corte d'appello nei confronti del pubblico ministero presso il tribunale quando sono presenti situazioni espressamente previste dalla legge; ciò avviene quando il titolare, o un magistrato dell'ufficio inferiore, hanno omesso un'attività doverosa o quando comunque il procedimento penale rischia una stasi per l'inerzia del magistrato del pubblico ministero. In concreto, in base al provvedimento di avocazione un magistrato della procura generale presso la corte di appello sostituisce un magistrato del pubblico ministero di primo grado nel compimento di quella attività che quest'ultimo sta svolgendo. Sono previsti casi nei quali l’avocazione è obbligatoria ed altri nei quali è discrezionale. d. L'astensione del pubblico ministero. Qui si manifesta ancora una volta la differenza tra il magistrato giudicante ed il magistrato requirente. Infatti, il giudice ha l'obbligo di astenersi ove sia presente una situazione che lo faccia apparire "parziale" (art. 36); per gli stessi motivi il giudice può essere ricusato. Viceversa, il magistrato del pubblico ministero non può essere ricusato, in quanto parte. L'astensione. Sempre il pubblico interesse che deve connotare le funzioni da lui svolte impone al pubblico ministero di astenersi quando vi sono gravi ragioni di convenienza. Sulla dichiarazione di astensione decide il capo dell'ufficio del pubblico ministero (art. 52, comma 2). Tra le gravi ragioni di convenienza vi sono le situazioni nelle quali il magistrato ha un interesse privato nel procedimento che gli è stato assegnato o ha un rapporto di interesse con una delle parti. In detti casi il singolo magistrato ha il dovere di astenersi. La sostituzione. Ai sensi dell'art. 53, comma 2, il codice pone al capo dell'ufficio l'obbligo di sostituire il 22 3. La polizia giudiziaria. a. Polizia giudiziaria e di sicurezza. Lo Stato tutela l'ordine e la legalità servendosi di quattro corpi di polizia: la Polizia di Stato, l'Arma dei Carabinieri, la Guardia di finanza e il Corpo di polizia penitenziaria. Il Corpo forestale dello Stato dal 1° gennaio 2017 è stato inserito nell' Arma dei Carabinieri. I predetti corpi svolgono, in presenza di determinati presupposti, "funzioni" che sono definite di polizia giudiziaria e di polizia di sicurezza. La polizia amministrativa e di sicurezza. La polizia amministrativa si occupa dell'osservanza della legge e dei regolamenti amministrativi, in esecuzione delle funzioni proprie del potere esecutivo. La polizia amministrativa si distingue a sua volta in molte specializzazioni, quali ad esempio la polizia tributaria, la polizia sanitaria, la polizia stradale e, importantissima, la polizia di sicurezza. Ebbene, la polizia di sicurezza ha come compito la tutela della collettività contro i pericoli e le turbative a interessi essenziali per la vita di una società civile quali sono l'ordine pubblico (inteso come assenza di reati) e la sicurezza delle persone. In definitiva, la polizia di sicurezza è quella funzione che tende a prevenire il compimento di reati. La polizia giudiziaria. La funzione di polizia giudiziaria trova la sua definizione nell'art. 55 del codice di procedura penale. La polizia giudiziaria “deve, anche di propria iniziativa, prendere notizia dei reati, impedire che vengano portati a conseguenze ulteriori, ricercarne gli autori, compiere gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant'altro possa servire per l'applicazione della legge penale”. La differenza tra polizia di sicurezza e giudiziaria si basa sulla contrapposizione tra "prevenzione dei reati" e "repressione di un reato"; con quest'ultima espressione si vuole indicare la raccolta di tutti gli elementi necessari per accertate il reato e per rendere possibile lo svolgersi del processo penale. La distinzione tra le due funzioni ha finalità prettamente garantistiche. Quando svolge la funzione di prevenire i reati, la polizia di regola (salvo rarissime eccezioni) non gode di poteri coercitivi, e cioè non può direttamente limitare le libertà fondamentali. Viceversa, non appena giunge la notizia che è stato commesso un reato, viene esercitata la funzione di polizia giudiziaria con l'uso dei poteri coercitivi. In situazioni di necessità ed urgenza la polizia giudiziaria procede all'arresto in flagranza o al fermo di una persona gravemente indiziata (artt. 380-384); inoltre, in caso di flagranza può perquisire persone o luoghi (art. 352). L'esercizio di poteri coercitivi avviene in collegamento con il successivo svolgersi di un procedimento penale, con la garanzia del diritto di difesa e sotto il controllo del pubblico ministero e del giudice (119). La polizia giudiziaria ha una doppia dipendenza. a) Dal punto di vista organico, infatti, essa è dipendente dal potere esecutivo: per le promozioni e la carriera il singolo ufficiale (o agente) dipende dal corpo di appartenenza e, per il tramite di questo, dal ministro presso cui è incardinato il corpo medesimo. b) Dal punto di vista funzionale, la polizia giudiziaria dipende dall’autorità giudiziaria, nel senso che le sue funzioni sono svolte sotto la direzione del pubblico ministero (art. 56 c.p.) e sotto la sorveglianza del procuratore generale presso la corte d'appello. In definitiva, l'ufficiale di polizia dipende funzionalmente dal pubblico ministero per quanto riguarda la funzione di polizia giudiziaria e organicamente dal potere esecutivo per quanto riguarda le carriere. Per tale motivo vi è il pericolo che le direttive dell'autorità giudiziaria siano ostacolate da direttive in senso contrario provenienti dagli organi del potere esecutivo. In concreto, vi è il rischio che, in relazione a determinati reati, non siano ricercate le fonti di prova e non siano eseguite con la dovuta solerzia le direttive dell'autorità giudiziaria. 25 b. La dipendenza dall'autorità giudiziaria. Per evitare tali pericoli, sono previsti vari strumenti che rafforzano la direzione funzionale spettante all'autorità giudiziaria; la finalità è quella di attuare il principio costituzionale secondo cui “l'autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria”. Il codice distingue tre strutture che svolgono funzioni di polizia giudiziaria, pur restando i singoli ufficiali ed agenti sotto la dipendenza "organica" del corpo di appartenenza (art. 56). Le strutture si caratterizzano per il diverso grado di dipendenza funzionale dall'autorità giudiziaria. Il maggior grado di dipendenza è riscontrabile nelle sezioni (art. 56, lett. b). Si tratta di organi costituiti presso gli uffici del pubblico ministero di primo grado e composti, di regola, da ufficiali e agenti della polizia di Stato, dei carabinieri e della guardia di finanza; inoltre possono esservi applicati ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria appartenenti ad altre amministrazioni quando vi sono particolari esigenze di specializzazione. Un minor grado di dipendenza funzionale dal pubblico ministero è riscontrabile nei servizi di polizia giudiziaria (art. 56, lett. a). Questi sono costituiti presso i corpi di appartenenza (si tratta, ad es., della squadra mobile presso le questure e dei nuclei investigativi presso i comandi dei carabinieri e della guardia di finanza); a prescindere dalla loro denominazione, si considerano servizi “tutti gli uffici e le unità ai quali è affidato dalle rispettive amministrazioni (...) il compito di svolgere in via prioritaria e continuativa le funzioni”. Il minor grado di dipendenza funzionale consiste nel fatto che il magistrato del pubblico ministero, che dirige le indagini preliminari, dà un incarico non personalmente ad un ufficiale di polizia giudiziaria, bensì impersonalmente all'ufficio; sarà il responsabile di questo a scegliere l'ufficiale che condurrà le investigazioni. Il potere direttivo spettante all'ufficio del pubblico ministero è rafforzato da strumenti che incidono sulla mobilità e sulle promozioni del dirigente del servizio. Gli organi di polizia giudiziaria che non sono ricompresi nelle sezioni o nei servizi restano, comunque, sotto la dipendenza "funzionale" della magistratura (art. 56, lett. c). Dall'art. 57, comma 3 del codice è ricavabile soltanto una definizione in negativo: si tratta di "altri uffici" che sono differenti dalle sezioni e dai servizi. In positivo, nella categoria degli "altri uffici" appartengono tutti coloro che svolgono funzioni di polizia giudiziaria presso i più vari corpi di polizia amministrativa. Il potere disciplinare spettante alla magistratura è azionabile dal procuratore generale presso la corte d'appello; la decisione spetta ad un organo composto da due giudici e da un ufficiale di polizia giudiziaria. Soggetta alla giurisdizione disciplinare è, oltre al personale delle sezioni e dei servizi, qualsiasi altra persona che abbia la qualifica di ufficiale o agente di polizia giudiziaria. C. Ufficiali e agenti di polizia giudiziaria. Gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria possono avere una competenza generale per tutti i reati o una competenza limitata all'accertamento di determinati reati. Polizia giudiziaria con competenza generale. Sono ufficiali di polizia giudiziaria con competenza generale i soggetti previsti nell'art. 57, comma 1. Si tratta delle persone alle quali l'ordinamento dell'amministrazione della pubblica sicurezza riconosce tale qualità; ed inoltre gli ufficiali superiori e inferiori (non i generali) ed i sottufficiali dei carabinieri, della guardia di finanza e del corpo di polizia penitenziaria; ed infine in via residuale, il sindaco nelle ipotesi previste dall'art. 57 comma 1. Polizia giudiziaria can competenza limitata. Sono ufficiali e agenti di polizia giudiziaria con competenza limitata a determinati reati i soggetti previsti nel Comma 3 dell'art. 57: “sono altresì ufficiali e agenti di polizia giudiziaria, nei limiti del servizio cui sono destinate e secondo le rispettive attribuzioni, le persone alle quali le leggi e i regolamenti attribuiscono le funzioni previste dall'art. 55”, e cioè le funzioni di polizia giudiziaria. Per godere di tale qualifica è sufficiente che una legge o un regolamento attribuisca le funzioni di polizia giudiziaria ad una determinata persona. Si tratta di funzionari che svolgono, di regola, compiti di polizia amministrativa, nei quali è compresa la prevenzione di determinati reati 26 5. L'imputato. a. La distinzione tra imputato e indagato. All'inizio del procedimento penale le indagini possono svolgersi contro «ignoti" oppure contro un "indagato". La maggior parte delle denunce sono presentate contro ignoti nel senso che lo stesso denunciante molto spesso non è in grado di indicare colui che ritiene responsabile del reato. La polizia giudiziaria trasmette la denuncia al pubblico ministero e questi ordina alla segreteria di iscriverla nell'apposito registro, denominato “registro delle notizie di reato” (art. 335). Svolte le indagini, può darsi che gli elementi raccolti consentano di addebitare il reato alla responsabilità ad una determinata persona. Allora il pubblico ministero ordina alla segreteria di iscrivere nel registro, accanto all'indicazione della denuncia, il nome del soggetto al quale il reato “è attribuito”. Costui è il soggetto che il codice denomina “persona sottoposta alle indagini preliminari” e che la prassi con un sostantivo poco elegante chiama "indagato". Soltanto in relazione al momento conclusivo delle indagini il codice usa il termine "imputato" e lo fa con un preciso significato. L'imputato è la persona alla quale è attribuito il reato nell'imputazione formulata dal pubblico ministero (esercizio dell’azione penale) con la richiesta di rinvio a giudizio o con un atto simile all'inizio del singolo procedimento speciale. L'imputazione è composta dalla enunciazione in forma chiara e precisa del fatto storico di reato e dalla indicazione delle norme di legge violate e della persona alla quale il reato è addebitato. L'art. 60, comma 1 precisa in dettaglio il momento dell'acquisto e della perdita della qualità di imputato. Nel procedimento ordinario l'assunzione di tale qualifica avviene con la richiesta di rinvio a giudizio. Viceversa, nei procedimenti speciali la qualifica di imputato si acquista nel momento in cui si instaura il singolo rito. La qualità di imputato si conserva, ai sensi dell'art. 60, comma 2, in ogni stato e grado del processo sino a che non sia più soggetta ad impugnazione la sentenza di non luogo a procedere, sia divenuta irrevocabile la sentenza di proscioglimento o di condanna, o sia diventato esecutivo il decreto penale di condanna. Infine, il comma 3 della disposizione in esame, prevede che la qualità di imputato si riassuma in caso di revoca della sentenza di non luogo a procedere o qualora sia disposta la revisione del processo oppure la riapertura dello stesso a seguito della rescissione del giudicato oppure a seguito di accoglimento della richiesta per l’eliminazione degli effetti pregiudizievoli delle decisioni adottate in violazione della CEDU. Occorre evidenziare i motivi in base ai quali il codice pone la fondamentale distinzione tra imputato e indagato. In primo luogo, il legislatore vuole che il pubblico ministero prenda una posizione definitiva sull'addebito soltanto quando, terminate le indagini preliminari, chiede il rinvio a giudizio. Infatti, l'imputazione deve essere sorretta da una consistente base probatoria. In secondo luogo, prima che sia stata formulata una imputazione, il codice tende ad usare un termine il più possibile "neutro" e "non pregiudizievole". È ben vero che il pubblico ministero nel corso delle indagini formula un "addebito provvisorio" nei confronti dell'indagato, ma ciò avviene soltanto a fini di garanzia, perché mette in grado quest'ultimo di esercitare il diritto di difesa. L'addebito provvisorio non deve essere confuso con l'imputazione, che potrà essere formulata al termine delle indagini. Il codice distingue "indagato" è "imputato" a fini prevalentemente garantistici. A riprova di ciò, è possibile constatare che, quando si tratta di enunciare i diritti di difesa, il codice opera un'ampia equiparazione: ai sensi dell'art. 61, comma 1, «i diritti e le garanzie dell'imputato si estendono alla persona sottoposta alle indagini preliminari». Ovviamente l'equiparazione non è totale, perché risente del fatto che la fase delle indagini preliminari è di regola segreta, mentre le successive fasi dell'udienza preliminare e del giudizio si svolgono in contraddittorio. Occorre segnalare che l'equiparazione opera anche negli aspetti pregiudizievoli. In base all'art. 61, comma 2, all'indagato «si estende ogni altra disposizione relativa all'imputato, salvo che sia diversamente stabilito». 27 d. La verifica della identità fisica e anagrafica dell'indagato. Può accadere che nel corso delle indagini ci si trovi di fronte ad una persona fisica e non si sappia con certezza se si tratta davvero del soggetto al quale l'inquirente attribuisce il reato. Occorre dunque procedere a verificare l'identità di tale persona. La verifica della identità dell'imputato (o dell'indagato: non ripetiamo questo particolare perché l'art. 61 opera una completa assimilazione) comporta due accertamenti che è opportuno esaminare separatamente a causa delle loro differenze, In particolare distinguiamo: 1) l'accertamento della identità fisica; 2) l'accertamento della identità anagrafica. 1) Accertamento della identità fisica dell'indagato. Si tratta di stabilire se l'indagato coincide con quella persona, autore del fatto illecito, che ha lasciato la sua impronta sul luogo del reato. A tale accertamento si può pervenire se, in via preliminare, si prova che l'impronta digitale (o quella genetica) rilevata sul luogo del fatto è identica a quella dell'indagato, o se un testimone oculare riconosce l'indagato medesimo. La riforma Cartabia. La legge 134 del 2021 ha modificato il comma 2 dell'art. 66 c.p.p. e ha previsto che nei provvedimenti destinati a essere iscritti nel casellario giudiziale sia riportato il codice univoco identificativo della persona nei cui confronti il provvedimento è emesso, quando si procede nei confronti di: a) apolidi o persone delle quali è ignota la cittadinanza; b) cittadini di uno Stato non appartenente all'Unione europea; c) cittadini dell'Unione europea privi del codice fiscale o che sono attualmente, o sono stati in passato, titolari anche della cittadinanza di uno Stato non appartenente all'Unione europea. 2) Accertamento della identità anagrafica dell'indagato. Si tratta di attribuire un nome ad un volto o ad una impronta digitale o genetica. Il principale strumento per accertare l'identità anagrafica dell'imputato (o dell'indagato) è l'interrogatorio (o atto analogo: art. 350); sulla propria identità personale egli deve rispondere secondo verità. Fin dall'inizio del procedimento il pubblico ministero (art. 66) e la polizia giudiziaria (art. 349) procedono alla identificazione dell'indagato, che viene invitato a dichiarare le proprie generalità e viene ammonito «circa le conseguenze cui si espone chi si rifiuta di dare le proprie generalità o le dà false» (art. 66, comma 1). È sanzionato penalmente il rifiuto di dare indicazioni sulla propria identità personale (art. 651 c.p.) e il dichiarare una falsa identità (art. 495 c.p.). e. Sospensione o definizione del procedimento per incapacità processuale dell’imputato Il giudice deve valutare anche d'ufficio se l'imputato (o l'indagato), per infermità mentale, non è in grado di «partecipare coscientemente» al procedimento penale (art. 70, comma 1), e cioè se non è capace di esercitare consapevolmente quel diritto di autodifesa che spetta a lui personalmente e che non può essere praticato da altre persone al suo posto. In tal caso, il giudice, prima di porsi il problema di sospendere o meno il procedimento, deve compiere una valutazione preliminare. 1) La pronuncia che proscioglie l'imputato. In via preliminare, il giudice deve valutare se nei confronti dell'imputato può pronunciare una «sentenza di proscioglimento» (in giudizio) o una sentenza «di non luogo a procedere» (in udienza preliminare) (art. 70, comma 1). Ciò significa che, quando è possibile prosciogliere l'imputato perché innocente, o perché vi è una situazione di improcedibilità (es., manca la querela o l'autorizzazione a procedere) o perché mancava totalmente la capacità di intendere e di volere al momento del fatto di reato, il giudice non deve sospendere il procedimento penale: la sentenza che enuncia una delle formule sopra menzionate deve essere pronunciata, anche se l'imputato è incapace processualmente in quel momento. 30 2) La impossibilità di prosciogliere l'imputato. Diverso è il caso in cui, in base allo stato degli atti, il giudice si trovi nelle condizioni di dover accertare la responsabilità penale e, di conseguenza, appare probabile una condanna perché l'imputato era imputabile o semi-imputabile al momento del fatto. In tale situazione il giudice deve valutare se l'imputato, a causa di un'infermità mentale in atto, sia in grado di partecipare coscientemente al procedimento penale. Nel caso in cui non lo sia, la legge n. 103 del 2017 ha imposto al giudice di accertare ulteriormente se l'incapacità dell'imputato sia reversibile o meno. 3) L'incapacità dell'imputato appare reversibile: sospensione del procedimento. Quando il giudice accerta che l'infermità mentale appare reversibile (art. 71, comma 1), egli deve disporre con ordinanza che il procedimento sia sospeso e contestualmente nominare un curatore speciale (preferibilmente il rappresentante legale dell'imputato; art. 71, comma 2). Ogni sei mesi il giudice dispone perizia per accertare lo stato psichico dell'imputato (art. 72, comma 1). L'ordinanza di sospensione è revocata qualora l'imputato risulti in grado di partecipare coscientemente al procedimento penale oppure se, nei confronti dell'imputato, deve essere pronunciata quella sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere. 4) L'imputato è affetto da incapacità processuale irreversibile e non è pericoloso. in base al nuovo art. 72- bis c.p.p., quando si accerta: a) che lo stato mentale dell'imputato è tale da impedire la cosciente partecipazione al procedimento, b) che tale stato è irreversibile c) che l'imputato non è pericoloso (perché deve essere disposta eventualmente la sola confisca e non altra misura di sicurezza). Il giudice deve revocare l'eventuale ordinanza di sospensione del procedimento e deve pronunciare la sentenza di non luogo a procedere (se in udienza preliminare) o di non doversi procedere (se in dibattimento). 5) L'imputato è affetto da incapacità processuale irreversibile ed è pericoloso. Quando si accerta che l'imputato è pericoloso (e ciò quando deve essere applicata una misura di sicurezza diversa dalla confisca). L'applicazione di una misura di sicurezza diversa della confisca è prevista dall'art, 72-bis come ostativa alla pronuncia della sentenza di non luogo a procedere o di non doversi procedere. 31 6. Il difensore. a. La rappresentanza tecnica Il diritto di difesa può essere esercitato sia personalmente (c.d. autodifesa; es. diritto dell'indagato di ricevere personalmente l’ informazione di garanzia– primo atto informativo che il PM compie solo quando il difensore ha il diritto di assistere, art. 369) sia per mezzo del difensore (c.d. difesa tecnica; es. potere del difensore di condurre l'esame incrociato, art. 498). La rappresentanza tecnica è il potere, conferito al difensore, di compiere atti processuali "per conto" (cioè nell'interesse) del cliente. La rappresentanza tecnica attribuisce al difensore il potere di compiere per conto del cliente tutti quegli atti che il codice riferisce a quella parte, a condizione che i medesimi non siano personali, e cioè che non siano dalla legge espressamente riservati alla parte (art. 99, comma 1, e 100, comma 4). Perché il difensore possa disporre di un diritto "in nome" del cliente, deve essergli attribuita una rappresentanza volontaria, cioè il potere di compiere un atto i cui effetti ricadono sul cliente. La rappresentanza tecnica è conferita dal cliente al difensore mediante una procura ad litem. L'imputato e l'indagato conferiscono tale rappresentanza mediante la nomina che è contenuta in una dichiarazione che può essere resa oralmente davanti alla autorità procedente (che ne redige verbale) o può essere effettuata per atto scritto, senza necessità di autentica della firma. In tal caso, la dichiarazione scritta deve essere consegnata alla autorità procedente dal difensore o deve essere trasmessa dall'interessato con raccomandata alla autorità procedente (es., all'ufficio di segreteria del pubblico ministero). Quando si deve compiere nel procedimento un atto "personale" e non può essere presente la parte assistita, non è sufficiente la rappresentanza tecnica del difensore. È necessario che la parte conferisca una rappresentanza volontaria il difensore o ad altra persona di sua fiducia, e ciò può fare soltanto con la procura speciale a compiere un determinato atto (art. 122 c.p.p.). La procura speciale deve, a pena di inammissibilità, essere rilasciata per atto pubblico o scrittura privata autenticata e deve contenere la determinazione dell'oggetto per cui è conferita e dei fatti quali si riferisce (art. 122). Se la procura è rilasciata per scrittura privata al difensore, la sottoscrizione può essere autenticata dal difensore medesimo. Ci sono atti i "personalissimi" per i quali, ovviamente, non vi può essere rappresentanza volontaria; ad esempio, rendere l'interrogatorio o l'esame incrociato. Il rapporto tra il cliente ed il difensore ha natura fiduciaria. Da ciò derivano le seguenti conseguenze. Prima dell'accettazione del mandato, il difensore può rifiutare la nomina; è sufficiente che lo comunichi immediatamente a colui che l'ha effettuata ed all'autorità che procede. La non accettazione ha effetto dal momento in cui è comunicata a quest'ultima (art. 107, commi 1 e 2). Dopo che ha accettato il mandato, il difensore può rinunciare allo stesso. La rinuncia deve parimenti essere comunicata a colui che ha effettuato la nomina ed all'autorità procedente, ma non ha effetto finché la parte non risulti assistita da un nuovo difensore e non sia decorso il termine a difesa, non inferiore a sette giorni, che sia stato concesso a quest'ultimo (artt. 107, comma 3 e 108); fino a tale momento la parte è rappresentata dal difensore rinunciante. b. Difensore di fiducia e difensore d’ufficio Irrinunciabilità della difesa tecnica (due sentenze della corte). L’imputato ha il diritto di farsi assistere da non più di due difensori di sua scelta (“difensori di fiducia” art.96 c.2) nominati con la “procura ad litem”. La nomina è un atto in forma libera e può essere effettuata in 3 modi: 1. con dichiarazione, scritta o orale, resa dall’indagato all’autorità procedente 2. con dichiarazione scritta consegnata all’autorità procedente dal difensore 3. con dichiarazione scritta trasmessa all’autorità procedente con raccomandata. In caso di mancata nomina il codice prevede la “difesa d’ufficio” ex art. 97. Il legislatore vuole che comunque sia presente nel procedimento un soggetto tecnicamente idoneo a difendere l’imputato e non coinvolto emotivamente; infatti, lo stesso imputato non potrebbe esercitare una autodifesa esclusiva neanche se avesse la qualità di avvocato. 32 7. La persona offesa dal reato e la parte civile. a. La persona offesa dal reato. Il codice attribuisce alla persona offesa la qualifica di "soggetto" del procedimento (art. 90); la qualifica di "parte" le viene riconosciuta soltanto se, nella veste di danneggiato dal reato, la persona offesa ha esercitato l'azione risarcitoria costituendosi parte civile (art. 78). Il codice di procedura penale prevede varie ipotesi di persona offesa di "creazione legislativa". Ai sensi dell'art. 90, comma 3, qualora una persona sia deceduta in conseguenza del reato, le facoltà e i diritti previsti dalla legge in favore della persona offesa sono esercitati dai "prossimi congiunti", la qualifica di offeso è attribuita anche a chi ha rinunciato alla eredità. Sempre nel caso di persona deceduta in conseguenza del reato, le facoltà e i diritti previsti dalla legge sono esercitati dalla «persona alla medesima legata da relazione affettiva e con essa stabilmente convivente» (comma 3), Infine, ai sensi del nuovo ultimo comma dell'art. 572 c.p., aggiunto dalla legge 69 del 2019 (c.d. codice rosso), il minore di anni diciotto, che assiste ai maltrattamenti contro familiari e conviventi, è considerato persona offesa dal reato. Occorre anche ricordare che alcune disposizioni del codice usano il termine "vittima" quando intendono riferirsi al soggetto che ha subito la condotta illecita sulla propria persona. La riforma Cartabia (d.lgs. n. 150 del 2022) ha introdotto una definizione di vittima da utilizzarsi soltanto nella materia della giustizia riparativa (art. 42, comma 1, lett. b). La vittima del reato è stata definita come la persona fisica che ha subito direttamente dal reato qualunque danno, patrimoniale o non patrimoniale. Inoltre, è vittima del reato il familiare di una persona la cui morte è stata causata da un reato e che ha subito un danno in conseguenza della morte di tale persona. Ai sensi del nuovo art. 90-bis. 1 del codice di procedura penale, la vittima del reato, sin dal primo contatto con l'autorità procedente, viene informata in una lingua a lei comprensibile della facoltà di svolgere un programma di giustizia riparativa. I poteri sollecitatori. La persona offesa dal reato, nella sua qualità di soggetto del procedimento, può esercitare i diritti e le facoltà ad essa espressamente riconosciuti dalla legge (art. 90 comma 1). Tra i poteri che può esercitare, possiamo menzionare quelli meramente "sollecitatori" dell'attività dell'autorità inquirente, come il presentare memorie o l'indicare elementi di prova nel corso del procedimento, escluso il giudizio di cassazione (art. 90 comma 1). Ai sensi dell'art. 90, comma 1-bis introdotto dalla riforma Cartabia (d.lgs. n. 150 del 2022), la persona offesa ha facoltà di dichiarare o eleggere domicilio. Ai fini della dichiarazione di domicilio, la persona offesa può indicare un indirizzo di posta elettronica certificata o altro servizio elettronico di recapito certificato qualificato. I diritti di informativa. La persona offesa dal reato ha il diritto a ricevere le informazioni necessarie al fine di esercitare i propri poteri nel procedimento penale. I diritti di informativa sono stati potenziati da leggi emanate per attuare Direttive europee e consistono in informazioni che devono essere fornite alla persona offesa, in una lingua a lei comprensibile, sin dal primo contatto con l'autorità procedente (art. 90-bis). Tra di esse segnaliamo le notizie sulle modalità di presentazione della denuncia e della querela, le informazioni sulle misure di protezione che possono essere disposte in proprio favore e sulle strutture sanitarie e antiviolenza presenti sul territorio. Occorre ricordare che, al pari dell'indagato, la persona offesa ha il diritto di conoscere le iscrizioni che la riguardino e che sono contenute nel registro delle notizie di reato (art. 335, comma 3). Passiamo adesso all'esame dei poteri di "partecipazione al procedimento", che possono essere esercitati dalla persona offesa che abbia nominato un difensore. Quest'ultimo può limitarsi ad assistere ai pochi atti di indagine per i quali è ammessa la sua presenza (e che si riducono, in definitiva, all'accertamento tecnico non ripetibile, art. 360); oppure, può attivarsi fino a svolgete le cosiddette "investigazioni difensive" previste dall'art. 327-bis c.p.p. Si tratta di indagini che sono compiute dal difensore personalmente o per mezzo di un sostituto, di un consulente tecnico di parte o di un investigatore privato autorizzato. Sempre fra i poteri di tipo "partecipativo" si può ricordare che la persona offesa (personalmente o per mezzo del difensore) può chiedere per scritto al pubblico ministero di promuovere un incidente probatorio, nel quale venga assunta una prova non rinviabile al dibattimento. 35 Il codice prevede due differenti qualifiche di persona offesa vulnerabile al fine di garantire degerminate protezioni nel momento in cui esse depongono: si tratta del minorenne e della persona che si trovi in situazioni di particolare vulnerabilità. Il loro esame deve svolgersi comunque con l'assistenza di un esperto in psicologia o psichiatria. Quando è minorenne, la persona offesa gode delle protezioni appena menzionate soltanto se il procedimento penale ha per oggetto quei reati di violenza alla persona che sono indicati espressamente dal codice. A prescindere dall'essere minorenne o maggiorenne, la persona offesa gode delle medesime protezioni qualora si trovi in concreto in condizioni di particolare vulnerabilità. In tal caso, le protezioni potrebbero essere applicate in astratto per qualsiasi reato: è soltanto necessario che siano presenti le condizioni soggettive ed oggettive previste dall'art. 90-quater. Sotto un profilo soggettivo, la condizione di particolare vulnerabilità è desunta, oltre che «dall'età e dallo stato di infermità o di deficienza psichica» della persona offesa, anche «dal tipo di reato, dalle modalità e circostanze del fatto per cui si procede». Sotto un profilo oggettivo, per la valutazione della particolare vulnerabilità «si tiene conto se il fatto risulta commesso con violenza alla persona o con odio razziale, se è riconducibile ad ambiti di criminalità organizzata o di terrorismo, anche internazionale, o di tratta degli esseri umani, se si caratterizza per finalità di discriminazione, e se la persona offesa è affettivamente, psicologicamente o economicamente dipendente dall'autore del resto». I poteri di controllo sulla eventuale inattività del pubblico ministero. Infine, alla persona offesa sono riconosciuti poteri di tipo prettamente "penalistico", che cioè tendono a tutelare il suo interesse ad ottenere il rinvio a giudizio dell'imputato. All'offeso non è attribuita una vera e propria "azione penale", e cioè il potere di chiedere al giudice il rinvio a giudizio dell'indagato. Viceversa, gli sono attribuiti poteri di controllo sulla eventuale inattività del pubblico ministero; essi consentono all'offeso di mettersi in contatto con il giudice per le indagini preliminari e presentargli le proprie conclusioni in tre delicate ipotesi, e cioè quando il pubblico ministero abbia chiesto al giudice la proroga delle indagini (art. 406, comma 3) o l'archiviazione (art. 408, comma 2) o ancora quando il pubblico ministero, alla scadenza dei termini per l'azione non abbia ancora assunto le proprie determinazioni. La figura del querelante. La riforma Cartabia (d.lgs. n. 150 del 2022) ha tracciato per alcuni aspetti una disciplina specifica della figura del querelante. In particolare, ai sensi dell'art. 90-bis, anzitutto, la persona offesa è informata circa le modalità di presentazione degli atti di denuncia o querela (lett. a); in secondo luogo, è avvisata dell'obbligo del querelante di dichiarare o eleggere domicilio per la comunicazione e la notificazione degli atti del procedimento, con l'avviso che la dichiarazione di domicilio può essere effettuata anche dichiarando un indirizzo di posta elettronica certificata o altro servizio elettronico di recapito telefonico qualificato (lett. a- bis); inoltre, è informata della facoltà del querelante, ove non abbia provveduto all'atto di presentazione della querela, di dichiarare o eleggere domicilio anche successivamente (lett. a-ter); ancora, le è reso noto l'obbligo del querelante, in caso di mutamento del domicilio dichiarato o eletto, di comunicare tempestivamente e nelle forme prescritte all'autorità giudiziaria procedente la nuova domiciliazione (lett. a- quater); inoltre, è avvisata del fatto che, ove abbia nominato un difensore, il querelante sarà domiciliato presso quest'ultimo; che, in mancanza di nomina del difensore, le notificazioni saranno eseguite al querelante presso il domicilio digitale e, nei casi di cui all'art. 148, comma 4, presso il domicilio dichiarato o eletto; che, in caso di mancanza, insufficienza o inidoneità della dichiarazione o elezione di domicilio, le notificazioni al querelante saranno effettuate mediante deposito presso la segreteria del pubblico ministero procedente o presso la cancelleria del giudice procedente (lett. a-quinquies). L'avviso precisa, poi, che la mancata comparizione senza giustificato motivo della persona offesa che abbia proposto querela all'udienza alla quale sia stata citata in qualità di testimone comporta la remissione tacita di querela (lett. n-bis); prevede l'informazione della facoltà di accedere ai programmi di giustizia riparativa (lett. p-bis); la lett. p-ter informa l'offeso del fatto che la partecipazione del querelante a un programma di giustizia riparativa, concluso con un esito riparativo e con il rispetto degli eventuali impegni comportamentali assunti da parte dell'imputato, comporta la remissione tacita di querela. 36 b. La parte civile. Il reato, oltre a costruire un'offesa ad un bene giuridico, può aver provocato in concreto un danno. In tal caso colui che ha commesso il reato è obbligato a risarcire il danno e, se del caso, a restituire la cosa sottratta (art. 185 c.p.). L'illecito penale e l’illecito civile derivano dal medesimo titolo, e cioè dal fatto di reato. Il danno risarcibile può manifestarsi nelle forme del danno patrimoniale e del danno non patrimoniale. 1) Il danno patrimoniale consiste nella privazione o diminuzione del patrimonio nelle forme del danno emergente (es. le spese sostenute per curare le ferite) e del lucro cessante (es. la persona offesa ha avuto un'invalidità temporanea o permanente che le impedisce di lavorare e, quindi, di guadagnare). 2) Il danno non patrimoniale (denominato comunemente "danno morale") consiste nelle sofferenze fisiche e psichiche patite a causa del reato (art. 2059 c.c.). Si tratta di un danno che non può essere quantificato "per equivalente" poiché non è possibile ripristinare la situazione anteriore al reato; il danno non patrimoniale viene calcolato con modalità di tipo "satisfattivo". Il giudice in via equitativa determina una cifra di denaro che possa dare una soddisfazione tale da compensare, se così si può dire, le sofferenze patite. Secondo un'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c., il danno non patrimoniale è risarcibile in due ordini di casi: in primo luogo, quando la risarcibilità è prevista in modo espresso dalla legge (es. art. 185 c.p.); in secondo luogo, quando, pur in assenza di una previsione normativa, il danno non patrimoniale deriva dalla lesione di diritti inviolabili della persona riconosciuti dalla Costituzione. La persona danneggiata dal reato. La persona, che ha subito un danno patrimoniale o non patrimoniale in conseguenza del reato, può essere definita "danneggiato dal reato" e ha diritto al risarcimento del danno (art 185 c.p.). L'azione tendente a conseguire l'accertamento della responsabilità dell'imputato e la condanna di costui al risarcimento del danno può essere esercitata, in alternativa, davanti al giudice civile in un autonomo procedimento, oppure davanti al giudice penale, ma soltanto dopo che il pubblico ministero ha esercitato l'azione penale (art. 74). In quest'ultimo caso, il danneggiato esercita l'azione civile costituendosi parte civile nel processo penale (art. 76 c.p.p.). Dall'art. 74 si ricava un limite di carattere sistematico: l'azione che il danneggiato esercita nel processo penale è soltanto quella tendente ad ottenere la condanna al risarcimento del danno o le restituzioni ai sensi dell'art. 185 c.p.: nel processo penale non possono essere esercitate altre azioni civili aventi differenti oggetti (es. disconoscimento di paternità). In particolare, l'essere persona offesa dal reato comporta la qualifica di "soggetto" del procedimento con tutti i diritti e le facoltà (art. 90). L' essere soltanto danneggiato dal reato, e non anche persona offesa, non fa assumere la qualifica di "soggetto" del procedimento; pertanto, al danneggiato dal reato in quanto tale (es. in occasione di un illecito penale) non spettano i diritti e le facoltà della persona offesa. Le regole per l'esercizio dell'azione civile nel processo penale, L'esercizio dell'azione civile nel processo penale è fondato su due regole non espresse, ma che si ricavano dalla normativa del codice. In primo luogo, l'azione civile resta "ospite" nel processo penale, nel senso che il danneggiato in ogni momento del processo penale può revocare la costituzione di parte civile; in secondo luogo, l'azione civile subisce la regolamentazione di quest'ultimo, comporta che, al di fuori di quanto attiene alla natura "civilistica" dell'azione, i poteri ed il comportamento processuale della parte civile sono disciplinati dal codice di procedura penale. I doveri della parte civile. Un altro esempio della prevalenza del processo penale si trova nella norma che impone alla parte civile di deporre con l'obbligo, penalmente sanzionato, di dire la verità, quando sia citata come testimone. Viceversa, nel processo civile le parti non possono essere chiamate a deporre come testimoni con l'obbligo, penalmente sanzionato, di dire la verità (art. 246 c.p.c.). Una conferma della natura civilistica dell'azione sta invece nel fatto che la parte civile può chiedere al giudice penale di condannare l'imputato a pagare una provvisionale. Il giudice deve disporre la provvisionale nei limiti in cui sia già acquisita la prova del danno (art. 539 c.p.p.); tale condanna è immediatamente esecutiva in primo grado (art. 540 c.p.p.). La dichiarazione di costituzione di parte civile. La costituzione di parte civile deve essere fatta mediante una apposita dichiarazione resa per scritto ai sensi dell'art. 78 c.p.p.; la dichiarazione deve essere sottoscritta dal difensore della parte civile, perché il danneggiato sta in giudizio non personalmente ma mediante il difensore munito di procura speciale conferita con atto pubblico o scrittura privata autenticata (art. 100, comma 1). 37 Atti a forma libera. L'atto ha una forma libera. Infatti, ai sensi dell'art. 125, comma 6, tutti i provvedimenti del giudice, diversi da sentenza, ordinanza e decreto, sono adottati senza formalità, quando non è stabilito altrimenti, anche oralmente. Ad esempio «sono dati oralmente e senza formalità» gli ordini relativi all'accesso del pubblico all'udienza dibattimentale (art. 471, comma 6). Gli atti a forma vincolata sono quelli per i quali è richiesta la forma scritta. Il libro secondo del codice di procedura penale prevede i "modelli legali" che sono prefissati in via generale per gli atti del procedimento. Nei libri successivi vi sono modelli speciali che sono previsti per singoli tipi di atti. Il rispetto delle forme legali è una delle garanzie poste a tutela dei soggetti che sono implicati nel procedimento penale. Un esempio di norma, che prevede atti a forma vincolata, è l'art. 125, comma 1, secondo cui «la legge stabilisce i casi nei quali il provvedimento del giudice assume la forma della sentenza, dell'ordinanza o del decreto». La forma scritta. Quando è richiesta la forma scritta, vige la nuova regola secondo cui l'incorporamento deve avvenire con il metodo digitale, mentre l'eccezione è l'incorporamento con modalità analogica (es., scritto in un documento cartaceo). Per quanto concerne la nuova regola, il codice precisa che «quando è richiesta la forma scritta, gli atti del procedimento sono redatti e conservati in forma di documento informatico, tale da assicurarne l'autenticità, l'integrità, la leggibilità, la reperibilità, l'interoperabilità e, ove previsto dalla legge, la segretezza» (art. 110, comma 1). In particolare, è necessario che «gli atti redatti in forma di documento informatico rispettino la normativa, anche regolamentare, concernente la redazione, la sottoscrizione, la conservazione, l'accesso, la trasmissione e la ricezione degli atti e dei documenti informatici» (art. 110, comma 2). La nuova eccezione consente l'incorporamento con una modalità analogica per quegli «atti che, per loro natura o per specifiche esigenze processuali, non possono essere redatti in forma di documento informatico» (art. 110, comma 3). In base all'art. 110, comma 4, «gli atti redatti in forma di documento analogico sono convertiti senza ritardo in copia informatica ad opera dell'ufficio che li ha formati o ricevuti, nel rispetto della normativa, anche regolamentare, concernente la redazione, la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione degli atti e dei documenti informatici». La finalità è quella di assicurare la completezza del fascicolo informatico. Sottoscrizione degli atti. L'atto redatto in forma di documento informatico è sottoscritto, con firma digitale o altra firma elettronica qualificata, nel rispetto della normativa, anche regolamentare, concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione degli atti e dei documenti informatici (art. 111, comma 2-bis). La ricezione di un atto orale, trascritto in forma di documento informatico, contiene l'attestazione da parte dell'autorità procedente, che sottoscrive il documento a norma del comma 2-bis, della identità della persona che lo ha reso (comma 2-ter). Quando l'atto è redatto in forma di documento analogico (es. scritto su carta) e ne è richiesta la sottoscrizione, se la legge non dispone altrimenti, è sufficiente la scrittura di propria mano, in fine dell'atto, del nome e cognome di chi deve firmare. Se chi deve firmare non è in grado di scrivere, il pubblico ufficiale, al quale è presentato l'atto scritto o che riceve l'atto orale, accertata l'identità della persona, ne fa attestazione in fine dell'atto medesimo (comma 2-quater). 40 Il deposito telematico. Ai sensi dell'art. 111-bis, in ogni stato e grado del procedimento il deposito di atti, documenti, richieste, memorie ha luogo, di regola, esclusivamente con modalità telematiche, nel rispetto della normativa, anche regolamentare, concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione degli atti e dei documenti informatici. Vi è un'eccezione nel caso di malfunzionamento del sistema (art. 175-bis). Tuttavia, quanto previsto nel comma 1 non si applica agli atti e ai documenti che, per loro natura o per specifiche esigenze processuali, non possono essere acquisiti in copia informatica (comma 3). Ad es., gli atti che le parti compiono personalmente possono essere depositati anche con modalità non telematiche. Gli atti e i documenti formati e depositati in forma di documento analogico sono convertiti, senza ritardo, in documento informatico e inseriti nel fascicolo informatico «salvo che per loro natura o per specifiche esigenze processuali non possano essere acquisiti o convertiti in copia informatica» (comma 3). In tal caso, nel fascicolo informatico è inserito un elenco dettagliato degli atti e dei documenti acquisiti in forma di documento analogico. Il fascicolo processuale rimane unico anche se è costituito in parte da documenti informatici e in parte da documenti analogici. Malfunzionamento dei sistemi informatici. Sono regolate due ipotesi di malfunzionamento che in concreto possono verificarsi (art. 175-bis). La prima riguarda un malfunzionamento c.d. certificato (commi 1 e 2) poiché avviene in modo generalizzato, in quanto relativo a tutti i domini del ministero della giustizia; in tal caso esso è attestato dal direttore generale per i servizi informatici automatizzati del ministero (DGSIA). Del malfunzionamento è registrata e attestata la data di inizio e di fine (comma 3). La seconda ipotesi (comma 4) concerne un malfunzionamento non certificato, che può verificarsi in relazione a uno specifico ufficio giudiziario. In tal caso, il malfunzionamento è accertato e attestato dal dirigente dell'ufficio interessato con precisazione della data di inizio e di fine. Nelle due ipotesi, durante tutto il periodo di malfunzionamento gli atti sono redatti in forma di documento analogico e sono depositati con modalità non telematiche con successiva conversione digitale e inserimento nel fascicolo informatico. Nel caso di scadenza di un termine perentorio, è prevista una nuova ipotesi di restituzione nel termine (art. 175-bis, comma 5). Gli interventi normativi consequenziali all'adozione della documentazione informatica. Per quanto riguarda il deposito di atti presso la cancelleria o la segreteria del PM, si ritengono non più come luoghi fisici ma come luoghi informatici, ove far convergere, con modalità informatiche, gli atti incorporati con modalità digitali. Copie, estratti e certificati. L'art. 116, comma 1 prevede che «durante il procedimento e dopo la sua definizione chiunque vi abbia interesse può ottenere il rilascio a proprie spese di copie, estratti o certificati di singoli atti». Il rilascio avviene su autorizzazione salvo che la legge riconosca espressamente al richiedente il diritto al rilascio (art. 43 disp. att.). L'autorizzazione è disposta dal pubblico ministero o dal giudice che procede al momento della presentazione della domanda o, dopo la definizione del procedimento, dal presidente del collegio o dal giudice che ha emesso il provvedimento di archiviazione o la sentenza (comma 2). L'attestazione del deposito di atti o documenti. Il diritto del difensore all'attestazione del deposito di atti da parte dell'autorità giudiziaria (art. 116, comma 3-bis) è limitato al solo caso di documenti incorporati con modalità analogiche, non essendo necessaria una specifica attestazione in caso di deposito telematico. Richiesta di copie di atti da parte del pubblico ministero. Ai sensi dell'art. 117, il pubblico ministero titolare di un procedimento può chiedere personalmente (non mediante delega) alla autorità giudiziaria competente (pubblico ministero o giudice dell'udienza preliminare o della fase del giudizio) copia di atti relativi ad altri procedimenti penali e informazioni scritte sul loro contenuto. L'autorità giudiziaria alla richiesta provvede senza ritardo, e se rigetta la domanda, deve farlo con decreto motivato (art. 117, co 2), contro il quale non è previsto rimedio processuale. Il rigetto può essere motivato dall'esigenza di conservare il segreto investigativo nel caso concreto. 41 Richiesta di copie di atti da parte del ministro dell'interno. Anche il ministro dell'interno gode del potere di chiedere atti ed informazioni attinenti ad un procedimento penale; il ministro può procedervi sia direttamente, sia a mezzo di un ufficiale di polizia giudiziaria o del personale della direzione investigativa antimafia (art. 118). La finalità è differente da quella prevista dall'art. 117: il ministro opera in qualità di responsabile dell'ordine pubblico e della pubblica sicurezza; il potere è concesso al fine di "prevenire" i delitti per i quali è obbligatorio l'arresto in flagranza. L'autorità giudiziaria richiesta provvede senza ritardo e, se rigetta la domanda, deve farlo con decreto motivato (art. 118, comma 2). Sempre in modo simile al caso precedente, se gli atti sono relativi ad una indagine preliminare, la trasmissione avviene in deroga al segreto investigativo; gli atti sono coperti da segreto d'ufficio (art. 118 comma 3). Per le medesime finalità di prevenzione la autorità giudiziaria può autorizzare i soggetti delegati dal ministro dell'interno (e appartenenti alla polizia giudiziaria o alla direzione investigativa antimafia) ad accedere direttamente al registro delle notizie di reato (art. 118 comma 1-bis). Infine, il presidente del consiglio dei ministri può chiedere all'autorità giudiziaria copie di atti del procedimento penale che sono indispensabili per il Sistema di informazione per la sicurezza (art. 118-bis, inserito dalla legge sui servizi segreti n. 124 del 2007); l'autorità richiesta provvede come sopra descritto (art. 118, commi 2 e 3). Partecipazione del sordo, muto e sordomuto ad atti del procedimento penale. Ai sensi dell'art. 119, comma 1, quando un sordo, un muto o un sordomuto vuole o deve fare dichiarazioni, al sordo si presentano per iscritto le domande, gli avvertimenti e le ammonizioni ed egli risponde oralmente; al muto si fanno oralmente le domande (ecc.) ed egli risponde per iscritto; al sordomuto si presentano per iscritto le domande (ecc.) ed egli risponde per iscritto. In dette ipotesi, indipendentemente dalla circostanza che la persona non sappia leggere o scrivere, l'autorità procedente provvede a nominargli uno o più interpreti scelti di preferenza tra le persone abituate a trattare con lui. Testimoni ad atti del procedimento (art. 120). Il codice prevede in varie disposizioni che determinate persone possano assistere ad atti del procedimento penale. Queste intervengono nel processo penale non in quanto sono a conoscenza di fatti oggetto di prova (in tal caso si tratterebbe di testimoni in senso proprio: arti. 187 e 194), bensì perché sono persone di fiducia di uno dei soggetti interessati allo svolgimento del relativo atto, del quale garantiscono la regolarità e sul quale possono essere chiamate a testimoniare. Ciò avviene per la ispezione personale (art. 245, comma 1), per la perquisizione personale (art. 249, comma 1) e locale (art. 250, comma 1). Il codice definisce tali persone «testimoni ad atti del procedimento» e detta espressamente per loro nell'art. 120 alcune cause di incapacità che pongono i seguenti divieti. Non possono intervenire come testimoni ad atti del procedimento: a) i minori degli anni quattordici e le persone palesemente affette da infermità di mente o in stato di manifesta ubriachezza o di intossicazione da sostanze stupefacenti o psicotrope (la loro capacità si presume fino a prova contraria); b) le persone sottoposte a misure di sicurezza detentive o a misure di prevenzione. Procura speciale per determinati atti. Quando la legge consente che un atto sia compiuto per mezzo di un procuratore speciale, la procura deve, a pena di inammissibilità, essere rilasciata per atto pubblico o scrittura privata autenticata e deve contenere, oltre alle indicazioni richieste specificamente dalla legge, la determinazione dell'oggetto per cui è conferita e dei fatti ai quali si riferisce (art. 122). Se la procura è rilasciata per scrittura privata al difensore, la sottoscrizione può essere autenticata dal difensore medesimo. La procura è unita agli atti 42 La correzione di errori materiali. L'art. 130 prevede la procedura di correzione degli errori materiali. L'istituto richiede almeno quattro requisiti. In primo luogo, sono oggetto di correzione degli errori materiali soltanto gli atti del giudice riferibili al modello delle sentenze, delle ordinanze e del decreto. In secondo luogo, l'errore non deve essere causa di nullità dell'atto. In terzo luogo, l'errore deve essere materiale, e cioè consistere in una difformità tra il pensiero del giudice (contenuto dell'ordinanza) e la formulazione esteriore di tale pensiero; ma può essere errore materiale anche una omissione relativa ad un comando che dipende in maniera automatica dalla legge. In quarto luogo la eliminazione dell'errore non deve comportare una modifica essenziale dell'atto; pertanto, si devono escludere quelle correzioni che incidono sul dispositivo. Il procedimento di correzione dell'errore si svolge in camera di consiglio secondo le forme dell'art. 127 (art. 130, comma 2). La competenza spetta al giudice "autore" dell'atto; nel corso delle impugnazioni spetta al giudice ad quem (giudice a cui si ricorrere impugnando una sentenza di giudice inferiore). L'iniziativa spetta al giudice, che provvede d'ufficio, ma anche su richiesta del pubblico ministero o della parte interessata. L'ordinanza recante la correzione deve essere annotata sull'originale dell'atto. I poteri coercitivi del giudice. Al giudice spettano poteri coercitivi nell'esercizio delle sue funzioni, e cioè al fine del «sicuro e ordinato compimento degli atti ai quali procede» (art.131). Il potere coercitivo comporta la possibilità di ottenere comportamenti anche contro la volontà dei singoli interessati: si tratta di poteri di "polizia processuale" per l'esercizio dei quali la legge non singoli interessati. Spetta al giudice il potere di chiedere l'intervento della polizia giudiziaria; se necessario, anche l'intervento della forza pubblica. L'accompagnamento coattivo dell'imputato e di altre persone. L'istituto consiste in una restrizione della libertà personale dato che può essere eseguito con la forza (art. 46 disp. att.); per tale motivo, l'art. 132 richiede che venga disposto solo «nei casi previsti dalla legge». Tra gli atti che costituiscono espressione del potere coercitivo si può collocare “l’accompagnamento coattivo” (artt. 132 e 133). L'istituto consiste in una restrizione della libertà personale poiché l'accompagnamento può essere eseguito con la forza (art. 46 disp. att.). L'accompagnamento coattivo ha una finalità limitata che è quella di condurre una persona davanti al giudice per rendere possibile la acquisizione di un contributo probatorio. Vi è poi un ulteriore limite, indicato nell'art. 132 («nei casi previsti dalla legge»); pertanto è necessario che la legge preveda espressamente l'intervento di una determinata persona per il compimento di uno specifico atto. I destinatari dell'accompagnamento. Tra i destinatari del provvedimento di accompagnamento coattivo vi sono sia l'imputato (o indagato) (art. 132), sia le altre persone indicate nell'art. 133: il testimone, il perito, il consulente tecnico, l'interprete ed il custode di cose sequestrate. Il potere del giudice è molto ampio perché concerne i procedimenti per qualsiasi reato (delitto e contravvenzione) anche di minima entità; pertanto, può essere disposto anche in relazione a reati per i quali non è ammessa alcuna misura cautelare (art. 280). L'accompagnamento, tuttavia, non può diventare una misura cautelare camuffata in quanto i due istituti hanno finalità e presupposti diversi. L'accompagnamento coattivo adempie allo scopo di condurre una persona davanti al giudice per rendere possibile l'acquisizione di un contributo probatorio; la misura cautelare tende a far fronte al pericolo di inquinamento della prova, al pericolo di fuga o di reiterazione del reato. Per evitare un'eventuale sovrapposizione, l'art. 132, comma 2 afferma che la persona sottoposta ad accompagnamento coattivo non può essere tenuta a disposizione «oltre il compimento dell'atto previsto e quelli consequenziali per i quali perduri la necessità della sua presenza». Gli atti successivi devono essere legati a quello precedente con un vincolo logico-funzionale. Vi è poi una norma di chiusura, secondo la quale «in ogni caso la persona non può essere trattenuta oltre le ventiquattro ore». Per quanto riguarda l'imputato e l'indagato, l'accompagnamento di regola deve essere preceduto da un invito a presentarsi (art. 375) o da una citazione (artt. 399 e 490) rimaste senza effetto. L'art. 133 detta una apposita norma per le persone diverse dall'imputato (e cioè i testimoni, i periti ecc.) che, regolarmente citate, omettono di comparire senza addurre un legittimo impedimento: il giudice, oltre a disporre l'accompagnamento, può condannarle al pagamento di una somma di denaro e alle spese processuali alle quali la mancata comparizione ha dato causa. Gli atti delle parti. Nel libro secondo il codice si limita ad enunciare due soli "modelli generali" di atti delle parti; si tratta delle richieste e delle memorie. 45 Richiesta. Assume tale forma ogni tipo di domanda che le parti (sia quella pubblica, sia quelle private) rivolgono al giudice al fine di ottenere una decisione. Ricordiamo, come esempi, la richiesta di procedere ad incidente probatorio (art. 392); la richiesta della parte civile di ottenere la provvisoria esecuzione della condanna al risarcimento del danno (art. 540, comma 1). Sulle richieste ritualmente formulate dalle parti il giudice deve provvedere senza ritardo e comunque entro quindici giorni, salvo specifiche disposizioni di legge (art. 121, comma 2). Se non adempie a tale obbligo, la parte può presentargli formale istanza. A questo punto il giudice deve decidere entro trenta giorni; se non lo fa, vi possono essere gli estremi del "diniego di Giustizia", che è fonte di responsabilità civile. in ogni caso l'inosservanza delle norme del codice può dar luogo ad una responsabilità disciplinare ai sensi dell'art. 124. La memoria. L'altro modello generale è la memoria, che ha un contenuto meramente argomentativo teso ad illustrare questioni in fatto o in diritto. Nel codice troviamo, come esempio, le memorie che la persona offesa può presentare in ogni stato e grado del procedimento (art. 90). c. Il procedimento in camera di consiglio. (ART 127) Il codice utilizza l'espressione «camera di consiglio» per indicare due situazioni ben diverse. In base all'art. 125, comma 4, il giudice delibera in segreto i propri provvedimenti in camera di consiglio. In questo caso tale espressione indica il luogo in cui il giudice si ritira per formare il proprio convincimento sulla singola questione da decidere. Sotto un altro profilo, l'art. 127 disciplina il modello generale di «procedimento in camera di consiglio». Per camera di consiglio qui si intende la modalità di svolgimento di un'attività giurisdizionale, alla quale le parti e le altre persone interessate (es. l'offeso) hanno il diritto di partecipare. Un'udienza in camera di consiglio è quella che si svolge quando il giudice per le indagini preliminari non accoglie la richiesta di archiviazione formulata dal pubblico ministero (art. 409, comma 2). Il procedimento in camera di consiglio presenta due caratteristiche: l'assenza del pubblico (art. 127, co 6) e la partecipazione solo facoltativa delle parti, delle persone interessate e dei loro difensori (art. 127, co 3). Si tratta di una procedura "semplificata" che il codice impone tutte le volte in cui occorre adottare una decisione in tempi rapidi e vi è la necessità di attivare un contraddittorio eventuale. Le parti ed i difensori ricevono un avviso, ma non vi è l'obbligo di intervenire all'udienza. Nel modello ordinario di procedimento in camera di consiglio, l'atto iniziale è il decreto di fissazione dell'udienza. Alle parti, agli altri interessati ed ai loro difensori è dato avviso della data fissata per l'udienza almeno dieci giorni prima dell'udienza stessa. L'osservanza di questo adempimento è richiesta a pena di nullità (art. 127, comma 5). Fino a cinque giorni prima dell'udienza gli interessati possono presentare memorie presso la cancelleria del giudice. Il contraddittorio eventuale. All'udienza il contraddittorio è soltanto eventuale, perché la partecipazione delle parti, degli interessati e dei loro difensori è facoltativa. Il giudice (o il presidente del collegio) ha comunque l'obbligo di ascoltare, a pena di nullità, tutti coloro che intervengono all'udienza, oltre che l'imputato o condannato in stato di detenzione che ne facciano richiesta, purché detenuti nello stesso luogo ove ha sede il giudice; in caso contrario, alla loro audizione deve procedere il magistrato di sorveglianza prima che abbia luogo l'udienza in camera di consiglio (art. 127, comma 3). Il provvedimento conclusivo della procedura camerale assume, di regola, la forma dell'ordinanza, che è impugnabile mediante ricorso per cassazione (art. 127, comma 7). 46 d. La partecipazione a distanza. Principio di sussidiarietà. La riforma Cartabia ha predisposto una disciplina generale per la partecipazione a distanza nel titolo II-bis del libro II del codice, salvo eccezioni quando sia espressamente prevista una normativa speciale (art. 133-bis). Ad es., restano in vigore le ipotesi di esame e partecipazione a distanza previste dalle norme di attuazione per reati gravi o per la tutela di persone da proteggere (es. operatori sotto copertura, collaboratori o imputati connessi). La nuova disciplina tende ad attuare un bilanciamento tra differenti esigenze:  attuare la semplificazione e speditezza del processo (legge-delega n. 134 del 2021).  assicurare l'effettiva partecipazione consapevole dell'imputato e l'idoneità dei mezzi  per attuare tale partecipazione (C. cost. n. 342 del 1999). Il bilanciamento tra differenti esigenze ha seguito alcuni principi generali. 1) È richiesto il consenso delle parti interessate nelle nuove ipotesi introdotte dalla riforma (es. nell'assunzione delle prove in udienza in base ai nuovi artt. 496 co. 2-bis e 422 co. 2)L'autorità procedente non è vincolata dal consenso delle parti interessate e autorizza la partecipazione a distanza dopo aver accertato la disponibilità della strumentazione tecnica. 3)L'udienza non può essere un luogo meramente virtuale, bensì deve avvenire, sia pure con la partecipazione a distanza, in un luogo fisico determinato, e cioè in un ufficio giudiziario o della polizia attrezzato, individuato dall'autorità giudiziaria. Modalità della partecipazione a distanza. La decisione che autorizza la partecipazione a distanza è assunta dall'autorità giudiziaria procedente con decreto motivato che, se non emesso in udienza, deve essere notificato o comunicato alle parti almeno 3 giorni prima della data dell'atto (art. 133-ter, co. 1). Il decreto è comunicato anche alle autorità interessate. Il luogo in cui si trovano le persone che compiono l'atto o che partecipano all'udienza a distanza è equiparato all'aula di udienza. Il collegamento deve essere attuato a pena di nullità con modalità idonee a salvaguardare il contraddittorio e l'effettiva partecipazione delle parti; deve assicurare la contestuale, effettiva e reciproca visibilità delle persone presenti nei diversi luoghi e la possibilità per ciascuna di esse di udire quanto viene detto dalle altre (art. 133-ter, co. 3). Deve essere assicurata un'adeguata pubblicità degli atti a distanza e sempre la registrazione audiovisiva (art. 133-ter, co. 3). All'attestazione delle generalità delle persone collegate provvede un ausiliario del giudice o del pubblico ministero o un ufficiale di polizia giudiziaria, che redigono il verbale (art. 133-ter, co. 8). e. La documentazione degli atti. Gli atti del procedimento penale devono essere documentati perché se ne possa conservare traccia. Il codice prevede che a tale documentazione si provveda «mediante verbale», che viene redatto dall'ausiliario che assiste il giudice o il pubblico ministero (artt. 135, 373 e 480). L'art. 136, comma 1 indica in modo analitico il contenuto del verbale: «il verbale contiene la menzione del luogo, dell'anno, del mese, del giorno e, quando occorre, dell'ora in cui è cominciato e chiuso, le generalità delle persone intervenute (...), la descrizione di quanto l'ausiliario ha fatto o ha constatato o di quanto è avvenuto in sua presenza nonché le dichiarazioni ricevute da lui o da altro pubblico ufficiale che egli assiste». Il verbale deve riprodurre sia la domanda, sia la risposta (art. 136, comma 2). Il valore probatorio. La Relazione al progetto preliminare ha chiarito che il verbale «non è esso stesso fonte di prova», bensì ha solo la funzione di documentare gli atti e di attestare quello che è avvenuto in presenza dell'ausiliario. Ciò significa che il giudice rimarrà libero di valutare il significato probatorio del contenuto del verbale, e cioè egli potrà liberamente apprezzare, ad esempio, se le dichiarazioni riportate siano vere o false, ma anche potrà valutare la correttezza della descrizione redatta dal pubblico ufficiale. La documentazione può essere effettuata con almeno tre modalità differenti. Il verbale in forma integrale. In dibattimento di regola deve essere redatto il verbale in forma integrale con la stenotipia o altro strumento idoneo allo scopo oppure, in caso di impossibilità di ricorso a tali mezzi, con la scrittura manuale (art. 134, comma 2). Quando sarà in vigore il regime definitivo della digitalizzazione, saranno applicabili le norme contenute nel nuovo art. 110, e cioè varrà come regola la redazione informatica del verbale e come eccezione quella analogica. Inoltre, spetterà al giudice valutare se la redazione del verbale in forma integrale sia insufficiente e, in tal caso, procedere altresì «mediante riproduzione audiovisiva o fonografica» (art. 134, comma 3). 47 al destinatario mediante telegramma o, in alternativa, mediante comunicazione all'indirizzo di posta elettronica indicato dallo stesso (art. 149). Notificazioni chieste dalle parti private. Le parti private possono effettuare le notificazioni di loro interesse attraverso l'invio di copia dell'atto in formato analogico da parte del difensore mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento oppure per mezzo di notifica telematica eseguita dal difensore con l'utilizzo della posta elettronica certificata o altro servizio elettronico di recapito certificato (art. 152). In questo ultimo caso, l'avvocato redige la relazione di notificazione su un documento informatico separato, sottoscritto con firma digitale o altra firma elettronica qualificata ed allegato al messaggio inviato con la posta elettronica certificata. Come è specificato nella Relazione ministeriale, lo scopo di queste ultime modifiche normative è quello di consentire ai difensori di ricorrere alle modalità telematiche per la notificazione degli atti che altrimenti dovrebbero essere richiesti alla cancelleria. III. 1 destinatari delle notificazioni. Notificazioni al pubblico ministero. Le notificazioni al pubblico ministero sono eseguite con le modalità telematiche e, laddove non sia possibile tale ultima modalità, direttamente dalle parti mediante consegna di copia dell'atto nella segreteria, in forma di documento analogico. Allo stesso modo vengono notificati gli atti ed i provvedimenti del giudice, a cura della cancelleria. Il pubblico ufficiale addetto annota sull'originale e sulla copia dell'atto la eseguita consegna e la data in cui questa è avvenuta (art. 153). Notificazioni al difensore. Anche le notificazioni al difensore sono eseguite nel modo ordinario, ovverosia attraverso le modalità telematiche. Tuttavia, in casi di urgenza, laddove non sia possibile effettuare la notificazione attraverso le modalità ordinarie, il codice prevede che nei confronti del difensore l'autorità giudiziaria possa disporre che la notifica sia effettuata per mezzo del telefono. Notificazioni all'imputato detenuto. Le notificazioni all'imputato detenuto, anche successive alla prima, sono eseguite sempre nel luogo di detenzione mediante consegna di copia alla persona (art. 156, comma 1). Se questa si rifiuta di ricevere l'atto, se ne fa menzione nella relazione di notificazione e la copia rifiutata è consegnata al direttore dell'istituto o a chi ne fa le veci. Le notificazioni all'imputato detenuto in luogo diverso dagli istituti penitenziari sono eseguite a norma dell'art. 157, sempre mediante consegna di copia dell'atto al destinatario (art. 156, comma 2) anche in caso di notifica successiva alla prima. Notificazioni all'imputato non detenuto. Allo scopo di rendere più celere ed agevole l'attività di notificazione all'imputato (o all'indagato) non detenuto, il codice disciplina la dichiarazione o l'elezione di domicilio. Nel primo atto compiuto con l'intervento dell'imputato o dell'indagato, l'autorità procedente lo invita a dichiarare il proprio domicilio, o un indirizzo di posta elettronica certificata oppure a eleggere domicilio per le notificazioni dell'avviso di fissazione dell'udienza preliminare, degli atti di citazione in giudizio, nonché del decreto penale di condanna (art. 161, comma 1). Dichiarare il domicilio significa indicare quel luogo, ove l'imputato abita o lavora, nel quale gli atti saranno a lui notificati. La dichiarazione di un indirizzo di posta elettronica certificata da parte dell'imputato ovvero dell'indagato equivale a dichiarare un proprio domicilio digitale. All'atto della identificazione, è previsto dal nuovo articolo 349 che l'imputato dichiari anche i recapiti telefonici o gli indirizzi di posta elettronica nella sua disponibilità. L'imputato è obbligato ad indicare tali dati, ma l'indirizzo di posta elettronica ordinaria non può essere utilizzato per effettuare le notifiche. Eleggere il domicilio (dal latino "eligere", scegliere) comporta la indicazione di un domiciliatario, e cioè di una persona differente dall'imputato, che viene da lui scelta per ricevere copia dell'atto da notificare: una volta consegnata la copia al domiciliatario, l'atto si considera legalmente conosciuto dall'imputato. In seguito alle modifiche apportate alla disciplina delle notificazioni dalla riforma Cartabia, la dichiarazione o l'elezione di domicilio svolge una funzione "effettiva" solo in relazione all'avviso di fissazione dell'udienza preliminare e di tutti gli ulteriori atti di citazione a giudizio relativi a riti alternativi, alla citazione diretta a giudizio dinnanzi al tribunale in composizione monocratica ed alla citazione a giudizio in grado di appello (art. 164). Ed infatti, le notificazioni successive alla prima, diverse da quelle riguardanti l'avviso di fissazione dell'udienza preliminare, la citazione in giudizio e il decreto penale di condanna, sono effettuate mediante consegna al difensore di fiducia o a quello nominato d'ufficio; di ciò l'imputato è avvisato nel momento in cui viene invitato a dichiarare o eleggere domicilio dall'autorità procedente. Contestualmente, la persona sottoposta alle indagini o l'imputato è avvertito che è suo onere indicare al difensore ogni recapito, anche telefonico, o indirizzo di posta elettronica nella sua disponibilità, ove il difensore 50 possa effettuare le comunicazioni, nonché informarlo di ogni loro successivo mutamento. L'imputato medesimo è avvertito a pena di nullità che, ove egli si rifiuti di ottemperare alla dichiarazione o elezione di domicilio, o successivamente ometta di comunicare un eventuale mutamento del domicilio dichiarato o eletto, nonché nel caso in cui il domicilio sia o divenga inidoneo, le notificazioni saranno eseguite mediante consegna al difensore già nominato o che è contestualmente nominato, anche d'ufficio (artt. 157, comma 1 e 161, comma 4). Della dichiarazione o della elezione di domicilio, o del rifiuto di compierla, nonché degli avvertimenti dati dall'autorità procedente, è fatta menzione nel verbale (art. 161, comma 1-bis). Ai sensi dell'art. 162, il domicilio dichiarato, il domicilio eletto e ogni loro mutamento devono essere comunicati dall'imputato all'autorità che procede. Finché l'autorità giudiziaria che procede non ha ricevuto la comunicazione, sono valide le notificazioni disposte nel domicilio precedentemente dichiarato o eletto. In base al nuovo comma 4-bis dell'art. 162, già introdotto dalla Riforma Orlando, «l'elezione di domicilio presso il difensore d'ufficio non ha effetto se l'autorità che procede non riceve, unitamente alla dichiarazione di elezione, l'assenso del difensore domiciliatario». Con le modifiche apportate dalla riforma Cartabia, è stato aggiunto che il difensore deve attestare l'avvenuta comunicazione da parte sua all'imputato della mancata accettazione della domiciliazione o le cause che hanno impedito tale comunicazione. Prima notificazione all'imputato non detenuto. Nel caso in cui non sia stato possibile invitare l'imputato a dichiarare o eleggere il domicilio e sia impossibile la notifica in forma digitale e l'imputato non abbia ancora ricevuto gli avvertimenti di cui all'art. 161, comma 1, scatta una ulteriore normativa. Il codice distingue tra la prima e le successive notificazioni all'imputato non detenuto. Di regola la prima notificazione è eseguita mediante consegna di copia alla persona del documento analogico (c.d. notifica a mani proprie); ciò può avvenire sia nel domicilio, sia altrove. Se non è possibile la consegna a mani proprie, la notificazione avviene nel luogo in cui l'imputato è reperibile, e cioè nella casa di abitazione o nel luogo di lavoro, se conosciuti; se tali luoghi non sono conosciuti, avviene ove l'imputato ha temporanea dimora o recapito (art. 157, comma 2). Nei predetti luoghi la notifica è eseguita mediante consegna di copia dell'atto ad una persona che conviva anche temporaneamente con l'imputato o, in mancanza, al portiere o a chi ne fa le veci (33). In caso di notifica nel luogo in cui l'imputato esercita abitualmente l'attività lavorativa, se non è possibile consegnare personalmente la copia, la consegna è eseguita al datore di lavoro o ad una persona addetta alla ricezione degli atti. Se non è possibile consegnare la copia alle predette persone, si procede a nuova ricerca di un secondo accesso; in caso di esito negativo, la notificazione è effettuata mediante deposito dell'atto nella casa comunale di abituale residenza o lavoro, con affissione dell'avviso di deposito alla porta della casa di abitazione o del luogo di lavoro (art. 157, comma 8). L'ufficiale giudiziario, inoltre, invia copia dell'atto, provvedendo alla relativa annotazione sull'originale e sulla copia, tramite lettera raccomandata con avviso di ricevimento nel luogo di residenza anagrafica o di dimora dell'imputato. Gli effetti della notificazione decorrono dalla ricezione di quest'ultima. Contestualmente alla notificazione del primo atto, anche quando questa viene effettuata con le modalità telematiche, l'autorità giudiziaria avverte l'imputato che le successive notificazioni, diverse dalla notificazione degli atti introduttivi del giudizio, saranno effettuate mediante consegna al difensore di fiducia o a quello nominato d'ufficio. La disciplina della prima notificazione all'imputato non detenuto deve essere letta in combinato disposto con l'art. 161 c.p.p. Se la prima notifica viene effettuata dalla polizia giudiziaria, questa procede contestualmente a redigere il verbale di cui all'art. 349 c.p.p. (questo è il caso più frequente nella prassi). Le nuove diposizioni introdotte dalla riforma Cartabia prevedono che i medesimi avvertimenti che la polizia giudiziaria è tenuta a fornire ai sensi del nuovo comma 1 dell'art. 161 c.p.p., siano fornite con la notifica del primo atto, a prescindere dal soggetto che esegue materialmente la notifica (si pensi alla notifica disposta dal giudice ed effettuata dall'ufficiale giudiziario, senza una previa dichiarazione o elezione di domicilio). Le notifiche successive alla prima. La disciplina previgente delle notifiche, antecedente alla riforma Cartabia, regolava in modo apposito le successive notificazioni che fossero state effettuate all'imputato non detenuto. Queste erano eseguite in relazione all'esito della prima notificazione, e cioè rispettivamente nel domicilio eletto; o presso il difensore, se l'imputato era stato dichiarato irreperibile; o nel luogo in cui era stata effettuata la prima notificazione. La legge n. 60 del 2005 aveva introdotto una ulteriore modalità di 51 notificazione in aggiunta a quelle ordinarie (art. 157, comma 8-bis, ora abrogato). Quando l'imputato aveva nominato un difensore di fiducia, le notificazioni successive erano eseguite tramite consegna al difensore, che poteva dichiarare immediatamente all'autorità, che procedeva, di non accettare la notificazione; in questo ultimo caso, questa veniva eseguita con le modalità ordinarie (art. 148, comma 2-bis). Viceversa, se il difensore non avesse reso immediata dichiarazione, la notifica sarebbe stata corretta. Il nuovo art. 157-bis disciplina ex novo tutte le notificazioni all'imputato non detenuto successive alla prima, diverse dalla notificazione dell'avviso di fissazione dell'udienza preliminare, del decreto di citazione a giudizio direttissimo (per l'imputato libero), del decreto che dispone il giudizio immediato, del decreto di citazione diretta a giudizio, del decreto di citazione a giudizio in grado di appello (artt. 450, comma 2, 456, 552 e 601), nonché del decreto penale di condanna. Le notifiche successive alla prima diverse da queste ultime sono sempre eseguite mediante consegna al difensore di fiducia o di ufficio. Si tratta di una vera e propria domiciliazione ex lege. Tuttavia, se l'imputato è assistito da un difensore di ufficio, nel caso in cui la prima notificazione sia avvenuta con consegna di copia dell'atto a persona diversa da quelle indicate al comma 1 dell'articolo 157 e l'imputato non abbia già ricevuto gli avvertimenti di cui all'articolo 161, comma 1, le notificazioni successive non potranno essere effettuate tramite consegna dell'atto al difensore. In questo caso anche le notificazioni successive alla prima devono essere effettuate con le modalità di cui all'articolo 157, fino a che non vi sia una notifica che risponda ai criteri indicati dal codice e consenta l'opera della domiciliazione ex lege prevista dall'art. 157-bis. Con quest'ultima disposizione la legislazione delegata ha voluto assicurare che l'imputato abbia una conoscenza effettiva del processo, che può essere garantita solo se vengono rispettate le forme indicate nell'art. 157. Le notifiche degli atti introduttivi del giudizio. Sempre a garanzia della effettiva conoscenza del processo, l'art. 157-ter prevede che le notifiche degli atti introduttivi del giudizio siano sempre effettuate al domicilio dichiarato - anche qualora si tratti di domicilio digitale (ossia, l'indirizzo di posta elettronica certificata) - o al domicilio eletto oppure, solo in mancanza di un domicilio dichiarato o eletto, nei luoghi e con le modalità di cui all'articolo 157 (con esclusione, quindi, in questo ultimo caso delle modalità della notifica telematica di cui all'articolo 148, comma 1). In sostanza, se l'imputato ha dichiarato o eletto un domicilio, la notifica dell'atto introduttivo potrà essere effettuata presso il luogo indicato o tramite invio di notifica telematica all'indirizzo di posta elettronica certificata. Viceversa, se l'imputato non ha ancora dichiarato o eletto domicilio la disciplina da applicare è quella prevista per la prima notifica all'imputato non detenuto. Nei casi in cui sia imminente la scadenza del termine di prescrizione del reato o il decorso del termine di improcedibilità di cui all'articolo 344-bis oppure sia in corso di applicazione una misura cautelare, oppure si sia in presenza di altre gravi situazioni, è previsto che l'autorità giudiziaria possa disporre che sia eseguita dalla polizia giudiziaria la notificazione all'imputato dell'avviso di fissazione dell'udienza preliminare, del decreto di citazione a giudizio direttissimo (per l'imputato libero), del decreto che dispone il giudizio immediato, del decreto di citazione diretta a giudizio, del decreto di citazione a giudizio in grado di appello, nonché del decreto penale di condanna. In caso di impugnazione proposta dall'imputato o nel suo interesse, la notificazione dell'atto di citazione a giudizio in grado di appello nei suoi confronti è sempre eseguita presso il domicilio dichiarato o eletto, ai sensi dell'articolo 581, commi 1-ter e 1-quater. Il decreto di irreperibilità. Il codice considera anche l'ipotesi nella quale, malgrado l'attivazione delle modalità previste dall'art. 157 (prima notificazione all'imputato non detenuto) non sia comunque possibile effettuare la notificazione all'imputato perché questi non è reperibile. In tal caso, il giudice o il pubblico ministero devono disporre nuove ricerche nel luogo di nascita, in quello di ultima residenza anagrafica o di dimora e negli altri luoghi indicati dall'art. 159, comma 1; tali ricerche sono imposte dalla giurisprudenza come cumulative e non alternative. Qualora le ricerche diano esito negativo, il giudice o il pubblico ministero emettono un decreto di irreperibilità. Con tale provvedimento viene designato un difensore all'imputato che ne sia privo e viene ordinato che le notificazioni siano eseguite mediante consegna di copia al difensore, che rappresenta l'irreperibile. Il codice si preoccupa di assicurare la conoscibilità del procedimento da parte dell'irreperibile; in particolare, considera necessaria una verifica costante dell'attualità di tale situazione. Prima delle modifiche introdotte dalla riforma Cartabia il decreto di irreperibilità cessava di avere efficacia, in sintesi, al termine della fase o del grado di merito. Il nuovo testo dell'art. 160 prevede che il decreto di irreperibilità cessa di avere efficacia con la notificazione dell'avviso di conclusione delle indagini preliminari o, quando questo manchi, con la chiusura delle indagini preliminari. Si è quindi previsto che l'efficacia del decreto di irreperibilità non cessi più con la pronuncia del provvedimento che definisce l'udienza preliminare, bensì con la notificazione dell'avviso di conclusione delle indagini preliminari, 52 g. La traduzione degli atti: l'interprete. La materia è regolamentata dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo, che pone varie garanzie in favore della persona che non comprende la lingua del processo: 1) il diritto dell' accusato di essere informato, nel più breve tempo possibile, in una lingua a lui comprensibile e in modo dettagliato, della natura e dei motivi dell'accusa elevata a suo carico; 2) il diritto sempre di carattere generale e spettante ad ogni persona che non comprenda o non parli la lingua impiegata in udienza, di farsi assistere gratuitamente da un interprete; 3) il diritto, spettante specificamente all'arrestato, di essere informato dei motivi dell'arresto La funzione tradizionale della traduzione degli atti. Nei previgenti codici l'interprete svolgeva la funzione di strumento utile all'autorità inquirente al fine di assumere un atto processuale. Tale funzione è conservata dall'attuale testo dell'art. 143-bis, comma 1, secondo cui l'autorità procedente nomina un interprete «quando occorre tradurre uno scritto in lingua straniera o in un dialetto non facilmente intellegibile» o «quando la persona che vuole o deve fare una dichiarazione non conosce la lingua italiana». L'imputato ha diritto di farsi assistere gratuitamente da un interprete (art. 143, comma 1): a) al fine di comprendere l'accusa contro di lui formulata e di seguire il compimento degli atti e lo svolgimento delle udienze a cui partecipa; b) per le comunicazioni con il difensore prima di rendere interrogatorio o al fine di presentare richieste o memorie. È obbligatorio tradurre per scritto all'imputato determinati atti (art. 143, comma 2): l'informazione di garanzia e sul diritto di difesa; i provvedimenti che dispongono misure cautelari personali; l'avviso di conclusione delle indagini preliminari; i decreti che dispongono l'udienza preliminare e la citazione a giudizio; le sentenze. La traduzione deve avvenire entro un termine «congruo», tale da consentire l'esercizio del diritto di difesa. Spetta al potere discrezionale dell'autorità procedente far tradurre (anche solo oralmente) gli altri atti essenziali (o anche solo parte di essi) al fine di consentire all'imputato di conoscere le accuse a suo carico (art. 143, comma 3). La traduzione è disposta dal giudice - d'ufficio o su richiesta di parte - con atto motivato, impugnabile unitamente alla sentenza. È obbligatorio nominare un interprete: a) quando occorre procedere all'audizione della persona offesa (art. 143-bis, comma 2); b) nei casi in cui la stessa intenda partecipare all'udienza e abbia fatto richiesta di essere assistita dall'interprete (art. 143-bis, comma 2); c) quando occorre tradurre in tutto o in parte atti che contengono informazioni utili all'esercizio dei diritti dell'offeso (art. 143-bis, comma 4, a mente del quale la persona offesa che non conosce la lingua italiana ha diritto alla traduzione gratuita); in tal caso, il medesimo art. 143-bis, comma 4 precisa che la traduzione può essere disposta sia in forma orale, sia per riassunto, se non ne derivi pregiudizio ai diritti dell'offeso. La nomina dell'interprete e del traduttore. Con il provvedimento di nomina l'autorità procedente dispone la notificazione all'interprete del relativo decreto di citazione; nei casi urgenti l'interprete può essere citato anche oralmente per mezzo dell'ufficiale giudiziario o della polizia giudiziaria (art. 52 disp. att.). Il conferimento dell'incarico impone all'interprete l'obbligo di verità e quello di conservare il segreto su tutti gli atti che si compiano per suo mezzo o in sua presenza (art: 146 comma 2). Per le scritture che richiedano un lavoro di lunga durata l'autorità procedente fissa all’interprete un termine che può essere prorogato per giusta causa una sola volta (art. 147, comma 1). Le situazioni di incompatibilità. Non può svolgere il ruolo di interprete colui che è incompatibile con la funzione di testimone (es. imputato, imputato connesso o collegato, giudice, pubblico ministero, ecc.), colui che, nel medesimo procedimento, è stato testimone, perito o consulente tecnico, nonché colui che ha la facoltà di astenersi dal testimoniare (es. prossimo congiunto o titolare del segreto professionale). Il codice prevede espressamente un'altra ipotesi nella quale è necessaria l'opera dell'interprete. L'art. 119 si 55 riferisce al sordo e al muto quando costoro non sappiano leggere o scrivere. In queste ipotesi eccezionalmente la qualità di interprete può essere assunta da un prossimo congiunto della persona interessata (art. 144, comma 1, lett. d). 56 2. Le cause di invalidità degli atti. Il codice prevede dettagliatamente i requisiti formali che devono avere i singoli atti del procedimento penale. Tali requisiti danno luogo al "modello legale" del singolo atto; essi rispondono alla fondamentale esigenza che in concreto l'atto possa svolgere la funzione che è ad esso assegnata all'interno del procedimento. L'atto perfetto è quello che è conforme al modello descritto dalla norma processuale; esso è valido e produce gli effetti giuridici previsti dalla legge, primo fra tutti quello di essere utilizzato dal giudice nella decisione. Ovviamente, il suo valore probatorio è valutato liberamente dal giudice, che potrà ritenerlo attendibile o meno. L'atto che non è conforme al modello legale può essere invalido o meramente irregolare. È invalido quando la singola difformità rientra in uno dei quattro casi di invalidità previsti dal codice; e cioè quando la singola inosservanza di legge è prevista come causa di decadenza, di inammissibilità, di nullità o di inutilizzabilità. L'atto irregolare. L'atto è irregolare se la difformità dal modello legale non rientra in una delle cause di invalidità che sono tassativamente previste dalla legge. Certamente vi è stata una inosservanza di legge nel compiere l’atto, ma tale inosservanza non è prevista a pena di invalidità. Pertanto, l'atto irregolare è valido: il giudice potrà tenerne conto ai fini della decisione, anche se a volte l'inosservanza delle formalità comporta la difficoltà di valutare il significato probatorio dell'atto. L’irregolarità potrà dar luogo all'applicazione di una sanzione disciplinare a carico della persona colpevole: ciò, è ricavabile dall'art. 124, comma 1, secondo cui i soggetti del procedimento «sono tenuti a osservare le norme (del) codice anche quando l'inosservanza non importa nullità o altra sanzione processuale». L'atto invalido. L'inammissibilità impedisce al giudice di esaminare nel merito una richiesta presentata da una parte (effettiva o potenziale) quando la richiesta stessa non ha i requisiti previsti dalla legge perché possa essere ammessa. La decadenza comporta l'invalidità dell'atto che sia stato eventualmente compiuto dopo che è scaduto un termine perentorio (art. 173). La nullità è un vizio che colpisce l'atto del procedimento che sia stato compiuto senza l'osservanza di degerminate disposizioni stabilite espressamente dalla legge appunto a pena di nullità (art. 177). L'inutilizzabilità è una invalidità che colpisce direttamente il valore probatorio di un atto: il giudice non può basarsi su di esso per emettere una decisione. b. Il principio di tassatività. Nella materia in esame vige uno stretto principio di tassatività; ciò significa che l'inosservanza della legge processuale è causa di invalidità soltanto quando una nona espressamente vi ricollega una delle invalidità appena citate. Il principio di tassatività è dettato specificamente per la nullità (art. 177) e per la decadenza (art. 173); tuttavia esso è desumibile dall'intero sistema delle cause di invalidità. c. L'inammissibilità. È una sanzione processuale che colpisce gli atti di parte o di chi si fa parte. Questa causa di invalidità impedisce al giudice di esaminare nel merito una richiesta avanzata da una parte effettiva o potenziale del procedimento, quando la richiesta non ha i requisiti stabiliti dalla legge a pena di inammissibilità. Il requisito può riguardare il tempo entro il quale deve essere compiuto l'atto (ad esempio, art. 591, comma 1, lett. G, per l'impugnazione); oppure può concernere il contenuto dell'atto (ad esempio, art. 78, comma 1, per la dichiarazione di costituzione di parte civile); o può toccare un aspetto formale (ad esempio, art. 122, comma 1, sulla forma della procura speciale); o ancora può riguardare la legittimazione al compimento dell'atto (ad esempio, l'art. 41, in base al quale è inammissibile la ricusazione presentata da un soggetto che non ne ha il diritto). 57 b) La restituzione nel termine per proporre opposizione al decreto penale di condanna. (speciale) Ricordiamo che il procedimento per decreto è un rito speciale previsto allo scopo di evitare tanto la fase dell'udienza preliminare quanto quella del giudizio dibattimentale. Il pubblico ministero, laddove ritiene che possa essere comminata una pena pecuniaria (anche in sostituzione di una pena detentiva), può esercitare l'azione penale chiedendo al giudice per le indagini preliminari l'emissione di un decreto di condanna nei confronti dell'imputato. Per quanto concerne i presupposti di tipo oggettivo, il decreto penale aggredibile con la restituzione nel termine deve avere il carattere della irrevocabilità (art. 648, comma 3). Non vi è decreto irrevocabile se il titolo esecutivo non si è formato validamente; ad esempio, è stata omessa o è invalida la notificazione del provvedimento; in tal caso, l'imputato può proporre opposizione tardiva e, se del caso, instaurare l'incidente di esecuzione (art. 670; si veda il capitolo sulla esecuzione). Dal punto di vista soggettivo, la richiesta di restituzione nel termine può essere presentata dall'imputato (art. 175, comma 2) e dal suo difensore. c) La restituzione nel termine per impugnare in favore dell'imputato assente. (speciale) La riforma Cartabia, a margine di una disciplina organica informata alla tutela della effettiva conoscenza del processo in favore dell'imputato, ha introdotto una nuova ipotesi di restituzione nel termine per proporre impugnazione (art. 175, comma 2.1). L'imputato giudicato in assenza è restituito, a sua richiesta, nel termine per proporre impugnazione, salvo che vi abbia volontariamente rinunciato in presenza di alcune condizioni. Anzitutto, deve essere stato dichiarato assente nelle ipotesi previste dall'art. 420-bis, comma 2 (il giudice ha ritenuto comunque provata l'effettiva conoscenza del processo e la scelta volontaria e consapevole di non presenziare) oppure dall'art. 420-bis, comma 3 (imputato latitante o comunque volontariamente sottrattosi alla conoscenza della pendenza del processo). In tali casi, per poter ottenere la restituzione nel termine per impugnare, l'imputato deve fornire la prova di non aver avuto effettiva conoscenza della pendenza del processo e di non aver potuto proporre impugnazione nei termini senza sua colpa. La nuova disciplina dell'assenza si basa su un meccanismo di notificazioni finalizzato a garantire la conoscenza concreta dell'atto e prevede che l'assenza sia dichiarata non sulla base di presunzioni ma soltanto se il giudice accerta in concreto la mancata conoscenza del processo. Pertanto, in caso di corretta dichiarazione di assenza, soltanto quell'imputato che riesce a provare la mancata conoscenza della pendenza del processo e il conseguente mancato rispetto incolpevole dei termini per impugnare può essere restituito nel termine. Disciplina comune alle restituzioni nel termine speciali. La richiesta. La richiesta di restituzione nel termine per opporre il decreto penale di condanna o per proporre impugnazione deve essere presentata al giudice competente entro trenta giorni da quello in cui l'imputato ha avuto conoscenza effettiva del provvedimento; il termine è a pena di decadenza (art. 175, comma 2-bis). Sulla richiesta decide con ordinanza il giudice che procede al tempo della presentazione della richiesta. Se si tratta di restituzione nel termine per opporre il decreto di condanna, la competenza spetta al giudice per le indagini preliminari, in quanto a lui tocca la decisione sulla ammissibilità o meno della opposizione (art. 175, comma 4). Se il giudice ritiene insussistenti i presupposti per concedere la restituzione nel termine speciale, egli respinge la richiesta; contro l'ordinanza l'imputato può proporre ricorso per cassazione (art. 175, comma 6). Se, invece, la richiesta dell'imputato è fondata, il giudice deve accoglierla con ordinanza che può essere impugnata solo con la sentenza che decide sulla impugnazione o sulla opposizione (art. 175, comma 5). Ciò che l'imputato ottiene dalla decisione, che concede la restituzione, è la possibilità di presentare opposizione contro il decreto penale di condanna o la possibilità di impugnare la sentenza che ha chiuso il processo in assenza; pertanto, in tale sede, egli ha l'onere di esercitare i propri diritti. Quando si tratta di decreto penale di condanna, esso non è annullato, bensì ne viene eliminato il carattere di irrevocabilità. Pertanto, il decreto è sottoposto all'effetto sospensivo della esecuzione ai sensi dell'art. 588. 60 e. La nullità. 61 e. La Nullità 1. Tassatività delle nullità. Questa causa d'invalidità colpisce un atto del procedimento che è stato compiuto senza l'osservanza di quelle disposizioni che sono imposte dalla legge appunto a pena di "nullità". Il principio di tassatività è previsto espressamente dall'art. 177 del codice: «l’inosservanza delle disposizioni stabilite per gli atti del procedimento è causa di nullità soltanto nei casi previsti dalla legge». In primo luogo, non è possibile applicare la nullità per analogia: se anche il caso, non previsto espressamente, appare "simile" ad una ipotesi sanzionata con la nullità, quest'ultima con può regolare il caso non previsto. In secondo luogo, una volta accertata una nullità, non è possibile valutare se vi sia stato un pregiudizio concreto per l'interesse protetto o se comunque l'atto nullo abbia raggiunto l'effetto (salvo le ipotesi previste espressamente dall'art. 183, lett. b). Non danno luogo a nullità gli errores in indicando, che trovano il loro rimedio nelle impugnazioni (ad es., il giudice ritiene il testimone non attendibile e, poi, basa la sentenza su tale deposizione). Le modalità di previsione. Sulla base della modalità di previsione dell'inosservanza, si distingue tra nullità speciali e generali. Le nullità speciali sono quelle previste per una determinata inosservanza precisata nella species (ad esempio, art. 109, comma 3: inosservanze relative alla lingua degli atti del procedimento). Le nullità di ordine generali sono previste per ampie categorie di inosservanze e sono indicate nell'art. 178 (es., disposizioni sull'intervento dell'imputato). Riguardano tre diverse figure: il giudice, il pm e le parti private. Per quanto riguarda il regime giuridico, le nullità si distinguono in tre tipi: assolute, intermedie e relative. Assolute e intermedie (nullità di ordine generale). Relative (nullità speciali). Nullità assolute. L'art. 179 indica quali, fra le nullità di ordine generale elencate dall'att. 178, sono assolute. -Rientrano in questa categoria (art. 179, comma 1 lett a) le violazioni delle disposizioni concernenti «le condizioni di capacità del giudice», intese nel senso di capacità generica all'esercizio della funzione giurisdizionale; tale è, ad esempio, la mancanza della laurea in giurisprudenza. Questa interpretazione si impone a causa dell'att. 33, comma 2, secondo cui «non si considerano attinenti alla capacità del giudice le disposizioni sulla destinazione del giudice agli uffici giudiziari e alle sezioni, sulla formazione dei collegi e sulla assegnazione dei processi a sezioni, collegi, e giudici». Inoltre, rientra nelle nullità assolute generali (art. 179 comma 1 lett a) la violazione delle disposizioni concernenti «il numero dei giudici necessario per costituire i collegi» stabilito dalle leggi di ordinamento giudiziario. - E ancora: è prevista come nullità assoluta generale (art. 179 comma 1 lett b) la violazione delle disposizioni concernenti «l’iniziativa del pubblico ministero nell'esercizio dell'azione penale». In tale nozione rientrano i vizi che si risolvono nel mancato promovimento dell'azione penale (ad es., è stato omesso uno degli atti previsti dall'art. 405, come la richiesta di rinvio a giudizio nel procedimento ordinario o l'atto che dà inizio ad un procedimento speciale); ma può essere ricompreso anche l'invalido promovimento dell'azione penale esercitata in modo non conforme al modello legale (es., richiesta di rinvio a giudizio sottoscritta dal segretario). - Inoltre, rientra tra le nullità assolute la «omessa citazione dell’imputato» (art. 179, comma 1). La "citazione" costituisce lo strumento di vocatio in iudicium in primo e in secondo grado e ricomprende: a) il decreto di citazione a giudizio; b) la sua comunicazione all'imputato mediante notificazione. a) Il decreto di citazione a giudizio è previsto per il dibattimento in primo e secondo grado dagli artt. 429, comma 4, 553 e 601, comma 1; la omissione nei confronti dell'imputato da luogo a nullità assoluta mentre, come vedremo, nei confronti delle altre parti private dà luogo a nullità intermedia (art. 180). b) È prevista come nullità assoluta la omissione della notificazione (e non qualsiasi vizio della stessa); non comporta nullità assoluta l'erronea valutazione del giudice sulla "probabilità" che l'imputato non abbia avuto effettiva conoscenza del decreto. - La presenza del difensore dell'imputato è imposta a pena di nullità assoluta dell'art. 179, comma 1, nei casi in cui essa è prevista come obbligatoria. Ricordiamo che la presenza del difensore è obbligatoria nelle udienze dibattimentali ed inoltre nelle altre occasioni nelle quali è prescritta espressamente (ad es., nell'udienza preliminare); nell'interrogatorio di garanzia; nell'udienza di convalida dell'arresto in flagranza e del fermo. Ciò premesso, è causa di nullità assoluta l'assenza del difensore dell'imputato nei casi in cui ne è obbligatoria la presenza. 62 Ad esempio, l'omissione dell'informazione di garanzia all'indagato causa la nullità del singolo atto garantito per il quale l'informazione doveva essere inviata e non degli atti successivi non garantiti. La nullità della udienza di convalida del fermo o dell'arresto in flagranza non si estende alla misura cautelare che il giudice dispone in tale sede. L'estensione della nullità produce effetti gravi allorché il vizio colpisca un atto propulsivo del procedimento. Per atti propulsivi si intendono quegli atti di impulso che devono necessariamente essere compiuti perché il procedimento possa validamente proseguire. Come esempio, possiamo ricordare il decreto che dispone il giudizio. Ove tale atto sia dichiarato nullo, ne risultano travolti tutti quelli compiuti successivamente (art. 185 comma 3 >> effetto: regressione allo stato o al grado del procedimento in cui si è verificata la nullità). Rinnovazione dell'atto nullo. Ai sensi del comma 2 dell'art. 185 il giudice, se dichiara la nullità di un atto, ne dispone la rinnovazione, qualora sia necessaria e possibile, ponendo le spese a carico di chi ha dato causa alla nullità per dolo o colpa grave. La rinnovazione non è possibile quando l'atto è all'origine non ripetibile o lo è diventato successivamente. Il codice pone una distinzione quando la nullità è dichiarata in uno stato (cioè fase) o grado del processo diverso da quello in cui la stessa si è verificata. Se si tratta di una prova, il medesimo giudice provvede alla rinnovazione se necessaria e possibile (art. 185, comma 4). Se non si tratta di una prova, bensì ad esempio di un atto propulsivo, la dichiarazione di nullità comporta la regressione del procedimento allo stato o al grado in cui è stato compiuto l'atto nullo, salvo che sia diversamente stabilito. Nullità e abuso del diritto. Le sezioni unite si sono soffermate su di un'ipotesi in cui la difesa eccepiva la nullità generale ex art. 178, lett. c per il mancato riconoscimento dei termini a difesa a seguito di mutamento del difensore (art. 108). A detta della Cassazione, il diniego di termini a difesa, ovvero la concessione di termini ridotti rispetto a quelli previsti dall'art. 108, comma 1, non possono dar luogo ad alcuna nullità quando la relativa richiesta non risponda ad alcuna reale esigenza difensiva e l'effettivo esercizio del diritto alla difesa tecnica dell'imputato non abbia subito alcuna lesione o menomazione. Nella fattispecie si era verificato un reiterato avvicendamento di difensori posto in essere in chiusura del dibattimento, secondo una strategia non giustificata da alcuna reale esigenza difensiva, ma con la sola funzione di ottenere una dilatazione dei tempi processuali con il conseguente effetto della declaratoria di estinzione dei reati per prescrizione. Le Sezioni unite hanno escluso nel caso di specie qualsiasi violazione del diritto di difesa sul rilievo che lo svolgimento e la definizione del processo di primo grado erano stati ostacolati da un numero esagerato di iniziative difensive con il solo obiettivo di ottenere una reiterazione tendenzialmente infinita delle attività processuali. f. L'inutilizzabilità. Il termine "inutilizzabilità" descrive due aspetti del medesimo fenomeno. Da un lato, esso indica il "vizio" da cui può essere affetto un atto (causa); da un altro lato, esso illustra il "regime giuridico" al quale l'atto viziato è sottoposto (effetto), e cioè il non poter essere immesso a fondamento di una decisione del giudice oppure di un atto del pubblico ministero o della polizia giudiziaria. L'inutilizzabilità è un tipo di invalidità che ha la caratteristica di colpire non l'atto in sé, bensì il suo "valore probatorio". L'atto, pur valido dal punto di vista formale (ad esempio, non è affetto da nullità), è colpito nel suo aspetto sostanziale, poiché l'inutilizzabilità impedisce ad esso di produrre il suo effetto principale, ché è quello di essere posto a base di una decisione. L’inutilizzabilità assoluta e relativa. L'inutilizzabilità dell'atto è assoluta quando il giudice non può basarsi su di esso per emettere un qualsiasi provvedimento; è relativa, quando la legge indica le persone nei confronti delle quali non può essere utilizzato un determinato atto o la categoria di provvedimenti che non possono basarsi su tale atto. L’inutilizzabilità speciale e generale. Si ha inutilizzabilità speciale ogniqualvolta una norma del codice commini espressamente tale sanzione per il mancato rispetto delle condizioni previste per l'acquisizione di una determinata prova (es. in base all'art. 271 sono inutilizzabili le intercettazioni che siano state «eseguite fuori dei casi consentiti»). L'inutilizzabilità generale si riferisce a categorie di inosservanze delineate nel genere (art. 191, «le prove 65 acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge non possono essere utilizzate»). Inutilizzabilità patologica e fisiologica. La inutilizzabilità patologica consegue ad alcuni tra i vizi più gravi del procedimento probatorio (ammissione, assunzione e valutazione della prova). La inutilizzabilità fisiologica è una conseguenza del principio della separazione delle fasi del procedimento ed è posta a tutela del principio del contraddittorio nella formazione della prova: essa tende ad evitare che siano utilizzate per la decisione dibattimentale prove raccolte nel coso delle indagini preliminari. In tale fase, infatti, di regola non viene garantito il principio del contraddittorio, salvo quando si svolga l'incidente probatorio i cui verbali, infatti, sono utilizzabili in dibattimento (art. 392). L'inutilizzabilità fisiologica differisce da quella patologica nel fondamento normativo e nella regolamentazione. L'inutilizzabilità patologica. L'inutilizzabilità patologica di tipo generale è disciplinata dall'art. 191, comma 1, in base al quale: «le prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge non possono essere utilizzate». La norma ha una formulazione estremamente generica; tuttavia, essa deve essere interpretata in senso restrittivo in base al principio di tassatività delle invalidità. In applicazione di tale criterio, occorre ritenere che i divieti idonei a provocare l'inutilizzabilità patologica siano esclusivamente quelli previsti da norme processuali. Ciò è chiarito dalla rubrica dell'art. 191, che si riferisce alle «prove illegittimamente acquisite». Se il divieto avesse avuto ad oggetto la violazione di una legge penale sostanziale, si sarebbe utilizzata l'espressione "prove illecitamente acquisite". Viceversa, la rubrica dell’art. 191 fa riferimento alle prove «illegittimamente acquisite». Pertanto, le prove raccolte violando una norma della legge penale sostanziale (c.d. prove illecite) sono, di regola, utilizzabili; diventano inutilizzabili se è stata violata una specifica norma processuale che disponga in tal senso. Il divieto probatorio. In base all'art. 191 l'inutilizzabilità è la conseguenza che deriva dall'aver acquisito una prova violando un "divieto" probatorio. Il vizio, che viene in considerazione, consiste nel fatto che il giudice ha esercitato nella acquisizione di una prova un "potere istruttorio" che la legge processuale vietava (divieto relativo all'an). Un esempio è l'art. 220 comma 2, in base al quale nel processo di cognizione «non sono ammesse perizie per stabilire l'abitualità o la professionalità nel reato, la tendenza a delinquere, il carattere e la personalità dell'imputato e in genere le qualità psichiche indipendenti da cause patologiche». Quando è stata violata una semplice "modalità" di assunzione di una prova (divieto relativo al quomodo), questa di regola è utilizzabile. La prova diventa inutilizzabile soltanto se tale sanzione è prevista espressamente dalla legge come conseguenza della violazione di quella determinata modalità di assunzione. Ci riferiamo ai casi di inutilizzabilità speciale. Viceversa, la violazione di modalità di assunzione non espressamente poste a pena di inutilizzabilità non sono idonee a far scattare tale sanzione processuale. Ad esempio, la deposizione testimoniale deve essere resa in seguito a domande su fatti specifici (art. 499, comma 1). Ma se al testimone viene chiesto dalla parte, che lo interroga, di narrare spontaneamente ciò che sa sul fatto al quale ha assistito, la deposizione è utilizzabile. Una ipotesi particolare, nella quale è previsto un divieto che concerne le modalità di assunzione e la cui inosservanza, peraltro, è comunemente considerata causa di inutilizzabilità, è disciplinata dall'art. 188: «non possono essere utilizzati, neppure con il consenso della persona interessata, metodi o tecniche idonei a influire sulla libertà di autodeterminazione o ad alterare la capacità di ricordare e di valutare i fatti». Un diverso fenomeno si verifica, come abbiamo visto, con riguardo alla "nullità". L'atto nullo è formato violando norme che, di regola, concernono determinate modalità di assunzione previste a pena di nullità. Non è vietato che un determinato soggetto compia quel tipo di atto, ma che lo compia violando quelle modalità di assunzione (quomodo). Pertanto, l'atto nullo è stato formato nell'esercizio di un potere legittimo. Ad esempio, è nulla la ricognizione che sia effettuata senza osservare le modalità stabilite dall'art. 213, commi 1 e 2 (art. 213, comma 3). Occorre che, prima del compimento dell'atto, il giudice inviti il dichiarante a descrivere la persona da riconoscere indicando tutti i particolari che ricorda; a riferire se è già stato chiamato ad eseguire il riconoscimento; ad indicare se ha già visto una foto della persona da riconoscere. Ove tali modalità di assunzione non siano osservate, la ricognizione è colpita da nullità relativa. Il regime giuridico dell'inutilizzabilità. L'inutilizzabilità colpisce non l'atto in se stesso, bensi il suo valore probatorio. II giudice d'ufficio, o su richiesta di parte, dichiara che l'atto è inutilizzabile. L'art. 191, co 2, pone la regola secondo cui l'inutilizzabilità deve essere rilevata anche d'ufficio dal giudice in ogni stato e grado del procedimento, e cioè dalle indagini preliminari alle impugnazioni. L'inutilizzabilità non 66 può essere sanata (a differenza della nullità), e ciò perché l'atto è stato compiuto esercitando un potere vietato dalla legge processuale. Inoltre, per la stessa struttura logica del vizio, che consiste nella violazione di un divieto probatorio, non è possibile procedere alla rinnovazione dell'atto: di regola il divieto impedisce che una determinata prova entri nel processo. Principio di tassatività e divieti probatori. Si precisa che l'inutilizzabilità colpisce le prove acquisite violando «uno specifico divieto» ed aggiunge che deve trattarsi di «veri e propri divieti probatori». Soltanto se dalla norma processuale è ricavabile con certezza un vero e proprio divieto probatorio, è possibile applicare l'art. 191 c.p.p; ma per poter superare l'ostacolo del principio di tassatività, occorre che in base ad una determinata disposizione sia sottratto in modo assoluto al giudice il potere di ammettere, assumere o valutare quella prova. Quali esempi di "veri c propri" divieti probatori possiamo citare la incompatibilità a testimoniare (art. 197) e il divieto di esame sul sentito dire da persona vincolata al segreto professionale (art. 195, comma 6). I divieti probatori impliciti. In dottrina ci si è chiesti se siano configurabili divieti probatori impliciti. Alla conclusione positiva si perviene se si tiene presente che, in alcuni casi, la rigida applicazione del principio di tassatività nella individuazione dei divieti potrebbe creare pericolosi vuoti di tutela. Ben possono esistere ipotesi nelle quali il legislatore non ha sancito un divieto probatorio espresso o comunque ricavabile dal linguaggio legislativo e tuttavia appare necessario sanzionare determinate attività acquisitive con l'inutilizzabilità degli elementi che ne costituiscono il prodotto. Al tema dei divieti probatori impliciti si collega la questione relativa alla configurabilità della cd. prova incostituzionale. Con tale espressione dottrina e giurisprudenza sono solite indicare quegli elementi di prova che vengono acquisiti con modalità non disciplinate dal codice di rito e lesive dei diritti fondamentali dell'individuo costituzionalmente tutelati. Il quadro di riferimento si ricava dalla Costituzione, che tutela i diritti fondamentali. Da questo sfondo costituzionale, informato al principio di legalità, si ricava altresi, con sempre maggior nitore, il principio di proporzionalità: quando il legislatore regola un atto idoneo a comprimere diritti fondamentali, egli non è libero, giacché la disciplina deve soddisfare requisiti assai stringenti: occorre che la misura limitativa sia idonea a raggiungere lo scopo e risulti indispensabile per conseguire quel fine; inoltre, il sacrificio imposto al bene giuridico deve essere giustificato dalla gravità del reato. Il volto in negativo del quadro appena delineato è quello della prova incostituzionale: quando non esiste una norma di rango legislativo che soddisfi la predetta riserva, l'acquisizione non può che considerarsi vietata: dal silenzio del legislatore si ricava un limite probatorio. Qualora il confine sia oltrepassato si intravede il volo implacabile dell'inutilizzabilità. Il principio di non sostituibilità. A tutela della stabilità del sistema, a livello di teoria genctale, si sta profilando l'emersione sempre più netta ed autonoma del c.d. principio di non sostituibilità, in base al quale è vietato l'impiego di una prova, tipica o atipica, volto ad aggirare le garanzie stabilite dagli strumenti tipici predisposti dal legislatore. L'inutilizzabilità derivata. Si è posto il problema se sia configurabile la c.d. inutilizzabilità derivata, e cioè se la illegittimità di una prova si estenda ad un'altra prova il cui reperimento sia stato determinato dalla prima. In materia si è pronunciata la Corte costituzionale, alla quale era stato sottoposto un caso di perquisizioni illegittime disposte dalla polizia giudiziaria. La Corte costituzionale con la sentenza n. 219 del 2019 ha affermato che, quando il codice ha voluto tutelare al massimo grado un interesse fondamentale mediante l'inutilizzabilità derivata, lo ha scritto espressamente. Per quanto riguarda l'inutilizzabilità, nel codice non c'è una norma analoga alla disciplina della nullità derivata (art. 185). Quindi, dopo aver affermato che esiste una gamma differenziata di divieti, la Consulta ha richiamato il principio di tipicità: dove c'è un divieto, la legge lo dice in modo chiaro; dove il divieto si estende ai contenuti informativi, egualmente la legge lo precisa. Allo stesso modo, dove la legge viole che il vizio si propaghi agli atti successivi, lo afferma espressamente, come accade in materia di nullità. Una volta ricostruito il sistema in termini di tassatività, la Consulta ha escluso l'esistenza dell'inutilizzabilità derivata in quanto nessuna norma la prevede. 67 Capitolo 3 PRINCIPI GENERALI SULLA PROVA 1. Il ragionamento del giudice: la sentenza. Le problematiche che attengono alla prova penale si comprendono più agevolmente se si considera la finalità alla quale le prove sono destinate, che è quella di rendere possibile la decisione sull'addebito formulato contro l'imputato. Occorre, quindi, premettere alcuni cenni sui criteri che il giudice deve seguire nel pronunciare la sentenza. Il giudice, in primo luogo, accerta se l'imputato ha commesso il fatto che gli è stato addebitato nell'imputazione; in secondo luogo, interpreta la norma incriminatrice al fine di ricavarne il fatto tipico punibile; infine, valuta se il fatto storico, che ha accertato, rientra nel fatto tipico previsto dalla legge. Questa è, in sintesi, la "logica" che applica il giudice; essa si basa sul principio secondo cui i fatti (e cioè gli accadimenti naturalistici) possono essere valutati in base a norme (e cioè con giudizi di valore). Questa ricostruzione rispecchia al tempo stesso l'esigenza di frenare l'intuizionismo e gli aspetti irrazionali che si possono manifestare nel momento del decidere. Il giudice è obbligato a usare soltanto criteri di ragione. Lo strumento, che consente alle parti e alla collettività di verificare il rispetto di tale approccio, è costituito dalla motivazione nella quale il giudice deve dare conto dell'applicazione di tali criteri. I tre momenti fondamentali del ragionamento del giudice. a) L'accertamento del fatto storico. All'inizio del processo il fatto addebitato all'imputato non è certo: l'accusa ne afferma l'esistenza, la difesa in tutto o in parte la nega. Il giudice deve risolvere il conflitto usando lo strumento della ragione. Perché l'accertamento del fatto sia razionale deve avere le seguenti caratteristiche: 1) Deve essere basato su prove. La prova è quel ragionamento che da un fatto noto ricava l'esistenza del fatto storico da provare e le modalità con le quali si è verificato. 2) Deve essere oggettivo. Tale caratteristica è la conseguenza della prima, in quanto l'accertamento, per essere oggettivo, non deve fondarsi sull'intuizione del giudice né su una mera ipotesi, bensì su fatti realmente avvenuti e dimostrati ne processo. 3) Deve essere logico, cioè fondato sui principi che regolano la conoscenza e basato su prove tra loro non contraddittorie. Il giudice deve riportare nella motivazione della sentenza il percorso che egli ha seguito nella ricostruzione del fatto storico. L'accertamento, effettuato dal giudice, può dar luogo a due soluzioni alterative. Può consistere in un giudizio sull'esistenza di un fatto storico così come esso è stato descritto nell'imputazione, oppure, in una valutazione che esclude che il fatto storico si sia verificato nel modo ipotizzato dall'accusa. b) L'individuazione della norma penale incriminatrice. Si tratta di un accertamento di tipo "giuridico" e non di fatto. Il giudice interpreta la legge penale e ricava da essa il fatto tipico previsto dalla norma incriminatrice. Il ragionamento svolto dal giudice è di tipo "giuridico" per due motivi. In primo luogo, perché ha per oggetto le disposizioni di legge; in secondo luogo, perché usa il metodo dell'interpretazione per chiarire il significato esatto della legge e per ricostruire il fatto tipico previsto dalla norma incriminatrice, in modo da attribuire alle parole usate dal legislatore il significato più corretto in riferimento alla soluzione del caso concreto. c) Il giudizio di conformità. Dal punto di vista formale, la decisione pronunciata dal giudice si presenta come una "sentenza". Essa è composta da una motivazione e da un dispositivo (art. 546). Nella motivazione il giudice, in base alle prove che sono state acquisite nel corso del processo, ricostruisce il fatto storico commesso dall'imputato (motivi "in fatto"); quindi interpreta la legge e individua il "fatto tipico" previsto dalla norma penale incriminatrice (motivi "in diritto"); infine valuta se il fatto storico rientra nel fatto tipico (giudizio di conformità). Nel dispositivo il giudice trae le conseguenze dal giudizio di conformità: se il fatto storico commesso dall'imputato è conforme al fatto tipico previsto dalla norma incriminatrice, il giudice condanna (art. 533); se il fatto storico non è conforme al fatto tipico, il giudice assolve l'imputato con una delle formule previste dal codice (art. 530). Tutto questo si vuole significare, quando si dice con una espressione sintetica, ma efficace, che "il giudice applica il diritto al caso concreto". 70 2. Il ragionamento inferenziale: prova e indizio. a) I significati del termine "prova". Il termine "prova" può essere utilizzato, all'interno di varie locuzioni, per indicare differenti concetti; e cioè, può essere riferito alla fonte di prova, al mezzo di prova, all'elemento di prova o al risultato probatorio. Fonte di prova. Sono fonti di prova le persone, le cose ed i luoghi dai quali si può trarre un elemento di prova (es. art 65, comma 1). Mezzo di prova è lo strumento col quale si acquisisce al processo un elemento che serve per la decisione; ad esempio, mezzo di prova è la testimonianza mediante la quale si formano dichiarazioni. Elemento di prova è l'informazione (intesa come dato grezzo) che si ricava dalla fonte di prova, quando ancora non è stata valutata dal giudice (art. 65, comma 1). Questi valuta la credibilità della fonte e l'attendibilità dell'elemento ottenuto, ricavandone un risultato probatorio (art. 192, comma 1). Pertanto, il risultato probatorio è l'elemento di prova valutato dal giudice in base ai criteri della credibilità e della attendibilità. Mediante i risultati dei mezzi di prova assunti il giudice ricostruisce il fatto storico di reato (c.d. conclusione probatoria; es. art. 530). Un fatto si può ritenere accertato quando l'ipotesi formulata (es. l'imputazione) corrisponde alla ricostruzione del fatto effettuata mediante prove. b) Il ragionamento inferenziale. Il fatto storico di reato è avvenuto nel passato: si tratta, ovviamente, di un fatto non ripetibile. Da tali tracce (elementi di prova) il giudice ricava l'esistenza del fatto del passato. Gli strumenti, dei quali egli si serve, consistono nelle prove. Nel suo insieme la prova può essere definita come un ragionamento che da un fatto reso noto al giudice (es. dichiarazione del testimone) ricava l'esistenza di un fatto che è avvenuto in passato e delle cui modalità di svolgimento occorre convincere il giudice. Per questa sua caratteristica il ragionamento probatorio viene definito "inferenziale", poiché da un fatto di oggi ricava l'esistenza di un fatto passato. Nel processo penale il fatto da provare (gli studiosi lo indicano con l'espressione thema probandum) è precisato nell'art. 187, comma 1. È oggetto di prova, in primo luogo, il fatto descritto nell'imputazione, e cioè il fatto storico addebitato all'imputato. Sono fatti da provare anche quelli che permettono di quantificare la sanzione penale e quelli dai quali dipende l'applicazione di norme processuali (art. 187, comma 2). c) La prova rappresentativa. Si distingue tra prova rappresentativa ed indizio. Con il termine "prova rappresentativa" si fa riferimento a quel ragionamento che dal fatto noto ricava, per rappresentazione, l'esistenza del fatto da provare. Ad esempio, Tizio riferisce di aver visto Caio sparare. Il fatto noto è la dichiarazione di Tizio, che narra quanto ha visto. Il fatto storico è ricavabile in via diretta dalla dichiarazione perché è rappresentato dalle parole pronunciate dal testimone; naturalmente, il giudice deve valutare l'affidabilità della fonte e l'attendibilità della rappresentazione prima di decidere se e quale "risultato probatorio" se ne possa ricavare. Detta valutazione è operata di regola attraverso lo strumento dell'esame incrociato che si svolge mediante domande e contestazioni. Da un lato, si tratta di accertare quanto il dichiarante è sincero; quanto è stato attento allo svolgimento del fatto; quanto è in grado di comprendere il significato degli elementi che riferisce; se ha precedenti penali. Tutto ciò è ricompreso nel giudizio di credibilità della fonte. Da un altro lato, si tratta di valutare quanto la rappresentazione effettuata dalla fonte è idonea a descrivere il fatto avvenuto. Frutto delle due operazioni è il "risultato probatorio". Il giudice, accertato il grado di credibilità della fonte ed il grado di attendibilità della rappresentazione, valuta quanto della rappresentazione fornita è accettabile razionalmente; di ciò deve dare atto nella motivazione ai sensi dell'art. 192, comma 1, precisando i «risultati acquisiti e criteri adottati». La decisione. Al termine del processo, valutati tutti i risultati derivanti dagli elementi di prova acquisiti, il giudice nella motivazione ricostruisce il fatto storico, indicando in base a quali criteri ritiene attendibili le prove poste a supporto della decisione e per quali ragioni ritiene «non attendibili le prove contrarie» (art. 546, comma 1, lett. e). 71 d) La prova indiziaria. Con il termine "indizio" (definito anche prova critica) si fa riferimento a quel ragionamento che da un fatto provato (cd. circostanza indiziante) ricava l'esistenza di un ulteriore fatto da provare (ad esempio, il fatto commesso dall'imputato). Il collegamento tra la circostanza indiziante ed il fatto da provare è costituito da un'inferenza basata su di una massima di esperienza o su di una legge scientifica. Il fatto storico può essere accertato anche sulla base di circostanze indizianti ulteriori che, pur non essendo legate al fatto stesso da una relazione causa-effetto, confermano la possibilità di attribuirlo all'imputato. Esse devono essere tali da permettere, collegandosi fra di loro, di escludere una differente e ragionevole ricostruzione del fatto. e) La massima di esperienza. La massima di esperienza è una regola di comportamento che esprime quello che avviene nella maggior parte dei casi (id quod plerumque accidit); più precisamente, essa è una regola che è ricavabile da casi simili al fatto noto che, come si è detto, si denomina circostanza indiziante. L'esperienza può permettere di formulare un giudizio di relazione tra fatti; vi è una relazione quando si ricava che una categoria di fatti di solito si accompagna ad un'altra determinata categoria di fatti. Si ragiona in base al principio: "in casi simili, vi è un identico comportamento". Questo ragionamento permette di accertare l'esistenza di un fatto storico ovviamente non con certezza, ma con una probabilità più o meno ampia. La massima di esperienza è una "regola", e cioè non appartiene al mondo dei fatti; da luogo ad un giudizio di probabilità e non di certezza. Tuttavia, non esiste altra possibilità di accertamento, quando non sia disponibile una valida prova rappresentativa. Merita sottolineare che la prova rappresentativa e l'indizio differiscono non per l'oggetto da provare, bensì per la struttura del procedimento logico. Nella prova rappresentativa il fatto è provato mediante la rappresentazione che di esso fa la fonte, sia essa una persona che narra, sia una foto o un filmato; nella prova indiziaria il fatto è indotto da un altro fatto mediante l'applicazione di una regola scientifica o di esperienza. L'oggetto da provare può essere sia il fatto principale (fatto di reato), sia un fatto secondario (un'altra circostanza indiziante). Quest'ultima, infatti; può essere provata sia mediante una prova rappresentativa, sia con una prova critica (ad esempio, la presenza dell'imputato nei pressi del luogo del reato può essere provata sia mediante un testimone, sia attraverso una impronta digitale o genetica). Parimenti, la responsabilità dell'imputato può essere provata sia mediante un testimone che ha visto svolgersi il fatto di reato, sia con indizi. Occorre che il giurista abbia ben chiari gli aspetti di opinabilità del ragionamento indiziario. Il primo aspetto sta nello stabilire, tra più fatti storici umani non ripetibili, quali sono gli elementi "simili" e se tali elementi prevalgono, o meno, sugli elementi "dissimili". Il secondo aspetto di opinabilità sta nel fatto che, se pure si può notare che il comportamento umano è condizionato in buona parte dagli istinti e dalle passioni, tuttavia non è detto che, in concreto, l'agire di una singola persona rispecchi sempre le regole formulate. Le massime di esperienza ci indicano soltanto che vi è la probabilità che una persona, in una situazione simile, possa essersi comportata in modo identico. Il meccanismo con cui è costruita la prova indiziaria può essere descritto nel modo seguente. Il giudice applica un ragionamento di tipo induttivo quando esamina casi simili alla circostanza indiziante e formula una regola di esperienza; e cioè, da casi particolari ricava l'esistenza di una regola generale. Successivamente, egli svolge un ragionamento deduttivo, e cioè applica alla circostanza indiziante la regola generale che ha ricavato in precedenza. Dunque, il punto veramente cruciale del ragionamento indiziario è la formulazione della massima di esperienza. 72 a. La ricerca della prova. La ricerca delle fonti di prova spetta esclusivamente alle parti: in primo luogo al pubblico ministero (art. 326 c.p.p.), sul quale incombe l'onere della prova, e cioè l'onere di convincere il giudice della reità dell'imputato. Successivamente, al fine di confutare le tesi dell'accusa, spetta all'imputato l'onere di ricercare sia quelle prove che possano convincere il giudice della non credibilità della fonte o della inattendibilità degli elementi a carico, sia quelle tendenti a dimostrare che i fatti si sono svolti diversamente (art. 327-bis c.p.p.). Per poter funzionare, il nostro sistema (prevalentemente accusatorio) deve permettere alle parti di ricercare le prove. Nessuno meglio della parte è in grado di comprendere quali siano gli elementi idonei a convincere il giudice. Il diritto di indagare è concesso alle parti in tutto il corso del procedimento e costituisce un aspetto fondamentale per la realizzazione del contraddittorio. b. L'ammissione della prova. L'ammissione del mezzo di prova deve essere chiesta al giudice dalle parti (art. 190 c.p.p.); esse hanno l'onere di introdurre il singolo mezzo di prova e lo adempiono chiedendo l'esame di un testimone o l'acquisizione di un documento. Il giudice ammette la prova in base a quattro criteri (art. 190, comma 1 c.p.p.). La prova deve essere pertinente, e cioè essa deve dimostrare l'esistenza del fatto storico enunciato nell'imputazione o di uno dei fatti indicati nell'art 187 c.p.p. (ad es, la credibilità di un testimone). La prova non deve essere vietata dalla legge (come esempio, si può citare il divieto di perizia criminologica previsto dall'art. 220, comma 2, c.p.p.). Inoltre, la prova non deve essere superflua, e cioè sovrabbondante; essa non deve tendere ad acquisite il medesimo risultato conoscitivo che si aspetta da una pluralità di mezzi di prova: la sua assunzione sarebbe destinata a rivelarsi inutilmente defatigante. Infine, la prova deve essere rilevante, e cioè utile per l'accertamento: il suo probabile risultato deve essere idoneo a dimostrare l'esistenza del fatto da provare. Non occorre che la "rilevanza" o la "non superfluità" siano certe, è sufficiente il dubbio, e cioè la non manifesta irrilevanza o superfluità. Alle parti è sufficiente dimostrare la probabile rilevanza; nel dubbio, la richiesta deve essere accolta. Ciò significa che il quantum di prova imposto alla parte richiedente è particolarmente basso. Il provvedimento di ammissione. Il giudice è vincolato anche in un aspetto di carattere "procedimentale": deve provvedere sulla richiesta di ammissione «senza ritardo con ordinanza» (art. 190, comma 1, c.p.p.). Ciò significa che egli deve motivare l'eventuale rigetto della richiesta e soprattutto deve provvedere subito, senza poter riservarsi di decidere successivamente sull'ammissione. Le parti hanno il diritto di affrontare l'istruzione dibattimentale avendo ben chiaro il quadro probatorio di cui possono disporre. Il codice prevede espressamente il "diritto alla prova contraria". Ove siano stati ammessi i mezzi di prova richiesti dall'accusa, l'imputato ha diritto all'ammissione delle «prove indicate a discarico sui fatti costituenti oggetto delle prove a carico». Il medesimo diritto spetta al pubblico ministero «in ordine alle prove a carico dell'imputato sui fatti costituenti oggetto delle prove a discarico». In base a tali disposizioni, la parte avversa ha diritto all'ammissione della prova che ha per oggetto il medesimo fatto ed è finalizzata a dimostrare che non è avvenuto o che si è verificato con una differente modalità. La dimostrazione contraria può essere data anche con un mezzo di prova differente; ad esempio, la dichiarazione di un teste potrebbe essere smentita da un altro dichiarante, ma anche da un documento, quale potrebbe essere una foto. È importante precisare che il concetto stesso di prova contraria rende inutile un vaglio sulla pertinenza. In base all'art. 495, comma 2, infatti, la prova "contraria" ha per oggetto gli stessi fatti che costituiscono oggetto della prova "principale". Pertanto, è consentito al giudice «unicamente non ammettere le prove vietate dalla legge e quelle che manifestamente sono superflue o irrilevanti». Limiti al diritto alla ammissione della prova. Il diritto ad ottenere l'ammissione della prova di tipo dichiarativo è stato limitato in alcune ipotesi allo scopo di impedire la c.d. usura delle fonti di prova, e cioè di evitare che il dichiarante debba presentarsi a più udienze in vari processi e vada incontro inutilmente a rischi di intimidazione o di sicurezza per la sua persona. 75 I poteri di iniziativa probatoria del giudice. Nella fase dell'ammissione della prova il giudice, di regola, ha soltanto il potere: di decidere se ammettere o meno il mezzo di prova chiesto da una delle parti. Egli di regola non può introdurre un mezzo di prova senza una richiesta di parte, e cioè d'ufficio (art. 190, comma 1, c.p.p.). Ai sensi dell'art. 190, comma 2, è la legge a stabilire i casi eccezionali in cui le prove sono ammesse d'ufficio. Ad esempio, in dibattimento il giudice può ammettere una prova quando questa sia assolutamente necessaria (art. 507). Il giudice ha un potere di supplenza dell'inerzia delle parti. Pertanto, il potere di iniziativa probatoria, esercitabile dal giudice d'ufficio, serve ad evitare che siano violate l'indisponibilità di un interesse pubblico, da un lato, e di un diritto inviolabile, dall'altro. c. L'assunzione della prova. L'assunzione della prova, avviene, se si tratta di dichiarazioni rese in dibattimento, con il metodo dell'esame incrociato. Rientra nel "diritto alla prova" la partecipazione delle parti alla assunzione del mezzo di prova attraverso la formulazione diretta delle domande al dichiarante. Il codice prevede quali domande sono inammissibili; spetta al giudice il potere di vietarle. Il nuovo comma 3 dell'art. 111 Cost. riconosce soltanto all'imputato il diritto di «interrogare o di far interrogare» davanti al giudice «le persone che rendono dichiarazioni a suo carico». L'esame incrociato. L'esame incrociato è comunemente ritenuto il miglior strumento che permette di valutare se il dichiarante risponde secondo verità. Se correttamente usato, esso consente di smascherare la persona che dice il falso in modo intenzionale o anche soltanto inconsciamente, a causa di difetti nella percezione o nella memoria. In particolare, nel controesame la parte può porre domande-suggerimento per saggiare l'attendibilità della dichiarazione. Si ritiene credibile quel dichiarante che sa resistere alle "provocazioni" che gli sono poste attraverso le domande e le contestazioni. Il codice attribuisce al presidente il potere di porre domande soltanto dopo che le parti hanno concluso l'esame incrociato (art. 506, comma 2); successivamente alle domande poste dal giudice, le parti possono riprendere l'esame. Ciò dimostra che il sistema normativo attribuisce al giudice una funzione di mero chiarimento di punti trattati dalle parti in modo non completo. La tutela della libertà morale del dichiarante. Un generale divieto probatorio, che concerne le modalità di assunzione della prova dichiarativa, è previsto dall'art. 188 c.p.p.: ««non possono essere utilizzati, neppure con il consenso della persona interessata, metodi o tecniche idonei a influire sulla libertà di autodeterminazione o ad alterare la capacità di ricordare o di valutare i fatti». La "acquisizione" della prova. Per completare la tematica, ricordiamo che il termine acquisizione, riferito alla prova, è utilizzato dal codice in almeno due significati. In senso stretto, il termine acquisizione indica l'ammissione della prova "precostituita", e cioè formata fuori del procedimento o propria del dibattimento; in senso lato, è utilizzato per ricomprendere anche l'ammissione e l'assunzione della prova "non precostituita" quale è la dichiarazione. d. La valutazione della prova. Un'altra occasione in cui si esprime il diritto alla prova è il momento della valutazione della stessa. È possibile affermare che le parti hanno il diritto di offrire al giudice la propria valutazione degli elementi di prova. Si tratta del potere di "argomentare" sulla base dei risultati che sono stati acquisiti. In dibattimento ciò avviene al momento della discussione finale in cui le parti illustrano le proprie conclusioni. Al diritto delle parti corrisponde il dovere del giudice di dare una valutazione logica dell'elemento di prova raccolto: in base all'art. 192, comma 1, egli “valuta la prova dando conto nella motivazione dei risultati acquisiti e dei criteri adottati”, e cioè delle regole di esperienza e delle leggi scientifiche che ha utilizzato. L'obbligo di motivazione ha una fonte costituzionale nell'art. 111, comma 6 della Carta fondamentale. Ciò comporta che il giudice, nella motivazione, non può trascurare di esaminare i risultati di una prova che appaia pertinente e rilevante. In particolare, per rendere effettivo il diritto delle parti alla valutazione della prova, il codice di procedura penale prescrive che nella sentenza il giudice debba indicare «i risultati acquisiti e i criteri di valutazione della prova adottati e con l'enunciazione delle ragioni per le quali il giudice ritiene non attendibili le prove contrarie» (art. 546, comma 1, lett. e cpp). L a versione attuale della norma (che è il frutto della c.d. riforma Orlando, L n. 103 del 2017) introduce una "struttura dialogica rinforzata" ed impone al giudice di spiegare le ragioni per le quali ha ritenuto di escludere una determinata ricostruzione del fatto. 76 Il libero convincimento. Con la predetta espressione si vuole significare che il giudice è "libero" di convincersi e, al tempo stesso, è "obbligato" a motivare razionalmente in relazione alla attendibilità degli elementi di prova ed alla credibilità delle fonti, nonché in merito alla idoneità di una massima di esperienza o di una legge scientifica a sostenere l'inferenza sulla quale si basano le ricostruzioni dell'accusa o della difesa. Il principio in esame attribuisce al giudice un potere con precisi limiti. Il libero convincimento deve consistere in una valutazione razionale delle prove con una ricostruzione del fatto conforme ai canoni della logica e aderente alle risultanze processuali; il tutto deve trovare riscontro nella motivazione della sentenza (art. 546, comma 1, lett. e c.p.p.), sottoponibile al controllo dell'appello e del ricorso per cassazione. Dal principio affermato si possono trarre i seguenti corollari. Se si tratta di una sentenza di condanna, il giudice deve motivare perché le prove d'accusa sono risultate idonee ad eliminare ogni ragionevole dubbio sulla reità dell'imputato e sulla eventuale ricostruzione alternativa prospettata dalla difesa (art. 533, comma 1, c.p.p.). Se si tratta di una sentenza di assoluzione, il giudice deve fornire una spiegazione razionale sul perché la ricostruzione dell'accusa è infondata o comunque lascia residuare un dubbio ragionevole. La non configurabilità della prova legale. Nel processo penale non ha ingresso l'istituto della prova legale. In presenza di una prova legale la legge si sostituisce al libero convincimento del giudice nella valutazione di un determinato elemento di prova. Un esempio di prova legale nel processo civile è la confessione, e cioè «la dichiarazione che una parte fa della verità di fatti ad essa sfavorevoli e favorevoli all'altra parte» (art. 2730, comma 1 cc.). Il vincolo per il giudice si ricava dall'art. 2733, comma 2 c.c, secondo cui la confessione «forma piena prova contro colui che l'ha fatta»: pertanto, quella dichiarazione vincola il giudice a credere comunque a colui che ha confessato anche se sono presenti prove in senso contrario. Viceversa, nel processo penale la confessione è sempre liberamente valutabile dal giudice, che può ritenerla non attendibile perché contrastante con le altre prove assunte nel processo, o non credibile. e. La formulazione della migliore ipotesi ed il tentativo di smentita. Verificatosi un fatto di reato, l'investigatore ha la necessità di formulare un'ipotesi ricostruttiva su come si è svolta la vicenda. Assumendo che quel fatto consiste in una pluralità di accadimenti, ciascuno dei quali può avere le cause più varie, si tenta di identificare le possibili cause di ciascun accadimento, delimitando l'ambito delle ipotesi ricostruttive proponibili. In questa fase, le leggi scientifiche e le massime di esperienza vengono utilizzate "a ritroso" (dall'effetto B alla causa A, anziché dalla causa A all'effetto B). Lo scopo è quello di formulare le ipotesi sulla possibile causa del singolo fenomeno. Vi è, però, una difficoltà. Le leggi scientifiche (e lo stesso vale per le massime di esperienza) consentono di affermate che, dato l'evento A, seguirà come conseguenza l'evento B; raramente consentono di affermare che, in presenza di un evento B, l'unica causa di esso è l'evento A. Anche quando la legge è altamente predittiva, nel senso che ricollega l'effetto B come conseguenza molto probabile della causa A, resta la possibilità che l'evento B possa avere anche altre cause differenti da A. Il problema sta proprio nel fatto che, nel processo penale, di regola la legge scientifica (o la massima di esperienza) viene fatta funzionare "a ritroso". Per questa ragione, colui che deve ricostruire la causa di un evento utilizza inizialmente il suo bagaglio di conoscenze per formulare tutte le ipotesi sulle possibili cause. Il tentativo di smentita. Formulata un'ipotesi che ricostruisce lo svolgimento dei fatti, l'investigatore va a verificare se questa trova effettivamente conferma nella realtà. Ad esempio, se la causa era l'evento A, allora sappiamo che in base ad altre regole scientifiche o di esperienza dovrebbe essersi verificato anche l'evento C, di solito collegato alla causa A. Quindi, si va a cercare se l'evento C si è verificato in concreto; si tratta di un fatto che nell'immediatezza potrebbe anche non essere stato considerato significativo. La rilevanza di C, infatti, potrebbe emergere soltanto nell'ipotesi selezionata. Se non si è verificato quell'evento che dovrebbe esserci, allora si può mettere in dubbio che la legge scientifica o la regola di esperienza sia applicabile al caso concreto. 77 d) L'onere di convincere il giudice. Il fatto che una prova sia stata acquisita non comporta automaticamente l'aver soddisfatto l'onere della prova in senso sostanziale. Il giudice può accogliere la domanda del pubblico ministero di ammettere la testimonianza di Caio a carico dell'imputato, ma se Caio, sottoposto ad esame incrociato, appare non attendibile o non credibile, il giudice non sarà convinto dell'esistenza del fatto narrato. Può anche accadere che Caio affermi che il fatto si è svolto con modalità diverse da quelle asserite dalla parte che ha chiesto l'ammissione della testimonianza. Una parte soddisfa l'onere sostanziale della prova soltanto dopo che ha convinto il giudice dell'esistenza del fatto storico da essa affermato. Un fatto non provato equivale giuridicamente ad un fatto inesistente. A sua volta, la mancata osservanza dell'onere di introdurre un determinato mezzo di prova (onere formale) non comporta inevitabilmente il rigetto della domanda. Infatti, la prova potrebbe essere acquisita a richiesta di un'altra parte; ad es. dalla parte civile o da uno degli imputati. Una volta acquisito l'elemento di prova, il giudice deve valutare se esso è idoneo a dimostrare l'esistenza di un fatto oggetto di prova; e ciò a prescindere dalla circostanza che il relativo mezzo sia stato introdotto dalla parte che aveva l'onere sostanziale della prova di quel determinato fatto. Si tratta del c.d. principio di acquisizione della prova. Non incide sull'onere sostanziale di convincere il giudice dell'esistenza del fatto affermato da una parte. La giurisprudenza delle Sezioni unite afferma che «l’esercizio dei poteri in deroga al principio dispositivo non fa venir meno l'onere del pubblico ministero di provare il fondamento dell'accusa e, tanto meno, l'obbligo per il giudice di rispettare i divieti probatori esistenti». Attengono al tema dell'onere della prova i concetti di fatto notorio e di fatto pacifico. Il fatto notorio è un fatto di pubblica conoscenza in un determinato ambito territoriale. Si tratta, ad esempio, di un terremoto, della svalutazione della moneta, di uno sciopero generale. Occorre naturalmente che il fatto sia indubitabile ed incontestabile. Il fatto pacifico è un fatto di conoscenza non pubblica; esso è affermato da una parte ed è ammesso esplicitamente o implicitamente dalla controparte. Ad esempio, la difesa non contesta che un testimone abbia detto una determinata frase. Il fatto pacifico non ha bisogno di essere provato: il giudice può direttamente utilizzarlo come "elemento di prova" per la sua decisione. Tuttavia, il giudice resta libero di valutare se il testimone è credibile e se quanto ha affermato è attendibile. L'onere della prova in senso sostanziale è il dovere di convincere il giudice della esistenza del fatto affermato dalla parte. L'onere è adempiuto quando il giudice ritiene esistente il fatto medesimo. Pertanto, l'onere sostanziale individua la parte sulla quale ricade lo svantaggio di non aver convinto il giudice dell'esistenza del fatto affermato. L'onere della prova in senso formale impone alle parti il dovere di chiedere al giudice l'ammissione del mezzo di prova (art. 190 c-p.p.). L'onere è soddisfatto quando il giudice ha ammesso il mezzo di prova. Pertanto, l'onere formale individua la parte sulla quale ricade lo svantaggio della mancata ammissione del mezzo di prova. 5. Il quantum della prova (c.d. standard probatorio). La quantità di prova, che è necessaria a convincere il giudice, è diversa nel processo civile ed in quello penale. Nel primo il quantum di prova è identico per l'attore e per il convenuto. Nel processo penale colui che accusa ha l'onere di provare la reità dell'imputato in modo da eliminare ogni ragionevole dubbio. Tale standard probatorio è rimasto a lungo privo di espressa previsione nel codice di procedura penale. Fino al 2006 l'art. 530, comma 2, si limitava a stabilire che il giudice doveva pronunciare sentenza di assoluzione quando era «insufficiente» o «contraddittoria» la prova che il fatto sussiste, che l'imputato lo ha commesso, che il fatto costituisce reato o che il reato è stato commesso da persona imputabile. Tuttavia, nessuna norma espressa prevedeva il parametro in base al quale valutare l'insufficienza o la contraddittorietà della prova d'accusa. La giurisprudenza, dal canto suo, aveva accolto il canone in base al quale nel processo penale la reità doveva essere provata oltre ogni ragionevole dubbio. 80 Al di là di ogni ragionevole dubbio. Con la legge n. 46 del 2006 il Parlamento ha modificato l'art. 533 comma 1 relativo alla sentenza di condanna e ha stabilito che il giudice pronuncia tale sentenza quando l'imputato «risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio». La prova d'accusa, che lascia residuare un ragionevole dubbio, è equiparata alla mancata prova. È stato affermato che l'aggettivo "ragionevole" significa "comprensibile da una persona razionale" e dunque oggettivabile attraverso una motivazione che faccia riferimento ad argomentazioni logiche nel rispetto del principio di non contraddizione. Non potrà trattarsi, pertanto, di un dubbio meramente psicologico, possibile o congetturale, percepito soggettivamente dal giudice. Si è affermato che nel processo penale il criterio del ragionevole dubbio costituisce sia una regola probatoria, sia una regola di giudizio. Sotto il primo profilo, il ragionevole dubbio nella sua veste di regola probatoria disciplina nel quantum l'onere della prova che è a carico del pubblico ministero (art. 533, comma 1). Sotto il secondo profilo, il ragionevole dubbio prescrive la regola di giudizio che il giudice deve applicare: egli deve ritenere come non provata la reità e, conseguentemente, assolvere l'imputato (art. 530 comma 2). L'onere della prova delle cause di non punibilità. La particolarità del processo penale sta nel fatto che il dubbio va a favore dell'imputato anche quando questi ha l'onere della prova, e cioè quando egli deve convincere il giudice dell'esistenza di un fatto a lui favorevole. Ai sensi dell'art. 530, comma 3, «se vi è la prova che il fatto è stato commesso in presenza di una causa di giustificazione o di una causa personale di non punibilità ovvero vi è dubbio sull'esistenza delle stesse, il giudice pronuncia sentenza di assoluzione». Ciò vuol dire che il dubbio sull'esistenza di un fatto impeditivo o estintivo (se vogliamo utilizzare una qualificazione civilistica) va a favore dell'imputato. Il legislatore non ha inserito nella norma in oggetto l'aggettivo "ragionevole". Tuttavia, l'art. 330, comma 3, deve interpretarsi congiuntamente all'art. 533 comma 1. Pertanto, l'imputato avrà soddisfatto l'onere della prova e sarà prosciolto se avrà fatto sorgere nel giudice un dubbio ragionevole sull'esistenza della scriminante. Ciò è razionalmente giustificabile perché nel processo penale non vi è una sostanziale equivalenza tra le posizioni soggettive contrapposte: è soltanto l'imputato che può ricevere dalla decisione un pregiudizio nel suo diritto più importante, quello della libertà personale. La prova dei fatti favorevoli. Occorre tenere conto che l'imputato, se pure ha l'onere di provare i fatti a sé favorevoli, tuttavia, non ha quei poteri coercitivi di ricerca delle fonti di prova che nel nostro sistema spettano soltanto al pubblico ministero ed alla polizia giudiziaria. Pertanto, allo scopo di far sorgere un ragionevole dubbio, egli potrebbe limitarsi ad asserire l'esistenza di un fatto estintivo (ad es., una causa di giustificazione o un alibi); spetterà poi all'autorità inquirente condurre le indagini per evitare che nel giudice si formi un convincimento favorevole all'imputato. Tuttavia, quest'ultimo ha l'onere di indicare con sufficiente precisione i fatti e di introdurre almeno un principio di prova. Soltanto la pubblica accusa ha i poteri coercitivi per identificare i testimoni; ove non lo faccia, rischia di lasciar sopravvivere un dubbio ragionevole che andrà a favore dell'imputato. Viceversa, può accadere che l'imputato si limiti ad indicare in modo impreciso fatti che soltanto lui poteva conoscere, impedendo all'accusa di condurre indagini per accertarli, in tal caso egli non adempie all'onere della prova perché non fa sorgere un dubbio ragionevole. 81 8. Oralità, immediatezza e contraddittorio. Il principio di oralità. In prima approssimazione al termine "oralità" si può attribuire il significato di comminazione del pensiero mediante la pronuncia di parole destinate ad essere udite. Contrapposta all'oralità è la scrittura, intera quale forma di comunicazione del pensiero mediante segni visibili, alfabetici o ideografici. Il principio di immediatezza. Il principio di immediatezza è attuato quando vi è un rapporto privo di intermediazioni tra l'assunzione della prova e la decisione. Da un lato, si vuole che il giudice prenda direttamente contatto con la fonte di prova (artt. 526 e 514); da un altro lato, si tende ad assicurare che vi sia identità fisica tra il giudice che assiste all'assunzione della prova e colui che prende la decisione di condanna o assoluzione (art. 525, comma 2). Tutto ciò al fine di permettere una valutazione "di prima mano" sulla credibilità del testimone e sull'attendibilità delle sue dichiarazioni. Il principio del contraddittorio. Il principio del contraddittorio in senso forte comporta la partecipazione delle parti alla formazione della prova. Nella prova dichiarativa ciò avviene quando le parti pongono le domande e formulano le contestazioni. Così, gli elementi di prova si formano in modo dialettico: si ha il contraddittorio "per la prova". Il giudice è in grado di valutare la credibilità del dichiarante e l'attendibilità del suo racconto. Il contraddittorio di per sé non garantisce la genuinità della prova, ma è il metodo meno imperfetto che sia stato inventato per verificarla. Occorre ricordare il nuovo comma 4 dell'art. 111 Cost. in base al quale «il processo penale è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova». Si tratta, all'evidenza, dell'espresso riconoscimento costituzionale del metodo dialettico inteso come la migliore forma di conoscenza. Da tale principio si ricava che, di regola, il giudice in dibattimento deve decidere soltanto in base alle prove raccolte nel contraddittorio. Le eccezioni al contraddittorio. Non è sempre nella realtà è possibile attuare in modo assoluto i principi menzionati. Si pone allora la necessità di prevedere alcune eccezioni. Il problema sta nell'introdurre quelle eccezioni che siano ragionevoli e, cioè, permettano di avvicinarsi il più possibile ad una ricostruzione corretta dei fatti. Ad esempio, se il testimone di un reato è stato minacciato prima del dibattimento, diventa determinante conoscere quale versione dei fatti aveva esposto nel corso delle indagini. Lo stesso vale quando il testimone è deceduto prima del dibattimento. Il nuovo comma 5 dell'art. 111 Cost ha precisato le situazioni eccezionali nelle quali è possibile derogare al principio del contraddittorio. La norma è così formulata: «la legge regola i casi in cui la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio per consenso dell'imputato o per accertata impossibilità di natura oggettiva o per effetto di provata condotta illecita». 9. Questioni pregiudiziali e limiti probatori. Il giudice, quando accerta se vi è corrispondenza tra un fatto storico e una norma di legge, a volte deve risolvere questioni civili o amministrative che rappresentano l'antecedente logico-giuridico della decisione penale. La questione costituisce un antecedente (ed è chiamata "pregiudiziale") quando dalla sua soluzione dipende o meno l'esistenza di un elemento costitutivo della fattispecie incriminatrice che deve essere applicata. Il codice attribuisce al giudice penale il potere di risolvere «ogni questione da cui dipende la decisione» sia sull'esistenza del reato, sia sull'applicazione di una norma processuale. Occorre però tracciare una distinzione fondamentale. - Quando la questione pregiudiziale ha per oggetto una controversia sullo «stato di famiglia e di cittadinanza», il giudice penale è vincolato ai limiti di prova stabiliti dalle leggi civili. - Quando la questione pregiudiziale ha un qualsiasi altro oggetto, il giudice penale non è vincolato ai limiti di prova posti dalla relativa materia, bensì applica soltanto le regole probatorie del processo penale. Ciò è giustificato dal fatto che il processo penale tende ad ottenere risultati il più possibile aderenti alla verità e non è vincolato ad esigenze di certezza dei rapporti giuridici sottostanti. Pertanto, non può sopportare quei limiti ai poteri di valutazione della prova che nel processo civile sono dovuti a tali esigenze o alla necessità di superare le difficoltà dovute all'onere della prova di determinati fatti. 82 Le percentuali di validità delle leggi scientifiche. Tra il 1990 e il 2002 in giurisprudenza si è registrato il formarsi di due orientamenti contrapposti. Il contrasto concerneva l'individuazione di quella percentuale di validità statistica della legge che è necessaria e sufficiente per affermare l'esistenza del nesso causale. Un primo orientamento aveva affermato che il nesso causale esisterà soltanto se la legge scientifica, che esprimerà il rapporto tra condotta ed evento, aveva un coefficiente percentuale vicino al 100%, e cioè pari alla certezza. Un secondo orientamento aveva affermato che il rapporto di causalità poteva essere ritenuto esistente se vi etano serie ed apprezzabili probabilità che l'evento fosse conseguenza dell'azione. Il punto di riferimento era diventato il processo civile, nel quale lo standard probatorio è il c.d. "più probabile che no": basta che la pretesa dell'attore sia appena più provata di quella del convenuto, e quest'ultimo è condannato a pagare. Era ovvio che saltavano tutte le garanzie (es: la responsabilità penale personale ai sensi dell'art. 27, comma 1 Cost.) in nome di un'esigenza punitiva che, seppur condivisibile, finiva per creare una ferita a quelli che sono i principi cardine del diritto penale sostanziale. Il contrasto che si era creato in giurisprudenza ha determinato il rinvio della questione alle Sezioni unite della Cassazione. La rivoluzione operata dalla sentenza Franzese. Su questa spaccatura si sono pronunciate le Sezioni unite Franzese. Il Supremo collegio ha operato quella che è stata definita come una sorta di rivoluzione copernicana. La sentenza è partita dal rilievo che nel processo penale è possibile condannare soltanto se l'esistenza del fatto e la responsabilità dell'autore risultano provate oltre ogni ragionevole dubbio. Poiché il rapporto di causalità è un elemento oggettivo del reato, occorre che sia eliminato ogni dubbio ragionevole anche in relazione alla sussistenza di tale nesso. Ciò significa che in merito all'esistenza del rapporto di causalità nel processo penale è sempre necessario un giudizio di alta probabilità logica. Tale giudizio, tuttavia, non va confuso con la percentuale di validità statistica della legge, considerata in astratto. La percentuale di validità statistica si esprime attraverso quantità; la probabilità logica è un concetto qualitativo. il giudice deve ritenere provato oltre ogni ragionevole dubbio che nel singolo caso concreto sottoposto alla sua attenzione esiste un rapporto di causalità tra condotta ed evento. Il modello causale bifasico. La natura qualitativa della probabilità logica si apprezza ove si ponga mente al metodo accertativo che le Sezioni unite con la sentenza Franzese hanno prospettato come indispensabile per raggiungere tale standard. La Suprema corte ha prospettato quello che, in sintesi, è stato definito come un "modello bifasico di accertamento della causalità". Nella prima fase (ex ante) si ricerca in astratto la legge "scientifica" applicabile al caso. Occorre valutare tutte le possibili leggi applicabili ed i decorsi causali ipotizzabili. È necessario operare un tentativo di smentita (c.d. falsificazione) sulla validità in generale della legge. La scienza, però, è limitata e in continua evoluzione. Pertanto, il processo penale deve essere il luogo del contraddittorio e della dialettica anche sulla sentenza da applicare nell'accertamento del nesso di causalità. Identificata la legge che spiega il fenomeno, il giudice non deve accertare l'esistenza del rapporto di causalità in base alla percentuale di validità statistica della legge, considerata in astratto. Sarebbe un giudizio di probabilità statistica. La sentenza Franzese ha messo in evidenza una seconda fase (ex post) nella quale si controlla se il fenomeno verificatosi in concreto può essere spiegato alla luce di quella legge. Occorre poter escludere qualsiasi fattore causale diverso o alternativo rispetto a quello ipotizzato. È necessario operare un tentativo di smentita sulla validità della legge in concreto, e cioè occorre escludere mediante prove che abbiano operato fattori causali alternativi, quanto meno quelli che la difesa ha prospettato. È un procedimento per esclusione mediante prove. 85 Il giudizio di alta probabilità logica. Il giudice deve ritenere provato oltre ogni ragionevole dubbio che nel singolo caso concreto, sottoposto alla sua attenzione, esiste un rapporto di causalità tra condotta ed evento. Ciò comporta che il giudice utilizzi un concetto di probabilità che non è più quella statistica (dipendente quindi dalla percentuale della legge) bensì logica, formulata in relazione alle caratteristiche del caso concreto. La rivoluzione, operata dalla sentenza Franzese, è data dal fatto che il giudice può ritenere non esistente il nesso causale anche se la legge scientifica applicabile esprime una probabilità statistica (quantitativa) vicina alla certezza. Per contro, ma corrispondentemente, il giudice può ritenere che il rapporto di causalità sia fondato su di una forte probabilità logica anche qualora venga in gioco una legge scientifica a bassa predittività, purché in tali casi, sempre alla luce di tutte le risultanze probatorie acquisite, appaia provato oltre ogni ragionevole dubbio che esiste un rapporto causale. Il giudice deve escludere con certezza che l'evento sia stato cagionato da altri fattori (c.d. procedimento per esclusione). In tali casi, la prova può essere raggiunta anche con l'ausilio di massime di esperienza che inducono a ritenere applicabile la legge scientifica con riferimento al caso concreto o che fanno ritenere che non abbiano operato altri fattori causali. Il significato del concetto di probabilità logica può essere ricostruito come segue: alla luce delle risultanze processuali, occorre poter affermare che il caso è inquadrabile nell'arca di funzionamento della legge di copertura o nel campo di validità della massima di esperienza. Naturalmente, per poter funzionare, la prova per esclusione si nutre del contraddittorio tra le parti che investe anche le ipotesi ricostruttive fondate su leggi scientifiche. Dunque, la probabilità logica si fonda sul c.d. tentativo di smentita ed è perfettamente consentanea ad un sistema processuale di tipo accusatorio, fondato sul processo di parti e sulla dialettica. Ne risulta confermata la natura schiettamente qualitativa e metodologica dello standard probatorio in oggetto. Conclusioni. L'indicazione della sentenza Franzese è chiara e probabilmente più semplice di quanto possa apparire a prima vista: occorre calare nel processo l'accertamento del nesso causale senza lasciarsi ingannare dalla peculiarità di un accertamento che spesso richiede l'applicazione di leggi scientifiche. Altro è la validità statistica astratta della legge, altro è l'esistenza in concreto del nesso causale oltre ogni ragionevole dubbio. Il rapporto di causalità è un elemento oggettivo del reato e, come tutti gli altri elementi, non si sottrae al quantum e al quomodo dell'accertamento processuale, che esige l'esistenza di una probabilità logica dotata di alta credibilità razionale. Le Sezioni unite della Cassazione hanno offerto un insegnamento che, partendo dalla tematica del rapporto di causalità, si estende fino ad investire l'intero metodo di conoscenza che opera nel processo penale; esso si applica sia alle leggi scientifiche, sia alle massime di esperienza. La soluzione, pur osteggiata da orientamenti tradizionali che ancora oggi sono presenti nella giurisprudenza, permette di affrontare con strumenti migliori le sfide della nuova scienza. Possiamo affermare che, nello studio del rapporto di causalità, la materia della prova è riuscita ad attribuire tipicità ad un elemento del diritto penale sostanziale. Per tanti anni i penalisti si sono trovati in grave difficoltà e la categoria del rapporto di causalità era, nella teoria generale del reato, la più ambigua, la più oscura. A questa categoria si è riusciti a dare tipicità con la sentenza Franzese proprio attraverso il ricorso a categorie processuali mediante un perfezionamento della teoria della prova contemporaneamente, si è raggiunta la consapevolezza che l'accertamento "processualizza" la scienza quando questa entra nel procedimento penale. La prova scientifica a venti anni dalla sentenza Franzese. L'insegnamento della decisione appena ricordata è stato fondamentale in Italia. Nei venti anni trascorsi da allora, dottrina e giurisprudenza hanno scritto in tema di prova scientifica nuove pagine nella storia del pensiero giuridico moderno. Come si è precisato, a seguito di quella decisione è stato chiaro che nel nostro Paese la prova scientifica si confronta con il sistema accusatorio, con il principio dispositivo, con il «modello della motivazione legale e razionale», con l'al di là del ragionevole dubbio in un unicum nel panorama internazionale dando luogo a risultati di grande interesse. Da un lato, siffatte caratteristiche hanno scolpito il volto della prova scientifica; da un altro lato, la necessità di confrontarsi con quest'ultima ha determinato un'evoluzione in materia di teoria generale della prova che, dunque, va oltre la scienza e si ripercuote anche sulle massime di esperienza e sulla prova rappresentativa. Quello che, con espressione mirabilmente sintetica, si denomina oggi il «metodo avversativo della confutazione» è legato a doppio filo con il principio dell'al di là del ragionevole dubbio. In definitiva, è possibile affermare che, valorizzato per contenere i rischi connessi alla prova scientifica, il ragionevole dubbio ha determinato il formarsi di una vera e propria "scienza delle prove. 86 Capitolo 5 I MEZZI DI PROVA 1. Mezzi di prova tipici ed atipici. Con l'espressione: "mezzo di prova" si vuole indicare quello strumento processuale che permette di acquisire un elemento di prova. Il codice ha previsto sette mezzi di prova tipici, e cioè regolamentati dalla legge nelle loro modalità di assunzione. Essi sono la testimonianza, l'esame delle parti, i confronti, le ricognizioni, gli esperimenti giudiziali, la perizia affiancata dalla consulenza tecnica di parte e i documenti. Le modalità di assunzione sono predisposte in maniera tale da permettere al giudice ed alle parti di valutare nel modo migliore la credibilità della fonte e l'attendibilità dell'elemento di prova che si ricava dall'esperimento del singolo mezzo. I mezzi di prova tipici sono considerati dal codice idonei a permettere l'accertamento dei fatti. Il codice non ha imposto un'assoluta tassatività dei mezzi di prova; al contrario, a determinate condizioni ha consentito che possano essere assunti nuovi mezzi di prova che il progresso scientifico e tecnologico potrà elaborare in futuro. Tuttavia, ha vietato che ciò avvenga in base ad una scelta effettuata dal giudice in solitudine, al contrario, ha imposto al giudice di sentire le parti sulla richiesta di ammissione di una singola prova atipica e di valutarne i requisiti in base all'art. 189. Ovviamente, il codice presuppone che il mezzo di prova richiesto sia atipico, e cioè che non rientri nella regolamentazione di una prova già prevista dalla legge. L'atipicità consiste nell'utilizzare componenti non tipiche all'interno di un mezzo tipico. In base all'art. 189 la prova atipica può essere ammessa se presenta due requisiti. In primo luogo, deve essere «idonea ad assicurare l'accertamento dei fatti»; ciò vuol dire che deve essere in concreto capace di fornire elementi attendibili e di permettere una valutazione sulla credibilità della fonte di prova. In secondo luogo, il mezzo di prova atipico deve assicurare la "libertà morale" della persona-fonte di prova; e cioè, deve lasciare integra la facoltà di determinarsi liberamente rispetto agli stimoli. Per tali motivi si ritiene comunemente che nel processo penale non si possano utilizzare la narcoanalisi, l'ipnosi o la c.d. macchina della verità (lie detector). In terzo luogo, le modalità di assunzione della prova atipica sono prescritte dal giudice dopo aver sentito le parti. Naturalmente l'ordinanza del giudice, che accoglie o respinge la richiesta, è controllabile mediante l'impugnazione della sentenza (art. 586, comma 1). È possibile affermare che il sistema appena delineato è fondato sul principio di legalità della prova, in base al quale quest'ultima costituisce uno strumento di conoscenza disciplinato dalla legge. Nonostante la previsione della "valvola di sicurezza" rappresentata dalla prova atipica, il legislatore prevede che questa sia sottoposta a precisi requisiti stabiliti dall'art. 189 e, dal punto di vista procedurale, ad un contraddittorio tra il giudice e le parti. È corretto, dunque, affermare che la disciplina della prova atipica è conforme al principio di legalità. La dottrina è unanime nel richiamare l'attenzione sulla necessità che la prova atipica non si risolva in uno strumento per aggirare i requisiti delle prove tipiche contrabbandando omissioni o irritualità come semplici profili di atipicità. Come ormai riconosce la giurisprudenza di legittimità, dal sistema è ricavabile il principio di non sostituibilità, che vieta l'aggiramento di quelle forme probatorie che sono poste a garanzia dei diritti dell'imputato o dell'attendibilità dell'accertamento. In casi del genere, si configura un vero e proprio divieto probatorio a pena di inutilizzabilità degli elementi acquisiti. La ricognizione informale in dibattimento. Proprio in quest'ottica, assai discussa è la figura della c.d. ricognizione informale dell'imputato: in dibattimento il pubblico ministro usa chiedere al testimone se è presente nell'aula l’autore del reato. La giurisprudenza ammette pacificamente tale strumento perché ritiene che nel corso di un mezzo di prova, qual è la testimonianza, si possa introdurre un elemento atipico., La dottrina ha ritenuto applicabile il menzionato principio di non sostituibilità tra metodi probatori, secondo cui quella disciplina legale che traccia le caratteristiche essenziali di una prova (es., la ricognizione) non può essere elusa attraverso l'impiego di differenti modalità acquisitive, tipiche o atipiche (es., la testimonianza). Con specifico riguardo alla ricognizione informale, si evidenzia che mentre la testimonianza si svolge mediante l'esame incrociato, finalizzato a "torchiare" il dichiarante per ottenere risposte veritiere, la ricognizione deve aver luogo in un contesto idoneo a eliminare la tensione emotiva del ricognitore. 87 Di tali esigenze si sono fatte carico le leggi 66 del 1996, n. 269 del 1998 e n. 228 del 2003, che hanno introdotto un secondo limite che riguarda i procedimenti per i delitti di violenza sessuale, di prostituzione minorile e di tratta di persone indicati nell'art. 472, comma 3-bis (sul dibattimento a porte chiuse). Le domande aventi ad oggetto la «vita privata» o la «sessualità» della persona offesa dal reato sono di regola vietate; sono consentite se sono «necessarie alla ricostruzione del fatto». Nessun dubbio vi è sulla liceità delle domande che hanno ad oggetto il fatto storico di reato. Inoltre, riteniamo che siano consentite anche le domande che tendono ad accertare la credibilità e l'attendibilità di dichiarazioni che ricostruiscono i fatti; la credibilità e l'attendibilità, infatti, costituiscono "oggetto di prova" ai sensi dell'art. 187, comma 2, in quanto concernono la prova di «fatti dai quali dipende l'applicazione di norme processuali» quali sono gli articoli 194, comma 2, e 546, comma 1, lettera e. c. La testimonianza indiretta. Dei fatti da provare il testimone può avere una conoscenza diretta o indiretta. Ha una conoscenza diretta quando ha percepito personalmente il fatto da provare con uno dei cinque sensi. Ha una conoscenza indiretta (detta anche de relato o de auditi) quando ha appreso il fatto da una rappresentazione che altri ha riferito a voce, per scritto o con altro mezzo (es. con immagini o gesti). Pertanto, si ha una testimonianza indiretta quando il fatto da provare non è stato percepito personalmente dal soggetto che lo sta narrando, ma a costui è stato riferito da un'altra fonte. Si afferma, infatti, che nella testimonianza indiretta il fatto da provare è stato conosciuto dal testimone "per sentito dire". Nel nostro codice la situazione è descritta nel seguente modo: «il testimone si riferisce, per la conoscenza dei fatti, ad altre persone» (art. 195, comma 1). Il teste di riferimento. La persona da cui si è "sentito dire" è comunemente indicata dagli studiosi italiani con l'espressione "teste di riferimento". La prima condizione, posta dall'art. 195, comma 7, richiede che il testimone indiretto indichi la persona o la fonte «da cui ha appreso la notizia dei fatti oggetto dell'esame». Si deve ritenere che la legge imponga, a pena di inutilizzabilità, di individuare fisicamente la persona o la fonte del "sentito dire"; si tratta di una condizione della quale non si può fare a meno in quanto la mancata individuazione della fonte impedisce di valutare la credibilità e l'attendibilità di quanto è stato riferito. Una conferma si trova in un'altra norma del codice che vieta al testimone di deporre su «voci correnti nel pubblico» (art. 194, comma 3). Quando non è individuato il teste diretto o, comunque, la fonte (ad esempio, il documento) da cui si è appreso il fatto riferito, la testimonianza non è utilizzabile. Il concetto di "individuazione" è distinto da quello di "identificazione". Ai fini dell'individuazione è sufficiente, ad esempio, aver indicato la persona che abitualmente frequenta un determinato luogo, ancorché non se ne conoscano le generalità. Vi è una seconda condizione alla quale il nostro codice subordina l'utilizzabilità della testimonianza indiretta. La condizione opera soltanto quando una delle parti chiede che venga sentita nel processo la persona che ha avuto conoscenza diretta del fatto; in tal caso il giudice è obbligato a disporne la citazione (art. 195, comma 1). Se il giudice in concreto omette la citazione, la testimonianza indiretta non è utilizzabile. Se, viceversa, nessuna delle parti ha chiesto la citazione, la testimonianza indiretta è utilizzabile, anche senza che si faccia luogo all'esame del teste diretto. Eccezione alla seconda condizione. In via eccezionale la testimonianza indiretta è utilizzabile quando l'esame del testimone diretto «risulti impossibile per morte, infermità o irreperibilità» (art. 195, comma 3). In particolare, l'irreperibilità del testimone è una situazione che presuppone che lo stesso sia già stato non soltanto individuato (ad esempio, l'avventore di un bar che si comporta in un modo caratteristico), ma anche identificato con nome, cognome o eventuale soprannome. L'irreperibilità presuppone che sia stato impossibile notificare la citazione a comparire ai sensi dell'art. 167 al testimone già identificato (dai privati o dalla polizia). Ove costui fosse stato citato, ma non fosse comparso in aula, deve disporsi l'accompagnamento coattivo. 90 Valutazione della testimonianza indiretta. Nei casi sopra menzionati di impossibilità di rendere l'esame (art. 195, comma 3), se anche la testimonianza indiretta è utilizzabile, essa tuttavia dovrà essere valutata con particolare cura, ad esempio, mediante riscontri con altri elementi di prova. Infatti, la mancata deposizione di colui, che aveva conoscenza diretta del fatto, rende più difficile il controllo sulla attendibilità di quanto si è appreso per sentito dire. Inoltre, il codice permette al giudice di disporre d'ufficio la citazione del testimone diretto se essa non è stata richiesta da alcuna delle parti (art. 195, comma 2). Il giudice non è obbligato a citare comunque d'ufficio il testimone diretto; e cioè, se anche questi non è citato, il "sentito dire" può essere valutato. Una volta che siano state osservate le condizioni poste dal codice, il giudice può utilizzare ai fini della decisione sia la deposizione indiretta, sia, ove assunta, la deposizione diretta. In concreto, il giudice deve valutare la credibilità e l'attendibilità di ciascuna delle due dichiarazioni in base agli esiti dell'esame incrociato del singolo dichiarante e del riscontro operabile con gli altri risultati probatori già acquisiti. Merita ricordare che è vietato assumere deposizioni su fatti appresi da persone vincolate da segreto professionale o d'ufficio, salvo che queste abbiano comunque divulgato tali fatti (art. 195, comma 6). Ad esempio, se un avvocato confida ad un suo collaboratore una notizia, che ha appreso riservatamente dal cliente, il collaboratore non deve essere esaminato su questo punto. Il divieto di testimonianza indiretta sulle dichiarazioni dell'imputato. Il codice pone un divieto di testimonianza sulle dichiarazioni «comunque rese» dall'imputato (o dall'indagato) in un atto del procedimento (art. 62). La finalità della disposizione è la seguente: la prova delle dichiarazioni rese dall'imputato (o dall'indagato) deve ricavarsi unicamente dal verbale che deve essere redatto ed utilizzato «con le forme ed entro i limiti previsti per le varie fasi del procedimento». Il divieto di testimonianza indiretta appare dunque finalizzato ad evitare che siano introdotti nel processo in modo non corretto elementi che devono risultare dalla documentazione formale dell'atto; infatti, il verbale deve attestare che è stato dato l'avviso della facoltà di non rispondere. Pertanto, la disciplina in oggetto è riconducibile alla tutela del diritto al silenzio che, a sua volta, costituisce manifestazione del diritto di difesa. Ambito del divieto. L'area operativa del divieto è ricavabile da quanto è precisato nell'art. 62. In primo luogo, il divieto ha natura oggettiva, e cioè si riferisce a chiunque riceva le dichiarazioni, sia egli un testimone qualsiasi o un appartenente alla polizia giudiziaria; anche se in pratica è quest'ultima ad avere più occasioni per assistere ad "atti" del procedimento penale durante i quali sono rese dichiarazioni dall'imputato. In secondo luogo, il divieto ha per oggetto "dichiarazioni" in senso stretto, e cioè espressioni di contenuto narrativo. Risultano quindi riferibili per sentito dire quelle dichiarazioni che costituiscono espressioni di volontà (ad esempio, il consenso ad un accertamento diagnostico) o meri comportamenti (ad esempio, durante una perquisizione qualcuno esclama: "scappa, la polizia!"). In terzo luogo, le dichiarazioni, per sentito dire, che sono vietate, sono quelle tese «nel corso del procedimento» (art. 62); l'espressione deve essere intesa nel senso di "in occasione" di un atto tipico e non "durante la pendenza" del procedimento. Pertanto, quel testimone, che ha assistito ad un colloquio tra un indagato ed un'altra persona o che ha ricevuto una dichiarazione fuori di un atto del procedimento, può legittimamente riferire quanto ha sentito dire. Infine, il divieto riguarda le dichiarazioni dell'imputato che abbiano una valenza di "prove", e non quelle che siano rilevanti come "fatti storici di reato" che devono necessariamente essere accertati mediante un processo penale. In base all'art. 62, comma 2, il divieto di testimonianza indiretta «si estende alle dichiarazioni, comunque inutilizzabili, rese dall'imputato nel corso di programmi terapeutici diretti a ridurre il rischio che questi commetta delitti sessuali a danno di minori». La ratio della disposizione consiste nel garantire l'efficacia del trattamento di recupero, assicurando all'imputato che le sue dichiarazioni non potranno in alcun modo avere ingresso in un procedimento a suo carico. La testimonianza indiretta della polizia giudiziaria: l'ambito del divieto. L'art. 195 comma 4 stabilisce che «gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria non possono deporre sul contenuto» né delle sommarie informazioni assunte da testimoni o imputati connessi (art. 351), né delle denunce, querele o istanze che hanno ricevuto oralmente, né delle «sommarie informazioni rese» e delle «dichiarazioni spontanee ricevute» dall'indagato (art. 357, comma 2, lett. a, b). Il divieto posto dal legislatore ha la sua giustificazione nel principio del contraddittorio, secondo cui le dichiarazioni rese durante le indagini non sono di regola utilizzabili (artt. 514 e 526). Infatti, se la polizia potesse riferire al giudice le dichiarazioni ricevute durante le indagini, le dichiarazioni medesime diventerebbero utilizzabili per la decisione e sarebbe aggirata la regola 91 della inutilizzabilità fisiologica, che tutela il contraddittorio nella formazione della prova. L'art. 195, comma 4 stabilisce che, fuori delle ipotesi di espresso divieto, la testimonianza indiretta della polizia è ammessa; e cioè, si applicano le comuni norme sulla testimonianza indiretta (es. la necessità che la fonte sia individuata). Il criterio distintivo tra i casi, nei quali la testimonianza indiretta della polizia è vietata, e quelli, nei quali è ammessa, resta legato al formale svolgimento della specifica funzione di assumere sommarie informazioni da possibili testimoni o di ricevere dichiarazioni dall'indagato (art. 357 lett. a e b). Pertanto, "altri casi" ammessi per la testimonianza indiretta sono quelli nei quali la polizia è chiamata a riferire su dichiarazioni ricevute fuori dall'esercizio delle funzioni sopra menzionare; ad es. quando, nel corso di un appostamento o un pedinamento, sente una persona parlare con un amico. In tali ipotesi, il sentito dire è ammesso ma si applicano le condizioni poste dai primi tre commi dell'art. 195. Vi sono anche i casi nei quali non vi è "sentito dire" perché la polizia riferisce dichiarazioni prive di contenuto narrativo. Si pensi a quando la polizia percepisce un ordine, una minaccia, un avvertimento, un'offesa, una richiesta, un saluto. In tali casi, a ben vedere, solo formalmente siamo dinanzi a "dichiarazioni" perché non c'è un contenuto narrativo: la deposizione della polizia ha piuttosto per oggetto fatti. Lo stesso avviene quando la polizia è chiamata a riferire dichiarazioni che costituiscono corpo del reato in quel determinato processo (es. di calunnia o favoreggiamento). Le dichiarazioni rese alla polizia e non verbalizzate. La formulazione dell'art. 195 comma 4 ha dato luogo ad un ulteriore delicatissimo problema interpretativo. Poiché la norma vieta determinate "modalità" di acquisizione delle dichiarazioni, e cioè vieta la deposizione per sentito dire di quelle che risultano dal verbale redatto ai sensi dell'art. 357, comma 2, lett a, b, ci si è chiesti se fosse consentita la deposizione indiretta sulle informazioni non verbalizzate. La Corte costituzionale con una sentenza interpretativa di accoglimento (a. 305 del 2008) ha affermato che, quando esistevano in concreto le condizioni per verbalizzare (e non si è provveduto a farlo), la testimonianza indiretta è vietata. Di conseguenza, la Consulta ha implicitamente ammesso che la polizia possa deporre sulle dichiarazioni raccolte e non verbalizzate quando era fisicamente impossibile adempiere al relativo obbligo (ad es, mentre è in corso la commissione di un reato, un testimone rende dichiarazioni alla polizia intenta ad inseguire l'autore del reato medesimo). d. L'incompatibilità a testimoniare. Il codice pone, in via generale, la regola secondo cui ogni persona ha la capacità di testimoniare (art. 196, comma 1); prevede poi una serie di eccezioni, che consistono in situazioni di incompatibilità relative ad un determinato procedimento (art. 197). La regola, che riconosce a qualsiasi persona la capacità di testimoniare, permette che si assumano come testimoni sia l'infermo di mente, sia il minorenne (e quindi anche colui che ha un'età inferiore ad anni quattordici). In questi casi il giudice dovrà valutare con particolare attenzione la credibilità del dichiarante e l'attendibilità della dichiarazione; egli può verificare l’idoneità fisica o mentale del soggetto chiamato a deporre ordinando gli «accertamenti opportuni con i mezzi consentiti dalla legge» (art. 196, comma 2). Art. 197, lettera a. Non possono essere assunti come testimoni (bensì sono sentiti con l'esame ai sensi dell'art. 210) gli imputati concorrenti nel medesimo reato (o situazioni assimilate in base all'art. 12 lett. a: cooperazione colposa o condotte indipendenti che banno determinato un unico evento). L'incompatibilità opera a prescindere dal fatto che i rispettivi procedimenti siano riuniti o separati e cessa per il singolo imputato con l'irrevocabilità della sentenza che lo riguarda. Infatti, i soggetti menzionati possono essere chiamati a rendere testimonianza quando «nei loro confronti sia stata pronunciata sentenza irrevocabile» di proscioglimento, di condanna o di patteggiamento. In tutte queste ipotesi il legislatore reputa che l'imputato non corra rischi, perché non può essere processato una seconda volta per il medesimo fatto storico di reato (art. 649). Art. 197, lettera b. Di regola non possono essere assunti come testimoni, bensì sono sentiti con l'esame ai sensi dell'art. 210: 1) gli imputati in procedimenti legati da una connessione debole, e cioè nel caso in cui i reati per cui si procede «sono stati commessi per eseguire o per occultare gli altri» (c.d. connessione teleologica; art. 12, lett. c); 2) gli imputati in procedimenti collegati ai sensi dell'art. 371, comma 2, lettera b. Si ha collegamento, ad esempio, quando la prova di un reato o di una sua circostanza influisce sulla prova di un altro reato o di un'altra circostanza (collegamento probatorio). Alla regola della incompatibilità, prevista dalla lettera b, sono state poste due eccezioni. In primo luogo, i soggetti menzionati possono deporre come testimoni quando nei loro confronti è stata emessa sentenza 92 La perdita della facoltà di astenersi dal deporre. Occorre segnalare che i prossimi congiunti (ed i soggetti equiparati) non possono astenersi e, quindi, sono obbligati a deporre, quando hanno presentato denuncia, querela o istanza, oppure essi, o un loro prossimo congiunto, sono offesi dal reato (art. 199, comma 1). g. La violazione degli obblighi del testimone. Prima che inizi l'esame incrociato il giudice avverte il testimone dell'obbligo di dire la verità e lo informa della conseguente responsabilità penale per false dichiarazioni o reticenza. Il testimone legge la formula con la quale si impegna «a dire tutta la verità e a non nascondere nulla di quanto è a (sua) conoscenza» (art. 497, comma 2); dopodiché è invitato a fornire le sue generalità. Ha quindi inizio l'esame incrociato, nel quale il testimone è tenuto a rispondere alle domande poste, di regola, dalle parti ed, eccezionalmente, dal presidente (art.506, comma 2). Il codice contiene una puntuale regolamentazione del procedimento che deve essere seguito quando appare che il testimone violi l'obbligo di rispondere secondo verità: soltanto il giudice può rivolgergli l'ammonimento a rispettare l'obbligo di dire il vero (art. 207). Le parti non possono ammonire il testimone, mentre possono sollecitare il giudice ad esercitare tale potere. In primo luogo, può accadere che il testimone rifiuti di deporre fuori dei casi espressamente previsti dalla legge. In tal caso il giudice provvede ad avvertirlo sull'obbligo di deporre secondo verità. Se il testimone persiste nel rifiuto, il giudice «dispone l'immediata trasmissione degli atti al pubblico ministero perché proceda a norma di legge (art. 207, comma 1). Quest'ultimo, ricevuta la copia del verbale di udienza, darà inizio alle indagini preliminari per accertare se sussiste la falsa testimonianza nella forma della reticenza (art. 372 c.p.); inoltre, potrà chiedere al giudice una misura cautelare, ove ne sussistano i presupposti. In secondo luogo, può accadere che il testimone renda dichiarazioni contraddittorie, incomplete o contrastanti con le prove già acquisite. Il giudice, su richiesta di parte o d'ufficio, gli rinnova l'avvertimento dell'obbligo di dire il vero. Ove il pubblico ministero non prenda un'immediata iniziativa, e cioè non chieda subito copia del verbale di udienza, il giudice potrà attivarsi soltanto al termine del dibattimento. Ai sensi dell'art. 207, comma 2, «con la decisione che definisce la fase processuale in cui il testimone ha prestato il suo ufficio», il giudice, se ravvisa indizi del reato di falsa testimonianza, «ne informa il pubblico ministero trasmettendogli i relativi atti». h. Il segreto professionale Nel processo penale soltanto alcuni professionisti qualificati hanno la facoltà, e insieme il dovere, di non rispondere a domande che comportino la violazione del loro segreto professionale. Si tratta dei medici, degli avvocati, dei consulenti tecnici, dei notai ecc., elencati nell'art. 200 c.p.p. Viceversa, i professionisti comuni devono rispondere nel processo penale anche se la loro risposta comporta la violazione del segreto professionale (traduttore, nell'esercizio della sua attività può venire a conoscere dal cliente fatti di rilievo penale). La materia in oggetto, la disciplina processuale deve essere attentamente coordinata con quella tracciata dal codice penale. Quest'ultimo, all'art. 622, stabilisce un divieto di rivelazione in capo a chiunque, soggetto privato o pubblico, abbia avuto notizia di un fatto segreto per ragione del proprio «stato o ufficio, o della propria professione o arte»; la rivelazione del segreto è vietata quando può nuocere alla persona che si è rivolta al professionista. Possiamo analizzare partitamente le ipotesi alle quali fa riferimento l'art. 622. c.p. Il segreto conosciuto per ragione del proprio stato è quello del tutore di una persona incapace che venga a conoscenza di fatti riservati che concernono l'assistito. Il segreto conosciuto per ragione del proprio ufficio è quello del dipendente di un ufficio pubblico o privato che nella sua attività viene a conoscere dal cittadino fatti riservati. Il segreto conosciuto per ragione della propria professione è quello di un traduttore che viene in contatto con documenti su fatti riservati. Il segreto conosciuto per ragione della propria arte è quello di qualsiasi artigiano che può venire a conoscenza di fatti che il cliente vuole mantenere riservati. I soggetti menzionati sono comunque tenuti a non rivelare il fatto segreto ad altre persone a pena di essere perseguiti per rivelazione di segreto professionale. I professionisti qualificati. Se il professionista qualificato depone comunque su un segreto professionale, con pregiudizio per il proprio cliente, egli, a differenza del professionista comune, non può invocare la "giusta causa" perché aveva il potere dovere di non rispondere e, quindi, è incriminabile per violazione del segreto professionale. In questa disciplina il legislatore ha effettuato un bilanciamento tra esigenze in conflitto. Da un lato, si colloca l'interesse della giustizia ad accertare i reati, che spinge verso un'applicazione 95 generalizzata dell'obbligo di rispondere secondo verità. Da un altro lato, vi sono interessi individuali tutelati dal segreto professionale "qualificato", volto ad escludere dall'obbligo di rispondere quelle persone che, per la loro professione, sono depositarie di informazioni particolarmente delicate. Occorre naturalmente che quel determinato fatto, sul quale il testimone deve deporre, sia stato appreso dai professionisti qualificati «per ragione del proprio ministero, ufficio o professione» (art. 200). Pertanto, se uno di costoro ha conoscenza di un fatto in qualità di comune cittadino, e cioè indipendentemente dall'aver ricevuto un incarico professionale, egli resta vincolato all'obbligo di deporre secondo verità. I professionisti che hanno l'obbligo giuridico di riferire il fatto all'autorità giudiziaria. L'obbligo giuridico di riferire il fatto all'autorità giudiziaria vale anche per il medico professionista privato che ha prestato la propria assistenza alla persona offesa di un delitto procedibile d'ufficio (art. 365 c.p.). Gli accertamenti necessari compiuti dal giudice. Quando il professionista qualificato eccepisce il segreto, il giudice deve provvedere agli accertamenti necessari. Se egli ritiene fondata l'eccezione, rispetta la facoltà di tacere; se viceversa, ritiene infondata l'eccezione, ordina al testimone di deporre (art. 207). Le categorie di professionisti qualificati. Analizziamo partitamente le categorie di professionisti qualificati elencati dall'art. 200. a) Per primi sono citati i «ministri di confessioni religiose, i cui statuti non contrastino con l'ordinamento giuridico italiano» (art. 200, comma 1, lert.4). b) Possono opporre il segreto professionale, quando sono sentiti in qualità di testimoni, gli «avvocati, gli investigatori privati autorizzati, i consulenti tecnici e i notai». c) Sono parimenti vincolati al segreto professionale «i medici e i chirurghi, i farmacisti, le ostetriche e ogni altro esercente una professione sanitaria». d) Infine, possono opporre il segreto professionale, quando sono chiamati a testimoniare, «gli esercenti altri uffici o professioni ai quali la legge riconosce la facoltà di astenersi dal deporre determinata dal segreto professionale». Occorre evidenziare che soltanto la legge può estendete il segreto professionale; ciò è avvenuto in relazione ai consulenti del lavoro, ai dipendenti dei servizi pubblici (o privati convenzionati) che si occupano del recupero dei tossicodipendenti, e dottori commercialisti, ai ragionieri e periti commerciali; agli assistenti sociali iscritti all'albo professionale. i. Il segreto d'ufficio e di Stato; gli informatori di polizia. Vi sono testimoni che, in virtù di una loro qualifica pubblica, hanno l'obbligo di astenersi dal deporre su fatti conosciuti in ragione del loro ufficio. Il segreto d'ufficio. Il buon funzionamento della pubblica amministrazione può imporre che sia mantenuto il segreto su alcune specie di notizie che concernono lo svolgimento del servizio pubblico. In tali ipotesi siamo in presenza del segreto d'ufficio, la cui violazione integra il delitto previsto dall'art. 326 cp. Il segreto d'ufficio vincola il pubblico ufficiale e l'incaricato di un pubblico servizio. Ma il buon funzionamento della pubblica amministrazione non può tollerare che siano tenuti nascosti i reati. Ed infatti, ai sensi dell'art. 201 c.p.p. l'obbligo di astenersi dal rispondere viene meno quando il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio hanno l'obbligo di riferire all'autorità la notizia di reato; e cioè, in sostanza, quando hanno l'obbligo di denuncia. Ciò vuol dire che le persone menzionate non possono mantenere segreti quei fatti che concernano reati procedibili d'ufficio. Se il testimone (pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio) oppone il segreto d'ufficio, il giudice valuta se tale eccezione è fondata; ove ritenga che non lo sia, ordina al testimone di deporre (art. 201, comma 2). Il segreto di Stato. Una particolare specie di segreto d'ufficio è il segreto di Stato, che ai sensi dell'art. 39 della legge 124/2007 copre «gli atti, i documenti, le notizie, le attività e ogni altra cosa la cui diffusione sia idonea a recare danno all'integrità della Repubblica, anche in relazione ad accordi internazionali, alla difesa delle istituzioni poste dalla Costituzione a suo fondamento, all'indipendenza dello Stato rispetto agli altri Stati e alle relazioni con essi, alla preparazione e alla difesa militare dello Stato». Quando la persona, che ha una delle predette qualifiche e che è sentita in qualità di testimone o imputato o altro tipo di dichiarante, oppone l'esistenza di un segreto di Stato, l'autorità giudiziaria procedente (e cioè il pubblico ministero o il giudice) ha due obblighi: deve procedere al cd. interpello informando il presidente del consiglio dei ministri e chiedendo l'eventuale conferma del segreto; inoltre, l'autorità giudiziaria deve sospendere ogni iniziativa volta ad acquisire e ad utilizzare la notizia oggetto del segreto (art. 202, comma 2). 96 Il segreto di polizia sugli informatori. Un'altra specie di segreto è quella che consente di non rivelare i nomi degli informatori della polizia giudiziaria e dei servizi di sicurezza. Legittimati ad opporre tale segreto sono sia gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria, sia il personale dipendente dai servizi per le informazioni e la sicurezza militare o democratica (art. 203). Costoro possono mantenere segreti i nomi degli informatori; ma tutto quello che affermano di aver "sentito dire" da loro non può essere acquisito né utilizzato, se non quando l'informatore sia stato esaminato. 3. L'esame delle parti. È denominato "esame delle parti" il mezzo di prova mediante il quale le parti privare possono contribuire all'accertamento dei fatti nel processo penale. Alcune norme del codice forniscono una regolamentazione generale dell'esame; altre norme riguardano determinati soggetti e prevedono per essi regimi giuridici diversi. Possono definirsi "generali" le seguenti regole: a) il dichiarante non ha l'obbligo penalmente sanzionato di dire la verità né di essere completo nel narrare i fatti, inoltre egli ha la facoltà di non rispondere alle domande (art. 209, comma 2); b) le dichiarazioni sono rese secondo le norme sull'esame incrociato; pertanto le domande sono formulate di regola dal pubblico ministero e dai difensori delle parti private nell'ordine indicato nell'art. 503, comma 1; c) le domande devono riguardare i fatti oggetto di prova. b. L'esame dell'imputato. Il primo regime giuridico riguarda l'esame dell'imputato nel proprio procedimento (art. 208). Questo strumento serve ad acquisire il contributo probatorio dell'imputato sui fatti oggetto di prova (art. 187). L'esame ha luogo soltanto su richiesta o consenso dell'interessato, e cioè soltanto se l'imputato lo chiede, o se vi consente quando è chiesto da una parte (ad esempio, dal pubblico ministero, dalla parte civile o da un altro imputato). Il "mancato consenso" non può essere valutato dal giudice in senso negativo per l'imputato, perché è una scelta che attiene strettamente alla strategia difensiva. Tuttavia, il mancato consenso sortisce un qualche effetto; infatti, quando la difesa afferma l'esistenza di un fatto, il rifiuto di sottoporsi all'esame, opposto da quell'imputato, che potrebbe confermarne l'esistenza, non permette a questi di adempiere all'onere della prova, e cioè all'onere di convincere il giudice che quel fatto è avvenato. La possibilità di mentire. L'imputato che ha chiesto l'esame (o vi ha consentito) non è vincolato all'obbligo di rispondere secondo verità; infatti, egli non è testimone in quanto è incompatibile con tale qualifica. Occorre ricordare che l'imputato può dire il falso senza incorrere in conseguenze penali. Infatti, da un lato, non può commettere il delitto di falsa testimonianza (art. 372 c.p.), proprio perché non riveste la qualifica di testimone. La falsa testimonianza, infatti, è un reato "proprio", e cioè può essere commesso soltanto da chi depone in tale veste. Da un altro lato, l'imputato, qualora con false dichiarazioni commetta altri reati contro l'amministrazione della giustizia, beneficia della causa di non punibilità stabilita dall'art. 384, comma 1, c.p. in favore di chi agisce costretto dalla necessità di salvarsi da un grave e inevitabile pericolo nella libertà o nell'onore. In proposito, si può fare l'esempio dell'imputato che accusa sé stesso di un reato lieve al fine di evitare la condanna per un reato più grave (autocalunnia: art. 369 c.p.). Tuttavia, l'art. 384, comma 1, c.p. è inapplicabile in relazione ai delitti di calunnia (art. 368 c.p.) e di simulazione di reato (art. 367 c.p.). Pertanto, l'imputato è punibile se afferma falsamente essere avvenuto un reato che nessuno ha commesso (simulazione di reato) o se incolpa di un reato un'altra persona, sapendola innocente(calunnia). L'aver detto il falso, se costituisce fatto non punibile per l’imputato; tuttavia, può provocare conseguenze almeno dal punto di vista processuale. Infatti, se durante l'esame incrociato (o successivamente) risulta che l'imputato ha mentito, da quel momento egli può essere ritenuto non credibile, le altre affermazioni che abbia reso difficilmente potranno convincere il giudice, a meno che non siano supportate da altre prove. Ecco perché generalmente il difensore consiglia all'imputato di avvalersi del diritto al silenzio, piuttosto che affermare il falso. Il diritto al silenzio. Veniamo quindi a trattare del "diritto a restare silenzioso". Nel corso dell'esame l'imputato può rifiutarsi di rispondere ad una qualsiasi domanda (e cioè, su di un fatto proprio o altrui); del suo silenzio deve essere «fatta menzione nel verbale», come prescrive l'art. 209, comma 2. Infine, l'imputato ha il privilegio di poter affermare di aver "sentito dire" qualcosa, senza essere vincolato alle condizioni di utilizzabilità poste dall'art. 195; infatti egli può non indicare la fonte (persona o documento) da cui ha appreso l'esistenza di un fatto. La sua dichiarazione per sentito dire può essere utilizzata (a differenza di quanto avviene per il testimone e le altre parti private) perché, «data la peculiare posizione di questo soggetto, è importante a più effetti acquisire tutto quanto sia venuto a sua conoscenza anche per via indiretta». 97
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